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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2016

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aggiornamento al 26.04.2016

aggiornamento al 19.04.2016 (ore 22,45)

aggiornamento al 13.04.2016

aggiornamento al 04.04.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 26.04.2016

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IN EVIDENZA

APPALTI: Nuovo codice dei contratti pubblici - Comunicato congiunto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio e del Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffele Cantone.
A seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante il nuovo Codice dei contratti pubblici, pubblicato nella G.U. Serie Generale n. 91 del 19.04.2016 - Supplemento Ordinario n. 10, si rende opportuno precisare quanto segue:
   1. Ricadono nel previgente assetto normativo, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, le procedure di scelta del contraente ed i contratti per i quali i relativi bandi o avvisi siano stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (GURI) ovvero in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (GUCE) ovvero nell’albo pretorio del Comune ove si svolgono i lavori, entro la data del 18.04.2016.
In caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, restano egualmente disciplinate dal decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, le procedure di scelta del contraente in relazione alle quali, alla medesima data del 18.04.2016, siano stati inviati gli inviti a presentare offerta.
   2. La nuova disciplina in materia di contratti pubblici, dettata dal decreto legislativo 18.04.2016 n. 50, come previsto dall’art. 216 dello stesso, si applica alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi e gli avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati a decorrere dal 19.04.2016, data di entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici.
Tale disciplina trova altresì applicazione, nei casi di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure di selezione in relazione alle quali i relativi inviti a presentare offerta siano inviati a decorrere dalla data del 19.04.2016.
   3. Gli atti di gara già adottati dalle amministrazioni, non rientranti nelle ipotesi indicate al punto 1., dovranno essere riformulati in conformità al nuovo assetto normativo recato dal decreto legislativo n. 50 del 2016 (comunicato 22.04.2016 - link a www.anticorruzione.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: P.a. trasparente, obblighi retroattivi.
È retroattiva la disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni introdotta dal decreto legislativo n. 33 del 2013.

Lo ha affermato il TAR Campania-Napoli -Sez. VI- in una recente sentenza di aprile (sentenza 13.04.2016 n. 1793).
I giudici partenopei hanno sottolineato che il cosiddetto accesso civico riguarda anche gli atti anteriori all'entrata in vigore del decreto, in quanto altrimenti, l'effettiva operatività delle sue disposizioni risulterebbe del tutto spuntata.
Il collegio giudicante ha quindi chiarito che il principio giuridico da osservare è che gli atti che «dispieghino ancora i propri effetti» siano da pubblicare secondo le modalità e la durata previste dalle prescrizioni dell'art. 8, comma 3, del predetto decreto legislativo. In pratica si parla di cinque anni, e comunque fino a che gli atti pubblicati producano i loro effetti. Il Tar precisa inoltre che gli obblighi di pubblicazione ivi previsti non richiedono alcun decreto applicativo.
I giudici amministrativi infine hanno accostato la tematica degli obblighi della p.a. trasparente con il profilo dell'accesso tradizionale di cui alla legge 241/1990, che «continua ad operare con i propri diversi presupposti e disciplina, ma la circostanza che un soggetto possa essere titolare di una posizione differenziata tale da essere tutelata con tale tipologia di accesso, non impedisce certo al medesimo soggetto di avvalersi dell'accesso civico, qualora ne ricorrano i presupposti» (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIUna richiesta (di accesso agli atti) fatta in condizioni di ignoranza non può qualificarsi come “impossibile” laddove essa sia comunque ancorata a dati normativi certi ed inequivocabili che a monte contemplano la presenza del documento richiesto.
Non può dunque sostenersi, in quanto inesigibile a carico dell’istante, un onere di specificazione degli estremi di protocollo e data degli atti di cui aveva richiesto l'ostensione.

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Come noto, la domanda di accesso deve avere un contenuto determinato o quanto meno determinabile; in presenza di una richiesta, come nella specie, sufficientemente circostanziata e temporalmente circoscritta spetta all’amministrazione destinataria dell'accesso l’onere di indicare, sotto la propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti, che proprio in quanto tali essa non è in grado di esibire.
Invero, nell'ipotesi in cui, in sede di ricorso avverso il diniego di accesso ai documenti amministrativi, il ricorrente fornisca argomenti e indizi circa l'esistenza degli atti a cui chiede di accedere e l'Amministrazione non fornisca la prova a sostegno del proprio assunto dell'inesistenza dei documenti richiesti, correttamente il giudice amministrativo ordina l'accesso, residuando quindi un problema di esecuzione del giudicato, se del caso mediante commissario ad acta, relativamente alla ricerca materiale dei documenti, fermo restando che il giudicato che ordina l'accesso sarà evidentemente eseguibile nei limiti in cui i documenti realmente esistono. In tal modo si bilanciano le limitate possibilità di conoscenza dei fatti da parte del privato con i poteri istruttori concessi al giudice amministrativo.
In altre parole, il documento obiettivamente esistente agli atti dell'amministrazione va comunque esibito, pacificamente desumendosi dall'istituto dell’accesso agli atti che essi sono ostensibili solo laddove esistenti non essendo ovviamente predicabile l'esibizione di atti che non risultano formati.
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Quanto all’istanza di accesso c.d. “civico” va premesso, in linea generale, che, con il d.lgs. 33/2013, il legislatore italiano ha modificato la prospettiva del diritto di accesso. All’accesso procedimentale classico di cui gli artt. 22 e ss l. 241/1990, necessariamente collegato alle specifiche esigenze del richiedente (need to know), si è aggiunto il cd. accesso civico che garantisce all’intera collettività il diritto di conoscere gli atti adottati dalla pubblica amministrazione in funzione di controllo generalizzato da parte dell’opinione pubblica e di piena realizzazione del principio trasparenza (right to know).
In questa prospettiva vanno lette le affermazioni di principio riportate ai primi articoli del decreto legislativo 33/2013 secondo cui la trasparenza:
- è intesa come
«accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, co. 1);
- «concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione»;
- è «condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino» (art. 1, co. 2).
Tutti gli obblighi contemplati dal decreto vengono intesi quali «livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione, a norma dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione e costituiscono altresì esercizio della funzione di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale, di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione» (art. 1, co. 3).
Quanto precede dimostra la necessità di interpretare le norme del decreto in modo funzionale a che venga effettivamente perseguita la finalità di rendere pienamente trasparente l’azione dei pubblici poteri, affinché vi sia piena attuazione del principio democratico e dei principi costituzionali.
Circa l’applicabilità delle disposizioni del decreto, entrato in vigore dal 20.04.2013, agli atti anteriori all’entrata in vigore del decreto, occorre osservare che, se il decreto fosse applicabile ai soli atti formatisi dopo la sua entrata in vigore, l’effettiva operatività delle sue disposizioni risulterebbe procrastinata anche in misura assai rilevante e ne resterebbe fortemente incisa, tra le altre, proprio la materia della pianificazione del territorio oggetto del presente giudizio.
Il principio da affermare è, all’opposto, che gli atti che dispieghino ancora i propri effetti siano da pubblicare, nelle modalità previste, secondo quanto disposto dall’art. 8, co. 3, del d.lgs. 33/2013 che, appunto, prevede l’obbligo di pubblicare gli atti contenenti i dati previsti dal decreto medesimo «per un periodo di 5 anni, decorrenti dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello da cui decorre l'obbligo di pubblicazione, e comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti».
In tal senso, depone anche la
circolare 19.07.2013 n. 2/2013 del dipartimento della funzione pubblica (al par. 1.3, primo capoverso), con cui si è inteso fornire alle amministrazioni le prime indicazioni operative circa gli obblighi di pubblicazioni previsti dal decreto; essa chiarisce, infatti, che essi divengono efficaci alla data di entrata in vigore del decreto senza che sia necessario attendere alcun decreto applicativo, così ribadendo, ulteriormente, la necessità che la disciplina divenga immediatamente effettiva.
A sua volta, l’art. 8, comma 3, prevede che i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblicati per un periodo di 5 anni, decorrenti dall’1 gennaio successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione e che alla scadenza del termine quinquennale i documenti, le informazioni e i dati sono comunque conservati e resi disponibili all’interno del sito archivio e segnalate nell’ambito della sezione amministrazione trasparente.
In ogni caso, l’accesso tradizionale di cui alla L. 241/1990 continua ad operare con i propri diversi presupposti e disciplina, ma la circostanza che un soggetto possa essere titolare di una posizione differenziata tale da essere tutelata con tale tipologia di accesso, non impedisce certo al medesimo soggetto di avvalersi dell’accesso civico, qualora ne ricorrano i presupposti. Per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione di cui al D.lgs. 33/2013, quindi, potranno operare cumulativamente tanto il diritto di accesso ‘classico’ ex L. 241/1990 quanto il diritto di accesso civico ex D.lgs. 33/2013, mentre, per gli atti non rientranti in tali obblighi di pubblicazione, opererà, evidentemente, il solo diritto di accesso procedimentale ‘classico’ di cui alla L. 241/1990.
A ragionare diversamente, si giungerebbe al risultato che il cittadino privo di interesse specifico potrebbe far ricorso all’accesso civico di cui al D.lgs. 33/2013, mentre il soggetto portatore di un interesse specifico dovrebbe dimostrare i più stringenti presupposti sottesi all’interesse procedimentale di tipo tradizionale (art. 22 L. 241/1990). Gli atti contemplati dal d.lgs. 33/2013, quindi, ben possono essere richiesti facendo un sintetico riferimento alle norme che ne prevedono la pubblicazione.

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... per l'annullamento ex art. 116 c.p.a. del provvedimento di diniego formatosi a seguito del silenzio serbato sull'istanza volta a richiedere l'ostensione dei documenti di seguito precisati;
nonché:
- per l’accertamento ex art. 117 c.p.a. dell’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione comunale sull’istanza trasmessa a mezzo pec in data 01.09.2015 per l’indennizzo e/o il risarcimento dell’importo quantificato in € 21.505,90 per il pregiudizio sofferto in ragione dell’ingiustificato peso protrattosi per anni in assenza di esecuzione del p.i.p.;
- per l’accertamento della fondatezza, ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.p.a., delle pretese azionate e dell’ingiustificato peso subito dal diritto di proprietà in assenza di una pronta e tempestiva esecuzione del piano;
...
3. Nel merito non può porsi in dubbio la sussistenza in capo alla ricorrente di una situazione soggettiva di interesse qualificato alla conoscenza degli atti oggetto di ostensione, quale proprietaria incisa dall’attività di pianificazione urbanistica messa in atto dal Comune ed interessata in tale veste alla conoscenza dei provvedimenti eventualmente posti in essere dall’amministrazione comunale onde dare attuazione alla destinazione impressa alle aree di sua pertinenza.
Va ritenuta l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione intimata sulla richiesta di ostensione documentale in argomento.
Innanzitutto, la domanda inoltrata da parte ricorrente risulta sufficientemente circostanziata laddove è rivolta ad ottenere il rilascio di copia degli atti relativi allo stato di attuazione del pip con l’indicazione precisa delle particelle di sua pertinenza e della relativa estensione iscritte precisamente in catasto al fg. 4, p.11 di are 21,23 zona D1, ed al fg. 4 p.265 di are 9.06 zona D1.
Né può configurarsi alcuna genericità rispetto alla richiesta di ostensione dei provvedimenti attuativi, e degli eventuali decreti di esproprio ove adottati dato che è ben comprensibile relativamente all’oggetto della domanda di accesso, che lo scopo della richiesta possa presupporre in colui che la produce un situazione di ignoranza, nel senso che è plausibile che il richiedente possa non sapere con certezza se il documento esista o meno. D’altra parte una richiesta fatta in condizioni di ignoranza non può qualificarsi come “impossibile” laddove essa sia comunque ancorata a dati normativi certi ed inequivocabili che a monte contemplano la presenza del documento richiesto ossia nella specie la programmazione urbanistica a monte rinveniente dalla specifica destinazione delle aree di pertinenza della ricorrente a “zona D1 insediamenti per attività produttive” (cfr Cons. St. sez. IV, 09.02.2012 n. 690).
Non può dunque sostenersi, in quanto inesigibile a carico dell’istante, un onere di specificazione degli estremi di protocollo e data degli atti di cui aveva richiesto l'ostensione.
E’ fuor di dubbio che dalle istanze in atti sono certamente ricavabili elementi idonei a individuare i documenti di interesse in modo sufficientemente preciso e circoscritto, senza con ciò richiedersi all’amministrazione una complessa attività di ricerca ed elaborazione degli stessi.
L'oggetto dell'accesso, quindi, non è costituito da un numero indeterminato di documenti, ma è riferito ad atti soggettivamente ed oggettivamente individuati rispetto alle particelle identificate come di pertinenza della ricorrente e per di più formati in un arco temporale specificato ossia nell’ambito del periodo di attuazione del piano per gli insediamenti produttivi.
Come noto, la domanda di accesso deve avere un contenuto determinato o quanto meno determinabile; in presenza di una richiesta, come nella specie, sufficientemente circostanziata e temporalmente circoscritta spetta all’amministrazione destinataria dell'accesso l’onere di indicare, sotto la propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti, che proprio in quanto tali essa non è in grado di esibire.
Invero, nell'ipotesi in cui, in sede di ricorso avverso il diniego di accesso ai documenti amministrativi, il ricorrente fornisca argomenti e indizi circa l'esistenza degli atti a cui chiede di accedere e l'Amministrazione non fornisca la prova a sostegno del proprio assunto dell'inesistenza dei documenti richiesti, correttamente il giudice amministrativo ordina l'accesso, residuando quindi un problema di esecuzione del giudicato, se del caso mediante commissario ad acta, relativamente alla ricerca materiale dei documenti, fermo restando che il giudicato che ordina l'accesso sarà evidentemente eseguibile nei limiti in cui i documenti realmente esistono. In tal modo si bilanciano le limitate possibilità di conoscenza dei fatti da parte del privato con i poteri istruttori concessi al giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. V, 25.06.2010, n. 4068).
In altre parole, il documento obiettivamente esistente agli atti dell'amministrazione va comunque esibito, pacificamente desumendosi dall'istituto dell’accesso agli atti che essi sono ostensibili solo laddove esistenti non essendo ovviamente predicabile l'esibizione di atti che non risultano formati.
4. Quanto all’istanza di accesso c.d. “civico” va premesso, in linea generale, che, con il d.lgs. 33/2013, il legislatore italiano ha modificato la prospettiva del diritto di accesso. All’accesso procedimentale classico di cui gli artt. 22 e ss l. 241/1990, necessariamente collegato alle specifiche esigenze del richiedente (need to know), si è aggiunto il cd. accesso civico -mutuato anche dall’esempio degli ordinamenti anglosassoni (si veda il Freedom of Information Act, cd. FOIA statunitense) e da specifici settori dell’ordinamento (per la materia ambientale, v. la Convenzione di Aarhus, recepita con L. 195/2005)- che garantisce all’intera collettività il diritto di conoscere gli atti adottati dalla pubblica amministrazione in funzione di controllo generalizzato da parte dell’opinione pubblica e di piena realizzazione del principio trasparenza (right to know).
In questa prospettiva vanno lette le affermazioni di principio riportate ai primi articoli del decreto legislativo 33/2013 secondo cui la trasparenza:
- è intesa come
«accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, co. 1);
- «concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione»;
- è «condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino» (art. 1, co. 2).
Tutti gli obblighi contemplati dal decreto vengono intesi quali «livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione, a norma dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione e costituiscono altresì esercizio della funzione di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale, di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione» (art. 1, co. 3).
Quanto precede dimostra la necessità di interpretare le norme del decreto in modo funzionale a che venga effettivamente perseguita la finalità di rendere pienamente trasparente l’azione dei pubblici poteri, affinché vi sia piena attuazione del principio democratico e dei principi costituzionali.
Circa l’applicabilità delle disposizioni del decreto, entrato in vigore dal 20.04.2013, agli atti anteriori all’entrata in vigore del decreto, occorre osservare che, se il decreto fosse applicabile ai soli atti formatisi dopo la sua entrata in vigore, l’effettiva operatività delle sue disposizioni risulterebbe procrastinata anche in misura assai rilevante e ne resterebbe fortemente incisa, tra le altre, proprio la materia della pianificazione del territorio oggetto del presente giudizio.
Il principio da affermare è, all’opposto, che gli atti che dispieghino ancora i propri effetti siano da pubblicare, nelle modalità previste, secondo quanto disposto dall’art. 8, co. 3, del d.lgs. 33/2013 che, appunto, prevede l’obbligo di pubblicare gli atti contenenti i dati previsti dal decreto medesimo «per un periodo di 5 anni, decorrenti dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello da cui decorre l'obbligo di pubblicazione, e comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti».
In tal senso, depone anche la
circolare 19.07.2013 n. 2/2013 del dipartimento della funzione pubblica (al par. 1.3, primo capoverso), con cui si è inteso fornire alle amministrazioni le prime indicazioni operative circa gli obblighi di pubblicazioni previsti dal decreto; essa chiarisce, infatti, che essi divengono efficaci alla data di entrata in vigore del decreto senza che sia necessario attendere alcun decreto applicativo, così ribadendo, ulteriormente, la necessità che la disciplina divenga immediatamente effettiva.
A sua volta, l’art. 8, comma 3, prevede che i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblicati per un periodo di 5 anni, decorrenti dall’1 gennaio successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione e che alla scadenza del termine quinquennale i documenti, le informazioni e i dati sono comunque conservati e resi disponibili all’interno del sito archivio e segnalate nell’ambito della sezione amministrazione trasparente.
4. In ogni caso, l’accesso tradizionale di cui alla L. 241/1990 continua ad operare con i propri diversi presupposti e disciplina, ma la circostanza che un soggetto possa essere titolare di una posizione differenziata tale da essere tutelata con tale tipologia di accesso, non impedisce certo al medesimo soggetto di avvalersi dell’accesso civico, qualora ne ricorrano i presupposti. Per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione di cui al D.lgs. 33/2013, quindi, potranno operare cumulativamente tanto il diritto di accesso ‘classico’ ex L. 241/1990 quanto il diritto di accesso civico ex D.lgs. 33/2013, mentre, per gli atti non rientranti in tali obblighi di pubblicazione, opererà, evidentemente, il solo diritto di accesso procedimentale ‘classico’ di cui alla L. 241/1990.
A ragionare diversamente, si giungerebbe al risultato che il cittadino privo di interesse specifico potrebbe far ricorso all’accesso civico di cui al D.lgs. 33/2013, mentre il soggetto portatore di un interesse specifico dovrebbe dimostrare i più stringenti presupposti sottesi all’interesse procedimentale di tipo tradizionale (art. 22 L. 241/1990). Gli atti contemplati dal d.lgs. 33/2013, quindi, ben possono essere richiesti facendo un sintetico riferimento alle norme che ne prevedono la pubblicazione.
Ciò posto, gli atti e documenti oggetto delle istanze della ricorrente rientrano nel novero degli atti e documenti indicati dall’art. 39 del d.lgs. n. 33 del 14.3.2014 che chiunque può chiedere siano pubblicati, secondo le modalità dettate dall’art. 8 dello citato decreto. Ove il Comune avesse provveduto alla pubblicazione avrebbe dovuto darne avviso all’istante, come prescritto dall’art. 5 d.lgs. n. 33/2014 a tenore del quale: “Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale”. Ciò nella specie non è avvenuto risultando impugnato il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza, né essendosi comunque costituito il Comune benché intimato.
Tanto premesso, in ragione della fondatezza del ricorso nei termini appena precisati, deve essere ordinato all’amministrazione di pubblicare i documenti relativi al piano degli insediamenti produttivi di cui all’art. 39 del d.lgs. 33/2013 con le modalità ivi descritte.
...
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così provvede:
- dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione la richiesta di pronuncia in ordine alla domanda di liquidazione di una somma a titolo di indennizzo e/o risarcimento del danno con onere di riassunzione nei termini di cui in motivazione;
- dichiara l'obbligo dell'intimata amministrazione di consentire al ricorrente di prendere visione ed estrarre copia, previo rimborso del costo di riproduzione e dei diritti di ricerca e visura, degli atti, provvedimenti, delibere, determinazioni, ed eventuali decreti di esproprio inerenti lo stato di realizzazione del piano per gli insediamenti produttivi limitatamente alle aree identificate nell’istanza di accesso come di pertinenza dell’istante, nel termine di giorni trenta decorrente dalla comunicazione o, se a questa anteriore, dalla notificazione della presente decisione;
- ordina all’amministrazione intimata di pubblicare sul proprio sito web nella sezione dedicata entro trenta giorni dalla comunicazione della presente sentenza gli atti di cui all’art. 39 del d.lgs. 33/2013 relativi al piano per gli insediamenti produttivi, nei termini di cui in motivazione;
- respinge il ricorso per la richiesta di accesso del certificato di destinazione urbanistica (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.04.2016 n. 1793 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: Nuovo codice dei contratti pubblici - Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50 - Novità di maggior interesse (aprile 2016 - Grimaldi Studio Legale).
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SOMMARIO: Premessa - Ambito di applicazione - AVCpass al Ministero delle Infrastrutture: qualifiche operatori - Avvalimento - Building Information Modeling (“BIM”) - Cabina di regia - Cause di esclusione - Centrali di committenza - Certificazione delle stazioni appaltanti - Conflitto di interesse - Concorsi di progettazione - Contraente generale - Criteri di aggiudicazione - Criteri premiali - Definizione delle controversie - Dibattito pubblico - Documento di gara unico europeo - Gare elettroniche - Lavori, servizi e forniture concessionari - Incentivo del 2% ai dipendenti P.A. - Legge obiettivo - Linee guida per le gare elettroniche - Lotti - Minor prezzo (per i lavori) - Pagamenti diretti dei subappaltatori nei contratti di concessione - Partenariati per l’innovazione - Programmazione - Rating di impresa - Ricorsi giurisdizionali - Rischio operativo (e contratti di concessione) - Responsabile unico del procedimento (“RUP”) - Sanzioni per chi non denuncia - Società organismi di attestazioni (“SOA”) - Soccorso istruttorio - Soglie di rilevanza comunitaria - Sotto soglia - Subappalto (e contratti di appalto) - Disposizioni Transitorie e di coordinamento.

APPALTI: G. Matteo, Il nuovo codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione: prime note (20.04.2016 - tratto da www.quotidianogiuridico.it).

APPALTI: Appalti, in Gazzetta e già in vigore il nuovo Codice (D.Lgs n. 50/2016).
Soglia di 1 milione di euro per il massimo ribasso, limitazione al 30% del subappalto, esclusione automatica delle offerte anomale (20.04.2016 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: G. P. Cirillo, Il contratto di avvalimento nel nuovo codice dei contratti pubblici: il persistente problema della sua natura giuridica (08.04.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

VARI: Oggetto: Chiarimenti definizione apparecchio televisivo - Canone abbonamento RAI (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 20.04.2016 n. 28019 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione relativa alle nuove norme in materia sismica (Regione Lombardia, nota 18.04.2016 n. 3833 di prot.)

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 20.04.2016,  "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 15.04.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 15.04.2016 n. 58).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Congedi parentali fino al sesto anno. Aran. Le indicazioni per gli enti territoriali.
I dipendenti degli enti locali e delle regioni possono fruire dei congedi parentali per 30 giorni interamente retribuiti fino al compimento del sesto anno di vita dei propri figli.
È quanto chiarisce l’Aran.
Alla base di questa risposta la specifica attenzione che i contratti collettivi nazionali di lavoro del personale del comparto regioni ed enti locali riservano alla tutela della famiglia. In questa direzione vanno le disposizioni che consentono ai dipendenti di poter ricevere un trattamento economico migliore di quanto previsto dal legislatore per i primi 30 giorni di congedo parentale.
Va ricordato che la norma di legge prevede in questo caso un compenso pari al 30% del trattamento economico in godimento, e va sottolineata la disposizione per cui durante i periodi di congedo di maternità le dipendenti titolari di posizione organizzativa hanno diritto alla percezione della indennità di posizione.
La materia dei congedi parentali è disciplinata dall’articolo 17 del contratto nazionale del 14.09.2000, le cosiddette “code contrattuali”. Al comma 5 dispone il diritto a percepire l’intero trattamento economico durante i primi 30 giorni di assenza per congedo parentale. Questo istituto ha preso il posto della vecchia astensione facoltativa, con significativi ampliamenti della possibilità di usufruire di questi permessi per i padri. Esso è inoltre fruibile anche per periodi separati.
La norma contrattuale fa riferimento alle disposizioni dettate dalla legge 1204/1971 per individuare la platea dei beneficiari e le relative condizioni. Il che deve essere inteso in senso dinamico, perché si tratta di una disposizione che si estende alle modifiche intervenute successivamente. Questa disposizione è stata sostituita dalle previsioni dettate dal Dlgs 151/2001. Queste previsioni che sono state successivamente modificate dal Dlgs 80/2015.
Con riferimento al caso specifico, inizialmente il riferimento legislativo fissava il tetto di età del bambino per la fruizione di questo beneficio in tre anni; con la modifica dello scorso anno questo tetto è stato portato a sei anni. E, di conseguenza, i dipendenti degli enti locali e delle regioni hanno diritto a ricevere l’intero trattamento economico in godimento per i primi 30 giorni di congedo parentale fruiti entro tale data
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2016).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Codice, 540 milioni di gare in fumo. Anac-Mit: da rifare tutti i bandi pubblicati dopo il 19 aprile con le vecchie regole.
Appalti. La riforma mette in fuorigioco decine di amministrazioni - A Roma torna al via il Ponte dei Congressi da 123 milioni.

L’Anac e il Mit alzano la bandierina. E mettono in fuorigioco bandi di gara per mezzo miliardo. Anzi, per l’esattezza: 543,4 milioni di euro.
È questo, in sintesi estrema, l’effetto del comunicato 22.04.2016 con il quale il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone e il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio ieri pomeriggio hanno deciso di mettere un punto al caos che è seguito alla pubblicazione del nuovo Codice appalti.
Il Dlgs n. 50 del 2016 è andato in Gazzetta ufficiale nella tarda serata di martedì, entrando in vigore nel giorno stesso della sua pubblicazione, il 19 aprile, per restare nei tempi indicati dalle direttive europee. Già da mercoledì mattina, allora, ha preso forma il rebus dei bandi di gara pubblicati a ridosso di quella data. Alcune procedure, infatti, sono esplicitamente vietate dalla riforma: succede per l’appalto integrato (l’affidamento contemporaneo di progettazione ed esecuzione) e per il massimo ribasso sopra il milione di euro. Così, per qualche giorno il destino delle stazioni appaltanti che hanno provato ad avviare procedure poi diventate illegittime è rimasto sospeso. Anche perché le norme relative alla tagliola per le nuove gare si prestavano a interpretazioni contrastanti.
Adesso l’Anac e il Mit mettono fine alle discussioni e, in un comunicato datato 22 aprile, spiegano che «ricadono nel previgente assetto normativo» le procedure pubblicate in Gazzetta ufficiale italiana o europea entro il 18 aprile. Oltre quella data, a partire dal 19 aprile, scatta il nuovo codice. Con un effetto a dir poco paradossale: i bandi pubblicati martedì mattina sono stati messi in fuorigioco da un Dlgs che è stato ufficializzato per la prima volta solo martedì sera. Insomma, un effetto retroattivo di qualche ora. Il comunicato indica anche la soluzione per chi ha superato il confine del 18 aprile: gli atti già adottati dalle amministrazioni, ma pubblicati dal 19 in poi, «dovranno essere riformulati in conformità al nuovo assetto normativo». E non si tratta di un processo semplice: nei casi peggiori potrebbero volerci mesi.
Scorrendo la Guce, dove vengono pubblicati i bandi per lavori sopra i 5,2 milioni di euro, è possibile fare i conti dell’effetto di questa entrata in vigore repentina: le procedure da rifare hanno il valore record di 543,4 milioni . Solo il 20 aprile erano irregolari appalti per 427 milioni.
Sintomatico di un effetto-sorpresa che si poteva sorvegliare meglio è che tra le amministrazioni messe in fuori gioco dall’entrata in vigore “alla chetichella” del codice non ci sono solo piccole amministrazioni fuori dai circuiti dell’informazione. Anzi. A pubblicare due tra gli appalti di maggiore importo, che ora dovranno essere ritirati, è stato il Provveditorato delle opere pubbliche per il Lazio, un ufficio “decentrato”, ma di diretta emanazione del ministero delle Infrastrutture,che ha gestito tutta la partita del nuovo codice.
L’appalto di maggior valore riguarda tra l’altro una delle opere più attese a Roma. Si tratta del Ponte dei Congressi, un intervento da 123 milioni, di cui si parla da 25 anni e che i romani attendono per “stappare” il nodo viario che blocca tre quartieri (Eur, Magliana e Portuense), oltre a fermare il traffico di chi entra nella Capitale dall’aeroporto di Fiumicino. L’idea era di affidare al costruttore non solo il cantiere, ma anche il progetto esecutivo del ponte. Un’ipotesi che il nuovo codice cancella con effetto dal 19 aprile. Mentre l’avviso del Provveditorato è finito sulla Gazzetta europea del giorno successivo. Dunque addio gara. Prima di affidare i lavori bisognerà portare a termine il progetto.
Torna ai blocchi di partenza anche la gara da 159 milioni bandita dal consorzio di imprese che ha in carico l’esecuzione dei lavori dell'altra velocità ferroviaria sul Terzo valico (Cociv). La corsa a pubblicare il maxibando al massimo ribasso (quindi tenendo conto solo del prezzo) si è scontrata con l’entrata in vigore del codice che concede questa possibilità solo per i piccoli lavori, di importo inferiore al milione. Il Consorzio ha già annunciato che ritirerà il bando.
Chi invece è finora andato avanti a testa bassa è la stazione appaltante unica della Regione Calabria. Il 20 aprile ha pubblicato il bando per la realizzazione di un impianto rifiuti a Catanzaro sulla base di un semplice progetto preliminare, dal costo di 58,9 milioni. Ieri in Gazzetta è arrivata la rettifica. Non riguardava il ritiro del bando, ma la revisione al rialzo del costo: la base d’asta sale da 59 a 67 milioni. Anac e Mit permettendo
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2016).

APPALTI SERVIZI: La pulizia delle scuole segue il codice appalti. L'Anac ha segnalato l'effetto distorsivo delle proroghe.
Le proroghe degli appalti di servizi di pulizia nelle scuole determinano effetti distorsivi della concorrenza, compromettono la spending review e violano il principio di economicità; parlamento e governo valutino un intervento su questa prassi, ancorché il nuovo codice dei contratti pubblici abbia affermato il principio del divieto di procedure in deroga.

È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con l'atto di segnalazione al Governo e al Parlamento 02.03.2016 n. 376 diffusa venerdì scorso che prende in considerazione il tema delle proroghe nell'affidamento dei servizi di pulizia, servizi ausiliari e gli interventi di mantenimento del decoro e delle funzionalità delle scuole, frequentemente adottate per assicurare la continuità dell'approvvigionamento dei servizi alle amministrazioni pubbliche.
La disciplina di tali proroghe è rinvenibile nel decreto legge 58/2014 che prorogava fino al 31.08.2014, l'acquisto diretto di tale servizi da parte delle scuole ubicate nelle regioni in cui non era ancora attiva la convenzione-quadro Consip; tale termine è stato prorogato con diversi decreti legge per arrivare fino al 31.07.2016.
L'Autorità presieduta da Raffaele Cantone ha segnalato al parlamento e al governo come le continue proroghe possono avere «un notevole effetto distorsivo sul mercato dei contratti pubblici». Pur comprendendo che la ratio del legislatore era stata quella di perseguire l'interesse sociale alla tutela dei livelli occupazionali di una specifica categoria di lavoratori impiegati, prevalentemente in aree economiche disagiate, l'Anac evidenzia che tale fenomeno, di fatto, ha sottratto al libero confronto concorrenziale commesse pubbliche, anche di rilevanza comunitaria, per un ampio arco temporale, su tutto il territorio nazionale.
In questo campo, peraltro, nota l'Anac, anche l'Antitrust ha rilevato fenomeni distorsivi della concorrenza posti in essere da alcuni concorrenti in posizione dominante che avevano partecipato a gare Consip di rilievo comunitario. Viene quindi messo in risalto l'effetto restrittivo conseguente alla disciplina normativa più volte prorogata che pone alcuni fornitori di servizi in una «situazione privilegiata rispetto ai propri concorrenti, peraltro in un contesto di posizioni già consolidate in partenza, in contrasto con il principio di concorrenza teso a garantire l'apertura del mercato a una concorrenza effettiva».
A tali effetti si aggiungono quelli negativi dal punto di vista dell'economicità delle commesse pubbliche con compromissione anche delle azioni tese ad una efficace spending review. Le stazioni appaltanti devono infatti improntare la propria azione al principio di economicità e quindi a un uso accorto delle proprie risorse, con il minor impiego delle risorse economiche e quindi al minor costo per la collettività.
Da qui la richiesta che la gestione dei servizi sia ricondotta nell'alveo delle ordinarie procedure di affidamento previste dal codice dei contratti pubblici e che non si ricorra, per il futuro, all'utilizzo di sistemi derogatori, come le proroghe per legge, comunque inidonei a risolvere rilevanti problematiche sociali (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).

CORTE DEI CONTI

LAVORI PUBBLICI: Appalti: RUP e direttore dei lavori rispondono della cattiva gestione del contratto.
Il Direttore dei lavori e il Responsabile del procedimento che con la loro esclusiva “condotta tecnica” inducono l’organo di amministrazione politica a promuovere la risoluzione del contratto per fatti ascritti, ma a torto, alla responsabilità della ditta appaltatrice, rispondono dei maggiori oneri a carico del bilancio comunale (esito del lodo).
Questo il principio affermato dalla Corte dei Conti, Sez. centrale d'appello, nella sentenza 12.04.2016 n. 144.
Nel caso di specie la stazione appaltante aveva affidato l’appalto dei lavori necessari per la sistemazione esterna del centro sportivo.
Sulla base delle contestazioni espresse dal direttore dei lavori, confermate dal RUP, in ordine alla ritenuta sussistenza di gravi inadempimenti imputabili all’impresa esecutrice dei lavori (errori di valutazione progettuale e grave ritardo rispetto al termine previsto per la consegna dell’opera), la Giunta aveva disposto la risoluzione negoziale e l’applicazione della penale per ritardo.
Il procedimento arbitrale promosso dalla ditta appaltatrice, viceversa, aveva evidenziato la sussistenza di vizi comportamentali della stazione appaltante nello svolgimento dell’attività di progettazione esecutiva, di direzione dei lavori e di vigilanza sulla esecuzione dell’opera e sulla organizzazione del cantiere.
Nello specifico, la C.T.U. arbitrale, in accoglimento della domanda della ditta appaltatrice, aveva ritenuto illegittima la risoluzione del contratto di appalto e l’applicazione della penale per ritardo, accertando la responsabilità esclusiva della stazione appaltante in quanto il ritardo nella realizzazione dell’opera era riconducibile al difetto originario di una adeguata progettazione esecutiva.
I giudici contabili hanno confermato la responsabilità del Direttore dei Lavori e del Responsabile Unico del procedimento.
La stazione appaltante espleta il controllo sulla corretta esecuzione dei lavori tramite il direttore dei lavori.
In altri termini, il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga (Cass. civ. Sez. 2, 29.08.2013, n. 19895), dovendo poter garantire alla Stazione appaltante una capacità di supervisione e di controllo sulla intera corretta esecuzione dell’intervento (Corte di Cass. Sez. 3^ civile, 13.04.2015, n. 7370).
In tal senso è necessario che il direttore dei lavori provveda alla redazione e tenuta della contabilità, vale a dire di quel complesso di attività e documenti che consentono al committente di verificare costantemente l’andamento delle attività e di converso, all’appaltatore, di avere la certezza del pagamento delle prestazioni rese.
Tali attività sono fondamentali per il regolare ed equilibrato svolgimento dell’intervento.
Allo stesso modo, nella conduzione dell’appalto, rispetto al direttore dei lavori, è preminente la figura del Rup, le cui competenze e attività si estendono in modo assolutamente significativo anche a tutte le fasi che precedono l’esecuzione dei lavori, ovvero le fasi della programmazione, della progettazione e della gara d’appalto e che ha, tra gli altri compiti, una funzione di alta vigilanza sul corretto avanzamento della prestazione dell’appaltatore.
La sentenza in commento ha evidenziato come il Responsabile del procedimento e il Direttore dei lavori siano tenuti a svolgere tali compiti con la massima accuratezza e diligenza, al fine di assicurare alla stazione appaltante il conseguimento del risultato atteso (commento tratto da www.self-entilocali.it).
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MASSIMA
Un tanto premesso,
mette conto chiarire, per l’incidenza sull’attendibilità degli argomenti di prova, che poiché il danno origina dagli esiti del lodo arbitrale, conseguente al procedimento attivato dalla ditta esecutrice, la circostanza che a quest’ultimo non ebbero a partecipare direttamente gli odierni appellati, non può dirsi dirimente per escludere (come fatto intendere nelle difese degli stessi) che il Giudice contabile possa liberamente trarre da tale diverso procedimento elementi, quali prove testimoniali, consulenze e altro, utili a formare il proprio convincimento, a mente dell’art. 116 c.p.c., all’esito, chiaramente, del contraddittorio processuale, ove il suddetto materiale indiziario può essere superato con prove contrarie di qualsiasi tipo fornite da controparti (cfr. Corte dei conti, Sez. 2^, n. 52, del 07.02.2014, id. Corte di Cass., Sez. 3^ civ. n. 10898, del 25.07.2002).
Difatti, nel processo contabile il necessario contraddittorio sulle prove raccolte dal P.M. prima dell’instaurarsi del giudizio, è in definitiva differito alla fase dibattimentale, ove tali prove possono essere liberamente contestate, come avvenuto, in specie, ad opera dei prevenuti, che possono a loro volta produrre prove a discarico o anche chiederne l’acquisizione.
Cosicché,
il Giudice erariale può valutare autonomamente i fatti accertati in sede di procedimento arbitrale in cui era presente l’Amministrazione appaltante, dalla quale dipendevano gli odierni professionisti, investiti (unitamente ad altri soggetti oggi non evocati o non convenibili) delle funzioni di progettazione, di direzione dell’opera e dell’alta vigilanza sullo svolgimento dell’intervento.
Ora, il Collegio non ignora che l’arbitrato, previsto in specie dalle disposizioni di cui agli artt. 6 del contratto di appalto (“…eventuali controversie tra il comune di Castelnuovo Rangone e l’Appaltatore, ai sensi degli artt. 150 e 151 del d.P.R. n. 554 del 1999, saranno devolute alla decisione di apposito Collegio istituito presso la Camera arbitrale”), 34, del Capitolato Generale di appalto, ("…Il giudizio arbitrale si svolge secondo le regole di procedura contenute nel Decreto del Ministero dei lavori pubblici…previsto dall’art. 32 della legge”) e dal D.M. 02.12.2000, n. 398 (applicabile in ragione del tempo), nasce da un atto di natura contrattuale di due soggetti agenti iure privatorum, che affidano ad un arbitro, a sua volta privato, la risoluzione di una controversia insorta tra loro. Per cui opererebbe l’art. 1372 c.c., che limita gli effetti del contratto alle parti che lo hanno stipulato, non potendo esso, in alcun modo, vincolare i terzi estranei: “res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest”.
Pur tuttavia, un tale risultato non può ritenersi applicabile nell’ipotesi di causa, atteso che la responsabilità erariale, informata al principio acquisitivo di tipo sindacatorio, può basarsi autonomamente su elementi indiziari, o probatori, ancorché atipici, più vari, e, tra questi, può certamente ritenersi un elemento probatorio qualificato ed attendibile, quello derivante da una decisione di un arbitro, tecnicamente e giuridicamente motivata.
Inoltre, la posizione del Direttore dei Lavori e del Responsabile Unico del Procedimento nell’ambito del giudizio arbitrale, al quale non hanno direttamente partecipato, non era certamente di terzi con interessi contrapposti a quelli dell’Amministrazione, committente dei lavori, giacché essi svolgevano compiti, funzioni di vigilanza e controllo sull’andamento dei lavori commissionati e accertamenti continui sull’esatto adempimento dei patti contrattuali in quanto organici all’Ente territoriale, ossia al comune di Castelnuovo Rangone, che è stato condannato in sede arbitrale, avendo un interesse processuale del tutto sovrapponibile a quello dei primi (cfr. Corte dei conti, SS.RR. 817/A, del 04.01.1993).
Di tal ché, i risultati della procedura arbitrale (e non solo) a base del libello, peraltro confermati (con le precisazioni a seguire) dalla relazione di Collaudo tecnico–amministrativo, rappresentano idonee fonti di prova, con valore indiziario, che “…non vincolano il giudice contabile…” (come affermato dai primi Giudici), ma nel senso che concorrono, unitamente a tutti gli altri elementi, alla formazione della prova e al libero convincimento del giudicante (cfr., con riguardo all’analoga prudente valutazione delle prove raccolte nel procedimento penale, anche al cospetto di preclusioni previste a garanzia dell’imputato in quella sede, Corte dei conti, Sez. 3^, 12.12.2011, n. 849).
Quanto poi alla circostanza che avrebbe visto, secondo la gravata sentenza, l’atto introduttivo contraddirsi riguardo alla imputazione agli appellati della responsabilità per carenze di progettazione, salvo poi estromettere dal giudizio gli altri co-progettisti, ovvero relativamente alla riconducibilità della disposta risoluzione negoziale ad un atto proprio della Giunta, salvo poi attribuirne la esclusiva responsabilità al Direttore dei lavori e al Responsabile Unico del procedimento, rileva il Collegio che il Procuratore regionale, nell’atto introduttivo, ha contestato ai prevenuti, in termini da ritenersi assorbenti quanto alle condotte incriminate, che la loro errata rappresentazione dei fatti e delle condotte contrattuali è stata causa della risoluzione negoziale e del successivo lodo, conclusosi con l’accoglimento parziale della domanda dell’impresa, recante oneri per spese ritenute prive di utilità per il bilancio comunale.
Cosicché, l’evocazione nel processo del progettista –D.L. e del progettista– R.U.P., non è avvenuta, pur dando ad essa il giusto rilievo nell’economia del giudizio, per la mera inadeguatezza del progetto esecutivo, che, di per sé, come accertato dal C.T.U. (giudizio non condiviso dal Collegio arbitrale a maggioranza però dei suoi componenti) e confermato dal Collaudatore, non ha reso ineseguibile l’intervento, incidendo, tuttavia, una tale carenza sui tempi della sua realizzazione e sulla organizzazione del cantiere, bensì per avere gli stessi indotto la Giunta municipale a promuovere la risoluzione del negozio di appalto per fatti ascritti, ma a torto, alla responsabilità della ditta appaltatrice.
Di fatti,
la deliberazione di G.C. n. 35, del 25.03.2006, foriera di oneri all’esito del successivo lodo arbitrale, è stata adottata sul fondamento delle contestazioni espresse dal Direttore dei lavori, Arch. Fe., e della relazione, validativa delle stesse, del Responsabile Unico del Procedimento, Geom. Am., quindi con pieno affidamento degli amministratori nell’operato dei propri tecnici di fiducia, in ordine alla ritenuta ricorrenza dei gravi inadempimenti addebitati alla ditta S. s.r.l.
Il Direttore dei Lavori, infatti, è una figura professionale che svolge, su scelta e per conto del committente, un’opera di controllo e verifica della regolarità e del buon andamento dell’intervento. E’ al tempo stesso, sia ausiliario dell’appaltatore, da poiché ha la direzione dell’esecuzione del lavoro che l’impresa deve fornire ed ha il compito di sorvegliare, di controllare e di impartire le istruzioni ai dipendenti dell’impresa impiegati ad operare, e sia di ausiliario della Stazione appaltante, per la quale ha la direzione dispositiva dell’opera da compiere, del risultato da raggiungere. Di tal ché, una volta nominato diviene, da un lato, il fiduciario della Stazione appaltante per gli aspetti di carattere tecnico e, dall’altro, il garante, nei confronti di essa, dell’osservanza e del rispetto dei contenuti dei titoli (id est della progettazione nella compiutezza delle tavole di dettaglio) abilitativi all’esecuzione dei lavori, prestando così un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultati.
Tuttavia,
venendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di particolari e peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che la Stazione appaltante si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam in concreto (si veda, a tal riguardo, Corte di Cass., Sez. II, sentt. n. 16361/2007 e n. 10728/2008).
Ragion per cui, l’art. 124, del d.P.R. 21.12.1999, n. 554 (vigente per l’epoca) era a prevedere che il D.L. “…cura che i lavori cui è preposto siano eseguiti a regola d’arte ed in conformità al progetto e al contratto”, interloquisce “…in via esclusiva con l’appaltatore in merito agli aspetti tecnici ed economici del contratto”, ha la responsabilità dell’accettazione dei materiali e del controllo quantitativo e qualitativo degli accertamenti ufficiali delle caratteristiche meccaniche di questi, “…verifica periodicamente il possesso e la regolarità da parte dell’appaltatore della documentazione prevista dalle leggi vigenti in materia di obblighi nei confronti dei dipendenti”, cura “…la costante verifica di validità del programma di manutenzione…modificandone ed aggiornandone i contenuti a lavori ultimati”.
Da ultimo, alla redazione e tenuta della contabilità, vale a dire di quel complesso di attività e documenti che consentono al committente di verificare costantemente l’andamento delle attività e di converso, all’appaltatore, di avere la certezza del pagamento delle prestazioni rese, è tenuto il Direttore dei Lavori. Pare, a tal riguardo, del tutto superfluo ricordare quanto sia di rilievo l’accertamento e la registrazione dei lavori e come la loro contabilizzazione sia fondamentale per il regolare ed equilibrato svolgimento dell’intervento, aspetto, questo, di gran lunga deficitario nell’ipotesi di causa.
In breve, il riscontro, la misurazione, l’accertamento dei lavori eseguiti non possono mai essere tralasciati o relegati ad attività secondaria: un tale atteggiamento non solo è contrario a disposizioni di legge ma potrebbe rivelarsi foriero (come occorso) di problematiche di non facile risoluzione tanto per la committente quanto per l’appaltatore. In conclusione, il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga
(cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29.08.2013, n. 19895), dovendo poter garantire alla Stazione appaltante una capacità di supervisione e di controllo sulla intera corretta esecuzione dell’intervento (cfr. Corte di Cass. Sez. 3 civile, 13.04.2015, n. 7370).
Non diversamente per la figura del Responsabile Unico del Procedimento, per le fasi della progettazione, dell’affidamento e dell’esecuzione, al centro del procedimento decisionale di affidamento del pubblico appalto, le cui funzioni sono da coordinare con i compiti, le funzioni e le responsabilità del direttore dei lavori. In breve. Il RUP ha, tra gli altri compiti, una funzione di alta vigilanza sul corretto avanzamento della prestazione dell’appaltatore.
Orbene,
i suddetti tecnici, nell’ambito dell’incarico fiduciario ad essi attribuito, sono stati causa (non altri) della risoluzione del contratto di appalto ad opera della Giunta comunale, che ha operato facendo pieno affidamento sulla rappresentazione dei fatti e delle condotte contrattuali da essi provenienti. E tali conclusioni rinvengono compiutezza probatoria nelle evenienze documentali agli atti.
Infatti, in fase esecutiva dell’appalto, il Direttore dei lavori, Arch. Fe., con lettera dell’11.02.2006, rilevata l’impossibilità di pervenire alla reale conclusione dell’opera, contestava alla ditta appaltatrice, a mente dell’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999, “Gravi inadempimenti, Errori di valutazione progettuale e Gravi ritardi nella consegna dei lavori”, pari a 311 giorni rispetto al termine previsto per la consegna definitiva (19.02.2005).
In detta corrispondenza si poneva in evidenza che molte lavorazioni risultavano non rispettare il capitolato speciale di appalto, l’elenco prezzi unitari e le prescrizioni impartite dalla Direzione Lavori. La parziale e/o totale errata esecuzione di lavorazioni ha determinato una serie di azioni coercitive della stazione appaltante e della d.l. per la sistemazione, ripristino e/o rifacimento di parte dei lavori, “…anche con inevitabili varianti parziali al progetto originario, quando risultava impossibile il ripristino delle condizioni iniziali dello stesso se non previa intera o parziale demolizione della lavorazione contestata”.
Da ultimo, nella relazione, previa elencazione delle mancanze riscontrate nella condotta della ditta esecutrice, il Direttore dei Lavori operava la contabilità degli stessi alla data dell’11.02.2006: nel senso che per il completamento dell’opera necessitava, approssimativamente, la cifra di € 10.500,00, il conto complessivo dell’intervento era pari ad € 509.105,73, gli acconti a tale data liquidati erano pari ad € 405.739,25, con un residuo credito per l’Impresa di € 103.366,48, somma che a ragione delle detrazioni per lavori difformi dal progetto e non a regola d’arte, valutati in € 85.350,00, e per l’applicazione della penale per ritardo nella consegna, nella misura massima di € 50.368,60, si trasformava in un credito per la stazione appaltante, causa dell’attivazione della procedura arbitrale da parte della ditta appaltatrice, che così si vedeva negare il dovuto per i lavori già eseguiti.
Per ciò, ad avviso dell’Arch. Fe. non sussistevano le condizioni contrattuali per l’emissione dell’ultimo S.A.L. richiesto dall’Impresa, bensì i presupposti per la contestazione del grave inadempimento e del mancato rispetto del cronoprogramma dei lavori, con conseguente grave ritardo ed applicazione delle penali. Il Responsabile Unico del Procedimento, Geom. Am., da parte sua nella relazione in data 25.03.2006, dopo “…aver approfondito le argomentazioni esposte dal D.L., tenuto conto anche di ulteriori precisazioni fornite spontaneamente dalla D.L. (nota prot. N. 3338 del 24.03.2006)...”, esponeva le proprie osservazioni e conclusioni, secondo le quali: <<…si è direttamente riscontrato con presenza sul luogo dei lavori: la parziale mancanza di organizzazione logistica del cantiere, la scarsa dotazione di attrezzature, anche in merito alla messa in sicurezza del cantiere, la frammentaria e quasi inesistente direzione tecnica del cantiere, la mancanza di coordinamento delle maestranze che settimanalmente o ogni 15 giorni si spostavano da Napoli a Castelnuovo Rangone, ritardi nell’esecuzione delle opere, errori di valutazione progettuali, ricerca esasperata di soluzioni tecniche ed operative finalizzate al contenimento dei costi, consegna all’impresa ed ai subappaltatori di svariate copie degli elaborati progettuali esecutivi dell’intervento in particolare in fase di gara, alla firma del contratto, alla consegna dei lavori e da ultimo il 02.02.2005 (pag. 10 del libretto dei lavori)…>>.
Di tal ché, “…viste le notevoli difficoltà riscontrate nella conduzione dei lavori da parte dell’Impresa appaltatrice…che hanno comportato un consistente e grave rallentamento degli stessi, tali da non poter assicurare il completamento…nel rispetto del previsto termine di ultimazione, oltre alle irregolarità e agli inadempimenti, riscontrate nell’esecuzione dei lavori…”, esaminate le deduzioni difensive dell’impresa, il RUP decideva di proporre “…motivatamente e giustificatamente…” alla Stazione appaltante di “…approvare, a seguito di grave inadempimento, grave irregolarità e grave ritardo dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 119 d.P.R. n. 554 del 1999, la risoluzione del contratto di appalto per i lavori di realizzazione dell’intervento…con l’impresa S. s.r.l.; nonché di procedere urgentemente ad ogni adempimento e all’adozione di tutti gli atti necessari conseguenti…compresa l’approvazione di perizia esecutiva dei lavori rimasti da eseguire comprensiva, se occorre, di elenco nuovi prezzi o di quelli per manutenzione o riforma dei lavori già eseguiti, ai fini della nuova aggiudicazione per il completamento dei lavori in oggetto”.
Per ciò, non è chi non creda che la Giunta solo facendo affidamento sulle valutazioni dei propri tecnici di fiducia, in ordine alle “…notevoli difficoltà riscontrate nella conduzione dei lavori da parte dell’Impresa, come risulta dalle note e verbali sopra richiamati…”, che hanno comportato un consistente e grave rallentamento dei lavori, difficoltà tali da non poter assicurare il completamento degli stessi nel rispetto del termine previsto, con deliberazione n. 35, del 25.03.2006, ha disposto la risoluzione del contratto, prendendo altresì atto della quantificazione delle penali già predisposta dalla direzione dei lavori.
In ragione di tanto, il Collegio, diversamente da quanto opinato nella sentenza della Corte territoriale, non ritiene contraddittorio il libello introduttivo, avendo, coerentemente con la operata ricostruzione della vicenda, evocato in giudizio il Progettista – Direttore dei Lavori e il Progettista – Responsabile Unico del procedimento, che con la loro esclusiva “condotta tecnica” hanno convinto l’Organo di amministrazione politica, privo, all’evidenza, di identiche cognizioni tecniche, a risolvere il contratto, dal quale è poi derivato il lodo arbitrale e gli oneri per spese accollati al Comune.
Identicamente, non può dirsi ricorrente alcun fondato nesso di causalità, correlato all’odierno pregiudizio, imputabile ai co-progettisti Geom. Sa.Lu. e Be.Si., all’epoca ambedue in rapporto di Collaborazione coordinata e continuativa con l’Ente committente, poiché rimasti del tutto estranei al procedimento deliberativo definito dalla Giunta con la risoluzione del contratto per grave inadempimento dell’impresa.
Tra l’altro, il primo dei due professionisti, quand’anche collaborante con l’Ufficio tecnico comunale, risultava non aver preso parte neanche alla progettazione dell’intervento per cui è causa: “Il mio nome compare sui frontespizi delle tavole di progetto ma non ho svolto alcun ruolo nella progettazione” (sic!), dichiarazione resa in sede di audizione il 29.03.2012, confermata dal R.U.P. Geom. Am..
Analogamente deve concludersi con riguardo agli altri progettisti, avendo riguardo ai calcoli strutturali e alla progettazione esecutiva strutturale, affidati all’Ing. Lu.Ro., alla progettazione esecutiva degli impianti elettrico e termo idrico sanitario, eseguita, rispettivamente, dai tecnici Ta.An. (per la consulenza alla parte elettrica) e Cr.Da. (impianti termo–idrico-sanitario), affidati a professionisti non organici all’Ente committente per i quali difetterebbe, tra l’altro, la giurisdizione contabile.
Il tutto non senza aggiungere che la chiamata in causa di altri soggetti è sempre subordinata alla preliminare valutazione della sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario e tale ipotesi, come confermato dal consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. ex multis Sez. 1° d’appello, sent. n. 137/2009/A, del 05.03.2009, Sez. Lazio, sent. n. 93, del 24.08.1998), ricorre quando la condotta addebitabile a ciascuno sia definibile come illecita solo in stretto collegamento con la valutazione della condotta degli altri, ipotesi non ricorrente in fattispecie.
Infatti, nel caso odierno la condotta di ulteriori concorrenti non avrebbe impedito ad una eventuale decisione di primo grado, di spiegare i suoi effetti nei confronti delle sole parti presenti, giacché un’eventuale situazione sostanziale plurisoggettiva non richiede necessariamente di essere decisa unitariamente nei confronti di tutti, anche in ragione della parziarietà della responsabilità erariale (argomenta a contrario da Cass. sent. 07.03.2006, n. 4890, e 10.03.2008, n. 6381).
In sostanza, la sentenza pronunciata nei soli confronti delle parti presenti non sarebbe stata inutiliter data, mentre un eventuale ordine d’intervento, proveniente dal Giudice per motivi di opportunità, non farebbe altro che trasformare una fattispecie di litisconsorzio facoltativo in una di litisconsorzio necessario per ragioni di ordine processuale al fine di evitare che il Giudice venga chiamato a decidere più volte su liti uguali. Deve, quindi, ribadirsi che la posizione dei convenuti non sarebbe stata affatto influenzata dalla partecipazione in giudizio di terzi di cui si affermava l’esclusiva o concorrente responsabilità, ben potendo il Giudice valutare incidentalmente il contributo causale, qualora sussistente, al danno apportato da costoro, escludendo o decurtando, corrispondentemente, l’addebito a carico dei soggetti convenuti in giudizio.
Un tanto chiarito, il Collegio rileva che l’atto introduttivo, diversamente da quanto ritenuto nella gravata sentenza, non risulta affatto appiattirsi sulle risultanze del procedimento arbitrale, per avere, con logico e verificabile argomentare, dedotto dagli esiti del Collaudo Tecnico–Amministrativo, redatto da professionista esterno all’Ente, per il quale, alla luce degli atti, deve ritenersi insussistente qualsivoglia conflitto di interessi vuoi nei confronti della Stazione appaltante vuoi nei confronti degli appellati, evidenze idonee a dimostrare che le carenze progettuali (a monte), la mancata adozione (nel corso dell’intervento) di misure correttive e integrative del progetto, le modifiche apportate di volta in volta allo stesso, con mere indicazioni sul giornale dei lavori e senza alcuna formalizzazione anche in specifiche perizie di variante (ove previste), sono state causa del mancato rispetto del cronoprogramma.
Di fatti,
la finalità del collaudo è quella di verificare che i lavori siano stati eseguiti a regola d’arte, secondo le previste pattuizioni, e di liquidare il credito residuo all’appaltatore. In particolare, il collaudo tende a verificare e certificare (in un apposito atto) che l’opera o il lavoro sono stati eseguiti a regola d’arte e secondo le prescrizioni tecniche prestabilite, in conformità al contratto, alle sue eventuali varianti ed ai conseguenti atti di sottomissione o aggiuntivi debitamente approvati. Il collaudo ha altresì lo scopo di verificare che i dati risultanti dalla contabilità e dai documenti giustificativi corrispondano tra loro e con le risultanze di fatto, non solo per dimensioni, forma e quantità, ma anche per qualità dei materiali, dei componenti e delle provviste utilizzati.
Esso include ancora tutte le verifiche tecniche previste dalle leggi di settore e comprende, infine, anche l’esame delle riserve dell’appaltatore, sulle quali non sia intervenuta una risoluzione definitiva in via amministrativa e se iscritte nel registro di contabilità e nel conto finale nei termini e nei modi stabiliti dal regolamento, finendo così per individuare il credito finale dell’appaltatore.
In ragione di tanto
la giurisprudenza contabile ha chiarito che il collaudo “...comporta: l’accertamento della rispondenza delle opere eseguite alle prescrizioni del progetto e del contratto e delle eventuali perizie di variante approvate; la verifica tecnico–contabile delle misure delle opere e dei prezzi applicati; l’esame delle eventuali riserve presentate dall’appaltatore; soprattutto l’emissione del certificato di collaudo consente di svincolare le ritenute contrattuali a garanzia dell’Amministrazione appaltante (così Corte dei conti, Sez. 2^ Centr. di App., 21.05.2012, n. 299).
Orbene, la risoluzione contrattuale, disposta dalla Stazione appaltante, poi rivelatasi illegittima e portatrice di oneri a carico del bilancio comunale (esito del lodo), scaturiva da “Gravi inadempimenti, Errori di valutazione progettuale, Grave ritardo nella consegna dell’opera” (contestazione dell’11.02.2006 ad opera dell’Arch. Fe.), “Errate lavorazioni ed irregolarità” (Geom. Am., relazione del 25.03.2006), che hanno indotto l’Ente committente a non pagare il S.A.L. finale afferente le lavorazioni effettuate e quelle non previste in progetto, relative, tra le altre, ad assistenze murarie per impianto elettrico e idro-termo-sanitario, e per l’impianto fognario, pagamento che ove assentito avrebbe di certo ridotto la necessità di ricorrere alla procedura arbitrale.
Nel certificato di collaudo tecnico–amministrativo, redatto il 07.10.2009, da professionista esterno (Ing. Violetta Sergio), si certifica che “…i motivi, sulla base di quanto ricostruibile dai documenti forniti allo scrivente, che hanno impedito il rispetto del cronoprogramma sono riassunti in: 1) Carenza di progettazione esecutiva e definizione dei dettagli costruttivi in fase di cantiere; 2) Inserimento di varianti alle lavorazioni previste senza redazione di apposita perizia e senza il concordamento degli eventuali tempi suppletivi; 3) Lavori aggiuntivi richiesti non compresi in contratto, vedi fognature, senza perizia e senza individuazione dei maggiori tempi di esecuzione delle lavorazioni” (sottolineato Nostro).
Da ultimo, “…la mancata registrazione sul giornale dei lavori dei mezzi e delle maestranze presenti in cantiere, di fatto…” ha impedito di “…valutare la scarsa organizzazione messa in campo dall’impresa, senz’altro vera ma non dimostrabile documentalmente”, il che ha reso non applicabile la penale irrogata dall’Ente per ritardata esecuzione delle opere. Ora, a mente dell’art. 16 della legge 11.02.1994, n. 109, il progetto esecutivo, redatto in conformità al progetto definitivo, “…determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo previsto e deve essere sviluppato a un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento sia identificabile quanto alla forma, alla tipologia, alla qualità, alla dimensione e al prezzo”.
L’art. 35 e segg. del d.P.R. 21.12.1999, n. 554, ha poi previsto che
i documenti componenti il progetto esecutivo, che “…costituisce la ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni e, pertanto, definisce compiutamente ed in ogni particolare architettonico, strutturale ed impiantistico l’intervento da realizzare…”, devono riguardare: “a) la relazione generale; b) le relazioni specialistiche; c) gli elaborati grafici comprensivi anche di quelli delle strutture, degli impianti e di ripristino e di miglioramento ambientale; d) i calcoli esecutivi delle strutture e degli impianti; e) i piani di manutenzione dell’opera e delle sue parti; f) i piani di sicurezza e di coordinamento; g) il computo metrico estimativo definitivo e quadro economico; h) il cronoprogramma; i) l’elenco dei prezzi unitari e eventuali analisi; l) il quadro dell’incidenza percentuale della quantità di manodopera per le diverse categorie di cui si compone l’opera o il lavoro; m) lo schema di contratto e capitolato speciale di appalto”.
Il progetto risulta per ciò costituito dall’insieme delle relazioni, dei calcoli esecutivi delle strutture e degli impianti e degli elaborati grafici nelle scale adeguate, compresi gli eventuali particolari costruttivi, dal capitolato speciale di appalto, dal computo metrico estimativo ed infine dall’elenco dei prezzi unitari. Gli elaborati grafici devono, poi, essere redatti, salvo diversa motivata determinazione del R.U.P. nelle scale ammesse o prescritte, in modo tale da consentire all’esecutore una sicura interpretazione ed esecuzione dei lavori in ogni elemento. La progettazione esecutiva delle strutture e degli impianti deve essere effettuata unitamente alla progettazione esecutiva delle opere civili, allo scopo di dimostrare la piena compatibilità tra progetto architettonico strutturale e impiantistico e prevedere in maniera esatta di ottimizzare le fasi di realizzazione.
Inoltre,
il progetto esecutivo deve essere corredato da un apposito piano di manutenzione dell’opera e delle sue parti, nonché dal cronoprogramma delle lavorazioni, teso a rappresentare graficamente la pianificazione delle lavorazioni gestibili autonomamente, nei suoi principali aspetti dal punto di vista della sequenza logica, dei tempi e dei costi.
In ragione di tali specifici, dettagliati e compiuti adempimenti,
il progetto esecutivo di un’opera pubblica, in particolare per l’ipotesi a giudizio in cui all’impresa era chiesta una mera attività di interpretazione finalizzata alla spedita esecuzione dei lavori, è considerato dalla giurisprudenza come quello immediatamente cantierabile, giacché concernente un’opera che non necessita di ulteriori specificazioni per essere realizzata, dopodiché contenente (o meglio dovendo contenere) la puntuale e dettagliata descrizione e rappresentazione dell’opera stessa: ciò è determinante per individuare esattamente l’oggetto dell’appalto. Cosicché, nei casi in cui sorgano dei dubbi esecutivi, è a questo progetto (nella sua compiutezza di allegati ed elaborati) che occorre fare esclusivo o prevalente riferimento (in tal senso, Corte di Cass., 18.09.2009, n. 20140, id. Cons. di Stato, sez. VI, 09.11.2011, n. 5923).
Di tal ché, incorrerà nella violazione dell’obbligo progettuale il Committente che, per il tramite dei propri tecnici di fiducia, non adempia all’obbligo di predisporre un progetto esecutivo completo in tutti i suoi elementi, indicando anche l’esatta ubicazione dei sotto servizi interferenti (come ad es. l’impianto fognario) e quanto altro necessario per l’immediata risoluzione delle interferenze che potrebbero sopraggiungere.
Orbene, dagli atti di causa emerge la non completezza della progettazione esecutiva, con necessaria definizione di taluni dettagli costruttivi in fase di cantiere, circostanza che non ha reso ineseguibile l’opera, ma ne ha impedito il rispetto del cronoprogramma, con consegna tardiva dei lavori.
In primo luogo,
il Collegio è a rilevare che la delibera di approvazione del progetto dell’08.04.2004 non elenca i documenti facenti parte del progetto esecutivo: di tutta evidenza che una tale modalità non può farsi ricadere sull’organo di governo e di indirizzo politico dell’Ente, bensì sul Responsabile Unico del Procedimento, per le proprie responsabilità di coordinamento e di supervisione correlate all’intera fase di progettazione.
Gli incarichi di affidamento del progetto strutturale (all’Ing. Lu.), dell’impianto idro–termo-sanitario (al P.I. Cr.) e dell’impianto elettrico (al P.I. Ta.) risultano (formalmente) affidati in data successiva all’approvazione del progetto esecutivo (anche se gli stessi potrebbero aver svolto l’incarico prima della relativa formalizzazione); il piano della sicurezza, avente come coordinatore il Geom. Gu.Pa., portava ad es. la data del 09.06.2004, successivo alla presentazione delle offerte, con violazione della corretta procedura dianzi descritta.
I lavori risultano affidati il 25.06.2004, prima dell’aggiudicazione definitiva del 20.07.2004, con obbligo dell’Impresa di “…intraprendere immediatamente gli stessi” (così il P.V. di consegna); il progetto esecutivo, come accertato in sede di collaudo, mancava:
1) della Relazione generale illustrativa delle opere (ex art. 36 del d.P.R. n. 554/1999), tesa “…a descrivere in dettaglio, anche attraverso specifici riferimenti agli elaborati grafici e alle prescrizioni del capitolato speciale di appalto, i criteri utilizzati per le scelte progettuali esecutive, per i particolari costruttivi e per il conseguimento e la verifica dei prescritti livelli di sicurezza e qualitativi”: una tale relazione, del tutto mancante, non può rinvenire valida alternativa nella “Descrizione generale dell’opera” (invocata dai prevenuti) allegata alla relazione di collaudo strutturale predisposta dall’Ing. Ro.Ru. in aprile 2004;
2) I particolari costruttivi dei componenti architettonici e di risoluzione degli aspetti di dettaglio: il richiamo fatto dagli appellati alle Tavole n. 3 “Sezioni”, scala 1:50, 4 “Prospetti est e ovest”, scala 1:50 e 4-bis “Prospetti nord e sud Tribuna, prospetti nord e sud Servizi”, non possono ritenersi probanti per mancanza sulle stesse delle sigle dei progettisti e del timbro della Stazione appaltante;
3) di maggiori dettagli in merito ai collegamenti strutturali;
4) della Relazione di calcolo strutturale e disegni esecutivi delle scale metalliche;
5) del Progetto completo della rete fognaria e dello smaltimento delle acque meteoriche;
6) del Piano di manutenzione dell’opera;
7) del quadro di incidenza percentuale della quantità di mano d’opera per le diverse categorie di cui si compone il lavoro;
8) le scale di rappresentazione degli elaborati non consentivano una immediata lettura degli aspetti costruttivi di dettaglio, rallentando l’esecuzione dei lavori.
In specie, come posto in evidenza in sede di CTU e di Collaudo, riguardo al progetto architettonico, agli impianti elettrici e agli impianti idro-termo-sanitari, tutte le planimetrie sono redatte in scala 1:100, la medesima scala è utilizzata per i prospetti e sezioni dell’architettonico quando normalmente in un progetto esecutivo questo tipo di elaborati grafici sono in scala doppia (1:50).
Il Capitolato poi non prevedeva, a carico della impresa esecutrice, la redazione degli elaborati di dettaglio e l’emissione di elaborati costruttivi; ragione per cui l’eseguibilità delle opere non era possibile se non “…con la costante e continua presenza della D.L. e la fornitura, in corso d’opera, degli elaborati grafici dei particolari non rilevabili sul progetto esecutivo”.
Aspetti, questi, che non possono definirsi, come sostenuto dagli appellati, “generiche affermazioni”, così come l’enunciazione che gli elaborati e gli atti completi del progetto esecutivo siano stati consegnati alla ditta esecutrice, non potrebbe servire ad attestarne obiettivamente la loro completezza, e ciò in ragione della non diligente loro elencazione e certificazione all’atto della consegna stessa.
Relativamente, invece, al rilievo dello stato di fatto con individuazione univoca delle quote di riferimento (di cui lamenta la mancanza il Collaudatore) e della Relazione geologica e geotecnica (non riscontrata agli atti dal C.T.U. in sede di procedimento arbitrale), rileva il Collegio, come correttamente osservato dagli appellati, che essi erano allegati al progetto esecutivo.
Infatti, alla Tavola 5/2 “Particolari costruttivi”, scale varie (allegato n. 10 del fascicolo di primo grado delle parti private), è presente il particolare n. 11 rappresentativo dello stato di fatto antecedente la ristrutturazione con riporto delle altezze rispetto al piano di campagna (piano di calpestio); la relazione geologica di marzo 1994, a firma del dott. Pr.Cl., inizialmente non trasmessa al Collaudatore, benché antecedente di dieci anni, è presente agli atti (doc. 12 del fasc. di parte) ed è stata disaminata dallo stesso in sede di certificato di collaudo statico del 30.03.2009. La relazione di collaudo tecnico–amministrativo era ancora a certificare che nel corso dei lavori non sono state emesse perizie di variante.
Pur tuttavia
le varianti al progetto originario sono state numerose e le modifiche e stralci di lavorazioni non sono mai state formalizzate con ordini di servizio e/o perizie; sono stati, altresì, eseguiti dei lavori non previsti contrattualmente, senza la redazione di alcun verbale di concordamento di nuovi prezzi; non è stato redatto il conto finale a seguito della risoluzione del contratto (la contabilità finale e analitica verrà prodotta dal D.L. dopo tre anni), non sono state formalizzate proroghe o termini suppletivi per le opere variate, per i lavori non previsti contrattualmente, per il superamento dell’importo contrattuale, che obbligava a redigere comunque una perizia tecnica e suppletiva, ove disponibili le somme, per i nuovi lavori ordinati.
Di fatto, il Collaudatore era a riportare, con formalità sintetica, le seguenti modifiche apportate in corso d’opera dal Direttore dei lavori “…con semplice indicazioni delle stesse sul …giornale dei lavori: Cordolo aggiuntivo in fondazione, modifiche dimensionali dei pilastri della tribuna e modifica della relativa armatura, inserimento di due pilastri aggiuntivi nel fabbricato gazebo, in sostituzione di due spallette in muratura, variazione armature di alcune travi in c.a., modifica quote finestrature spogliatoi, riduzione dei gradoni della tribuna e loro variazione dimensionale, finitura del pavimento tribuna, modifiche all’impianto elettrico, realizzazione in copertura gazebo di un torrino in mattoni, apertura di nuova porta”.
Quanto alle opere di fognatura, vale a dire alla rappresentazione grafica del distributivo interno delle tubazioni di scarico e delle grondaie e dei pluviali, completamente omesse nel progetto (anche autonomo, come indicato dagli appellati, ma che necessariamente doveva essere presente e da correlare all’opera nella sua unitarietà ab origine), sono state commissionate solo nel luglio 2005 e avrebbero, quindi, necessitato di apposita perizia di variante con il relativo concordamento sia dei nuovi prezzi che dei nuovi tempi contrattuali, atteso che una tale carenza avrebbe pregiudicato, in tutto o in parte, l’utilizzazione dell’opera.
Il che, senza dilungarsi ulteriormente, dimostra che il progetto esecutivo era originariamente carente e bisognevole di continue integrazioni in itinere, peraltro neanche correttamente formalizzate, con previsione di nuovi tempi contrattuali, che avrebbero di certo legittimato i maggiori tempi impiegati dalla ditta per l’esecuzione dell’opera, poi infondatamente contestati alla stessa da parte dell’Ente committente.
Anche i difetti per le parti di progetto non redatte dagli appellati, e relative alla parte elettrica e a quella concernente gli impianti termo-idrico-sanitari, sono stati motivo del mancato rispetto de cronoprogramma da parte della ditta appaltatrice, difetti che avrebbero dovuto essere prontamente rilevati dal D.L. e dal RUP ancor prima dell’affidamento dei lavori.
E’ per ciò evidente che la condotta della Stazione appaltante, per il tramite dei propri tecnici di fiducia, sia stata gravemente inadempiente, avuto riguardo all’interesse della ditta esecutrice, giacché la mancata predisposizione di elaborati progettuali dettagliati ed esaustivi, quale manifestazione del dovere di collaborazione e cooperazione, non ha posto la ditta nelle condizioni di eseguire l’opera nei tempi contrattuali previsti, rendendo per ciò non possibile l’effettuazione delle prestazioni nei modi e nei tempi programmati.
Pur tuttavia,
il Collegio non può non rilevare, siccome posto in evidenza nella C.T.U. arbitrale, nella relazione di Collaudo e nella memoria di costituzione degli appellati, che l’opera pur con le carenze dianzi esposte è stata ritenuta eseguibile, chiaramente con un impegno dell’impresa maggiore rispetto ai tempi previsti, maggior tempo necessario per la definizione grafica di tutti quegli elementi e particolari non rilevabili dagli elaborati. Di tal ché, non emergeva un grave inadempimento della ditta tale da autorizzare la risoluzione del contratto, mentre era chiara la contraddittorietà della condotta serbata dal comune, per il tramite dei propri tecnici, che hanno ordinato lavori anche dopo la scadenza contrattuale del 19.02.2005.
Da un lato, infatti, con l’ordine di servizio n. 1, del 22.02.2005, la D.L. rilevato che “…i lavori vengono condotti senza il rispetto del programma…e con gravi ritardi…con una scarsa organizzazione del cantiere…”, ordinava di organizzare il cantiere “…non più tardi del giorno 24.02.2005…per la realizzazione delle coperture e dei relativi manti, dell’impianto termo-sanitario, dell’impianto elettrico, gradoni e sistemazioni esterne, rispettando il termine concordato del 25.03.2005 per la fine lavori”; con l’ordine di servizio n. 2, del 01.04.2005, lo stesso Arch. Fe., ribadendo il ritardo nell’esecuzione dei lavori, ordinava all’impresa “…non più tardi del giorno 04.04.2005 di organizzare il cantiere con squadre operative ed autonome composte da almeno da 2 a 4 persone…”, precisando che “…i lavori erano già in ritardo…”.
Dall’altro, tuttavia, risulta definitivamente accertato che, scaduto il termine contrattuale in data 25.03.2005, la D.L., successivamente ai due ordini di servizio dianzi richiamati, ha disposto e concordato con l’appaltatrice una serie di lavorazioni di cui è traccia nella CTU arbitrale. Di tal ché, dagli atti emergeva che la Stazione appaltante per tutta la durata del rapporto contrattuale e, comunque, almeno fino al termine di luglio 2005, aveva optato per l’esecuzione tardiva dei lavori e non per la risoluzione contrattuale, sostanziandosi così tale condotta in una tolleranza del ritardo nell’ultimazione dei lavori, “…tanto da impiegare la prolungata permanenza in cantiere dell’impresa per l’esecuzione non solo di lavorazioni di ripristino e rifinitura, ma anche di opere non contrattualmente previste”.
Se a ciò si aggiunge che alla data di risoluzione contrattuale, il D.L. ha riconosciuto il superamento dell’importo dell’appalto e ha stimato, nella relativa parziale contabilità, lavori di completamento per € 10.500,00, a fronte di lavori eseguiti per € 509.105,73, appare francamente difficile poter configurare quella gravità dell’inadempimento tale da giustificare la risoluzione del contratto.
In conclusione, è stata solo la grave negligenza ed avventatezza degli odierni prevenuti, ognuno nel ruolo ad essi affidato dall’Ente, a consentire che gravi carenze progettuali si traducessero in violazioni del cronoprogramma nella consegna dell’opera.
Una più accurata attenzione degli stessi nel corso dell’intervento e nella formalizzazione delle richieste, una maggiore diligenza nell’annotazione sul giornale dei lavori dei mezzi e delle maestranze presenti in cantiere, avrebbe permesso di dimostrare documentalmente anche la grave (concorrente) negligenza dell’appaltatore, sotto forma di deficienza organizzativa del cantiere. Così, invece, non è stato e sulla Stazione appaltante, a ragione delle condotte tenute dai propri tecnici, sono ricadute le conseguenze per spese non utili, che, almeno in parte, potevano evitarsi facendo prudenziale uso delle proprie professionalità.
Il Collegio, infatti, ritiene disutile per l’Ente committente non l’intero importo contestato dal Requirente, bensì le somme per interessi, pari ad € 18.312,57, alle quali poteva ovviarsi pagando alla Ditta esecutrice le somme dovute per i lavori già eseguiti (come certificate nella contabilità del D.L. e nella C.T.U.), e l’importo di € 33.048,00, per spese di consulenza legale, onere che l’Ente poteva ragionevolmente evitare sollecitando un approfondimento dei fatti della vicenda arbitrale da parte del proprio Ufficio tecnico del tempo. Di tal ché, il danno, causalmente riconducibile all’avventatezza comportamentale dei predetti appellati, è pari ad € 51.360,57.
In ragione poi della circostanza che parte della documentazione ritenuta mancante era presente, dei precedenti di carriera degli incolpati, delle loro condizioni economiche, evidenziate nelle comparse di costituzione e risposta, del fatto che comunque la pretesa patrimoniale avanzata dall’impresa non è stata riconosciuta per l’intero, la Corte, in applicazione del potere di riduzione, ravvisa di dovere imputare all’Arch. Fe.Gi. e al Geom. Am.Lu. l’importo di € 15.000,00 (euro quindicimila/,00) cadauno, comprensivo di rivalutazione monetaria, da ristorare in favore del comune di Castelnuovo Rangone (MO), oltre interessi di legge dal 29.03.2013 (di deposito della sentenza di prime cure) e sino all’effettivo soddisfo.
In questi termini l’appello merita accoglimento e la sentenza n. 42/2013, della Sezione giurisdizionale per l’Emilia Romagna è da riformare.
Alla soccombenza seguono le spese del doppio grado del giudizio da liquidarsi come da dispositivo.

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: OSSERVATORIO VIMINALE/ Oneri, decide il consiglio. Contributi urbanistici, assemblea competente. Non conta la natura effettiva (patrimoniale o tributaria) della prestazione.
È il consiglio comunale o la giunta l'organo competente alla determinazione/adeguamento degli oneri di urbanizzazione?

L'art. 42 del decreto legislativo n. 267/2000 stabilisce che il consiglio è l'organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo, a cui sono attribuite una serie di competenze elencate in dettaglio nella stessa disposizione normativa.
In particolare, la lettera b) prevede in linea generale la competenza del consiglio in materia di programmi, bilanci, piani territoriali e urbanistici ecc., mentre la lett. f) assegna a tale organo competenze in materia di istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote e la disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi.
La giunta comunale, a cui sono assegnate funzioni di tipo esecutivo-attuativo, in base al successivo art. 48, comma 2, compie tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o degli organi di decentramento; collabora con il sindaco nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio; riferisce annualmente al consiglio sulla propria attività e svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso.
In merito alla fattispecie in esame, il dpr 06.06.2001, n. 380, all'art. 16, comma 4, prevede espressamente che l'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione a una serie di parametri ivi indicati.
Il comma 5 del citato art. 16 stabilisce, altresì, che nel caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da parte della regione e fino alla definizione delle tabelle stesse, i comuni provvedono, in via provvisoria, sempre con deliberazione del consiglio comunale secondo i parametri di cui al comma 4, fermo restando quanto previsto dal comma 4-bis. Appare pacifico, dunque, che la competenza a determinare gli oneri di urbanizzazione ricada esclusivamente sul consiglio comunale.
Riguardo agli aggiornamenti degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, il comma 6 del medesimo art. 16 del dpr 06.06.2001, n. 380, si limita a stabilire che i «comuni» provvedono ogni cinque anni, in conformità alle relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale. Il Consiglio di Stato con sentenza n. 7140/05 del 15.12.2005 ha affermato che «il contributo per il rilascio del permesso di costruire imposto dall'art. 16 del dpr 06.06.2001, n. 380 e commisurato agli oneri di urbanizzazione, ha carattere generale perché prescinde totalmente dall'esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione e ha natura di prestazione patrimoniale imposta». Lo stesso Consesso ha citato altresì, per la natura tributaria di tale prestazione, la decisione del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Siciliana 05.05.1999, n. 203.
Pertanto, benché la giurisprudenza non risulti sempre univoca nell'individuare l'organo a cui compete l'adozione della deliberazione di adeguamento degli oneri urbanistici, indipendentemente dalla effettiva natura della prestazione (patrimoniale o tributaria) la competenza non può non essere ricondotta al consiglio comunale. Infatti, l'articolo 42 del Tuel affida al consiglio la competenza in ordine a tributi e tariffe ed esercita l'ipotetica discrezionalità, laddove venga riconosciuta dalla legge, che non può essere demandata a un organo esecutivo quale la giunta.
Nel caso specifico, la competenza all'aggiornamento degli oneri di urbanizzazione dovrebbe, comunque, essere ricondotta al consiglio anche per coerenza sistematica alle varie disposizioni contenute nell'articolo 16 del dpr n. 380/2001 che al comma 4 e al comma 5 affidano al consiglio comunale il compito di determinarne l'incidenza (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).

ENTI LOCALI: La concessione di contributi economici agli enti no profit.
DOMANDA:
L’Amministrazione Comunale da diversi anni sostiene, anche finanziariamente, le iniziative di rilevanza sociale, culturale, educativa, socio-sanitaria, promosse da Associazioni e altri soggetti del terzo settore e volte a migliorare la qualità della vita e a sviluppare il benessere sociale. Ciò in applicazione del principio costituzionale di sussidiarietà che stimola l’attivazione di risorse progettuali anche di natura privatistica per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico.
A tal fine si provvede alla concessione di contributi economici, di entità ridotta a organismi no profit, che propongono progetti sociali significativi, spesso di carattere innovativo, mettendo a disposizione proprie risorse economiche, umane e strumentali; trattasi di progetti che il Comune non potrebbe realizzare senza l’apporto concreto del terzo settore.
La concessione dei contributi avviene in linea con gli indirizzi contenuti nel DUP allegato al Bilancio di previsione comunale di riferimento e alle condizioni e nei termini stabiliti dall’apposito Regolamento Comunale per la concessione di contributi alle libere forme associative approvato ai sensi della Legge 241/1990.
Tanto precisato, alla luce delle recenti determinazioni dell’ANAC si ravvisa l’opportunità di chiedere un parere circa la possibilità di continuare a finanziare senza indizione di procedure selettive pubbliche e con contributi generalmente di modesta entità (di norma inferiore a € 1.000,00 e comunque entro il limite di € 10.000,00), progetti innovativi di rilevante interesse pubblico promossi da organismi no profit che mettono a disposizione proprie risorse nell’ottica della sussidiarietà.
Ciò in quanto la concessione dei contributi viene regolarmente effettuata nella piena osservanza delle vigenti disposizioni legislative regolamentari.
RISPOSTA:
In merito alla tematica prospettata occorre partire dalla determinazione 20.01.2016 n. 32 dell'Anac, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 06.02.2016, n. 30, contenente le linee guida per l'affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali, nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale in materia di contratti pubblici e di prevenzione della corruzione.
Ai sensi dell'articolo 1, comma 16, della legge 190/2012 la
«concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati» è considerata un processo amministrativo ad alto rischio di corruzione. La norma si scontra con la prassi di assegnare contributi e sovvenzioni «ad personam», da parte degli organi di governo, senza una procedura realmente selettiva.
Sul punto, la delibera 32/2016 dell'Anac è chiara: «L'attribuzione di vantaggi economici, sebbene non regolata dal Codice dei contratti, è sottoposta comunque a regole di trasparenza e imparzialità; pertanto deve essere preceduta da adeguate forme di pubblicità e avvenire in esito a procedure competitive». Le amministrazioni devono procedere in osservanza delle indicazioni fornite dall’art. 12 della l. 07.08.1990 n. 241, che subordina la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualsiasi genere a persone, enti pubblici e privati alla predeterminazione dei criteri e delle modalità di erogazione dei benefici.
Inoltre, l'Anac suggerisce gli strumenti organizzativi, indicando che le amministrazioni debbono individuare preventivamente gli ambiti di intervento; gli obiettivi da perseguire; le categorie dei beneficiari; la natura e la misura dei contributi da erogare; il procedimento da seguire (con l'indicazione di modalità e termini per presentare le istanze); i criteri di valutazione delle richieste per la scelta dei beneficiari, redatti in modo tale da rispettare i principi di libera concorrenza e parità di trattamento; infine, le azioni per controllare che i contributi siano effettivamente impiegati per le finalità previste.
Ai fini dell'erogazione di contributi occorre -secondo le linee guida- porre in essere procedure «para concorsuali», in tutto assimilabili a quelle di gara, regolate dal codice dei contratti. La delibera inoltre, richiamando la determinazione dell'ex Avcp 07.07.2011, n. 4, sulla disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari di cui alla legge 136/2010, afferma che tale disciplina debba applicarsi non solo agli appalti di servizi, ma anche alle sovvenzione in favore dei soggetti del terzo settore.
Le amministrazioni, dunque, alla luce della delibera Anac 32/2016 debbono rivedere tutto il sistema di regolazione dell'erogazione dei contributi ai soggetti del terzo settore, ivi comprese anche le discipline sugli organi competenti a gestire le procedure selettive e ad adottare i provvedimenti finali - attività gestionale, di competenza non più degli organi di governo, ma dei dirigenti o responsabili di servizi.
Non prevedendo le indicazioni Anac limiti di valore per l'applicazione dei principi di concorrenza, si ritiene che sarebbe più prudente, per l'amministrazione, procedere alla concessione dei contributi non solo nei termini stabiliti dall’apposito Regolamento Comunale approvato ai sensi della Legge 241/1990, ma anche garantendo un adeguato livello di pubblicità che consenta l’apertura dell'erogazione dei contributi alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle relative procedure.
La stessa, inoltre, è tenuta alla corretta applicazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione di cui alla l. 190/2012, con particolare riferimento agli obblighi di pubblicazione previsti agli artt. 15, 16 e 32 in relazione ai provvedimenti di erogazione di sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Obbligo di astensione degli amministratori comunali. Deliberazione di adozione di una variante allo strumento urbanistico.
Nel caso di consigliere comunale nominato dal sindaco, in rappresentanza dell'Ente locale, quale componente del consiglio di amministrazione di una fondazione privata, si ritiene che non venga in rilievo l'obbligo di astensione di cui all'articolo 78 TUEL in relazione ad una delibera di approvazione di una variante allo strumento urbanistico afferente un complesso immobiliare di proprietà dell'ente privato, atteso che l'amministratore locale è comunque portatore degli interessi del Comune.
Il Comune chiede un parere in merito alla sussistenza dell'obbligo di astensione di due consiglieri comunali, in relazione ad una delibera di approvazione di una variante allo strumento urbanistico generale afferente, tra l'altro, un complesso immobiliare di proprietà di una fondazione privata del cui consiglio di amministrazione fanno parte gli indicati amministratori.
Lo statuto della fondazione prevede che il sindaco nomini i componenti del consiglio di amministrazione, tra i quali un rappresentante del Comune stesso. Pertanto, l'Ente mette in evidenza il fatto che uno dei due amministratori, diversamente dall'altro, ricopre la carica in seno alla fondazione in qualità di rappresentante del Comune presso cui esercita il proprio mandato elettivo.
L'articolo 78, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce che gli amministratori locali 'devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.'
L'obbligo di astensione trova il suo fondamento nel principio costituzionale di imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La giurisprudenza sul tema dell'obbligo di astensione per conflitto di interessi da parte dei soggetti appartenenti ad organi collegiali ha chiarito come lo stesso ricorra per il solo fatto che essi siano portatori di interessi personali che possano trovarsi in posizione di conflittualità, ovvero anche solo di divergenza, rispetto a quello generale, affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte.
[1]
Con riferimento specifico all'approvazione dei provvedimenti normativi o di carattere generale, la norma ha disciplinato l'obbligo di astensione in modo tale che la sua violazione possa verificarsi solo in presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dell'amministratore (o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse genericamente non definito.
La giurisprudenza ha, comunque, affermato che: 'L'obbligo di astensione che incombe sugli amministratori comunali in sede di adozione (e di approvazione) di atti di pianificazione urbanistica sorge per il solo fatto che, considerando lo strumento stesso l'area alla quale l'amministratore è interessato, si determini il conflitto di interessi, a nulla rilevando il fine specifico di realizzare l'interesse privato e/o il concreto pregiudizio dell'amministrazione pubblica'.
[2]
Il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento, nel richiamare la suindicata giurisprudenza, ha altresì affermato come la stessa sia concorde nel ritenere che il dovere di astensione sussista in tutti i casi in cui gli amministratori versino in situazioni, anche potenzialmente, idonee a porre in pericolo la loro assoluta imparzialità e serenità di giudizio.
[3]
Con particolare riferimento alla fattispecie in esame preme appurare se l'obbligo di astensione sussista nell'ipotesi in cui l'interesse dell'amministratore comunale non sia strettamente personale e privato, in quanto persona fisica, ma lo riguardi in quanto proprio della persona giuridica dallo stesso amministrata. Per dare risposta a tale quesito si ritiene necessario scindere la posizione rivestita dai due consiglieri comunali in seno al consiglio di amministrazione della fondazione.
Quanto al soggetto che è stato nominato dal sindaco quale rappresentante del Comune in seno al consiglio di amministrazione della fondazione, si ritiene che non venga in rilievo l'obbligo di astensione di cui all'articolo 78 TUEL. Lo stesso, infatti, ricopre tale carica proprio in ragione del mandato di amministratore comunale ed è portatore degli interessi dell'Ente nell'ambito dell'organo amministrativo della fondazione. In altri termini, il consigliere comunale non ha alcun interesse ad un risultato della deliberazione in luogo di un altro, atteso che egli è portatore di interessi pubblici, gli unici che rilevano quando egli esercita il mandato elettivo e copre cariche attinenti allo stesso.
[4]
A diverse conclusioni pare doversi pervenire in relazione al ruolo rivestito dall'altro amministratore comunale.
Dall'analisi della giurisprudenza più recente pare risultare prevalente l'orientamento che ravvisa la sussistenza dell'obbligo di astensione in capo agli amministratori locali che rivestono la carica di rappresentanti legali di enti interessati dalla delibera che il Comune deve assumere.
[5]
Anche l'Anci, in una fattispecie riguardante la concessione in comodato da parte del Comune di un proprio immobile, ad un'associazione sportiva, il cui vicepresidente è il figlio del vicesindaco, ha affermato la necessità che quest'ultimo non prenda parte agli atti deliberativi comunque connessi direttamente o indirettamente con la concessione.
[6]
Per completezza espositiva non può, tuttavia, sottacersi l'esistenza di un diverso orientamento secondo cui l'obbligo di astensione non opera nei casi in cui l'amministratore comunale risulta portatore di un interesse non proprio, personale e privato, bensì dell'ente dallo stesso rappresentato. Si tratta, giova precisarlo, di casi in cui viene in rilievo l'obbligo di astensione dell'amministratore locale che sia componente dell'organo di amministrazione di un ente che persegue finalità di pubblico interesse.
[7]
---------------
[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.06.2008, n. 2970.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 26.05.2003, n. 2826. Di recente, si vedano TAR Puglia, Lecce, sez. III, sentenza del 19.03.2014, n. 804 e Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.01.2011, n. 693.
[3] Ministero dell'Interno, pareri del 03.06.2008, del 22.04.2008 e del 31.10.2007.
[4] Così ANCI, parere del 03.01.2003. Negli stessi termini si è espresso questo Ufficio nel parere del 24.09.2008 (prot. n. 14458).
[5] Si veda TAR Veneto, sez. II, sentenza del 27.01.2015, n. 92 che ha ravvisato sussistere un obbligo di astensione in capo al consigliere comunale che sia, altresì, Presidente di un organismo di natura consortile a base territoriale facente capo ad un gruppo di famiglie locali (Consorzio), relativamente ad una delibera di approvazione di una variante urbanistica che riguardava un'area di proprietà del Consorzio stesso. Ancora, TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza dell'08.07.2014, n. 850 che ha ritenuto essere illegittima, per violazione dell'articolo 78 TUEL, una delibera con la quale il consiglio comunale ha approvato il regolamento per l'insediamento e l'esercizio di autorimesse di automezzi e autoveicoli nel territorio comunale, nel caso in cui alla relativa votazione abbia partecipato un Assessore che rivesta la carica di rappresentante legale di una società operante nel medesimo settore. Nello stesso senso, TAR Abruzzo, l'Aquila, sez. I, sentenza del 19.03.2014, n. 261 la quale ha rilevato sussistere una diretta correlazione tra l'oggetto della deliberazione consiliare (con cui si era proceduti alla riclassificazione urbanistica di un'area attribuendole una destinazione che non contemplava la possibilità di interventi edilizi afferenti la realizzazione di una struttura alberghiera) e l'attività gestita dalla società di cui il consigliere è socio. Da ultimo, TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, sentenza del 27.05.2009, n. 785 che ha ritenuto essere illegittima la delibera consiliare di approvazione del piano di utilizzo del litorale (P.U.L.) adottata con la partecipazione al voto di un consigliere che era, altresì, amministratore unico della cooperativa titolare di una concessione demaniale in località in cui il PUL prevedeva un unico punto di ristoro.
[6] ANCI, parere del 03.0.2013. Nello stesso senso si veda, anche, il parere del 28.03.2013.
[7] In questo senso si riporta una pronuncia del giudice amministrativo lombardo (TAR Lombardia, Brescia, sentenza del 21.10.1997, n. 912) la quale afferma: 'L'interesse che determina l'incompatibilità, e quindi l'obbligo di astensione, in capo ad un consigliere comunale deve essere personale e diretto, come tale ben differente da quello che inerisce all'appartenenza del consigliere al consiglio di amministrazione di una I.p.a.b., essendo quest'ultima titolare di un munus publicum esclusivamente preordinato alla cura degli interessi dell'Opera pia senza alcun coinvolgimento personale e diretto della sua sfera soggettiva'. In questo senso si veda, anche, Corte dei Conti, reg. Molise, sez. giurisdiz., 07.03.2005, n. 10 la quale ha ritenuto che: 'In ipotesi di erogazione di contributi ad associazione il cui presidente sia legato da rapporto di coniugio con il sindaco, quest'ultimo non è obbligato all'astensione ai sensi dell'art. 78, comma 2, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, atteso che la contribuzione è stata concessa non già alla di lui consorte, bensì ad un soggetto giuridico da essa distinto ed autonomo, ed essendo finalizzata non alla soddisfazione di interessi personali, bensì al conseguimento di finalità di interesse pubblico'
(19.04.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Oneri per la gestione e le riparazioni di orologi posizionati sui campanili delle chiese.
Non rinvenendosi alcuna disposizione che ponga a carico del bilancio dell'ente locale le spese per la gestione e le riparazioni di orologi posizionati sui campanili delle chiese di proprietà della curia o delle parrocchie, si ritiene che detti oneri gravino sul soggetto proprietario del bene.
Il Comune chiede di conoscere se la gestione e le riparazioni degli orologi posizionati sui campanili delle chiese di proprietà della curia o delle parrocchie sia di competenza comunale ed, in caso affermativo, in base a quale disposizione normativa.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
Poiché non si è rinvenuta alcuna norma che ponga a carico del bilancio dell'ente locale le spese per gli interventi oggetto di quesito, la questione va risolta considerando che gli oneri di gestione e di manutenzione gravano, di regola, sul soggetto proprietario del bene
[1], così come accade nell'ipotesi in cui orologi posizionati all'interno dei campanili (in quanto 'torri civiche') siano di proprietà comunale.
Ciò posto si segnala, per completezza, che la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Lombardia
[2], esprimendosi in merito all'ammissibilità, o meno, per il Comune di procedere ad attribuzioni patrimoniali [3] a terzi soggetti, presenti sul territorio comunale, «in una fattispecie che esula dalla specifica previsione di legge», premesso che si tratta di valutazione di esclusiva competenza dell'amministrazione locale, richiama l'ente «all'osservanza del principio generale per cui l'attribuzione patrimoniale è da considerarsi lecita solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata sul territorio sul quale insiste il Comune, anche, in via meramente esemplificativa, di carattere artistico, culturale o economico», precisando che «In ogni caso, l'eventuale attribuzione dovrà essere conforme al principio di congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell'ente locale» e che «In caso contrario, l'attribuzione non troverebbe alcuna giustificazione».
---------------
[1] Un'indiretta conferma si rinviene nelle previsioni contenute nell'art. 2 del decreto del Presidente della Regione 19.08.2015, n. 0165/Pres. («Regolamento recante criteri e modalità per la concessione dei contributi per complessi seminariali diocesani, istituti di istruzione religiosa, opere di culto e di ministero religioso previsti dall'articolo 7-ter della legge regionale 07.03.1983, n. 20») -interventi nell'ambito dei quali risultano finanziati lavori di restauro, manutenzione e completamento di campanili- il quale dispone che «Possono beneficiare dei contributi di cui al presente regolamento le parrocchie e altri enti ecclesiastici cattolici o di altre confessioni religiose riconosciute dallo Stato italiano, con le quali sono state stipulate intese approvate con legge, nonché enti pubblici e privati proprietari o titolari di altro diritto che costituisca titolo ad eseguire gli interventi sugli edifici di cui all'articolo 1.».
[2] V. pareri 31.05.2012, n. 262 e 11.09.2015, n. 279.
[3] Attinenti, in entrambi i casi esaminati, al patrimonio immobiliare
(12.04.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

LAVORI PUBBLICI: Parere in merito all'interpretazione dell'art. 338, comma 5, del R.D. 1265/1934 con riferimento alla realizzazione di un'opera pubblica ad una distanza inferiore ai 50 metri dal cimitero - Città metropolitana di Roma Capitale (Regione Lazio, parere 05.04.2016 n. 176096 di prot.).

URBANISTICA: Parere in merito alla divisione ereditaria di edifici ricadenti in zona agricola come causa di esclusione della lottizzazione abusiva – Comune di Cisterna di Latina (Regione Lazio, parere 05.04.2016 n. 176009 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito all'interpretazione dell'art. 8, comma 3, del d.P.R. 160/2010 in tema di esclusione delle procedure afferenti le strutture di vendita di cui agli artt. 8 e 9 del d.lgs. 114/1998 (Ministero dello Sviluppo Economico, parere 21.03.2016 n. 78743 di prot.).

NEWS

APPALTI: Solo i mini-acquisti possono evitare la programmazione. Appalti. Le conseguenze operative del nuovo Codice.
Le amministrazioni pubbliche devono adottare il programma delle acquisizioni, che si compone del programma biennale degli acquisti di beni e servizi e del programma triennale dei lavori pubblici, da redigere in coerenza con i documenti programmatori e con il bilancio.
L’articolo 21 del nuovo Codice degli appalti rende obbligatoria la programmazione biennale degli acquisti di beni e servizi di importo unitario pari o superiore a 40mila euro, e il relativo aggiornamento annuale. Nell’ambito del programma dei beni e servizi le amministrazioni sono tenute a individuare i bisogni che possono essere soddisfatti con capitali privati. Inoltre, entro il mese di ottobre gli enti devono comunicare al tavolo dei soggetti aggregatori gli acquisti di valore superiore a un milione di euro per i quali si prevede l’inserimento nel programma biennale. Per i beni e servizi informatici, le amministrazioni devono tener conto del Piano triennale per l’informatica elaborato dall’Agid (comma 513 della legge 208/2015).
La programmazione triennale dei lavori pubblici richiede l’inserimento anche delle opere pubbliche incompiute, ai fini del loro completamento o per l’individuazione di soluzioni alternative quali il riutilizzo, anche ridimensionato, la cessione a titolo di corrispettivo per la realizzazione di altra opera pubblica, la vendita o la demolizione.
Il programma triennale dei lavori pubblici e i relativi aggiornamenti annuali contengono i lavori il cui valore stimato sia pari o superiore a 100mila euro e indicano, previa attribuzione del codice unico di progetto (articolo 11 della legge 3/2016), i lavori da avviare nella prima annualità, per i quali devono essere riportate le fonti di finanziamento stanziate in bilancio (compresi i beni immobili che possono essere oggetto di cessione) o disponibili in base a contributi o risorse dello Stato, delle regioni a statuto ordinario o di altri enti pubblici. Sono, altresì, indicati nel programma dei lavori pubblici i beni immobili nella propria disponibilità concessi in diritto di godimento, a titolo di contributo, la cui utilizzazione sia strumentale e tecnicamente connessa all’opera da affidare in concessione.
Il programma dei lavori comprende anche gli interventi complessi e quelli suscettibili di essere realizzati attraverso contratti di concessione o di partenariato pubblico privato.
In base all’articolo 21, comma 8, del nuovo Codice, un decreto del ministro delle Infrastrutture dovrà definire entro 90 giorni le modalità di aggiornamento dei programmi e degli elenchi annuali, i criteri per la definizione degli ordini di priorità, per l’eventuale suddivisione in lotti funzionali e le condizioni che consentano di modificare la programmazione e di realizzare un intervento o procedere a un acquisto non previsto nell’elenco annuale.
Nel periodo transitorio, fino all’entrata in vigore del decreto, le amministrazioni fanno riferimento agli atti di programmazione già adottati ed efficaci, all’interno dei quali individuano un ordine di priorità degli interventi, tenendo comunque conto delle opere non completate e già avviate sulla base della programmazione triennale precedente, dei progetti esecutivi già approvati e dei lavori di manutenzione e recupero del patrimonio esistente, nonché degli interventi suscettibili di essere realizzati attraverso contratti di concessione o di partenariato pubblico privato.
Le stesse modalità valgono per le nuove programmazioni che si rendano necessarie prima dell’adozione del decreto
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2016).

APPALTI: Per le commissioni giudicatrici nomine trasparenti e a rotazione. Valutazione. Le regole transitorie.
Le stazioni appaltanti devono regolamentare alcuni aspetti organizzativi e procedurali prima di poter attuare il nuovo Codice dei contratti pubblici, in attesa dei provvedimenti attuativi.

L’articolo 216 del Dlgs 50/2016 individua un’ampia serie di norme transitorie che, in alcuni casi, obbligano gli enti a porre in essere una specifica disciplina, destinata a valere fino al momento in cui il ministero delle infrastrutture o l’Anac adotteranno decreti e linee-guida regolative.
Il primo e più importante adempimento è la definizione, da parte di ogni amministrazione, di regole per la nomina della commissione giudicatrice, in attesa della disciplina Anac dell’albo degli esperti.
La composizione dell’organo di valutazione nelle gare con il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa deve essere disciplinata secondo criteri di competenza (connessi all’esperienza nel settore dell’appalto da valutare) e di trasparenza e, per quanto possibile, tenendo conto del principio di rotazione dei componenti (novità portata dall’articolo 77). Le stazioni appaltanti che hanno nel proprio regolamento dei contratti disposizioni compatibili con questo sistema non hanno necessità di un ulteriore intervento, mentre quelle che non ne dispongono devono adottare norme regolamentari ad hoc.
Il secondo punto critico sul quale le amministrazioni devono intervenire con una regolamentazione-ponte è all’articolo 216, comma 9, del Codice, nel quale si stabilisce che, fino all’adozione delle linee-guida sulle indagini di mercato e la formazione degli elenchi degli operatori economici da invitare alle procedure negoziate sottosoglia, le amministrazioni possono procedere alla selezione preliminare con due modalità.
La prima è la pubblicazione di un avviso pubblico sul sito della stazione appaltante (profilo del committente), che deve restare online per almeno 15 giorni e deve contenere i requisiti che gli operatori devono dimostrare nella loro manifestazione d’interesse.
Più volte, in passato, l’Anac ha precisato che questa soluzione comporta anche un altro obbligo (non dettato, però, dalla norma), che si sostanzia nella definizione nell’avviso dei criteri in base ai quali l’amministrazione sceglierà il numero prescelto di soggetti da invitare. Le amministrazioni possono continuare a utilizzare elenchi di operatori economici già formati, ma solo a condizione che siano stati predisposti nel rispetto di principi compatibili con il codice.
Anche in tal caso è necessario fare riferimento a soluzioni delineate in passato dall’autorità di vigilanza per poter individuare i parametri di compatibilità. In tal senso, gli elenchi di operatori da invitare devono essere costituiti sulla base di un avviso pubblico, dovendosi quindi escludere gli elenchi costituiti sulla base di rappresentazioni di disponibilità spontanee da parte degli operatori.
In secondo luogo, gli elenchi devono essere sempre aperti a iscrizioni di nuovi operatori e deve essere regolamentato il metodo con cui sono individuati gli operatori da invitare.
Sia nel caso delle indagini di mercato sia in quello degli elenchi, la selezione dei soggetti da invitare dovrà avvenire nel rispetto del principio di rotazione, rafforzato come regola di fondo dall’articolo 36 del Codice per consentire un adeguato numero di chance agli operatori economici
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Riforma Madia, la mappa delle novità. Dalla trasparenza al decreto taglia-tempi, in arrivo i correttivi alle misure approvate a gennaio.
Addio al silenzio-rifiuto sulla trasparenza, sanzioni differenziate contro l’assenteismo, più concorrenza nelle società partecipate, più apertura agli operatori per il Codice dell’amministrazione digitale.
Testi sotto esame
La riforma della Pubblica amministrazione targata Marianna Madia sta per passare dalla fase del cantiere a quella dell’applicazione pratica, dopo che il primo dei decreti attuativi ha superato mercoledì scorso il passaggio alla Camera e al Senato ed è pronto per l’approvazione definitiva in uno dei prossimi Consigli dei ministri.
Il decreto, che rappresenta uno dei manifesti della riforma e punta a introdurre anche da noi la trasparenza del freedom of Information Act di stampo anglosassone (Schema di decreto legislativo recante “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”), ritorna però a Palazzo Chigi parecchio cambiato rispetto a quando ne era uscito tre mesi fa, e la stessa evoluzione potrebbe caratterizzare molti degli altri dieci provvedimenti che traducono in pratica la prima parte della riforma.
I cambiamenti, va detto subito, sono in larga parte migliorativi e nascono da una serie di esami che tra Consiglio di Stato, tavoli di confronto con gli enti territoriali e Parlamento sono stati tutt’altro che formali. Tutte queste modifiche, alcune già in via di accoglimento e altre in discussione, segnalano però che i testi usciti dagli uffici dei ministeri si sono rivelati zoppicanti in più punti.
Trasparenza difficile
Proprio il decreto sulla trasparenza, etichettato con l’acronimo Foia per rivendicarne l’ispirazione ai modelli internazionali più avanzati in fatto di Pa come «casa di vetro», riassume perfettamente i termini del problema. Per ottenere i dati anche senza essere direttamente coinvolti nel procedimento come richiede il vecchio diritto d’accesso, in base al testo approvato in prima lettura dal governo i cittadini avrebbero dovuto indicare con precisione l’elenco dei documenti in questione e pagare all’ufficio pubblico il costo sostenuto per produrli.
L’ufficio, poi, avrebbe potuto scegliere semplicemente di non rispondere, senza spiegare nemmeno il perché, e a quel punto l’interessato avrebbe potuto solo rivolgersi al Tar, rimettendo mano al portafoglio. Contro questo meccanismo inglese nel nome ma italianissimo nei fatti si sono subito ribellati gli esperti del settore e i tifosi della trasparenza reale, in particolare le 30 associazioni riunite nel cartello del Foia4Italy, ma anche l’Autorità anticorruzione, i giudici amministrativi e le commissioni parlamentari hanno suonato la stessa musica.
L’elenco dei correttivi è lungo, punta a cancellare il silenzio-rifiuto, tagliare i costi a carico dei cittadini e ridurre le eccezioni agli obblighi di trasparenza, e la stessa ministra della Pa e della semplificazione, Marianna Madia, ha chiarito subito di essere d’accordo e di proporre le novità al Consiglio dei ministri.
I rischi dell’anti-assenteismo
Per il risultato finale non ci vorrà molto, mentre si annuncia meno liscia la navigazione di un altro provvedimento “da titolo”, quello che ha messo nel mirino gli assenteisti della pubblica amministrazione
(Schema di decreto legislativo recante modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul licenziamento disciplinare - Atto del Governo n. 292 sottoposto a parere parlamentare).
Giusto giovedì scorso, giorno dell’ennesimo caso di certificati medici di gruppo esploso a Roma (questa volta ha riguardato però una partecipata comunale, l’azienda dei trasporti), la ministra Madia l’ha rilanciato, spiegando che con il decreto in vigore per le “assenze di gruppo” non ci sarà più spazio.
Anche su questo testo, però, le obiezioni piovute non sono poche e si rincorrono tra il Consiglio di Stato e i dossier preparati dai tecnici di Camera e Senato per i pareri parlamentari. In particolare, non è piaciuta l’idea di affibbiare la stessa sanzione, il licenziamento, sia al dipendente assenteista sia al dirigente che non lo controlla, con un evidente problema di proporzioni fra il comportamento e la contromisura, e nemmeno quella di calcolare il danno all’immagine, che in caso di condanna l’assenteista deve risarcire, anche sulla base della «rilevanza mediatica» del caso.
Più di un’incognita è legata però anche ai tempi stretti imposti per contestare le assenze, anche perché la mancata prontezza degli uffici potrebbe dare carte insperate al dipendente infedele. Forse quello dei tempi è un problema genetico del provvedimento, nato per rispondere a stretto giro al caso Sanremo con una fretta che forse non ha aiutato la precisione.
Il nodo del personale
Sempre in fatto di calendario, sul taglia-tempi alle autorizzazioni per le imprese e le infrastrutture strategiche, invece, a rivendicare le prime “vittorie” possono essere le Regioni, ma la questione è più complessa rispetto a una semplice replica dello scontro appena andato in scena con il referendum.
Il Consiglio di Stato, è vero, ha di fatto spiegato che anche per i progetti «di interesse nazionale» serve l’intesa con le Regioni, altrimenti si va contro la Costituzione (un po’ su tutte le materie, almeno finché resta in vigore il Titolo V di oggi). L’obiettivo esplicito dei giudici è quello di garantire davvero il taglio dei tempi evocato dal decreto, che paradossalmente potrebbe invece complicare la situazione introducendo meccanismi che non funzionano.
Su questo piano pratico si muove l’altra incognita: il decreto prevede di dimezzare i tempi delle autorizzazioni e commissariare gli enti che ritardano, ma chiede di fatto al personale di gestire questi commissariamenti nei ritagli di tempo, senza incentivi economici né alleggerimenti dei compiti ordinari. Così, spiegano in sintesi i giudici amministrativi, non può funzionare.
Il rischio, altrimenti, è quello di innescare la stessa dinamica che si è attivata per la Conferenza dei servizi, dal 1990 a oggi riformata praticamente da tutti i governi senza però ottenere un risultato definitivo, visto che anche la delega Madia interviene sul punto, così come accade per la Scia. In entrambi i casi, le chance di successo passano non solo dalla correttezza del testo, ma dal suo “accompagnamento” con la formazione del personale e un monitoraggio strutturale sui problemi operativi che emergeranno. L’alternativa è tornare fra pochi anni a sedersi attorno a un tavolo per scrivere un’altra riforma.
Riforme continue
Proprio questo, infatti, è il rischio principale che si corre quando si scrive una regola senza valutare fino in fondo i suoi risvolti pratici.
Per il nuovo Codice dell’amministrazione digitale (Schema di decreto legislativo recante “modifiche e integrazioni al Codice dell’Amministrazione Digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche”), altro decreto attuativo della riforma Madia che tocca le corde dell’innovazione, le modifiche rispetto al testo passato sul tavolo del Consiglio dei ministri sono praticamente obbligate, perché in questo caso il Consiglio di Stato ha di fatto fermato la macchina del provvedimento in attesa di novità dal governo. Il punto più critico è quello che impone alle società di gestione delle Pec e delle “identità digitali” requisiti di capitale pari a quelli imposti alle banche di credito cooperativo (minimo 5 milioni di euro), con un passaggio non troppo lineare già giudicato “sproporzionato” dal Tar del Lazio.
Sul punto, il ripensamento chiesto dai giudici serve a evitare l’avvio di un contenzioso che rischia di bloccare l’impianto del nuovo Codice, da correggere anche nella parte in cui prevede la validità automatica dei documenti con firma elettronica senza individuare gli strumenti in grado di dare le garanzie necessarie.
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Ora tocca a dipendenti e Corte conti. Il secondo pacchetto. Provvedimenti in arrivo.
Mentre il primo gruppo di decreti si affolla verso il Parlamento per i passaggi finali, i tecnici del governo sono al lavoro sulla seconda puntata della riforma, attesa prima dell’estate e anch’essa articolata su un menù “promettente”. Tre temi su tutti meritano una citazione: nuovo testo unico del pubblico impiego, ruolo unico dei dirigenti e revisione delle regole per la Corte dei conti.
Il peso delle questioni da affrontare si capisce meglio se dai titoli si passa ai contenuti. Il testo unico del pubblico impiego, in particolare, dovrà dire l’ultima parola sull’applicabilità o meno ai dipendenti pubblici dell’articolo 18 nella sua versione “storica”.
La miccia è stata riaccesa qualche mese fa dalla Cassazione, che nella sentenza 24157/2015 ha sostenuto l’applicazione nella Pa della riforma Fornero, che ha limitato il diritto al reintegro nei licenziamenti economici. Il ragionamento della suprema Corte, fondato sul richiamo automatico che il testo unico del pubblico impiego contiene alle regole del lavoro privato, riguarda ovviamente anche le modifiche ulteriori arrivate con il Jobs act, ma il dibattito è aperto anche nel governo: la ministra Marianna Madia ha spiegato che i decreti ribadiranno la “specialità” del pubblico impiego, il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti promuove l’idea contraria e il testo del decreto attuativo indicherà qual è l’idea vincente all’interno del governo.
Mentre i dirigenti pubblici vedono con allarme rischi di “precarizzazione” nel meccanismo dei ruoli unici, la finanza pubblica attende il cambio di regole per la Corte dei conti, chiamato a risolvere un problema annoso: quando la Corte condanna qualcuno per danno erariale, è la stessa Pa che deve riscuotere, ma in due terzi dei casi non lo fa con tanti saluti alle sorti dei bilanci
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Gare, preferite le eco-imprese. Fornitori scelti su qualità ambientali e prevenzione reati. Il nuovo Codice degli appalti ridefinisce le caratteristiche per interagire con la p.a..
Prodotti ad alte prestazioni verdi, certificazione di qualità ambientale e protocolli di prevenzione degli eco-reati. Queste le caratteristiche che in base al nuovo Codice appalti, entrato in vigore il 19.04.2016, permetteranno alle imprese interessate a interagire con la pubblica amministrazione di viaggiare su una corsia preferenziale.

Il nuovo dlgs 18.04.2016 n. 50 riformula, infatti, la disciplina nazionale di settore abrogando il dlgs 163/2006 e traducendo sul piano interno i nuovi criteri ambientali di aggiudicazione di appalti pubblici e contratti di concessione previsti dalle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue.
Sostenibilità energetica e ambientale. In base al nuovo Codice (pubblicato sul S.o. n. 10 alla G.U. 19.04.2016 n. 91) costituirà onere delle stazioni appaltanti contribuire al conseguimento degli obiettivi previsti dal «Piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione» (a oggi, quello previsto dalla legge 296/2006).
E questo da un lato selezionando i fornitori di beni e servizi sulla base dei criteri ambientali minimi stabiliti dal MinAmbiente (sulla base dell'attuale dm 11.04.2008) come dallo stesso nuovo Codice, dall'altro soddisfacendo il proprio fabbisogno acquisendo eco-prodotti (almeno) nelle percentuali minime stabilite per legge (che per le singole categorie vanno, a oggi, dal 50 al 100%).
Criteri di aggiudicazione dell'appalto. Costituiscono la vera rivoluzione della nuova disciplina nazionale. Fatte salve le disposizioni relative a specifici prodotti, l'aggiudicazione nei settori ordinari dovrà essere effettuata mediante il nuovo criterio di matrice Ue dell'«offerta economicamente più vantaggiosa», individuata sulla base del «miglior rapporto qualità/prezzo» oppure dell'elemento prezzo o costo, secondo criterio di comparazione costo/efficacia quale il «costo del ciclo di vita».
L'elemento relativo al costo potrà assumere la forma di prezzo o costo fisso sulla base del quale gli operatori economici competono solo in base ai criteri qualitativi. Il metodo del «miglior rapporto qualità/prezzo» dovrà essere fondato su criteri oggettivi, tra cui gli aspetti ambientali (nel rispetto dei criteri verdi minimi sanciti dai dm Ambiente). Tra i parametri ambientali troveranno collocazione il contenimento dei consumi energetici e di altre risorse, il possesso di certificazioni verdi, le attestazioni in materia di sicurezza sul lavoro, la compensazione dei gas serra. Il metodo del «miglior rapporto qualità/prezzo» dovrà sempre essere adottato per l'acquisizione dei servizi: sociali; di ristorazione ospedaliera/assistenziale/scolastica; ad alta intensità manodopera; di ingegneria/architettura superiori a 40 mila euro.
Il criterio del «minor prezzo» avrà (a differenza dell'uscente disciplina) carattere residuale, utilizzabile solo: per lavori entro 1 milione di euro per i quali i requisiti di qualità sono garantiti dall'obbligo di fondare la gara su progetto esecutivo; per servizi/forniture standardizzati o con condizioni stabilite dal mercato; per servizi/forniture inferiori a soglie di rilevanza comunitaria (ex articolo 35 del nuovo Codice) a elevata ripetitività, a eccezione di quelli tecnologici o innovativi.
Costi del ciclo di vita. Punto nodale del criterio dell'«offerta economicamente più vantaggiosa», i previsti e sopra accennati costi del ciclo di vita dei prodotti dovranno ora essere analiticamente computati, dovendo comprendere: quelli sostenuti da p.a. e utilizzatori per acquisizione, utilizzo (consumo di energie e altre risorse), manutenzione e gestione a fine vita (tra cui raccolta e riciclaggio); quelli imputati a «esternalità ambientali», tra cui i costi per attenuare emissione di gas serra e altre sostanze inquinanti e cambiamenti climatici, a condizione che il loro valore monetario sia determinabile e verificabile, fondato su un metodo di valutazione oggettivo e non discriminatorio e, se disponibile, su un «metodo comune di calcolo» Ue.
Certificazioni qualità. Sulla scia dell'uscente dlgs 163/2006, a favorire gli operatori economici sarà il possesso di sistemi di gestione ambientale fondati su riconosciuti standard Ue e internazionali. Ma, novità introdotta dal dlgs 50/2016, al fine delle riduzioni delle garanzie finanziarie da prestare all'atto della presentazione dell'offerta varrà (con uno sconto del 30%) anche il possesso di «rating di legalità» o attestazione del modello organizzativo ex dlgs 231/2001.
Campo di applicazione. Ad ampio raggio la portata delle disposizioni verdi del nuovo Codice appalti. Il dlgs 50/2016 ne dispone infatti l'applicazione, ove compatibili con le norme particolari dettate dallo stesso provvedimento, anche ad appalti pubblici dei cd. «settori speciali» e a concessioni di lavori e servizi.
In deroga, dunque, solo i contratti pubblici esclusi dalla disciplina tutta del nuovo Codice, come quelli con importi inferiori alle soglie di rilevanza comunitaria, le attività esposte direttamente alla concorrenza, alcuni servizi strategici.
Settori speciali e concessioni. In particolare, agli appalti relativi ai settori speciali (tra cui quelli gas, energia termica, elettricità, acqua, sfruttamento aree geografiche) si applicheranno, per quanto compatibili, (anche) le norme verdi previste per gli «ordinari» in relazione a criteri di aggiudicazione (costi del ciclo di vita compresi) e valore delle certificazioni di qualità ambientale.
Nell'ambito delle concessioni, sempre per quanto compatibili, si applicheranno invece anche le disposizioni ex Parte I e II del nuovo dlgs 50/2016 relative a principi generali, modalità, procedure di affidamento e criteri di aggiudicazione, fondando dunque anche tali negozi sulla scelta più vantaggiosa per l'ambiente (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

TRIBUTI: Imu, chi sbaglia è rimborsato. Trasmissione telematica ai comuni al via dal 28 aprile. In una circolare delle Finanze, tempi e modalità per recuperare gli erronei versamenti.
Avete sbagliato a pagare le imposte sulla casa o la tassa rifiuti? Ora, dopo anni di incertezza, siete in grado di sapere con precisione a chi rivolgervi per recuperare i vostri soldi.

A fare luce su casistiche, tempi e modalità è il decreto del 24.02.2016, emanato di concerto da Mef e Viminale, e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 87 del 14 aprile scorso, cui ha fatto seguito la circolare 14.04.2016 n. 1/DF. Ma restano comunque valide le richieste già presentate dai contribuenti e acquisite dai comuni, per le quali i rimborsi dovrebbe arrivare entro fine settembre.
Per fare chiarezza, occorre ricordare che la materia è stata inizialmente disciplinata dall'art. 1, commi da 722 a 727, della legge 147/2013 per la sola Imu, mentre successivamente tali norme sono state estese dall'art. 1, comma 4, del dl 16/2014 anche agli altri tributi locali.
Ai sensi dell'art. 1 del dm, è prevista una corsia preferenziale per i rimborsi relativi a Imu e alla (abrogata) maggiorazione Tares. Ciò, come sottolinea la circolare, in considerazione del fatto che proprio per tali tributi si è verificata la parte più consistente di erronei versamenti, determinati soprattutto dalla contemporanea presenza di due distinte obbligazioni da assolvere sia nei confronti dello Stato sia nei confronti del comune (si veda l'altro articolo in pagina). Ovviamente, si procederà innanzitutto alla regolazione di quelle situazioni che si riferiscono ad annualità più risalenti nel tempo.
La circolare esamina le diverse fattispecie, individuando gli adempimenti a carico di p.a. e contribuenti. In linea generale, prima di addentrarci nei dettagli, è bene evidenziare che in tutti i casi le istanze vanno presentare ai comuni, essendo questi ultimi gli unici soggetti legittimati alla verifica dell'esatto assolvimento dell'obbligo tributario. Inoltre, il rimborso, laddove spettante, deve essere richiesto entro il termine di cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato il diritto alla restituzione.
Il primo caso è quello in cui si sia proceduto al versamento a un ente diverso da quello competente. In passato, ciò causava grossi problemi al malcapitato contribuente, che era costretto a proporre istanza di rimborso al comune incompetente e contestualmente a regolarizzare la propria posizione, pagando anche sanzioni e interessi, nei confronti dell'altro comune.
Adesso è sufficiente presentare una semplice comunicazione ai due enti interessati con le indicazioni previste dall'art. 2 del decreto (estremi del versamento, importo versato, dati catastali dell'immobile, ente locale destinatario delle somme ed ente che ha ricevuto erroneamente i soldi). Sarà poi il comune che ha incassato le somme a girarle a quello competente. In fase di prima applicazione, i contribuenti che non hanno ancora presentato la comunicazione dovranno provvedervi con le nuove modalità.
Può capitare anche di avere versato un importo superiore al dovuto al comune o allo Stato. Anche in tal caso, il contribuente deve presentare apposita istanza di rimborso all'ente locale indicando, oltre ai dati già elencati in precedenza, anche il proprio codice Iban. Se non si possiede un Iban, il rimborso può avvenire con l'assegno circolare emesso dalla Banca d'Italia o in contanti, presso la sede più vicina della Banca d'Italia.
La stessa procedura vale anche nel caso in cui sia stata versata allo Stato una somma dovuta al comune e successivamente si sia regolarizzata la propria posizione nei confronti del comune stesso, pagando quindi due volte.
Infine, laddove si sia versato l'importo corretto ma al destinatario errato (allo Stato anziché al comune o viceversa), non scatterà nessuno rimborso, ma il contribuente dovrà segnalare l'errore inviando una comunicazione sempre all'ente locale per consentire le opportune regolazioni interne alla p.a..
I rimborsi, se dovuti, devono essere erogati entro 180 giorni dalla data di presentazione dell'istanza. Questa regola generale deve, peraltro, essere coordinata, per i rimborsi relativi a somme versate negli anni passati, con l'esigenza di consentire ai comuni il caricamento dei provvedimenti già perfezionati sul nuovo applicativo che sarà reso disponibile sul portale del federalismo entro il 28 aprile.
Pertanto, i soldi dovrebbero arrivare materialmente entro il prossimo 25 settembre, sempre che tutto fili liscio e che gli uffici comunali riescano a far fronte all'ennesimo, oneroso carico di lavoro.
Sugli importi da restituire sono comunque dovuti gli interessi, che saranno calcolati applicando il tasso d'interesse legale con decorrenza dal giorno successivo a quello di effettivo versamento fino alla data di emissione del mandato di pagamento.
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Le casistiche più diffuse.
Indicazione del codice catastale sbagliato. Scorretta identificazione del destinatario del versamento. Errore di calcolo. Sono queste le più diffuse situazioni in cui possono incappare i contribuenti.
Se non si è azzeccato il codice catastale, i soldi saranno finiti a un comune diverso da quello giusto, che potrebbe essersi tenuto i soldi. Attenzione, però: la normativa si riferisce ai versamenti erronei effettuati direttamente dal contribuente (anche mediante servizi di home banking) e non al diverso caso dell'errata digitazione del codice catastale nell'F24 da parte dell'operatore bancario o postale. In questo caso, come precisato dalla risoluzione 2/DF/2012, occorre procedere con una richiesta rivolta all'intermediario per la correzione dell'errore. Molto frequenti i casi di confusione su chi sia il beneficiario del tributo, alimentata da anni di torsioni continue del fisco locale.
Ricordiamo, per esempio, che, fino al 2012, metà dell'Imu (al netto di quella dovute sulle abitazioni principali e i fabbricati rurali strumentali) doveva essere versata allo Stato, mentre dal 2013 la riserva statale si riferisce al solo gettito derivante dagli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D, calcolato ad aliquota standard dello 0,76%. Discorso analogo vale per la maggiorazione Tares per i servizi indivisibili, antesignana della Tasi e applicata solo nel 2013: essa valeva 0,30 euro a metro quadro, che andavano pagati insieme all'ultima rata Tares, ma erano riservati allo Stato.
Infine, banalmente il contribuente può avere sbagliato a fare i conti, versando più del dovuto (al soggetto giusto o a quello sbagliato): facile che succeda dovendo districarsi fra decine di migliaia di aliquote, detrazioni, esenzioni e con una normativa che dura meno di un castello di sabbia sulla battigia (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

APPALTI: Per la solidarietà il Durc rimane a efficacia limitata. Dal Parlamento. Il Governo non prevede interventi.
Non è previsto al momento alcun intervento per ovviare al fatto che il documento unico di regolarità contributiva (Durc) certifica la situazione solo sulla base delle denunce presentate dal datore di lavoro.
Il problema è noto da tempo, tanto che il 18.06.2015 il deputato Carlo Dell’Aringa ha presentato un’interrogazione (Interrogazione a risposta in commissione 5-05855) per sapere se e quali misure sarebbero state prese. La risposta è arrivata il 21.04.2016 con l’intervento del sottosegretario al Lavoro, Franca Biondelli, in commissione Lavoro della Camera.
In base a quanto stabilito dall’articolo 29, comma 2, del Dlgs 276/2003, in caso di appalto di opere o di servizi il committente, entro il limite di due anni, è obbligato in solido con l’appaltatore/subappaltatore a pagare le retribuzioni ai lavoratori e a versare i relativi contributi per quanto concerne il periodo di appalto e il relativo importo.
Al fine di limitare l’evasione contributiva, è stato previsto che il committente richieda il Durc dell’azienda che effettua i lavori. Il documento unico di regolarità contributiva verifica la situazione riguardante i pagamenti fino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui il controllo viene effettuato.
Tuttavia, come viene spiegato nella risposta all’interrogazione, «il Durc certifica la regolarità dei versamenti previdenziali come risultanti dal riscontro tra le denunce presentate dalle aziende e i versamenti dalle medesime eseguite. Di conseguenza, se il datore di lavoro occupa irregolarmente dei lavoratori, tale circostanza non può risultare dal Durc, ma potrà essere accertata solo all’esito di una specifica verifica ispettiva».
Insomma, se «le imprese effettuano denunce contributive non veritiere, ad esempio omettono di regolarizzare un dipendente o lo regolarizzano in modo difforme da quanto dovuto, ciò non incide sul rilascio del Durc». Quindi il documento non tutela completamente il committente rispetto alle possibili irregolarità dell’azienda che effettua i lavori e, a fronte di una verifica ispettiva, può essere chiamata in causa.
La risposta fornita dal sottosegretario Biondelli, però, al momento non lascia spazio a speranze. «Per ovviare a tale inconveniente», cioè al fatto che il Durc viene rilasciato anche se ci sono denunce contributive scorrette, «sarebbe necessario che il rilascio di ogni Durc fosse preceduto da un’apposita verifica ispettiva; il che, considerato il numero di Durc chiesti e rilasciati, appare difficilmente praticabile».
In effetti ogni anno vengono rilasciati oltre 5 milioni di documenti. Secondo Dell’Aringa, comunque, un passo in più si potrebbe fare prevedendo che il Durc sia inteso come un’autodichiarazione che attesta la regolarità delle denunce presentate per tutte le posizioni contributive. In tal caso, a fronte di un’irregolarità individuata da un’ispezione, il committente sarebbe sollevato dalla responsabilità solidale
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2016).

APPALTI: Riforma appalti al via nel caos. Affidamenti tecnici paralizzati. Nuove gare da rifare. Nota Anac-ministero sull'entrata in vigore del dlgs 50. E sulle progettazioni è stallo.
Riforma appalti, partenza nel caos. Gli atti di gara adottati dalle amministrazioni in forza delle vecchie regole dopo il 19.04.2016, data di entrata in vigore della riforma (dlgs 50 del 2016), dovranno essere riaperti e riformulati perché, per esempio, prevedono il massimo ribasso sopra un milione di euro, che oggi non è più consentito.

Non solo. Per gli affidamenti di servizi tecnici si è in presenza di un vero e proprio vuoto normativo. Il nuovo codice, infatti, abolisce gran parte delle vecchie disposizioni lasciandone però in vita alcune, quali quelle sui requisiti delle società. L'effetto è che al momento è impossibile aggiornare le progettazioni per portarle a livello esecutivo.
Ma andiamo con ordine.
Vecchie e nuove regole. Il chiarimento sull'applicazione delle norme del codice è contenuto in un comunicato congiunto del ministero delle infrastrutture e trasporti e dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) diffuso ieri concernente l'articolo 216 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (il nuovo codice appalti pubblici).
Nel comunicato si specifica che le norme del decreto delegato sono applicabili anche se la stazione appaltante ha affidato contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, e alle procedure i cui relativi inviti a presentare offerta siano inviati a decorrere dal 19.04.2016.
Il vecchio codice De Lise vale invece per le procedure i cui bandi o avvisi siano stati pubblicati entro il 18.04.2016. Importante però una precisazione finale. Quella con la quale si chiarisce che gli atti di gara già adottati dalle amministrazioni dopo il 19 aprile con il codice De Lise del 2006, «dovranno essere riformulati in conformità al nuovo assetto normativo».
Il riferimento, neanche tanto implicito, è ad alcuni bandi di gara per appalti integrati usciti dopo il 19 e a gare bandite con il massimo ribasso di importo superiore al milione di euro, che sarebbero vietati dal 19 aprile.
Affidamenti inaffidabili. In realtà non mancano anche altri problemi applicativi, in particolare rispetto alla vigenza non tanto del codice 163/2006, quanto del regolamento attuativo (dpr 207/2010). È il caso della disciplina dei servizi tecnici per la quale l'articolo 217, comma 1, lettera u), stabilisce che dal 19 aprile cessano di avere efficacia le norme contenute nella Parte III a esclusione degli articoli 254, 255 e 256 (sui requisiti delle società).
Ciò significa avere abrogato dal 19 aprile tutte le norme che regolano l'affidamento dei servizi tecnici contenute nel dpr 207/2010, a eccezione di quelle sui requisiti delle società, dei raggruppamenti e dei consorzi stabili di società che varranno fino a quando non sarà emanato un decreto ministeriale (entro 90 giorni). Un bel problema visto che si devono aggiornare le progettazioni per portarle al livello esecutivo.
Anticorruzione e scuola. Intanto l'Autorità nazionale anticorruzione ha definitivamente approvato, nell'adunanza del 13.04.2016, le «Linee guida sull'applicazione alle istituzioni scolastiche delle disposizioni di cui alla legge 06.11.2012, n. 190 e al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33», poste in consultazione pubblica dal 22 febbraio all'08.03.2016.
Le linee guida, ha reso noto ieri l'Authority presieduta da Raffaele Cantone, tengono conto del lavoro condotto in un tavolo tecnico tra Anac e ministero dell'istruzione.
Obiettivo delle linee guida è orientare le istituzioni scolastiche nell'applicazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, tenuto conto delle caratteristiche organizzative e dimensionali del settore dell'istruzione scolastica e delle singole istituzioni, della specificità e peculiarità delle funzioni, nonché della disciplina di settore che caratterizza queste amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 23.04.2016).

APPALTI: Responsabilità solidale, il Durc non basta.
Il Durc (documento unico di regolarità contributiva) non garantisce (quasi) nulla.

A rivelarlo, il sottosegretario al lavoro Franca Biondelli, che nel rispondere alla Camera a un'interrogazione
(Interrogazione a risposta in commissione 5-05855) del suo ex collega Carlo Dell'Aringa (Pd), ha chiarito che il Durc, essendo riferito ai soli pagamenti contributivi, non certifica per intero la regolarità dell'azienda. Procediamo per ordine.
Il decreto legislativo n. 276 del 2003 (art. 29, comma 2) stabilisce che, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente è obbligato in solido con l'appaltatore e con gli eventuali subappaltatori a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto. Una norma che dovrebbe garantire l'effettività dei versamenti previdenziali e assistenziali mediante l'estensione dell'obbligo di corresponsione all'impresa committente.
Se risultano irregolarità, scatta la responsabilità solidale: in altri termini con un effetto a catena l'ente appaltante risponde per le multe dovute dagli appaltatori. Qui nasce il Durc: per semplificare gli obblighi dell'impresa committente, lo stato certifica la regolarità contributiva di un'impresa nei confronti di Inps, Inail e, nel caso di aziende che applicano il contratto collettivo dell'edilizia, Cassa edile.
Ma a quanto pare non sono poche le aziende cui vengono contestate irregolarità, nonostante un Durc positivo. Il mistero lo spiega il sottosegretario Biondelli: «Il Durc certifica la regolarità dei versamenti previdenziali come risultanti dal riscontro tra le denunce presentate dalle aziende e i versamenti dalle medesime eseguiti. Di conseguenza, se il datore di lavoro occupa irregolarmente dei lavoratori, tale circostanza non può risultare dal Durc ma potrà essere accertata solo all'esito di una specifica verifica ispettiva». Ma visto che lo Stato non fa le ispezioni, il Durc inquadra solo una situazione incompleta.
Se le imprese effettuano denunce contributive non veritiere (ad esempio, omettono di regolarizzare un dipendente o lo regolarizzano in modo difforme da quanto dovuto), il Durc non vale più niente. E l'ingenuo committente (che si era fidato del documento) finisce nei guai, dovendo rispondere a suon di quattrini delle omissioni e delle multe dovute dell'azienda subappaltatrice (articolo ItaliaOggi del 23.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Impianti «Tlc» senza rendita. I manufatti per le reti di telecomunicazione non sono fabbricati.
Fisco e immobili/Il Forum con le Entrate. Restano tassabili pale eoliche e stazioni di teleferiche e skilift.

Decisamente chiarificatrice la precisazione fornita dall’agenzia delle Entrate (si veda il Sole 24 Ore di ieri) sulle nuove modalità di accertamento degli impianti per telefonia mobile.
A partire dal 1° luglio, data di entrata in vigore del decreto legislativo 33/2016 (che ha modificato l’articolo 86, comma 3, del Codice delle comunicazioni elettroniche di cui al Dlgs 259/2003), gli elementi di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità e le altre infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione (tra cui, ad esempio, tubature, piloni, cavidotti, pozzi di ispezione, pozzetti, centraline, edifici o accessi a edifici, installazioni di antenne, tralicci e pali) non costituiscono unità immobiliari ai sensi dell’articolo 2 del decreto del Ministro delle finanze 02.01.1998, n. 28, e non rilevano ai fini della determinazione della rendita catastale.
Sembra quindi evidente, salve diverse disposizioni di prassi più esplicative, che per il futuro non sorgerà più l’obbligo di dichiarare in catasto nuovi impianti della fattispecie e qualora vengano (facoltativamente) dichiarati, nella rendita non saranno ricomprese queste componenti. Tale facoltà dovrebbe essere possibile anche nel caso degli immobili già censiti per depurare la rendita attualmente iscritta in atti dall’incidenza delle suddette componenti.
Periodo transitorio
Resta, comunque, sempre applicabile nel periodo transitorio 01.01.2016-30.06.2016, (cioè prima della entrata in vigore della nuova disposizione), di potere presentare in catasto una pratica Docfa per la richiesta di cui all’articolo 1, comma 22, della legge di Stabilità 2016, che prevede la possibilità, da parte degli intestatari catastali di questi immobili di presentare atti di aggiornamento per la rideterminazione della rendita catastale al fine di escludere dalla stima “macchinari, congegni, attrezzature ed altri impianti, funzionali allo specifico processo produttivo”.
Pale eoliche
Meno convincente, anche per l’accostamento di tipologie di “pali” notevolmente diverse tra loro, appare la precisazione sulle strutture di sostegno degli aerogeneratori delle centrali eoliche.
L’Agenzia evidenzia che più di semplici pali, si tratta di vere e proprie torri, spesso accessibili al loro interno e talvolta dotate di strutture di collegamento verticale. Tali caratteri portano ad annoverare il palo di sostegno tra le “costruzioni” e, come tali, quindi, da includere nella stima diretta finalizzata alla determinazione della rendita catastale della centrale eolica.
Conclude che vanno considerate, tra le componenti immobiliari oggetto di stima catastale, il suolo, le torri con le relative fondazioni, gli eventuali locali tecnici che ospitano i sistemi di controllo e trasformazione e le sistemazioni varie, quali recinzioni, viabilità, eccetera, posti all’interno del perimetro dell’unità immobiliare.
Sembrerebbe invece più lineare, con il comune e ordinario concetto di costruzione, considerare il “palo” o la “torre” come un mero impianto, strumentale alla produzione svolta nell’unità immobiliare, di alcuna utilità trasversale per usi dell’unità diversi da quello di produzione di energia elettrica da fonte eolica. Di conseguenza, sarebbe da escludere dalla stima in base all’articolo 1, comma 21, della legge 208/2015 (Stabilità 2016). Ma la risposta dell’Agenzia, per ora, non sembra ammettere questa soluzione.
Impianti di risalita
L’Agenzia precisa poi che la categoria catastale in cui debbono essere censiti gli impianti di risalita è la categoria D/8 (come già specificato con la circolare del Territorio n. 4/2007).
La circolare n. 2/E del 2016 ha innovato unicamente i criteri di stima della rendita catastale di queste unità immobiliari specificando che le funi, i carrelli, le sospensioni, le cabine e i motori che azionano i sistemi di trazione (anche se posti in sede fissa) non concorrono più alla stima diretta della rendita catastale degli impianti di risalita. Quindi, ora figurano tra i criteri per il calcolo esclusivamente il suolo, le stazioni di valle e di monte e gli impianti/costruzioni di tipo civile strutturalmente connessi alle stazioni stesse.
Sono pertanto esclusi dalla stima catastale anche i piloni intermedi, quando esistenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2016).

APPALTI: Appalti, verifiche continue sulle retribuzioni. nuovo codice. La stazione appaltante chiamata a intervenire in caso di irregolarità nei pagamenti.
È il responsabile unico del procedimento (Rup), come individuato dall’articolo 30 del Dlgs 50/2016 (nuovo codice degli appalti) a intervenire nei confronti delle imprese affidatarie e/o subappaltatrici che non abbiano provveduto al puntuale pagamento delle retribuzioni periodiche dovute ai rispettivi lavoratori dipendenti.
La disposizione, contenuta nel comma 6 dell’articolo, è diretta a individuare fisicamente, nell’ambito della stazione appaltante, il soggetto che per legge è tenuto a intervenire, operando mediante il “potere sostitutivo”, per regolarizzare tempestivamente le posizioni retributive degli esecutori dell’opera pubblica. La finalità insita in un intervento celere e certo è posta, del resto, anche nell’interesse della stessa amministrazione appaltante, che potrà pertanto svolgere un’azione risolutiva in caso di vertenze tra datori di lavoro e dipendenti.
Si tratta di situazioni conflittuali che non necessariamente devono essere denunciate dai lavoratori interessati, ma che possono essere individuate direttamente dal responsabile unico del procedimento, ovvero, secondo quanto previsto dall’articolo 101 del codice, tramite il direttore dei lavori, del coordinatore per l’esecuzione dei lavori (articolo 92 del testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro), dei direttori operativi e, ove previsti, degli ispettori di cantiere.
L’obiettivo del nuovo codice degli appalti appare chiaro: prevedere una verifica più incisiva e continua della regolarità nei pagamenti delle retribuzioni, in grado di “prevenire” eventuali situazioni di criticità (seppure in molti casi dovute proprio ai non puntuali pagamenti da parte della stessa stazione appaltante) invece di lasciarla al caso, ovvero all’intervento della stazione committente in caso di eventuali sollecitazioni esterne, o alla scadenza delle “canoniche” fasi relative all’esecuzione dell’opera, del servizio o fornitura.
Del resto appare significativa la disposizione (articolo 101, comma 3, del decreto legislativo 50/2016) in base alla quale vengono poste a carico del direttore dei lavori tutte le attività e i compiti allo stesso espressamente demandati dal codice, nonché quelle relative alla verifica periodica del possesso e della regolarità da parte dell’esecutore e del subappaltatore, della documentazione prevista dalle leggi vigenti «in materia di obblighi nei confronti dei dipendenti».
È evidente la facoltà che viene conferita al direttore dei lavori di chiedere in visione alle imprese esecutrici (affidatarie e subappaltatrici) le copie dei prospetti paga che il datore di lavoro, in base all’articolo 1 della legge 4/1953, ha l’obbligo di consegnare a ciascun lavoratore all’atto del pagamento della retribuzione.
È un controllo che potrà essere anche sistematico, attraverso la nuova figura dell’ispettore di cantiere, che esercita la propria attività di verifica in un turno di lavoro.
La disposizione del codice degli appalti è senz’altro una misura deflattiva e più immediata rispetto all’articolo 1676 del codice civile.
Quest’ultimo, infatti, chiama in causa in solido il committente solo per quanto dovuto all’appaltatore e solo a fronte dell’azione giudiziaria da parte dei lavoratori.
Inoltre, se l’esecutore dei lavori è già stato pagato dal committente, ma poi non ha corrisposto le retribuzioni ai dipendenti, la stazione appaltante non può essere chiamata a rispondere in solido
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI - INCARICHI PROGETTUALI: Progetti e legali con gara. Illegittimi gli affidamenti diretti fiduciari. CODICE APPALTI/ Il dlgs 50 richiede sempre un confronto selettivo.
Occorre sempre una gara anche informale per l'affidamento dei servizi di progettazione e dei servizi legali.

Con l'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti (dlgs n. 50/2016), il quale fissa una soglia fino a 40.000 euro a base d'asta entro la quale è ammesso l'affidamento diretto, in molti (a partire dagli ordini professionali) hanno tratto la conclusione che rientrino in gioco gli affidamenti fiduciari.
Se così fosse, il codice si porrebbe in contrasto clamoroso con tutti i principi di salvaguardia della concorrenza e di trasparenza mutuati direttamente dai Trattati Ue e regolati in maniera molto chiara dalla Direttiva 2014/24/Ue, recepita dal codice.
L'articolo 36, comma 2, lettera a), del codice, in effetti prevede che gli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro sono da considerare «esclusi» in parte dall'ambito di applicazione del codice e per essi è possibile procedere «mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione diretta».
In primo luogo, è da osservare che poiché l'affidamento diretto deve essere «adeguatamente motivato
», non è ammesso l'intuitu personae, istituto basato solo sull'elemento della fiducia, connesso a valutazioni tutte e solo personali e, come tale, impossibile da motivare.
Ma, la norma citata non può essere letta senza coordinarla con le restanti altre del codice. La prima da tenere in considerazione è l'articolo 4, che detta i principi relativi all'affidamento di contratti pubblici esclusi. Ai sensi di questa disposizione «l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica».
Tutti principi che impediscono di considerare legittimo l'affidamento in via diretta fiduciaria e che richiedono sempre un confronto selettivo, pubblico e trasparente, sulla base di almeno un avviso di manifestazione di interesse o l'invito ad alcuni professionisti a formulare un'offerta, così da poter selezionare uno tra quelli chiamati in causa. Il che fornisce gli elementi per la motivazione dell'affidamento diretto.
I servizi legali sono espressamente previsti dall'articolo 17, lettera d), numeri da 1) a 5), tra i quali si contempla in maniera esplicita tanto la «rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato» in giudizio, quanto la «consulenza legale fornita in preparazione di» un giudizio (anche arbitrale) o «qualora vi sia un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento» giurisdizionale.
Non c'è dubbio che si tratti, dunque, di appalti veri e propri. Il fatto che siano «esclusi» dal campo di applicazione del codice non significa, ovviamente, che ne siano fuori. Si tratta di «appalti esclusi» come lo sono, per esempio, i servizi sociali, nel senso che si applicano solo i principi o singole specifiche norme del codice. Ai servizi legali si applicano comunque solo le disposizioni di principio indicate dall'articolo 4 del codice, in modo ovviamente sempre più rigoroso man mano che il valore del contratto con l'avvocato aumenti.
Lo stesso vale per gli incarichi di progettazione, che non sono servizi esclusi, ma fanno parte di regimi di appalto particolare, disciplinati dal Titolo VI del codice. Nella soglia tra i 40.000 euro e 100.000 euro è espressamente imposto di attivare quanto meno una procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI:  CODICE APPALTI/ Nuove soglie. Moltiplicate le tipologie di appalti.
Si moltiplicano le tipologie degli appalti, ai fini della definizione delle procedure di affidamento e dell'applicazione delle norme.

Che il nuovo codice dei contratti non abbia propriamente semplificato procedure e quadro normativo, lo comprova la complessissima ridefinizione delle soglie e tipologie di appalti.
Gli appalti saranno innanzitutto distinti per soglie. Non vi sarà più la bipartizione tra soglia comunitaria e nazionale, perché le fasce saranno molte di più e maggiormente complesse.
Una prima fascia è prevista per lavori, servizi tecnici, forniture e servizi di importo fino a 39.999 euro. Entro questo limite, sono possibili affidamenti diretti, nel rispetto dei principi di concorrenzialità.
Vi è una seconda fascia nella quale è consentita la procedura negoziata mediante inviti ad almeno cinque imprese, selezionate con indagini di mercato o da elenchi di operatori economici. Essa va da 40.000 a 149.999 euro per i lavori; da 40.000 a 99.999 euro per i servizi tecnici di progettazione; da 40.000 a 208.999 per servizi e forniture.
Una terza fascia richiede procedure selettive più aperte. Va da 150.000 a 999.999 euro per i lavori, e qui si consente una procedura negoziata estesa ad almeno dieci operatori (con possibilità del criterio del massimo ribasso). Va da 100.000 a 208.999 euro per i servizi di progettazione, con gara mediante procedura aperta o ristretta. Va da 209.000 a 749.999 euro, solo per servizi sociali e per servizi e forniture elencati dall'allegato IX: entro questa fascia, sarà possibile la procedura negoziata tra cinque operatori, o anche utilizzare le procedure aperte o ristrette.
Vi è una quarta fascia, specifica solo per lavori, compresa tra 1.000.000 e 5.224.999 euro, entro la quale agire mediante procedure aperte o ristrette.
Vi è, infine, la soglia comunitaria, che parte da 5.255.000 euro per lavori, 209.000 euro per servizi tecnici e di progettazione, 209.000 euro per forniture e servizi non compresi nell'allegato IX, 750.000 euro per servizi sociali e servizi e forniture contemplati nell'allegato IX (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).

APPALTI SERVIZICODICE APPALTI/ Servizi sociali, una semplificazione mancata.
Il regime dei servizi sociali nel nuovo codice dei contratti pubblici rappresenta la plateale dimostrazione che il dlgs 50/2016 ha mancato in modo evidente l'obiettivo di semplificare la normativa. Il nuovo sistema appare estremamente complesso, pieno di rimandi e rinvii, tale da porre notevoli difficoltà interpretative ed operative.

Si può tentare di intuire quale sia il quadro riferito ai servizi sociali, seguendo un intricato filo rosso che unisce alcune disposizioni del codice.
La prima da tenere in considerazione è l'articolo 35, comma 1, lettera d), per effetto del quale sono da considerare sotto la soglia di rilievo comunitaria gli appalti di servizi sociali di importo fino a 749.999 euro.
Per questi appalti sotto soglia, allora, ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera b), gli affidamenti possono essere effettuati in due modalità. La prima consiste nell'applicare le regole ordinarie per gli appalti, comprensive di tutte le cautele procedurali. La seconda, è la facoltà di attivare una procedura negoziata preceduta da un'indagine di mercato, posta a individuare almeno cinque operatori economici da invitare successivamente a presentare l'offerta o, in alternativa, l'attivazione di una procedura negoziata tra operatori economici inclusi in specifici elenchi, assicurando il principio di rotazione.
Nel caso degli appalti sotto soglia, le scarne procedure negoziate ammesse dall'articolo 36, comma 2, lettera b), debbono comunque obbedire ai principi generali fissati dall'articolo 30 del codice: economicità, efficacia, tempestività, correttezza, libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché pubblicità. Da ricordare che sempre l'articolo 30 dispone: «Il principio di economicità può essere subordinato, nei limiti in cui è espressamente consentito dalle norme vigenti e dal presente codice, ai criteri, previsti nel bando, ispirati a esigenze sociali», previsione particolarmente utile esattamente nell'ambito dei servizi sociali.
Laddove l'importo del contratto sia pari o superiore a 750.000 euro, si tratta di appalti in regime «particolare». La norma da tenere in considerazione è, in termini generali, l'articolo 114, che si applica ai contratti contemplati nel Capo I del Titolo VI del codice, i quali sono soggetti direttamente alle norme contenute negli articoli da 1 a 58 ad esclusione di quelle concernenti le concessioni.
Gli appalti di servizi sociali sopra soglia sono specificamente presi in considerazione nella Sezione IV del Capo I del Titolo VI e, in particolare, all'articolo 140, a mente del quale si applicano ai servizi sociali (oltre agli articoli da 1 a 58, come visto sopra) le disposizioni di cui agli articoli 142 e 143. Il primo, prevede una semplificazione delle pubblicazioni; il secondo, ammette la possibilità di riservare gli appalti delle categorie di servizi specificamente ivi indicate a organizzazioni che hanno ha come obiettivo statutario il perseguimento di una missione di servizio pubblico legata alla prestazione dei servizi, operino senza distribuire utili e prevedano un azionariato o una partecipazione attiva dei dipendenti.
L'intreccio molto complesso di norme visto sin qui si completa con la disciplina particolare relativa alle cooperative sociali di tipo B, regolata dalla legge 381/1991. Non pare che il dlgs 50/2016 abbia sortito l'effetto di abolire le previsioni di questa legge, che consente l'assegnazione di servizi sociali diversi da quelli socio sanitari ed educativi alle cooperative sociali, purché sotto soglia.
L'articolo 5, comma 1, della legge 381/1991, come recentemente novellato dall'articolo 1, comma 610, della legge 190/2014, dispone che le convenzioni con le cooperative sociali di tipo B siano stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei princìpi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza: si tratta di principi non in contrasto con quelli generali, enunciati dall'articolo 30 del dlgs 50/2016, così come il sistema di selezione può certamente essere compreso nella disciplina disposta dall'articolo 36, comma 2, lettera b).
Si tratta di capire se la soglia entro la quale procedere combinando le previsioni del codice dei contratti con la legge 381/1991 sia quella generale di 209.000 euro, o quella specifica di 750.000 per servizi sociali. La soluzione più convincente apparirebbe quest'ultima.
Il vero problema, comunque, sarà l'aggregazione degli enti. Infatti, solo per appalti di importo inferiore ai 40.000 euro ciascuno potrà procedere autonomamente. Per importi tra i 40.001 e 750.000 euro, potranno procedere autonomamente solo i comuni in possesso della qualificazione prevista dall'articolo 38. In teoria, dovrebbero utilizzare gli strumenti di negoziazione elettronica messi a disposizione dai soggetti aggregatori, ma difficilmente i servizi sociali si prestano alla standardizzazione necessaria allo scopo, visto l'elevatissimo grado di personalizzazione di questi appalti. L'alternativa concreta appare la funzione di soggetto aggiudicatore da parte delle centrali di committenza, oppure avvalersi delle procedure di affidamento ordinarie, non semplificate (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).

APPALTI: Niente gare fino a un mln di euro. Lavori in house vietati ai concessionari autostradali. Nella riforma del codice dei contratti pubblicata in G.U. le imprese possono iscrivere riserve.
Stabilizzata l'anticipazione prezzi del 20% per le imprese; libertà di iscrizione di riserve senza il tetto del 15%; facoltà di applicazione dell'esclusione automatica delle offerte anomale; soppressione della gestione diretta per i concessionari autostradali; procedura negoziata fino a un milione di euro per i lavori.

Sono queste alcune delle ultime novità introdotte nel decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, alcune anche molto delicate come nel caso della disciplina dei concessionari autostradali (per i quali è stata tolta all'ultimo la norma che ammetteva la gestione diretta di lavori, forniture e servizi, peraltro già concordata con il ministero delle infrastrutture e sindacati).
In diversi casi il testo finale, con modifiche last minute, si è discostato dalle indicazioni contenute nei pareri parlamentari: l'obbligo di applicare il decreto parametri (143/2013) per definire la base d'asta nelle procedure di servizi di ingegneria è diventato una facoltà; non è stata seguita la linea proconcorrenziale negli affidamenti sotto la soglia europea (contenuta nei pareri) e si è lasciata la possibilità di affidare gli appalti di lavori da 150 mila euro fino a 1 milione con procedura negoziata senza bando e invito ad almeno dieci imprese; l'anticipazione del prezzo contrattuale del 20% diventa misura stabile (fino ad oggi era sempre prevista a tempo e rinnovata con decreto legge ogni anno).
La novità più rilevante riguarda invece la possibilità per le imprese di iscrivere riserve: nella versione uscita dal consiglio dei ministri che approvò in via preliminare lo schema di decreto era causa di risoluzione del contratto l'iscrizione di riserve per un importo superiore al 15% del totale dei lavori. Nel testo in Gazzetta Ufficiale questa norma è scomparsa.
Molta attenzione va comunque prestata alla disciplina della fase di aggiudicazione dei contratti che, semplificando, prevede l'utilizzo quasi esclusivo del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (Oepv) sotto il profilo qualità-prezzo: per i lavori quando il contratto supera il milione di euro, per le forniture e i servizi con caratteristiche di elevata ripetitività di importo sotto soglia Ue, ma con l'eccezione dei servizi di ingegneria per i quali è obbligatoria l'offerta economicamente più vantaggiosa sopra i 40 mila euro.
Due i problemi principali che si possono intravedere: se non si affida sulla base del solo prezzo e se la regola è quella di affidare i lavori con l'Oepv (in cui si mixano criteri qualitativi e quantitativi) sulla base di un progetto esecutivo (peraltro anche validato in sede di verifica del progetto), quali potranno essere gli elementi qualitativi oggetto di offerta e quali potranno essere le parti del progetto esecutivo da variare in sede di offerta? È probabile che con le varianti richieste in sede di offerta si tenterà di aggirare il vincolo della «stabilità e certezza» del progetto esecutivo.
Ma soprattutto c'è un serio problema di gestione delle gare: sopra la soglia del milione di euro per i lavori il numero delle offerte presentate potrebbe superare le diverse decine e arrivare anche oltre 100: in questi casi le stazioni appaltanti dovranno necessariamente trovare sistemi di selezione degli offerenti per cui la strada principe sarà quella della procedura ristretta, con short list definite in base a criteri che dovranno essere oggettivi e sindacabili dal giudice.
Stesso discorso, pena l'impossibilità di gestire offerte da valutare con l'offerta economicamente più vantaggiosa, anche per le gare di progettazione e per quelle di forniture e altri servizi.
Prevista, infine, l'esclusione automatica per il prezzo più basso come facoltà per i contratti di lavori, forniture e servizi di importo inferiore alla soglia europea (5,2 milioni per i lavori e 209 mila per forniture e servizi) ma con almeno dieci offerte ritenute ammissibili (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIPa, la trasparenza evita il silenzio-rifiuto e «taglia» i costi. Chiesti chiarimenti sulle misure anti-assenteismo.
Riforma Madia. Dal Parlamento sì condizionato al decreto Foia.

Nel passaggio in Parlamento il decreto sulla trasparenza della Pubblica amministrazione fa tesoro delle obiezioni sollevate da Anac e Consiglio di Stato; e con le modifiche di cui la stessa ministra per la Pa e la semplificazione Marianna Madia ha già annunciato l’accoglimento si candida a diventare davvero la traduzione italiana del Foia (Freedom of Information Act), faro anglosassone della trasparenza pubblica.
Ieri le commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato hanno dato il parere positivo al decreto attuativo della riforma della Pa
con una serie di «condizioni» che chiedono modifiche al testo presentato dal Governo. L’elenco riprende puntualmente i punti chiave del dibattito che ha accompagnato il provvedimento fin dalla sua presentazione, e punta a semplificare le istanze dei cittadini, cancellare il silenzio-rifiuto e tagliare i costi a carico di chi presenta la richiesta.
Obiettivo dichiarato del decreto (Schema di decreto legislativo recante “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”) è passare dal nostro tradizionale diritto di accesso, che permette di chiedere atti alla Pa a chi ha «un interesse diretto, concreto e attuale», all’apertura totale delle informazioni pubbliche, con le sole eccezioni motivate dalla tutela di dati sensibili per esempio sul piano della privacy o dell’interesse nazionale. Con un contrasto stridente rispetto a questa “rivoluzione” dichiarata, però, il testo scritto a Palazzo Vidoni ha ripescato il vecchio silenzio-rifiuto, in base al quale dopo 30 giorni senza risposta la richiesta «si intende respinta».
Camera e Senato chiedono di cancellare questo ritorno al passato, e di imporre l’obbligo di motivazione alla Pa che non intende rispondere. Da alleggerire, poi, è l’elenco di eccezioni alla trasparenza prospettato dal decreto: il «no», secondo le richieste dei parlamentari, andrebbe pronunciato solo in caso di «pregiudizio concreto agli interessi» da tutelare, sul piano pubblico (sicurezza nazionale, stabilità monetaria e finanziaria e così via) o privato (privacy e interessi economici).
Il decreto originale, poi, rischia di presentare un conto salato ai cittadini, con la previsione che il rilascio dei documenti sia «subordinato al rimborso dei costi» da parte di chi ha fatto la richiesta e con il ricorso al Tar come unica strada per opporsi invece al silenzio della Pa.
Per tagliare la spesa, il Parlamento chiede di puntare sulle richieste telematiche (come suggerito dal Consiglio di Stato) obbligando negli altri casi la Pa a dettagliare i costi sostenuti per supporti alternativi. Alla Camera e al Senato, insomma, hanno trovato ascolto le critiche sollevate in queste settimane da Foia4Italy, la rete delle associazioni che si batte per l’introduzione anche da noi della trasparenza modello anglosassone: «Il Parlamento -chiosa Federico Anghelé, di «Riparte il futuro»- ci dà ragione su tutta la linea».
Sempre dal Parlamento, ma questa volta dai tecnici di Camera e Senato, arrivano richieste di chiarimenti sul decreto anti-assenteismo
(Schema di decreto legislativo recante modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul licenziamento disciplinare - Atto del Governo n. 292 sottoposto a parere parlamentare), altro tassello chiave della riforma Madia. Anche in questo caso i punti in discussione sono analoghi a quelli sollevati dai giudici: nel dossier si suggerisce di ripensare la sanzione del licenziamento per il dirigente che non vigila, e che sarebbe sottoposto allo stesso trattamento di chi timbra il cartellino e se ne va, e di escludere la possibilità che il danno all’immagine sia quantificato in base alla rilevanza mediatica del caso (articolo Il Sole 24 Ore del 21.04.2016).

APPALTI: Appalti, il codice in Gazzetta. Boom di gare ad appalto integrato e massimo ribasso prima dei divieti.
Contratti pubblici. In vigore la riforma (Dlgs 50/2016), bandi da adeguare già da oggi: rischio rallentamenti.

Porta il numero 50 e la data del 18.04.2016 il nuovo Codice degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture. Dopo l'approvazione finale da parte del governo venerdì scorso, completate a tempo di record le ultime verifiche (la "bollinatura" della Ragioneria lunedì e la firma del Capo dello Stato ieri), il decreto legislativo di riforma è stato pubblicato nella serata di ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 91.
Decolla, così, la riforma che semplifica in modo strutturale il sistema, rende centrale il ruolo dell'Anac e introduce alcune novità strategiche, come la qualificazione delle stazioni appaltanti e il rating delle imprese. Ora però il rischio concreto è che, con il nuovo provvedimento, prenda forma un'impasse del sistema degli appalti pubblici, almeno per i prossimi mesi.
Il motivo è nascosto nella velenosa coda del decreto: «Il presente codice entra in vigore nel giorno stesso della sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale». Quindi, il testo già da ieri ha forza di legge. Il Governo ha, cioè, scelto di non prevedere neppure la consueta fase di vacatio legis di 15 giorni, né tantomeno una fase transitoria più lunga, per consentire agli operatori di mettersi al passo con i nuovi adempimenti.
Ora però si parte a razzo: già da questa mattina Pa e imprese devono usare le nuove regole, e i bandi pubblicati da oggi devono essere costruiti con il nuovo Codice. Preparare nuove gare, però, richiede già normalmente settimane di lavoro. La fase di adattamento alle nuove norme richiederà certamente una gestazione ancora più lunga. A questo, poi, vanno aggiunti gli elementi di incertezza che derivano dal fatto che il Dlgs 50/2016 rinvia molte importanti novità a più di quaranta provvedimenti attuativi, da approvare nei prossimi mesi. Il rischio blocco pare, insomma, concreto.
Uno dei cambiamenti più rilevanti subito in vigore è il divieto di appalto integrato nei lavori pubblici (progettazione + lavori). Nel vecchio Codice le stazioni appaltanti erano libere, e un certo "abuso" dell'appalto integrato ha portato contenziosi nella fase di progettazione post-gara. La legge delega ha chiesto perciò di limitarlo ai soli casi di rilevante contenuto tecnologico dell'opera, e il testo finale ha fatto ancora di più: le gare di lavori si devono fare sempre su progetto esecutivo.
Un divieto assoluto di appalto integrato che sta disorientando le stazioni appaltanti, tant'è che negli ultimi giorni si è assistito a una corsa a pubblicare appalti integrati, prima della riforma. Solo negli ultimi tre giorni utili (15, 18 e 19 aprile), sono stati pubblicati 15 bandi soprasoglia ad appalto integrato, per un importo di 235 milioni di euro. Quasi certa, ora, una fase di stallo, per "digerire" la novità e portare i progetti alla fase di esecutivo.
Corsa ai bandi anche sul massimo ribasso, criterio di aggiudicazione prima libero, e che da oggi diventa possibile solo fino a un milione di euro (al di sopra sarà obbligatoria la valutazione prezzo-qualità). Nelle ultime settimane l'Anas ha pubblicato 33 gare per accordi quadro di manutenzione straordinaria, tra cui 21 per la Salerno-Reggio Calabria, per un valore totale di 256 milioni di euro. Anche qui c'è da aspettarsi ora una fase di adattamento, soprattutto per fissare nuovi criteri di valutazione qualitativa delle offerte in lavori "di routine"
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Revisione per il silenzio-rifiuto. Riforma della Pa. Oggi i pareri di Camera e Senato sul provvedimento sulla trasparenza - Madia: correggeremo il testo.
È destinato a cambiare il meccanismo del silenzio-rifiuto scritto nella versione originaria del decreto trasparenza, il provvedimento attuativo della riforma della Pa.
Oggi le commissioni di Camera e Senato daranno il proprio parere sul decreto, e la modifica del silenzio-rifiuto dovrebbe essere in cima alle richieste parlamentari: la stessa ministra per la Pa e la semplificazione Marianna Madia, del resto, spiega di considerare «pienamente condivisibili» le osservazioni in arrivo dal Parlamento, impegnandosi a sostenerle in Consiglio dei ministri «affinché l’Italia possa avere la migliore legislazione possibile».
Pilastro anche comunicativo del capitolo che la riforma della Pa dedica alla trasparenza (Schema di decreto legislativo recante “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”), il Foia uscito dagli uffici di Palazzo Vidoni aveva incontrato le obiezioni sia del Consiglio di Stato sia dell’Anac. Il passaggio più critico, appunto, è quello del silenzio-rifiuto con cui il decreto, dopo aver aperto a tutti la possibilità di chiedere atti alla Pa, spiega che dopo 30 giorni la richiesta «si intende respinta»: il tutto senza obbligo di motivazione e senza sanzioni per i dirigenti della struttura che rimane muta. Un «paradosso», hanno spiegato i giudici amministrativi, con cui «un provvedimento sulla trasparenza nega ai cittadini di conoscere in maniera trasparente» le ragioni del rifiuto alla richiesta.
Consiglio di Stato e Anac, poi, hanno storto il naso anche sulla questione dei costi, sollevata dalla parte in cui il decreto mette a carico dei cittadini che fanno richiesta il rimborso degli oneri sostenuti dalla Pa per rispondere.
L’Autorità guidata da Raffaele Cantone ha suggerito di guardare al modello anglosassone, che pone una franchigia sui costi ordinari chiedendo solo un contributo per quelli superiori a una certa soglia, e ha proposto di intervenire in prima persona sul controllo dei comportamenti degli uffici pubblici, per evitare l’unica alternativa del ricorso al Tar (con altri costi per i cittadini): il Consiglio di Stato, dal canto suo, ha chiesto di prevedere come regola generale la richiesta telematica, che tagliando i costi per la Pa elimina anche il problema dei rimborsi.
In Parlamento, intanto, è arrivato anche il decreto anti-assenteismo
(Schema di decreto legislativo recante modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul licenziamento disciplinare - Atto del Governo n. 292 sottoposto a parere parlamentare), per un esame che non si annuncia scontato. Gli aspetti più delicati, come mostra anche il parere del Consiglio di Stato, sono il taglio dei tempi per le contestazioni disciplinari, che rischiano di rivelarsi troppo difficili da gestire nelle amministrazioni, e il licenziamento per i dirigenti che non vigilano: anche in questo caso, si tratta di due dei temi più dibattuti quando è stato scritto il decreto (articolo Il Sole 24 Ore del 20.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI: Fallimento differenziato per le società in house.
Una struttura ad hoc, con poteri vincolanti, per il controllo e il monitoraggio delle partecipate. Fallimento differenziato per le società in house che, in ragione della loro specificità, vanno distinte dalle altre società a partecipazione pubblica. Coinvolgimento dell'Antitrust, a fianco della Corte dei conti, nella vigilanza sui procedimenti di razionalizzazione periodica e revisione straordinaria delle partecipazioni. Maggiori chiarimenti sul destino delle società strumentali che, va precisato, continuano ad essere ammesse, a cominciare da quelle regionali, onde evitare entrate a gamba tesa nelle competenze dei governatori.

Il parere del Consiglio di stato sullo schema di decreto Madia di riforma delle partecipate è positivo
(Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 21.04.2016 n. 968 - Schema di decreto legislativo recante Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, in attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”), ma sono molti i rilievi di cui i tecnici del governo dovranno tenere conto nel predisporre il testo da inviare alle camere.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, il dlgs attuativo della legge delega di riforma della p.a. (legge 124/2015) «va nella direzione giusta di semplificare il frammentario quadro normativo esistente e di eliminare le moltissime società inutili, mantenendo solo quelle che svolgono un'utile attività di servizio pubblico».
Tuttavia, è lungo l'elenco di correzioni richieste dal supremo organo di giustizia amministrativa. A cominciare proprio dall'assenza di un sistema di controllo e monitoraggio in grado di assicurare efficacia nella fase di attuazione della riforma. Servono dunque strumenti più incisivi con l'individuazione di una struttura ad hoc, preposta in modo specifico allo svolgimento delle verifiche.
E ancora, viene chiesto di eliminare dal testo la possibilità per le amministrazioni di acquisire, per fini di investimento, partecipazioni in società tramite il conferimento di beni immobili, allo scopo di evitare l'elusione della nuova disciplina che vieta alle società a partecipazione pubblico, lo svolgimento di attività di impresa. Sul sistema di responsabilità, palazzo Spada auspica che venga definito con più precisione il riparto di giurisdizione tra Cassazione e Corte conti sulla responsabilità degli enti.
In particolare, secondo il Consiglio di stato, dovrebbe essere chiarito che «soltanto il danno diretto al patrimonio dell'amministrazione pubblica, e non anche quello indiretto, può giustificare l'attribuzione della giurisdizione della Corte dei conti» (articolo ItaliaOggi del 23.04.2016).

ENTI LOCALI: Pa, nuovo ok alla riforma delle partecipate. Consiglio di Stato. Dai giudici parere favorevole ma «allarme» su attuazione ed eccezioni.
Pochi giorni dopo il via libera da parte di Regioni ed enti locali per il testo unico sulle partecipate arriva anche il via libera del Consiglio di Stato.
Come accaduto alla maggioranza degli altri provvedimenti attuativi della riforma Madia già passati sul tavolo dei giudici amministrativi, il parere (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 21.04.2016 n. 968 - Schema di decreto legislativo recante Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, in attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”) è ricco di osservazioni sulle parti ritenute zoppicanti o a rischio costituzionalità.
Le maggiori «criticità rilevanti» vengono individuate nel fatto che manca un sistema certo per il monitoraggio degli effetti della riforma. Nel decreto, certo, una struttura per il controllo sulla riforma è prevista, ed è stata collocata al ministero dell’Economia dopo una lunga discussione interna al governo, ma per il momento rimane nel vago sia nella sua individuazione sia nei criteri e nei poteri che devono guidare la sua attività. Senza precisare questi aspetti, sostengono i giudici, è impossibile centrare davvero gli obiettivi di privatizzazione e liberalizzazione che ispirano la riforma.
Per le stesse ragioni vanno corrette le deroghe che escludono una serie di realtà dall’applicazione delle nuove regole. Il testo approvato in prima lettura a Palazzo Chigi lascia espressamente inalterate le discipline di settore scritte «in leggi o regolamenti governativi o ministeriali», ma il Consiglio di Stato chiede di limitare la geografia delle esclusioni: a sopravvivere devono essere solo le regole previste dalla legge primaria, e le deroghe devono essere a tempo. Anche per le società statali escluse a priori dalla riforma, ed elencate in un allegato al decreto, il governo è chiamato a «chiarire le ragioni» dell’esclusione: in gioco ci sono nomi importanti nel panorama delle aziende di Stato come Anas, Invitalia, Sogin, Invimit, ma anche realtà più piccole come Eur Spa, Arexpo, oltre a Coni servizi.
Al parere non sfugge poi la questione cruciale del ruolo della Corte dei conti. Sul punto il testo ha ballato parecchio, e la versione finale prevede la possibilità del danno erariale per tutti i casi in cui la cattiva gestione colpisce conti o patrimonio dell’ente socio. Il tema è delicato, e i giudici chiedono di fare chiarezza: la Corte dei conti, secondo il parere, dovrebbe intervenire solo sui danni «diretti» all’ente, recuperando quindi la formula prevista nelle prime versioni del testo, e il governo dovrebbe dire una parola definitiva sulla possibilità per la Corte dei conti di contestare il danno erariale in tutte le società in house.
Sul piano della concorrenza, poi, i giudici suggeriscono un sistema di vincoli graduati, che premi chi si è sottoposto a gara e stringa invece sui titolari di affidamenti diretti: un’indicazione, questa, arrivata anche dalle amministrazioni locali, che chiedono anche di abbassare da un milione a 500mila euro la soglia di fatturato sotto la quale scatta l’obbligo di alienazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2016).

ENTI LOCALI: I punti principali del parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto recante «Schema di decreto legislativo recante Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, in attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”)» (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 21.04.2016 n. 968).
1. Le finalità
Il Consiglio di Stato, con il parere resto sullo schema di decreto recante “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”, ha messo in rilievo come la finalità dell’intervento legislativo di riforma del sistema delle società a partecipazione pubblica sia stata quella di semplificare e razionalizzare le regole vigenti in materia, attraverso il riordino delle disposizioni nazionali e la creazione di una disciplina generale organica. Il quadro normativo attuale è, infatti, il risultato di una serie di interventi frammentari adottati in contesti storici diversi per perseguire finalità di volta in volta imposte da esigenze contingenti.
2. Il contesto europeo e costituzionale
Il Consiglio di Stato ha ricostruito il contesto europeo e costituzionale in cui si colloca l’intervento di riforma, al fine di proporre modifiche al testo conformi ai principi di concorrenza e alle regole che presiedono al riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regioni.
3. I modelli di società
Nel parere sono stati individuati i modelli di società esistenti prima della riforma, distinguendosi società che si collocano in una prospettiva di regolazione prevalentemente privatistica e società che si collocano in una prospettiva di regolazione prevalentemente pubblicistica. Il primo modello generale ricomprende le società a partecipazione pubblica. Il secondo modello ricompre le società in house, le società strumentali e l’organismo di diritto pubblico in forma societaria.
4. Oggetto del decreto
Lo schema di decreto ha previsto, quale regola generale, l’applicazione delle norme del codice civile e delle “leggi speciali” ove non derogate dal decreto stesso. Il Consiglio di Stato ha segnalato l’opportunità di sostituire l’espressione “leggi speciali”, che potrebbe comportare dubbi in fase applicativa, con “norme generali di diritto privato” e “norme generali di diritto amministrativo”, quale la legge n. 241 del 1990 e il Codice dei contratti pubblici.
5. Il sistema delle esclusioni
Nello schema di decreto sono contemplate le seguenti forme di esclusione: la prima, attuata mediante rinvio a disposizioni di legge o regolamento (comma 4, lettera a); la seconda, attuata mediante l’adozione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (comma 6); la terza, attuata mediante l’elencazione delle singole società pubbliche sottratte al rispetto dell’art. 4 del testo unico.
Il Consiglio di Stato, in relazione alla prima forma di esclusione legislativa, ha posto in rilievo che sarebbe necessario:
- limitare la deroga soltanto alle disposizioni contenute in «leggi» e non anche in fonti di rango inferiore;
- chiarire quale sia la disciplina ad esse applicabile;
- effettuare una ricognizione puntuale di tali società, almeno di quelle a partecipazione pubblica statale e della relativa parte di disciplina;
- indicare un termine massimo di durata di tale regime derogatorio.
In relazione alla seconda forma di esclusione, il Consiglio di Stato ha sostenuto la necessità di una precisa individuazione dei criteri, da inserire nel decreto, che devono guidare l’esercizio del potere del Presidente del Consiglio dei ministri, ritenendo, comunque, non possibile l’esclusione totale dall’applicazione dello schema di decreto.
Nel parere si afferma che utili indici sintomatici dell’idoneità delle società a partecipazione pubblica ad essere escluse, in parte, dall’applicazione del decreto potrebbero essere, tra gli altri, la virtuosità finanziaria, lo svolgimento di attività d’impresa per il perseguimento di rilevanti interessi pubblici, l’aver conseguito affidamenti in base a procedure competitive.
In relazione alla terza forma di esclusione, il Consiglio di Stato ha evidenziato come sia necessario chiarire quali siano le ragioni che hanno condotto all’individuazione delle società indicate nell’Allegato A al decreto stesso, precisando che per esse deve comunque operare il “vincolo di scopo” (si v. punto 5).
6. Modelli societari
Il Consiglio di Stato ha rilevato come la mancanza di una più precisa indicazione dei modelli societari non sia coerente con i criteri della legge delega e rischi di non consentire il raggiungimento delle finalità di semplificazione del quadro complessivo di disciplina.
Nel parere si sottolinea come dovrebbe essere definita, nell’ambito di un primo modello generale, una distinzione più netta tra “società a controllo pubblico”, “società a partecipazione pubblica”, “società quotate”, con deroghe al codice civile che assumono connotati di intensità gradualmente più ridotta.
Nell’ambito di un secondo modello generale dovrebbero confluire le “società strumentali” e le “società in house”, con deroghe al codice civile che assumono connoti di intensità maggiore. In particolare, l’autonomia del modello dell’in house deriva, oltre che dalla valorizzazione dei suddetti criteri della legge delega, dalla previsione, imposta dal diritto europeo, di un assetto organizzativo che non risulta compatibile con quello predefinito dal codice civile.
5. Le finalità perseguite
Lo schema di decreto definisce il nuovo perimetro entro cui le società pubbliche possono operare. Il Consiglio di Stato ha messo in rilievo come sia stato previsto accanto ad un “vincolo di scopo”, costituito dal perseguimento delle finalità istituzionali della pubblica amministrazione, un “vincolo di attività”, segnalando la necessità di:
- indicare che le società a partecipazione pubblica possono svolgere, accanto alle attività di “servizio di interesse generale”, anche attività di “servizio di interesse economico generale”;
- chiarire che continuano ad essere ammesse le società strumentali, al fine di evitare un possibile dubbio di costituzionalità in relazione alle “società strumentali regionali”, la cui disciplina rientra nella competenza legislativa regionale in materia di organizzazione amministrativa;
- indicare se il “vincolo di attività” operi anche per l’attività che la società in house svolge non a favore delle amministrazioni;
- eliminare dal testo la possibilità per le amministrazioni di acquisire, per fini di investimento, partecipazioni in società tramite il conferimento di beni immobili, allo scopo di evitare l’elusione della nuova disciplina che vieta alle società a partecipazione pubblico, lo svolgimento di attività di impresa.
Le limitazioni introdotte rende evidente che il complessivo disegno riformatore si prefigge lo scopo assicurare nuove forme di privatizzazione sostanziale con impulso positivo ai processi di liberalizzazione delle attività economiche.
6. Costituzione delle società a partecipazione pubblica
La decisione dell’amministrazione, si è rilevato nel parere, finalizzata ad esternare le ragioni della costituzione di una società di capitali e la manifestazione di volontà diretta alla formale costituzione dell’ente devono essere contenuti in atti separati, essendone differente la natura e il conseguente regime
7. Principio di separazione tra attività protette da diritti speciali o esclusivi e altre attività
Nel parere si è messo in rilievo l’opportunità di precisare l’ambito in cui l’attribuzione alle società a controllo pubblico di un «diritto speciale o esclusivo» possa fare sorgere un dovere di attuazione del principio di separazione tra attività che godono di particolari privilegi e altre attività, al fine di limitare tale ambito soltanto alle fattispecie in cui il riconoscimento di tali diritti si risolva in un effettivo possibile vantaggio competitivo.
8. Gestione delle partecipazioni pubbliche
La previsione di una disciplina di dettaglio in ordine alle modalità organizzative interne delle società a partecipazione pubblica regionale potrebbe porre, si sottolinea nel parere, un problema di compatibilità costituzionale con le regole di riparto delle competenze, che assegnano alla funzione legislativa delle Regioni la competenza in materia di organizzazione amministrativa riferita agli apparati delle Regioni.
9. Organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico
Il Consiglio di Stato ha sollevato dubbi di conformità al principio costituzionale di ragionevolezza della norma che vieta a tutti i dipendenti pubblici di essere amministratori delle società in controllo pubblico, suggerendo di limitare il divieto soltanto ai “dipendenti delle amministrazioni titolari delle partecipazioni pubbliche”.
10. Sistema di responsabilità
Nel parere si indica la necessità di definire con maggiore precisione il sistema di riparto di giurisdizione tra Corte dei Cassazione e Corte dei conti in materia di responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate.
In particolare, dovrebbe essere chiarito che, in relazione alle società a partecipazione pubblica, soltanto il danno “diretto” e non anche quello “indiretto” al patrimonio della amministrazione pubblica può giustificare l’attribuzione della giurisdizione della Corte dei conti. In relazione alle società in house il Consiglio di Stato ha rimesso al Governo la decisione in ordine all’opportunità di chiarire se per tale tipologia di società si giustifichi sempre la giurisdizione della Corte dei conti.
11. Crisi di impresa
Nel parere si rimette al Governo la decisione in ordine alla possibilità di introdurre per le società in house o strumentali, in ragione delle loro peculiarità relative all’assetto organizzativo, un sistema di gestione della crisi di impresa diverso dall’applicazione integrale delle disciplina del fallimento prevista per le altre società a partecipazione pubblica.
12. Monitoraggio, indirizzo e coordinamento sulle società a partecipazione pubblica
Il parere prospetta rilevanti criticità in ordine alla mancanza di un sistema di controllo e monitoraggio in grado di assicurare una fase efficace di attuazione delle norme contenute nello schema di decreto. In particolare, la formulazione proposta non individua una struttura competente preposta specificamente allo svolgimento di questa importante attività né indica poteri vincolanti che si dimostrino appropriati e forti rispetto alle finalità perseguite dalla riforma.
L’esigenza di contemplare un modello di attuazione rispondente ai criteri che il Consiglio di Stato ha indicato è stata ritenuta meritevole di particolare attenzione anche dal Country report 26.02.2016. SWD, 81, final.
13. Società in house
In relazione alla disciplina delle società in house il Consiglio di Stato fa presente che sarebbe opportuno chiarire che:
- la partecipazione dei privati deve essere “prescritta” da specifiche disposizioni di legge, che indichino le ragioni che giustificano la partecipazione di privati stessi nella compagine societaria:
- le modalità predeterminate attraverso le quali si svolge il controllo analogo potrebbero, per la mancanza di prescrizioni effettivamente cogenti, non assicurare una gestione da parte delle amministrazioni pubbliche rispondente al modello prefigurato dal legislatore europeo;
- l’attività dedicata a favore delle amministrazioni deve essere “oltre l’ottanta per cento” e non, come previsto dallo schema del decreto, di “almeno l’ottanta per cento”;
- l’attività extra moenia dovrebbe, da un lato, potersi svolgere senza necessità di dovere conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza, dall’altro, senza possibilità, ammessa dallo schema di decreto, di “sanatoria” qualora la stessa superi la soglia consentita.
14. Razionalizzazione periodica e revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche
In relazione alle suindicate fasi nel parere, da un lato, si indica l’opportunità di coinvolgere oltre la Corte dei Conti anche, in funzione di vigilanza, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, dall’altro, si prescrive di limitare l’apparato sanzionatorio previsto per la mancata attuazione dei principi che sovraintendono a queste fasi alle società a partecipazione pubblica locale, in quanto la prevista generalizzazione delle sanzioni non ha copertura nella legge di delega.
15. Gestione del personale
Il Consiglio di Stato ha rilevato come sia necessario chiarire quale sia l’ambito applicativo delle regole pubbliche che devono essere rispettate nella selezione del personale, con particolare riferimento alla posizione delle società in house e delle società strumentali.
Per quanto attiene, invece, alla fase transitoria del “personale eccedente” all’esito delle procedure di revisione delle società a partecipazione pubbliche esistenti, inserito nell’elenco gestito dal Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel parere si segnala che:
- dovrebbe essere ridotto, per evitare possibili frizioni con il principio del concorso pubblico, il periodo temporale fissato dal decreto che obbliga le società a controllo pubblico ad attingere, per le nuove assunzioni, dal suddetto elenco;
- sarebbe necessario ammettere l’avvio delle procedure concorsuali nei casi in cui sia indispensabile personale che abbia competenze specifiche senza necessità che esso abbia un profilo «infungibile»;
- l’avvio delle predette procedure non dovrebbe essere sottoposto ad un vero e proprio atto di autorizzazione da parte della Presidenza del Consiglio o del Ministero dell’economia e delle finanze, ma dovrebbe essere demandato alle singole società con imposizione di un dovere di interloquire con le amministrazioni sopra indicate (tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn generale, per principi consolidati –che costituiscono altresì principi fondanti in tema di governo del territorio- gli art. 16, 17 e 28 l. n. 1150 del 1942 prevedono un termine non superiore a dieci anni entro il quale le opere contenute nei piani particolareggiati, cui si assimilano le lottizzazioni convenzionate, devono essere eseguite; pertanto, le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, convenzionale o autoritativo, non possono essere attuate oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente in materia urbanistica riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche con una nuova convenzione di lottizzazione.
Analogamente, e parallelamente, il privato ha dieci anni di tempo per l'esecuzione delle opere previste in convenzione, con la conseguenza che soltanto dalla data di scadenza della convenzione medesima è possibile verificare se le opere siano state o meno eseguite.
Ed invero, premesso che la convenzione di lottizzazione, anche se istituto di complessa ricostruzione a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre un incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile; nel caso di specie la richiesta di proroga inoltrata al Comune dalla società odierna ricorrente costituiva una proposta di modifica delle condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto essere accettata da controparte secondo i comuni principi civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a regole di impronta pubblicistica, costituendo materia rimessa all'accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò si ricava dal fatto che sul punto il legislatore si è limitato a fissare il termine massimo di durata (stabilito in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3, della legge 17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in convenzione deve comunque essere indicata la durata della convenzione, la cui concreta definizione è però rimessa alle parti.
Pertanto, per una modifica dell'accordo si applica la normativa codicistica ai sensi dell'art. 11, comma 3, della legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi nella specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca del consenso del privato su un certo assetto di interessi ed attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne consegue che la sua modifica necessita della manifestazione di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro formazione.

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In termini generali va ricordato che la previsione di precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e di termini per l'avvio e il completamento dei lavori risponde a rilevanti esigenze di interesse pubblico, ossia alla necessità per la collettività di poter contare sulla realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e definito.
La previsione di un differimento ex lege di tale termine presenta pertanto un evidente carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema.
L'interpretazione restrittiva del comma 3-bis dell'art. 30, d.l. n. 69 del 2013 è imposta, quindi, innanzitutto dal principio generale sancito dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale con riferimento a tutte le norme eccezionali, oltre che dalle finalità connesse.
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... per l'accertamento dell’inadempimento del controinteressato agli obblighi derivanti da convenzione urbanistica - richiesta risarcimento danni.
...
Peraltro, il ricorso è prima facie infondato nel merito.
Assume rilievo dirimente ai fini di causa il dato, incontestato fra le parti e pacificamente emergente dagli atti di causa, che la convenzione sia tutt’ora pienamente efficace.
In generale, per principi consolidati –che costituiscono altresì principi fondanti in tema di governo del territorio- gli art. 16, 17 e 28 l. n. 1150 del 1942 prevedono un termine non superiore a dieci anni entro il quale le opere contenute nei piani particolareggiati, cui si assimilano le lottizzazioni convenzionate, devono essere eseguite; pertanto, le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, convenzionale o autoritativo, non possono essere attuate oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente in materia urbanistica riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche con una nuova convenzione di lottizzazione (cfr. ex multis CdS 851/2007).
Analogamente, e parallelamente, il privato ha dieci anni di tempo per l'esecuzione delle opere previste in convenzione, con la conseguenza che soltanto dalla data di scadenza della convenzione medesima è possibile verificare se le opere siano state o meno eseguite (cfr. ad es. Tar Lombardia n. 2428/2013).
Ed invero, premesso che la convenzione di lottizzazione, anche se istituto di complessa ricostruzione a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre un incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2013, nr. 4810); nel caso di specie la richiesta di proroga inoltrata al Comune dalla società odierna ricorrente costituiva una proposta di modifica delle condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto essere accettata da controparte secondo i comuni principi civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a regole di impronta pubblicistica, costituendo materia rimessa all'accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò si ricava dal fatto che sul punto il legislatore -che pure ha analiticamente regolato il contenuto delle convenzioni de quibus- si è limitato a fissare il termine massimo di durata (stabilito in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3, della legge 17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in convenzione deve comunque essere indicata la durata della convenzione, la cui concreta definizione è però rimessa alle parti.
Pertanto, per una modifica dell'accordo si applica la normativa codicistica ai sensi dell'art. 11, comma 3, della legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi nella specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca del consenso del privato su un certo assetto di interessi ed attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne consegue che la sua modifica necessita della manifestazione di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro formazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, nr. 693).
Nel caso di specie, se per un verso nessun accordo modificativo in termini riduttivi del termine risulta essere stato concluso, cosicché lo stesso va applicato in termine decennali (con scadenza all’01.12.2016, e ciò sarebbe già dirimente a fini di causa), per un altro verso va altresì ricordato come sia sopraggiunto un dato normativo in grado di estendere ulteriormente, ex lege, tale termine. A quest’ultimo proposito, va infatti richiamato il principio dettato ex art. 30, comma 3-bis, d.l. 69/2013, a mente del quale “Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre anni”.
In termini generali va ricordato che la previsione di precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e di termini per l'avvio e il completamento dei lavori risponde a rilevanti esigenze di interesse pubblico, ossia alla necessità per la collettività di poter contare sulla realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e definito; e tale indicazione va ribadita anche agli specifici fini della presente causa, caratterizzata in ogni caso dalla mancanza del presupposto della scadenza di tale termine (originariamente scadente infatti il 01.12.2016).
La previsione di un differimento ex lege di tale termine presenta pertanto un evidente carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema. L'interpretazione restrittiva del comma 3-bis dell'art. 30, d.l. n. 69 del 2013 è imposta, quindi, innanzitutto dal principio generale sancito dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale con riferimento a tutte le norme eccezionali, oltre che dalle finalità connesse (cfr. sul punto ad es. Tar Lombardia n. 78/2016).
Peraltro nel caso de quo, anche applicando tali canoni ermeneutici restrittivi la proroga legislativa appare applicabile, trattandosi di convenzione stipulata anteriormente al 31.12.2012 e tutt’ora in corso di efficacia (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 20.04.2016 n. 137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In materia di "soccorso istruttorio".
L’art. 38, comma 2-bis, del codice dei contratti pubblici, come novellato dall’art. 39 della L. 11.08.2014 n. 114 (recante conversione in legge, con modificazioni, del DL. 24.06.2014 n. 90) prevede:
- che in caso di mancanza, incompletezza o altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni che il concorrente sia tenuto a produrre per dimostrare il possesso dei requisiti generali (e di moralità) necessari per partecipare alla gara d’appalto, la Stazione appaltante “assegna (…) un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie (…)”;
- e che l’esclusione del concorrente dalla gara può essere disposta solamente nel caso in cui lo stesso non provveda alla regolarizzazione entro il termine assegnatogli.
Ciò significa:
- che la regolarizzazione è ammessa anche nel caso in cui la ditta partecipante alla gara abbia del tutto omesso di produrre una delle dichiarazioni relative al possesso dei ‘requisiti di ordine generale’ (o ‘requisiti generali’);
- e che nel caso in cui la ditta concorrente sia in possesso dei predetti ‘requisiti generali’ (e dei requisiti morali) ma abbia omesso di dichiararlo (o abbia effettuato una dichiarazione lacunosa o poco chiara), può regolarizzare la sua posizione (e colmare così tale lacuna documentale) producendo, entro il termine assegnato dal Seggio di Gara, la prescritta dichiarazione (o una più completa ed esaustiva dichiarazione).
Tale norma, dunque:
- ha determinato il superamento del precedente sistema di principi in tema di ‘soccorso istruttorio’ (enunciati in Ad. Pl. 25.02.2014 n. 9); sistema che escludeva la possibilità di ricorrere alla “regolarizzazione documentale” nei casi di omessa produzione di un documento (prescritto a pena di esclusione), e che limitava la possibilità di utilizzo dell’istituto in questione ai soli casi di avvenuta produzione di documenti contenenti errori, lacune o ambiguità;
- e si è posta sulla scia dell’orientamento giurisprudenziale “sostanzialistico” -via via affermatosi (in aderenza al disposto dell’art. 45 della Direttiva n. 2004/18/CE, e sulla scorta di C.S., Ad. Pl. 16.10.2013 n. 23)- secondo cui solamente la reale mancanza di un requisito generale legittima la esclusione dalla gara; infine culminato nell’affermazione secondo cui non appare giusto né equo che un soggetto che possa dimostrare, eventualmente anche mediante strumenti procedimentali di c.d. “soccorso istruttorio”, di avere tutti i prescritti requisiti morali (oltre agli altri richiesti dal bando) sia escluso da una procedura concorsuale.
Tale orientamento è stato valorizzato ed ha ricevuto il definitivo avallo dalla pronunzia n. 16 del 30.07.2014 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che afferma che l’intero impianto della ‘novella’ in esame:
- va interpretato come indice “della volontà del Legislatore di evitare (… omissis …) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni); … (omissis …) e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, dell’obbligo di integrazione documentale (entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante)”;
- ed “indica la volontà univoca del legislatore di valorizzare il potere di soccorso istruttorio al duplice fine di evitare esclusioni formalistiche e di consentire le più complete ed esaustive acquisizioni istruttorie”.

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1. L’appello proposto dall’a.t.i. STRADE 2010–PERNICE IMPIANTI, è infondato.
Con unico articolato motivo di gravame l’appellante si duole dell’ingiustizia dell’impugnata sentenza, lamentando violazione falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del codice dei contratti pubblici ed eccesso di potere giurisdizionale per difetto d’istruttoria ed insufficiente motivazione, deducendo che il Giudice di primo grado:
- ha erroneamente ritenuto che il Seggio di gara avrebbe dovuto avviare il c.d. “soccorso istruttorio” e consentire all’a.t.i. ITAL SYSTEM-DIVA di regolarizzare la propria documentazione (producendo la dichiarazione di adesione al Protocollo di Legalità mancante in atti);
- e parimenti erroneamente ritenuto che a seguito della novella normativa in materia di “soccorso istruttorio” (introdotta con la L. n. 114 del 2014), la ‘regolarizzazione’ sia ammissibile (e vada dunque ammessa) anche a fronte della mancata produzione di un documento essenziale.
La doglianza non merita accoglimento.
Il Giudice di primo grado ha correttamente interpretato ed applicato l’art. 38, comma 2-bis, del codice dei contratti pubblici, come novellato dall’art. 39 della L. 11.08.2014 n. 114 (recante conversione in legge, con modificazioni, del DL. 24.06.2014 n. 90).
La citata norma prevede:
- che in caso di mancanza, incompletezza o altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni che il concorrente sia tenuto a produrre per dimostrare il possesso dei requisiti generali (e di moralità) necessari per partecipare alla gara d’appalto, la Stazione appaltante “assegna (…) un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie (…)”;
- e che l’esclusione del concorrente dalla gara può essere disposta solamente nel caso in cui lo stesso non provveda alla regolarizzazione entro il termine assegnatogli.
Ciò significa:
- che la regolarizzazione è ammessa anche nel caso in cui la ditta partecipante alla gara abbia del tutto omesso di produrre una delle dichiarazioni relative al possesso dei ‘requisiti di ordine generale’ (o ‘requisiti generali’);
- e che nel caso in cui la ditta concorrente sia in possesso dei predetti ‘requisiti generali’ (e dei requisiti morali) ma abbia omesso di dichiararlo (o abbia effettuato una dichiarazione lacunosa o poco chiara), può regolarizzare la sua posizione (e colmare così tale lacuna documentale) producendo, entro il termine assegnato dal Seggio di Gara, la prescritta dichiarazione (o una più completa ed esaustiva dichiarazione).
Tale norma, dunque:
- ha determinato il superamento del precedente sistema di principi in tema di ‘soccorso istruttorio’ (enunciati in Ad. Pl. 25.02.2014 n. 9); sistema che escludeva la possibilità di ricorrere alla “regolarizzazione documentale” nei casi di omessa produzione di un documento (prescritto a pena di esclusione), e che limitava la possibilità di utilizzo dell’istituto in questione ai soli casi di avvenuta produzione di documenti contenenti errori, lacune o ambiguità;
- e si è posta sulla scia dell’orientamento giurisprudenziale “sostanzialistico” -via via affermatosi (in aderenza al disposto dell’art. 45 della Direttiva n. 2004/18/CE, e sulla scorta di C.S., Ad. Pl. 16.10.2013 n. 23)- secondo cui solamente la reale mancanza di un requisito generale legittima la esclusione dalla gara (C.S., III, 06.02.2014 n. 583); infine culminato nell’affermazione secondo cui non appare giusto né equo che un soggetto che possa dimostrare, eventualmente anche mediante strumenti procedimentali di c.d. “soccorso istruttorio”, di avere tutti i prescritti requisiti morali (oltre agli altri richiesti dal bando) sia escluso da una procedura concorsuale (C.S., III, 21.05.2015 nn. 5038 e 5041).
Tale orientamento è stato valorizzato ed ha ricevuto il definitivo avallo dalla pronunzia n. 16 del 30.07.2014 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che afferma che l’intero impianto della ‘novella’ in esame:
- va interpretato come indice “della volontà del Legislatore di evitare (… omissis …) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni); … (omissis …) e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, dell’obbligo di integrazione documentale (entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante)” (C.S., Ad.Pl., 30.07.2014 n. 16);
- ed “indica la volontà univoca del legislatore di valorizzare il potere di soccorso istruttorio al duplice fine di evitare esclusioni formalistiche e di consentire le più complete ed esaustive acquisizioni istruttorie” (C.S., Ad.Pl., ult. sent. cit.) (C.G.A.R.S., sentenza 20.04.2016 n. 116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ausiliaria insostituibile? Il Cds rinvia alla corte di giustizia Ue.
Rinviata alla Corte di giustizia europea la questione di legittimità comunitaria del codice dei contratti pubblici che, in caso di avvalimento, non consente la sostituzione dell'impresa ausiliaria a seguito della perdita dei requisiti dell'impresa ausiliaria.

È quanto ha disposto l'ordinanza 15.04.2016 n. 1522 con la quale il Consiglio di Stato -Sez. IV- ha rimesso alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale inerente l'esclusione di un concorrente a causa della perdita, in corso di gara, dei requisiti di qualificazione della ausiliaria indicata.
In questo caso la normativa nazionale italiana (art. 49 del decreto 163/2006) attuativa della direttiva 2004/18/Ce, mentre ammette, in applicazione dell'art. 47 secondo comma e 48 terzo comma della direttiva 2004/18/Ce (ora sostituiti dalla disciplina dell'art. 63 della direttiva 2014/24/Ue) che il concorrente possa avvalersi dei requisiti e attestazioni di altra impresa cosiddetta ausiliaria, non consente espressamente, e a differenza di quanto previsto, sia pure per la fase di esecuzione dall'art. 38 commi 17 e 18 dello stesso dlgs 163/2006, che in caso di perdita o riduzione dei requisiti di partecipazione in capo all'impresa ausiliaria indicata essa possa essere sostituita con altra impresa.
La disciplina normativa comunitaria assegna, invece, rilievo, in chiave sostanziale, alla prova che l'impresa di cui il concorrente si avvale abbia i requisiti di capacità economica e finanziaria e tecnica, e l'art. 69 stabilisce, nel caso in cui il soggetto indicato «non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione», che l'amministrazione aggiudicatrice imponga al concorrente di sostituire tale soggetto privo del requisito.
Per il consiglio di stato esiste quindi il dubbio se la normativa nazionale sia compatibile con la normativa comunitaria, nella parte in cui esclude (o possa essere interpretata nel senso che esclude) la possibilità per il concorrente di indicare altra impresa in luogo di quella originariamente assunta quale «impresa ausiliaria», che abbia perduto o abbia visto ridurre i requisiti di partecipazione, e quindi comporti l'esclusione dell'operatore economico dalla gara per fatto non a lui riconducibile né oggettivamente né soggettivamente (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).
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MASSIMA
La normativa nazionale rilevante.
12.) L’art. 40 del d.lgs. 12.04.2006 n.163 (“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”), intitolato “Qualificazione per eseguire lavori pubblici” dispone, per quanto qui rileva, che: “1. I soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici devono essere qualificati e improntare la loro attività ai principi della qualità, della professionalità e della correttezza. Allo stesso fine i prodotti, i processi, i servizi e i sistemi di qualità aziendali impiegati dai medesimi soggetti sono sottoposti a certificazione, ai sensi della normativa vigente.
2. Con il regolamento previsto dall'articolo 5, viene disciplinato il sistema di qualificazione, unico per tutti gli esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici, di importo superiore a 150.000 euro, articolato in rapporto alle tipologie e all'importo dei lavori stessi. Con il regolamento di cui all'articolo 5 possono essere altresì periodicamente revisionate le categorie di qualificazione con la possibilità di prevedere eventuali nuove categorie
.”
L’art. 49 dello stesso d.lgs. n. 163/2006, intitolato “Avvalimento” a sua volta, stabilisce, per quanto qui interessa, che: "Il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell'articolo 34, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell'attestazione SOA di altro soggetto”.
La normativa comunitaria rilevante.
13.) L’art. 47 della Direttiva 2004/18/CE al secondo alinea, intitolato “Capacità economica e finanziaria” prevede che: “Un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare alla amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell'impegno a tal fine di questi soggetti”.
L’art. 48 successivo, intitolato “Capacità tecniche e professionali”, a sua volta, al terzo alinea stabilisce che: “Un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi. Deve, in tal caso, provare all'amministrazione aggiudicatrice che per l'esecuzione dell'appalto disporrà delle risorse necessarie ad esempio presentando l'impegno di tale soggetto di mettere a disposizione dell'operatore economico le risorse necessarie”.
L’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE del 26.02.2014, intitolato “Affidamento sulle capacità di altri soggetti”, prevede per quanto qui rileva che (corsivi dell’estensore): "1. Per quanto riguarda i criteri relativi alla capacità economica e finanziaria stabiliti a norma dell'articolo 58, paragrafo 3, e i criteri relativi alle capacità tecniche e professionali stabiliti a norma dell'articolo 58, paragrafo 4, un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
Per quanto riguarda i criteri relativi all'indicazione dei titoli di studio e professionali di cui all'allegato XII, parte II, lettera f), o alle esperienze professionali pertinenti, gli operatori economici possono tuttavia fare affidamento sulle capacità di altri soggetti solo se questi ultimi eseguono i lavori o i servizi per cui tali capacità sono richieste. Se un operatore economico vuole fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, dimostra all'amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell'impegno assunto da detti soggetti a tal fine.
L'amministrazione aggiudicatrice verifica, conformemente agli articoli 59, 60 e 61, se i soggetti sulla cui capacità l'operatore economico intende fare affidamento soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell'articolo 57. L'amministrazione aggiudicatrice impone che l'operatore economico sostituisca un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione. L'amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l'operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione.
Se un operatore economico si affida alle capacità di altri soggetti per quanto riguarda i criteri relativi alla capacità economica e finanziaria, l'amministrazione aggiudicatrice può esigere che l'operatore economico e i soggetti di cui sopra siano solidalmente responsabili dell'esecuzione del contratto
”.
L’art. 91 della Direttiva 2014/24/UE, nello stabilire che la “La direttiva 2004/18/CE è abrogata a decorrere dal 18.04.2016”, precisa che “I riferimenti alla direttiva abrogata si intendono fatti alla presente direttiva e si leggono secondo la tavola di concordanza di cui all'allegato XV”.
La tavola di concordanza di cui all’allegato XV nella parte che interessa è così formulata: Articolo 63, paragrafo 1 Articolo 47, paragrafi 2 e 3; articolo 48, paragrafi 3 e 4
Articolo 63, paragrafo 2 —

I possibili profili di contrasto tra la normativa nazionale e la normativa comunitaria.
14.) La normativa nazionale italiana, attuativa della direttiva 2004/18/CE, e segnatamente l’art. 49 del d.lgs. n. 163/2006, mentre ammette, in attuazione dell’art. 47 secondo alinea e 48 terza alinea della Direttiva 2004/18/CE (ora sostituiti dalla disciplina dell’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE) che il concorrente possa avvalersi dei requisiti e attestazioni di altra impresa c.d. ausiliaria, non consente espressamente, e a differenza di quanto previsto, sia pure per la fase di esecuzione dall’art. 38, commi 17 e 18, dello stesso d.lgs. n. 163/2006, che in caso di perdita o riduzione dei requisiti di partecipazione in capo all’impresa ausiliaria indicata essa possa essere sostituita con altra impresa.
La disciplina normativa comunitaria assegna, dunque, rilievo, in chiave sostanziale, alla prova che l’impresa di cui il concorrente si avvale abbia i requisiti di capacità economica e finanziaria e tecnica, e l’art. 69 innanzi citato stabilisce, nel caso in cui il soggetto indicato “non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione”, che l’amministrazione aggiudicatrice impone all’operatore economico, ossia a soggetto che concorre alla gara, di sostituire tale soggetto.
Si pone, quindi, ad avviso del Collegio, il dubbio se la normativa nazionale, nella parte in cui esclude, o possa essere interpretata nel senso che esclude, la possibilità per l’operatore economico, ossia per il soggetto che concorre alla gara, di indicare altra impresa in luogo di quella originariamente assunta quale “impresa ausiliaria”, che abbia perduto o abbia visto ridurre i requisiti di partecipazione, e quindi comporti l’esclusione dell’operatore economico dalla gara per fatto non a lui riconducibile né oggettivamente né soggettivamente, sia compatibile con la normativa comunitaria.
In tal senso il Collegio ritiene di dover pertanto sottoporre alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: “
Se gli artt. 47 secondo alinea e 48 terzo alinea della Direttiva 2004/18/CE, come sostituiti dall’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE ostino ad una disciplina normativa nazionale che esclude, o possa essere interpretata nel senso che esclude, la possibilità per l’operatore economico, ossia per il soggetto che concorre alla gara, di indicare altra impresa in luogo di quella originariamente assunta quale “impresa ausiliaria”, che abbia perduto o abbia visto ridurre i requisiti di partecipazione, e quindi comporti l’esclusione dell’operatore economico dalla gara per fatto non a lui riconducibile né oggettivamente né soggettivamente”.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) visti l’articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, l’articolo 79 del codice del processo amministrativo e l’art. 295 del codice di procedura civile, chiede alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea specificata in motivazione.
Ordina la sospensione del processo relativo all'appello n.r. 6073/2015 e la trasmissione di copia della presente ordinanza alla Cancelleria della Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

EDILIZIA PRIVATA: La crisi edilizia non giustifica la proroga dei termini del permesso di costruire.
La crisi economica, che ha afflitto il settore dell'edilizia, non è un motivo che può consentire la proroga sic et simpliciter dei termini di inizio e/o fine lavori del PDC.
Invero, in base all'art. 15 del DPR 06.06.2001 n. 380, i termini de quibus possono esser prorogati con provvedimento motivato solo per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del PDC, o in considerazione della mole dell'opera da realizzare o di particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive.
La crisi congiunturale dell'edilizia non è pertanto una valida ragione opponibile all’inutile decorso dei termini predetti, né per giustificare l'inerzia del titolare del PDC, perché fa riferimento a considerazioni generiche non rilevanti rispetto all'obbligo di osservare i tempi d’inizio e completamento dei lavori.
Inoltre, è jus receptum, che la decadenza costituisce l’effetto automatico dell’inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere. Pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc d’un effetto verificatosi ex se e direttamente.
In tal modo va letto l’art. 15, c. 2, II per. del DPR 380/2001, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, «…il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga…».
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... per la riforma della sentenza 14.11.2014 n. 449 del TAR Abruzzo–Pescara, resa tra le parti e relativa all’approvazione del nuovo PRG di Lanciano ed alla classificazione di terreni come agricoli (decadenza dei permessi di costruire e demolizione di opere edilizie);
...
1. – Il Comune di Lanciano impugna la sentenza con cui il del TAR Pescara ha accolto il ricorso di una impresa edile, inerente alla decadenza di essa dai suoi titoli edilizi (quello originario del 2005 per sei villette; quello in variante del 2007 per la realizzazione di altre otto) per effetto o a seguito del nuovo PRG, in virtù del quale le sue aree d’intervento in parte son state inserite in zona agricola e sottoposte a vincolo idrogeologico in base alle disposizione del vigente PAI locale.
2. – Va anzitutto esaminato l’appello incidentale proposto dalla predetta impresa, in quanto il suo eventuale accoglimento determinerebbe l’improcedibilità di quello del Comune.
Quanto al primo motivo incidentale, relativo all’omessa valutazione, da parte del TAR, della data in cui s’è verificata la decadenza dei due PDC, predica l’appellante incidentale che vi sia un differente termine d’inizio e fine lavori per ciascun titolo edilizio.
Ora, si può discettare se il titolo in variante del 2007 rechi, o no una mera aggiunta di opere del tutto nuove e diverse rispetto al PDC del 2005 e se vi sia una perfetta autonomia del secondo dal primo, onde a ciascuno di essi si applicherebbero i rispettivi termini d’inizio e fine lavori e per le sole opere colà previste.
Ciò che qui rileva, ai fini della decadenza d’entrambi i PDC, è che essa non può che operare in via automatica, se non si verifichi la conclusione dei relativi lavori «… entro il termine di tre anni dalla data di inizio…» di essi.
A ben vedere, il PDC n. 104/2007 ha disposto sì detta variante, ma con la conferma delle «… condizioni tutte prescritte nell’originaria concessione compreso il termine per l’ultimazione dei lavori…», sicché il dies ad quem, al momento della disposta decadenza, s’era consumato non per scelta della P.A., bensì per la sostanziale incapacità dell’appellante incidentale di terminare già le sole prime tre villette.
Al riguardo, basta rammentare ciò che disse quest’ultima nel suo atto per motivi aggiunti in primo grado (pag. 3), quando fece presente l’inizio dei lavori del PDC originario in data 04.06.2006, ossia ben prima della variante predetta. Né serve richiamare quindi la giurisprudenza sui criteri d’interpretazione del provvedimento amministrativo con clausole contraddittorie, giacché, negli stessi motivi aggiunti (pag. 4) e alla data del 29.11.2011 «… le strutture realizzate sono solo tre su otto di cui una sola porzione ultima (particella 4552) e altre tre da ultimare e verranno presumibilmente definite nei prossimi 3-5 anni a causa della crisi economica ed edilizia in atto…».
Sicché, pure ad accedere alla tesi dell’impresa e tralasciando il termine del PDC del 2005, il termine di complessivi quattro anni indicati nel PDC del 18.05.2008 alla data del 29.11.2011 era trascorso senza che le opere della “variante” fossero state ultimate.
Non va sottaciuto certo, a fronte della risposta che l’appellante incidentale diede al Comune ed alla SCIA del 03.02.2012 per l’ultimazione delle opere a quel tempo ancora incompiute, il chiaro principio affermato dalla Sezione (cfr. Cons. St., IV, 06.10.2014 n. 4975) e secondo il quale la crisi economica, che ha afflitto il settore dell'edilizia, non è un motivo che può consentire la proroga sic et simpliciter del PDC.
Invero, in base all'art. 15 del DPR 06.06.2001 n. 380, i termini de quibus possono esser prorogati con provvedimento motivato solo per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del PDC, o in considerazione della mole dell'opera da realizzare o di particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive.
La crisi congiunturale dell'edilizia non è pertanto una valida ragione opponibile all’inutile decorso dei termini predetti, né per giustificare l'inerzia del titolare del PDC, perché fa riferimento a considerazioni generiche non rilevanti rispetto all'obbligo di osservare i tempi d’inizio e completamento dei lavori.
Inoltre, è jus receptum (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 07.09.2011 n. 5028; id., 11.04.2014 n. 1747; ma cfr. pure id., III, 04.04.2013 n. 1870), che la decadenza costituisce l’effetto automatico dell’inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere. Pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc d’un effetto verificatosi ex se e direttamente (giurisprudenza prevalente: cfr. Cons. St., IV, 04.03.2014 n. 1013).
In tal modo va letto l’art. 15, c. 2, II per. del DPR 380/2001, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, «…il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga…».
Restano così assorbite tutte le questioni su tal natura dichiarativa, nonché sulla necessità dell’avviso d’avvio del procedimento di decadenza —del tutto superfluo nel caso in esame—, sulle quali il Collegio non può che condividere quanto statuito dal TAR.
Anzi, come fa presente il Comune di Lanciano, nella specie, più che il c. 2, s’applica il successivo c. 4, per cui «… il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio…».
Poiché nel caso in esame tutti tali termini erano già decorsi almeno al 29.11.2011, l’appellante incidentale nemmeno può godere delle proroghe ex art. 30, c. 3, del DL 21.06.2013 n. 69 e di quelle successivamente intervenute. Scolorano dunque le questioni sulla compatibilità, o non delle opere con le prescrizioni del PAI, all’interno della cui zona di rischio molto elevato ricade una parte dell’intervento costruttivo dell’appellante incidentale.
Infatti, di completato ed in parte, in via di definizione, delle tre villette, ce n’è solo una, la quale, quand’anche non ricadesse del tutto in area PAI P3, comunque sarebbe in area agricola, donde in ogni caso la rigorosa soggezione di essa alla valutazione ai sensi non solo dell’art. 14 delle NTA del nuovo PRG (il quale però subordina la legittimità dei PDC anteriormente rilasciati per la SOLA loro durata), ma pure e soprattutto del già citato art. 15, c. 4.
Da ciò discende, una volta appurata siffatta soggezione e sussistendo dubbi sulla possibilità del loro completamento, la non necessità, anzi l’inutilità d’acquisire, a cura del Comune stesso, il parere della competente Autorità di bacino sugli edifici stessi e sui lavori ancora da definire (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.04.2016 n. 1520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti: illegittima la rinnovazione delle operazioni di gara ad offerte aperte.
Se la commissione di gara, illegittimamente nominata prima della scadenza termine di presentazione delle offerte, ha interamente concluso i propri lavori, procedendo all’apertura delle buste contenenti le offerte economiche, non è possibile procedere ad una nuova valutazione delle offerte da parte della commissione rinominata in una diversa composizione.
In tal caso, il procedimento di gara deve intendersi interamente annullato ed insuscettibile di una parziale rinnovazione.

Questo il principio espresso dal TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 15.04.2016 n. 503.
Nel caso si specie la stazione appaltante aveva annullato in autotutela la nomina della commissione originaria e gli atti della procedura da questa compiuti perché i membri della commissione erano stati nominati prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, mantenendo ferme la documentazione amministrativa e le offerte già presentate, successivamente rivalutate da una nuova commissione.
Sul punto è sufficiente richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, nelle gare da aggiudicarsi con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la conoscenza dell’entità dell’offerta economica prima della valutazione dell’offerta tecnica mette in pericolo la garanzia dell’imparzialità dell’operato dell’organo valutativo.
Il principio di segretezza dell’offerta economica si pone infatti a presidio dell’attuazione della regola costituzionale di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, sub specie della trasparenza e della par condicio tra i concorrenti.
Di conseguenza, non è possibile procedere alla rinnovazione delle operazioni di gara se le offerte economiche sono già state aperte e conosciute (commento tratto da www.self-entilocali.it).
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MASSIMA
- che, nel merito, il ricorso è fondato;
- che
la rinnovazione della procedura a partire dalla nomina dei commissari di gara, mantenendo però ferme le offerte già presentate e valutate dal precedente seggio, ha determinato l’evidente violazione dei principi di segretezza delle offerte e di par condicio tra le imprese concorrenti, in quanto la nuova commissione di gara si è trovata a giudicare su offerte già note, specialmente nella componente del prezzo;
- che, come precisato dalla dominante giurisprudenza amministrativa,
nei casi in cui la procedura di gara pubblica (come nell’ipotesi di aggiudicazione dell'appalto con il sistema dell'offerta economicamente più vantaggiosa) è caratterizzata da una netta separazione tra la fase della valutazione dell'offerta tecnica e quella dell'offerta economica, il principio della segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa la valutazione delle offerte tecniche, le offerte economiche devono restare segrete, dovendo essere interdetta al seggio di gara la conoscenza degli elementi economici e, in particolare, delle percentuali di ribasso, proprio per evitare ogni influenza sulla valutazione dell'offerta tecnica; il principio di segretezza dell'offerta economica si pone infatti a presidio dell'attuazione della regola costituzionale di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, sub specie della trasparenza e della par condicio tra i concorrenti, dovendosi così necessariamente garantire la libera valutazione dell'offerta tecnica; ed invero, la sola possibilità di conoscere gli elementi attinenti l'offerta economica consente di modulare il giudizio sull'offerta tecnica sì da poterne sortire un effetto potenzialmente premiante nei confronti di una delle offerte complessivamente considerate e tale possibilità, anche solo eventuale, va ad inficiare la regolarità della procedura (così di recente, tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 824 del 2016; cfr. anche, nello stesso senso, TAR Sicilia, Catania, sez. II, sent. n. 1396 del 2015; TAR Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, sent. n. 394 del 2015; TAR Lazio, Latina, sez. I, sent. n. 142 del 2015; Cons. Stato, sez. III, sent. n. 5057 del 2014);
- che a conclusioni diverse non può condurre la pur invocata sentenza n. 30 del 2012 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, relativa alla diversa fattispecie in cui un’offerta sia stata illegittimamente pretermessa e venga riammessa in gara a seguito del giudicato di annullamento dell’esclusione, situazione in cui –come precisato dalla stessa Adunanza plenaria– la conseguente valutazione dell’offerta pretermessa avviene in un momento in cui i giudizi sulle offerte concorrenti sono ormai del tutto definiti;
- che, pertanto, con assorbimento delle ulteriori censure, va disposto l’annullamento di tutti gli atti impugnati, ai fini della riedizione della gara, mentre –con riguardo alla pur domandata pronuncia di declaratoria di inefficacia del contratto– non consta che sia stato stipulato il contratto di appalto tra l’amministrazione e l’impresa controinteressata;
- che le spese del giudizio devono tuttavia essere compensate tra le parti, avuto riguardo alla natura del vizio caducante la procedura, salva però –ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del d.P.R. n. 115 del 2002– la condanna dell’Istituto resistente alla restituzione del contributo unificato versato dalla ricorrente per la presente causa;

APPALTIL’art. 38, comma 1, lett. m-quater) del d.lgs. n. 163/2006 prevede l’esclusione dei concorrenti che si trovino, “rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
Il comma 2 dell’articolo precisa che tale esclusione possa avvenire soltanto “sulla base di univoci elementi”.
Ciò posto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto ampio modo di sottolineare l'estremo rigore che deve ispirare l'esame circa l’esistenza in concreto dei presupposti applicativi della previsione appena vista, la quale presuppone la rilevazione di elementi oggettivi e concordanti tali da ingenerare un effettivo pericolo, sotto il profilo in rilievo, per il rispetto dei principi di segretezza, serietà delle offerte e par condicio tra i concorrenti.
La stessa giurisprudenza ha altresì individuato, nel tempo, diversi elementi indiziari da cui poter desumere la sussistenza di un collegamento sostanziale rilevante ai fini della causa di esclusione in questione, quali:
- intrecci societari, derivanti dall'identità dei soci o degli amministratori ovvero da stretti rapporti parentali esistenti fra i membri degli organi amministrativi delle imprese;
- identità delle sedi legali;
- identità delle utenze telefoniche;
- provenienza dallo stesso ufficio postale del plico contenente l'offerta;
- costituzione delle cauzioni provvisorie con polizze fideiussorie rilasciate dalla medesima compagnia di assicurazioni o agenzia, nonché nella stessa data.
La giurisprudenza ha precisato, infine, che l'esclusione dalla gara può essere disposta, sotto l’aspetto in discorso, solo a fronte di una pluralità di indizi gravi, precisi e concordanti.

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5d L’art. 38, comma 1, lett. m-quater) del d.lgs. n. 163/2006 prevede l’esclusione dei concorrenti che si trovino, “rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”. Il comma 2 dell’articolo precisa che tale esclusione possa avvenire soltanto “sulla base di univoci elementi”.
Ciò posto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto ampio modo di sottolineare l'estremo rigore che deve ispirare l'esame circa l’esistenza in concreto dei presupposti applicativi della previsione appena vista, la quale presuppone la rilevazione di elementi oggettivi e concordanti tali da ingenerare un effettivo pericolo, sotto il profilo in rilievo, per il rispetto dei principi di segretezza, serietà delle offerte e par condicio tra i concorrenti (C.d.S., VI, 02.02.2015, n. 462; V, 20.08.2013, n. 4198).
La stessa giurisprudenza ha altresì individuato, nel tempo, diversi elementi indiziari da cui poter desumere la sussistenza di un collegamento sostanziale rilevante ai fini della causa di esclusione in questione, quali "intrecci societari, derivanti dall'identità dei soci o degli amministratori ovvero da stretti rapporti parentali esistenti fra i membri degli organi amministrativi delle imprese; identità delle sedi legali; identità delle utenze telefoniche; provenienza dallo stesso ufficio postale del plico contenente l'offerta; costituzione delle cauzioni provvisorie con polizze fideiussorie rilasciate dalla medesima compagnia di assicurazioni o agenzia, nonché nella stessa data"; la giurisprudenza ha precisato, infine, che l'esclusione dalla gara può essere disposta, sotto l’aspetto in discorso, solo a fronte di una pluralità di indizi gravi, precisi e concordanti (in termini, C.d.S., III, 23.12.2014, n. 6379; cfr. anche V, 08.04.2014, n. 1668) (C.G.A.R.S., sentenza 15.04.2016 n. 101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Cliente è chi fa procura. Tra gli effetti, l'obbligo di pagare il legale. La Cassazione pone una parola chiarificatrice sulla qualificazione.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione con una sentenza 14.04.2016 n. 7382 ha posto una parola chiarificatrice circa la qualificazione del cliente nei rapporti con un avvocato: cliente, cioè colui che sarà tenuto al pagamento del compenso professionale, dovrà essere considerato chi ha materialmente rilasciato la procura alle liti.
I giudici di piazza Cavour nella sentenza in commento hanno altresì evidenziato come un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale abbia chiarito che l'accertamento di quale sia la situazione ricorrente di volta in volta nel caso concreto -cioè se la procura al legale che chieda il pagamento del compenso sia stata conferita dal legale che abbia ricevuto la procura alle liti dal cliente (ex art. 2232 c.c.) oppure (come nel nostro caso) direttamente dallo stesso cliente finale- sia una questione di fatto che, essendo rimessa alla valutazione del giudice di merito, si sottrae al vaglio di legittimità della Cassazione.
Il caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini vedeva un avvocato, Tizio, che proponeva diversi decreti ingiuntivi per il pagamento di alcuni compensi nei confronti di alcuni clienti, alcuni dei quali pienamente accordati, altri ridotti e la Corte d'appello aveva rigettato i motivi di gravame con i quali alcuni dei destinatari dei decreti avevano dedotto l'insussistenza di un rapporto professionale tra loro e l'avvocato Tizio, ma solo con l'avvocato Caio al quale avevano corrisposto il compenso.
Secondo i giudici della Corte d'appello era, comunque, dimostrato con il rilascio della procura alle liti il conferimento di specifici mandati professionali anche a Tizio, che li aveva espletati in aggiunta al mandato conferito all'altro avvocato.
I giudici di merito avevano accertato che la procura all'avvocato Tizio era stata conferita direttamente dai ricorrenti e avevano precisato che l'opera da lui svolta non rientrava tra le attività costituenti oggetto della collaborazione professionale in esclusiva con Caio e che il primo non faceva parte dello studio del secondo.
L'affermazione secondo la quale non ci sarebbero stati contatti diretti tra i ricorrenti e l'avv. Tizio non scalfisce, secondo i giudici della Cassazione, la portata del suddetto accertamento, dal quale i giudici di merito hanno tratto la conclusione del conferimento al medesimo avv. G. del mandato di patrocinio professionale.
Questa conclusione, secondo la Suprema corte, è conforme a diritto, poiché «se è vero che per la conclusione del contratto di patrocinio con il cliente non occorre il rilascio della procura ad litem, che è necessaria solo per il compimento dell'attività processuale (v., da ultimo, Cass. n. 13927/2015), e se è anche vero (...) che obbligato al pagamento del compenso potrebbe essere chi non ha dato la procura, è però anche vero che, in mancanza di una prova del conferimento dell'incarico professionale da parte di altro soggetto, si deve «presumere che il cliente è colui che ha rilasciato la procura» e, quindi, è tenuto al pagamento (v. Cass. n. 13401/2015, n. 26060/2013, n. 4959/2012)» (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo alla richiesta di ostensione del certificato di destinazione urbanistica, il predetto atto rientra nella categoria degli atti di certificazione, redatti da pubblico ufficiale, aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e non può essere sussunto nella categoria del "documento amministrativo", così come definito dall'art. 22 lett. "d" della l. n. 241/1990 e s.m.i., in materia di accesso agli atti ("ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale"), costituendo l'esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica.
Ne consegue che, il rilascio dei certificati di destinazione urbanistica non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi.

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5. A diverse conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla richiesta di ostensione del certificato di destinazione urbanistica, tenuto conto che il predetto atto rientra nella categoria degli atti di certificazione, redatti da pubblico ufficiale, aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e non può essere sussunto nella categoria del "documento amministrativo", così come definito dall'art. 22 lett. "d" della l. n. 241/1990 e s.m.i., in materia di accesso agli atti ("ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale"), costituendo l'esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica (cfr. in tal senso TAR Puglia Lecce, sez. II, 17.09.2009, n. 2121).
Ne consegue che, il rilascio dei certificati di destinazione urbanistica non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi.
La relativa domanda va pertanto respinta
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.04.2016 n. 1793 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEVa dichiarato il difetto di giurisdizione sulla richiesta di condanna dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo o al risarcimento del danno per il mancato godimento del bene conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la compromissione delle facoltà di godimento del proprietario, laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito, in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art. 39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)".
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del processo amministrativo.

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... per l'annullamento ex art. 116 c.p.a. del provvedimento di diniego formatosi a seguito del silenzio serbato sull'istanza volta a richiedere l'ostensione dei documenti di seguito precisati;
nonché:
- per l’accertamento ex art. 117 c.p.a. dell’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione comunale sull’istanza trasmessa a mezzo pec in data 01.09.2015 per l’indennizzo e/o il risarcimento dell’importo quantificato in € 21.505,90 per il pregiudizio sofferto in ragione dell’ingiustificato peso protrattosi per anni in assenza di esecuzione del p.i.p.;
- per l’accertamento della fondatezza, ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.p.a., delle pretese azionate e dell’ingiustificato peso subito dal diritto di proprietà in assenza di una pronta e tempestiva esecuzione del piano;
...
2. Preliminarmente, come da rilievo d’ufficio ai sensi dell’art. 73, comma 3 c.p.a., va dichiarato il difetto di giurisdizione sulla richiesta di condanna dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo o al risarcimento del danno per il mancato godimento del bene conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la compromissione delle facoltà di godimento del proprietario, laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito, in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art. 39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)" (Cons. di St., sez. IV, 14.04.2015, n. 1887).
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale devolute alla cognizione della giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del processo amministrativo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.04.2016 n. 1793 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria è caratterizzata, invero, dalla materiale esistenza dell'opera ammessa, per l’appunto, a sanatoria.
Non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell'alveo della legalità … tanto, infatti, contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
E' "principio generale” che la Pubblica amministrazione “deve verificare prima del rilascio del titolo in sanatoria la compatibilità dello stesso con le norme vigenti”, “assentendo la domanda in caso positivo e negandola nella diversa ipotesi”, e che non è pertanto ipotizzabile convenire con una domanda di sanatoria apponendo delle condizioni, cosa che evidentemente significherebbe l'accertamento di una solo parziale conformità del progetto al piano regolatore e alla normativa edilizia comunale.

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... per l'annullamento del provvedimento del Dirigente il Servizio sportello imprese e cittadini del Comune di Trento di data 18.08.2015, prot. n. 155623/2015, con il quale è stata respinta la richiesta di concessione edilizia in sanatoria per opere abusive in p.ed. 1149, p.m. 10, sub 42, in C.C. Cognola, via degli ...;
...
In punto di diritto, poi, il Collegio rammenta che la giurisprudenza amministrativa, qui condivisa, afferma che:
- la sanatoria è caratterizzata, invero, dalla materiale esistenza dell'opera ammessa, per l’appunto, a sanatoria (cfr. C.d.S., Ad.Pl., 08.01.1986, n. 1);
- “non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell'alveo della legalità … tanto, infatti, contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica” (cfr. C.d.S., sez. IV, 08.09.2015, n. 4176, che testualmente dissente da pronunce di primo grado, citate, che avevano affermato che la “concessione edilizia in sanatoria può introdurre o recepire prescrizioni tese ad imporre correttivi sull'esistente, qualora si tratti di integrazioni minime, di esigua entità” -quali, peraltro, non sarebbero quelle oggetto della vicenda di causa);
- è “principio generale” che la Pubblica amministrazione “deve verificare prima del rilascio del titolo in sanatoria la compatibilità dello stesso con le norme vigenti”, “assentendo la domanda in caso positivo e negandola nella diversa ipotesi”, e che non è pertanto ipotizzabile convenire con una domanda di sanatoria apponendo delle condizioni, cosa che evidentemente significherebbe l'accertamento di una solo parziale conformità del progetto al piano regolatore e alla normativa edilizia comunale (cfr. TAR Liguria, sez. I, 15.01.2016, n. 45; TAR Veneto, sez. I, 20.11.2015, n. 1239; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 04.06.2014, n. 3066) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 13.04.2016 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'esclusione di un'impresa per grave errore nell'esercizio dell'attività professionale di cui alla lett. f) del c. 1 dell'art. 38, d.lgs. n. 163/2006.
La ratio dell'art. 38 della lett. f), c. 1, del d.lgs. n. 163/2006 è quella di consentire alla stazione appaltante di valutare la rilevanza del comportamento tenuto dall'impresa partecipante nell'esercizio della attività professionale, ai fini del buon esito dell'appalto da affidare. Ne consegue che la esclusione per le ipotesi del grave errore nell'esercizio dell'attività professionale di cui alla lett. f) del c. 1 del citato art. 38, non assume carattere sanzionatorio, inserendosi in un giudizio prognostico della corretta esecuzione dell'appalto.
La fattispecie della dichiarazione "non veritiera" in quanto priva della doverosa menzione di eventi la cui valenza ostativa alla instaurazione di un rapporto contrattuale è riservata alla stazione appaltante rimane fuori dalla sanatoria introdotta dall'art. 38, c. 1-ter, del d.lgs. n. 163/2006, in quanto non v'è la mancanza o la carenza, bensì la diversa fattispecie di dichiarazione non veritiera, con le conseguenze previste dal codice dei contratti pubblici per l'ipotesi di falsa dichiarazione che resta confermata anche in vigenza della novella introdotta dal d.l. n. 90/2014 (anche l'ANAC, con la determinazione 08.01.2015 n. 1, nell'interpretare le novità introdotte dal d.l. n. 90/2014 ha affermato che il soccorso istruttorio non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l'acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell'offerta) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.04.2016 n. 1412 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Volumi tecnici.
Sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (quali: serbatoi idrici, extracorsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
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I volumi tecnici non rientrano nel conteggio dell'indice edificatorio, in quanto non sono generatori del cd. "carico urbanistico" e la loro realizzazione è finalizzata a migliorare la funzionalità e la salubrità delle costruzioni.
Restano esclusi, invece, dalla nozione e sono computabili nel volume i vani che assolvono funzioni complementari all'abitazione (quali quelli di sgombero, le soffitte e gli stenditoi chiusi).

Ritiene questo Collegio che,
per l'identificazione della nozione di "volume tecnico", assumono valore tre ordini dì parametri, il primo, positivo, dì tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte abitativa) e dall'altro lato ad un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Ne deriva che la nozione in esame può essere applicata solo alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale; ed è invece esclusa rispetto a locali, in specie laddove di ingombro rilevante, oggettivamente incidenti in modo significativo sui luoghi esterni.
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1. Con sentenza del 13.05.2013, il Tribunale di Orvieto, pronunciando nei confronti di Mo.Ro. e Mo.Fr., imputati dei reati di cui agli artt. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 e di cui agli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42/2004 per aver realizzato una grossa panca di legno, posta al di fuori del loro esercizio commerciale del tipo macelleria, ancorata al terreno tramite bulloni, per mettervi dentro parte dell'impianto di refrigerazione necessario al funzionamento delle celle frigorifere destinate a conservare carne, in assenza di permesso di costruire in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (in Orvieto il 08.02.2011) e senza autorizzazione paesaggistica, li dichiarava responsabili dei reati ascrittigli e li condannava alla pena di euro 10.000,00 di ammenda ciascuno, con concessione di entrambi i benefici.
Con sentenza del 20.01.2015, la Corte di appello di Perugia, a seguito di appello proposto dagli imputati e dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Orvieto, riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Orvieto e rideterminava la pena nei confronti dei due imputati per i due reati unificati ex art. 81 cod. pen., con le attenuanti generiche, in giorni dieci di arresto ed euro 36.000,00 di ammenda ciascuno, oltre al pagamento delle spese del grado, ordinando la demolizione del manufatto abusivo e confermando nel resto.
...
1 Il ricorso è fondato.
2. Va premesso che, secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale,
sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (quali: serbatoi idrici, extracorsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (sez. 3 sez. 17.11.2010, dep. 25.02.2011, sez. 3 03.10.2008, n. 37575, Ronconi; 21.05.2008, n. 20267, Valguarnera; nonché C. Stato, sez. 5, 31.01.2006, n. 354).
I volumi tecnici non rientrano nel conteggio dell'indice edificatorio, in quanto non sono generatori del cd. "carico urbanistico" e la loro realizzazione è finalizzata a migliorare la funzionalità e la salubrità delle costruzioni.
Restano esclusi, invece, dalla nozione e sono computabili nel volume i vani che assolvono funzioni complementari all'abitazione (quali quelli di sgombero, le soffitte e gli stenditoi chiusi).

Ritiene questo Collegio -condividendo un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa (Tar Campania, Salerno, sez. 2, 13.07.2009, n. 3987; Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 22.11.2007, n. 3963; Tar Liguria, Genova, sez. I, 30.01.2007, n. 10)- che,
per l'identificazione della nozione di "volume tecnico", assumono valore tre ordini dì parametri, il primo, positivo, dì tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte abitativa) e dall'altro lato ad un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Ne deriva che la nozione in esame può essere applicata solo alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale; ed è invece esclusa rispetto a locali, in specie laddove di ingombro rilevante, oggettivamente incidenti in modo significativo sui luoghi esterni.

Tutte le valutazioni connesse ai principi dianzi affermati non hanno costituito oggetto di specifica e motivata valutazione della sentenza impugnata.
Nella specie, Il Tribunale, nonostante specifico motivo di appello, nell'escludere la natura di volume tecnico, ha solo enunciato i tre ordini di parametri giurisprudenziali per l'identificazione della nozione di volume tecnico ma non ha specificamente argomentato in ordine alla loro esclusione in relazione alla peculiarità del caso concreto con riferimento agli elementi evidenziati dalla difesa a fondamento dei motivi di appello.
Tale omissione motivazionale vizia parzialmente l'atto decisorio.
Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Firenze per nuovo esame sul punto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.04.2016 n. 14281 - tratta da www.lexambiente.it).

SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito senza paletti. Spettano ai segretari dei comuni privi di dirigenza. La Consulta si discosta dalla tesi sostenuta dalla sezione autonomie della Corte conti.
Sui diritti di rogito dei segretari comunali e provinciali la Consulta smentisce la Corte dei conti. Secondo i giudici delle leggi, infatti, l'emolumento spetta a tutti coloro che operano in comuni privi di dirigenza, indipendentemente dalla fascia professionale. Bocciata, quindi, la tesi della sezione delle autonomie, secondo cui i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C.

La questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014: esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Tale norma (dalla formulazione infelice) ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da un lato, si è affermato che l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C e non a quelli che godono di equiparazione alla dirigenza, sia essa assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B, sia essa un effetto del galleggiamento in ipotesi di titolarità di enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale; in senso contrario, si è argomentato che nei comuni privi di personale con qualifica dirigenziale i diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato il segretario.
La sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 21/2015, ha condiviso la prima lettura, evidenziando che essa, oltre a essere maggiormente coerente con il quadro normativo e contrattuale della materia è l'unica in grado di garantire gli effetti, soprattutto finanziari, avuti in considerazione dal legislatore.
Di diverso avviso la Corte Costituzionale, che nella recente sentenza 07.04.2016 n. 75 sposa, sia pure in via incidentale, la seconda tesi. Nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall'avvocatura statale rispetto all'art. 11 della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol n. 11/2014, essa ha affermato che l'art. 10, comma 2-bis, si applica a tutti i segretari dei comuni senza dirigenti.
Ora si tratterà di vedere se, sulla scorta di tale monito, la magistratura contabile tornerà sui suoi passi (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Climatizzatori, l'Arpa deve comunicare i dati sul rumore.
Fuori i decibel dell'impianto «fracassone», nero su bianco. Il singolo condomino ha diritto di conoscere dall'Agenzia regionale che tutela l'ecosistema a quanto ammontano le immissioni sonore prodotte dell'impianto di condizionamento dell'aria attivo nello stabile: si tratta infatti di una vera e propria informazione ambientale, in base alla direttiva Ue recepita in Italia con il decreto legislativo 195/2005, che ha una portata più ampia rispetto alla mera normativa sulla trasparenza di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990.

È quanto emerge dalla sentenza 04.04.2016 n. 4018, pubblicata dalla Sez. I-ter del TAR Lazio-Roma.
Interesse qualificato. L'impianto rumoroso è al servizio di alcuni negozi. E ora l'Agenzia di protezione ambientale ha trenta giorni di tempo per fornire al condomino i dati che ha rilevato sul frastuono prodotto dal climatizzatore. La norma ex articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 195/2005 parla chiaro: «L'autorità pubblica rende disponibile l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse».
Nel nostro caso non c'è dubbio che il condomino sia invece portatore di un interesse qualificato: anzitutto perché che vive nello stabile e poi perché le rilevazioni Arpa sono state compiute proprio dall'appartamento di sua proprietà esclusiva.
Né la richiesta può ritenersi irragionevole: si tratta di informazioni di competenza sulle misure che deve adottare l'Agenzia. Che dunque paga le spese di lite (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento del silenzio-diniego sulla richiesta di accesso ai documenti amministrativi.
...
Con il presente ricorso, proposto ai sensi dell'art. 116 c.p.a., la ricorrente contesta il silenzio serbato dall'ARPA Lazio sulla propria istanza di accesso a documenti rilevanti in tema di accertamento delle immissioni sonore provocate dall’impianto di condizionamento all’interno del condominio di via ... n. 26.
In primo luogo occorrere premettere che,
secondo il disposto dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 195/2005, “l'autorità pubblica rende disponibile... l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”.
Da ciò deriva che l'accesso alle informazioni ambientali ha una portata ben più ampia rispetto a quello ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.

Deve poi aggiungersi che la ricorrente è residente all’interno dello stesso condominio e gli accertamenti risultano eseguiti proprio nella abitazione ove abita la ricorrente.
È evidente, dunque, che si tratta di "informazioni ambientali" e che la odierna ricorrente risulti portatrice di un interesse giuridicamente qualificato all’ottenimento della richiesta documentazione.
Va inoltre considerato che l'oggetto della richiesta di accesso è puntualmente indicato, per cui allo stesso non osta l'impedimento di cui all'art. 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 195/2005, rappresentato dalla sua eccessiva genericità.
Né può ritenersi che tale istanza sia irragionevole rispetto alle finalità di cui all'art. 1: si tratta di atti recanti informazioni ambientali relative all'adozione di misure, di competenza dell'interpellata ARPA Lazio.
Infine non si rinviene alcuna delle ragioni di riservatezza individuate all’art. 5 D.Lgs. 195/2005.
Ne deriva che il ricorso è fondato e deve essere accolto, con obbligo di ostensione, mediante visione ed estrazione di copia, dei suindicati documenti, oggetto dell'istanza di accesso, in capo ad ARPA Lazio, entro il termine di 30 giorni, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa o, se anteriore, dalla notificazione della presente sentenza.

APPALTI: Soccorso istruttorio soltanto se serve.
Il potere di soccorso istruttorio può (e, a certe condizioni, deve) essere attivato solo a fronte della necessità di acquisire integrazioni documentali o chiarimenti di dichiarazioni ambigue, anche se, ovviamente, solo nelle ipotesi in cui non risulti violata una prescrizione.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 01.04.2016 n. 1318.
Secondo i giudici del Consiglio di stato la violazione di una prescrizione poiché determina una inosservanza che vincola l'amministrazione all'esclusione del concorrente inadempiente, non potrà mai essere esercitato per acquisire puntualizzazioni o specificazioni tecniche (e non regolarizzazioni documentali) circa i contenuti e la funzionalità del progetto tecnico, soprattutto quando lo stesso risulta, di per sé, completo, nelle soluzioni proposte, anche se carente nella sua capacità funzionale e operativa.
Tale ultima ipotesi, hanno sottolineato i supremi giudici amministrativi, «esula dall'ambito oggettivo di operatività dell'istituto del soccorso istruttorio, da intendersi, infatti, circoscritto alle sole integrazioni propriamente documentali, come si ricava dall'univoco dato testuale ricavabile dalla lettura dell'art. 46, comma 1, dlgs, n. 163 del 2006, e la cui latitudine applicativa non può essere estesa fino a comprendere anche i contenuti propriamente tecnici dell'offerta».
Non potrà, inoltre, giudicarsi illegittima l'omessa attivazione dei poteri di soccorso istruttorio in relazione a tutti i sub-criteri nella misura in cui la pertinente potestà dovrà essere intesa come consentita solo a fronte di carenze documentali (che, ovviamente, non implicano, di per sé, l'esclusione dalla gara) o di esigenze di chiarimenti in ordine ad attestazioni equivoche (come, tra l'altro, chiarito dall'Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 9 e 16 del 2014), ma tassativamente preclusa se preordinata ad ammettere precisazioni o integrazioni dei contenuti dell'offerta tecnica, che andrebbero ad integrare, come tali, inammissibili mutamenti postumi della stessa (in violazione del principio di immodificabilità dell'offerta, affermato, tra le tante, da Cons. st., sez. III, 26.05.2014, n. 2690) (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
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MASSIMA
5.- Né, peraltro, può giudicarsi illegittima l’omessa attivazione dei poteri di soccorso istruttorio in relazione a tutti i sub-criteri sopra esaminati (dedotta con il terzo motivo di appello), nella misura in cui
la pertinente potestà dev’essere intesa come consentita solo a fronte di carenze documentali (che non implicano, di per sé, l’esclusione dalla gara) o di esigenze di chiarimenti in ordine ad attestazioni equivoche (come, tra l’altro, chiarito dall’Adunanza Plenaria con le sentenze n. 9 e 16 del 2014), ma rigorosamente preclusa se preordinata ad ammettere precisazioni o integrazioni dei contenuti dell’offerta tecnica, che integrerebbero, come tali, inammissibili mutamenti postumi della stessa (in violazione del principio di immodificabilità dell’offerta, affermato, tra le tante, da Cons. St., sez. III, 26.05.2014, n. 2690).
In altri termini,
il potere di soccorso istruttorio può (e, a certe condizioni, deve) essere attivato solo a fronte della necessità di acquisire integrazioni documentali o chiarimenti di dichiarazioni ambigue, anche se, ovviamente, solo nelle ipotesi in cui non risulti violata una prescrizione la cui inosservanza vincola l’amministrazione all’esclusione del concorrente inadempiente (ovviamente per le procedure, quale quella in esame, soggette al regime normativo previgente all’introduzione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs., n.163 del 2006), ma non può mai essere esercitato per acquisire puntualizzazioni o specificazioni tecniche (e non regolarizzazioni documentali) circa i contenuti e la funzionalità del progetto tecnico, soprattutto quando, come nel caso di specie, lo stesso risulta, di per sé, completo, nelle soluzioni proposte, anche se carente nella sua capacità funzionale e operativa.
Tale ultima ipotesi, a ben vedere, esula dall’ambito oggettivo di operatività dell’istituto del soccorso istruttorio, da intendersi, infatti, circoscritto alle sole integrazioni propriamente documentali, come si ricava dall’univoco dato testuale ricavabile dalla lettura dell’art. 46, comma 1, d.lgs., n. 163 del 2006, e la cui latitudine applicativa non può essere estesa fino a comprendere anche i contenuti propriamente tecnici dell’offerta.

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Spiare una casella mail è reato di accesso abusivo. La posta è parte di un sistema informatico più esteso.
Codice penale. L’esistenza di una password testimonia a favore della riservatezza.
Va sanzionato per accesso abusivo a sistema informatico chi si intromette nella mail altrui per prendere visione dei messaggi in questa contenuti. La casella di posta elettronica rappresenta infatti un «sistema informatico» protetto dall’articolo 615 ter del Codice penale.
A questa conclusione approda la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 31.03.2016 n. 13057.
La pronuncia ha così confermato la condanna di 6 mesi inflitta al responsabile di un Ufficio di Polizia provinciale che, approfittando della sua qualità e dell’assenza di un assistente nello stesso ufficio, si era introdotto in due occasioni nella casella di posta elettronica di quest’ultimo, e, dopo avare preso visione di numerosi documenti, ne aveva scaricati due.
Tra i motivi di ricorso, la difesa aveva contestato che ci fosse stato un accesso a un «sistema informatico», per l’inesistenza di un sistema coincidente con la posta elettronica. Infatti, secondo la linea difensiva, il «sistema informatico» rilevante sulla base dell’articolo 615-ter del Codice penale era quello dell’ufficio, al quale era possibile accedere con password non personalizzate, mentre la casella personale di posta rappresentava un’”entità” estranea alla nozione prevista dal Codice penale.
Un a posizione però del tutto confutata dalla Cassazione. Che mette invece in evidenza come la casella mail rappresenta «inequivocabilmente» un «sistema informatico» rilevante per l’articolo 615-ter del Codice penale . La Corte ricorda che nell’introdurre questa nozione nel nostro ordinamento, il legislatore ha fatto evidentemente riferimento a concetti già diffusi ed elaborati nel mondo dell’economia, della tecnica e della comunicazione, «essendo stato mosso dalla necessità di tutelare nuove forme di aggressione alla sfera personale, rese possibili dalla sviluppo della scienza».
Pertanto, sottolinea ancora la sentenza, il sistema informatico inteso dal legislatore non può essere costituito che dal «complesso organico di elementi fisici (hardware) ed astratti (software) che compongono un apparato di elaborazione dati». In questo senso si esprime anche la Convenzione di Budapest che pure era stata richiamata a sostegno della tesi difensiva. E allora la casella di posta non è altro che uno spazio di memoria di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi o informazioni di altra natura (video, messaggi) di un soggetto identificato da un account registrato presso un provider. E l’accesso a questo spazio di memoria rappresenta senz’altro un acceso a sistema informatico di cui la casella è un semplice elemento.
Così, se in un sistema informatico pubblico sono attivate caselle di posta elettronica protette da password personalizzate, allora quelle caselle costituiscono il domicilio informatico proprio del dipendente stesso. L’accesso abusivo a queste caselle concretizza così il reato disciplinato dall’articolo 615-ter del Codice penale, «giacché l’apposizione dello sbarramento, avvenuto con il consenso del titolare del sistema, dimostra che a quella casella è collegato uno ius excludendi di cui anche i superiori devono tenere conto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.04.2016).

VARI: L'equo indennizzo è cedibile. Si tratta di un ristoro frutto di lentezze della giustizia. La qualificazione come credito è al centro di una sentenza del Tar di Trento.
Poiché l'equo indennizzo è un danno non patrimoniale causato dalle lentezze della giustizia, può essere a buon diritto inserito tra i crediti cedibili.

È quanto affermato dai giudici del TRGA Trentino Alto Adige-Trento con la sentenza 30.03.2016 n. 178.
Per quanto riguarda la cessione di crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione, l'art. 69, commi primo e terzo, della legge di contabilità dello stato (rd 18.11.1923, n. 2440) stabilisce che la cessione deve risultare da atto pubblico o da scrittura autenticata da notaio, e che deve essere notificata all'amministrazione centrale, ovvero all'ente ovvero ufficio o funzionario cui spetta ordinare il pagamento.
I giudici amministrativi trentini si sono soffermati nella sentenza in commento sull'istituto della cessione del credito evidenziando come, in ossequio al principio generale dell'ordinamento giuridico della libera cedibilità del credito, posto agli artt. 1260 e ss. del c.c., la cessione del credito «è un negozio causale per cui, se non disposta a titolo oneroso, deve ritenersi a causa presunta, fino a prova della relativa inesistenza o illiceità, potendo avere a oggetto anche una ragione di credito o un diritto futuro, purché determinato o determinabile, nel qual caso l'effetto traslativo si produce al momento della relativa venuta a esistenza in capo al cedente».
Inoltre un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (si veda: Cass. civ., sez. III, 02.10.2013, n. 22601) ha sottolineato come il diritto di credito al risarcimento del danno non patrimoniale costituisca oggetto di cessione, a titolo oneroso o gratuito, ai sensi e nei limiti dell'art. 1260 c.c. e inoltre per perfezionare la cessione del credito si rende quanto mai necessario l'accordo tra il cedente e il cessionario (Cass. civ., 13.11.1973, n. 3004), accordo che andrà a determinare la successione di quest'ultimo al primo nel medesimo rapporto obbligatorio, con effetti traslativi immediati non solo tra di essi ma anche nei confronti del debitore ceduto, nei cui confronti la cessione diviene efficace all'esito della relativa notificazione o accettazione (art. 1264 c.c., Cass. civ., 20.10.2004, n. 20548).
Quindi l'accettazione della cessione avrà natura non costitutiva bensì ricognitiva ed il debitore ceduto potrà far valere l'eccezione di invalidità e di estinzione del rapporto obbligatorio, mentre esclude l'efficacia liberatoria del pagamento fatto al creditore originario (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
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MASSIMA
9.3. Sull’istituto “cessione del credito” si ricorda, in linea generale, che,
in ossequio al principio generale dell’ordinamento giuridico della libera cedibilità del credito, posto agli artt. 1260 e ss. del c.c., la cessione del credito è un negozio causale per cui, se non disposta a titolo oneroso, deve ritenersi a causa presunta, fino a prova della relativa inesistenza o illiceità, potendo avere ad oggetto anche una ragione di credito o un diritto futuro, purché determinato o determinabile, nel qual caso l'effetto traslativo si produce al momento della relativa venuta a esistenza in capo al cedente.
A seguito della puntuale ricostruzione delle regole e dei principi che governano l’istituto della cessione del credito, la Corte di Cassazione ha affermato che “
ben può allora il diritto (o la ragione) di credito al risarcimento del danno non patrimoniale costituire oggetto di cessione, a titolo oneroso o gratuito, ai sensi e nei limiti dell'art. 1260 c.c.” (Cass.Civ., sez. III, 02.10.2013, n. 22601).
Ai fini del perfezionamento della cessione del credito è necessario l'accordo tra il cedente e il cessionario (Cass. Civ., 13.11.1973, n. 3004), che determina la successione di quest'ultimo al primo nel medesimo rapporto obbligatorio, con effetti traslativi immediati non solo tra di essi ma anche nei confronti del debitore ceduto, nei cui confronti la cessione diviene efficace all'esito della relativa notificazione o accettazione (art. 1264 c.c. - Cass. Civ., 20.10.2004, n. 20548).
L'accettazione della cessione ha natura non costitutiva bensì ricognitiva e, a tale stregua, al debitore ceduto non è precluso far valere l'eccezione di invalidità e di estinzione del rapporto obbligatorio, mentre esclude l'efficacia liberatoria del pagamento fatto al creditore originario.
Nondimeno, in deroga al principio civilistico della cedibilità del credito anche senza il consenso del debitore,
per la cessione di crediti vantati nei confronti della Pubblica amministrazione, l’art. 69, commi primo e terzo, della legge di contabilità dello Stato (R.D. 18.11.1923, n. 2440) stabilisce che la cessione deve risultare da atto pubblico o da scrittura autenticata da notaio, e che deve essere notificata all’Amministrazione centrale, ovvero all’ente ovvero ufficio o funzionario cui spetta ordinare il pagamento.
9.4. Ebbene, dall’esame della disciplina riportata emerge che
anche il diritto di credito al risarcimento del danno non patrimoniale da mancato rispetto del termine ragionevole di durata di un processo può essere ceduto, ai sensi e nei limiti dell'art. 1260 c.c. ma nel rispetto delle forme di cui all’art. 69, commi primo e terzo, del R.D. 18.11.1923, n. 2440.

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: La prova dell'arrivo della raccomandata fa presumere l'invio e la conoscenza dell'atto, mentre l'onere di provare eventualmente che il plico non conteneva l'atto spetta non già al mittente bensì al destinatario.
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Merita dunque di essere confermato il principio per cui, in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26 (così come, più in generale, in caso di spedizione di plico a mezzo raccomandata), la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta dal notificante mediante la produzione dell'avviso di ricevimento, poiché, una volta pervenuta all'indirizzo del destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un atto diverso da quello che si assume spedito).
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MASSIMA
13. Il quinto, il sesto ed il settimo motivo, che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente, sono invece fondati.
13.1. In sintesi, con essi si chiede a questa Corte di affermare il principio per cui il soggetto che proceda alla notifica di cartella esattoriale, con la procedura di cui all'art. 26, D.P.R. n. 602/1973, può limitarsi a consegnare il plico chiuso all'agente postale, per la sua spedizione, essendo assistiti da fede privilegiata ex art. 2700 cod. civ. tanto l'accettazione quanto l'avviso di ricevimento della raccomandata, e gravando invece sul destinatario l'onere di superare la presunzione di conoscenza del contenuto della raccomandata, di cui all'art. 1335 cod. civ..
13.2. Sul tema si registra, invero, una certa divaricazione della giurisprudenza di legittimità, rispetto alla quale questo Collegio intende però aderire all'orientamento che risulta prevalente, in base al quale,
ove il Concessionario si avvalga della facoltà, prevista dal D.P.R. 29.09.1913, n. 602, art. 26, di provvedere alla notifica della cartella esattoriale mediante raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini del perfezionamento della notificazione è sufficiente -anche alla luce della disciplina dettata dal D.M. 09.04.2001, artt. 32 e 39- che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz'altro adempimento a carico dell'ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull'avviso di ricevimento da restituire al mittente; ciò sarebbe confermato implicitamente anche dal penultimo comma del citato art. 26, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o con l'avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell'amministrazione (Cass. sez. III, sentenza n. 9246 del 07.05.2015; Cass. sez. V, sentenza n. 4567 del 06.03.2015; conf., tra le più recenti, Cass. n. 16949/2014, n. 6395/2014, n. 11708/2011; n. 14327/2009).
13.3. Ai predetti fini
non si ritiene invece necessario che l'agente della riscossione dia la prova anche del contenuto del plico spedito con lettera raccomandata, dal momento che l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo in forza della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., superabile solo se lo stesso destinatario dia prova di essersi incolpevolmente trovato nell'impossibilità di prenderne cognizione (Cass. n. 15315/2014, n. 9111/2012, n. 20027/2011).
In altri termini,
la prova dell'arrivo della raccomandata fa presumere l'invio e la conoscenza dell'atto, mentre l'onere di provare eventualmente che il plico non conteneva l'atto spetta non già al mittente (in tal senso, Cass. ord. n. 9533/2015, sent. n. 2625/2015, n. 18252/2013, n. 24031/2006, n. 3562/2005), bensì al destinatario (in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. sez. I, 22.05.2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322/2014, n. 15315/2014, n. 23920/2013, n. 16155/2010, n. 17417/2007, n. 20144/2005, n. 15802/2005, n. 22133/2004, n. 771/2004, n. 11528/2003, n. 12135/2003, n. 12078/2003, n. 10536/2003, n. 4878/1992, 4083/1978; cfr. Cass. ord. n. 20786/2014, per la quale tale presunzione non opererebbe -con inversione dell'onere della prova- ove il mittente affermasse di avere inserito più di un atto nello stesso plico ed il destinatario contestasse tale circostanza).
13.4. In effetti,
l'orientamento prevalente risulta più rispettoso del principio generale di c.d. vicinanza della prova, poiché la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato), in ipotesi anche avvalendosi di testimoni, che al momento dell'apertura il plico era in realtà privo di contenuto.
13.5. Merita dunque di essere confermato il principio per cui,
in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26 (così come, più in generale, in caso di spedizione di plico a mezzo raccomandata), la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta dal notificante mediante la produzione dell'avviso di ricevimento, poiché, una volta pervenuta all'indirizzo del destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un atto diverso da quello che si assume spedito) (Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 18.03.2016 n. 5397).
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Si legga, al riguardo, un commento: Raccomandata: come si prova il contenuto della lettera? (25.04.2016 - link a www.laleggepertutti.it).

APPALTI SERVIZI: La riserva di partecipazione in favore delle cooperative sociali può essere legittimamente imposta solo per gli appalti inerenti la fornitura di beni e servizi strumentali della P.A..
La riserva di partecipazione in favore delle cooperative che svolgono le attività di cui all'art. 1, c. 1, lett. b), della l. n. 381/1991 posta dall'art. 5 della medesima legge, può essere legittimamente imposta solo per la fornitura di beni e servizi strumentali della P.A., cioè a dire erogati a favore della pubblica amministrazione e riferibili ad esigenze strumentali della stessa, e al contrario tale limite non può trovare applicazione in tutti i casi -come nel caso di specie, riguardante la gestione del canile comunale- in cui si tratti di servizi pubblici locali, destinati a soddisfare la generica collettività (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 03.03.2016 n. 306 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vicinato, comune super partes. Il permesso di costruire non tocca conflitti tra confinanti. Sentenza del Tar Puglia: questioni civilistiche da far valere di fronte ai giudici ordinari.
Al comune non interessano i rapporti fra confinanti o condomini: quando concede i titoli edilizi, lo fa «salvi i diritti di terzi». Ecco allora che il vicino non può far annullare il permesso di costruire concesso al rivale solo perché il nuovo manufatto può impedirgli di esercitare il diritto alla veduta: le questioni civilistiche come l'osservanza delle distanze tra fabbricati, infatti, devono essere fatte valere di fronte al giudice ordinario.

È quanto emerge dalla sentenza 11.02.2016 n. 162, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Titolo e godimento. Niente da fare per il confinante: non riesce a bloccare i lavori alla palazzina nel centro storico. E ciò perché prospetta lesioni che riguardano più il diritto di distanza dalla veduta che il rilascio del titolo edilizio in sé.
Quando il comune è chiamato ad autorizzare l'opera, infatti, può limitarsi a verificare che il richiedente sia titolare di un adeguato titolo di godimento sull'immobile: deve insomma badare alla sola legittimazione, senza verificare il rispetto dei limiti privatistici; a meno che questi limiti non sono immediatamente conoscibili o non contestati e dunque il controllo dell'amministrazione si riduce a una mera presa d'atto.
Le lesioni di diritti soggettivi come quelli alla luce e veduta o la presenza di diritti contrari richiedono invece un'approfondita indagine e rientrano nelle controversie fra i privati: si tratta quindi di questioni che devono essere introdotte nelle sedi opportune perché esulano dalla legittimità dell'autorizzazione all'edificazione, anche in sanatoria, che è di competenza del comune.
Consenso irrilevante. È altrettanto inutile l'iniziativa di uno dei condomini che si rivolge al comune per ottenere misure repressive contro l'opera edilizia promossa dall'altro sulla base della Scia, la segnalazione di inizio attività. E ciò anche se l'assemblea ha bocciato la proposta avanzata dal singolo proprietario esclusivo di trasformare le finestre in balconi, approfittando dei lavori alla facciata dell'edificio.
L'amministrazione non può infatti subordinare il rilascio del titolo abilitativo al consenso del confinante quando si tratta di una questione di diritti reali, e dunque civilistica, che resta estranea alla competenza dell'ente locale. Lo stabilisce la sentenza 1409/15, pubblicata dalla sede di Salerno del Tar Campania, prima sezione.
Clausola di salvaguardia. È vero: dalla documentazione che il proprietario presenta all'amministrazione locale non emerge che l'assemblea condominiale ha già bocciato la proposta di far diventare veri e propri balconi le finestre dell'edificio, che addirittura risale a prima della seconda guerra mondiale.
Ma in realtà, osservano i giudici amministrativi, a essere sbagliata è la prassi dei comuni che subordinano l'emissione del titolo che autorizza l'opera edilizia al consenso dei titolari di diritti reali confinanti oppure di diritti reali di comunione, tra i quali il condominio: è infatti l'articolo 11, comma 3, del testo unico per l'edilizia a disporre la clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi. Al vicino, dunque, non resta che le spese di giudizio davanti al Tar e rivolgersi al giudice civile.
Nessuno sconto. Le cose cambiano nelle aree soggette a vincolo per le bellezze naturali. Il dehors del ristorante da piazzare sotto il naso del proprietario del primo piano non può ottenere l'autorizzazione paesaggistica dal comune con una procedura semplificata: è escluso, infatti, che lo spazio esterno del locale pubblico possa essere considerato un «arredo urbano» e dunque beneficiare della corsia preferenziale riconosciuta agli interventi edilizi minori dal dpr 139/10. Lo afferma la sentenza 56/2016, pubblicata dalla prima sezione del Tar Liguria.
Dehors e arredi. Altro che «lieve entità». È accolto il ricorso del vicino che teme ancora più fastidi dai clienti dell'osteria nel centro storico sottoposto al vincolo della Soprintendenza. Annullato il provvedimento dell'amministrazione che concede il placet con l'iter più breve al dehors dell'esercizio pubblico: lo spazio esterno riservato agli avventori del locale non rientra in alcune delle categorie indicate dal regolamento.
Interesse specifico. È vero, la nozione di «arredo urbano» non risulta disciplinata da alcun provvedimento normativo. Ma deve ritenersi si tratti di strutture che servono a consentire un miglior uso dei centri abitati, quanto ad accessibilità e vivibilità; vi rientrano segnaletica, illuminazione, installazioni pubblicitarie, panchine, cestini: si tratta tuttavia di manufatti a destinazione pubblica, mentre il dehors soddisfa un'esigenza commerciale del ristorante.
Infine: il vicino è portatore di un interesse specifico, mentre la Soprintendenza non gli ha notificato del procedimento volto al rilascio dell'autorizzazione di cui all'articolo 21 del decreto legislativo 42/2004. Al comune e al ristorante controinteressato non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 11, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, “Il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi”; sicché, nella prassi, i titoli edilizi vengono rilasciati “salvi i diritti di terzi” e, secondo la consolidata giurisprudenza, non sussiste un obbligo generalizzato per la P.A. di verificare che non sussistano limiti di natura civilistica per la realizzazione di un'opera edilizia.
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Ai fini del rilascio del permesso di costruire l'amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell'area oggetto dell'intervento edilizio e, nel verificare l'esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non si assume il compito di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio il Comune ha l'obbligo di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici solo a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti, o immediatamente conoscibili, o non contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere a un'accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i vicini o i condomini, rientrando la presenza di eventuali diritti ostativi o la supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi, quali quelli di luce e veduta, nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi, e non all’aspetto della legittimità degli atti autorizzatori dell’esercizio dello ius edificandi anche in sede di sanatoria.

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Riguardo alla pretesa violazione del regime delle distanze (oggetto di doglianza nei motivi sub A e D di cui innanzi), va preliminarmente ricordato che, ai sensi dell’art. 11, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, “Il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi”; sicché, nella prassi, i titoli edilizi vengono rilasciati “salvi i diritti di terzi” e, secondo la consolidata giurisprudenza, non sussiste un obbligo generalizzato per la P.A. di verificare che non sussistano limiti di natura civilistica per la realizzazione di un'opera edilizia.
Nel caso di specie, parte delle lesioni prospettate dai ricorrenti parrebbero configurarsi -non tanto e non solo- in relazione al rilascio del titolo edilizio, ma piuttosto in relazione all’asserita sussistenza di un diritto di veduta e di un diritto di distanza dalla veduta, come tali tutelabili innanzi al G.O..
Sul punto va osservato in diritto che “ai fini del rilascio del permesso di costruire l'amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell'area oggetto dell'intervento edilizio e, nel verificare l'esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, non si assume il compito di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso (Cons. Stato Sez. IV, 06.03.2012, n. 1270).
In sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio il Comune ha l'obbligo di verificare il rispetto da parte dell'istante dei limiti privatistici solo a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti, o immediatamente conoscibili, o non contestati, di modo che il controllo da parte dell'ente locale si traduca in una semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un'accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici
” (Cons. Stato Sez. VI, 28.09.2012, n. 5128; Cons. Stato Sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; Sez. VI, 04.09.2012, n. 4676; Cons. Stato Sez. IV, 04.05.2010, n. 2546).
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere a un'accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i vicini o i condomini, rientrando la presenza di eventuali diritti ostativi o la supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi, quali quelli di luce e veduta, nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi, e non all’aspetto della legittimità degli atti autorizzatori dell’esercizio dello ius edificandi anche in sede di sanatoria (con riferimento ai condomini: Cons. Stato Sez. IV, 26.07.2012, n. 4255) - così, da ultimo, Tar Campania, Napoli, sez. 8, sent. 19/05/15 n. 2763.
Quanto innanzi esposto non si pone in posizione di discontinuità rispetto alle pronunzie della Sezione (v. sentenze nn. 1572/2015 e 113/2016) su ricorsi che pure riguardano la tutela di “beni della vita” nascenti dal diritto di proprietà su immobili: trattasi di giudizi che non hanno come oggetto immediato quei beni, bensì la legittimità di provvedimenti amministrativi in rapporto alla normativa e agli atti di pianificazione urbanistica, in ossequio al principio per il quale la lesione di tali beni può avere tutela, davanti al G.A., solo ove coincidente con la lesione di valori tutelati, nell’interesse pubblico, dalla normativa urbanistico-edilizia (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 11.02.2016 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Straordinari pagati solo se autorizzati. Lo ribadisce una decisione del Consiglio di stato.
Nella disciplina generale vigente per il rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni, per ragioni di buon andamento e di controllo della spesa per il personale contrattualizzato, occorre tenere presente l'imperativo principio che il lavoro straordinario può essere retribuito solo se previamente autorizzato nelle forme prescritte dalla normativa di settore delle singole amministrazioni.

È quanto ribadito dal Consiglio di Stato -Sez. III- con la sentenza 10.02.2016 n. 591.
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi prendeva le mosse da alcune istanze con le quali un funzionario di P.s. chiedeva all'amministrazione il conteggio e il pagamento delle ore di lavoro straordinario da quando era transitato nei ruoli della Azienda sanitaria locale.
Lo stesso al riguardo precisava che, avendo in quel periodo prestato servizio presso vari commissariati e poi presso la squadra mobile le prestazioni di lavoro in questione risultavano da prospetti analitici mensili, sottoscritti dall'interessato e dal dirigente dell'ufficio di appartenenza e poi regolarmente trasmessi all'ufficio contabilità della questura per il seguito di competenza.
In riscontro alle suddette richieste con nota il questore comunicava all'interessato di aver trasmesso al ministero dell'interno il conteggio degli emolumenti dovuti per le ore di straordinario, dovendosi ritenere prescritto ogni credito relativo prestazioni rese in periodi precedenti.
Dopo alcuni solleciti da parte dell'interessato il dipartimento di P.s., servizio Tep con nota si limitava a confermare e richiamava una precedente nota in cui aveva rappresentato l'avviso che non sussistevano i presupposti per accogliere la richiesta.
Pertanto, non avendo ottenuto la corresponsione degli emolumenti richiesti, con ricorso proposto innanzi al Tar l'interessato chiedeva il riconoscimento del diritto ai compensi per prestazioni di lavoro straordinario rese fino al suo transito al ruolo della Azienda sanitaria locale, oltre alla rivalutazione e agli interessi legali dalla maturazione del credito al soddisfo effettivo, nonché la conseguente condanna del ministero al pagamento.
Con sentenza il Tar ha respinto il ricorso (spese compensate), affermando che le prestazioni straordinarie oggetto della controversia, ulteriori rispetto a quelle già riconosciute e regolarmente retribuite, non risultavano formalmente autorizzate dal ministero; né, tantomeno, poteva ravvisarsi un'autorizzazione «in sanatoria» nei prospetti compilati dallo stesso interessato e controfirmati dal suo superiore gerarchico (il dirigente della squadra mobile). Avverso la sentenza l'interessato ha proposto appello (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

CONDOMINIO - VARI: Il gattaro deve ripulire il terrazzo.
Gli animali domestici che fanno litigare i condomini danno filo da torcere anche ai comuni. Non saranno quarantaquattro, ma i gatti del confinante sporcano e fanno rumore: si tratta di una vera colonia felina che l'amante degli animali sfama ogni giorno sul terrazzo di casa sua. Che dopo, però, è un vero e proprio campo di battaglia, disseminato di piatti di plastica sporchi e altri rifiuti.
Il vicino non ce la fa più e chiama la Municipale: scatta l'ispezione Asl. Allora il sindaco del comune impone al «gattaro» di ripulire il terrazzo e far vaccinare e sterilizzare gli animali. E l'ordinanza è legittima perché l'interessato, pur non proprietario dei gatti, ne risulta comunque «tenutario» sulla base della legge 201/2010 sulla tutela degli animali di compagnia.

Lo stabilisce la sentenza 12.01.2016 n. 3, pubblicata dal TAR Sicilia-Catania, III Sez..
Finalità e qualità. Il gattaro deve ridurre entro il limite di legge il numero di animali della colonia nel suo terrazzo. Ciò che conta è il potere di fatto esercitato sui gatti, determinato dalla volontà dell'uomo di occuparsi degli animali, tanto da dar loro da mangiare nella sua proprietà, per quanto a intervalli non regolari.
Non rileva allora la finalità, tanto meno di lucro, del rapporto con la colonia felina. Fondamentale invece è la qualità dell'interessato, definito nell'ordinanza sindacale «tenutario», conformemente alle norme della Convenzione del Consiglio d'Europa recepita con la legge 201/2010, dove è presente più volte la locuzione «ogni animale tenuto o destinato a essere tenuto dall'uomo» (articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).

LAVORI PUBBLICI: LA MANIFESTAZIONE DELLA VOLONTÀ DI RECESSO DELL’APPALTATORE VERSO L’AMMINISTRAZIONE È IL PRESUPPOSTO PER LA RICHIESTA DI RISARCIMENTO.
Il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno può venire in considerazione solo se l’appaltatore abbia preventivamente esercitato la facoltà di recesso, dovendosi altrimenti presumere che egli abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza oneri aggiuntivi a carico della stazione appaltante.
Con la sentenza in rassegna la Suprema Corte torna a occuparsi delle ipotesi nelle quali, alla sottoscrizione del contratto, non segua da parte dell’Amministrazione appaltante  a consegna del cantiere, per l’esecuzione delle opere affidate in contratto.
In quest’ipotesi, il rimedio offerto all’operatore economico non è quello, generale, della risoluzione per inadempimento ex artt. 1453 e 1454 c.c. operando di contro, e in via esclusiva, la disciplina legislativa e regolamentare prevista, volta per volta, dalle norme specifiche in materia di opere pubbliche ritraibili, in materia, dai d.P.R. nn. 1063/1962, 554/1999 e 207/2010, nel tempo succedutisi.
Il caso esaminato dal Supremo Collegio riguardava un appalto di lavori edili di consolidamento del Palazzo comunale, mai avviati dalla ditta appaltatrice a causa della mancata consegna dell’area sulla quale eseguire le lavorazioni, in ragione del fatto che esso era occupato, per altre lavorazioni, da differente impresa sempre incaricata dalla medesima Amministrazione comunale appaltante.
In ragione di ciò, l’appaltatore aveva dato corso ad un giudizio civile, chiedendo al Tribunale ordinario la risoluzione del contratto per inadempimento e ottenendola unitamente alla condanna del Comune convenuto al pagamento di un importo per i danni subiti in dipendenza del dedotto inadempimento.
La sentenza era gravata dall’Amministrazione, deducendosi l’inapplicabilità delle norme civilistiche sulla risoluzione contrattuale, a favore della disciplina speciale in materia addotta dal capitolato generale per le opere pubbliche (art. 10, d.P.R. n. 1063/1962, poi trasfuse in disposizioni di tenore pressoché analogo contenute nel d.P.R. n. 554/1999 ed oggi nel d.P.R. n. 207/2010) che attribuisce all’appaltatore, in questi casi, la sola facoltà di chiedere il recesso dal contratto, con potere di decisione in capo alla P.A.: dal che, l’impossibilità di disporre quella liquidazione del danno riconosciuta erroneamente dal Tribunale.
La Corte di merito accoglieva l’appello, proposto in questi termini.
La decisione di secondo grado è oggetto di ricorso per Cassazione dall’impresa, al quale il Comune resiste proponendo altresì ricorso incidentale.
I Giudici di Legittimità respingono il ricorso principale e, anzi, accolgono il primo motivo dell’incidentale recante doglianza per violazione e falsa applicazione dell’ art. 10, comma 8, d.P.R. n. 1063/1962 e degli artt. 1206, 1453, 1454 e 1455 c.c..
Osserva in proposito il Supremo Giudice che l’omessa consegna dei lavori da parte della Stazione appaltante -se pur costituisce fonte di responsabilità contrattuale- non consente però l’applicazione delle norme del codice civile sussistendo (in applicazione del principio di specialità, quale metodo risolutivo d’un conflitto apparente di norme coesistenti) prevalenza delle previsioni di contrattualistica pubblica.
In ragione di questo, l’appaltatore non ha possibilità di mettere in mora l’Amministrazione ex art. 1454 c.c.; né di chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c.; né di avanzare pretese risarcitorie ma potrà soltanto formulare istanza di recesso, rimessa al potere discrezionale della P.A. In caso di adesione a tal proposta da parte dell’Ente appaltante, all’appaltatore spetteranno le sole spese sostenute, mentre nel diverso caso in cui l’Amministrazione opti per il mantenimento del vincolo, l’impresa avrà diritto ai maggiori oneri patiti per la prolungata consegna del cantiere, o per altre conseguenze patrimoniali subite -ad esempio in ipotesi di consegna parziale- previa iscrizione di puntuali e tempestive riserve.
In difetto di presentazione di quest’istanza il contratto è da considerare ancora eseguibile, senza ulteriori oneri in capo alla stazione appaltante (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 29.10.2015 n. 22112 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
L'esame del primo motivo del ricorso incidentale del Comune di Cagliari precede logicamente l'esame di quello principale.
Esso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 10, ottavo comma, d.P.R. n. 1063 del 1962 (richiamato dal capitolato speciale d'appalto), 1206, 1453, 1454 e 1455 c.c., per avere la Corte d'appello applicato la normativa di diritto privato, ignorando la norma speciale e derogatoria di cui all'art. 10 del capitolato generale di appalto, il cui ottavo coma, applicabile nei casi di consegna inidonea e tardiva, prevede unicamente la facoltà dell'appaltatore di chiedere di recedere dal contratto e stabilisce in modo puntuale anche l'entità dei compensi dovutigli in caso di rigetto dell'istanza di recesso.
Il suddetto motivo è fondato.
Negli appalti pubblici la "consegna dei lavori" all'appaltatore, che è un momento essenziale ai fini della realizzazione dell'opera, si configura come un obbligo della P.A. il cui inadempimento (ancorché diversamente disciplinato rispetto alle norme del codice civile) è fonte di responsabilità contrattuale, in quanto il dovere di collaborazione dell'Amministrazione non perde la sua natura contrattuale solo perché derivante dalla legge, la quale, al contrario, è una delle fonti di integrazione del contratto (art. 1374 c.c.).
Tale inadempimento, tuttavia, non conferisce all'appaltatore il diritto di risolvere il rapporto a norma degli art. 1453 e 1454 c.c., né di avanzare pretese risarcitorie, ma gli attribuisce la sola "facoltà" di presentare istanza di recesso dal contratto, per il mancato accoglimento della quale sorge un diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo, oltre ad un congruo prolungamento del termine originariamente convenuto (v. artt. 10, co. 8, d.P.R. n. 1963 del 1962; 129, co. 8, d.P.R. n. 554 del 1999 e, attualmente, 153, co. 8, e 157, co. 1, d.P.R. n. 207 del 2010).
Il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno può venire in considerazione solo se l'appaltatore abbia preventivamente esercitato la facoltà di recesso, dovendosi altrimenti presumere che egli abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza ulteriori oneri a carico della stazione appaltante, non rilevando, quando non sia stato esercitato il recesso, la costituzione in mora del committente e l'iscrizione di riserva a verbale (v. Cass. n. 4780/2012, n. 7069 e 21484/2004, n. 11329/1997).
Questa Corte ha precisato che
si deve escludere una differenza di disciplina tra la mancata consegna (o il ritardo nella consegna di tutti i lavori) e la consegna parziale, in quanto in entrambi i casi trova applicazione il citato art. 10, co. 8, del d.P.R. del 1962, secondo cui l'appaltatore può scegliere se chiedere il recesso dal contratto, acquisendo il diritto al rimborso dei maggiori oneri ove la sua istanza venga rigettata, ovvero proseguire nel rapporto con la sola esclusione della sua, responsabilità per l'eventuale conseguente ritardo nel completamento dell'opera (v. Cass. n. 2983/2013, n. 6198/2005).
A questi principi la Corte d'appello non si è conformata, avendo dichiarato risolto il contratto per inadempimento del Comune e condannato quest'ultimo al risarcimento del danno, senza verificare se l'appaltatore avesse chiesto di recedere dal contratto, attivando il meccanismo previsto dalla legge in caso di tardiva, mancata o incompleta consegna dei lavori.

LAVORI PUBBLICI: CONSEGUENZE DI UNA CONSEGNA TOTALE O PARZIALE DEL CANTIERE DA PARTE DELLA P.A..
Negli appalti pubblici l’inadempimento della P.A. committente all’obbligo di eseguire la tempestiva consegna dei lavori all’appaltatore è un momento essenziale per la realizzazione dell’opera ma non conferisce all’appaltatore il diritto di risolvere il rapporto a norma degli artt. 1453 e 1454 c.c., né di avanzare pretese risarcitorie, bensì la sola facoltà di presentare un’istanza di recesso dal contratto, dal mancato accoglimento della quale sorge in capo all’appaltatore un diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo, oltre ad un congruo prolungamento del termine originariamente convenuto.
Giunge all’esame della Suprema Corte una sentenza d’una Corte territoriale che, a conferma della statuizione resa in prime cure dal Tribunale, aveva rigettato le domande di un Raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) che aveva chiesto la declaratoria di risoluzione di diritto di un contratto d’appalto pubblico, da esso sottoscritto con una P.A. per la realizzazione d’un impianto polisportivo, in ragione dell’inutile decorso del termine concesso nella diffida rivolta all’Ente per la consegna delle aree, nonché per la condanna al pagamento dei lavori eseguiti, sui quali erano state iscritte riserve.
La decisione di merito trova fondamento nell’applicazione della legislazione specialistica in materia di lavori pubblici, nella specie costituita dall’art. 10, d.P.R. n. 1063/1962. In particolare, osservò la Corte territoriale, è inconferente la tardiva, mancata o incompleta consegna da parte dell’Amministrazione committente, posto che  n tali casi l’appaltatore non ha diritto di risolvere il rapporto né di chiedere il risarcimento del danno, bensì la mera facoltà di presentare un’istanza di recesso per ottenere, in caso di rigetto della stessa,, un compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo e una proroga del termine fissato per l’ultimazione dell’opera non rilevando quando (come nella specie) non sia stata presentata l’istanza di recesso, né che il committente sia stato costituito in mora (art. 1454 c.c.) né che l’appaltatore abbia iscritto riserve in contabilità.
Il Supremo Collegio accoglie il primo motivo di ricorso, e cassa con rinvio la sentenza impugnata: condividendo la censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 10, d.P.R. n. 1063/1962, per avere la Corte di merito ritenuto indebito il pagamento dei lavori eseguiti e non contabilizzati.
Osserva in proposito la Suprema Corte che tale norma limita soltanto la possibilità di formulare domande risarcitorie in caso di mancata presentazione dell’istanza di recesso dal contratto per tardata o incompleta consegna da parte del committente ma non esclude per nulla il diritto al pagamento dei lavori eseguiti, trattandosi di corrispettivo dell’appalto estraneo all’ambito applicativo della citata norma e per il quale, ove ne ricorrano le circostanze, l’appaltatore può coltivare le relative riserve.
Negli appalti pubblici l’inadempimento del committente all’obbligo di eseguire la tempestiva consegna dei lavori all’appaltatore è un momento essenziale ai fini della realizzazione dell’opera e non conferisce all’appaltatore il diritto di risolvere il rapporto a norma degli artt. 1453 e 1454 c.c., né di avanzare pretese risarcitorie, ma solo la “facoltà” di presentare un’istanza di recesso dal contratto, dal mancato accoglimento della quale sorge in capo all’appaltatore un diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo, oltre ad un congruo prolungamento del termine originariamente convenuto (cfr. art. 10, comma 8, d.P.R. n. 1063/1962; art. 129, comma 8, d.P.R. n. 554/1999; art. 153, comma 8 e 157, comma 1, d.P.R. n. 207/2010).
Il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno può venire in considerazione solo se l’appaltatore abbia preventivamente esercitato la facoltà di recesso, dovendosi altrimenti presumere che egli abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza oneri aggiuntivi a carico della stazione appaltante (Cass. n. 4780/2012, n. 7069 e 21484/2004, n. 11329/1997). Del resto, la norma in esame (art. 10, comma 8, d.P.R. n. 1054, cit.) prevede, in caso di ritardata consegna del cantiere, seguita da un rigetto dell’istanza di scioglimento da parte della P.A. solo un indennizzo per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo ma non il pagamento all’appaltatore del corrispettivo dei lavori eseguiti in base al contratto: la ragione è che, non essendovi stata la consegna, non dovrebbe esservi stata alcuna esecuzione dei lavori.
Poiché, tuttavia, una (parziale) esecuzione non potrebbe escludersi in ipotesi di consegna parziale dei lavori, la questione giuridica che qui si pone di valutare se -in presenza di consegna parziale o incompleta, alla quale abbia fatto seguito un’esecuzione dei lavori (nel caso in esame “quasi integrale”)- la P.A. possa sottrarsi al pagamento degli stessi eccependo che l’appaltatore non avrebbe attivato il meccanismo individuato dalla legge per sciogliersi dal contratto, mediante richiesta diretta alla P.A. (e non in sede giudiziaria ex art. 1453 c.c.) di recedere dal contratto.
I Giudici di Legittimità danno risposta negativa al quesito.
Osservano che, nel caso di lavori eseguiti in forza di una consegna che -seppur parziale- vi è stata, l’appaltatore ha certo maturato un diritto al corrispettivo per i lavori eseguiti che trova titolo nel contratto adempiuto. La ragione di non aver chiesto all’Ente di recedere dal contratto è una ragione idonea a precludere la sola pretesa indennitaria per i “maggiori oneri” derivanti da una consegna incompleta.
Questa conclusione non contraddice l’assimilazione dell’ipotesi di mancata (o di ritardata) consegna a quella di consegna parziale (cui faccia seguito un’esecuzione, pur non completa, dei lavori), che è stata operata dalla giurisprudenza (Cass. n. 2983/2013; n. 6178/2005) ai fini dell’applicazione dell’art. 10, comma 8, d.P.R. n. 1063/1962.
Tale assimilazione può operare nei limiti in cui sia compatibile con la diversità delle situazioni considerate, tenuto conto della ratio della citata disposizione, che è quella di assicurare alla P.A. la possibilità di valutare la convenienza, per l’interesse pubblico, di tenere in vita il rapporto oppure di adottare una difforme scelta prospettandosi, ad esempio, il superamento degli originari limiti di spesa: è una finalità che sarebbe elusa ove fosse dato all’appaltatore di richiedere il rimborso di “maggiori oneri” a titolo indennitario (Cass. n. 1818/1980), non il pagamento di lavori eseguiti legittimamente in base al contratto (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 19.10.2015 n. 21100 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA COLLOCAZIONE SU UN’AREA DI UNA “CASA MOBILE” CON STABILE DESTINAZIONE ABITATIVA RICHIEDE IL PERMESSO DI COSTRUIRE
La collocazione su un’area di una “casa mobile” con stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso di costruire, configura il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, rilevando esclusivamente, ai fini dell’esclusione contenuta nell’ultima parte dell’art. 3, comma 1, lett. e5), d.P.R. n. 380 del 2001, la contestuale sussistenza dei requisiti indicati e, segnatamente, la collocazione all’interno di una struttura ricettiva all’aperto, il temporaneo ancoraggio al suolo, l’autorizzazione alla conduzione dell’esercizio da effettuarsi in conformità della normativa regionale di settore e la destinazione alla sosta ed al soggiorno, necessariamente occasionali e limitati nel tempo, di turisti.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno del “massimo” titolo abilitativo per la realizzazione di un intervento edilizio invero assai diffuso nella pratica corrente, ossia la c.d. casa mobile.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza del tribunale che ha respinto la richiesta di riesame presentata avverso il decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto il sequestro di un prefabbricato modulare, ipotizzandosi il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001.
Avverso tale pronuncia l’indagata proponeva ricorso per cassazione, in particolare osservando che, avuto riguardo alla potestà esclusiva in materia urbanistica attribuita alla Regione Sicilia, le disposizioni contenute nel d.P.R. n. 380 del 2001, non potrebbero essere applicate, mentre, in ragione di quanto disposto dall’art. 5, L.R. n. 37 del 1985, la sosta o il parcheggio di una casa mobile non sarebbe soggetto ad alcuna concessione o autorizzazione se non adibita ad uso abitativo, ipotesi ricorrente nel caso di specie.
Aggiungeva che la destinazione all’uso abitativo sarebbe stata erroneamente valutata dai giudici del riesame sulla base di un giudizio meramente prognostico e valorizzando elementi non rilevanti, quali l’esistenza di una pavimentazione esterna e di una vasca interrata, comunque compatibili con la destinazione del terreno e rispetto ai quali non risulta dimostrata alcuna relazione con la casa mobile installata.
La Cassazione, respingendo il ricorso dell’indagata, ha sul punto di interesse, affermato il principio di cui in massima, in particolare ricordando che la Corte cost., sent. 24.07.2015, n. 189, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41, comma 4, D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98, aggiungendo la frase “ancorché siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all’interno di strutture ricettive all’aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti” (successivamente, con il D.L. 28.03.2014, n. 47, art. 10-ter, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 23.05.2014, n. 80, la parola “ancorché” è stata sostituita con le parole “e salvo che”).
Sul punto, osservano i Supremi Giudici, la Corte costituzionale ha precisato come la norma individua “(...) specifiche tipologie di interventi edilizi, realizzati nell’ambito delle strutture turistico-ricettive all’aperto, molto peculiari, che peraltro contraddicono i criteri generali (della trasformazione permanente del territorio e della precarietà strutturale e funzionale degli interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale, ai fini dell’identificazione della necessità o meno del titolo abilitativo. In tal modo, la norma impugnata sottrae al legislatore regionale ogni spazio di intervento, determinando la compressione della sua competenza concorrente in materia di governo del territorio, nonché la lesione della competenza residuale del medesimo in materia di turismo, strettamente connessa, nel caso di specie, alla prima”.
Secondo la Cassazione, dunque, l’evidente eccezione introdotta, riferita alle sole “strutture ricettive all’aperto”, troverebbe la sua ragion d’essere, come si ricava anche dalla menzionata sentenza della Corte costituzionale (e da quella, in essa richiamata, n. 278/2010), nel fatto che la collocazione dei manufatti indicati al loro interno, in ragione della destinazione, non determina una permanente trasformazione del territorio tale da richiedere il permesso di costruire.
Le modifiche apportate alla disposizione in esame non ne hanno, per la S.C., in alcun modo ampliato l’ambito di operatività, limitandosi a fornire un contributo esplicativo perfettamente coerente con i principi generali fissati dalla disciplina urbanistica e, sostanzialmente, fondato sul fatto che interventi del tipo di quelli descritti non comportano una stabile trasformazione rilevante sotto il profilo urbanistico.
È dunque in quest’ottica che la disposizione deve essere interpretata, avendo specifico riguardo alla precarietà oggettiva e funzionale dell’intervento, cui fa riferimento anche la Corte cost. nella sent. n. 278/2010. Andrà quindi tenuto conto del fatto che la disposizione in esame richiede alcuni specifici requisiti:
   a) il temporaneo ancoraggio la suolo, cosicché ogni collocazione di tali manufatti che abbia natura permanente, desumibile non soltanto dal dato temporale ma anche da ogni altro elemento significativo, quale, ad esempio, la presenza di parti accessorie fisse o di stabili allacciamenti alle reti elettriche, idrica o fognaria;
   b) i manufatti devono trovarsi all’interno di strutture ricettive all’aperto e l’uso della specifica locuzione induce a ritenere che il riferimento riguardi esclusivamente quelle individuate dall’art. 13, D.Lgs. 23.05.2011, n. 79 (c.d. Codice del turismo) e, segnatamente, i villaggi turistici i campeggi, i campeggi nell’ambito delle attività agrituristiche ed i parchi di vacanza;
   c) tali strutture dovranno essere debitamente autorizzate e condotte in conformità alla normativa regionale di settore;
   d) la destinazione dei manufatti è quella della sosta ed il soggiorno di turisti. La formulazione della disposizione è inequivoca, peraltro, nel richiedere la compresenza di tutte le condizioni in precedenza indicate.
Da qui, conclusivamente, il rigetto del ricorso, non rientrando l’ipotesi concreta nel campo di applicazione della normativa in deroga, atteso che -come accertato dal giudice di merito- l’immobile sequestrato risultava costituito da un prefabbricato modulare di mq 42, in parte poggiato su un carrello ed in parte su pali telescopici, dotato, sul lato est, di un terrazzino di mq 16, poggiato anch’esso su pali telescopici.
Il manufatto risultava, inoltre, suddiviso in due distinte unità, con ingressi separati, dotate la prima di due camere da letto, vano cucina e vano WC e la seconda di una camera, un vano cucina e vano WC. Il Tribunale, sulla base dei dati fattuali a sua disposizione, aveva dunque correttamente ritenuto che l’immobile fosse destinato ad uso abitativo, escludendone anche l’utilizzo per fini di soddisfacimento di esigenze meramente temporanee, valorizzando, a tal fine, la presenza di arredi, l’esistenza, all’esterno del manufatto, di un’area piastrellata di circa 200 mq, sulla quale insiste il terrazzino e la realizzazione di una vasca idrica interrata in cemento armato vibro-compresso ed osservando che l’assenza di allacciamenti alla rete idrica e l’assenza di vasche di raccolta delle acque bianche e nere è giustificata dalla recente collocazione del prefabbricato, desunta dalla data di rilascio della carta provvisoria di circolazione.
In giurisprudenza, sulla necessità del permesso di costruire per le cosiddette case mobili, v. Cass., Sez. III, 22.06.2011, n. 25015, D.R., in CED, n. 250601) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.10.2015 n. 41067 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA: GLI INTERVENTI EDILIZI IN ZONA VINCOLATA DIFFORMI DAL TITOLO ABILITATIVO SONO EX LEGE TUTTI IN DIFFORMITÀ TOTALE.
In presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell’individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l’art. 32, comma 3, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla qualificazione dell’intervento edilizio eseguito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e della sua rilevanza agli effetti della successiva individuazione della sanzione penale applicabile.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con la quale il Tribunale aveva accolto l’istanza di riesame proposta avverso il decreto con il quale il GIP disponeva il sequestro preventivo delle opere esistenti in un cantiere. Il sequestro era stato disposto nell’ambito di indagini a carico del L. nella qualità di comproprietario dell’opera abusiva per il reato di cui all’art. 44, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, perché, previa demolizione di un immobile preesistente e previo sbancamento, era stato realizzato nel cantiere un basamento in c.a. di circa mq 17 sul quale era in corso di realizzazione la collocazione di carpenteria in legno e ferro al momento priva di gettata in calcestruzzo.
I giudici del riesame rilevavano che nel caso di specie, concernente una ristrutturazione con ampliamento di un immobile, previa demolizione delle parti interne di esso e mutamento dei volumi, la Polizia Municipale si era limitata a dare atto dell’esistenza dell’illecito edilizio, senza precisare, visto che sia le demolizioni interne dell’edificio, sia lo sbancamento di 17 mq costituivano oggetto della concessione edilizia n. 220 del 2013, in che cosa vi fosse difformità penalmente rilevante.
Peraltro, argomentavano i giudici di merito, dalla disamina del fascicolo fotografico non si evinceva la demolizione dei muri perimetrali dell’edificio, essendo ben visibile l’esistenza di un muro di prospetto. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il P.M., in particolare rilevando, per quanto qui di interesse, che il Tribunale del riesame aveva trascurato di considerare che le opere in questione interessavano un’area gravata da vincolo paesaggistico: quindi era del tutto inconferente, ai fini della rilevanza penale della condotta edificatoria in atti, l’entità differenziale tra quanto assentito dalla concessione e quanto effettivamente realizzato dall’impresa esecutrice, integrando il reato di cui all’art. 44, lett. c), qualsivoglia divergenza rispetto al provvedimento concessorio.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come il Tribunale del riesame aveva ritenuto la legittimità dell’intervento di ristrutturazione sulla base della sussistenza di un titolo concessorio, senza considerare il dato, evidenziato dal P.M., che nel verbale di sequestro di urgenza della Polizia Municipale, risultava accertata la demolizione totale dell’immobile preesistente e che dal rapporto fotografico della PG operante si evinceva che le mura in esso rappresentate non erano le pareti della struttura originaria, bensì appartenevano agli edifici confinanti, trattandosi di lotto di terreno intercluso fra altri fondi.
Alla luce di tali risultanze l’attività svolta nel cantiere si poneva in totale difformità dal permesso di costruire rilasciato, essendo essa diretta alla creazione di una nuova opera e non alla ristrutturazione delle preesistente, donde, in base ad una giurisprudenza ormai consolidata in tema di interventi edilizi in zona vincolata, gli stessi andavano considerati in difformità totale (v., in precedenza: Cass., Sez. III, 05.09.2014, n. 37169, in CED, n. 260181; Id., Sez. III, 27.04.2010, n. 16392, in CED, n. 246960) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.10.2015 n. 39817 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Secondo costante indirizzo di questa Corte,
la ristrutturazione edilizia consiste nel ripristino o la sostituzione di elementi costitutivi dell'edificio originario volti a trasformare l'organismo preesistente, a condizione che rimangano immutati sagoma, volume ed altezza dello stesso (Cass. sez. 3, n. 36528 del 16/06/2011, dep. 10/10/2011, Rv. 251039, Sez. 3, n. 49221 del 06/11/2014, dep. 26/11/2014 Rv. 261216, Cass. Sez. 5^ 17.2.1999 n. 3558, P.M. in proc. Scarti. Rv. 213598,)
Nella nozione di ristrutturazione edilizia sono dunque ricompresi interventi volti alla trasformazione dell'edificio preesistente mediante il ripristino e la sostituzione di alcuni elementi costitutivi, ma lo stesso deve rimanere inalterato per forma, volume ed altezza, onde è estranea a detta categoria la creazione di nuovi volumi sia in ampliamento sia in sopraelevazione, esclusi quelli tecnici (in questo senso Cass. Sez. 5^ 17.2.1999 n. 3558, P.M. in proc. Scarti. Rv. 213598).
La normativa di riferimento della fattispecie in esame è data dall'art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 380/2001, la quale descrive gli interventi di ristrutturazione edilizia come: "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti".
Premessi tali principi, ritiene questo Collegio che gli interventi effettuati non siano riconducibili nel concetto di ristrutturazione in quanto si è proceduto alla integrale demolizione della originaria struttura senza che la successiva ricostruzione prevedesse il mantenimento di volumi sagome ed altezza identiche alla preesistente costruzione; tutto ciò in totale difformità del titolo concessorio (n. 220 del 2013) rilasciato per la ristrutturazione, il quale autorizza "ristrutturazione edilizia mediante ampliamento, per mc 105,56 su una cubatura esistente di mc 212,54 finalizzata alla realizzazione di primo piano realizzazione di parcheggio a piano cantinato, demolizione di superfetazione consistente nel tramezzo realizzato nel terrazzo, demolizione di solaio e nuova realizzazione, realizzazione di impianti , diversa distribuzione interna ed opere di rifinitura.
Gli aumenti di volumetria previsti nella concessione contemplavano in minima parte la possibilità di effettuare abbattimenti; mentre
la demolizione totale accompagnata dalla ricostruzione con nuovi volumi integra l'ipotesi di nuova opera prevista dall'art. 3, lett. e), cit. d.p.r. e non certo una ristrutturazione edilizia.
A ciò va aggiunto il rilievo che l'intervento edilizio è stato effettuato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. In tale ipotesi la Suprema Corte ha più volte affermato il principio secondo cui
in presenza di interventi edilizi in zona paesagisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali [Sez. 3 n. 37169 del 06/05/2014 Ud. (dep. 05/09/2014) Rv. 260181, Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010 Cc. (dep. 27/04/2010) Rv. 246960].
Il Tribunale del riesame ha ritenuto la legittimità dell'intervento di ristrutturazione sulla base della sussistenza di un titolo concessorio, senza considerare il dato, evidenziato dal P.M. ricorrente, che nel verbale di sequestro di urgenza 16.11.2013 della Polizia Municipale, risulta accertata la demolizione totale dell'immobile preesistente e che dal rapporto fotografico della PG operante si evince che le mura in esso rappresentate non sono le pareti della struttura originaria, bensì appartengono agli edifici confinanti, trattandosi di lotto di terreno intercluso fra altri fondi.
Alla luce di tali risultanze l'attività svolta nel cantiere di via Papa Sergio I si pone in totale difformità dal permesso di costruire rilasciato, essendo essa diretta alla creazione di una nuova opera e non alla ristrutturazione delle preesistente.

ESPROPRIAZIONE: DETERMINAZIONE DELL’INDENNIZZO ESPROPRIATIVO IN CASO DI OCCUPAZIONE USURPATIVA.
In fattispecie d’occupazione cd. usurpativa e, quindi, di illecito comune (quale si ha nel caso di trasformazione del fondo sulla base d’una dichiarazione di P.U. inefficace per omessa indicazione dei termini di inizio e fine delle espropriazioni) la valutazione dei beni va effettuata con riferimento alla disciplina urbanistica vigente al tempo del compiuto illecito ed in base al criterio dell’edificabilità o meno dei suoli, accertando, quindi, la destinazione ad essi all’epoca impressa dallo strumento medesimo, senza alcun ricorso integrativo o sostitutivo all’edificabilità di fatto: tale valutazione deve essere commisurata al valore venale del terreno usurpato, da ponderarsi non in base a criteri astratti, bensì concreti, alla luce della Corte cost., sent. n. 181/2011.
In accoglimento di una domanda proposta da alcuni privati, un Tribunale condannò un Comune al risarcimento del danno da occupazione acquisitiva d’un terreno, reputato a vocazione edificatoria e utilizzato dall’Ente locale per realizzare opere pubbliche viarie, liquidando anche il ristoro in favore degli attori per l’occupazione acquisitiva patita ma dichiarandosi incompetente per la domanda di determinazione dell’indennità d’occupazione temporanea, essendo tal materia devoluta alla competenza funzionale della Corte d’Appello, in unico grado.
La Corte di merito, in riforma della sentenza di primo grado, riduceva l’entità del risarcimento ritenendo tra l’altro e all’esito di una rinnovata CTU, che nella specie si vertesse in ipotesi d’illecito da occupazione usurpativa e non acquisitiva: questo perché la declaratoria di P.U. non era stata corredata dai termini prescritti dall’art. 13 della L. n. 2359/1865, non potendosi ritenersi sanata, quest’originaria invalidità, da una successiva delibera di Consiglio comunale.
Per il che, anche il decreto di occupazione, non collegato a un fine di pubblico interesse legalmente dichiarato, era inidoneo a legittimare la temporanea sottrazione della disponibilità del bene alla parte privata.
Avverso questa sentenza i privati hanno proposto ricorso per Cassazione, che la Suprema Corte in parte accoglie cassando con rinvio la sentenza gravata.
Il ricorso è accolto con riferimento alla censura involgente la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 Cost., dell’art. 5-bis, D.L. n. 333/1992, in combinato l’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001 (T.U. Edilizia).
Osserva la S.C. che nella specie si verte in caso di occupazione c.d. usurpativa e, quindi, di illecito comune. In particolare si è già affermato che in ipotesi di occupazione usurpativa (quale si ha nel caso di trasformazione del fondo sulla base d’una dichiarazione di P.U. inefficace per omessa indicazione dei termini di inizio e fine delle espropriazioni) la valutazione dei beni deve essere effettuata con riferimento alla disciplina urbanistica vigente al tempo del compiuto illecito ed in base al criterio dell’edificabilità o meno dei suoli, accertando, quindi, la destinazione ad essi all’epoca impressa dallo strumento medesimo, senza alcun ricorso integrativo o sostitutivo all’edificabilità di fatto.
Tale valutazione del risarcimento deve essere commisurato al valore venale del terreno usurpato, da ponderarsi non in base a criteri astratti, bensì concreti, alla luce della sopravvenuta e nota sent. n. 181/2011 resa dal Giudice delle leggi (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 25.09.2015 n. 19085 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICA: EFFETTI DELL’APPROVAZIONE DI UN PIANO PARTICOLAREGGIATO DI INIZIATIVA PRIVATA IN TEMA DI PROCEDIMENTO ESPROPRIATIVO E DETERMINAZIONE DELL’INDENNIZZO.
L’approvazione di un piano particolareggiato d’iniziativa privata in zona industriale e artigianale d’interesse locale consente (ex art. 28, L. n. 1150/1942, novellato ex art. 8, L. n. 765/1967) il ricorso all’espropriazione per l’acquisizione delle aree necessarie, nel caso in cui i proprietari non aderiscano al progetto o non accettino di cederle volontariamente, così attribuendo alle opere previste dal piano il valore di opere private di pubblica utilità: in tali casi, trova applicazione l’art. 36, comma 1, T.U. Espropriazioni che, prevede la liquidazione dell’indennità in misura pari al valore venale dell’immobile.
Un Consorzio di Imprese convenne in giudizio un privato e un Comune, chiedendo la determinazione dell’indennità dovuta per l’espropriazione di due fondi, disposta in favore del Consorzio medesimo per la realizzazione di un piano particolareggiato d’iniziativa privata, in zona industriale e artigianale d’interesse locale.
A tale giudizio fu riunito quello d’opposizione alla stima, promosso dal privato verso il Consorzio e il Comune. In quest’ultimo giudizio, si erano costituiti il Comune, il quale aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, e il Consorzio, che aveva riproposto in via riconvenzionale la domanda avanzata nel primo giudizio.
La Corte d’Appello, definendo il gravame in unico grado, dichiarò il difetto di legittimazione del Comune, determinando l’indennità d’esproprio a favore del privato. Ritenuto che al pagamento dell’indennità fosse tenuto il Consorzio, quale beneficiario dell’espropriazione, la Corte osservò che -come accertato dal CTU- i fondi espropriati ricadevano in zona omogenea soggetta a piano particolareggiato di iniziativa privata e, pur risultando edificabili sotto il profilo giuridico, non erano dotati delle essenziali opere propedeutiche.
Pertanto, ai sensi dell’art. 37 T.U. Espropriazioni (d.P.R. n. 327/2001) l’indennità di esproprio era da liquidarsi in misura pari al valore venale degli immobili, decurtato degli oneri di urbanizzazione. In tal modo, facendo propria la valutazione del CTU, a tali importi ha aggiunto l’indennità di cui al d.P.R. n. 327/2001 (art. 40, commi 1 e 4), liquidata sulla base del valore agricolo medio previsto per le coltivazioni risultanti dal verbale d’immissione in possesso e dallo stato di consistenza.
La Corte, invece, escluse che gli oneri di urbanizzazione dovessero essere calcolati in base ai costi effettivamente sostenuti dal Consorzio, da dividersi per le sole aree edificate, rilevando che l’ammontare di tali costi non era ancora definitivo, perché i lavori non erano ancora ultimati e precisando che il costo unitario era stato correttamente determinato in relazione all’intera area urbanizzata, in quanto tra i costi dovevano essere incluse anche le aree a cessione gratuita.
La Corte, infine, escluse l’applicabilità dell’art. 36 del d.P.R. n. 327/2001, osservando che il richiamo a tale disposizione non avrebbe comportato una modifica del criterio adottato, anche con riferimento alla detrazione degli oneri di urbanizzazione. Infine, la Corte territoriale riconosceva (ex L. n. 244/2007, n. 244, art. 2, comma 89) la maggiorazione prevista dall’art. 37, comma 2, d.P.R. n. 327/2001, escludendo invece l’applicabilità del comma 7 della medesima disposizione, in mancanza di prova documentale delle somme pagate per ICI e dell’indicazione delle aree alle quali si riferivano.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, proposto dal Consorzio al quale resiste, mediante controricorso e ricorso incidentale, la parte privata.
La Corte analizza le complessive doglianze, principiando dal ricorso incidentale.
In tale sede, i controricorrenti censurano la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 36 T.U. Espropriazioni, oltre che per vizio motivazionale, sostenendo che nella liquidazione dell’indennità d’esproprio la Corte di merito non avrebbe dovuto tener conto dell’incidenza degli oneri d’urbanizzazione ma solo del valore venale dei fondi, già dotati di potenzialità legali ed effettive di edificazione, non essendo gravati da vincoli d’inedificabilità assoluta. Nella specie, non poteva quindi trovare applicazione la decurtazione di cui all’art. 37 T.U. Espropriazioni (relativa agli interventi finalizzati all’attuazione di riforme economico-sociali) né quella contenuta nel precedente art. 36, comma 1-bis (che riguarda la realizzazione di programmi di riabilitazione urbana).
Di contro, avrebbe dovuto applicarsi la disciplina dettata dal primo comma dell’art. 36, trattandosi d’espropriazione disposta per la realizzazione di insediamenti industriali o artigianali.
Nel procedere alla decurtazione dell’indennità, ad avviso dei controricorrenti, la Corte di merito non avrebbe erroneamente tenuto conto delle motivazioni sottese all’approvazione del piano particolareggiato, che escludevano la sussistenza dei presupposti prescritti dall’art. 27 della L. n. 166/2002, né dei contributi pubblici percepiti dal Consorzio a copertura parziale degli oneri di urbanizzazione, ai sensi delle L.R. Friuli Venezia Giulia n. 18/2011 e n. 27/2012.
La Suprema Corte accoglie il mezzo incidentale e, per l’effetto annulla con rinvio la sentenza gravata, con assorbimento del ricorso principale.
A fondamento della propria decisione, il Supremo Collegio osserva che la sentenza impugnata ha accertato che l’espropriazione fu disposta per la realizzazione di un piano particolareggiato d’iniziativa privata in zona industriale e artigianale d’interesse locale, la cui approvazione consente (ai sensi della L.R. Friuli Venezia Giulia n. 52/1991, n. 52, il cui art. 49 pone una disciplina analoga a quella dell’art. 28 della Legge urbanistica fondamentale n. 1150/1942, novellato dall’art. 8 L. n. 765/1967) il ricorso all’espropriazione per l’acquisizione delle aree necessarie, nel caso in cui i proprietari non aderiscano al progetto o non accettino di cederle volontariamente. Tale legge, quindi, consente di equiparare sostanzialmente alle opere previste dal piano il valore di opere private di pubblica utilità.
Tale qualificazione, non espressamente prevista ex lege ma ricollegabile al carattere privato dell’iniziativa sottesa alla formazione e all’attuazione del piano, comporta l’applicabilità dell’art. 36 del d.P.R. n. 327/2001, ai sensi del quale l’indennità di esproprio dev’essere determinata in misura pari al valore venale dell’immobile, con esclusione dell’applicabilità delle disposizioni contenute nelle Sezioni III e IV del Capo VI del Titolo II del citato d.P.R., concernenti la determinazione dell’indennità di espropriazione rispettivamente per le aree edificabili o edificate e per quelle inedificabili.
L’applicazione della predetta disposizione, in luogo di quelle dettate dagli artt. 37 e 40, non comporta un mutamento del criterio fondamentale di determinazione dell’indennità che -per effetto della dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1 (Corte cost., n. 348/2007) e della sua sostituzione ad opera dell’art. 2, comma 89, lett. a), della L. n. 244/2007, nonché della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. art. 40, comma 1 (Corte cost., n. 181/2011)- consiste, tanto per le aree edificabili quanto per quelle inedificabili, sempre nel valore di mercato del bene.
L’inapplicabilità di tali disposizioni esclude la possibilità di operare la riduzione prevista dall’art. 37, comma 1, d.P.R. cit., per gli espropri finalizzati a interventi di riforma economico- sociale, rendendo viceversa operante l’art. 27, comma 5, L. n. 166/2002 (richiamato dall’art. 36, comma 1-bis, T.U. Espropriazioni, introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. n. 302/2002) che, per le espropriazioni finalizzate alla realizzazione di programmi di riabilitazione urbana, prevede la decurtazione dell’indennità in misura pari agli oneri di urbanizzazione stabiliti dalla convenzione stipulata tra il Comune e il Consorzio costituito tra i proprietari degl’immobili inclusi nel relativo piano di attuazione.
Sennonché, conclude la S.C., l’espropriazione dei fondi di proprietà degli attori non è qui in alcun modo riconducibile alla fattispecie prevista dall’art. 27, comma 5, cit., essendo stata disposta per realizzazione di un piano che -promosso da privati per la realizzazione di una zona industriale e artigianale d’interesse locale- non ha nulla in comune con quelli a cui fa riferimento la predetta disposizione: questi ultimi, oltre ad avere come finalità la “riabilitazione di immobili ed attrezzature di livello locale” ed il “miglioramento della accessibilità e mobilità urbana”, ovvero il “riordino delle reti di trasporto e di infrastrutture di servizio per la mobilità attraverso una rete nazionale di autostazioni per le grandi aree urbane”, traggono origine da un’iniziativa pubblica, dovendo essere promossi dagli enti locali, e rispondono ad esigenze urbanistiche totalmente diverse, in quanto le opere da essi previste, pur potendo essere cofinanziate da risorse private, fornite dai soggetti interessati alle trasformazioni urbane, debbono consistere in “interventi di demolizione e ricostruzione di edifici e delle relative attrezzature e spazi di servizio, finalizzati alla riqualificazione di porzioni urbane caratterizzate da degrado fisico, economico e sociale” (TAR Puglia, Bari, Sez. III, 04.03.2014, n. 295).
Trova pertanto applicazione, nella specie, esclusivamente dell’art. 36, comma 1, che per le espropriazioni finalizzate alla realizzazione di opere private di pubblica utilità non rientranti nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica, convenzionata o agevolata né nell’ambito di piani di insediamenti produttivi di iniziativa pubblica, prevede la liquidazione dell’indennità in misura pari al valore venale dell’immobile.
Torna pertanto applicabile, in riferimento alla fattispecie in esame, il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di liquidazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabile secondo cui, nell’ambito della valutazione dell’immobile, la distinta considerazione degli oneri di urbanizzazione costituisce un momento imprescindibile esclusivamente nel caso di adozione del metodo di stima analitico-ricostruttivo, fondato sul calcolo del valore di trasformazione dell’immobile, da determinarsi tenendo conto degl’indici di fabbricabilità previsti dallo strumento urbanistico e dell’incidenza delle superfici da destinare a spazi pubblici e ad opere d’interesse generale, mentre non trova giustificazione nel caso di ricorso al metodo sintetico-comparativo, che, in quanto fondato sulla comparazione con i prezzi di mercato pagati per immobili situati nella medesima zona ed aventi caratteristiche omogenee a quelle del fondo espropriato, sconta anticipatamente il peso degli oneri connessi allo sfruttamento del suolo, la cui detrazione si risolverebbe pertanto in una non consentita duplicazione (ex plurimis, Cass., Sez. I, 04.07.2013, n. 16750; 22.03.2013, n. 7288; 31.05.2007, n. 12771) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 25.09.2015 n. 19077 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: NOZIONE DI “ESISTENZA” DELLE OPERE DI URBANIZZAZIONE E SUA RILEVANZA RISPETTO ALL’ATTIVITÀ LOTTIZZATORIA.
In virtù del combinato disposto della L. n. 1150 del 1942, art. 31 e art. 41-quinquies, ultimo comma, l’espressione “esistenza” delle opere di urbanizzazione ivi contenuta, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un’area non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli “standards” urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444 del 1968 e dell’art. 17, L. n. 765 del 1967.
Ne discende che l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si riscontri l’esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte.

La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su una vicenda assai diffusa nella giurisprudenza di legittimità, in particolare attinente i rapporti intercorrenti tra l’illecito lottizzatorio e l’esistenza o meno di opere di urbanizzazione in un’area al fine di consentire una corretta valutazione dell’esistenza del relativo reato edilizio. La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale respingeva la richiesta di riesame presentata nell’interesse di L.F. proposta avverso il decreto con cui il G.I.P. disponeva il sequestro preventivo di n. 16 unità abitative divise su quattro fabbricati, in quanto indagato dei reati di cui all’art. 44, lett. c), artt. 95 e 75, d.P.R. n. 380 del 2001, e art. 181, D.Lgs. n. 42 del 2004.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare contestando, con riferimento alla questione della carenza di urbanizzazione primaria, quanto affermato dal tribunale che avrebbe erroneamente fatto riferimento all’erroneo presupposto che la frazione territoriale in cui insistono gli abusi costituisse area solo parzialmente urbanizzata, ciò per la mancanza alla data del 24.06.2013 del collettore fognario pubblico; quanto alla carenza urbanizzazione secondaria, erroneamente i giudici avrebbero fatto riferimento alle dichiarazioni di un teste (tale B., dell’Ufficio opere pubbliche) da cui sarebbe risultato che non erano stati previsti incrementi delle stesse a seguito della realizzazione di alcune opere.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare evidenziando che, con riferimento alla nozione di “esistenza” delle opere di urbanizzazione, occorreva tener conto della più recente giurisprudenza dei giudici amministrativi, in virtù del combinato disposto dagli artt. 31 e 41-quinquies, ultimo comma, L. n. 1150 del 1942.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, l’espressione “esistenza” delle opere di urbanizzazione ivi contenuta, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un’area non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli “standards” urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444 del 1968 e della L. n. 765 del 1967, art. 17.
Ne discende che l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si riscontri l’esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria  almeno nelle quantità minime prescritte (Cons. Stato, Sez. V, 29.04.2000, n. 2562; TAR Venezia, sent. 04.02.2012, n. 234). 
A ciò si aggiunge -concludono i Supremi Giudici- quanto disposto dall’art. 12 del T.U. E., in forza del quale il permesso di costruire è comunque subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, o alla previsione da parte del Comune dell’attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all’impegno degli interessati di procedere all’attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso. Elementi tutti mancanti nel caso in esame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2015 n. 38795 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: INCOMMERCIABILITÀ DEGLI IMMOBILI ABUSIVI.
Gli atti di trasferimento di diritti reali su immobili sono nulli, ai sensi dell’art. 40, comma 2, L. n. 47/1985, sia nel caso in cui gli immobili oggetto di trasferimento non siano in regola con la normativa urbanistica (nullità di carattere sostanziale), sia quando dagli atti di trasferimento non risulti la circostanza della regolarizzazione in corso (nullità di carattere formale).
Un privato convenne in Tribunale il promittente venditore di un immobile, chiedendo dichiararsi la legittimità del proprio recesso dalla proposta d’acquisto del bene, risultato essere accatastato come “locale di soffitta, categoria A/7”, perciò privo del certificato di abitabilità e, quindi, non conforme alla destinazione d’uso residenziale prospettata in sede di vendita, al cui scopo l’attore dichiarava di averlo voluto acquistare.
Il Tribunale accolse la domanda e condannò il convenuto al pagamento del doppio della caparra.
La statuizione fu riformata dalla Corte d’Appello, che rigettò la domanda dell’attrice. Oltre a verificare la consistenza di reciproci inadempimenti, osservò che il consenso delle parti si era formato sull’acquisto di “quattro locali di soffitta” e non già di un’abitazione, com’era ricavabile dalla descrizione del bene indicata nella proposta d’acquisto formulata dall’originario attore e accetta dal convenuto.
In tal modo si escluse che la consegna dell’immobile oggetto del preliminare integrasse la vendita di aliud pro alio e si affermò che seppure la pubblicità dell’immobile compiuta dall’agenzia avesse fatto riferimento alla vendita di un “superattico”, la promissaria fosse perfettamente a conoscenza della reale destinazione dell’immobile, in ragione della preventiva disamina degli atti di provenienza, avvenuti prima della sottoscrizione della proposta.
Circa la mancanza del requisito di abitabilità ed il cambio d’uso -osservò la Corte distrettuale- l’attrice, visitato l’immobile adibito ad abitazione, ben aveva percepito il contrasto con la descrizione contenuta negli atti di provenienza e nella proposta di acquisto (ove lo stesso era definito “magazzino”). In ragione di questo, era da ritenersi che parte attrice avesse rinunciato al requisito dell’uso abitativo, difforme da quello risultante dagli atti di provenienza, non potendo neppur rilevare, in proposito, il riferimento alla clausola inerente alle agevolazioni fiscali per la prima casa inserita nella proposta d’acquisto.
In ogni caso, concluse la Corte territoriale, ai fini della commerciabilità del bene sarebbe stata sufficiente la dichiarazione di avvenuta realizzazione dell’immobile in data anteriore al 01.09.1967, sicché parte inadempiente doveva considerarsi l’attrice, che non si era presentata per la stipulazione del contratto definitivo.
L’originario attore perciò grava la sentenza con ricorso affidato a quattro motivi, uno dei quali è accolto dalla Suprema Corte, che cassa con rinvio.
Per quanto d’interesse per questa Rivista, il ricorso è accolto in relazione motivo con il quale è denunciata la violazione di alcune disposizioni della L. n. 47/1985. Osserva la Corte che gli atti di trasferimento di diritti reali su immobili sono nulli, ai sensi dell’art. 40, comma 2, L. n. 47/1985, sia nel caso in cui gli immobili oggetto di trasferimento non siano in regola con la normativa urbanistica (nullità di carattere sostanziale), sia quando dagli atti di trasferimento non risulti la circostanza della regolarizzazione in corso (nullità di carattere formale): sul punto, è richiamato un recente insegnamento (Cass., n. 25811/2014).
Ancora, il Supremo Collegio ricorda che in forza di tal norma i beni immobili che abbiano subito, in epoca successiva al 01.09.1967, interventi di trasformazione edilizia per i quali sia necessaria la concessione, sono incommerciabili -con conseguente nullità dei relativi atti di trasferimento- ove l’alienante non dia conto degli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria o della presentazione della relativa domanda. Per escludere la commerciabilità è sufficiente che l’opera abbia subito modifiche nella sagoma o nel volume rispetto a quelli preesistenti.
La sentenza qui impugnata s’è discostata da queste disposizioni, avendo ritenuto che sarebbe stato possibile il trasferimento dell’immobile con una mera dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio di cui all’art. 40, L. n. 47/1985, pur avendo affermato che non era stato sanato il cambio di destinazione dell’immobile. Evidentemente, sotto il profilo in esame e per le considerazioni sopra formulate, è irrilevante che in tempo successivo l’immobile sia stato venduto: per tale profilo, la sentenza è cassata con rinvio ad altra sezione della Corte a quo (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.09.2015 n. 18261 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

EDILIZIA PRIVATA: L’ORDINE DI DEMOLIZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO NON SI ESTINGUE PER LA MORTE DEL REO E RESTA ESEGUIBILE ANCHE NEI CONFRONTI DELL’EREDE.
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile per successione a causa di morte, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico o urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell’avente causa del condannato, mentre passa in secondo piano l’aspetto afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale della stessa.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione della persistente eseguibilità dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo nel caso in cui, pronunciata la sentenza di condanna, si verifichi medio tempo il decesso del condannato.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione rigettava l’istanza volta ad ottenere la revoca, ovvero la sospensione, dell’ingiunzione a demolire emessa dalla Procura della Repubblica in esecuzione di una sentenza irrevocabile. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in particolare deducendo che il provvedimento di demolizione era indirizzato a soggetto deceduto, ed era stato notificato all’erede nell’atto di notifica compilato dall’ufficiale giudiziario.
Nessun provvedimento di demolizione sarebbe mai stato emesso a carico della stessa erede o degli altri eredi legittimi o testamentari, non essendo la destinataria della notifica l’unica erede, ma soltanto usufruttuaria del bene. Sosteneva, ancora, che proprio in virtù del principio che l’ordine di demolizione ha carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene, quest’ultimo ha diritto alla notificazione dell’ingiunzione a demolire, in modo da potersi poi rivalere con gli strumenti privatistici, nei confronti dei soggetti responsabili dell’attività abusiva, degli effetti sopportati in via pubblicistica.
Anche alla luce delle pronunce rese dalla Corte di Strasburgo, andava quindi ribadito il principio che l’ordine di demolizione ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa e deve essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto con il bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato. Nel caso di specie, tale principio non sarebbe stato rispettato, in quanto l’ingiunzione a demolire era indirizzata al de cuius e la stessa ingiunzione non era stata notificata a tutti gli eredi in rapporto diretto con il bene, ma soltanto all’usufruttuaria.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha rigettato il ricorso, osservando che, nello specifico del caso esaminato, il G.E. aveva operato un buon governo del costante dictum della Cassazione secondo cui l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria (cfr. ex multis: Cass. pen., Sez. III, 18.01.2011, n. 3861, B. ed altri, in CED, n. 249317).
Peraltro, nel ribadire che l’esecuzione di un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile abusivamente realizzato non è preclusa dall’intervenuta cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto che continui ad arrecare pregiudizio al territorio, la stessa Cassazione aveva già avuto modo di precisare, diversamente da quanto sostenuto dall’erede, che tale principio è conforme alle norme Cedu, come interpretate dalla Corte Europea con sentenza 20.01.2009, nel caso Sud Fondi c/ Italia (cfr. Cass. pen., Sez. III, 22.10.2009, n. 48925, V. ed altri, in CED, n. 245918).
Infine, concludono i Supremi Giudici, in ogni caso, la circostanza che la destinataria della notifica fosse nel possesso dell’immobile, rendeva la stessa soggetto passivo legittimato a ricevere la notifica dell’ingiunzione alla demolizione del manufatto abusivo originariamente di proprietà del marito deceduto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2015 n. 36383 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: CONTRATTO SCRITTO PER CONFERIMENTO D’INCARICHI PROFESSIONALI DA PARTE DELLA P.A.
Le obbligazioni a carico della P.A. possono sorgere solo da contratto in forma scritta, irrilevante restando ogni atto unilaterale posto dall’Amministrazione stessa e che non si traduca in un documento contrattuale sottoscritto, recante il dettaglio delle prestazioni e il compenso da corrispondere: ciò vale anche per gli incarichi professionali, che vanno stipulati per iscritto mediante contratto d’opera intellettuale, non surrogabile da una deliberazione dell’Ente pubblico che abbia autorizzato o direttamente conferito l’incarico professionale.
Un professionista azionò con decreto ingiuntivo avanti ad un Giudice di pace il proprio credito per emolumenti quale collaudatore di un’opera idraulica.
L’Amministrazione ingiunta propose opposizione, accolta in ragione della mancanza di copertura finanziaria dell’atto di conferimento d’incarico professionale.
Il professionista appellò la decisione e il Tribunale, in riforma dell’impugnata sentenza, confermò l’originario decreto ingiuntivo.
La P.A. grava la decisione per Cassazione, che la Suprema Corte accoglie con riguardo alla dedotta violazione degli artt. 97 Cost.; 16 e 17, R.D. n. 2440/1923; artt. 1325, 1326, 1350, 1418, 1421 e 2725 c.c., laddove la sentenza impugnata aveva ritenuto validamente concluso l’accordo contrattuale tra le parti. Ancora, il ricorso è accolto per carenza di motivazione al riguardo, propria della sentenza impugnata.
I Giudici di legittimità ribadiscono che l’assunzione di obbligazioni a carico della P.A. può sorgere esclusivamente da un contratto redatto, a pena di nullità, in forma scritta, apparendo irrilevanti eventuali atti unilaterali, posti in essere dall’Amministrazione stessa, che non si traducano in un documento contrattuale sottoscritto, recante il dettaglio delle prestazioni e il compenso da corrispondere. Si tratta di un principio direttamente ricavabile dal dettato costituzionale, perché espressione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., posto nell’interesse del cittadino e della P.A. (Cass. n. 17327/2008).
A tale principio non si sottraggono gli incarichi professionali, che devono essere stipulati con un contratto d’opera intellettuale, essendo irrilevante l’esistenza di una deliberazione dell’ente pubblico che abbia autorizzato o direttamente conferito l’incarico al professionista in assenza del contratto sottoscritto dal rappresentante esterno dell’Ente e dal professionista.
Né tal carenza, per consolidato indirizzo giurisprudenziale (ex multis, Cass. nn. 24547/2008; 8263/2015), può ritenersi superata laddove il conferimento dell’incarico professionale sia deliberato dall’organo collegiale rappresentativo dell’Ente pubblico, comunicata all’interessato e seguita dall’accettazione scritta da parte del medesimo. Infatti, ribadisce la S.C., l’incontro di volontà deve essere contestuale, e così la sottoscrizione delle parti, in questo caso non versandosi nell’eccezionale casistica di cui all’art. 17, R.D. n. 2240, cit., che ammette il contratto per corrispondenza solo se intercorrente tra P.A. e ditte commerciali (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 24.08.2015 n. 17084 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).
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MASSIMA
Come è noto,
l'assunzione di obbligazioni a carico dell'amministrazione pubblica può sorgere esclusivamente da un contratto redatto, a pena di nullità, in forma scritta apparendo irrilevanti eventuali atti unilaterali della P.A., che non si traducano in un documento contrattuale sottoscritto dal rappresentante esterno dell'Ente e dal soggetto incaricato, nel quale siano indicate specificamente le prestazioni e il compenso da corrispondere.
Tale principio generale ha indubbia valenza costituzionale, quale espressione dei princìpi di buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione ai sensi dell'art. 97 Cost., quale strumento di garanzia della regolare attività amministrativa, nell'interesse del cittadino e della stessa P.A.
(al riguardo, tra le altre, Cass. n. 17327 del 2008).
Gli incarichi professionali devono essere conferiti in forma scritta a pena di nullità (R.D. n. 2240 del 1923, art. 16 e 17, richiamato ripetutamente dalla legislazione regionale della Calabria) mediante stipulazione di un contratto d'opera professionale, essendo irrilevante l'esistenza di una deliberazione dell'ente pubblico che abbia autorizzato o direttamente conferito l'incarico al professionista, in assenza del contratto, come si diceva, sottoscritto dal rappresentante esterno dell'Ente e dal professionista.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, infine (tra le altre, Cass. n. 24547 del 2008, n. 5263 del 2015),
non sussiste valida obbligazione contrattuale, ove il conferimento dell'incarico al professionista venga autorizzato dall'organo collegiale rappresentativo dell'ente pubblico e lo stesso ente comunichi l'intervenuta deliberazione, pur se intervenga successivamente l'eventuale accettazione del professionista incaricato, anche in forma scritta.
L'incontro di volontà deve essere contestuale, e così la sottoscrizione delle parti, ai sensi dell' art. 17 R.D. 2240 che ammette il contratto per corrispondenza solo quando esso intercorra tra la P.A. e ditte commerciali.

EDILIZIA PRIVATA: RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO NON COMMITTENTE PER L’ABUSO EDILIZIO ED INDIVIDUAZIONE DELLE CONDIZIONI PER LA SUA AFFERMAZIONE.
Anche il proprietario non committente può essere responsabile dell’abuso edilizio e la sua colpevolezza può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall’interesse specifico ad edificare la nuova costruzione.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema  Corte verte, in particolare, sul tema, assai discusso in giurisprudenza, dell’individuazione delle condizioni in presenza delle quali può essere riconosciuta la responsabilità penale del soggetto, proprietario di un immobile abusivamente realizzato, ma che non ne sia formalmente il committente.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna pronunciata nei confronti di un’imputata cui, in qualità di proprietaria del terreno, era stata contestata l’esecuzione di lavori di costruzione di un manufatto in assenza di apposito permesso a costruire; i giudici di merito avevano ritenuto, in particolare, che la stessa fosse pienamente consapevole delle opere realizzate dal figlio, sia perché residente in loco, sia perché nello stesso anno era stata vista partecipare materialmente ai lavori, sia perché già in passato le era stata notificata ordinanza di sospensione dei lavori, mentre i lavori erano stati ripresi ed ultimati sotto i suoi occhi.
Contro tale sentenza l’imputata presentava ricorso per cassazione, in particolare sostenendo che non vi fosse la prova che la stessa sapesse che l’opera che si stava realizzando fosse destinata al figlio, essendo stata desunta tale consapevolezza esclusivamente dal vincolo parentale.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, osservando come, nel caso concreto, i giudici di appello avessero desunto la diretta ascrivibilità del reato edilizio alla proprietaria dell’area dalla circostanza, pacifica, che già in precedenza la stessa fosse stata sorpresa dalla polizia locale mentre collaborava alla realizzazione di un manufatto abusivo da destinare ad abitazione del figlio, principale esecutore dell’opera; successivamente, poi, era stato accertato che, previa rimozione dei sigilli in precedenza apposti, i lavori fossero stati ripresi e che l’opera fosse stata completata, desumendo la Corte d’Appello, da tali emergenze istruttorie, che la donna avesse fornito un contributo di adesione e partecipazione morale alla commissione dell’illecito, consentendo il completamento dell’opera.
La decisione della Cassazione si inerisce in quell’orientamento ormai consolidato secondo cui la responsabilità del proprietario o comproprietario, non formalmente committente delle opere abusive, può dedursi da indizi quali la piena disponibilità della superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l’esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria, la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche sull’accessione nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale alla realizzazione del fabbricato (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, 15.12.2014, n. 52040, L. e altro, in CED, n. 261522) (Corte di Cassazione, Sez. Feriale penale, sentenza 19.08.2015 n. 34977 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

URBANISTICA: IL CONCORSO DEL VENDITORE-LOTTIZZATORE PERMANE SINO A QUANDO CONTINUA L’ATTIVITÀ EDILIZIA DEGLI ACQUIRENTI DEI SINGOLI LOTTI.
Il reato di lottizzazione abusiva ha carattere permanente ed è inquadrabile nella categoria dei reati progressivi nell’evento, la cui permanenza continua per ogni concorrente sino a che di ciascuno di essi perdura la condotta volontaria e la possibilità di fare cessare la condotta antigiuridica dei concorrenti, sicché il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l’attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, oggetto di approfondimento nella giurisprudenza di legittimità, della configurabilità del concorso nel reato di lottizzazione abusiva del venditore del terreno oggetto dell’illecito lottizzatorio.
La vicenda processuale trae origine dalla ordinanza con cui il Tribunale del riesame aveva respinto la richiesta di riesame proposta nei confronti del decreto di convalida di sequestro preventivo del G.I.P. avente ad oggetto un’intera area di mq. 2640 di superficie ed il sovrastante complesso residenziale in corso di realizzazione per i reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, in relazione alla illegittima trasformazione di un complesso immobiliare assentito come attività ricettiva alberghiera in complesso residenziale costituito da 21 singole unità abitative e in relazione alla realizzazione di molteplici interventi edilizi in assenza del permesso di costruire e comunque in totale difformità dalla concessione edilizia.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, sostenendo, per quanto qui di interesse, che, sulla base della successione cronologica degli eventi, la presunta violazione dei vincoli di unitarietà e indivisibilità si sarebbe comunque verificata con un atto del 2005 di cessione dai C. alla soc. T. della porzione di mq. 2460 dell’originario lotto 42, con conseguente prescrizione del reato di lottizzazione abusiva.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, precisando, quanto al tema della prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, che l’alienazione delle costruzioni realizzate sui singoli lotti, già oggetto di frazionamento abusivo, non costituisce un “post factum” non punibile, ma protrae la commissione del reato di lottizzazione mista, nella sua forma negoziale, per tutti coloro che partecipano all’atto (Cass. pen., Sez. III, 20.05.2011, n. 20006 P.M. in proc. B. e altri, in CED, n. 250387), sicché, correttamente, la stessa ordinanza aveva potuto concludere che, nella specie, la permanenza del reato aveva coinciso, a ben vedere, con l’ultimo atto di vendita; del resto, era evidente che l’attività edificatoria fosse proseguita da parte di alcuni acquirenti, con la creazione di scale interne per collegare le unità abitative poste al primo piano con il sottotetto reso abitabile, fino al 2012 (v. sulla questione, in termini: Cass. pen., Sez. III, 21.01.2002, n. 1966, V. N. ed altri, in CED, n. 220853) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.08.2015 n. 34895 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

INCARICHI PROGETTUALI: INAMMISSIBILITÀ DI AZIONE DI ARRICCHIMENTO INDEBITO VERSO LA P.A. IN ASSENZA DI CONTRATTO SCRITTO E AZIONE SPECIFICA VERSO AMMINISTRATORI O FUNZIONARI CHE HANNO CONSENTITO LA PRESTAZIONE.
Nel caso di prestazione professionale eseguita in assenza di contratto scritto non è esperibile verso la P.A. -per difetto del requisito di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c.- l’azione residuale d’indebito arricchimento ex art. 2041 c.c., potendosi semmai azionare la pretesa ai sensi dell’art. 23, commi 3 e 4, D.L. n. 66/1989 (conv. in L. n. 144/1989) verso l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, indipendentemente dal fatto che sia intercorsa un’effettiva negoziazione contrattuale.
Due progettisti citarono un’Amministrazione avanti il Tribunale Ordinario, chiedendo che la P.A. convenuta fosse condannata al pagamento, in loro favore, di compensi per prestazioni professionali effettuate (in seguito a specifica delibera) consistite nella redazione di progetti per la costruzione d’un complesso sportivo.
Il Comune resistette alla domanda, eccependo l’inesistenza di valido contratto sul quale fondare le pretese attoree. Il Tribunale, sul presupposto della necessità -ad substantiam acti- di un contratto scritto tra le parti, nella specie mancante, rigettò la domanda anche sotto il profilo della subordinata domanda ex art. 2041 c.c..
La Corte territoriale confermò la pronuncia di primo grado.
Ricorrono per Cassazione i professionisti, con ricorso che la Suprema Corte respinge.
Si deduce la violazione dell’art. 23, D.L. n. 66/1989 (convertito in L. n. 144/1989) e dell’art. 2041 c.c.: in particolare i ricorrenti denunciano l’errore della Corte territoriale nel ritenere inammissibile l’azione generale di arricchimento esercitata (subordinatamente all’azione contrattuale, rigettata) in ragione della mancanza del presupposto carattere di sussidiarietà. Tale presupposto, secondo i Giudici d’appello era legato al fatto che gli attori -ove avessero azionato la propria pretesa creditoria ai sensi del citato D.L. n. 66/1989- ben avrebbero potuto agire, per ottenere il pieno delle loro spettanze, verso gli amministratori o i funzionali che avevano richiesto e consentito la loro prestazione senza valida obbligazione per l’Ente pubblico.
I ricorrenti contestano tale prospettazione, offerta dalla Corte di merito, asserendo che essa presupporrebbe lo svolgimento d’una “contrattazione” tra professionista incaricato e P.A. o funzionario pubblico richiedente la stessa: contrattazione, per vero, mai avvenuta, dal che l’impossibilità d’una domanda formulata su questo presupposto giuridico, con salvezza del rimedio offerto in via residuale dall’art. 2041 c.c. verso l’Ente pubblico, il quale ha tratto giovamento dall’attività prestata dai ricorrenti.
La Suprema Corte disattende l’assunto.
La sentenza rimarca che l’art. 23 del D.L. n. 66/1989, recante disposizioni in materia di finanza locale (convertito con modificazioni nella L. n. 144/1989 prevede, al comma 3, che “a tutte le amministrazioni provinciali, ai comuni ed alle comunità montane l’effettuazione di qualsiasi spesa è consentita esclusivamente se sussistano la deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e divenuta o dichiarata esecutiva, nonché l’impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il ragioniere, sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati”. Al successivo al comma 4 esso stabilisce che “nel caso in cui vi sia stata l’acquisizione di beni o servizi in violazione dell’obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge, tra il fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentito la fornitura”.
La norma, osserva il Supremo Collegio, è stata costantemente interpretata nel senso che qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere assistita da un conforme provvedimento dell’organo munito di potere deliberativo e da uno specifico impegno contabile registrato in bilancio di previsione e che in mancanza, il rapporto obbligatorio si costituisce direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, onde il professionista non può esperire nei confronti dell’ente pubblico l’azione di indebito arricchimento di cui all’art. 2041 c.c. verso l’Ente pubblico, per difetto del carattere sussidiario e residuale (art. 2042 c.c.) di tale azione (Cass., Sez. I, 30.10.2013 n. 24478; Cass., Sez. VI, sottosez. III, ord., 23.01.2014, n. 1391; Cass., Sez. I, 26.05.2010, n. 12880).
Per l’applicazione di tale norma speciale non può sostenersi che debba intercorrere una negoziazione contrattuale, ossia una trattativa, dovendosi la richiamata espressione “rapporto contrattuale” interpretare nel senso di mero “consenso” prestato dall’amministratore o dal funzionario comunale alla prestazione del professionista, in conformità al dettato dell’art. 23, comma 4, cit., che richiede esclusivamente che l’amministratore o il funzionario “abbiano consentito la fornitura”.
In altri termini, l’insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo, direttamente con l’amministratore o il funzionario si ha per la semplice circostanza che -mancando una valida obbligazione dell’ente locale, con il prescritto impegno contabile- l’esecuzione di fatto del rapporto è stata semplicemente consentita dall’amministratore o dal funzionario (Cass., Sez. I, 09.05.2007, n. 10640).
Né tale disposizione può destare dubbi i legittimità costituzionale -in relazione agli artt. 3, 24 e 28 Cost.- avendo il Giudice delle Leggi dichiarato (sentenze nn. 446/1995; 295/1997) la piena conformità della norma di legge in questione alla Carta costituzionale (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 06.08.2015 n. 16558 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

EDILIZIA PRIVATA: QUALI SONO I RAPPORTI TRA LE PRESCRIZIONI DEL P.R.G. E LA NORMATIVA TRANSITORIA DETTATA DALL’ART. 9 DEL T.U. EDILIZIA?
Le prescrizioni del P.R.G. che disciplinano, in senso più restrittivo rispetto al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 9, le possibilità di intervento sugli edifici preesistenti, in sede di salvaguardia delle finalità di riequilibrio territoriale di una zona, devono ritenersi prevalenti sia perché dirette ad assicurare un regime di maggiore tutela dell’area interessata, sia al fine di stimolare l’iniziativa dei privati a diventare protagonisti dei processi di risanamento.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su una questione sostanzialmente inesplorata nella giurisprudenza penale di legittimità, in particolare concerne il tema dei rapporti intercorrenti tra la disciplina delle N.T.A. del P.R.G. comunale e la disciplina transitoria dettata dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001 quanto alla possibilità di intervento edilizio su edifici preesistenti.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva rigettato l’appello cautelare presentato avverso il decreto emesso dal G.I.P. del medesimo tribunale nell’interesse del legale rappresentante della D.P. fu E. S.p.a.; con tale provvedimento, in particolare, era stata respinta l’istanza di dissequestro a seguito del rilascio del permesso di costruire da parte del Comune che autorizzava la ripresa dei lavori (già oggetto di precedente sequestro, confermato anche dalla Cassazione con una precedente sentenza) in base al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 9, comma 2, disattendendo la tesi difensiva secondo cui detto rilascio avrebbe fatto venir meno il fumus dei reati ipotizzati (d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), artt. 110 e 323 c.p. e artt. 110, 479 e 481 c.p.), in quanto legittimava la ripresa dei lavori nel limite del 25% delle destinazioni preesistenti, contestando l’esegesi del giudice di merito che aveva ritenuto che l’art. 9 predetto non fosse applicabile ai lavori posti in essere all’interno dei Comuni sprovvisti di P.R.G. ed il soggetto non si fosse obbligato al compimento di ulteriori opere di urbanizzazione, oltre a sostenere che il p.d.c. successivo avrebbe impedito la confisca delle opere.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare sostenendo che il tribunale sarebbe incorso in un errore di diritto con riferimento all’esegesi del cit. d.P.R., art. 9, comma 2; in sostanza, si sosteneva, richiamando il p.d.c. successivamente rilasciato, che con quest’ultimo era stata disposta la “riforma” del precedente p.d.c., autorizzando la ripresa dei lavori nei limiti del 25% della variazione delle destinazioni d’uso preesistenti pari a mq. 1525,04 di commerciale/direzionale; non v’era dubbio, aggiungeva l’indagato, che l’edificio di cui si discute avesse una destinazione preesistente a scopo industriale e commerciale e non certo residenziale, consistendo peraltro l’intervento unicamente nella ristrutturazione interna del medesimo edificio, avente tale destinazione, da adibire a centro direzionale con attività commerciale, in totale conformità alla destinazione urbanistica in cui ricadeva il fabbricato (zona D1 di P.R.G.); analogamente, non v’era dubbio sulla preesistenza di tutte le opere di urbanizzazione primaria e secondaria; in definitiva, quindi, non vi sarebbero stato elementi ostativi alla applicabilità dell’art. 9 citato, invece esclusa dal giudice del riesame.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, soffermandosi in particolare sulla corretta esegesi nel caso di specie della norma, frutto peraltro di plurime interpretazioni da parte del Giudice amministrativo, secondo la quale la predetta norma prevede la possibilità di intervenire solo su edifici esistenti, con opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo ex d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. a), b), c), senza particolari limitazioni.
Lo stesso art. 9 ammette, inoltre, gli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 3, lett. d), purché riguardino singole unità immobiliari o loro parti. Ove invece, i suddetti interventi di ristrutturazione edilizia interessino l’intero fabbricato, o più edifici, la loro ammissibilità è subordinata ad una duplice condizione: 1) il mantenimento delle “destinazioni preesistenti” almeno nella misura del 75%; 2) il convenzionamento con il Comune “limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale” in ordine ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, nonché il concorso negli oneri di urbanizzazione: rimangono esclusi per converso tutti gli altri interventi edilizi.
In tale contesto, le trasformazioni più rilevanti, eccedenti la misura del 25% di tutte le destinazioni d’uso preesistenti, rimangono assoggettate alla previa pianificazione attuativa. Tali previsioni, ad esempio, consentono di modificare anche la destinazione residenziale prima intangibile, con il solo limite del convenzionamento con il Comune limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, in ordine ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, nonché il concorso negli oneri di urbanizzazione.
Alla stregua di tale ricostruzione dunque, l’intervento di cui è causa, seppure riferito ad un intero edificio e non a singole unità immobiliari o a parti di esso, e ricadente quindi nella disciplina della seconda parte dell’art. 9, comma 2, sarebbe assentibile, in base alla prescrizione di legge, secondo quanto a tal riguardo ritenuto dal Comune, in quanto nell’ipotesi di specie si avrebbe comunque la conservazione della precedente destinazione, ad uso commerciale, destinazione questa non ostativa all’assentibilità degli interventi di ristrutturazione, secondo quanto innanzi evidenziato.
Pertanto, alla luce delle suesposte argomentazioni, era errata la interpretazione contenuta nell’ordinanza, che aveva escluso l’applicabilità dell’art. 9 citato al caso in esame (v., nella giurisprudenza amministrativa, circa l’esegesi del predetto art. 9: Cons. Stato, Sez. IV, sent. 10.05.2012, n. 2707; v., ancora: Cons. Stato, Sez. IV, sent. 10.06.2010, n. 3699) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2015 n. 33033 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL CONDONO AMBIENTALE NON COSTITUISCE CONSEGUENZA AUTOMATICA DEL RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.
La L. 15.12.2004, n. 308, art. 1, commi 37, 38 e 39, ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall’art. 167) causa di estinzione del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1, in tale articolo inserendo i commi 1-ter e 1-quater che lo disciplinano, non configurando il condono come automatica conseguenza dell’autorizzazione paesaggistica.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da parte dei giudici di legittimità con la sentenza in esame, in cui viene ad essere affrontato il tema del possibile automatismo tra rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e l’applicabilità del c.d. condono ambientale.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva respinto l’appello avverso la sentenza con cui il Tribunale aveva condannato gli imputati per il reato di cui all’art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, per avere realizzato opere edili senza autorizzazione paesaggistica.
Contro la sentenza presentavano ricorso per cassazione gli interessati, in particolare dolendosi del fatto che il giudice d’appello non aveva tenuto conto del parere di conformità ambientale della Soprintendenza per cui il reato si sarebbe estinto ex art. 181, comma 1-ter.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso confermando la sentenza, peraltro aggiungendo che l’art. 181, comma 1-ter, prevede, in caso di accertamento della compatibilità paesaggistica da parte dell’autorità amministrativa competente secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la non applicabilità del comma 1, che concerne una fattispecie contravvenzionale, non investendo invece il delitto di cui al comma 1-bis (in giurisprudenza, v.: Cass. pen., Sez. III, 29.10.2013, n. 44189, T., in CED, n. 257527) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2015 n. 33024 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

VARI: AZIONE EX ART. 2932 C.C. E PROVA DELLA REGOLARITÀ URBANISTICO-EDILIZIA DELL’IMMOBILE.
In una causa per l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita immobiliare, occorre siano prodotti i documenti attestanti la regolarità urbanistica dell’immobile o che sia resa la dichiarazione sostitutiva di atto notorio di cui all’art. 40, L. n. 47/1985: tuttavia, poiché la regolarità urbanistica non è un presupposto della domanda ma una condizione dell’azione, essa può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite e la sua carenza è rilevabile anche d’ufficio, fino al momento della decisione.
Sorge controversia fra due privati in dipendenza d’una scrittura con cui il primo aveva promesso di vendere al secondo un negozio con terreno antistante, alla quale era seguita la mancata comparizione dell’acquirente avanti il notaio e il radicamento di una causa ex art. 2932 c.c. da parte del promittente venditore.
All’esito dei due gradi di merito, la Corte d’Appello accoglieva la domanda ex art. 2932 c.c. dichiarando la convenuta tenuta a prestarsi all’erezione dell’atto pubblico, previo versamento della somma di € 30.987,41 quale residuo prezzo.
Del resto, chiosava la sentenza di merito, la produzione di copia della licenza edilizia, del progetto allegato alla licenza e della concessione in sanatoria evidenziavano la regolarità urbanistica dell’immobile già al momento della conclusione del contratto, escludendone la nullità da parte convenuta.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l’acquirente, sviluppando quattro motivi che la S.C. rigetta. Per quanto di interesse, il Supremo Collegio osserva che in tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di un immobile, occorre siano prodotti i documenti attestanti la regolarità urbanistica dell’immobile (ovvero di rendere la dichiarazione sostitutiva di atto notorio di cui all’art. 40, L. n. 47/1985).
Peraltro -poiché la regolarità urbanistica non costituisce un presupposto della domanda, bensì una condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite- la carenza di tali documenti è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, con l’ulteriore conseguenza che sia l’allegazione, che la documentazione della sua esistenza, si sottraggono alle preclusioni che regolano la normale attività di deduzione e produzione delle parti e possono quindi avvenire anche nel corso del giudizio di appello, purché prima della relativa decisione (SS.UU., n. 23825/2009) (
Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 28.07.2015 n. 15947 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

URBANISTICA: IL NOTAIO CONCORRE NELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA SE NON ESAMINA PUNTUALMENTE LA DOCUMENTAZIONE STORICA DELL’IMMOBILE.
In tema di lottizzazione abusiva, il notaio deve preoccuparsi che l’atto non nasca invalido o invalidabile e che lo stesso strumento riduca al massimo i rischi dell’emergenza di liti interpretative tra le parti; ne consegue che spetta al notaio l’esame puntuale della documentazione storica dell’immobile, per la completa tranquillità di non rischiare la invalidità dell’atto, poiché questi, quale privato esercente di pubbliche funzioni, deve assumere una pregnante funzione di controllo documentale, sussistendo un interesse generale da tutelare oltre quello delle parti costituite.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla discussa questione della responsabilità penale del notaio in ipotesi di illecito lottizzatorio.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di appello, riformando la pronuncia emessa dal Tribunale soltanto in punto di sostituzione della pena detentiva in pecuniaria e concessione della non menzione della condanna, confermava la stessa quanto alla ritenuta responsabilità di tre soggetti in ordine alla contravvenzione di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. c); agli stessi -i G. quali, rispettivamente, legale rappresentante e consigliere delegato della “Villaggio C. s.r.l.”, il M. quale notaio rogante- era contestato di aver effettuato l’abusiva lottizzazione di un complesso immobiliare mutando la destinazione d’uso da turistico-ricettivo a residenziale, e così procedendo alla vendita delle singole unità costituenti il complesso in spregio agli strumenti urbanistici vigenti.
Contro la sentenza, per quanto qui di interesse, proponeva ricorso per cassazione il notaio, sostenendo la violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 47: lo stesso avrebbe dovuto essere assolto in ragione di tale norma la quale escluderebbe, se rispettata con riguardo al certificato di destinazione urbanistica, qualsivoglia responsabilità del notaio, il quale, peraltro, potrebbe sì rispondere a titolo di concorso nell’attività illecita altrui, ma a condizione che questa condotta -ulteriore rispetto alla mera stipula dell’atto- sia stata contestata.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso del notaio, in particolare evidenziando come era da escludere l’operatività dell’art. 47, comma 2, cit. d.P.R., a mente del quale “tutti i pubblici ufficiali, ottemperando a quanto disposto dall’art. 30 (lottizzazione abusiva), sono esonerati da responsabilità inerente al trasferimento o alla divisione dei terreni”; questa scriminante, secondo i Supremi Giudici, non può esser riconosciuta nei confronti di un notaio che:
1) ha stipulato sia la convenzione di lottizzazione che la quasi totalità degli atti di cessione (nella specie, in numero di diverse decine);
2) in particolare, aveva stipulato atti nei quali l’oggetto formalmente indicato -quote millesimali di proprietà indivisa- era “corretto” sia dalle rassicurazioni che lo stesso sovente forniva agli acquirenti circa il carattere esclusivo della proprietà acquistata, sia dalla allegazione di documenti (tabella millesimale) che evidenziavano la specifica unità abitativa oggetto del negozio;
3) aveva allegato a questi atti un certificato di destinazione urbanistica (turistico-ricettiva) che ben si saldava con il dato apparente della cessione di quote millesimali, ma si poneva in inconciliabile contrasto con il citato carattere esclusivo del bene compravenduto;
4) con tale modalità, sempre uguale in decine e decine di operazioni, aveva partecipato, con piena consapevolezza ed adesione soggettiva, ad una lottizzazione abusiva. La sentenza rappresenta una ulteriore specificazione del principio, più volte affermato dalla Cassazione, secondo cui in tema di lottizzazione abusiva sussiste la responsabilità del notaio rogante, a titolo di concorso nel reato, ove risulti la cosciente e volontaria partecipazione alla integrazione del reato in questione, desumibile dalla dimensione complessiva strutturale di ogni singolo atto, dal sistema negoziale predisposto per eludere specifiche prescrizioni degli strumenti urbanistici (quali la minima unità culturale), dalla stipulazione diluita nel tempo di vari atti da parte degli stessi venditori per il medesimo terreno (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 14.12.2000, n. 12989, P., in CED, n. 218015) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 16.07.2015 n. 30863 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

LAVORI PUBBLICI: GIURISDIZIONE ORDINARIA PER LE CONTROVERSIE INERENTI LA FASE ESECUTIVA DI UNA CONCESSIONE DI LAVORI PUBBLICI.
La controversia inerente la fase d’esecuzione di una convenzione per la costruzione di un complesso immobiliare e l’affidamento in gestione al concessionario degli impianti e servizi relativi, previa corresponsione all’aggiudicatore di un canone annuo, appartiene alla giurisdizione ordinaria, non avendo ormai rilievo, nel vigente quadro normativo, la precedente distinzione tra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell’opera (o di costruzione e gestione congiunte), e sussistendo, piuttosto, l’unica categoria della “concessione di lavori pubblici”, nella quale la gestione funzionale ed economica dell’opera non costituisce più un accessorio eventuale della concessione di costruzione, ma la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario.
La Suprema Corte, in sede regolatrice di giurisdizione, dirime a favore del G.O. un conflitto sorto avanti un Tribunale civile nell’ambito di una causa intentata da un fallimento contro un’Amministrazione comunale, per ottenere un ingente risarcimento, pari al costo delle opere eseguite in attuazione d’una convenzione per la gestione del locale Centro sportivo.
Contestandosi, da parte del Comune, il difetto di giurisdizione del G.O. l’attore ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione chiedendo alle Sezioni Unite di affermare la giurisdizione ordinaria, che viene riconosciuto.
Questo il percorso logico attraverso il quale la Corte regolatrice perviene a tale decisione.
La ricorrente era mandante di un’ATI aggiudicataria della gara per la gestione per diciotto anni del Centro sportivo comunale e l’esecuzione delle opere d’integrale ristrutturazione dei locali. L’ATI si era impegnata, con una seguente convenzione, a versare un canone annuo e aveva appaltato ad altra impresa i lavori per una nuova palestra per oltre un milione di euro. Essa, inoltre, aveva eseguito ogni opera di ristrutturazione e ampliamento prevista e, malgrado ciò, il Comune aveva dichiarato la risoluzione del contratto e intimato alla società (poi fallita) il rilascio dell’immobile, senza corrispondere alcun prezzo per le opere acquisite.
Per tale ragione, la curatela fallimentare ha promosso l’azione civile contro il Comune per il pagamento del costo delle opere eseguite in attuazione della Convenzione o, in subordine, come indennizzo per ingiustificato arricchimento.
A tal fine, osserva che essa non ha impugnato l’atto di risoluzione del contratto, né messo in discussione alcun provvedimento concessorio. Per l’effetto, vertendosi in ipotesi di concessione di costruzione e gestione, possono essere invocati alcuni precedenti in argomento emersi in giurisprudenza, che inquadrano la fattispecie in termini pattizi, finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica che è remunerata dalla relativa gestione, diversamente da quanto accade nel caso di concessione di un bene pubblico, rilasciato in godimento al privato contro il pagamento di un corrispettivo.
A dir del Comune, di contro, il sinallagma è quello tipico d’una concessione di pubblico servizio, avente a oggetto la gestione del centro sportivo dietro pagamento d’un canone, mentre gli interventi manutentivi sono solo quelli correlati a garantirne l’efficiente gestione e non comportano trasformazione del rapporto in una concessione di lavori pubblici.
Oggetto principale del contratto sarebbe, infatti, la gestione di un bene già esistente e utilizzabile, mentre una “concessione di lavori” potrebbe esservi solo se la gestione del servizio pubblico fosse funzionale a remunerare la costruzione dell’opera. Nella specie, di contro, si è nell’ambito della “concessione di servizi” poiché i lavori sono funzionali a rendere possibile lo svolgimento e la migliore organizzazione del servizio pubblico. Attenendo la controversia alla materia dei pubblici servizi, la questione deve esser conosciuta dal G.A., salvo che si discuta di indennità e altri corrispettivi, a condizione però che la cognizione non si debba estendere alla risoluzione del rapporto concessorio.
A fondamento della proprie convinzioni, le Sezioni Unite osservano che per stabilire se si sia in presenza di concessione di pubblici servizi o di concessione di costruzione e gestione di opera pubblica sia rilevante la considerazione degli importi in gioco nell’insieme della pattuizione negoziale.
A tal fine la comparazione non può avvenire tra il costo delle opere e il fatturato che il gestore potrà ricavare dalla conduzione degli impianti ma deve esser fatto tra le due prestazioni che fanno carico al concessionario gestore.
Ciò che si deve stabilire è se si sia in presenza di un mero affidamento in gestione dell’impianto sportivo, come vorrebbe l’intestazione della convenzione, o se in realtà sia stata chiesta all’impresa contraente la costruzione e gestione di opera pubblica e se la prima assuma valenza preponderante, come accade nel caso in esame. Infatti, il canone annuo per la gestione degli impianti è di soli trentaseimila euro, mentre il costo delle opere che l’ATI si è impegnata a eseguire supera i due milioni di euro: importo è ben superiore anche a quello dei canoni previsto per i 18 anni di concessione (che non supera i € 700.000).
In ragione di questo, le SS.UU. rilevano come il vero oggetto del contratto sia, per l’interesse concretamente perseguito dalle parti, la realizzazione delle opere e, ancora, che la gestione degli impianti rilevi quale mezzo per conseguire, dal lato dell’impresa, la remunerazione necessaria, restando al contempo soddisfatto l’interesse dell’amministrazione al funzionamento dei servizi sportivi.
Sicché ben può calzare, allo specifico -ove il fallimento mira a conseguire “il pagamento del costo delle opere eseguite in attuazione della convenzione”- il precedente (Cass., SS.UU., n. 19391/2012) nel quale si è affermato che la controversia inerente alla fase d’esecuzione di una convenzione avente ad oggetto la costruzione e la ristrutturazione di un complesso immobiliare (in quel caso, un’area termale) e l’affidamento in gestione al concessionario degli impianti e servizi relativi, previa corresponsione all’aggiudicatore di un canone annuo, appartiene alla giurisdizione ordinaria, non avendo ormai rilievo, nel vigente quadro normativo, la precedente distinzione tra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell’opera (o di costruzione e gestione congiunte), e sussistendo, piuttosto, l’unica categoria della “concessione di lavori pubblici”, nella quale la gestione funzionale ed economica dell’opera non costituisce più un accessorio eventuale della concessione di costruzione, ma la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario.
In tal senso, le SS.UU., con sentenza n. 11022/2014 hanno precisato che la nozione normativa di “concessione di lavori pubblici” - che impone il riconoscimento della giurisdizione ordinaria sulle controversie relative alla fase successiva all’aggiudicazione anche per le concessioni “di gestione” o “di costruzione e di gestione” si rinviene (prima ancora che nella direttiva n. 2004/18/CE, recepita dal D.Lgs. n. 163/2006) già nella Dir. 18.07.1989, n. 89/440/CEE (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, ordinanza 06.07.2015 n. 13864 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

APPALTI: IMPOSSIBILITÀ DI SURROGA DELLA FORMA SCRITTA CON UN RICONOSCIMENTO DI DEBITO DA PARTE DELLA P.A..
Il riconoscimento del debito emergente da una fattura azionata non costituisce autonoma fonte di obbligazione né surroga in sede giudiziale la mancata esistenza di un contratto scritto (artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923), necessario per le PP.AA., al più costituendo un elemento utile per un’azione ex art. 2041 c.c. alla ricorrenza degli altri presupposti previsti dalla legge.
Sorge controversia fra un’azienda che aveva fornito prodotti medicali, per un importo di modesto valore, ad un Policlinico (ente successivamente posto in gestione liquidatoria).
Il Giudice di pace di Roma -disattese le eccezioni di carenza del titolo contrattuale scritto- con sentenza di primo grado condannò al pagamento della somma richiesta la parte giuridicamente succeduta al Policlinico. In accoglimento del gravame, il Tribunale di Roma dichiarò la nullità del contratto perché privo di forma scritta, richiesta ad substantiam trattandosi di contratto con Ente pubblico.
La questione è sottoposta dall’originario attore al vaglio della Suprema Corte, che rigetta il ricorso con una interessante disamina circa le modalità con le quali i contratti di fornitura con le P.A. possono dirsi conclusi ai sensi dell’art. 17, R.D. n. 2440/1923.
Incidentalmente osserva -in via preliminare- che il riconoscimento del debito di cui alla fattura azionata, da parte della gestione liquidatoria del Policlinico, non costituisce autonoma fonte di obbligazione né surroga in sede giudiziale la mancata esistenza di un contratto scritto, al più costituendo un elemento utile per un’azione ex art. 2041 c.c. alla ricorrenza degli altri presupposti previsti dalla legge.
Nello specifico, osservano i Supremi Giudici che correttamente la sentenza d’appello ha accertato la nullità del contratto per mancanza di forma scritta, sulla scorta di un apprezzamento delle risultanze probatorie che - in quanto compiuto dal giudice di merito in modo logico, non contraddittorio e conforme al diritto - è insuscettibile di esame in sede di legittimità.
Come affermato nella sentenza gravata, è certo vero che il canone della forma scritta è rispettato anche nel caso in cui il consenso si formi in base ad atti scritti non contestuali, che si atteggino come proposta e accettazione tra soggetti assenti (ex art. 17, R.D. n. 2440/1923; art. 87, R.D. n. 383/1934, per la cui applicazione nella specie non ricorrevano, tuttavia, i presupposti). Il R.D. n. 2440/1923, fonte richiamata dalle norme in tema di contratti degli enti locali, consente che (ferma restando la regola della forma scritta) il contratto concludersi a distanza, a mezzo di corrispondenza, quando intercorra con ditte commerciali.
Tuttavia, questa ipotesi ha natura derogatoria non solo alla regola della forma scritta (contenuta nel precedente articolo 16) ma anche a quella posta dallo stesso art. 17 per cui i contratti a trattativa privata (oltre che in forma pubblica amministrativa nei modo indicato al citato art. 16), possono anche stipularsi per mezzo di scrittura privata firmata dall’offerente e dal funzionario rappresentante l’amministrazione.
Essa, pertanto, non è prospettabile a sua volta come una regola generale -sicché non può affermarsi che in qualsiasi contratto della P.A. la forma scritta necessaria ad substantiam possa ritenersi osservata anche quando il consenso si formi in base a atti o scritti successivi che si prospettino come proposta e accettazione tra assenti- ma è invocabile soltanto in quei negozi in cui è ammessa la trattativa privata.
Laddove ciò non sia, come nel caso specifico, occorreva procedere con procedimento a evidenza pubblica e con contratto scritto (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 30.06.2015 n. 13322 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

URBANISTICA: RILEVABILITÀ D’UFFICIO DELLE NULLITÀ NEGOZIALI DERIVANTI DA VIOLAZIONE DI NORME EDILIZIE O URBANISTICHE - ATTIVITÀ RILEVANTE PER LA CONFIGURAZIONE DI UNA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA.
Il rilievo ex officio di una nullità negoziale per violazione di norma imperativa in materia edilizia o urbanistica -sotto qualsiasi profilo ed anche ove sia configurabile una nullità speciale o “di protezione”- deve ritenersi consentito in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento, rescissione) senza, per ciò solo, negarsi la diversità strutturale di queste ultime sul piano sostanziale, poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso normativo autonomo ed omogeneo, affatto incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale.
In tema di lottizzazione abusiva, l’attività rilevante ai fini urbanistici e edilizi è data dal carattere permanente della modifica apportata all’assetto del territorio, sempre riscontrabile quando l’opera realizzata è destinata a soddisfare un’esigenza non transeunte, indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati, dalle caratteristiche costruttive o dalla sua agevole rimovibilità.
Alcuni privati convennero, avanti il Tribunale ordinario, una società che gestiva aree campeggio, con la quale ognuno degli attori aveva sottoscritto contratti aventi ad oggetto l’uso -per novantaquattro anni e verso corrispettivo economico- di singoli lotti di terreno, con facoltà di installarvi strutture abitative mobili, espresso divieto di collocarvi costruzioni stabili e previsione che tale diritto si sarebbe trasformato in proprietà se la società non avesse eseguito le opere di urbanizzazione per il campeggio che si era obbligata a realizzare ma che non aveva poi eseguito.
Gli attori chiesero una sentenza che ordinasse al Conservatore dei RR.II. di trascrivere i contratti sottoscritti, oltre all’emananda sentenza; ancora, chiesero la condanna della convenuta ad attivare tutti i servizi della struttura, a realizzare le opere di urbanizzazione; a risarcire i danni conseguenti agli inadempimenti, da liquidarsi in separata sede.
La convenuta contestò la fondatezza delle domande, deducendo anzi che erano gli attori a non avere rispettato né il divieto di realizzare costruzioni stabili, né l’obbligo di pagare le somme dovute per contratto. Chiese, perciò, in via riconvenzionale la loro condanna alla riduzione in pristino e al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede, previa dichiarazione di risoluzione per inadempimento dei contratti in questione. Il Tribunale accolse le sole domande di trascrizione, respingendo le altre degli attori e le riconvenzionali.
La Corte d’Appello, investita dalla convenuta soccombente, riformava la sentenza rigettando le domande che il Tribunale aveva accolto. Questo, ritenendo che la trasformazione del diritto di uso in proprietà - prevista dai contratti nel caso di mancata realizzazione delle opere che la società s’era impegnata a eseguire - è giuridicamente impossibile poiché darebbe luogo a un’illegittima lottizzazione abusiva.
Peraltro, essendo stata la società posta in liquidazione e non essendo quindi più in grado di adempiere tale obbligazione, i contratti stessi si sono risolti ex art. 1456 c.c. Gli originari attori impugnano, per cassazione, tale sentenza.
La Suprema Corte, in parte accoglie il ricorso per motivi prettamente civilistici, cassando in parte qua con rinvio la sentenza. Per quanto interessi la presente Rivista, merita attenzione l’argomentare della Corte di Cassazione sul motivo con cui i ricorrenti -deducendo la gestione unitaria del complesso e dei servizi- domandano al Giudice di Legittimità se la semplice trasformazione di un diritto reale di godimento in diritto di proprietà su di un bene adibito a campeggio evidenzi una non equivoca destinazione del bene a scopo edificatorio e quindi -come ritenuto dalla Corte di merito- integri violazione dell’art. 18 della L. n. 47/1985 (lottizzazione abusiva). Ancora, desta interesse il mezzo con cui si domanda se la L. n. 47/1985 (introducendo all’art. 18 la predetta fattispecie), sopravvenuta rispetto ai contratti oggetto di controversia, possa incidere sulle opere (campeggio) realizzate in forza di concessione edilizia rilasciata in conformità allo strumento urbanistico ed alle leggi all’epoca in vigore.
La Cassazione -a proposito della prima- richiama principi già enunciati nel recentissimo periodo dalle Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 12.12.2014, n. 26242), per il quale il rilievo ex officio di una nullità negoziale -sotto qualsiasi profilo ed anche ove sia configurabile una nullità speciale o “di protezione”- deve ritenersi consentito sempreché la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata “ragione più liquida”, in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento, rescissione), senza, per ciò solo, negarsi la diversità strutturale di queste ultime sul piano sostanziale, poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso normativo autonomo ed omogeneo, affatto incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale.
Sebbene si vertesse, nella specie, (anche) sulla risoluzione per inadempimento dei contratti in questione, la validità delle clausole di cui si tratta poteva senz’altro essere vagliata d’ufficio, sotto il profilo della loro contrarietà a norme imperative. D’altra parte, proprio quelle clausole gli attori avevano addotto a fondamento dei loro vantati diritti di proprietà, al cui giudiziale riconoscimento era da intendersi la domanda diretta a ottenere l’ordine di trascrizione dei contratti intercorsi con la società proprietaria del campeggio.
Né può sostenersi la validità di queste pattuizioni, stante l’orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte in sede penale (v., tra le più recenti, Cass. 14.05.2013, n. 37573, per la quale in tema di lottizzazione abusiva, l’attività rilevante ai fini urbanistici e edilizi è data dal carattere permanente della modifica apportata all’assetto del territorio, sempre riscontrabile quando l’opera realizzata è destinata a soddisfare un’esigenza non transeunte, indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati, dalle caratteristiche costruttive o dalla sua agevole rimovibilità: in quel caso si verteva in ipotesi di frazionamento di area di campeggio in seicento piazzole, di cui ci cui oltre un sesto occupate da case mobili poggiate su blocchi di cemento e stabilmente allacciate alle reti dei servizi primari e secondari).
Nello specifico, avuto conto della natura non edificatoria del terreno, che l’estensione dei singoli lotti è mediamente di 200 mq, che è avvenuta la realizzazione di abitazioni sulla gran parte di essi, correttamente la Corte d’appello ne ha desunto, in diritto, che l’acquisto della proprietà delle aree sarebbe funzionale a mutare la destinazione urbanistica del terreno rispetto a quella prevista dagli strumenti urbanistici e che pertanto le clausole di cui si tratta davano luogo a una ipotesi di lottizzazione abusiva di carattere “negoziale”.
Non ha rilevanza, osserva la Suprema Corte, che il progetto del campeggio fosse approvato anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 47/1985, perché la lottizzazione abusiva di aree -in ogni sua forma, compresa quella “negoziale”- è stata configurata come reato già dalla legge urbanistica fondamentale (L. 17.08.1942, n. 1150) con norme da qualificarsi senz’altro come imperative ai sensi dell’art. 1418 c.c..
La nullità di cui si è detto era stata affermata dal Tribunale (e ribadita dalla Corte d’Appello) limitatamente all’ acquisto in proprietà dei lotti, mentre era stata espressamente esclusa per l’attribuzione del diritto di uso. Non essendovi stata impugnazione su questo punto, la questione non poteva formare oggetto di riesame, per la preclusione derivante dal giudicato.
Il giudice di secondo grado ha comunque ritenuto che quel diritto d’uso, pur validamente costituito, fosse però venuto meno perché la sua trasformazione in diritto di proprietà -per la stessa ragione per cui la comune volontà delle parti aveva inserito tale previsione- comportava necessariamente che il primo non avrebbe mai potuto sopravvivere alla mancata realizzazione dei programmi della società e che l’abbandono di tali programmi avrebbe in ogni caso avuto come effetto la risoluzione del contratto per la parte in cui conferiva il godimento in uso, con conseguente accoglimento del primo motivo di appello, che presuppone l’accertamento, dell’avvenuta risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1456 c.c..
A questo capo della sentenza impugnata si riferiscono il primo e il quarto motivo di ricorso, che la Suprema Corte accoglie (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.06.2015 n. 13287 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL VENIR MENO DEL RISPETTO DELL’IDENTITÀ DI SAGOMA NELLE RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE NON ESCLUDE L’INVARIANZA DELLA PREESISTENTE VOLUMETRIA.
Per effetto delle modifiche legislative introdotte dal c.d. decreto del fare (D.L. n. 69 del 2013) il requisito del rispetto della identità di sagoma non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e gli altri interventi minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite la presentazione, allora, della DIA ed, ora, della SCIA.
Tuttavia, non va trascurato che anche in questi casi è pur sempre necessario, onde accertare che sia rimasta invariata anche la preesistente volumetria, che sia possibile operare la verifica della originaria consistenza in base a riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili.

Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla corretta delimitazione dell’ambito applicativo della recente modifica legislativa introdotta dal c.d. decreto del fare (D.L. 21.06.2013, n. 69, art. 30 conv. con mod. in L. 09.08.2013, n. 98), con riguardo agli interventi di ristrutturazione edilizia.
La vicenda processuale trae origine dalla ordinanza con cui il Tribunale del riesame aveva rigettato l’appello proposto avverso il provvedimento con il quale il G.I.P. aveva a sua volta respinto la richiesta di revoca del sequestro preventivo di un immobile, originariamente disposto in data 27.05.2010, avanzata dall’indagato (cui era contestata la violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per avere, unitamente ad altra persona, realizzato delle opere edilizie abusive, consistenti nell’accorpamento di volumetrie secondarie, cambio di destinazione d’uso di annessi ad abitazione e costruzione di portici in assenza del permesso a costruire.
Il Tribunale, nel rigettare il ricorso, aveva osservato, per ciò che concerneva l’avvenuta modificazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3 che, per un verso, la modifica non concerneva l’ipotesi di ricostruzione di manufatti demoliti nel corso di interventi edilizi e per opera dell’uomo e che comunque neppure in questi casi si prescindeva dalla identità di volumetria e di area di sedime rispetto all’immobile preesistente.
Contro la sentenza aveva proposto ricorso l’indagato, deducendo che sulla base della legislazione edilizia vigente nella Regione (si trattava della Regione Toscana, ove era vigente all’epoca del fatto la L.R. n. 1 del 2005, art. 79, comma 2, lett. d), nell’ambito della attività di ristrutturazione, soggetta all’epoca dei fatti a DIA, era compresa anche la ricostruzione di volumi secondari oggetto di demolizione, purché con identica o inferiore consistenza di quelli preesistenti, sebbene in diversa collocazione sul lotto di pertinenza.
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui in massima, così dando continuità all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui proprio con riferimento  alla sopravvenuta innovazione legislativa, costituita dalla ricordata modificazione introdotta nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), per effetto della entrata in vigore del D.L. n. 69 del 2013, convertito con modificazioni dalla L. n. 98 del 2013, la Corte di cassazione ha avuto occasione di precisare più volte che integra il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 la ricostruzione di un edificio demolito senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione, di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest’ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile il D.L. n. 69 del 2013, art. 30 (convertito in L. n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della SCIA, o in passato della DIA, richiede l’accertamento della preesistente consistenza dell’immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili (Cass. pen., Sez. III, 30.09.2014, n. 40342, Q., in CED, n. 260552) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2015 n. 26713 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

EDILIZIA PRIVATA: INSOSTENIBILE LA CONTINUAZIONE TRA REATI EDILIZI SE COMMESSI A DISTANZA TEMPORALE NOTEVOLE L’UNO DALL’ALTRO.
In caso di reati edilizi commessi a distanza temporale l’uno dell’altro, si deve presumere, salvo prova contraria, che la commissione di ulteriori abusi edilizi, anche analoghi per modalità e “nomen juris”, non poteva essere progettata specificamente al momento di commissione del fatto originario, e deve quindi negarsi la sussistenza della continuazione.
Di sicuro interesse la sentenza qui annotata della Corte di cassazione sulla questione giuridica relativa alla individuazione delle condizioni in presenza delle quali può essere escluso il vincolo della continuazione tra illeciti edilizi commessi a notevole distanza cronologica l’uno dall’altro.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la sentenza del tribunale con cui gli imputati erano stati ritenuti colpevoli dei reati di cui all’art. 44, lett. c), artt. 93 e 94 in relazione agli artt. 95 e 64, commi 2 e 3, e art. 65 in relazione al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 71 e 72.
Contro la sentenza proponevano ricorso per Cassazione gli imputati, in particolare per non aver la Corte d’Appello applicato la disciplina del reato continuato, preferendo invece applicare quella del cumulo giuridico; la molteplicità delle violazioni appariva il frutto di un medesimo disegno criminoso, atteso che la realizzazione della copertura nei fatti costituiva la continuazione dei lavori di realizzazione del piano terra e la concretizzazione di un medesimo disegno criminoso.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha confermato la sentenza, così facendo applicazione di un principio, ormai da ritenersi consolidato nella giurisprudenza della Cassazione. Ed infatti, i giudici di appello manifestarono il diniego sul punto avuto riguardo al consistente arco temporale intercorrente tra la data di commissione dei diversi reati (risalenti, quella già giudicati, agli accertamenti del 30.08.1996 e del 20.09.1996) che escludeva la medesimezza del disegno criminoso.
A fronte di tale argomentazione, coerente con le risultanze processuali e immune da vizi logici, gli imputati avevano opposto censure puramente contestative, asserendo invece che ricorressero le condizioni per il riconoscimento dell’applicazione della disciplina della continuazione tra i fatti giudicati e quelli oggetto del presente giudizio. È pacifico, secondo la giurisprudenza della Cassazione, che ai fini del riconoscimento della continuazione in sede di cognizione, incombe sull’interessato l’onere di allegazione degli specifici elementi dai quali possa desumersi l’identità del disegno criminoso (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. VI, 07.12.2010, n. 43441, P., in CED, n. 248962).
L’identità del disegno criminoso, infatti, non può essere presunta e l’imputato ha un onere di allegazione di sentenze, di prove e di argomentazioni tali da dimostrare l’unicità del disegno criminoso in cui devono essere ricomprese le diverse azioni od omissioni fin dal primo momento (v., ancora (v., ex multis: Cass. pen., Sez. I, 27.01.2009, n. 3747, G., in CED, n. 242537) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2015 n. 26509 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

LAVORI PUBBLICI - VARI: DETERMINAZIONE DEGLI INDENNIZZI PER SERVITÙ DI ELETTRODOTTO.
Non può equipararsi la costituzione di servitù di elettrodotto all’ablazione della proprietà dell’area sottoservita e così quantificarne l’indennizzo secondo il valore venale al metro quadro dell’area sorvolata la quale conserva una possibilità di utilizzazione valutabile economicamente: infatti, per ricorrente giurisprudenza (Cass., Sez. I, n. 3751/2012), in tema di servitù di elettrodotto, per la determinazione dell’indennità di asservimento ex art. 123, comma 1, R.D. n. 1775/1933, la componente dell’indennizzo costituita dalla diminuzione di valore del fondo può essere attribuita solo quando sia dimostrata e motivata l’attualità del deprezzamento.
Alcuni privati convennero in giudizio la società proprietaria di un elettrodotto, realizzato per decreto del Ministeriale che ne dichiarava la p.u., contestando la quantificazione dell’indennità di asservimento fissata in relazione al terreno di loro proprietà, sito in zona artigianale e oggetto di servitù di attraversamento aereo a favore della convenuta.
La Corte d’Appello accolse in parte la domanda, rideterminando l’indennità di asservimento. Stabilì che, per la liquidazione di tale indennità, dovesse escludersi l’applicabilità degli artt. 29, 33, 34 e 123 del R.D. n. 1175/1933, c.d. T.U. Acque (abrogati dall’art. 58 del D.P.R. n. 327/2001 - T.U. Espropri) e che l’art. 37 del citato T.U. aveva perpetuato l’applicabilità dell’art. 5 bis del D.P.R. n. 333/1992 (norma, peraltro, già dichiarata illegittima da Corte cost. n. 348/2007 che impose quale unico parametro per la liquidazione dell’indennità di espropriazione il c.d. valore venale del bene, senza possibilità di applicare i nuovi criteri introdotti (a modifica dell’art. 37, d.P.R. n. 327/2001) in ragione del menzionato art. 51-bis d.P.R. n. 327, che li riserva alle sole fattispecie alle quali si applica il T.U. Espropri e l’art. 16 del D.Lgs. n. 504/1992.
Sicché, ad avviso della Corte di merito, sulla scorta delle stime operate dal CTU, spettava ai proprietari l’indennizzo per la fascia di terreno di forma trapezoidale interessata, comprensiva della c.d. “fascia di passaggio” dell’elettrodotto (di ml 2), essendo assenti sostegni e manufatti. Viceversa andava esclusa ogni possibilità di indennizzo della c.d. “fascia di rispetto”, determinata secondo l’art. 5 del D.P.C.M. 03.04.1992 (riguardante un vincolo conformativo di carattere generale, efficace erga omnes).
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione da parte della società proprietaria dell’elettrodotto, che la Corte in parte accoglie ove si censura l’aver equiparato l’indennità per la costituzione della servitù di elettrodotto a quella di esproprio, con equiparazione dell’asservimento del bene alla sua totale ablazione.
Affermano i Giudici di legittimità che erroneamente il giudice distrettuale ha finito per equiparare la costituzione di servitù di elettrodotto all’ablazione della proprietà dell’area asservita (secondo il “valore venale al metro quadro”), identificando l’indennità di asservimento con quella di espropriazione dell’intera area sottoposta alla limitazione impressa dal ius in re aliena, che è un minus rispetto all’intero, atteso che tendenzialmente il bene sorvolato dalle linee aeree conserva pur sempre una possibilità di utilizzazione, valutabile economicamente. Questo, in violazione di quanto già affermato da questa Corte (Cass., Sez. I, n. 3751/2012), secondo cui, in tema di servitù di elettrodotto, ai fini della determinazione dell’indennità di asservimento, a norma dell’art. 123, comma 1, R.D. n. 1775/1933, la componente dell’indennizzo costituita dalla diminuzione di valore di tutto o parte del fondo, inteso come complessiva entità economica, non opera in modo indistinto ed automatico, potendo essere attribuita solo quando sia dimostrata l’attualità del deprezzamento e comunque il suo documentato verificarsi in connessione alla natura del fondo o all’oggettiva incidenza causale della costituzione della predetta servitù.
Occorre, quindi, che in applicazione di tale principio il giudice di merito indichi le ragioni della corresponsione del valore venale integrale, eventualmente disposto (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 24.06.2015 n. 13095 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

URBANISTICA: CARATTERE RELATIVO E NON ASSOLUTO DI ALCUNE NULLITÀ IN MATERIA EDILIZIA E URBANISTICA.
Le nullità disposte dall’art. 10, comma 4, L. n. 765/1967 (abrogato dall’art. art. 18, L. n. 47/1985) e dall’art. 15, comma 7, L. n. 10/1977 e previste, rispettivamente, per gli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale e per i negozi aventi a oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione edilizia, non hanno carattere assoluto bensì di invalidità relativa, che può essere fatta valere soltanto dall’acquirente in buona fede (cfr. Cass. 27.04.1993, n. 4926).
Sorge questione, avanti un Tribunale civile, fra due privati: l’attore esponeva che i convenuti, con scrittura privata registrata, gli avevano venduto la quota di 1/2 della piena proprietà di un fondo rustico con sovrastanti fabbricati rurali; che il prezzo era stato pagato; che i promittenti venditori non avevano aderito agli inviti per la stipula dell’atto pubblico. Per l’effetto, era chiesta sentenza traslativa della proprietà, con ordine al Conservatore dei RR.II. di effettuare volture e trascrizioni.
Il Tribunale rigettava la domanda.
Sull’appello proposto dall’originario attore, gli appellati (già convenuti) eccepivano, tra l’altro, la nullità della scrittura, avendo essa a oggetto il trasferimento d’immobili costruiti senza concessione edilizia. La Corte territoriale riformava la sentenza gravata e dichiarava l’avvenuto trasferimento in capo all’appellante del diritto di proprietà sui beni oggetto di scrittura privata, ordinando al Conservatore dei RR.II. di provvedere all’integrale trascrizione della medesima, come dalla stessa sentenza integrata.
A fondamento della decisione, la Corte d’Appello affermava di non condividere l’eccezione di nullità -prospettata dagli appellati ai sensi degli artt. 15 e 18 della L. n. 10/1977- della scrittura in questione, perché conclusa in epoca anteriore all’entrata in vigore della citata legge. Gli originari convenuti, appellati soccombenti, ricorrono per la cassazione di tale sentenza, con ricorso che la Suprema Corte respinge.
Essi deducono anzitutto che tanto la scrittura privata quanto la registrazione (avvenuta dopo circa dieci anni) della stessa sono successive all’entrata in vigore della L. n. 10/1977, il che implica la fallacità della motivazione assunta dalla Corte distrettuale a fondamento della domanda: con la conseguenza che, dovendosi applicare quanto disposto agli artt. 15 e 18 della legge in parola, la scrittura era indiscutibilmente nulla.
Con il secondo motivo, deducono che il contratto era comunque affetto da altre ragioni di nullità, inutilmente denunciate nel doppio grado di merito, per violazione degli artt. 18 e 40, comma 2, L. n. 47/1985: questo, sia per il difetto di allegazione all’atto del certificato di destinazione urbanistica, quanto in ragione del fatto che la scrittura ineriva ad immobili la cui alienazione ha dato luogo a lottizzazione abusiva.
La Suprema Corte disattende entrambe le censure, partendo dal rilevare che la scrittura è da ritenersi intervenuta in data 20.10.1982 e che, per quanto in atti, ebbe immediato effetto traslativo reale, ex art. 1376 c.c..
La sua validità in rapporto alla disciplina urbanistica ed edilizia, pertanto, va vagliata alla stregua del carattere eventualmente abusivo delle opere che a tale data (20.10.1982) risultavano realizzate sul fondo. In questi termini la S.C. evidenzia, anzitutto, che la scrittura non soggiace alla disciplina dell’art. 18, comma 2, L. n. 47/1985, essendo tal norma successiva alla vendita del terreno, frazionato con tale atto. In termini, si richiama un precedente orientamento (Cass. 28.03.1997, n. 2776, secondo cui la disposizione, che vieta gli atti di trasferimenti immobiliari, da cui derivino lottizzazioni abusive, non comporta la nullità dei contratti preliminari o definitivi stipulati prima della sua entrata in vigore, non avendo la norma richiamata efficacia retroattiva).
In secondo luogo, osserva la Corte che la scrittura non soggiace neppure alla disciplina dell’art. 40, comma 2, L. n. 47/1985, per le medesime ragioni di anteriorità, pur ad ammettere che la costruzione delle supposte opere abusive, oggetto di compravendita, fosse antecedente. In terzo luogo, la Cassazione ritiene che scrittura non soggiaccia neppure alla disciplina di cui all’art. 15, comma 7, L. n. 10/1977.
Infatti, la nullità prevista dall’art. 10, comma 4, L. 06.08.1967, n. 765 (abrogato ex art. 18 della L. n. 47/1985) e dall’art. 15, comma 7, L. n. 10/1977 -rispettivamente, per gli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati e a scopo residenziale e per i negozi aventi ad oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione edilizia- non ha carattere assoluto bensì di invalidità relativa, che può essere fatta valere soltanto dall’acquirente in buona fede (cfr. Cass. 27.04.1993, n. 4926) ovvero, nella fattispecie, esclusivamente dall’acquirente e controricorrente in questa sede, il che non è avvenuto, con conseguente impossibilità di una tale declaratoria (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 23.06.2015 n. 12952 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

VARINell’associazione la responsabilità non si trasmette. I soggetti. Paga chi agisce «in nome e per conto».
Violazioni tributarie con responsabilità solo in capo a chi effettivamente e concretamente agisce in nome e per conto dell’associazione sportiva.
Per le associazioni sportive dilettantistiche non riconosciute (senza personalità giuridica) la responsabilità contrattuale è regolata dall’articolo 38 del Codice civile secondo cui: «Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l’associazione, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione». Non vi è dubbio che tra i terzi tutelati dall’ articolo 38 del Codice civile vi sia anche il fisco.
In questo senso, infatti, si esprime anche la recente Cassazione, Sez. VI civile (ordinanza 17.06.2015 n. 12473) che fa propri i principi di precedenti pronunce della Suprema corte secondo cui in riferimento alla responsabilità solidale con l’associazione, si deve avere riguardo alla concreta attività negoziale posta in essere dal rappresentante (Cassazione sentenze 16344/2008 e 19486/2009).
Per tale motivo -ribadisce la Cassazione- in ambito fiscale sarà chiamato a rispondere solidalmente con l’associazione stessa, «tanto per le sanzioni pecuniarie quanto per il tributo non corrisposto, il soggetto che, in forza del ruolo rivestito, abbia diretto la complessiva gestione associativa nel periodo considerato». Ciò significa che questa responsabilità investe solamente gli amministratori o i soggetti durante il cui mandato sono stati contratti gli obblighi o i debiti per conto dell’ente. L’incombenza non riguarda invece chi assume successivamente la rappresentanza dell’associazione.
In concreto, vuol dire che il semplice avvicendarsi nelle cariche sociali non comporta la trasmissione del debito da un rappresentante all’altro, per cui ognuno sarà chiamato a rispondere delle obbligazioni assunte nei periodi d’imposta di loro competenza.
Nel merito della questione va però puntualizzato che l’articolo 38 del Codice civile non qualifica in via diretta la responsabilità in capo al presidente o rappresentante legale dell’associazione, ma mira ad identificare sempre e comunque «chi agisce in nome e per conto dell’associazione». Per cui anche se, in linea di principio, le persone che possono giuridicamente spendere il nome dell’ente sono il presidente e in alcuni casi il consiglio direttivo, in relazione a singoli casi concreti l’attribuzione di responsabilità potrebbe non sempre essere così chiara e immediata e finire con il coinvolgere anche altri attori della vita associativa.
Di converso è altrettanto chiaro che, in mancanza di provabili condizioni che possano permettere di identificare colui che ha agito in nome e per conto dell’ente, la responsabilità solidale (ivi compreso per i debiti fiscali) è da ascrivere sempre in capo a chi ne ha la formale legale rappresentanza.
Decisamente di entità minore si presenta invece il problema per i sodalizi con personalità giuridica dove il Dl 269/2003 al comma 1 dell’articolo 7 ha stabilito che le sanzioni «sono esclusivamente a carico della persona giuridica»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: COMPROPRIETARIO NON COMMITTENTE CORRESPONSABILE DELL’ABUSO EDILIZIO SOLO SE VIGILA SULL’ESECUZIONE DEI LAVORI.
Perché il comproprietario non committente possa essere ritenuto responsabile dell’abuso edilizio, occorre un contributo causale diretto ad agevolare l’abusiva edificazione, contributo che non può essere ritenuto senza che risulti la prova che, oltre alla presenza sul luogo, di per sé non significativa, fosse stata esercitata anche una vigilanza sull’esecuzione dei lavori, posto che il contributo causale non può essere desunto dal comportamento inerte tenuto nei confronti dell’esecutore materiale del reato.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame concerne un tema ricorrente nell’esegesi giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dalla delimitazione dell’ambito della responsabilità del c.d. comproprietario dell’immobile sul quale siano eseguiti lavori edilizi abusivi.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione contro la sentenza con la quale la Corte di appello, in parziale riforma di quella emessa dal tribunale aveva rideterminato nei confronti dell’imputato la pena per i reati di violazione dei sigilli, per il reato urbanistico previsto dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b), e per i connessi reati edilizi.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’interessato, in particolare sostenendo che la prova della responsabilità era stata erroneamente fondata sulla base di indizi non gravi e neppure precisi e concordanti, atteso non vi era alcuna prova che egli, separatosi dalla moglie, avesse manomesso i sigilli apposti alla cosa sequestrata, proseguendo i lavori.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto la tesi difensiva, osservando come la Corte d’Appello aveva ritenuto che la prova della responsabilità fosse desumibile dal fatto di essere l’imputato comproprietario dell’immobile, di essere stato rinvenuto sul luogo delle opere edili abusivamente realizzate, con riferimento alle quali erano proseguiti i lavori nonostante un precedente sequestro e l’apposizione dei sigilli, e di avere già in precedenza subito un processo, dal quale risultò indenne, per concorso in condotte analoghe della moglie.
Va ricordato che la giurisprudenza di legittimità ritiene che, in tema di reati edilizi, la responsabilità del proprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene, né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l’inapplicabilità dell’art. 40, comma 2, c.p., ma deve essere desunta da indizi ulteriori rispetto all’interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 10.10.2013, n. 44202, M., in CED, n. 257625); nel caso di specie, occorreva la prova, anche indiziaria, che il comproprietario non committente avesse fornito un contributo causale diretto ad agevolare l’abusiva edificazione, prova nella specie non emergente con certezza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.06.2015 n. 24688 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL PROPRIETARIO COMMITTENTE RISPONDE DEL REATO DI OMESSA DENUNCIA DEI LAVORI IN ZONA SISMICA.
Il reato di omessa denuncia (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) dei lavori in zona sismica, in quanto reato a soggettività ristretta, è ascrivibile unicamente al committente, al titolare della concessione edilizia e, in genere, a chi abbia la disponibilità dell’immobile o dell’area sui cui lo stesso sorge, mentre del medesimo non risponde il titolare della ditta esecutrice o il mero esecutore dei lavori, la cui responsabilità è configurabile solo in caso di esecuzione dei lavori in difetto di autorizzazione e di inosservanza delle norme o prescrizioni tecniche contenute nei decreti interministeriali vigenti.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della responsabilità penale del proprietario committente lavori edilizi in zona sismica, il quale ometta di presentare la relativa denuncia all’Ufficio del Genio civile.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza che aveva dichiarato responsabile dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 71, 93 e 95 il proprietario di un immobile per avere realizzato in zona sismica, senza l’ausilio di un tecnico qualificato ed omettendo di depositare prima dell’inizio dei lavori gli atti progettuali presso l’ufficio del Genio Civile competente, relativamente alla realizzazione di una sopraelevazione di un piano abitabile di un fabbricato.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il proprietario-committente, in particolare eccependo l’errore in cui era caduto il giudice di merito nel riconoscerlo responsabile delle violazioni contestate, rilevato che gli illeciti rubricati concretizzano fattispecie di reati omissivi propri giammai imputabili al proprietario dell’immobile.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare precisando che le fattispecie di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 71, 93 e 95, hanno natura di reati propri; tuttavia l’ambito di ascrivibilità è più ristretto, investendo unicamente il soggetto interessato alla realizzazione dell’intervento edilizio non denunciato, prevedendo specifici obblighi formali, ricadenti sul committente dei lavori o su chi abbia la disponibilità dell’immobile o dell’area ubicata in zona sismica.
L’art. 71 sanziona il comportamento di chi commette, dirige ed esegue le opere senza progetto redatto da un tecnico abilitato; l’art. 93 punisce, altresì, tra gli altri anche il committente, il quale deve accertare che tutti gli adempimenti, ex lege previsti, siano stati ritualmente posti in essere, come quello di informare preventivamente l’UTC (v., in senso conforme, tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 23.02.2010, n. 7098, M., in CED, n. 246018) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2015 n. 24585 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

EDILIZIA PRIVATA: ILLEGITTIMA LA SANATORIA SUBORDINATA ALL’ESECUZIONE DI OPERE EDILIZIE SULL’IMMOBILE ABUSIVO PER RENDERLO “SANABILE”.
Non sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, i provvedimenti amministrativi di sanatoria di immobile abusivo che subordinano gli effetti del beneficio alla esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre l’immobile stesso nell’alveo di conformità agli strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione è ontologicamente contrastante con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro conformità agli strumenti urbanistici.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella giurisprudenza di legittimità, della possibilità di ammettere la c.d. sanatoria edilizia anche in relazione ad immobili abusivi, condizionando la sanatoria medesima all’esecuzione di opere sull’immobile abusivo per renderlo sanabile.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna, emessa in appello, che aveva riformato quella di primo grado che aveva assolto gli imputati dal reato di avere realizzato, in concorso tra loro, in parziale difformità rispetto alla concessione edilizia, interventi nei locali interrati di un edificio in costruzione, modificativi delle altezze predefinite, con conseguente variazione volumetrica degli stessi, con realizzazione di una rampa con pendenza differente da quella abilitata.
La Corte d’Appello di Trento, chiamata a pronunciarsi sull’appello interposto dal Procuratore della Repubblica, aveva dichiarato i prevenuti responsabili del reato ad essi ascritto.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il direttore dei lavori, in particolare sostenendo l’estinzione del reato edilizio per intervenuto rilascio della concessione in sanatoria.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare osservando come nessun rilievo può attribuirsi alla concessione in sanatoria in quanto la stessa risultava condizionata alla effettuazione di determinati interventi: infatti, in materia edilizia, per giurisprudenza pacifica della Cassazione, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, d.P.R. n. 380 del 2001, ex artt. 36 e 45, subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 12.11.2007, n. 41567, P.M. in proc. R. e altro, in CED, n. 238020) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2015 n. 24583 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza della concessione edilizia (ora permesso di costruire), l'effettivo inizio dei relativi lavori deve essere valutato non in termini generali ed astratti, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, allo scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e/o simbolici e in ogni caso non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla costruzione dell'opera progettata.
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... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, del permesso di costruire n. 720/2004, emesso con riferimento alla pratica edilizia n. 4/2004, rilasciato dall’arch. De.Pa. nella sua qualità di responsabile comunale del servizio urbanistico ai sigg. Ma.Ru.Fa., ora deceduto, e alla sig.ra De Do.Ri.Ma. - conosciuto dalla ricorrente solo in data 01.04.2008;
...
Anche il quarto motivo di ricorso con il quale la ricorrente deduce la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio del titolo ai sensi dell’art. 15 del DPR 380/2001, non coglie nel segno (a prescindere dalla considerazione che la decadenza deve essere dichiarata con un atto che, pur se dovuto e di carattere ricognitivo,è nondimeno un atto, sicché la sua assenza non determina un vizio delle fasi del procedimento amministrativo susseguenti ma va censurata nei modi debiti).
Secondo la ricorrente la comunicazione dell’inizio dei lavori (avvenuta in data 27.10.2005) due giorni prima della scadenza del termine di un anno (29.10.2005) non può essere ritenuta adempimento utile ai fini della dimostrazione dell’inizio tempestivo dei lavori stessi mancando dei presupposti essenziali (in assenza di comunicazione del nominativo, qualifica e residenza del direttore dei lavori e del nominativo e residenza del costruttore con la firma di questi ultimi).
La Sezione ritiene, al riguardo, e condividendo sul punto quanto precisato dal prevalente orientamento della giustizia amministrativa in materia, che ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza della concessione edilizia (ora permesso di costruire), l'effettivo inizio dei relativi lavori debba essere valutato non in termini generali ed astratti, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, allo scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e/o simbolici e in ogni caso non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla costruzione dell'opera progettata (v. TAR Liguria, sez. I, 19/10/2007 n. 1775; TAR Lazio - LT - 23/02/2007 n. 132; TAR Marche, sez. I, 11/07/2006 n. 525; TAR Campania - NA - sez. IV, 05/01/2006 n. 56).
Nella specie, il Collegio ritiene che la nota del 20.12.2007 della ditta M., con la quale si comunica che era stato provveduto al tracciamento di plinti e travi in fondazione per la realizzazione dello scavo, allo sbancamento parziale del terreno e all’organizzazione del cantiere, evidenzia di per se la sussistenza di un concreto animus aedificandi; peraltro, l’affermazione della ricorrente riguardante il mancato concreto inizio dei lavori nel termine suddetto non risulta suffragata da alcun concreto elemento probatorio, sicché non vi sono ragioni per condividere la tesi da quest’ultima esposta (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 11.07.2009 n. 1809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 19.04.2016 (ore 22,45)

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI: G.U. 19.04.2016 n. 91:
suppl. ord. n. 10/L, "Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture" (D.Lgs. 18.04.2016 n. 50).
suppl. ord. n. 11, "Tabella di concordanza relativa al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture»" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti).

IN EVIDENZA

Continueremo a ripeterlo all'infinito per coloro che indefessamente "se ne fregano" del rispetto della legge:
E' illegittimo (e fonte di danno erariale) l'affidamento di incarichi all'esterno in assenza di una preventiva ricognizione puntuale dell’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di svolgere l’incarico.

INCARICHI PROFESSIONALI: Non è consentito procedere al conferimento di incarichi esterni in assenza di una preventiva ricognizione puntuale dell’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di svolgere l’incarico.
• La legge (art. 1, comma 8, l. n. 190/2012) pone l’espresso divieto di consentire l’attività di elaborazione del Piano triennale per la prevenzione della corruzione a soggetti estranei all’amministrazione.
• Non è conforme a legge il conferimento di un incarico di consulenza in assenza di una procedura comparativa adeguatamente pubblicizzata. La particolare urgenza, che può legittimare il diretto conferimento dell’incarico a favore di un professionista, deve essere determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale con la precisazione che la “particolare urgenza” deve essere connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico e che non è rilevante l’urgenza creata da condotta imputabile all’ente anche nella fissazione di un termine.
• Con l’atto di conferimento di incarico esterno il funzionario che impegna la spesa deve accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica.
• L’eventuale avvio anticipato di prestazioni a favore della pubblica amministrazione rispetto al conferimento di incarico con relativo impegno di spesa è situazione del tutto eccezionale ammessa nei soli casi tassativamente previsti dal legislatore.
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L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione.
La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti controllati a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
Per completezza va dato atto che accanto alla disposizione generale sopracitata
per gli enti locali vige altresì la previsione più puntuale di cui all’art. 1, comma 42, della legge 30.12.2004 n. 311 che stabilisce l’obbligo di trasmissione alla magistratura contabile degli atti di affidamento di incarichi di studio, ricerca e di consulenza ad estranei alla pubblica amministrazione, a prescindere dal valore monetario, con obbligo di valutazione dell’organo di revisione dell’ente.
La giurisprudenza contabile in relazione al suddetto controllo ha affermato che ”
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”. E’ infatti evidente che alla pronuncia accertativa della magistratura contabile consegua l’obbligo della P.A. di conformarsi alla stessa onde assicurare il rispetto della legge e che contestualmente possa derivare una responsabilità del soggetto agente autore dell’atto contra legem.
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge dell’incarico conferito dalla Regione
occorre rammentare che i presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione
(le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità).
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
   a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge”
;
   b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno. Al proposito va rammentato che in base ai principi generali di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale.
Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni. D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;

   c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
   d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
   e) deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi: es. la copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte 25.10.2013, n. 362) e che in sede di assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009 convertito dalla legge n. 102/2009 (cfr. per le Regioni l’art. 56, co. 6, d.lgs. n. 118/2011, per gli enti locali art. 74 d.lgs. n. 118/2011 di modifica dell’art. 183 TUEL), ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio o di cassa e con le regole di finanza pubblica, salvo incorrere, in caso di inosservanza di tale obbligo, in responsabilità disciplinare ed amministrativa.

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   I. L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che
gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione.
La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti controllati a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
Per completezza va dato atto che accanto alla disposizione generale sopracitata
per gli enti locali vige altresì la previsione più puntuale di cui all’art. 1, comma 42, della legge 30.12.2004 n. 311 che stabilisce l’obbligo di trasmissione alla magistratura contabile degli atti di affidamento di incarichi di studio, ricerca e di consulenza ad estranei alla pubblica amministrazione, a prescindere dal valore monetario, con obbligo di valutazione dell’organo di revisione dell’ente.
La giurisprudenza contabile in relazione al suddetto controllo ha affermato che ”
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez. reg. contr. Lombardia, n. 244/2008). E’ infatti evidente che alla pronuncia accertativa della magistratura contabile consegua l’obbligo della P.A. di conformarsi alla stessa onde assicurare il rispetto della legge e che contestualmente possa derivare una responsabilità del soggetto agente autore dell’atto contra legem.
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge dell’incarico conferito dalla Regione
occorre rammentare che i presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione
(le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità), in tal senso, si può richiamare il parere 25.10.2013 n. 362 di questa Sezione.
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
   a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge
(Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008);
   b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno. Al proposito va rammentato che in base ai principi generali di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale.
Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni. D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;

   c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
   d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
   e) deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi: es. la copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte 25.10.2013, n. 362) e che in sede di assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009 convertito dalla legge n. 102/2009 (cfr. per le Regioni l’art. 56, co. 6, d.lgs. n. 118/2011, per gli enti locali art. 74 d.lgs. n. 118/2011 di modifica dell’art. 183 TUEL), ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio o di cassa e con le regole di finanza pubblica, salvo incorrere, in caso di inosservanza di tale obbligo, in responsabilità disciplinare ed amministrativa.
   II. Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di legittimità per il conferimento dell’incarico occorre evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti dalla Regione Piemonte a mezzo della risposta inviata nel corso dell’espletata istruttoria, mentre per gli aspetti inerenti ai limiti annui di spesa correlati agli incarichi di studio e consulenza ed all’avvenuta comunicazione dell’atto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica le indicazioni fornite possono ritenersi adeguate e sufficienti, non può dirsi ugualmente in ordine agli altri rilievi formulati.
     1. Innanzitutto appare necessario procedere all’analisi della questione inerente la verifica preventiva circa l’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’amministrazione in grado di fare fronte all’incarico.
La Regione in sede di risposta ha riferito che prima del ricorso all’esterno sarebbero stati preventivamente sentiti i responsabili dei Settori audit interno e Trasparenza ed anticorruzione che avrebbero avuto a disposizione le strutture maggiormente competenti ad effettuare la valutazione dei rischi corruttivi relativi ai procedimenti di competenza regionale; tuttavia tale attività “mai posta in essere nell’ente Regione, avrebbe permesso l’applicazione del principio di rotazione degli incarichi dirigenziali, risultando però al momento del tutto estranea alle conoscenze acquisite ed alle prassi: per tali ragioni non è risultato reperibile una specifica e comprovata professionalità in tale senso all’interno dell’Ente”.
Con riferimento alla previa verifica della presenza di strutture in grado di far fronte all’esigenza occorre evidenziare che la Regione Piemonte, nell’ambito della propria autoorganizzazione in tema di conferimento di incarichi esterni, ha assunto con la deliberazione di Giunta regionale n. 28/1337 del 29.12.2010 (richiamata nella nota di risposta del 03.03.2016 della Regione al punto 2) una direttiva volta a fissare una disciplina delle procedure comparative per il conferimento degli incarichi esterni da parte delle Direzioni della Giunta regionale.
La citata Direttiva stabilisce all’art. 2 quale presupposto per il conferimento di ogni incarico che la Direzione competente verifichi “l’inesistenza qualitativa e quantitativa, all’interno sia della propria struttura che delle altre direzioni regionali, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione da effettuarsi presso tutte le altre Direzioni regionali anche a mezzo richiesta via posta elettronica.”.
Tale previo accertamento è ribadito al successivo articolo 3 quale elemento antecedente all’avvio dell’ordinaria procedura selettiva mediante avviso pubblico.
Nel caso di specie occorre tuttavia evidenziare che la Regione si è limitata a riferire in termini del tutto generici che sarebbero stati sentiti (non si indica neppure le modalità e le tempistiche) i responsabili dei Settori audit interno e Trasparenza ed anticorruzione, ma che non sarebbero state reperibili professionalità adeguate (non è peraltro neppure chiaro chi avrebbe attestato tale mancanza); tuttavia non vi è traccia alcuna della concreta effettuazione della previa ricognizione interna sia a mezzo posta elettronica ovvero attraverso altro mezzo, non essendo stato fornito alcun elemento in proposito.
Si aggiunga inoltre che quanto riferito nella nota di risposta dalla Regione Piemonte circa l’assenza di professionalità interne in grado di occuparsi della mappatura dei rischi non appare peraltro in linea con quanto risultante dagli atti già assunti. In particolare risulta che nel corso del 2014 la Regione Piemonte ha adottato il Piano triennale della prevenzione della corruzione 2014-2016 e che al suddetto fine si è dovuta occupare espressamente della mappatura dei rischi di corruzione all’interno della propria organizzazione.
Risulta infatti al punto 6 del citato Piano “Metodologia adottata per valutazione rischio” un’articolata disamina dei rischi esistenti all’interno dell’ente preceduta dall’esposizione del metodo utilizzato per effettuare l’analisi, ove è stato riferito del processo di gestione del rischio suddiviso in tre macro-fasi (mappatura dei processi amministrativi a rischio; valutazione del rischio corruzione; trattamento del rischio corruzione) e puntualizzato che “l’attività di individuazione e valutazione dei rischi è stata sviluppata secondo la logica del “Control Risk self assesment (CRSA) coinvolgendo tutti i direttori ed i dirigenti di Settore della Giunta Regionale, come previsto dalla legge 190/2012.”
Inoltre è stato riferito che al fine del raggiungimento dell’obiettivo “ogni direttore ha proceduto alla mappatura dei processi di competenza della propria Direzione attraverso la compilazione di una scheda tecnica inviata al RAT entro il 15.06.2014” e che all’esito si procede alla valutazione del grado di rischio per ogni singola direzione.
Alla luce di quanto sopra
appare dunque smentita l’affermazione per la quale all’interno della struttura regionale non sarebbe mai stata effettuata alcuna attività valutativa del rischio corruttivo e che pertanto non vi sarebbero professionalità munite di conoscenze adeguate.
Si aggiunga che l’attività di mappatura dei rischi corruttivi all’interno delle strutture regionali e nell’ambito dei procedimenti trattati dalla Regione appare per definizione una tipologia di attività che richiede necessariamente una conoscenza della situazione interna all’amministrazione ed alla scansione e gestione dell’iter dei procedimenti amministrativi che non può essere detenuta che da quei soggetti che operano quotidianamente ed effettivamente all’interno della stessa (Direttori, dirigenti, responsabili di servizi/uffici), sicché appare non solo naturale ma assolutamente necessario che proprio attraverso l’opera ed il coinvolgimento di tali soggetti si proceda alla suddetta mappatura, essendo del tutto evidente che viceversa un soggetto esterno all’amministrazione regionale non avrebbe quel patrimonio conoscitivo necessario per l’adeguato svolgimento di tale compito.
D’altronde il Piano triennale per dettato normativo (art. 1, comma 9, legge n. 190/2012) deve, tra l’altro, rispondere all’esigenza di individuare le attività in cui è più elevato il rischio di corruzione ed è quindi un contenuto necessario del piano la parte inerente alla gestione del rischio ed dunque in primis l’individuazione di tutte le aree a rischio all’esito di un processo di analisi e valutazione. In ragione di quanto detto pertanto la legge (art. 1, comma 8, l. n. 190/2012) pone l’espresso divieto di consentire l’attività di elaborazione del Piano triennale a soggetti estranei all’amministrazione.
In conclusione
l’affidamento all’esterno dell’amministrazione regionale dell’attività consulenziale e di studio volta alla redazione della mappatura dei rischi corruttivi in ordine ai procedimenti gestiti dalla Regione Piemonte, con relazione conclusiva degli esiti dell’attività medesima, non appare giustificato sia per inesistenza del presupposto dell’assenza di strutture o professionalità interne in grado di fare fronte alla relativa esigenza sia a fortiori per violazione della disciplina di cui alla legge n. 190/2012 in ordine alla redazione del Piano anticorruzione e dei relativi aggiornamenti.
Sotto tale profilo deve essere disposta la trasmissione della presente alla locale Procura regionale della Corte dei Conti.

     2. In secondo luogo per quanto il primo rilievo sia dirimente in termini di non conformità alla disciplina legislativa, va altresì evidenziato che laddove fosse stata effettivamente riscontrabile l’esigenza di ricorrere all’esterno della struttura comunque l’amministrazione avrebbe dovuto ricorrere ad una procedura selettiva.
In proposito al suddetto rilievo la Regione con la nota di risposta ha riferito che con le DGR n. 16/282 del 08.09.2014 e n. 20/318 del 15.09.2014 è stata stabilita una riduzione del numero delle Direzioni regionali e che con DGR n. 11/1409 del 11.05.2015 è stata disposta una riconfigurazione delle strutture dirigenziali del ruolo della Giunta regionale con individuazione di nuovi settori in numero inferiore determinando per l’effetto una nuova struttura organizzativa operativa a far data dal 03.08.2015.
Tale tempistica avrebbe reso assolutamente urgente procedere alla mappatura dei rischi e alla conseguente applicazione della rotazione dei dirigenti interessati in un tempo molto ridotto. Conseguentemente sarebbe risultato applicabile l’art. 5, comma primo, lett. b), della già citata DGR n. 28/1337 del 29.12.2010 secondo cui è ammesso il conferimento dell’incarico in via diretta “in casi di assoluta urgenza adeguatamente documenti e motivati, quando le scadenze temporali ravvicinate e le condizioni per la realizzazione di obiettivi specifici richiedano l’esecuzione della prestazione professionale in tempi molto ristretti non consentendo l’esperimento di procedure di selezione”.
Nella propria nota la Regione ha inoltre affermato che la prestazione “è connotata da assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale (redazione della mappatura dei rischi … alla luce della riorganizzazione in corso)”.
Sotto il profilo procedurale va rammentato che
l’obbligo di seguire procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione è puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7 d.lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato da tempo dalla giurisprudenza amministrativa e contabile un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione (TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007; Cons. St., sentenza 28.05.2010 n. 3405; Corte Conti sez. reg. contr. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37 e parere 27.11.2012 n. 509).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto modo di statuire che: “
il comma 6-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento di incarichi di collaborazione, ha in concreto posto la necessità dell’espletamento della procedura concorsuale, nella considerazione che un simile modus operandi, implicando il rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97” (Corte Conti, sez. centrale controllo prev. legittimità Stato, 02.10.2012, n. 23; analogamente la stessa sezione, delibera 26.10.2011, n. 21).
Pertanto
il ricorso a procedure comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla giurisprudenza, del tutto sovrapponibili a quelli altresì previsti all’art. 5 della Direttiva regionale in tema di incarichi esterni:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della collaborazione in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico
(ex plurimis, parere 14.03.2012 n. 67 Sez. Contr. Lombardia).
Con riferimento proprio alla ricorrenza del requisito dell’assoluta urgenza occorre tuttavia precisare che l’eventuale ristrettezza dei tempi (prospettata dalla Regione a giustificazione dell’affidamento diretto) incompatibile con la selezione non dovrebbe essere in alcun modo imputabile all’amministrazione regionale, ma dipendere da un termine non autonomamente fissato o essere ricollegabile ad evento di carattere eccezionale.
Nella fattispecie invero la Regione fa riferimento al fatto che la nuova struttura organizzativa sarebbe divenuta operativa dal 03.08.2015 in virtù di un termine fissato dalla Giunta regionale con deliberazione del 11.05.2015.
Si tratta sotto questo primo profilo quindi non già di un elemento temporale del tutto esterno come tale sottratto alla determinazione da parte dell’amministrazione regionale, ma viceversa di un termine stabilito internamente. Si aggiunga inoltre che l’aggiornamento della mappatura dei rischi corruttivi correlato alla nuova riorganizzazione non può certo dirsi evento del tutto imprevedibile nel senso individuato dalla giurisprudenza, trattandosi invero di attività correlata alla riorganizzazione della struttura, da tempo nota, avviata già nel 2014 dalla Giunta regionale con le sopra richiamate delibere del 08.09.2014 e 15.09.2014.
Dunque anche sotto tale profilo
è evidente l’insussistenza del presupposto dell’urgenza che possa legittimare la deroga all’osservanza della procedura comparativa.
Va infine osservato comunque che il periodo intercorrente tra l’ultima deliberazione della Giunta regionale di individuazione dei singoli settori e l’entrata in vigore del nuovo assetto (quasi tre mesi, rectius 84 giorni) non è risultato comunque così ristretto da potersi affermare l’impossibilità dell’espletamento della procedura comparativa per la scelta dell’eventuale incaricato che si fosse reso concretamente necessario (d’altro canto anche la direttiva regionale all’art. 3, comma 4, prevede termini ridotti per la presentazione delle offerte in caso di urgenza).
Del resto l’eventuale ricorrenza di ritardi o disfunzioni nella gestione dei procedimenti necessari sarebbero comunque imputabili all’amministrazione regionale quale apparato e si tratterebbe quindi di evenienza che non legittimerebbe certo l’affidamento di un incarico in via diretta.
Va infatti ribadito che
la giurisprudenza ha ripetutamente evidenziato che l’assoluta urgenza deve essere determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico” e che non è dunque rilevante l’urgenza creata da condotta imputabile all’ente (sez. contr. Piemonte 20.06.2014, n. 122; sez. contr. Piemonte 26.03.2014 n. 61; cfr. anche: sez. Lombardia 19.02.2013 n. 59; di recente cfr. sez. contr. Piemonte, 18.02.2015, n. 22).
Conseguentemente
anche sotto tale aspetto l’atto di affidamento dell’incarico non risulta rispettoso della vigente normativa.
     3. In terzo luogo va osservato che
l’atto di incarico è altresì in contrasto con il dettato normativo sotto il profilo della mancata verifica che il pagamento fosse compatibile con i vincoli finanziari.
Al riguardo va richiamata la previsione di cui all’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2 d.l. n. 78/2009 convertito dalla l. n. 102/2009, che pone in capo al funzionario che impegna una spesa l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica
(cfr. per le Regioni l’art. 56, co. 6, d.lgs. n. 118/2001).
Si tratta di obbligo preventivo posto direttamente in capo al funzionario o dirigente che effettua l’impegno, di qualunque servizio o settore esso sia e che va fatto a prescindere dalle modalità di finanziamento della spesa, essendo funzionale innanzitutto ad una verifica di cassa circa l’effettiva sostenibilità del pagamento nei termini contrattualmente previsti e alla conformità dello stesso con il complesso dei vincoli vigenti.
Conseguentemente sotto tale profilo non è adeguata la risposta della Regione che sul punto non ha dato dimostrazione dell’espletamento di tale accertamento preventivo, ma si è limitata ad affermare che “il programma dei conseguenti pagamenti era compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio” ed al fine di fornire prova di ciò ha fatto riferimento ad un elemento successivo del tutto irrilevante riferendo “prova ne è che nello stesso esercizio 2015 si è disposto il pagamento dell’intero importo previsto”.
Va dunque ribadito che
la suddetta verifica preventiva è essenzialmente un controllo inerente la cassa finalizzato ad assicurare l’effettività del pagamento nei tempi stabiliti, da effettuarsi operativamente mediante una programmazione dei flussi di cassa ed un successivo monitoraggio nel corso dell’anno delle disponibilità liquide, onde scongiurare ritardi anche con riferimento alle previsioni contenute nel d.lgs. n. 231/2002.
L’atto di incarico dunque non risulta conforme al dettato normativo anche sotto tale profilo.

     4. Infine occorre rilevare che alla rilevata illogicità della previsione di quanto contenuto nell’art. 1, comma 11, del contratto di consulenza che fissava il termine per la consegna della relazione conclusiva al 25.05.2015 a fronte della stipula del contratto in data 03.06.2015 la regione ha replicato affermando che la stessa “trova una sua spiegazione sia nell’urgenza –già ampiamente motivata nelle argomentazioni sopra esposte– sia nel ritardo amministrativo/contabile connesso alla formalizzazione dell’incarico” e che si tratterebbe di un involontario disallineamento tra la fase amministrativa di affidamento dell’incarico e la fase di gestione di merito della consulenza.
Al riguardo occorre evidenziare che
nella fattispecie nessuna giustificazione sul piano giuridico può assumere l’urgenza per giustificare di fatto una sostanziale anticipazione della prestazione da parte di un soggetto esterno all’amministrazione prima della stipula del contratto e di fatto ancor prima dell’assunzione dell’atto di incarico comportante impegno di spesa.
Nella fattispecie l’incarico risulta infatti conferito con determinazione dirigenziale del 25.05.2015, integrata quanto a spesa con successiva determinazione del 28.05.2015, i cui impegni per rendere esecutivo il provvedimento di spesa sono stati registrati in data 29.05.2015, mentre da un lato il contratto risulta sottoscritto solamente in data 03.06.2015 (secondo quanto riferito nella nota a causa di un ritardo non meglio specificato nella formalizzazione dell’incarico) e dall’altro lato il testo contrattuale ha fissato al consulente il termine per l’adempimento conclusivo al 25.05.2015 ovvero allorquando lo stesso atto amministrativo connesso all’incarico doveva ancora essere completato.
E’ evidente che siffatto modo di operare dell’amministrazione abbia di fatto determinato una anomala richiesta di avvio dell’espletamento della collaborazione in capo al consulente in via anticipata rispetto al contratto e all’atto di conferimento ufficiale dell’incarico che di fatto è intervenuto altresì in sanatoria rispetto alla prestazione che era ormai in corso di espletamento se non del tutto già esaurita.
In proposito non può che essere richiamata la regola per cui
nel vigente ordinamento l’eventuale avvio anticipato dei lavori a favore della pubblica amministrazione rispetto al conferimento di incarico con relativo impegno di spesa è situazione del tutto eccezionale ammessa nei soli casi tassativamente previsti dal legislatore (ad. es. per i lavori di somma urgenza art. 176 d.p.r. 05.10.2010 n. 207, art. 191, co. 3, d.lgs. n. 267/2000), sicché al di fuori di tali ipotesi non è in alcun modo ammissibile tale modus procedendi.
In conclusione alle rilevate irregolarità dell’attribuzione dell’incarico in questione consegue l’obbligo della Regione Piemonte di conformare la propria azione amministrativa in materia di affidamento di incarichi esterni alla legge e di dare tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative assunte.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte:
- dichiara l’atto di affidamento di incarico di cui alla determinazione n. 276 del 25.05.2015, integrata dalla determinazione n. 283 del 28.05.2015, della Regione Piemonte non conforme alla disciplina di legge per quanto esposto nella parte motiva;
- invita l’Amministrazione regionale ad adottare gli opportuni provvedimenti per conformare la propria attività alla legge in materia di affidamento di incarichi, dando riscontro a questa Sezione delle iniziative conseguentemente assunte;
- dispone la trasmissione della presente deliberazione alla Procura Regionale presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Piemonte della Corte dei Conti;
- dispone che la deliberazione sia trasmessa, a cura della Segreteria, alla Regione Piemonte in persona del legale rappresentante (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, deliberazione 07.04.2016 n. 34).

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art. 15, comma 5, del CCNL 01.04.1999, tuttora in vigore per la parte normativa, prevede la possibilità, per gli enti locali, di ampliare la parte variabile del fondo integrativo per il personale dipendente in caso di “attivazione di nuovi servizi o di processi di riorganizzazione finalizzati ad un accrescimento di quelli esistenti”.
Pertanto, l’incremento della parte variabile del fondo presuppone necessariamente un preventivo, specifico, programma di nuovi servizi o di miglioramento di quelli esistenti, che abbiano una ricaduta positiva sui cittadini.
Appare inevitabile che la scelta dei nuovi servizi, di competenza della Giunta comunale, debba essere fatta al massimo entro i primi mesi dell’esercizio, se non addirittura negli ultimi mesi dell’esercizio precedente, per evitare che si indichino ex post obiettivi già raggiunti, trasformando uno strumento di incentivazione della produttività e del merito in una non commendevole modalità di integrazione postuma dello stipendio del dipendente pubblico.
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Il conferimento di incarichi di Posizione Organizzativa deve essere motivato con riferimento a criteri generali, in maniera specifica ed esauriente senza ricorrere a mere formule di stile e, soprattutto, con una durata tale da consentire al titolare della posizione un ragionevole margine di autonomia e discrezionalità, circostanza che pare escludersi in casi di rinnovi ogni quindici giorni od ogni mese, il più delle volte, peraltro, con efficacia retroattiva.
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1. I fatti emersi dalla documentazione in atti consentono alla Sezione di accertare l’effettiva sussistenza delle criticità rilevate in sede istruttoria.
2. Come precedentemente esposto, la situazione riguarda la tardiva approvazione dei progetti finalizzati al miglioramento quali–quantitativo dei servizi istituzionali da parte della Giunta comunale negli anni 2013–2014 e il conferimento di alcune posizioni organizzative negli anni 2013–2015.
3. Per quanto riguarda il primo punto, appare utile sintetizzare brevemente la disciplina contrattuale prevista in materia di risorse decentrate per il personale dipendente prima di soffermarsi sulla fattispecie concreta.
L’art. 15, comma 5, del CCNL 01.04.1999, tuttora in vigore per la parte normativa, prevede la possibilità, per gli enti locali, di ampliare la parte variabile del fondo integrativo per il personale dipendente in caso di “attivazione di nuovi servizi o di processi di riorganizzazione finalizzati ad un accrescimento di quelli esistenti”.
Pertanto, l’incremento della parte variabile del fondo presuppone necessariamente un preventivo, specifico, programma di nuovi servizi o di miglioramento di quelli esistenti, che abbiano una ricaduta positiva sui cittadini.
Appare inevitabile che la scelta dei nuovi servizi, di competenza della Giunta comunale, debba essere fatta al massimo entro i primi mesi dell’esercizio, se non addirittura negli ultimi mesi dell’esercizio precedente, per evitare che si indichino ex post obiettivi già raggiunti, trasformando uno strumento di incentivazione della produttività e del merito in una non commendevole modalità di integrazione postuma dello stipendio del dipendente pubblico.
Il Comune di Alassio, invece, negli esercizi 2013–2014 ha svolto tale adempimento con notevole ritardo, e cioè nei mesi di ottobre 2013 e agosto 2014, quando ormai larga parte dell’attività dei dipendenti era stata svolta. Pertanto, l’eventuale corresponsione della retribuzione variabile perderebbe il suo carattere di pregnante stimolo a conseguire un risultato difficile da ottenere per assumere quello, del tutto estraneo alla sua funzione, di compensare prestazioni già svolte o in corso di svolgimento quasi ultimato.
Non a caso il Segretario generale, consapevolmente, ha evitato di corrispondere le risorse del fondo integrativo per il personale dipendente destinate a compensare la “innovazione quali-quantitativa dei servizi complessivi dell’Ente”.
Sul punto non si può non rilevare come, effettivamente, la giurisprudenza contabile abbia più volte ravvisato la responsabilità amministrativa a carico della Giunta, del Segretario comunale e dei Responsabili del personale e della ragioneria per l’erogazione di compensi di produttività non preceduta da una adeguata e preventiva pianificazione del lavoro (Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Sardegna n. 274/2007; Sezione giurisdizionale della Lombardia 08.07.2008, n. 457; Sezione giurisdizionale del Lazio 02.05.2011, n. 714; Sezione giurisdizionale della Campania 13.10.2011, n. 1808; Sezione II Centrale di Appello, 12.02.2003 n. 44; Sezione III Centrale di Appello, 17.12.2010, n. 853).
Pertanto, confermando quanto sinora disposto dal Comune di Alassio,
la Sezione ritiene che non vi siano le condizioni contrattuali per procedere all’erogazione della parte variabile retributiva prevista dall’art. 15, comma 5, del CCNL 01.04.1999, relativamente agli anni 2013 e 2014.
4. Nel corso dell’istruttoria, sono stati acquisiti i seguenti provvedimenti di conferimento di posizioni organizzative:
- Det. Dirig. 17.10.2013, n. 562, che ha conferito tre P.O. per il periodo 01.10.2013–31.10.2013, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1, senza dare luogo ad una procedura comparativa, “in quanto risultano nei Servizi di riferimento dipendenti già testati … e destinatari … senza soluzioni di continuità di detti incarichi”;
- Det. Dirig. 12.11.2013, n. 610, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.11.2013–31.12.2013, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa, per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 20.01.2014, n. 8, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.01.2014–28.02.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa, per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 25.03.2014, n. 135, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.03.2014–30.09.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa, per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 01.10.2014, n. 489, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.10.2014–15.10.2014, presso il Settore 1, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa, per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 28.10.2014, n. 517, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 16.10.2014–31.10.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 15.10.2013, n. 559, che ha conferito tre P.O. per il periodo 01.10.2013–31.10.2013, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, senza dare luogo ad una procedura comparativa, “in quanto risultano nei Servizi di riferimento dipendenti già testati .. e destinatari di detti incarichi”;
- Det. Dirig. 14.11.2013, n. 613, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.11.2013–31.12.2013, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa, per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 21.01.2014, n. 11, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.01.2014–28.02.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, in quanto unici funzionari di area D;
- Det. Dirig. 13.03.2014, n. 111, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.03.2014–30.09.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, senza dare luogo ad una procedura comparativa, “in quanto risultano nei Servizi di riferimento dipendenti già testati … e destinatari … senza soluzioni di continuità di detti incarichi”;
- Det. Dirig. 03.10.2014, n. 496, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 01.10.2014–15.10.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa, per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 28.10.2014, n. 518, che ha conferito le medesime P.O. per il periodo 16.10.2014–31.10.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 27.11.2014, n. 588, che ha conferito la P.O. per il Servizio 2.6 (Servizio Urbanistica ed Edilizia Privata) per il periodo 01.11.2014–31.12.2014, con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, senza dare luogo ad una procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 13.10.2015, n. 453, che ha conferito una P.O. per il Servizio 3.2 per il periodo 01.11.2015–31.12.2015, presso il Settore 3;
- Det. Dirig. 30.10.2015, n. 470, che ha conferito una P.O. presso il Servizio “Attività informative”, per il periodo 1.11.2015–31.12.2015, senza dare luogo ad una procedura comparativa “al fine di non arrecare pregiudizio agli indirizzi di governo di questa Amministrazione”;
- Det. Dirig. 30.10.2015, n. 472, che ha conferito una P.O. presso il Corpo di Polizia Municipale, per il periodo 1.11.2015–31.12.2015, senza dare luogo ad una procedura comparativa “al fine di non arrecare pregiudizio agli indirizzi di governo di questa Amministrazione”;
- Det. Dirig. 09.11.2015, n. 497, che ha conferito la P.O. per il Servizio 2.1-2.5 e per quello 2.3 per il periodo 01.11.2015–31.12.2015 con parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, senza dare luogo ad una procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 12.11.2015, n. 506, che ha conferito la P.O. per il Servizio 2.4, per il periodo 01.12.2015–31.12.2015 presso il Settore 2, senza dare luogo ad una procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 25.11.2015, n. 536, che ha conferito una P.O. per il Servizio 3.1 per il periodo 01.12.2015–31.12.2015, presso il Settore 3, senza dare luogo ad una procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
5. L’art. 9, comma 1 e 4, del CCNL 01.04.1999 prevede che “
gli incarichi relativi all’area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a 5 anni, previa determinazione di criteri generali da parte degli enti, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati con le medesime formalità ...i risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti gli incarichi di cui al presente articolo sono soggetti a valutazione annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall’ente”.
L’esame delle determinazioni, dirigenziali precedentemente indicate consente di evincere come il Comune di Alassio abbia più volte conferito posizioni organizzative non rispettando il dettato dell’art. 9 e cioè per brevissimi periodi (sovente anche solo di quindici giorni) con continui rinnovi, senza una sufficiente motivazione giustificativa di tale prassi e senza individuazione ed attribuzione degli obiettivi specifici che ciascun titolare avrebbe dovuto conseguire nel periodo di riferimento, in molti casi addirittura con effetto retroattivo.
L’Amministrazione comunale ha rilevato come il conferimento a breve termine delle posizioni organizzative sia stato un effetto naturale del processo di riorganizzazione della propria struttura amministrativa.
Il Collegio, pur prendendo atto delle osservazioni dei rappresentanti dell’Amministrazione, non può non rilevare come
il conferimento di tali incarichi debba essere motivato con riferimento a criteri generali, in maniera specifica ed esauriente senza ricorrere a mere formule di stile (quali, ad esempio, gli “ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”, oppure “al fine di non arrecare pregiudizio agli indirizzi di governo di questa Amministrazione”) e, soprattutto, con una durata tale da consentire al titolare della posizione un ragionevole margine di autonomia e discrezionalità, circostanza che pare escludersi in casi di rinnovi ogni quindici giorni od ogni mese, il più delle volte, peraltro, con efficacia retroattiva.
In questo ambito viene meno anche la causa dell’indennità di posizione, già corrisposta in tutti i casi esaminati, la quale non è più collegata allo svolgimento di mansioni caratterizzate da un elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa o da contenuti di alta professionalità e specializzazione, ma diviene, analogamente alla parte variabile del fondo per i dipendenti analizzata precedentemente, una semplice integrazione retributiva, slegata dal suo presupposto negoziale.
La stessa durata annuale, indicata dal Comune con riferimento all’esercizio 2015 si pone al limite della ragionevolezza, senza peraltro superarla ad avviso di questo Collegio, se si tiene conto che l’art. 9 del CCNL 01.04.1999 si riferisce ad “un periodo massimo non superiore a 5 anni”, ipotizzando una naturale durata pluriennale dell’incarico, anche in funzione di certezza dell’azione amministrativa e di garanzia del dipendente pubblico di non rimanere continuamente in balia delle decisioni del potere politico.
La dubbia legittimità dell’erogazione della retribuzione di posizione, conseguente alle determinazioni dirigenziali sopra esposte, per un totale complessivo di euro 37.388,50, comporta l’opportuna trasmissione della presente pronuncia alla Procura Regionale competente.
P.Q.M.
ACCERTA
- la tardiva approvazione dei progetti finalizzati al miglioramento quali–quantitativo dei servizi istituzionali da parte della Giunta comunale negli anni 2013–2014, con la conseguente non erogabilità della retribuzione variabile prevista dall’art. 15, comma 5, del CCNL 01.04.1999, relativamente agli stessi anni;
- la non conformità alle disposizioni del CCNL 01.04.1999 delle determinazioni dirigenziali di conferimento delle Posizioni Organizzative, espressamente menzionate in motivazione.

DISPONE
- la trasmissione di copia della presente pronuncia, a cura della Segreteria della Sezione, alla Procura contabile in sede, per le valutazioni di competenza, in ordine al conferimento delle Posizioni Organizzative sopra menzionate.
- la trasmissione di copia della presente pronuncia, a cura della Segreteria della Sezione, al Presidente del Consiglio comunale e al Sindaco del Comune di ALASSIO (SV) per la predisposizione delle misure idonee e da comunicare a questa Sezione entro il termine di sessanta giorni, ai sensi dell’art. 148-bis TUEL, nonché per la pubblicazione, ai sensi dell’articolo 31 del decreto legislativo n. 33 del 2013, sul sito internet dell’Amministrazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, deliberazione 21.03.2016 n. 23).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 19.04.2016 n. 91 "Misure per la realizzazione di un sistema adeguato e integrato di gestione della frazione organica dei rifiuti urbani, ricognizione dell’offerta esistente ed individuazione del fabbisogno residuo di impianti di recupero della frazione organica di rifiuti urbani raccolta in maniera differenziata, articolato per regioni" (D.P.C.M. 07.03.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 18.04.2016 n. 90, suppl. ord, n. 9, "Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e delle acque reflue, nonché per la produzione e l’utilizzazione agronomica del digestato" (Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, decreto 25.02.2016).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 15.04.2016 n. 88 "Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante: «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione»" (Camera dei Deputati, comunicato).

SICUREZZA LAVORO: Linee d'indirizzo per la prevenzione e la sicurezza dei cantieri per opere di grandi dimensioni e rilevante complessità e per la realizzazione di infrastrutture strategiche (Regione Lombardia, decreto D.S. 12.04.2016 n. 3221).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICA: Oggetto: Legge regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e gestione dei corsi d’acqua (ANCE di Bergamo, circolare 15.04.2016 n. 100).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale – istruzioni ISPRA (ANCE di Bergamo, circolare 15.04.2016 n. 99).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Pagamento del diritto annuale di iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali e per le imprese che recuperano rifiuti in procedura semplificata (ANCE di Bergamo, circolare 15.04.2016 n. 98).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: DURC – Art. 90, commi 9 e 10, del D.Lgs. n. 81/2008 e smi - Interpello 1/2016 (ANCE di Bergamo, circolare 15.04.2016 n. 95).

TRIBUTI: OGGETTO: Decreto interministeriale del 24.02.2016, concernente le procedure di riversamento, rimborso e regolazioni contabili relative ai tributi locali. Art. 1, commi da 722 a 727, della legge 27.12.2013, n. 147 e art. 1, comma 4, del D.L. 06.03.2014, n. 16 convertito, con modificazioni, dalla legge 02.05.2014, n. 68. Chiarimenti (Ministero dell'Economia e delle Finanze, circolare 14.04.2016 n. 1/DF).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Efficacia della nuova classificazione sismica del territorio lombardo – Linee guida per le funzioni trasferite ai Comuni. Prossima riunione informativa (ANCE di Bergamo, circolare 13.04.2016 n. 93).

AMBIENTE-ECOLOGIAMUD 2016 istruzioni (ISPRA, nota 08.04.2016 n. 22028 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI: Oggetto: Istruzioni operative GSE per la gestione e lo smaltimento di pannelli fotovoltaici incentivati (ANCE di Bergamo, circolare 08.04.2016 n. 90).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - VARI: G. D. Nuzzo, Senza il certificato di agibilità l'acquirente dell'immobile deve essere risarcito (15.04.2016 - link a www.condominioweb.com).

APPALTI: Nuovo Codice appalti, via libera definitivo del governo: cosa cambia.
Entro lunedì il testo in Gazzetta Ufficiale e subito in vigore. Il vecchio regolamento n. 207/2010 resta in vita fino al varo delle linee guida dell'Anac (15.04.2016 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, dal 10 aprile è in vigore la nuova classificazione sismica.
Sono 57 i comuni lombardi in zona 2, 1027 in zona 3 e 446 in zona 4 (13.04.2016 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: G. De Luca e A. Di Matteo, La centralizzazione delle procedure di acquisto della pubblica amministrazione. I soggetti aggregatori, le Centrali di committenza e le possibili alternative - Le novità della Legge di Stabilità per l’anno 2016 e le prospettive “de iure condendo (12.04.2016 - link a www.filodiritto.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Compendio sulle distanze tra le costruzioni secondo la normativa codicistica e quella dettata dagli strumenti urbanisti nonché dalla legislazione nazionale - II edizione (15.03.2016 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Compendio dottrinario e giurisprudenziale sulle luci e vedute disciplinate dal codice civile - II edizione (09.03.2016 - tratto da http://renatodisa.com).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTICentrale di committenza fa la stazione appaltante. Per la delega di funzioni dall'ente locale serve il controllo analogo.
Necessario il controllo analogo per la delega di funzioni di stazione appaltante da parte di enti locali a una centrale di committenza.

È quanto ha chiarito l'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato del Presidente 23.03.2016 (Oggetto: delibera ANAC n. 32 del 30.04.2015 sul “sistema Asmel società consortile a r.l.” ed effetti della sentenza Tar Lazio, sez. III, n. 2339 del 22.02.2016) siglato dal presidente Raffaele Cantone prendendo le mosse dalla nota vicenda relativa alla società consortile Asmel che aveva formulato domanda, più di un anno fa, per essere qualificata come centrale di committenza.
L'Anac aveva istruito la domanda e si era pronunciata con la delibera n. 32/2015 evidenziando che il sistema Asmel e in particolare il consorzio Asmez e la società consortile Asmel, non corrispondevano ai modelli organizzativi indicati dall'art. 33, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici.
Nella delibera n. 32 l'Autorità aveva affermato che, a valle della delega di funzioni di committenza finalizzata all'acquisto di beni e servizi disposta da diversi enti locali a favore della società Asmel, essa a sua volta aveva realizzato un «sistema attraverso il quale ha offerto i propri servizi di intermediazione negli acquisti ai comuni dell'intero territorio nazionale, mediante l'adesione successiva all'associazione».
Per l'Anac un primo elemento rilevante è che la «partecipazione degli enti locali alla centrale di committenza è solo indiretta e non essendo previsto un sistema che garantisca un controllo analogo da parte degli enti locali coinvolti, Asmel agisce come un soggetto di diritto privato del tutto autonomo da questi ultimi».
Questa impostazione ad avviso dell'Anac risulta confermata dai contenuti della pronuncia del Tar Lazio (sez. III) n. 2339, che ha respinto il ricorso di Asmel contro la delibera n. 32. Nel comunicato Anac si legge che il Tar ha avallato le statuizioni della delibera dell'Authority e quindi ha ritenuto che «il consorzio Asmez e la società consortile Asmel a r.l., oltre a non poter essere certamente inclusi tra i soggetti aggregatori di cui all'art. 9 del dl n. 66/2014, non rispondessero ai modelli organizzativi indicati dall'art. 33, comma 3-bis, del dlgs 163/2006, quali possibili sistemi di aggregazione degli appalti di enti locali». E questo anche perché non era previsto neanche un limite territoriale all'operatività della società consortile.
L'Anac ricorda anche alcuni punti cardine che devono essere rispettati al fine di poter essere qualificati come centrale di committenza, a loro volta contenuti nella determina 11/2015: «Quando si utilizza un ente strumentale ai fini di cui all'art. 33, comma 3-bis, quale soggetto operativo di associazioni di comuni o di accordi consortili tra i medesimi», occorre non solo che lo stesso sia interamente pubblico, ma sia anche prevista «un'adeguata programmazione degli interventi e degli acquisti, da operarsi in seno allo strumento associativo, coinvolgendo l'eventuale società controllata dall'Unione, dall'associazione o attraverso l'accordo consortile in maniera congiunta da parte dei comuni».
Di fatto significa applicare anche a queste fattispecie il concetto del controllo analogo, elemento essenziale per la legittimità degli affidamenti in house, già nelle direttive appalti e nella giurisprudenza europea, a partire dalla nota sentenza Teckal (articolo ItaliaOggi del 15.04.2016).

CORTE DEI CONTI

PATRIMONIO: Vie provinciali, palla al comune. Ok la manutenzione. Per la sicurezza.
Un comune può avviare interventi di manutenzione straordinaria su beni di proprietà di altro soggetto, se questo intenda tutelare le esigenze e la sicurezza della collettività locale.

Così la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Regione Piemonte, nel testo del parere 24.03.2016 n. 29, nel fare chiarezza sulla possibilità, per un'amministrazione comunale, di intervenire economicamente al ripristino di un una strada di proprietà dell'ente provinciale del territorio.
Il comune di Zubiena (Biella) chiedeva alla Corte se fosse possibile intervenire con le risorse del proprio bilancio, per far fronte ad interventi su strade provinciali che insistono sul proprio territorio, stante la momentanea disponibilità da parte dell'ente proprietario della strada.
In primo luogo, il comune è tenuto a realizzare gli interessi della collettività locale, così come prevede l'art. 13 Tuel. È pacifico, pertanto, che l'amministrazione comunale sia interessata al fatto che la rete viaria esistente sul proprio territorio sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti proprietari, anche ai fini della tutela e la sicurezza della collettività locale.
Ne consegue che, in situazioni peculiari e qualora sia accertata l'impossibilità temporanea ad intervenire da parte dell'ente proprietario, il comune ha tutto l'interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada provinciale, poiché questo tutela la sicurezza dei cittadini amministrati.
Quanto all'intervento economico destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro soggetto, la Corte ha sottolineato che l'uscita delle risorse dal bilancio comunale trova «puntuale giustificazione» nella dimostrazione del perseguimento di un «indifferibile» interesse della comunità locale.
Il materiale «spostamento» di risorse tra gli enti interessati, poi, potrebbe successivamente regolarsi mediante lo strumento della convenzione ex articolo 30 Tuel, grazie al quale verrebbero regolati i rapporti finanziari e le previsioni di restituzione, all'interno del principio costituzionale della «leale collaborazione tra amministrazioni pubbliche» (articolo ItaliaOggi del 12.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I dirigenti sono esclusi dai limiti al turn-over. Parere della Corte conti Puglia. Resta valido il dl 90/2014.
I nuovi limiti al turnover fissati dalla legge di Stabilità 2016 non si applicano alle assunzioni dei dirigenti, per le quali resta valida la disciplina del dl 90/2014.

Lo chiarisce il parere 17.03.2016 n. 73 della Corte del conti – Sezione regionale di controllo per la Puglia, con il quale, però, viene anche affermata l'estensione agli enti territoriali del vincolo di indisponibilità sui posti dirigenziali vacanti.
Al riguardo, pertanto, i giudici contabili non condividono la tesi (sostenuta invece dall'Anci) secondo cui il predetto vincolo riguarderebbe le sole amministrazioni statali.
La querelle riguarda il comma 219 della legge 208/2015, ai sensi del quale, nelle more della riforma della dirigenza pubblica e della ricollocazione dei lavoratori provinciali in esubero, sono resi indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle p.a. vacanti alla data del 15.10.2015, tenendo comunque conto del numero dei dirigenti in servizio senza incarico o con incarico di studio e del personale dirigenziale in posizione di comando, distacco, fuori ruolo o aspettativa.
Tale indisponibilità comporta anche in via retroattiva la risoluzione di diritto degli incarichi conferiti dopo fra il 15.10.2015 e il 01.01.2016, fatte salve le eccezioni previste dalla legge, ma (precisa il parere della Corte conti Puglia) senza esclusioni né per gli incarichi conferiti a tempo ex art. 110 Tuel, né per le proroghe di incarichi conferiti in precedenza.
Malgrado l'imperfetta tecnica di formulazione legislativa (evidente, ad esempio, nel riferimento alle posizioni dirigenziali di prima e seconda fascia, articolazione non presente a livello locale), non vi sarebbe, secondo i giudici contabili, la reale volontà di circoscrivere l'ambito applicativo alle sole amministrazioni dello Stato.
A favore della tesi dell'Anci, non può neppure essere richiamato il comma 221 che, nel prevedere una ricognizione delle dotazioni organiche degli enti territoriali, si limita a introdurre regole di razionalizzazione organizzativa complementari, e non alternative, a quelle previste dal comma 219; né il comma 228 che, nel sancire una riduzione al 25% delle percentuali del turnover per il triennio 2016-2018 limitatamente personale a tempo indeterminato non dirigenziale, ha lasciato inalterata la disciplina già esistente con riferimento al personale dirigenziale.
Per la sostituzione dei dirigenti, quindi, valgono, le percentuali previste dall'art. 3, comma 5, del dl 90/2014 (80% fino al 2017, 100% dal 2018)) ma ovviamente solo con riferimento ai posti disponibili ex comma 219 (articolo ItaliaOggi del 15.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contro i furbetti della Pa possibile anche l'utilizzo dei detective privati.
Il dirigente pubblico può avvalersi anche di detective privati per scovare il "furbetto" di turno.
A stabilirlo è la Corte dei Conti in una recente sentenza, in cui sostiene "la legittimità del ricorso ad una agenzia investigativa privata" per stanare gli abusi di un dipendente ufficialmente in congedo parentale.
A ricorrere a investigatori esterni era stato il presidente di un'azienda partecipata per circa il 99% dal comune di Arco, in Trentino.
I giudici contabili si sono espressi proprio su suo appello, visto che gli era stata addebitata la spesa per le indagini. Per la Corte dei Conti (II Sez. giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 22.01.2016 n. 71) deve infatti ritenersi che "l'urgenza" abbia indotto "ad utilizzare il mezzo che appariva attendibilmente più idoneo, anche per la prevedibile maggiore rapidità d'intervento, a disvelare il comportamento del dipendente sospettato di svolgere attività retribuita presso terzi nel periodo di congedo parentale" (articolo Il Messaggero del 12.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: L'intervento sostitutivo per irregolarità contributiva.
DOMANDA:
A seguito di verifica regolarità contributiva, sono emerse irregolarità tanto nei confronti di INPS quanto nei confronti di INAIL per somme superiori a quelle dovute dal Comune scrivente.
A quale dei due enti deve essere richiesto il cd. intervento sostitutivo e deve essere soddisfatto prima?
RISPOSTA:
L’art. 4 del D.P.R. n. 207/2010, recate disposizioni in merito al “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” ha stabilito che qualora il DURC rilevi delle irregolarità nei versamenti dovuti agli istituti e casse edili, le stazioni appaltanti possono sostituirsi all’appaltatore versando in tutto o in parte le somme dovute in forza del contratto di appalto.
Sulla materia sono intervenuti il Ministero del Lavoro con circolare n. 3 del 16.02.2012 e l’Inail con nota n. 2029 del 21.03.2012 al fine di fornire dei primi chiarimenti. L’INPS a seguito di diversi approfondimenti svolti di concerto con il Ministero del Lavoro, l’INAIL e le casse Edili, ha provveduto a fornire un quadro di sintesi in ordine ai contenuti e alla modalità di attivazione dell’intervento sostitutivo da parte delle stazioni appaltanti attraverso la circolare n. 54 del 13.04.2012.
Va precisato che la stazione appaltante, prima di porre in essere l’intervento sostituivo, deve trattenere sull’importo la ritenuta dello 0,50%. Tale ritenuta può essere svincolata unicamente in sede di liquidazione finale successivamente all’approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità previo rilascio del DURC.
Laddove l’intervento sostitutivo da parte della stazione appaltante sia in grado di colmare solo in parte il debito contributivo è necessario che le somme dovute all’appaltatore siano ripartite tra gli istituti e le Casse Edili in misura proporzionale ai crediti che ciascuno vanti e di evidenza nel DURC
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Gli elenchi dei beneficiari di contributi e sussidi.
DOMANDA:
Il Comune deve adempiere a norma dell’art. 12 della Legge n. 241/1990 e degli artt. 1 e 2 del D.P.R. n. 118/2000 all'approvazione e alla pubblicazione dell’albo dei beneficiari di provvidenze economiche erogate nell’esercizio finanziario 2015.
In ragione di ciò si chiede di sapere:
- il termine entro il quale è necessario approvare il citato albo dei beneficiari;
- se bisogna inserire nell'albo citato le sole somme liquidate entro il 31.12.2015 a titolo di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari o se vanno inserite anche quelle solamente impegnate entro il 31.12.2015 ma invero liquidate nel 2016;
- se l’albo dei beneficiari citato deve essere pubblicato sul sito istituzionale nella sezione “Amministrazione Trasparente”, nella sottosezione “Sovvenzioni, contributi, sussidi, vantaggi economici” o se va creata un apposita sottosezione denominata “Albo dei beneficiari anno 2015”.
RISPOSTA:
Gli art. 1 e 2 del D.P.R. 118/2000 disciplinano l’istituzione degli albi dei beneficiari di provvidenze di natura economica da parte degli enti locali, delle regioni, delle amministrazioni dello stato e degli altri enti pubblici. L’albo deve contenere i nominativi dei soggetti, comprese le persone fisiche, a cui sono erogati in ogni esercizio finanziario contributi, sovvenzioni, crediti, sussidi e benefici di natura economica a carico dei rispettivi bilanci.
Gli albi devono essere aggiornati ogni anno e per ogni erogazione deve essere indicata anche la disposizione di legge che disciplina l’erogazione stessa. Gli albi devono essere tenuti con modalità informatiche, consentendone l'accesso gratuito, anche per via telematica.
Deve essere garantita la massima facilità di accesso e di pubblicità. Analogo obbligo è stato imposto dagli artt. 26 e 27 del D.Lgs. 33/2013 prevedendo, con maggiore precisione ulteriori dati da pubblicare e disponendo che la pubblicazione costituisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti adottati per contributi di importo superiore a 1.000 euro nel corso dell’anno allo stesso beneficiario.
A tutela della privacy è stata prevista l’esclusione della pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati.
Con delibera n. 59/2013 con all’oggetto “Pubblicazione degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati (artt. 26 e 27, d.lgs. n. 33/2013)” l’Anac ha precisato che: ”Per evitare una duplicazione degli adempimenti e semplificare il più possibile le attività delle amministrazioni, i suddetti elenchi devono essere strutturati in modo tale da assolvere anche le funzioni dell’Albo dei beneficiari che, stando all’art. 1 del d.P.R. n. 118/2000”.
Uguale indicazione è stata fornita dal Garante per la protezione dei dati personali, con delibera 15.05.2014, n. 243. Sulla base delle indicazioni data dall’Anac e dal Garante per la protezione dei dati personali è opportuno che per l’Albo dei beneficiari sia creata un apposita sottosezione di secondo livello sul sito istituzionale nella sezione “Amministrazione Trasparente”, nella sottosezione “Sovvenzioni, contributi, sussidi, vantaggi economici”. Nell’albo vanno indicate le erogazioni cioè le somme liquidate nell’anno.
Si ricorda che per importi superiori a 1.000 euro la pubblicazione è condizione di efficacia dei provvedimenti, pertanto devono essere individuate modalità operative tali da rispettare entrambi gli obblighi. Non è previsto alcun termine per l’approvazione dell’albo, mentre è previsto un obbligo di pubblicazione delle singole erogazioni, almeno quelle per importi superiori a €. 1000,00.
Si suggerisce di aggiornare l’albo, sul sito, ad ogni erogazione e procedere, dopo la chiusura dell’esercizio, ad una formale approvazione riepilogativa di tutte le erogazioni effettuate eventualmente distinte per settori di intervento
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissione senza stop. Quorum funzionale e strutturale coincidono. La questione dei consiglieri necessari per la validità delle sedute.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute della commissione regolamenti e statuto?

Nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, ad esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come le cd. commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del Tuoel n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione ed il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali. È, pertanto, a tali previsioni che occorre fare riferimento per dirimere la questione prospettata.
Nella fattispecie in esame il regolamento comunale individua il quorum funzionale stabilendo che la commissione regolamenti e statuto è composta da un rappresentante per ogni gruppo consiliare, con diritto di voto di rappresentanza pari al numero dei consiglieri rappresentati.
Mancando una specifica indicazione in ordine al quorum per considerare valida la seduta, la minoranza ritiene che debba applicarsi la disposizione regolamentare che richiede, per la validità delle sedute delle commissioni permanenti, la presenza della maggioranza assoluta dei componenti.
Posto che l'art. 38, comma 6, del Tuoel dà facoltà ai consigli comunali di recepire, in sede statutaria, la possibilità di avvalersi di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale, nel caso specifico la commissione regolamenti e statuto costituisce un terzo genere rispetto alle commissioni permanenti e alle commissioni speciali previste dallo statuto.
Il regolamento, invece, ha disciplinato le commissioni permanenti e le commissioni speciali istituendo, altresì, la citata commissione regolamenti e statuto.
In particolare il regolamento comunale, disciplinando le sedute, il numero legale e la votazione, prevede che «le sedute delle commissioni permanenti sono valide con la maggioranza assoluta dei componenti».
Essendo la norma, indirizzata in forma specifica alle commissioni permanenti, appaiono applicabili alla Commissione regolamenti e statuto, proprio per le sue caratteristiche, le disposizioni relative alle commissioni speciali. In particolare, lo statuto prevede, nell'ambito delle commissioni speciali, la rappresentanza di tutti i gruppi consiliari e l'espressione del voto di ogni singolo componente con valore proporzionale ai consiglieri rappresentati in consiglio comunale, ma non fornisce indicazioni in ordine al quorum strutturale, rinviando ad altra disposizione statutaria la disciplina delle modalità di costituzione e funzionamento.
Anche il regolamento riguardo alle commissioni speciali non fornisce indicazioni in ordine alla formazione del quorum strutturale, stabilendo, invece, come per le commissioni speciali il voto di rappresentanza pari al numero dei consiglieri componenti il gruppo rappresentato.
Laddove si procede alla costituzione di organi collegiali con modalità ponderali, in assenza di disposizioni che stabiliscano maggioranze speciali o qualificate, il quorum funzionale deve essere generalmente individuato nella maggioranza (metà più uno) dei voti possibili.
Pertanto, nel caso di specie, anche riguardo alla Commissione Regolamenti e Statuto, qualora i consiglieri presenti siano in grado di esprimere la maggioranza dei voti necessari, non può non farsi coincidere il quorum funzionale con il quorum strutturale.
Infatti, l'eventuale assenza dei rappresentanti della minoranza, numericamente superiori ai rappresentanti della maggioranza, ma con un peso di rappresentatività minore, potrebbe bloccare i lavori della commissione pur essendo la maggioranza potenzialmente in grado di esprimere il quorum funzionale (articolo ItaliaOggi del 15.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Realizzazione di un guado temporaneo sul Fiume ... in Comune di .... Risposta a richiesta parere (Regione Emilia Romagna, nota 14.04.2016 n. 267817 di prot.).
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In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita agli atti di questo Ufficio, con la quale si chiede parere alla Regione, in quanto ente delegante dell’esercizio della funzione autorizzatoria, in merito all’assoggettamento alla autorizzazione paesaggistica di un manufatto consistente in un guado temporaneo sul fiume ..., la cui funzione è finalizzata esclusivamente a permettere il trasposto di materiali per la realizzazione di un impianto di energia rinnovabile idroelettrica in Comune di ..., e solo per il periodo necessario al compimento di tale opera, si rileva quanto segue. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Art. 4, comma 5, D.L. n. 95/2012. Compensi amministratori società a totale partecipazione pubblica.
L'art. 4, comma 5, D.L. n. 95/2012, come novellato dall'art. 16, D.L. n. 90/2014, fissa la misura dei compensi degli amministratori delle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche nella misura massima dell'80% del 'costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013', a decorrere dall'1 gennaio 2015.
Tale locuzione deve intendersi riferita a quanto effettivamente corrisposto, in quell'anno, agli amministratori aventi diritto.

Il Comune chiede un parere in ordine alla misura dei compensi spettanti agli amministratori delle società a totale partecipazione pubblica, ai sensi dell'art. 4, comma 5, D.L. n. 95/2012, come novellato dall'art. 16 del D.L. n. 90/2014.
In particolare, il Comune chiede da quale momento vada applicata la misura riduttiva ivi prevista e quale base di calcolo prendere a riferimento nell'ipotesi in cui per eventi eccezionali (ad esempio le dimissioni di un amministratore) l'importo speso nell'anno di riferimento (2013) sia inferiore a quello deliberato dall'assemblea dei soci.
L'art. 4, comma 4, secondo periodo, D.L. n. 95/2012, come novellato dall'art. 16, comma 1, D.L. n. 90/2014, dispone che a decorrere dal 01.01.2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori delle società controllate direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche, ivi compresa la remunerazione di quelli investiti da particolari cariche, non può superare l'80% del costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013.
Specificamente, il successivo comma 5 estende l'applicazione di questo tetto alle altre società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta. La novella del D.L. n. 90/2014, inoltre, nel prevedere l'applicazione delle disposizioni del comma 1 dell'art. 16 richiamato a decorrere dal primo rinnovo dei consigli di amministrazione successivo alla data di entrata in vigore del decreto stesso, ha espressamente 'fatto salvo quanto previsto in materia di limite ai compensi' (art. 16, comma 2).
Ne consegue che la decorrenza applicativa correlata al rinnovo dei consigli di amministrazione si riferisce soltanto alle disposizioni relative alla composizione dei consigli di amministrazione.
Dal tenore letterale delle disposizioni richiamate risulta dunque la decorrenza del 01.01.2015 della nuova misura dei compensi degli amministratori delle società controllate dalla pp.aa.. e, specificamente per quanto qui di interesse, di quelli delle società a totale partecipazione pubblica. In particolare, la decorrenza dell'01.01.2015 opera per gli amministratori delle società a totale partecipazione pubblica, in virtù dell'estensione a queste società delle disposizioni in materia di misura di compensi e relativa decorrenza, di cui all'art. 4, comma 4, secondo periodo, D.L. n. 95/2012
[1].
Per quanto concerne il parametro di riferimento per il calcolo della spesa consentita per i compensi degli amministratori delle società partecipate, sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si osserva che l'art. 4, comma 4, D.L. n. 95/2012, pone quello del 'costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013'.
La Corte dei conti, nell'evidenziare il fine della norma in esame di contenimento dei costi di amministrazione di società partecipate della pubblica amministrazione, ha chiarito che il concetto di 'costo sostenuto' impone di includere nella base di calcolo i soli membri del consiglio di amministrazione aventi diritto ad un compenso, rispetto ai quali possa configurarsi un 'costo sostenuto', precisando ulteriormente che la locuzione 'costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013' deve intendersi nel senso di comprendervi i soli compensi percepiti dagli amministratori aventi diritto a tale retribuzione
[2].
Queste considerazioni, se pur rese dalla Corte dei conti con riferimento alla specifica questione dell'inclusione o meno nella base di calcolo dei compensi figurati degli amministratori privi di compenso, sembrano condurre ad una interpretazione strettamente letterale dell'art. 4, comma 4, che faccia riferimento al costo effettivamente sostenuto nel 2013, e cioè ai soli compensi percepiti dagli amministratori aventi diritto in quell'anno
[3].
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[1] In questo senso, cfr. Corte conti, sez. contr. Regione Friuli Venezia Giulia, parere 14.08.2015, n. 102, che precisa la decorrenza 01.01.2015 della limitazione del costo annuale per i compensi degli amministratori di società partecipate di cui all'art. 4, comma 4 - secondo periodo, D.L. n. 95/2012.
[2] Cfr. Corte conti, sez. contr. Regione Piemonte, parere 08.07.2015, n. 107. In quella sede, il comune istante prospettava l'eccessiva riduzione della base di calcolo, che sarebbe conseguita alla sola considerazione dei compensi corrisposti, qualora nell'anno di riferimento (2013) il consiglio di amministrazione fosse stato composto in maggioranza da consiglieri privi di compenso.
Al riguardo, merita di osservare la posizione della Corte dei conti, che, se pur consapevole delle conseguenze di operare la riduzione prevista dall'art. 4, comma 4, su una base di calcolo (in quella circostanza) già contenuta, esprime ciò nonostante l'avviso che 'tale situazione, peraltro, non pare contrastare con l'intenzione del legislatore di perseguire la contrazione dei costi degli apparati di strutture latamente pubblicistiche, incentivando la nomina di amministratori non aventi diritto al compenso'.
[3] In questo senso, cfr. Corte dei conti Lombardia, parere 18.02.2015, n. 88, secondo cui il 'costo complessivamente sostenuto nel 2013' è quello corrisposto dall'ente per tutti gli amministratori in carica quell'anno. Anche Corte dei conti, sez. contr. Emilia Romagna, parere 10.07.2015, n. 119, ritiene doversi interpretare il vincolo ex art. 4, comma 4, D.L. n. 95/2012, come tassativo, tale da non consentire eccezioni derivanti da situazioni contingenti.
E ciò, pur nella consapevolezza di come disposizioni di riduzione di spesa, che assumano come parametro la spesa storica di un dato anno finiscano per penalizzare gli enti i quali hanno avuto una precedente gestione virtuosa (in quel caso, il comune istante riferiva di aver confermato i compensi di cui si tratta negli importi ridotti, nell'anno 2012, dalla precedente Amministrazione, per cui chiedeva di poter non applicare la riduzione di cui all'art. 4, comma 4, in commento)
(12.04.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Domanda di condono edilizio ai sensi della Legge n. 47 del 1985 – Risposta a richiesta di parere in merito all'applicazione dell'art. 32 della Legge n. 47 del 1985 (Regione Emilia Romagna, nota 05.04.2016 n. 239384 di prot.).
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In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita agli atti di questo Ufficio con il --------, con la quale si pongono alcuni quesiti in merito alla applicazione dell'art. 32 della Legge n. 47 del 1985, si rileva quanto segue. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI: Richiesta di accesso agli atti per redazione tesi di laurea.
Si ritiene che, per il soggetto richiedente, sussista il diritto ad ottenere l'accesso ai documenti necessari per la redazione della propria tesi di laurea.
Nel caso in cui tra i documenti richiesti ve ne siano alcuni contenenti dati personali, la consultazione degli stessi è assoggettata alle disposizioni del Codice in materia di protezione dei dati personali.

Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta, avanzata da un cittadino, di accesso, con estrazione di copia, ad una serie di documenti necessari per la redazione della propria tesi di laurea. Si tratta, in particolare, di atti di varia natura (bando, delibere, elaborati progettuali, autorizzazioni edilizie, ecc.), relativi ad una pratica ad oggi già chiusa e rendicontata.
Per fornire una risposta al quesito posto si ritiene necessario individuare la normativa di riferimento. In particolare, parrebbe che, in relazione alla fattispecie in esame, possa venire in rilievo sia la disciplina contenuta nella legge 07.08.1990, n. 241 recante 'Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi' (artt. 22 e segg.), sia quella di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 recante 'Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137' (artt. 122 e segg.).
Quanto alla legge sul diritto di accesso ai documenti amministrativi si ricorda che, ai sensi dell'articolo 22, comma 1, della legge 241/1990, il diritto in questione spetta a 'tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso.'
Si potrebbe sostenere che la redazione della tesi di laurea integri gli estremi dell'interesse qualificato richiesto dalla legge 241/1990: in particolare, si tratterebbe di una specificazione del diritto soggettivo allo studio tutelato costituzionalmente dall'articolo 34 della Costituzione.
[1] Una recente sentenza del giudice amministrativo [2] ha affermato che: 'Il diritto di accesso agli atti della P.A. si presenta come posizione strumentale riconosciuta a un soggetto che sia già titolare di una diversa situazione giuridicamente tutelata, e che abbia, in collegamento a quest'ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire mediante accesso uno o più documenti amministrativi'.
Applicando i principi sopra espressi al caso in esame si potrebbe affermare che il laureando è titolare del diritto soggettivo a raggiungere i gradi più alti degli studi, quale è il conseguimento della laurea, e, in connessione ad essa, richiede l'accesso alla documentazione necessaria per portare a termine il proprio iter formativo. In altri termini, la correlazione richiesta dall'articolo 22 della legge 241/1990 ai fini dell'accesso sembrerebbe sussistere tra quella specifica tesi di laurea che deve essere predisposta e i documenti richiesti.
Nel senso dell'accessibilità dei documenti amministrativi necessari per la redazione della tesi di laurea si è espresso anche l'ANCI
[3] che, con riferimento ad una questione analoga a quella ora in esame, ha affermato: «La dottrina maggioritaria, fornendo una lettura in combinato disposto delle prescrizioni in tema di accesso agli atti amministrativi contenute negli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990 -come novellata dalla L. n. 15/2005- e delle disposizioni di cui al D.P.R. 12.04.2006, n. 184, tende ormai a ritenere pacificamente accoglibile domande come quella de qua, [4] e ciò ancorché il soggetto istante non abbia quell''interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale si chiede l'accesso', che normalmente ed in via ordinaria costituisce il presupposto dell'accesso stesso».
Quanto alla giurisprudenza, si segnala, per completezza espositiva, un'unica sentenza della Suprema magistratura amministrativa
[5] individuata sull'argomento la quale recita: 'È legittimo il diniego di accesso a documenti ed atti, la cui richiesta è stata formulata per generici motivi di studio, [...] perché i motivi addotti dal privato per accedervi esulano dai casi nei quali la legge obbliga la p.a. ad estendere i propri atti e, anzi, manifestano una mera conoscenza fine a se stessa, opposta a quell'interesse giuridico che la legge intende tutelare'.
Benché la pronuncia in commento si esprima in senso contrario all'accessibilità dei documenti fondata su generici motivi di studio preme evidenziare che la stessa, sulla base dei dati raccolti,
[6] pare non riferirsi ad una richiesta di accesso circostanziata come è quella in esame, che si collega non ad un generico diritto allo studio ma alla necessità della conoscenza di quei determinati documenti ai fini della redazione della tesi di laurea. Di qui i dubbi circa la possibilità di avvalersi di essa per negare, nel caso concreto, l'accesso alla documentazione richiesta.
Per la soluzione della questione posta, si ritiene, tuttavia, opportuno richiamare altra normativa che parrebbe contenere dei riferimenti idonei a consentire, entro determinati limiti, la consultabilità dei documenti richiesti. Ci si riferisce, in particolare, all'articolo 124 del D.Lgs. 42/2004 il quale, al comma 1, recita: 'Salvo quanto disposto dalla vigente normativa in materia di accesso agli atti della pubblica amministrazione, lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali disciplinano la consultazione a scopi storici dei propri archivi correnti e di deposito'.
In generale, nella definizione di 'consultazione a scopi storici' potrebbe farsi rientrare anche il caso in esame relativo, propriamente, ad una ricerca per specifici motivi di studio (quale pare essere la redazione di una tesi di laurea): in tal senso, infatti, pare deporre il Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici, emanato dal Garante per la protezione dei dati personali,
[7] che, all'articolo 1, comma 1, specifica che 'le presenti norme sono volte a garantire che l'utilizzazione di dati di carattere personale acquisiti nell'esercizio della libera ricerca storica e del diritto allo studio e all'informazione, nonché nell'accesso ad atti e documenti, si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone interessate, in particolare del diritto alla riservatezza e del diritto all'identità personale'.
Sempre da un punto di vista definitorio si precisa che l'archivio corrente è costituito dal complesso di documenti relativi ad affari ed a procedimenti amministrativi in corso di istruttoria e di trattazione o comunque verso i quali sussista un interesse corrente; l'archivio di deposito comprende, invece, il complesso dei documenti relativi ad affari e a procedimenti amministrativi esauriti. Tale archivio è definito, anche 'intermedio' proprio perché si tratta di 'una fase intermedia del ciclo di vita degli archivi, tra quella dell'archivio corrente e quella dell'archivio storico'.
[8] Per completezza espositiva si segnala che esiste anche l'archivio storico che è formato dall'insieme dei documenti relativi ad affari ed a procedimenti amministrativi esauriti, destinati alla conservazione perenne.
Quanto all'accesso agli atti facenti parte dei suindicati archivi il D.Lgs. 42/2004, prevede la libera consultabilità dei documenti conservati negli archivi storici (articolo 122, comma 1)
[9] mentre, per quelli facenti parte degli archivi correnti e di deposito soccorre il disposto di cui all'articolo 124 sopra riportato che demanda al singolo ente il compito di disciplinare tale consultazione. In difetto della stessa si ritiene debbano soccorrere gli indirizzi generali stabiliti dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, richiamati dal comma 2 dell'articolo 124 del D.Lgs. 42/2004 il quale prevede che: 'La consultazione ai fini del comma 1 degli archivi correnti e di deposito degli altri enti ed istituti pubblici, è regolata dagli enti ed istituti medesimi, sulla base di indirizzi generali stabiliti dal Ministero'. Atteso che, alla data odierna, pare che gli indicati indirizzi non siano stati emanati, si ritiene che, in luogo degli stessi, si debba fare riferimento ai principi generali contenuti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio. [10]
Concludendo, la normativa esistente parrebbe riconoscere un diritto di consultazione per motivi di studio e ricerca che si aggiungerebbe a quello di accesso agli atti amministrativi previsto dalla legge 241/1990. È cura dell'Ente stabilire le modalità di esercizio di un tale diritto, ad esempio prevedendo o meno che esso si estrinsechi nella sola presa visione degli atti richiesti o possa estendersi anche alla possibilità di ottenerne copia.
Concludendo, le due normative citate porterebbero a ritenere esistente il diritto di accesso/consultabilità dei documenti richiesti: il distinguo tra le due si concretizzerebbe nelle modalità con cui consentire tale accesso atteso che, ai sensi della legge 241/1990, il diritto di concretizza nel 'prendere visione e [...] estrarre copia di documenti amministrativi' [articolo 22, comma 1, lett. a)]
[11], invece il D.Lgs. 42/2004 demandando all'Ente la determinazione delle modalità di consultazione parrebbe consentire una diversa modulazione delle modalità di accesso.
Giova ricordare, da ultimo, che nel caso in cui tra i documenti richiesti ve ne siano alcuni contenenti dati personali, la consultazione degli stessi è assoggettata alle disposizioni del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196 recante 'Codice in materia di protezione dei dati personali'. Questi, in particolare, al Titolo VII, rubricato 'Trattamento per scopi storici, statistici o scientifici', agli articoli 97 e seguenti, detta una serie di norme afferenti il trattamento dei dati personali effettuato per scopi storici, statistici o scientifici.
[12] L'articolo 102 del codice in materia di protezione dei dati personali rimanda, poi, al codice di deontologia e di buona condotta per i soggetti pubblici e privati interessati al trattamento dei dati per scopi storici. Si tratta del codice già emanato dal Garante per la protezione dei dati personali in applicazione dell'articolo 6 del decreto legislativo 30.07.1999, n. 281, [13] cui si rinvia. [14]
Per completezza espositiva, si segnala che anche il D.Lgs. 42/2004, all'articolo 126, rubricato 'Protezione dei dati personali' dispone, al comma 3, che: 'La consultazione per scopi storici dei documenti contenenti dati personali è assoggettata anche alle disposizioni del codice di deontologia e di buona condotta previsto dalla normativa in materia di trattamento dei dati personali'.
Anche la legge 241/1990, all'articolo 24, comma 6, lett. d), nel disciplinare le ipotesi di esclusione del diritto di accesso, contempla espressamente la tutela della riservatezza di persone fisiche (e giuridiche). Con la modifica della legge 241/1990, operata dalla legge 11.02.2005, n. 15, è stato disciplinato il rapporto tra diritto di accesso e riservatezza dei terzi, nel senso che 'deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici' (art. 24, comma 7).
[15]
Alla luce delle su indicate considerazioni l'Ente valuti l'opportunità, ad esempio, di adottare accorgimenti idonei a non rivelare i nominativi dei privati cittadini che hanno presentato gli elaborati progettuali di cui si chiede l'ostensione,
[16] considerando oltretutto che si tratterebbe di elementi non necessari per lo scopo per cui il diritto di accesso viene richiesto.
Con riferimento specifico all'accesso agli elaborati progettuali si rileva che la giurisprudenza tende a negare che il progettista -titolare del diritto d'autore sugli elaborati progettuali- sia un soggetto legittimato a bloccare l'accesso alla documentazione che forma la pratica del permesso di costruire. Si afferma, infatti che: 'Le norme in materia di proprietà intellettuale non impediscono l'accesso agli elaborati progettuali contenuti nel fascicolo del procedimento; tali elaborati, d'altra parte, risultano protetti in sede civile e penale, per il diritto di autore, mediante la tutela apprestata dall'ordinamento'.
[17]
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[1] Recita l'articolo 34 Cost: 'La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso'.
[2] TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, sentenza del 10.02.2016, n. 1894.
[3] ANCI, parere del 17.03.2009.
[4] Si trattava di una richiesta di accesso per motivi di studio (analisi di atti per tesi di laurea).
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 23.05.1997, n. 549.
[6] Non è stato possibile recuperare il testo integrale della sentenza ma solo una serie di massime relative alla stessa.
[7] Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento n. 8/P/2001 del 14.03.2001.
[8] Così in Direzione generale per gli archivi, «Cosa s'intende per 'archivio corrente' e per 'archivio storico'» reperibile sul seguente sito internet: www.archivi.beniculturali.it
[9] Con le limitazioni indicate nel medesimo articolo alle lett. a) e b) del comma 1.
[10] In questi termini si è espressa la Soprintendenza archivistica per il Piemonte e la Valle d'Aosta, nel promemoria 'Obblighi di legge dell'ente pubblico riguardo al proprio archivio', Torino, giugno 2005, pag. 11. Anche l'ANCI, nell'affrontare una questione analoga, nel parere del 23.10.2009, ha affermato che: 'L'accesso agli atti è previsto a favore di chiunque avanzi richiesta per motivi di studio sin a partire dai risalenti artt. 21 e 22 del D.P.R. 1409/1963. La disciplina di riferimento, [...] è oggi puntualmente contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004 [...], segnatamente agli artt. 122, 123 e 124. [...] Alla luce di quanto evidenziato, trova pertanto applicazione il Regolamento per l'accesso agli atti vigente nell'Ente Locale, ferma restando -in mancanza del prescritto Regolamento- l'osservanza dei principi generali di cui al Codice ed alla L. n. 241/1990 in tema di accesso'.
[11] Si veda, altresì, l'articolo 25, comma 1, della legge 241/1990 il quale recita: 'Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura.'.
[12] Si osserva che, ai sensi dell'articolo 4, comma 4, del D.Lgs. 196/2003, «ai fini del presente codice si intende per:
a) 'scopi storici', le finalità di studio, indagine, ricerca e documentazione di figure, fatti e circostanze del passato;
b) 'scopi statistici', le finalità di indagine statistica o di produzione di risultati statistici, anche a mezzo di sistemi informativi statistici;
c) 'scopi scientifici', le finalità di studio e di indagine sistematica finalizzata allo sviluppo delle conoscenze scientifiche in uno specifico settore».
[13] Recante 'Disposizioni in materia di trattamento dei dati personali per finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica.' Tale decreto legislativo è stato abrogato dall'articolo dall'art. 183, del D.Lgs. 196/2003, ad eccezione degli articoli 8, comma 1, 11 e 12.
[14] Provvedimento n. 8/P/2001 del 14.03.2001
[15] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 27.05.2008, n. 2511. Il Consiglio di Stato rileva come il D.Lgs. 196/2003 abbia demandato interamente alla legge 241/1990 la regolamentazione del rapporto accesso-privacy (artt. 59 e 60 del D.Lgs. 196/2003). E così, in base all'articolo 24, comma 7, della legge 241/1990, si possono delineare tre livelli di protezione dei dati personali dei terzi a seconda della loro natura: l'accesso ai dati comuni (quale è il caso in esame) è consentito qualora sia 'necessario' alla difesa dei propri interessi; l'accesso ai dati sensibili e giudiziari è consentito nei limiti in cui sia 'strettamente indispensabile'; l'accesso ai dati super sensibili (idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale) è consentito nei termini di cui all'art. 60 del Codice, e dunque se la situazione giuridicamente rilevante è 'di rango almeno pari' alla tutela del diritto alla riservatezza.
[16] Ad esempio, oscuramento dei nomi, uso delle sole iniziali, ecc.
[17] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 10.01.2005, n. 34. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Campania, Salerno, sez. I, sentenza del 09.10.2006, n. 1619. Sul punto si vedano, anche, in senso conforme, i pareri dell'ANCI del 02.08.2006 e del 17.11.2010
(04.04.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Solare free sui tetti.
«Libera» l'installazione di pannelli solari negli immobili ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente, con la sottrazione al controllo autorizzativo paesaggistico. Ma questo nel solo caso in cui il posizionamento degli impianti sul tetto o sul lastrico solare sia tale da non poter essere visibile dall'esterno.

Questo è quanto si legge nella nota 15.03.2016 n. 7716 di prot. del Ministero dei beni culturali in merito all'installazione di impianti solari fotovoltaici con il modello unico negli immobili ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente.
Ricordiamo che il decreto del ministro dello sviluppo economico 19.05.2015 ha introdotto l'iter semplificato (cosiddetto modello Unico) per la realizzazione, la connessione e l'esercizio di nuovi impianti fotovoltaici per i quali sia richiesto contestualmente l'accesso al regime dello scambio sul posto.
I produttori interessati dovranno pertanto interfacciarsi esclusivamente con i gestori di rete per inoltrare il modello Unico (articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).

NEWS

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Addio immediato per gli incentivi ai progettisti della Pa. Personale. Gli effetti della riforma in busta paga.
Aboliti tutti i vecchi compensi per la progettazione. Sarà il primo effetto sulla busta paga dei dipendenti pubblici dell’approdo in Gazzetta Ufficiale del nuovo Codice degli appalti, che non annovera queste attività fra le destinatarie dell’incentivo.

La data di pubblicazione, che coincide con l’entrata in vigore, costituisce lo spartiacque per la quantificazione dei premi che potranno essere liquidati.
Ben pochi problemi si pongono per le opere concluse, per le quali, senza dubbio, c’è da applicare la vecchia normativa e, di conseguenza, il vecchio regolamento, anche se aggiornato all’ultima modifica normativa precedente il nuovo Codice vale a dire l’articolo 13-bis del Dl 90/2014.
Particolare attenzione si deve prestare alle opere il cui processo di realizzazione era in corso alla data di ieri. Per queste, la norma non prevede alcun regime transitorio e, quindi, si apre un non scontato processo interpretativo. Se da un lato manca una giurisprudenza consolidata in materia, dall’altro vi è da registrare un orientamento costante della Corte dei Conti, che individua, quale momento rilevante per l’applicazione della norma, il compimento dell’attività oggetto di incentivazione.
La questione era già sorta e risolta nel 2009, quando il balletto dei compensi fu sfrenato. I magistrati contabili, con la delibera 7/2009 della sezione Autonomie, avevano affermato il principio della correlazione fra compenso e momento in cui la prestazione è stata effettivamente resa: posizione confermata lo scorso anno dalla stessa Corte (delibera 11/2015 della sezione Autonomie).
Oggi, quindi, gli uffici tecnici devono provvedere alla redazione di uno stato di avanzamento lavori, in cui evidenziare puntualmente le attività di progettazione effettuate fino al giorno prima della pubblicazione in Gazzetta. Se non obbligatoria nell’immediato, è opportuno provvedervi a breve per evitare che la ricostruzione a distanza diventi, oltre che complessa, anche imprecisa, aprendo la porta al contenzioso e, quindi, al danno erariale.
Ovviamente, oltre a questo, è necessario iniziare a pensare al nuovo contratto decentrato e al nuovo regolamento, che recepiscano le novità. Dall’entrata in vigore del regolamento attuativo del Codice degli appalti, gli incentivi possono essere destinati solo alle attività tecnico-burocratiche, un tempo escluse, relative alla programmazione, alle procedure di gara, all’esecuzione dei contratti, alla verifica di conformità eccetera; fino a un massimo dell’1,6% dell’importo a base di gara può essere destinato al responsabile unico del procedimento, agli incaricati di funzioni tecniche e ai loro collaboratori.
Tutto questo non vuol dire ovviamente che i tecnici interni abbiano il diritto di riporre la matita nel cassetto in quanto la progettazione rientra nelle mansioni ascrivibili al loro profilo professionale: ma senza “premio
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Massimo ribasso subito ridotto. Per rating di impresa e sorteggio commissioni serviranno disposizioni attuative.
Appalti. Il nuovo Codice è arrivato alla firma del Capo dello Stato: potrebbe essere pubblicato ed entrare in vigore già oggi.

È atteso in Gazzetta a partire da oggi il nuovo Codice appalti (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare), approvato in Consiglio dei ministri venerdì 15 aprile.
Ieri il decreto ha ricevuto la «bollinatura» della Ragioneria ed è andato alla firma del Capo dello Stato, ultimo passaggio formale prima della pubblicazione. Il provvedimento è arrivato al Quirinale in serata, fuori tempo massimo per poter rispettare gli annunci che davano per certa la pubblicazione per ieri, 18 aprile, data di entrata in vigore delle nuove direttive europee che il Codice recepisce.
Il decreto legislativo entrerà in vigore il giorno stesso della pubblicazione. Ma non tutte le misure previste dai suoi 220 articoli saranno subito operative. Peraltro, il testo uscito dal Consiglio dei ministri ha riservato più di una sorpresa rispetto a quello di entrata.
La principale riguarda le misure di trasparenza sui piccoli appalti. Al contrario di quanto prevedevano le ultime bozze, nella versione definitiva non hanno trovato posto le richieste avanzate dal Parlamento (e dal Consiglio di Stato) sulla necessità di accendere un faro sui piccoli lavori, rendendo obbligatorie le gare precedute da un bando, per gli appalti sopra i 150mila euro: a sorpresa, l’ultimo testo lascia tutto più o meno come è oggi, con la possibilità di affidare gli appalti fino a un milione (coprono l’80% del numero di bandi) con una procedura negoziata (ex trattativa privata) senza bando, ritenendo sufficiente chiedere un preventivo a dieci imprese («ove esistenti»).
L’altra novità dell’ultim'ora riguarda i lavori delle concessionarie da affidare all’80% con gara. Salta la deroga che avrebbe permesso alle società (in particolare quelle che hanno in gestione autostrade) di continuare a realizzare i lavori in house, se gestiti attraverso risorse interne («amministrazione diretta»).
Scatterà da subito la limitazione del massimo ribasso: assegnare i contratti tenendo conto solo del prezzo sarà possibile solo per le opere sotto il milione. Negli altri casi diventa obbligatoria l’offerta economicamente più vantaggiosa (prezzo più qualità). Massimo ribasso vietato da subito anche per i servizi di progettazione, quelli ad alta intensità di manodopera (costo del personale oltre il 50%), ristorazione scolastica e ospedaliera.
L’entrata in vigore segna anche l’addio all’appalto integrato. Per assegnare un cantiere, la Pa dovrà mettere a gara un progetto esecutivo, tranne nei casi di appalto a general contractor (ormai una rarità) o di operazioni finanziate da privati. Salta subito anche l’incentivo del 2% per i progetti svolti da tecnici interni alla Pa (si veda l’articolo a fianco).
Due buone notizie per le Pmi. Ridotta a un massimo di 5mila euro la sanzione per sanare le offerte incomplete. Con un importante chiarimento: paga solo chi non vuole essere escluso. La seconda novità è il pagamento diretto per microimprese e Pmi, con contestuale svincolo dalla responsabilità solidale per il titolare del contratto.
Subito operativi anche la stretta sui ricorsi, il tetto al 30% per il contributo pubblico nel project financing e lo sconto sulla cauzione per le imprese con rating di legalità.
Ci vorrà tempo invece per far alcune delle novità più attese della riforma. Servono infatti provvedimenti specifici dell’Anticorruzione per attivare il rating di impresa chiamato a valutare (e premiare) la reputazione conquistata sul campo dai costruttori. Per lo stesso motivo non partiranno subito le commissioni di gara estratte a sorte da un albo gestito dall’Anac (ma solo per gli appalti sopra la soglia Ue) e la qualificazione delle stazioni appaltanti, utile anche alla spending review
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO: Conflitto d’interessi anche per delega. Può scattare un «contrario interesse istituzionale del condominio». In assemblea. Il professionista non può più riceverle ma la norma non ha divieti per i suoi collaboratori.
La delega in assemblea è una rotella fondamentale del meccanismo. Ma non può essere troppo ingombrante. La partecipazione delegata alle assemblee di condominio è disciplinata dall’articolo 67 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile: «ogni condomino può intervenire all’assemblea anche a mezzo di rappresentante». La funzione della delega è quella di consentire al condòmino che non possa presenziare all’assemblea di parteciparvi ugualmente, per mezzo di una persona dallo stesso designata.
La delega può essere sempre conferita, anche senza uno specifico impedimento, e può risultare particolarmente utile nel caso in cui, ad esempio, non ci si ritenesse in grado di affrontare determinati argomenti di particolare complessità, preferendo affidarsi ad un esperto. Il delegante sarà considerato presente in assemblea ad ogni effetto di legge. Una guida completa alle deleghe in assemblee sarà pubblicata domani sul Quotidiano Condominio del Sole 24 Ore.
Il conflitto di interessi è quella situazione conflittuale, anche potenziale, nella quale ciascun condòmino può trovarsi in relazione alla gestione del condominio. Secondo la Cassazione «sussiste il conflitto di interessi ove sia dedotta e dimostrata in concreto una sicura divergenza tra specifiche ragioni personali di determinati singoli condomini, il cui voto abbia concorso a determinare la necessaria maggioranza ed un parimenti specifico contrario interesse istituzionale del condominio» (Cass. n. 13004/2014).
Le situazioni di conflitto possono coinvolgere i singoli condòmini per le circostanze più varie. Molto spesso, soprattutto in caso di delega in bianco, la situazione di conflittualità può riguardare anche il soggetto delegato. Si tratta comunque di una nozione non tipizzata dal codice, anche dopo la legge di riforma del 2012, per cui rimangono validi i principi elaborati in giurisprudenza.
Alcuni esempi: il condòmino è in conflitto d’interessi se l’assemblea deve decidere di fargli causa; oppure è potenzialmente in conflitto d’interessi se l’assemblea deve decidere di riconoscergli la spesa urgente di gestione effettuata ex articolo 1134 del Codice civile
La delibera votata dal condòmino in conflitto d’interessi è da ritenersi annullabile (Cass. n. 18192/2009) e va impugnata nei modi e termini di cui all’articolo 1137 del Codice civile. Il condòmino che impugna la delibera avrà l’onere di provare: 1) l’esistenza del conflitto d’interesse; 2) che il voto del condòmino in conflitto è stato determinante per l’approvazione della delibera impugnata; 3) che la delibera impugnata gli ha recato un danno.
È possibile che la situazione di conflitto riguardi il soggetto delegato.
In questi casi, il conflitto di interessi del delegante non si estende al condòmino delegato: se Mario, in conflitto di interessi, delega il condòmino Luigi, non potrà essere computato il voto dato da Luigi quale delegato di Mario, mentre sarà valido il voto dato da Luigi a nome proprio. Qualora, invece, sia il delegato a trovarsi in conflitto di interessi, l’invalidità del voto espresso in proprio dal delegante non si estende automaticamente al voto espresso quale delegato, occorrendo indagare se la situazione di conflitto fosse nota o meno al delegante: solo nel secondo caso, il voto del delegante sarà valido (Cassazione, sentenza 18192/2009).
Una delle ipotesi in cui maggiormente si verificavano situazioni di conflitto d’interessi era la delega conferita da uno o più condòmini all’amministratore del condominio. Oggi il nuovo comma 5 del citato articolo 67 (introdotto dalla legge 220/2012) dispone il divieto assoluto di delega all’amministratore, così risolvendo il problema alla radice.
La riforma ha eliminato ogni dubbio vietando sempre la partecipazione delegata dell’amministratore in assemblea. Se il divieto è violato, la relativa delibera è annullabile e impugnabile ai sensi dell’articolo 1137 del Codice civile. Il condòmino che agisce per l’annullamento dovrà dimostrare che la delibera è stata illegittimamente votata dall’amministratore e tale voto è stato determinante per l’approvazione.
Non è più necessario, invece, dimostrare la situazione di conflitto, in quando l’invalidità è legata esclusivamente alla violazione del divieto di delega. Una bella semplificazione.
Tuttavia, rimangono alcune perplessità sull’efficacia pratica del divieto. La norma, ad esempio, non esclude la possibilità di conferire la delega ad un collaboratore dell’amministratore, a un suo parente stretto oppure all’ex amministratore, per cui, nella sostanza, alcune situazioni conflittuali potrebbero ripresentarsi in vesti diverse. Problemi potrebbero sorgere poi sulla applicabilità del divieto all’amministratore che sia anche lui stesso condòmino
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, opzioni entro il 18 maggio. Personale. Al via le richieste di nuova destinazione per gli esuberi di enti di area vasta e Croce rossa.
È partita ieri la nuova fase del processo di mobilità che deve ricollocare in un nuovo ufficio i 3.515 «esuberi» delle Province (sono 1.644) e della Croce rossa (gli altri 1.871).
Il portale della mobilità gestito dalla Funzione pubblica ha infatti pubblicato gli elenchi nominativi dei dipendenti interessati provincia per provincia e, con le stesse modalità, quello dei posti disponibili. Gli interessati avranno tempo fino al 18 maggio per esercitare l’opzione, dopo di che resteranno due mesi per concludere la procedura: nei primi 30 giorni la Funzione pubblica assegnerà alla nuova destinazione i dipendenti, che dovranno prendere servizio entro i 30 giorni successivi.
Come emerso però dalle prime analisi (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 marzo), in alcune province del Sud l’elenco delle persone in cerca di ricollocazione è più lungo di quello dei posti offerti da Regioni e Comuni. Il quadro cambia tuttavia quando si considerano nel conto anche i posti messi a disposizione dal ministero della Giustizia nei tribunali e, anche se meno numerosi, quelli aperti da altre articolazioni territoriali della Pubblica amministrazione centrale.
La questione riguarda in particolare alcune Province di Campania e Puglia, mentre è più sfumata in Molise, Umbria e Basilicata. In ogni caso, i primi calcoli dei tecnici del governo, che naturalmente devono tenere conto della compatibilità dei profili richiesti e offerti oltre che dell’incrocio dei numeri, indicano in circa 200 i casi più “problematici”: per loro, i tempi potrebbero allungarsi un po’ rispetto al calendario normale, ma resta confermato l’obiettivo della piena ricollocazione come ricordato nei giorni scorsi dalla stessa ministra della Pa e innovazione Marianna Madia
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.04.2016).

APPALTI: Reati in gara, Gdf guardiana. Indagini finanziarie e interventi per i commissariamenti. APPALTI/ La circolare della Guardia di finanza ne delinea il ruolo a fini anticorruzione.
Possibili indagini finanziarie da parte della Guardia di finanza sulle imprese, oltre ad altri interventi per verificare l'applicazione delle norme del codice dei contratti pubblici e finalizzati anche al commissariamento delle ditte in caso di reati contro la pubblica amministrazione. Accertamenti delle Fiamme gialle mirati per il rilascio del rating di legalità.

È quanto stabilisce la circolare emessa dal Comando generale della Guardia di finanza il 14 aprile scorso, indirizzata ai comandi regionali e alle unità speciali, relativamente all'attività di collaborazione del corpo con l'Autorità nazionale anticorruzione, a valle del protocollo di intesa siglato nello scorso settembre che avrà validità tre anni (si veda quanto anticipato da ItaliaOggi del 15 aprile scorso).
Ai già rafforzati poteri previsti dal nuovo codice dei contratti pubblici approvato venerdì scorso (si veda altro articolo a pag. 33), si affianca quindi, sul lato operativo, la Guardia di finanza che dovrà rendere effettiva l'attuazione concreta dei compiti affidati dalla legge all'Authority di Raffaele Cantone a valle del protocollo di intesa.
Il fondamento del potere di verifica e accertamento della Guardia di finanza è nell'abrogando Codice dei contratti pubblici (articolo 6, comma 9) e viene raccordato anche con la disciplina di cui all'articolo 32 della legge 90/2014, che ha anche previsto la possibilità di commissariare le imprese (interventi Expo e Mose).
L'accordo di collaborazione prevede in particolare la possibilità di fare ispezioni nei confronti delle stazioni appaltanti, degli operatori economici e di ogni amministrazione e società a partecipazione pubblica relativamente alle procedure di affidamento di lavori, forniture e servizi.
Le Fiamme gialle potranno inoltre essere attivate per i controlli sul sistema di qualificazione Soa (sistema confermato dal nuovo dei contratti pubblici) con riguardo all'assetto societario, patrimoniale, organizzativo e di governance, al riscontro di requisiti di indipendenza che gli organismi di attestazione devono assicurare per il rilascio delle attestazioni alle imprese di costruzioni che ne fanno richiesta.
Da notare che il nuovo codice dei contratti pubblici prevede una revisione straordinaria sulle Soa da effettuarsi entro tre mesi da parte dell'Anac; probabile quindi l'imminente attivazione della Guardia di finanza. Non solo: i finanzieri potranno anche controllare l'ottemperanza delle decisioni dell'Anac (indirizzate sia alle stazioni appaltanti, sia agli operatori economici) e agire con riferimento alle misure sul «commissariamento» delle imprese disposto in caso di problemi di corruzione e altri reati contro l'Amministrazione.
Prevista l'attivazione della Gdf, da parte dell'Autorità presieduta da Cantone, anche per il rating di legalità (previsto nel nuovo codice appalti), oltre che dall'Antitrust, per gli accertamenti connessi al rilascio del rating delle impresa. La collaborazione avrà anche ad oggetto il rispetto della disciplina sulla prevenzione della corruzione nella p.a. (legge Severino), rivolta alle amministrazioni e agli enti pubblici e agli enti di diritto privato sotto controllo pubblico (ad esempio, sui piani di prevenzione, sulle verifiche in tema di obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione).
Gli interventi potranno essere «congiunti» con personale Anac e delle Fiamme gialle, o autonomi con il personale in forza al Nucleo speciale della Gdf. Per quel che riguarda l'esercizio dei poteri di accertamento fiscale, i nuclei di polizia tributaria delle fiamme gialle potranno, su richiesta dell'Anac, richiedere alle amministrazioni comunicazioni di dati e notizie rilevanti ai fini istruttori, eseguire accessi presso le amministrazioni per acquisire direttamente i documenti, «effettuare accessi, ispezioni, verifiche e indagini finanziarie» inerenti ai soggetti affidatari dei contratti pubblici.
La Guardia di finanza dovrà informare l'Anac se nel corso delle proprie attività istituzionale venisse a conoscenza di «elementi di interesse per l'Anac». Previsto anche lo scambio di informazioni fra le banche dati della Gdf e quelle dell'Anac (articolo ItaliaOggi del 19.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: Appalti, riforma graduale. Attesi 50 decreti. E le linee guida dell'Anac. Il nuovo codice oggi in Gazzetta. Cabina di regia per l'attuazione.
Soppresso il vecchio codice degli appalti, la palla passa ai decreti attuativi. Poco meno di 50 provvedimenti, fra cui le linee guida generali dell'Anac che dovrebbero vedere la luce entro fine luglio e a breve saranno messe in consultazione pubblica. Le norme del dpr 207/2010 (regolamento del Codice De Lise) non incompatibili con il nuovo codice decadranno comunque entro la fine del 2016.

Sono questi gli effetti derivanti dalla entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, il decreto legislativo n. 50/2016, approvato venerdì dal consiglio dei ministri in via definitiva e atteso oggi in G.U. (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Le nuove norme si applicheranno alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o gli avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati dopo l'entrata in vigore del decreto delegato. Non solo: il nuovo codice si applicherà anche ai contratti per i quali non è stata data pubblicità ai bandi e agli avvisi; per tali fattispecie contrattuali il decreto prevede che le nuove norme risultino applicabili se alla data di entrata in vigore del nuovo codice non sono stai ancora inviati gli inviti a presentare offerte.
Pertanto, per esempio, a una procedura negoziata senza bando di gara laddove la stazione appaltante non abbia ancora inviato la lettera di invito ai soggetti individuati a seguito di indagine di mercato. L'entrata in vigore del nuovo decreto ha però, come effetto più rilevante, l'immediata soppressione del dlgs163/2006 e di ogni sua modifica successiva, disposta dall'articolo 217 del testo: da oggi, quindi, si applicano tutte le nuove norme contenute nei 217 articoli del decreto delegato, sostitutivo del codice del 2006.
Il problema però è che al codice De Lise erano collegate anche molte norme del dpr 207/2010 (il regolamento attuativo del codice del 2006) che, in alcune materie, dettavano (dettano) un cospicuo apparato regolatorio (si pensi al tema della qualificazione delle imprese di costruzioni, ai livelli progettuali, alla disciplina dell'esecuzione del contratto, alle regole per l'affidamento di servizi di ingegneria e architettura).
Nel nuovo sistema il regolamento non esisterà più e al suo posto vi sarà una congerie di atti che, in larga misura, faranno capo all'Anac (linee guida generali e di dettaglio), alla presidenza del consiglio, al ministero delle infrastrutture, al Consiglio superiore dei lavori pubblici e ad altri dicasteri, con modalità di concerto le più svariate. Rispetto a questa pluralità di provvedimenti e di soggetti chiamati ad attuare il codice, con varie modalità, il Consiglio di stato nel parere reso due settimane fa aveva espresso «preoccupazione».
Sarà fondamentale che la cabina di regia istituita ai sensi dell'articolo 212 del codice presso la presidenza del consiglio dei ministri riesca a coordinare il complesso iter attuativo fra i diversi soggetti. Alla fine la cabina di regia potrà anche prevedere la «raccolta in testi unici integrati, organici e omogenei» dei decreti e linee guida adottate da qui al prossimo anno.
Il regolamento del 2010 rimarrà vigente fino a quando non saranno entrati in vigore tutti i provvedimenti di attuazione previsti dal codice stesso.
Si prevede inoltre che ogni provvedimento attuativo dovrà effettuare la ricognizione delle norme del dpr 207 che si intenderanno abrogate; per le norme che non formeranno oggetto di ricognizione l'abrogazione scatterà in ogni caso entro il 31.12.2016 a condizione che non siano incompatibili con il nuovo codice o con ulteriori provvedimenti, anche dell'Anac. È poi lo stesso codice a elencare alcune delle discipline regolamentari (e non) da salvare fino a quando i provvedimenti attuativi non saranno adottati (e i termini, quando ci sono, varieranno da sessanta giorni a un anno).
Infine occorrerà attendere il più importante di tutti i provvedimenti di attuazione: le linee guida generali dell'Anac che, di fatto, sostituiranno in buona misura il regolamento del codice dei contratti pubblici. A breve la Commissione presieduta da Michele Corradino lancerà la consultazione pubblica su una bozza, ma la natura regolamentare comporterà una vera corsa contro il tempo (articolo ItaliaOggi del 19.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province. Mobilità da chiudere per giugno.
Completare entro giugno il trasferimento dei dipendenti soprannumerari delle province in modo che gli oltre 1.600 lavoratori ancora in attesa di ricollocamento non pesino più sui bilanci degli enti di area vasta.

È la richiesta che l'Unione delle province italiane (Upi) ha formalizzato ieri nel corso dell'audizione davanti alle commissioni bilancio di camera e senato sul Documento di economia e finanza. La procedura online per far incontrare domanda e offerta di lavoro, gestita dal portale www.mobilita.gov.it, è ormai pienamente attiva.
A partire da ieri, infatti, i dipendenti degli enti di area vasta e della Croce rossa italiana, presenti nelle liste della domanda di mobilità, dopo aver attivato la propria utenza sul portale, potranno esprimere le proprie preferenze di assegnazione tra i posti resi disponibili dalle amministrazioni pubbliche (offerta di mobilità). Il termine finale di presentazione dell'istanza è fissato alle ore 24,00 del 18 maggio.
L'auspicio dell'Upi è che entro giugno l'intero processo di trasferimento possa dirsi completo, in modo da portare ad attuazione quella che è stata definita «la più grande operazione di trasferimento del personale nella p.a. mai affrontata prima nella storia della Repubblica», con oltre 20 mila lavoratori spostati (nelle regioni, nei comuni e nella amministrazioni statali).
Nell'audizione l'Upi ha sottolineato come la trasformazione delle province in enti di secondo livello con meno competenze e ridotti costi della politica abbia prodotto risparmi per circa un miliardo e mezzo di euro, visto che dalla piena entrata a regime della legge Delrio (n. 56/2014) la spesa corrente dei 76 enti di area vasta delle regioni a statuto ordinario interessate dalla riforma, è passata da 4,385 miliardi a 2 miliardi e 870 milioni. Un dato di cui anche il Def dà merito agli enti.
Tuttavia, rimarca l'Upi, il Def non affronta il problema del progressivo taglio di risorse che sta mettendo in ginocchio le province al punto che, a fine 2015, si registravano tre enti in dissesto e dieci in procedura di riequilibrio, oltre a un quasi generalizzato sforamento del Patto (articolo ItaliaOggi del 19.04.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: La delega Pa inciampa sull’attuazione. I decreti. Su trasparenza e semplificazioni i pareri del Consiglio di Stato sottolineano la distanza fra il valore strategico degli interventi e le regole scritte per applicarli.
Le ultime obiezioni sono arrivate venerdì scorso, sul decreto che prova a semplificare le autorizzazioni della Pa alle imprese e prevede il dimezzamento dei tempi con la possibilità per lo Stato di “commissariare” le regioni e gli enti locali ritardatari; ma anche sulla copia italiana del Freedom of Information Act, sul nuovo Codice dell’amministrazione digitale, sulle semplificazioni per la Scia e sulla riforma della Conferenza dei servizi i passaggi al Consiglio di Stato dei decreti attuativi della riforma Madia si sono rivelati tutt’altro che lisci, e lo stesso è accaduto alle regole anti-furbetti.
Ottima la strategia, hanno detto praticamente in tutte le occasioni i giudici amministrativi, ma se i decreti attuativi non funzionano il rischio di peggiorare ulteriormente la situazione è alto.
La matita rossa dei giudici amministrativi si è trovata spesso a sottolineare le regole chiamate a tradurre in pratica le parole d’ordine della riforma, cioè «trasparenza», «innovazione» e «semplificazione». Il problema è apparso chiaro fin dal primo parere, quello che a metà febbraio si è concentrato sul decreto trasparenza. Il provvedimento, intitolato allo scopo ambizioso di introdurre anche da noi il passaggio «dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere» tipico della trasparenza totale di modello anglosassone, prima apre le porte dell’accesso agli atti anche a chi non è titolare di un «interesse specifico» e poi rimette in gioco un’antichissima forma di silenzio-rifiuto, in base al quale la mancata risposta in 30 giorni si traduce in un rigetto automatico della richiesta, senza obbligo di motivazione e senza sanzioni per i responsabili.
In questo modo, chiosa il Consiglio di Stato, «si verificherebbe il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la Pa non gli accorda l’accesso richiesto». Il tutto senza contare l’obbligo, per i cittadini che chiedono i dati, di rimborsare i costi sostenuti dalla Pa per fornirli: problema che secondo i giudici potrebbe essere eliminato prevedendo una richiesta solo telematica, perché senza costi reali non ci sarebbe neanche l’esigenza di finanziarli.
Nemmeno per il provvedimento sulla digitalizzazione, del resto, il passaggio sui tavoli dei giudici amministrativi si è rivelato un trionfo. Il nuovo Codice dell’amministrazione digitale ipotizzato dalla riforma, prima di tutto, con uno slancio ottimistico attribuisce valore probatorio a tutti i documenti firmati elettronicamente ma, osserva il Consiglio di Stato, oggi la firma elettronica può essere tante cose, a partire dalla «semplice password» che non garantisce davvero sull’origine del documento.
Accanto a un balzo in avanti, però, ce n’è uno indietro, che imporrebbe di togliere i nomi degli interessati da tutte le sentenze prima della pubblicazione, obbligo oggi previsto solo nei casi più “sensibili”: questa «anonimizzazione totale», che si affianca curiosamente alla «trasparenza totale» che ispira la riforma, inonderebbe le cancellerie di un nuovo lavoro, rallentando ulteriormente il core business della giustizia. Per questa ragione il Consiglio di Stato ha chiesto di togliere dal testo la norma, oltre che di ripensare l’obbligo di un capitale da almeno 5 milioni imposto agli operatori che si candidano a gestire l’identità digitale e la posta certificata: questa soglia, che ha scatenato la rivolta delle aziende interessate, è già stata giudicata «sproporzionata» dal Tar Lazio e il Consiglio di Stato chiede di motivarla meglio o di ripensarla.
In tutti questi casi, i giudici hanno sottolineato la distanza fra gli obiettivi della riforma, condivisi e considerati «strategici» dal Consiglio di Stato, e la loro traduzione pratica nei provvedimenti attuativi: cioè proprio nella fase cruciale per passare dalle parole ai fatti
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

LAVORI PUBBLICILavori edili, obblighi green per la Pa. I criteri di selezione per forniture e servizi si fondano su precisi requisiti ambientali.
Appalti. Le procedure introdotte dal 2 febbraio dal Collegato ambiente resteranno valide anche dopo il varo del nuovo Codice.

Le imprese che operano nel settore edilizio e vogliono lavorare come fornitori della pubblica amministrazione devono possedere specifici requisiti di carattere ambientale. In risposta ai propri bandi di gara, dallo scorso 2 febbraio la Pa non può infatti accettare offerte da parte di aziende prive di apposite qualifiche “verdi”. Se in precedenza il ricorso allo strumento del Gpp (Green public procurement) era volontario e non superava il 30% della fornitura, i criteri di selezione dei candidati sono ora tutti fondati sui sistemi di gestione ambientale.
Il cambio di passo è avvenuto con l’entrata in vigore del Collegato ambientale (legge 221/2015). In particolare, con gli articoli 18 e 19 è stato fissato l’obbligo (totale o parziale) di applicare i criteri ambientali minimi (Cam) negli appalti pubblici per le forniture e negli affidamenti dei servizi. La modifica incide direttamente sull’ancora vigente Codice degli appalti (Dlgs 163/2006), arricchendolo di nuove e specifiche norme. E conserverà tutta la sua valenza anche con la riforma del Codice, approvata il 15 aprile dal Consiglio dei ministri.
Ai settori già disciplinati dai Cam (o che lo saranno in futuro) l’obbligo di acquisto secondo i criteri ambientali di riferimento si applica in generale per almeno il 50% del valore della gara, sia sopra che sotto la soglia di rilievo comunitario. Ma tale percentuale sale al 100% del fabbisogno nel caso dei settori “energetici”: dunque, anche per le forniture di lampade, attrezzature elettriche ed elettroniche e servizi energetici per gli edifici.
Ai lavori pubblici edili, dove si assiste ad una vera e propria rivoluzione, tale obbligo di acquisto “verde” si attesta a non meno del 50% e il relativo Cam è stato definito dal Dm 24.12.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 16 del 21.01.2016). I nuovi criteri riguardano l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici, e per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione.
Il decreto ministeriale prevede che, per poter partecipare alla gara, l’offerente sia in possesso di una valida registrazione Emas (regolamento 1221/2009/Ce), oppure di una certificazione secondo la norma Iso 14001 o secondo norme di gestione ambientale attestate da organismi di valutazione della conformità. Sono accettate anche altre prove relative a misure equivalenti, quali una descrizione dettagliata del sistema di gestione attuato dall’offerente (ad esempio, politica ambientale), con particolare riferimento alle procedure di:
- controllo operativo, affinché tutte le misure previste dal Dpr 207/2010, articolo 15, commi 9 e 11, siano applicate all’interno del cantiere;
- sorveglianza e misurazioni sulle componenti ambientali;
- preparazione alle emergenze ambientali e risposta.
Uno specifico capitolo è quindi riservato alle tecniche del cantiere. Ma i Cam per l’edilizia si occupano anche di garantire la tutela del suolo e degli habitat naturali. A tal fine, la Pa appaltante deve analizzare le esigenze e valutare anche la possibilità di adeguare gli edifici esistenti e migliorarne la qualità. Deve anche comunicare all’Osservatorio dei contratti pubblici o all’Anac i dati sui propri acquisti e relativi all’applicazione dei Cam.
Tra i criteri premianti sono inclusi la capacità tecnica dei progettisti, il miglioramento prestazionale di progetto, l’installazione di un sistema di monitoraggio dei consumi, l’utilizzo di materiali rinnovabili.
Mentre, riguardo alle specifiche tecniche dei componenti edilizi, sussiste l’obbligo che nell’edificio «almeno il 15% in peso valutato sul totale di tutti i materiali utilizzati» sia costituito da materia prima secondaria: recuperata o riciclata. Tra i criteri particolari, si prevede che i materiali e i prodotti a base di legno debbano provenire da fonti legali, secondo quanto previsto dal regolamento 995/2010/Ue, o esser costituiti da legno riciclato
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti, via libera ai nuovi incarichi se già programmati. «Sì» anche per le funzioni fondamentali. Personale. L’accordo in Conferenza Unificata sul «congelamento».
Arriva a una soluzione di compromesso il problema legato al congelamento degli organici dirigenziali disponibili al 15 ottobre previsto dall’ultima manovra (comma 219 della legge 208/2015).
In Conferenza Unificata, dopo una lunga trattativa con i sindaci che puntavano a un’esclusione tout court dalla norma, sulla base del riferimento ai «dirigenti di prima e seconda fascia» che negli enti locali non esistono. L’ipotesi, contestata anche dalla Corte dei conti (
parere 17.03.2016 n. 73 della Puglia), non è passata, ma in Conferenza ci si è accordati sulla possibilità di i posti «specificamente previsti dalla legge o connessi allo svolgimento di funzioni fondamentali».
Non solo: in Conferenza si è deciso anche di considerate gli «atti di programmazione» tra le ipotesi di «avvio del procedimento» prima del 15 ottobre, che permettono di procedere con il conferimento degli incarichi, e si è aperta una terza possibilità, che permette di coprire le posizioni dirigenziali libere nelle strutture interessate da processi di ricognizione degli organici che riducono i posti entro il 31 dicembre.
Deve ancora chiarirsi, invece, il quadro sulle assunzioni bloccate dall’obbligo di ricollocazione degli esuberi provinciali. Per oggi è previsto l’avvio del sistema che permette a chi ha aderito alla mobilità di esercitare l’opzione sul nuovo ente di destinazione.
Il passaggio, annunciato nei giorni scorsi dalla ministra per la Pa e la semplificazione Marianna Madia, rappresenta una nuova tappa del meccanismo di ricollocazione del personale disegnato dal decreto del 14 settembre scorso, ed è atteso da tutta la Pubblica amministrazione locale: gli enti di area vasta, certo, aspettano di arrivare alla nuova collocazione strutturale delle loro risorse umane nel tentativo di rimettere ordine a bilanci sempre più zoppicanti, ma in fila ci sono anche tutti i Comuni che hanno le assunzioni bloccate fino al completamento della nuova geografia del personale provinciale.
Rispetto al calendario ufficiale, molto ottimista, previsto con il decreto dell’autunno scorso, l’apertura delle opzioni per il personale in soprannumero che ha presentato la domanda di mobilità arriva con tre mesi di ritardo, complici le inevitabili difficoltà di un processo così complesso. Proprio per il fatto che la corsia preferenziale per i ricollocamenti blocca le altre strade per il reclutamento dei Comuni, però, il dato non è privo di conseguenze. In base al decreto, i 1.644 dipendenti di Province e Città interessati dagli spostamenti avranno tempo fino a metà maggio per esercitare l’opzione, dopo di che toccherà alla Funzione pubblica assegnare, entro un altro mese, il personale alla nuova collocazione: a questo punto, ci sarà un altro mese di tempo per la presa di servizio.
Se tutto funziona come previsto, quindi, questi movimenti del personale si concluderanno nella seconda metà di luglio, rimandando nei fatti a settembre la possibilità per i Comuni di utilizzare gli spazi di turn-over ammessi dalla manovra: per il momento, come ribadito anche dalla Corte dei conti (parere 63/2016 della sezione Molise), gli enti locali possono utilizzare i «resti» del turn-over ereditati dagli anni precedenti.
Per questa ragione, le amministrazioni locali premono per liberare subito le assunzioni nelle regioni dove il problema delle ricollocazioni è superato, come previsto dalle norme: al momento il via libera è arrivato solo per la Polizia locale in sei regioni (Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Piemonte e Veneto), ma le amministrazioni premono per uno sblocco più generalizzato
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: Acquisti, sopra i 40mila euro serve la qualificazione Anac. Appalti. Con il nuovo Codice si rafforza la spinta alle procedure centralizzate.
Gli enti locali devono acquisire beni e servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria ricorrendo ai mercati elettronici o alle piattaforme telematiche, ma con le nuove regole in arrivo per le procedure di valore superiore ai 40mila euro dovranno ottenere la qualificazione dall’Anac.
Il nuovo Codice degli appalti
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) delinea un sistema con due articolazioni di valore, collegando la regola generale all’obbligo previsto dall’articolo 1, comma 450 della legge 296/2006.
Lo schema del nuovo sistema prevede una prima fascia entro i 40mila euro, nella quale l’ente può procedere all’acquisto di beni e servizi mediante affidamento diretto, dovendo fare ricorso agli strumenti elettronici o in alternativa aderire alle convenzioni-quadro (in entrambi i casi con lo strumento dell’ordine diretto).
Nella fascia superiore a 40mila euro e inferiore a 209mila la stazione appaltante, con adeguata qualificazione, deve utilizzare gli strumenti di negoziazione messi a disposizione da Consip o dai soggetti aggregatori regionali (quindi effettuando una richiesta di offerta): in tal caso la soddisfazione dell’obbligo (congiunto con quello stabilito dal comma 450) consente all’ente di gestire autonomamente l’acquisto.
Solo se questi strumenti non sono disponibili, la Pa ha margine per procedure tradizionali, che tuttavia deve realizzare con il ricorso alla centrale di committenza o comunque con percorsi ordinari (gara).
Il quadro viene così razionalizzato con un impulso all’utilizzo dei mercati elettronici e delle piattaforme telematiche, lasciando uno spazio limitato alle procedure tradizionali.
La novità più significativa è rinvenibile nella condizione fondamentale affinché la stazione appaltante possa operare in proprio nella fascia tra i 40mila euro e la soglia comunitaria, costituita dall’ottenimento della qualificazione, attraverso il percorso che sarà disegnato con un decreto (su proposta dell’Anac) in base ai criteri definiti nel Codice.
In termini operativi, le amministrazioni possono approfittare del periodo transitorio (che decorrerà dall’entrata in vigore del nuovo Codice fino alla definizione del sistema di qualificazione con decreto ministeriale) per analizzare la loro organizzazione per la gestione delle fasi dei processi di acquisto, ma anche per potenziare la formazione degli operatori e comporre l’assetto organizzativo con le misure anticorruzione.
Molta attenzione deve essere posta anche in relazione agli obblighi di acquisto che derivano dalle norme in materia di riorganizzazione della spesa.
Anzitutto, la nuova disciplina va coordinata con l’articolo 1, comma 7, del Dl 95/2012, che per alcune categorie merceologiche (telefonia, carburanti, energia e gas, combustibili per riscaldamento) prevede il ricorso alle convenzioni Consip e ai soggetti aggregatori regionali, ma pone come prima alternativa l’utilizzo degli strumenti elettronici (aspetto che favorisce chi può disporre di piattaforme telematiche o di mercati elettronici non a catalogo).
Altrettanta attenzione deve essere posta dalle amministrazioni in relazione all’obbligo di approvvigionamento presso i soggetti aggregatori per alcune tipologie di beni e servizi in rapporto a specifiche soglie, individuate entrambe dal Dpcm 24.12.2015, attuativo dell’articolo 9, comma 3, della legge 89/2014: tra queste rientrano i servizi di pulizia e manutentivi (per i quali gli enti possono operare solo sino alla soglia comunitaria), ma anche quelli di guardiania (per i quali la soglia di acquisto autonomo è fissata a 40mila euro)
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: LA RIFORMA DEGLI APPALTI/ Appalti: Anac, soft law, rating, le parole chiave della riforma. L'orientamento espresso con il dlgs sul codice dei contratti pubblici, in vigore da oggi.
Con l'approvazione del decreto legislativo contenente il nuovo codice dei contratti pubblici e delle concessioni (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare), in vigore da oggi, lunedì 18 aprile, il governo ha concluso il secondo step della riforma della contrattualistica pubblica.
Si tratta di una riforma epocale che tuttavia non deve considerarsi oggi conclusa ma appena iniziata.
Epocale perché cambia l'impostazione stessa del sistema a livello di strumenti normativi utilizzati. Vengono anche modificati e in maniera importante molteplici istituti ma, principalmente, si abbandona il duplice strumento normativo legge-regolamento.
Dal 1865, con l'allegato F della legge 2248 e il regolamento del 1895 sino ai nostri giorni, con il dlgs n. 163/2006 e il dpr n. 207/2010, ci siamo sempre appoggiati su due pilastri normativi.
Ora, con la riforma, questa impostazione va in soffitta in quanto ritenuta obsoleta e non più rispondente alle necessità di semplificazione e razionalizzazione del sistema: in una parola, non più rispondente alle esigenze di efficacia richieste con forza dalle direttive Ue nn. 23, 24 e 25 del 2014.
Il punto nodale della riforma, quindi, non si deve ricercare nella riduzione (pure molto consistente) degli articoli della legge, ovvero nell'accorpamento di alcuni istituti, laddove si trattano congiuntamente appalti di forniture, servizi e lavori, ma nell'uso della cosiddetta soft law, che va a sostituire la fonte regolamento. Soft law che si estrinseca nelle linee guida, di prossima emanazione, affidate in maniera decisa all'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), che ne sarà, al contempo, ispiratrice e ideatrice, attuatrice e infine custode.
Un triplice compito che rende l'Anac il vero perno della riforma.
Se questa è la novità, è, però, al tempo stesso anche la scommessa insita nella riforma stessa, tanto che già si discute sul modo in cui la soft law si inserirà nel sistema rigido delle fonti delineato dalla Costituzione italiana.
Emergono tre distinti modelli di linee guida: quelle che derivano la loro forza vincolante dal decreto legislativo oggi approvato; quelle che saranno recepite, su proposta di Anac, con apposito decreto ministeriale; quelle, infine, che lo stesso codice configura come non vincolanti e che traggono la loro forza dalla moral suasion, derivante dalla riconosciuta autorità del soggetto che le emana.
A questi tre modelli di linee guida, strumenti dotati di grande flessibilità, è affidato il compito di guidare l'agire delle singole amministrazioni cui, a prima vista, con la nuova riforma potrebbe sembrare affidata una discrezionalità troppo vasta in un momento storico caratterizzato dal dilagare di fenomeni corruttivi.
In questo senso, diversi sono gli aspetti su cui l'Anac potrà e dovrà fornire puntuali indicazioni onde evitare che la discrezionalità amministrativa si traduca in abusi sistematici: la scelta del contraente affidata quasi esclusivamente all'offerta economicamente più vantaggiosa (sarà residuale, e per gli appalti di più modeste dimensioni, il ricorso al massimo ribasso); i criteri per la valutazione delle offerte anomale; la possibilità di richiedere gara per gara requisiti specifici per la partecipazione; i criteri reputazionali per le imprese, valutati sulla base di parametri oggettivi e misurabili nonché su accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e dei costi nell'esecuzione degli appalti a essi affidati.
Criteri reputazionali (cui si aggiunge anche la previsione di sanzioni, determinate da Anac, nei casi di omessa o tardiva denunzia delle richieste estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari di contratti pubblici, comprese le imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di materiali, opere e servizi) che avvicinano sensibilmente la scelta del contraente a sistemi privatistici con conseguente condivisione di obiettivi fra committente e appaltatore.
Di rilevante importanza sono, poi, il rating di legalità, che si candida ad assumere un ruolo determinante nell'aggiudicazione delle gare (le imprese con un rating più alto otterranno un maggior punteggio), sia l'entità ridotta della cauzione provvisoria da prestarsi per garantire la serietà dell'offerta.
Infine e soprattutto degne di note sono le procedure per gli appalti sottosoglia nelle quali tendono a valere regole maggiormente flessibili, con ricorso alle indagini di mercato in sede di diramazione degli inviti a presentare offerta.
Peraltro, è anche lo stesso codice a porre precisi deterrenti all'abuso di discrezionalità, introducendo forme di controllo non più solo posteriori, ma contestuali allo svolgimento dell'azione amministrativa cioè nel momento stesso in cui vengono effettuate le scelte.
Si pensi alla nomina dei commissari di gara che saranno estratti a sorte, dopo la presentazione delle offerte, da nominativi contenuti in uno specifico albo presso l'Anac); si pensi anche alla qualificazione e centralizzazione delle stazioni appaltanti vengono fortemente ridotte nel numero al fine di assicurare competenze e uniformità di applicazione delle procedure; si pensi, infine, all'obbligo di centralizzazione delle informazioni e di pubblicità con media informatici.
E rileva anche la trasmissione all'Anac, negli appalti di rilevanza comunitaria, delle varianti superiori al 10% dell'importo del contraente originario, nonché la comunicazione alla stessa Autorità degli appalti riguardanti le transazioni o gli accordi bonari. L'effetto deterrente di questi adempimenti è di immediata percezione.
Ma la portata innovativa della riforma, si parla addirittura di vera e propria risoluzione copernicana, non deve essere percepita in modo trionfalistico, come possibile panacea di tutti i mali né, per contro, con senso quasi di frustrazione di chi di colpo è privato di collaudati e largamente sperimentati strumenti di lavoro.
Un approccio equilibrato è d'obbligo. Si deve avere la consapevolezza che siamo in presenza di una sorta di work in progress in cui il momento del diritto intertemporale, in questa fase di passaggio, è fortemente critico e potrebbe, se non gestito correttamente, e con tempi rapidissimi, portare a una fortissima contrazione della spesa pubblica per investimenti con effetti devastanti nell'attuale congiuntura. Dovranno, infatti, essere emanati oltre cinquanta ulteriori provvedimenti, molti dei quali sono tasselli decisivi della riforma.
L'Anac è già al lavoro per definire le linee guida, ma è indispensabile, in questa delicata fase, che tutti i soggetti interessati diano, ciascuno per il proprio ruolo, il massimo impegno per far si che i molti aspetti positivi già presenti nella riforma non rimangano lettera morta e anzi si trasformino in veri e propri elementi distorsivi del sistema, con conseguenti ritardi e inefficienze.
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Stazioni e imprese solo qualificate.
Con il nuovo codice dei contratti pubblici e delle concessioni, il governo, con un intento certamente meritorio, ha potenziato, e in parte introdotto per la prima volta, nuovi istituti volti alla tutela dei valori costituzionali della competitività e dell'efficienza.
In tale contesto, in un'ottica per così dire bipartisan, il nuovo testo pretende che debbano essere qualificati non solo gli operatori economici, ma anche le stazioni appaltanti.
Per inciso, la qualificazione delle stazioni appaltanti, a differenza della qualificazione degli operatori economici, non è specificamente prevista dalle direttive comunitarie, né è mai stata disciplinata nel sistema nazionale.
Il Consiglio di stato, sezione consultiva degli atti normativi, con parere 01.04.2016 n. 855, reso sulla bozza del codice, ha tuttavia, ritenuto che la mancata previsione nelle direttive dell'istituto della qualificazione delle stazioni appaltanti non implichi la violazione del divieto cosiddetto di gold plating (divieto di introduzione di oneri burocratici non essenziali), posto che l'introduzione di tali disposizioni troverebbe la sua giustificazione in funzione della tutela dei valori di trasparenza e concorrenza.
Per definizione, la qualificazione degli operatori economici comprende quell'insieme di disposizioni che disciplinano i requisiti richiesti per la partecipazione alle procedure di affidamento.
La grande novità risiede, quindi, nel fatto che tali requisiti, con gli opportuni adattamenti, vengono ora richiesti anche alle stazioni appaltanti.
In altri termini, così come l'operatore economico deve dimostrare di possedere dei requisiti per poter partecipare alle procedure di affidamento, anche la stazione appaltante deve dimostrare (all'Anac) di possedere i requisiti per poter affidare una commessa.
Il tutto con una precisa regola operativa: a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo sistema di qualificazione, l'Anac non rilascia il codice identificativo gara (Cig) alle stazioni appaltanti che intendono affidare appalti non rientranti nella qualificazione conseguita.
Si chiude un cerchio, nel contesto di un disegno strategico di più ampio respiro, vale a dire quello di ridurre le stazioni appaltanti attraverso la centralizzazione della committenza, di conseguentemente garantire la professionalizzazione delle stesse attraverso un sistema di gestione e di controllo del loro operato, e di garantire in definitiva alle stesse un corretto esercizio della discrezionalità amministrativa, tanto invocato dalle direttive comunitarie.
Queste ultime, in effetti, verranno qualificate in rapporto alla tipologia e complessità del contratto e per fasce d'importo. La qualificazione conseguita opera per la durata di cinque anni e può essere rivista a seguito di verifica, anche a campione, da parte di Anac o su richiesta della stazione appaltante.
I requisiti presi in considerazione dal codice appartengono essenzialmente a due categorie: requisiti di base (strutture organizzative stabili; presenza nella struttura organizzativa di dipendenti con specifiche competenze; formazione e aggiornamento del personale; numero di gare svolte nel triennio) e requisiti premianti (valutazione positiva dell'Anac in ordine all'attuazione di misure di prevenzione dei rischi di corruzione e promozione della legalità; presenza di sistemi di gestione della qualità conformi alla norma Uni En Iso; disponibilità di tecnologie telematiche nella gestione delle gare; livello di soccombenza nel contenzioso; applicazione di criteri di sostenibilità ambientale e sociale nell'attività di progettazione e affidamento).
Sul fronte della qualificazione degli operatori economici non muta, almeno nei settori cosiddetti ordinari, la tradizionale dicotomia tra appalti di lavori da un lato, per i quali resta in vigore il sistema delle attestazioni Soa, e servizi e forniture dall'altro, per i quali la stazione appaltante può, in relazione al singolo affidamento, richiedere i singoli requisiti tra quelli previsti dalla normativa, selezionandoli e graduandoli in funzione della natura e delle caratteristiche della commessa che intendono affidare.
Sul fronte della qualificazione dei lavori pubblici, il sistema Soa, dunque, resiste, ma viene in parte modificato, con la previsione per esempio della verifica a campione, da parte delle stazioni appaltanti, del possesso dei singoli requisiti che hanno consentito il rilascio dell'attestazione.
Per altro verso, in tema di qualificazione dei lavori pubblici, si demanda all'Anac tanto il compito effettuare una ricognizione straordinaria circa il possesso dei requisiti in capo ai soggetti attualmente operanti in materia di attestazione, quanto quello di individuare forme di partecipazione pubblica agli stessi e alla relativa attività di attestazione.
Sarà, invece, il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, su proposta dell'Anac, sentite le competenti commissioni parlamentari, a individuare, entro un anno dall'entrata in vigore del codice, modalità di qualificazione, anche alternative o sperimentali da parte di stazioni appaltanti ritenute particolarmente qualificate, se del caso attraverso un graduale superamento del sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici.
Sul fronte dei servizi e delle forniture, il codice recepisce, invece, fedelmente le direttive comunitarie. Da segnalare, tuttavia, l'introduzione di due nuovi requisiti di capacità economico finanziaria, quali il rapporto tra attività e passività, desumibile dai conti annuali e il livello adeguato di copertura assicurativa contro i rischi professionali. Tra i mezzi di prova del possesso di tali requisiti, resistono, in ogni caso le idonee referenze bancarie e le attestazioni attraverso i bilanci (menzionate nell'allegato XVII del codice).
In generale, in ogni caso, tanto con riferimento ai lavori, quanto ai servizi e alle forniture, vengono introdotti i cosiddetti criteri reputazionali, che attribuiranno rilievo al contenimento dei costi e dei tempi nell'esecuzione della commessa, nonché al «tasso di litigiosità» delle imprese (inteso, come chiarito dal Consiglio di stato nel citato parere, nel senso di tasso di soccombenza nelle cause instaurate, non già nel senso di numero di cause promosse).
Tali criteri reputazionali (in altre parti del testo sintetizzati nel concetto di rating di impresa) verranno, comunque, definiti dall'Anac nelle linee generali. Nell'attuale formulazione, e comunque in attesa dell'adozione delle linee guida, tali requisiti verranno accertati dalle Soa nell'ambito dei lavori pubblici e dalle stazioni appaltanti nell'ambito dei servizi e delle forniture.
All'esito di tale breve disamina, è possibile affermare che il nuovo codice tende ad avvicinare, dal punto di vista della competenza e della professionalità, le stazioni appaltanti e le imprese. L'avvicinamento, auspicato e possibile, non si tradurrà obiettivamente in una piena parificazione tra le parti, non potendosi trascurare che, quanto meno in sede di espletamento della procedura a evidenza pubblica, tendono a prevalere gli interessi pubblici di cui è portatrice la stazione appaltante (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cantieri edili, Mud solo per scarti pericolosi.
Le imprese che svolgono in via principale le attività di costruzione e demolizione sono obbligate alla presentazione del Mud solo in relazione ai rifiuti pericolosi di cui sono produttori iniziali. Laddove per i rifiuti non pericolosi tutti, anche se classificati con codici Cer diversi da quelli di settore, vale invece l'esenzione dalla presentazione dell'annuale dichiarazione ambientale a monte prevista dall'articolo 189, comma 3, del decreto legislativo n. 152/2006 per determinate categorie di produttori.

Il chiarimento sulla portata dell'adempimento in scadenza il prossimo 30.04.2016 arriva con la nota 08.04.2016 n. 22028 di prot. dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).
Nel documento, formulato in risposta a un quesito formulato da un'associazione di settore, si rende atto «che le attività di costruzione e demolizione possono produrre, accanto al flusso di rifiuti afferenti al capitolo 17, anche, in misura residuale, tipologie di rifiuti funzionali all'attività svolta, ma non attribuibili al medesimo capitolo, per esempio rifiuti di imballaggio» e che, conclude la lettera, «pertanto si possono includere nelle tipologie di rifiuti escluse dall'obbligo di dichiarazione anche quelle non appartenenti al capitolo 17 dell'Elenco europeo di rifiuti. L'esclusione riguarda i soli rifiuti non pericolosi».
Le precisazioni dell'Ispra, che fanno espressamente salve le interpretazioni del Codice ambientale fornite dalle competenti istituzioni, si agganciano direttamente alle «informazioni aggiuntive» alle istruzioni per la presentazione del Mud adottate dallo stesso Istituto lo scorso marzo 2016 in attuazione del dpcm 21.12.2015 (si veda ItaliaOggi Sette del 14/3/2016) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Controlli su aree pedonali Niente placet ministeriale.
Non serve alcuna licenza ministeriale per attivare il controllo elettronico dell'area pedonale. È infatti sufficiente installare strumentazione omologata per questo uso particolare e avvisare l'utenza stradale nella modalità più idonea allo scopo.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con l'inedito parere n. 5466/2015.
Un comune intenzionato a installare le telecamere per il monitoraggio del traffico nel centro storico ha richiesto chiarimenti all'organo tecnico centrale.
A parere del dipartimento per i trasporti terrestri per attivare il controllo elettronico degli accessi alle aree pedonali non serve alcuna autorizzazione. A differenza del telecontrollo delle zone a traffico limitato, infatti, il dpr 250 del 22.06.1999 non richiede una autorizzazione ministeriale per posizionare dei varchi in prossimità delle zone pedonali.
La rilevazione degli accessi abusivi potrà avvenire utilizzando gli stessi dispositivi omologati per il controllo delle zone a traffico limitato, prosegue la nota.
Tuttavia, mentre per l'installazione di questi impianti è necessaria una licenza ad hoc, per il presidio elettronico delle aree pedonali non serve nulla. Purché si tratti di strumenti elettronici specificamente omologati per le finalità di cui all'art. 7 del dpr n. 250/1999, «per ovvi motivi di analogia tecnologica».
Per quanto riguarda la necessità di informare adeguatamente l'utenza nel rispetto della disciplina sul trattamento dei dati personali le cose sono particolarmente semplificate. È possibile installare una informativa minima prevista dal garante nella direttiva 08.04.2010. Ma può bastare anche un semplice avvertimento di varco elettronico attivo.
Specifica infatti il ministero che quando la normativa di settore prevede espressamente l'obbligo di rendere noto agli utenti l'installazione degli impianti elettronici di rilevamento automatizzato delle infrazioni «è possibile fare a meno di fornire un'ulteriore distinta informativa rispetto al trattamento dei dati che riproduca gli elementi che sono già noti agli interessati per effetto degli avvisi di cui alla disciplina di settore in tema di circolazione stradale» (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).

APPALTI: Appalti, semplificazione e regia a Cantone. Renzi: altro passo per sbloccare l’Italia, chiuse le strade alla corruzione - Delrio: la rivoluzione della normalità.
Si regge sul ruolo centrale affidato all’Anticorruzione di Raffaele Cantone, ma contiene molte altre misure dai connotati quasi rivoluzionari per il settore la riforma degli appalti varata in via definitiva ieri dal Consiglio dei ministri. Quella più evidente è la semplificazione del quadro normativo. Dagli oltre 600 articoli del vecchio impianto (codice più regolamento) si passa ai 220 articoli del nuovo codice. A parte la forma, è nei contenuti che si gioca la sfida di rimettere in piedi un settore economico messo in ginocchio dalla crisi e sfregiato dalle inchieste della magistratura.
Semplificazione e strategia anticorruzione sono le due linee su cui si muove il nuovo assetto. Anche se non viene archiviata del tutto, come chiedeva il Parlamento, viene molto ridimensionata la possibilità di assegnare le gare al massimo ribasso. Tenere conto solo del prezzo per assegnare le commesse sarà possibile solo nelle gare sotto al milione. In tutti gli altri casi bisognerà valutare anche la qualità di esecuzione della prestazione.
Il criterio prezzo-qualità (offerta più vantaggiosa) diventa poi obbligatorio per tutte le gare di progettazione e per i servizi ad alta intensità di manodopera. Il nuovo codice accende poi un faro sui piccoli appalti, vera zona grigia in cui si sono concentrati i fenomeni di corruzione più diffusi. Negli appalti di importo superiore a 150mila euro, dove prima si poteva procedere a inviti, chiedendo un preventivo a qualche impresa, sarà necessario passare da una gara.
Innovativa è poi la scelta sulla qualificazione delle imprese e delle stazioni appaltanti. Per valutare i costruttori debutta il rating di impresa. Ad assegnarlo sarà l’Anac, tenendo conto del curriculum conquistato dall’azienda nella gestione dei cantieri precedenti. Anche le stazioni appaltanti saranno valutate in base a competenze e risorse.
Finisce l’epoca in cui anche un comune di mille abitanti avrebbe potuto bandire una gara milionaria. In futuro, sarà l’Anticorruzione a decidere fino a che punto potranno spingersi gli enti pubblici, in base a un sistema graduato per importi. Attenzioni specifiche vengono dedicate alle piccole imprese. Tra queste, spiccano le norme sul subappalto, che sarà limitato a un massimo del 30% del valore del contratto. Mentre per gli appalti ad alta intensità di manodopera viene previsto l’inserimento delle clausole sociali che promuovono la stabilità occupazionale.
Il nuovo codice
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare), poi, archivia la stagione della legge obiettivo. Anche le grandi opere rientreranno nella programmazione ordinaria e saranno sottoposte a consultazione pubblica. Seguendo le indicazioni europee, il codice regolamenta per la prima volta in modo organico il settore delle concessioni e del partenariato pubblico privato.
Su questo fronte si definisce l’obbligo di trasferire il rischio operativo ai privati e si fissa al 30% il tetto massimo del contributo pubblico sulle opere da affidare in gestione. Molto delicato il capitolo delle concessioni autostradali. In particolare sui lavori, con l’obbligo di affidare a gara almeno l’80% degli appalti (dopo una fase transitoria di due anni). Sulla progettazione due novità su tutte: il divieto di appaltare insieme progetto e lavori e la cancellazione del bonus del 2% per i tecnici della Pa.
Oltre alle molte certezze, restano diverse incognite. La principale criticità del testo è, infatti, legata alla fase transitoria. Il nuovo codice entrerà in vigore di colpo, nel giorno stesso della sua pubblicazione, prevista per lunedì prossimo. Questa partenza così rapida, però, sarà monca, dal momento che andrà completata con un ampio pacchetto di decreti attuativi (più di quaranta): molti di questi riguarderanno passaggi strategici, come il rating di impresa o la qualificazione delle stazioni appaltanti. Soprattutto, poi, sono attese nel giro di un paio di mesi le linee guida condivise da Anac e Mit, che dovranno sostituire il regolamento.
Il vecchio Dpr n. 207/2010, allora, resterà attivo ancora per qualche mese: sarà abrogato un pezzo alla volta dai diversi provvedimenti in arrivo. Solo a fine 2016 è prevista la sua definitiva sparizione. Questa transizione così rapida nella prima fase e così complessa nel suo sviluppo preoccupa molto gli operatori: non si contano le segnalazioni di probabili difficoltà applicative previste per i primi giorni di utilizzo. A rendere ancora più intricata la situazione, poi, c’è il nodo delle competenze dell’Anac. L’Anticorruzione incassa decine di nuovi poteri, ma nessuna risorsa. Potrebbe andare in difficoltà.
Comunque, il premier Matteo Renzi rivendica l’approvazione di una riforma che definisce «mastodontica» e che «continua nella direzione di sbloccare i lavori in Italia». Soprattutto, è decisiva la semplificazione che arriverà da queste nuove norme: «Avevamo un vecchio codice che aveva 660 articoli e 1.500 commi, passiamo a un codice con 220 articoli, con linee di indirizzo che vengono affidate al lavoro dell’Anac. È una riforma strutturale» che consentirà «di chiudere le strade alla corruzione».
Per il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, invece, quella del codice «è la rivoluzione della normalità. Si archivia la legge Obiettivo, dove tutto era urgente e prioritario, torniamo a una sana e pragmatica concretezza» nella quale ci sarà «programmazione delle opere sulla base della loro utilità». Guarda già ai suoi molti compiti il presidente Anac, Raffaele Cantone che parla di «sfida da raccogliere»
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2016).

APPALTI: Un nuovo corso per gli appalti. Digitalizzazione, stop ai massimi ribassi, poteri all'Anac. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Via libera definitivo al decreto sui contratti pubblici.
Via alla riforma degli appalti pubblici: semplificazione e digitalizzazione delle procedure; vietato il massimo ribasso a eccezione dei lavori fino a 500 mila euro; albo dei commissari di gara gestito dall'Anac (l'Autorità nazionale anticorruzione) per contrastare la corruzione; criteri reputazionali e rating di legalità (per ridurre l'importo delle cauzioni); abrogazione del codice De Lise sui contratti pubblici e del regolamento attuativo, oltre che della Legge obiettivo, e rivisitazione della programmazione delle opere infrastrutturali; ridotte le competenze del contraente generale; stazioni appaltanti qualificate dall'Anac e maggiori poteri all'Authority per regolazione, bandi-tipo e contratti-tipo; introduzione graduale del Bim (Building information modelling) anche come elemento per qualificare le stazioni appaltanti; tecnici della p.a. incentivati ma solo su programmazione, direzione lavori e controlli; più mercato per la progettazione.

È su questi (e molti altri) punti che si fonda quella che il governo ritiene una vera e propria rivoluzione nel sistema dei contratti pubblici: dopo il nuovo decreto legislativo di attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, approvato definitivamente ieri dal consiglio dei ministri (di 34 articoli più breve del precedente), la riforma dovrà essere completata a breve con le linee guida generali messe a punto dall'Anac e adottate con decreto delle Infrastrutture (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il decreto dovrebbe andare in G.U. lunedì 18 aprile ed entrare in vigore lo stesso giorno. Le linee guida generali sostituiranno il regolamento del codice De Lise, il dpr 207/2010 (verrà soppresso ma rimarrà in vigore per alcune parti fino all'uscita delle linee guida).
Rimane qualche dubbio sulla disciplina transitoria dal momento che la soppressione del codice, sostituito dal nuovo, vedrà ancora in vigore delle norme pensate per la disciplina del 2006. Si può dire, come fu per la Legge Merloni 20 anni fa, che anche questo codice nasce su alcune «spinte emotive» (così si diceva per giustificare scelte drastiche operate nel '94): gli scandali sulle opere della Legge obiettivo hanno portato alla sua soppressione e alla conseguente cancellazione delle procedure speciali, nonché al divieto di affidare al contraente generale la direzione dei lavori.
Ma è anche l'intero assetto della disciplina delle grandi opere ad essere radicalmente rivisto: il programma di infrastrutture strategiche si baserà sul «documento pluriennale di programmazione» e, come atto presupposto, sul Piano generale dei trasporti e della logistica; tutte le opere seguiranno la stessa procedura, senza alcuna deroga. Analogamente si è intervenuti sulla fase di aggiudicazione con la creazione presso l'Anac di un albo dei commissari di gara dal quale saranno estratti i nominativi da fornire alle stazioni appaltanti.
Si tratta di una disciplina di particolare rilievo perché l'aggiudicazione degli appalti richiederà quasi sempre il ricorso al criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (prezzo più basso fino a 150 mila euro) e quindi a valutazioni qualitative che sarà fondamentale che siano rese da commissari preparati e moralmente inappuntabili. Grazie ai molti rilievi del Consiglio di stato e delle commissioni parlamentari il testo approvato dal consiglio dei ministri di ieri sistema alcuni problemi, primo fra tutti quello dei contratti sotto soglia che vedeva nella prima versione di più di un mese fa, un largo uso della procedura negoziata con inviti a tre o a cinque soggetti.
Si garantisce anche una adeguata stima dei corrispettivi per le progettazioni con il riferimento al decreto parametri e si elimina una barriera all'entrata soprattutto per i più giovani, con la cancellazione delle cauzioni provvisorie per i progettisti. Il testo si muove in linea con la legge delega sul profilo della riduzione del numero delle stazioni appaltanti: fino a 40 mila per forniture e servizi e a 100 mila per i lavori le piccole stazioni appaltanti potranno operare senza problemi, oltre questi tetti scatta l'obbligo di aggregazione; in più si avvia un sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti gestito dall'Anac.
In generale tutte le procedure saranno più trasparenti e controllabili e la comunicazione fra p.a. e operatori privati sarà integralmente digitalizzata, sia pure gradualmente, così come gradualmente si andrà all'introduzione del Bim (Building information modelling, il nuovo sistema di progettazione che mette insieme aziende, professionisti, p.a. e fornitori) presso le stazioni appaltanti.
Netta spinta verso la semplificazione nella partecipazione alle gare con lo spostamento alle Infrastrutture del sistema Avcpass per la verifica dei requisiti, che dovrà essere rivisto per farlo adeguatamente funzionare e la messa in linea di tutte le banche dati ad opera dell'Anac. L'appalto integrato sembra sparire, con la regola generale di affidare i lavori sulla base di progetti esecutivi e con divieto di affidamento sulla base del progetto preliminare. Rimane il tetto del 30% per il subappalto di lavori (tutti e non solo per le superspecialistiche).
Sul fronte delle garanzie viene soppresso il performance bond, sostituito da una garanzia che coprirà anche gli extra-costi a carico della stazione appaltante. Per la disciplina dei contratti sotto la soglia Ue possibile la procedura negoziata senza bando per lavori da 40 mila a 500 mila euro con invito a 5 fino a 150 mila e a 10 fino a mezzo milione (articolo ItaliaOggi del 16.04.2016).

APPALTI: Guardia di finanza in cantiere. Poteri di polizia tributaria per la verifica degli appalti. In una circolare delle Fiamme gialle le direttive per il nucleo speciale anticorruzione.
La Guardia di finanza nei cantieri a controllare, per conto dell'Autorità anticorruzione, la regolarità delle procedure sugli appalti. Per farlo il nucleo speciale anticorruzione, una costola di diretta emanazione della polizia tributaria, potrà contare sui poteri propri degli accertamenti fiscali (dando attuazione così a una norma del codice appalti, dlgs 16372006).
Non solo. a disposizione di Raffaele Cantone, Autorità anticorruzione, la possibilità di ordinare indagini finanziarie mirate per il tema degli appalti finora confinate all'ambito delle verifiche tributarie.

Sono queste alcune delle novità della circolare della Gdf, che ItaliaOggi è in grado di anticipare, con cui si formalizza l'attività di collaborazione tra Guardia di finanza e Raffaele Cantone, capo dell'Autorità nazionale anticorruzione.
Nel testo si legge che l'Anac ha la possibilità di ricorrere al supporto della Guardia di finanza per l'esercizio delle funzioni di competenza tanto nell'area della contrattualistica pubblica quanto nell'«ampio comparto dei presidi di prevenzione della corruzione».
E a questi fini il corpo guidato da Saverio Capolupo può utilizzare i poteri attribuiti per gli accertamenti di natura fiscale, «aspetto», scrivono dalla Gdf, «quest'ultimo che conferisce alle sinergie un'indubbia incisività».
Nasce, dunque, il Nucleo speciale anticorruzione che avrà il ruolo di referente unico dell'Anac. Mentre, a livello locale, sono istituite le sezioni/drappelli anticorruzione nei nuclei di polizia tributaria in sede di ogni capoluogo di regione come punti di contatto privilegiati sul territorio.
Ambito di intervento. La Gdf potrà, dunque, effettuare ispezioni nei confronti delle stazioni appaltanti, degli operatori economici, e di ogni pubblica amministrazione e società partecipata relativamente all'affidamento e all'esecuzione di lavori e servizi e forniture e al conferimento di incarichi di progettazione.
Si attiverà poi sui controlli sul sistema di qualificazione attuato dalle Soa (società organismi di attestazione) con particolare riguardo all'assetto societario, patrimoniale, organizzativo e di governance, al riscontro dei requisiti generali e di indipendenza, al rispetto delle procedure per il rilascio delle attestazioni anche con riferimento alle società aventi sede legale all'estero.
La Gdf analizzerà, inoltre, le procedure per il rilascio del rating di legalità alle imprese e i controlli relativi all'ottemperanza delle decisioni delle varie autorità.
Metodi di intervento. In che modo la Gdf eserciterà questa nuove funzione? «I militari del corpo incaricati del supporto hanno la possibilità» scrive nero su bianco il capo del III reparto operazioni, Stefano Screpanti, «di avvalersi delle potestà loro attribuite dalla normativa fiscale, segnatamente dagli articoli 32 e 33 del dpr 600/1973 e 51 e 52 del dpr 633».
Una potestà amplissima che affonda la sua ragion d'essere proprio nel codice appalti, nell'articolo 9, comma 6, infatti si riconosce all'autorità la possibilità di «avvalersi del Corpo della Guardia di finanza, che esegue le verifiche e gli accertamenti richiesti agendo con i poteri di indagine a esso attribuiti ai fini degli accertamenti relativi all'imposta sul valore aggiunto e alle imposte sui redditi».
In particolare, poi, le Fiamme gialle riservano una notazione particolare alle indagini finanziarie. Sarà preparata un'applicazione di indagini finanziarie con cui il nucleo potrà sviluppare in totale autonomia la procedura telematica di richiesta ed esecuzione della particolare tipologia di accertamento (articolo ItaliaOggi del 15.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALISparisce la parola provincia. Ma restano in vigore leggi che vi fanno riferimento. RIFORME COSTITUZIONALI/ Gli effetti del ddl Boschi sul futuro degli enti locali.
La riforma della Costituzione abolisce le province definitivamente. Almeno sulla carta.

Il disegno di legge sulle riforme costituzionali, approvato definitivamente dalle Camere e ora in attesa del referendum autunnale (si veda ItaliaOggi di ieri) contiene un articolo 29 rubricato «abolizione delle province» e in diverse altre norme si cancella la parola. Ma, per abolire un ente, non basta enunciare l'intenzione o eliminarne la denominazione. La Costituzione non può, ovviamente, andare nel dettaglio dell'organizzazione territoriale, né abolire leggi ordinarie.
Sta di fatto, dunque, che anche laddove la riforma dovesse superare la prova del referendum confermativo, resterebbe in vigore la legge «Delrio», la 56/2014, che regola ed ordina la disciplina delle province, confusamente ivi definite come enti di area vasta. E restano vigenti tutte le altre leggi ordinarie che alle province per qualsiasi ragione facciano riferimento.
Il che significa che, province o enti di area vasta che siano, conservano la competenza a gestire le «funzioni fondamentali» previste dalla legge 56/2014 (edilizia e programmazione scolastica, programmazione territoriale, trasporti, tutela e valorizzazione dell'ambiente, controllo sulla discriminazione in ambito lavorativo) e le funzioni ulteriori che possono essere svolte, come autorità di bacino per i servizi pubblici locali a rilevanza economica, o centrali uniche appaltanti o per lo svolgimento di concorsi.
Quindi, in realtà, la riforma abolisce solo la parola, non l'istituto, né incide sulle competenze. Di fatto, le province o enti di area vasta semplicemente degradano da enti a rilevanza costituzionale ed autonomia costituzionalmente garantita, a enti disciplinati dalla normativa statale ordinaria. Ma vi è di più. L'articolo 40, comma 4, della legge di riforma costituzionale stabilisce che «per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale».
Dunque, le regioni potranno esercitare la propria potestà legislativa, allo scopo di accrescere e diversificare competenze e funzioni delle province, rispetto a quanto non stabilito dalla legge dello Stato. Il quale, proprio dalla disposizione transitoria contenuta nella Costituzione, di fatto assume la competenza di definire proprio l'assetto fondamentale principale di tali enti.
Ciò conferma quello che, nei fatti, è già avvenuto, perché le province sono già state degradate ad enti di minore portata rispetto ai comuni dalla normativa conseguente alla riforma Delrio, in particolare la legge 190/2014, che ha imposto loro un prelievo forzoso di ben 3 miliardi a regime, condannandole al disequilibrio e al dissesto.
Una conseguenza forte, però, connessa alla riforma costituzionale potrà esservi. Le province, finché hanno la tutela costituzionale loro assicurata dall'attuale testo della Costituzione, possono pretendere l'applicazione dell'articolo 119, che impone a Stato o Regioni di finanziare integralmente le funzioni loro conferite. Laddove il referendum confermativo rendesse efficace la riforma della Costituzione, allora le province non potranno più contare sulla tutela (articolo ItaliaOggi del 15.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Fare leggi diventa complicato. Si passa dal bicameralismo perfetto al differenziato. Lo prevede la riforma della Costituzione approvata in via definitiva dal parlamento.
Il passaggio dal bicameralismo perfetto o paritario al bicameralismo differenziato porta con sé il frutto della complicazione del processo di formazione delle leggi.

La riforma della Costituzione approvata in via definitiva dal Parlamento (e ora in attesa degli esiti del referendum confermativo, si veda ItaliaOggi di ieri) è stata adottata sotto la bandiera della velocizzazione e semplificazione. Tuttavia, proprio la parte delicatissima dell'iter legislativo non sembra cogliere l'obiettivo.
Parità di ruoli. Intanto, restano campi nei quali la funzione legislativa è esercitata congiuntamente sia da Camera sia da Senato. Si tratta delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, nonché delle leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71.
Ancora, la funzione legislativa paritaria del Senato riguarda le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni. Il Senato interviene obbligatoriamente per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche della Ue.
E ancora, per le leggi sui casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo, per le modalità di «elezione» dei senatori, la ratifica dei trattati Ue, l'ordinamento di Roma capitale, le forme particolari di autonomia regionale, l'attuazione degli accordi internazionali da parte delle regioni, la disciplina che autorizza le regioni a concludere accordi internazionali con Stati o enti territoriali di altri stati, le norme sul patrimonio e l'indebitamento di comuni e città metropolitane, la legge sull'esercizio dei poteri sostitutivi nei confronti di comuni e città metropolitane, la legge di principio per le elezioni degli organi regionali, spostamenti dei comuni da una regione all'altra.
Richiesta di esame. Tuttavia, il Senato, entro dieci giorni dalla ricezione dei disegni di legge approvati dalla Camera, può disporre di esaminarli, potendo altresì proporre modifiche entro i 30 giorni successivi. La Camera può disporre senza particolari maggioranze di accettare le modifiche proposte.
Unità giuridica o economica della Repubblica. Il senato deve obbligatoriamente esaminare, entro dieci giorni dalla trasmissione da parte della Camera, le leggi in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale. In questo caso, il Senato può proporre modifiche solo a maggioranza assoluta dei suoi componenti; la Camera può non accogliere le proposte solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
Nuove spese. L'intervento del Senato è obbligatorio nel caso di leggi che importino nuove o maggiori spese e, dunque, indicare i mezzi per farvi fronte. In questo caso, i disegni di legge approvati dalla Camera sono esaminati dal Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. Pare che, in questa circostanza, la Camera si riappropri di un potere ampio di accogliere o meno le proposte del Senato.
Procedura accelerata. Laddove il Governo qualifichi un disegno di legge come essenziale per l'attuazione del programma di governo, chiede alla Camera che sia iscritto con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla votazione definitiva della Camera entro il termine di 70 giorni. Sicché i termini entro i quali il Senato può chiedere di esaminare il ddl e proporre modifiche si dimezzano.
Decreti legge. Nel caso di disegni di legge di conversione di decreti legge adottati dal Governo, il Senato può chiederne l'esame entro trenta giorni dalla presentazione dei dl alla Camera. In questo caso, il Senato può proporre modifiche entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di conversione, che deve avvenire non oltre 40 giorni dalla presentazione.
Questioni di competenza. L'incrocio degli iter, dei termini, delle materie è talmente complesso che la nuova Costituzione assegna ai presidenti di Camera e Senato di decidere d'intesa tra loro sulle eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti.
Tuttavia, i vizi di incompetenza o di formazione delle leggi, visto il quadro molto complicato, saranno sempre dietro l'angolo. In particolare, sarà difficilissimo gestire i provvedimenti che abbraccino più materie, come tipicamente le leggi di stabilità o «milleproroghe», evitando di incorrere in violazioni suscettibili non solo di conflitti di competenza tra le Camere, ma anche di ricorsi alla Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Imprese edili, Mud evitabile con i rifiuti non pericolosi.
Nessun obbligo di presentazione entro il 30 aprile prossimo del Mud 2016 per le imprese di edili che trasportano rifiuti non pericolosi dai cantieri. Al contrario il Mud dovrà invece essere presentato dalle imprese di costruzione che hanno prodotto, nel corso dell'anno 2015, rifiuti speciali pericolosi.
Questo è quanto sostiene Ispra in risposta all'Ance (nota 08.04.2016 n. 22028 di prot.) in merito alla presentazione del Mud 2016 da parte delle imprese di costruzioni che trasportano rifiuti non pericolosi.
Le imprese che rientrano nell'esclusione del Mud in quanto produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti da attività di demolizione, costruzione e scavo, sono solo le aziende che svolgono attività di costruzione e demolizione come attività principale. L'esclusione vale per tutti i rifiuti classificati con codici appartenenti alla famiglia dei Cer 17 (rifiuti delle operazioni di costruzioni e demolizione).
L'articolo 189, 3° comma, del dlgs n. 152/2006, stabilisce che «chiunque effettua a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti, i commercianti e gli intermediari di rifiuti senza detenzione, le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento di rifiuti, i consorzi istituiti per il recupero ed il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti, nonché le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi e le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi di cui all'articolo 184, comma 3, lettere c), d) e g), comunicano annualmente alle camere di commercio le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto delle predette attività».
Sono esonerati da tale obbligo gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del codice civile con un volume di affari annuo non superiore a euro ottomila, le imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi, di cui all'articolo 212, comma 8, nonché, per i soli rifiuti non pericolosi, le imprese e gli enti produttori iniziali che non hanno più di dieci dipendenti (articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I tecnorifiuti vanno gestiti solo da accreditati Raee.
Trattamento dei tecnorifiuti solo negli impianti gestiti da aziende accreditate presso il Centro di coordinamento Raee. Il quale, prima di concedere l'accreditamento, ne vaglierà qualità e adeguatezza attraverso un audit condotto da verificatori terzi. I sistemi collettivi, per il trattamento dei Raee di competenza, avranno dunque l'obbligo di rivolgersi ai soli impianti accreditati (in continuità con l'accordo precedente).

È quanto prevede il nuovo accordo di programma sul trattamento dei Raee firmato dal Centro di coordinamento e dalle aziende del settore: Assoraee, Assorecuperi e Assofermet.
La sottoscrizione di accordi con i soggetti recuperatori per «assicurare adeguati e omogenei livelli di trattamento e qualificazione delle aziende del settore» è prevista dalla normativa madre nazionale in materia di Raee, il dlgs 49/2014, all'art. 33, comma 5, lettera g). L'accordo appena firmato entrerà in vigore dopo 30 giorni e ad esso potranno aderire tutte le associazioni degli operatori del trattamento che vorranno sottoscriverlo.
L'accreditamento delle imprese presso il Centro di coordinamento avrà durata da uno a tre anni a seconda dei requisiti in possesso dei singoli impianti.
Sono istituiti un Comitato paritetico che monitori l'applicazione dell'accordo e un tavolo tecnico per la definizione e l'aggiornamento dei riferimenti allo sviluppo tecnologico e all'evoluzione normativa.
Il Centro di coordinamento Raee dovrà implementare il proprio portale con servizi ad hoc per gli impianti accreditati e questi dovranno fornire annualmente al Centro Raee i dati sulla composizione dei «raggruppamenti» (tipologie di Raee) utili alle comunicazioni dell'Italia all'Europa.
«Ispirandoci ai più evoluti standard europei, vogliamo raggiungere quei target qualitativi nel trattamento dei Raee richiesti dalla Comunità europea», ha commentato Giancarlo Dezio, presidente del Centro di coordinamento Raee, aggiungendo che «il rispetto delle regole previste vincolerà anche il trattamento di Raee raccolti nel nostro paese che dovessero essere inviati in impianti esteri, garantendo così un livello qualitativo di eccellenza ovunque avvenga la lavorazione» (articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).

TRIBUTIAgevolazioni Imu e Tasi, vale la data del contratto. COMODATO/ Il Mineconomia risponde a Confedilizia.
Per il contratto di comodato d'uso verbale non conta la data di registrazione, ma quella di conclusione del contratto stesso per poter fruire delle agevolazioni Imu e Tasi. Dunque, la riduzione al 50% della base imponibile Imu e Tasi in caso di concessione in comodato di un immobile a un parente in linea retta entro il primo grado, che lo utilizzi come abitazione principale, decorre dal 01.01.2016 a prescindere dalla data di registrazione del contratto verbale.

È questa la risposta che ha fornito il Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia, con la nota 08.04.2016 n. 8876 di prot., a un quesito inviato dalla Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia).
Confedilizia, infatti, aveva rilevato un contrasto tra due diverse interpretazioni ministeriali sui termini per la registrazione del contratto di comodato d'uso verbale ai fini del riconoscimento delle agevolazioni fiscali. Il ministero precisa al riguardo che è da intendersi superata l'interpretazione contenuta «nella precedente nota n. 2472 del 29.01.2016».
Inoltre, richiama la risoluzione 17.02.2016 n. 1/DF e conferma che non c'è un termine ad hoc per la registrazione del contratto di comodato verbale e che per la decorrenza della riduzione del 50% della base imponibile Imu e Tasi «si deve prendere in considerazione la data di conclusione del contratto stesso».
In effetti, dal 2016 i titolari degli immobili dati in comodato d'uso gratuito a parenti in linea retta destinati ad abitazione principale pagano Imu e Tasi in misura ridotta. È stato abrogato il comma 2 dell'articolo 13 del dl 201/2011, laddove prevedeva che le amministrazioni comunali potessero assimilare alle prime case le unità immobiliari concesse in comodato gratuito dal titolare ai parenti in linea retta entro il primo grado. In base all'articolo 1, comma 10, della legge di Stabilità 2016 (208/2015) i beneficiari possono fruire di una riduzione della base imponibile Imu, che è la stessa dell'imposta sui servizi indivisibili, nella misura del 50%, purché sussistano le condizioni richieste dalla norma.
Nello specifico, il comodante deve avere la residenza anagrafica e la dimora nel comune in cui è ubicato l'immobile concesso in comodato. Oltre all'immobile concesso in comodato, può essere titolare di un altro immobile nello stesso comune, che deve essere utilizzato come propria abitazione principale, purché non si tratti di un fabbricato di pregio, classificato nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 (immobili di lusso, ville e castelli). Questo requisito è imposto anche per l'unità immobiliare data in comodato. Secondo il ministero, però, solo il possesso di altri immobili destinati ad unità abitative fa perdere l'agevolazione. Al comodante è poi imposto di presentare la dichiarazione Imu e di registrare il contratto.
Francamente quest'ultimo adempimento risulta eccessivo. Sarebbe stato sufficiente richiedere una scrittura privata autenticata, per assicurare la certezza della data di decorrenza del contratto e, per l'effetto, dell'agevolazione. A maggior ragione se, come sostenuto dal dipartimento delle Finanze, alla registrazione del contratto verbale di comodato non gli viene riconosciuta neppure quella valenza che dovrebbe avere in ordine alla certezza della data, dalla quale dovrebbe decorrere il beneficio fiscale (articolo ItaliaOggi del 13.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Cantiere chiuso senza il Durc. Sospesi i lavori, pubblici o privati, se manca il documento. Un interpello del ministero del lavoro sull'attestazione della regolarità contributiva.
Stop ai lavori finché manca il Durc. In assenza del rilascio del documento unico di regolarità contributiva di un'impresa o di un lavoratore autonomo, infatti, va sospeso il titolo abilitativo dei lavori, pubblici e/o privati.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 21.03.2016 n. 1/2016.
Due quesiti. La commissione risponde a due quesiti del consiglio nazionale degli ingegneri sulla corretta interpretazione dei commi 9 e 10 dell'art. 90 del dlgs n. 81/2008, il Tu sicurezza.
Con il primo quesito (comma 9) è stato chiesto di sapere il significato da dare alla dizione «in assenza del documento unico di regolarità contributiva» e, nello specifico, se la presenza di un Durc irregolare equivalga ad assenza del Durc e, quindi, se i lavori possano svolgersi senza che gli uffici comunali abbiano acquisito un Durc regolare di imprese o lavoratori autonomi.
Con il secondo quesito (comma 10) è stato chiesto di sapere se, nell'ipotesi precedente (Durc non regolare), sia ammissibile la sospensione del titolo abilitativo da parte delle amministrazioni concedenti.
Il Durc o c'è o non c'è. Quanto al primo quesito, la commissione spiega che l'art. 90, comma 9, stabilisce l'obbligo per il committente o responsabile dei lavori di verificare l'idoneità tecnico-professionale di imprese e lavoratori autonomi con le modalità di cui all'allegato XVII al Tu sicurezza.
Modalità che nei cantieri la cui entità è inferiore a 200 uomini-giorno per lavori non comportanti rischi particolari (di cui all'allegato XI) può essere la presentazione, da parte di imprese e lavoratori autonomi, di: certificato iscrizione camera commercio; Durc; autocertificazione sul possesso di altri requisiti (allegato XVII). Relativamente al Durc, la commissione fa presente che, come specificato nella disciplina del c.d. Durc online (dm 30.01.2015), per «assenza del documento unico di regolarità contributiva (Durc)» deve intendersi il suo mancato rilascio.
In altri termini, se non può essere attestata la regolarità dei versamenti contributivi non viene rilasciato un «Durc irregolare» non solo perché non è previsto dal sistema, ma perché, ontologicamente, il Durc è solo regolare. Pertanto, poiché il Durc è un certificato che attesta contestualmente la regolarità di un'impresa per quanto concerne gli adempimenti previdenziali, assicurativi e assistenziali di Inps, Inail e cassa edile, non può essere emesso nell'ipotesi di irregolarità.
Ora, aggiunge la commissione, mentre nell'ambito dei lavori privati il committente o il responsabile dei lavori deve chiedere il Durc a imprese e lavoratori autonomi per la verifica dell'idoneità tecnico-professionale, al contrario, nell'ambito degli appalti pubblici, la stazione appaltante è tenuta ad acquisire d'ufficio il Durc (online). Peraltro, evidenzia la commissione, nei lavori privati edili, il committente o responsabile dei lavori non deve più trasmettere il Durc all'amministrazione concedente prima dell'inizio dei lavori.
Stop ai lavori. Quanto al secondo quesito, la commissione ritiene che l'amministrazione concedente debba sospendano l'efficacia del titolo abilitativo in assenza del Durc, sia nel caso d'inadempienze comunicate da organi di vigilanza, sia in caso d'inadempienze accertate dall'amministrazione stessa (articolo ItaliaOggi del 13.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Limiti da chiarire sugli affidamenti. La gestione. Codice appalti e nuovo testo unico aprono alla partecipazione dei privati nelle affidatarie dirette senza fissare un tetto alle quote.
L’affidamento in house apre alla partecipazione dei privati senza possibilità di controllo, ma la nuova disciplina non specifica i limiti della partecipazione di questi soci.
Lo schema di decreto legislativo
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) che recepisce le direttive comunitarie in materia di appalti e di concessioni contiene anche la disciplina che dovrebbe integrarsi con le previsioni contenute negli schemi di testo unico sulle società partecipate e sui servizi pubblici locali.
Le norme sulle società a controllo pubblico titolari di affidamenti diretti di servizi, sulle quali le amministrazioni pubbliche esercitano il controllo analogo (sottoposte al prossimo vaglio della Conferenza unificata insieme a quelle sui modelli gestionali dei servizi pubblici), stabiliscono infatti che non vi sia partecipazione di capitali privati ad eccezione di quella prevista da norme di legge, e che queste partecipazioni non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società.
La specificazione delle modalità e, soprattutto, del dimensionamento della possibile partecipazione dei privati alla compagine societaria di un’affidataria in house è stata demandata al nuovo Codice degli appalti il cui schema (ormai al rush finale per l’approvazione definitiva) si limita a una declaratoria generica. La disposizione specifica, infatti, stabilisce soltanto che è ammessa la partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto e che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
Il Consiglio di Stato, nel
parere 01.04.2016 n. 855, evidenzia che la norma inserita nello schema del nuovo Codice in materia di appalti e concessioni si limita a produrre una formulazione generica (del tutto simile a quella desumibile dall’articolo 17 del principio della direttiva comunitaria 2014/23) e non indica, invece, il limite della partecipazione dei soci privati, auspicando che sia inserito.
Il Consiglio di Stato non indica peraltro la necessità di un limite quantitativo o la composizione di nuove norme ad opera dello stesso legislatore delegato, ma piuttosto sollecita un rinvio al quadro normativo già esistente.
E questo (anche se non esplicitato dal parere) è rinvenibile nella regola stabilita dall’articolo 2359 del Codice civile in base alla quale sono considerate società controllate quelle che vengono a trovarsi in tre situazioni tipizzate.
La prima riguarda le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, configurando un’ipotesi difficilmente ipotizzabile per le società affidatarie dirette, soprattutto per quelle pluripartecipate da amministrazioni pubbliche.
Più complesse sotto il profilo attuativo risultano le altre due fattispecie, nelle quali la norma civilistica prevede il controllo quando, in un caso, in una società un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria e, nell’altro, la società è sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Entrambe le proiezioni dell’influenza del socio privato lasciano presupporre che spetterà alle amministrazioni pubbliche socie elaborare norme statutarie e patti parasociali con adeguate clausole di garanzia, al fine di assicurare il mantenimento del controllo pubblico anche in caso di significative partecipazioni di privati.
    (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2016).

TRIBUTI: Terreni, la graffatura non conta. Area pertinenziale anche se non accorpata al fabbricato. Lo ha stabilito la Commissione tributaria regionale di Milano: estesi i benefici fiscali.
Un terreno può essere qualificato pertinenziale anche se non è accorpato catastalmente a un fabbricato e, quindi, non è soggetto a imposta autonomamente. La «graffatura», vale a dire l'unione dei due beni immobili in catasto, agevola l'attività di controllo dell'ente impositore, ma non può essere considerata decisiva per attribuire al terreno natura pertinenziale.

Lo ha stabilito la Commissione tributaria regionale di Milano, Sez. XIX, con la sentenza 14/2016.
Per i giudici d'appello, il fatto che un terreno non sia censito al catasto urbano unitamente al fabbricato destinato ad abitazione non può comportare il disconoscimento delle agevolazioni «prima casa», perché per il fisco essendo il terreno un bene autonomo allo stesso non potrebbe essere riconosciuta natura pertinenziale.
In realtà, «la normativa in materia di imposta di registro non prevede alcuna limitazione tassativa rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale di un fabbricato, ai fini di potere fruire delle cosiddette agevolazioni «prima casa», ma solo una elencazione esemplificativa».
Secondo la commissione regionale, «se è ben possibile ritenere che la graffatura rappresenti manifestazione inequivoca della volontà del proprietario di destinazione del terreno (area scoperta) a servizio od ornamento del fabbricato principale cui è agganciato; non può, al contrario, sostenersi che la mancata graffatura escluda automaticamente e insuperabilmente tale volontà, risultando tale interpretazione non conforme alla normativa primaria di riferimento».
La tesi della Cassazione sull'Ici. La regola stabilita dalla Ctr vale per l'imposta di registro, ma lo stesso trattamento è applicabile oggi per Imu e Tasi alle aree edificabili pertinenziali. Il principio affermato dal giudice d'appello con la pronuncia in esame trova conferma in precedenti pronunce della Cassazione (sentenza 19638/2009) in materia di Ici.
I giudici di legittimità hanno però riconosciuto il beneficio solo nei casi in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di variazione. Mentre dal punto di vista fiscale hanno ritenuto irrilevante la circostanza che un'area pertinenziale e una costruzione principale siano censite catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere assoggettate a tassazione come un unico bene e di fruire delle agevolazioni.
Tuttavia, il vincolo pertinenziale deve essere visibile e va rilevato dallo stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che in catasto l'area e il fabbricato non risultino accorpati. In caso contrario, i due immobili sono soggetti a imposizione autonomamente. Già con la sentenza 5755/2005 hanno stabilito che quando si tratta di pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze catastali, ma la destinazione di fatto.
L'area che costituisce, di fatto, pertinenza di un fabbricato non è soggetta a Ici, come area edificabile, anche se iscritta autonomamente al catasto. Sempre la Cassazione, con la sentenza 17035/2004, richiamata nella motivazione della sentenza 19638/2009, aveva chiarito che per le aree pertinenziali non si introduce alcuna particolare e nuova accezione di pertinenza, ma, semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale, dall'articolo 817 del codice civile. Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa.
Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole destinazione della cosa accessoria a servizio od ornamento di quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di creare la destinazione. Accertare la sussistenza di questo vincolo comporta un apprezzamento di fatto. Il tributo, dunque, non può essere richiesto per l'assenza di accorpamento (cosiddetta «graffatura») dell'area al contiguo fabbricato, ancorché costituenti unità catastali separate. L'autonomo accatastamento non rende irrilevante l'uso di fatto del terreno come pertinenza. Tanto meno rileva la presenza o meno di segni grafici, che sono inconsistenti sul piano probatorio.
La posizione dell'Agenzia delle entrate. Anche l'Agenzia delle entrate si dovrebbe allineare alla tesi della Cassazione sul trattamento dei terreni e delle aree edificabili che sono destinati, di fatto, a pertinenze dei fabbricati. La Ctr di Milano ha giudicato infondata la circolare del fisco sulle pertinenze.
L'Agenzia delle entrate (circolare 38/2005), infatti, non riconosce le agevolazioni per l'acquisto della prima casa, il cui atto di trasferimento sconta il pagamento dell'Iva o dell'imposta di registro, alle aree che siano autonomamente censite al catasto terreni. In questi casi non vengono considerate pertinenze anche se durevolmente destinate al servizio di un fabbricato urbano.
Secondo l'Agenzia i terreni «non graffati» all'immobile agevolato, in quanto iscritti autonomamente nel catasto terreni, non possono avvalersi del beneficio fiscale. Per godere dell'agevolazione le «aree scoperte» pertinenziali devono risultare censite al catasto urbano unitamente al fabbricato. In realtà, l'amministrazione finanziaria non nega che alle pertinenze debba essere riconosciuto un trattamento agevolato, ma non ammette che questa qualificazione possa essere attribuita ai terreni.
Con la suddetta circolare ha chiarito che sono ricomprese tra le pertinenze, limitatamente a una per ciascuna categoria, le unità immobiliari classificate o classificabili nelle categorie catastali C/2 (cantine, soffitte, magazzini), C/6 (autorimesse, rimesse, scuderie) e C/7 (tettoie chiuse o aperte), che siano utilizzate in modo durevole al servizio della casa di abitazione oggetto dell'acquisto agevolato.
Tra l'altro, per l'Agenzia, l'area pertinenziale è soggetta ai limiti fissati dall'articolo 5 del decreto ministeriale del 02.08.1969, in base al quale si considerano abitazioni di lusso le case che hanno come pertinenza un'area scoperta della superficie di oltre sei volte rispetto a quella coperta.
E superando questi limiti il contribuente non avrebbe comunque diritto ai benefici fiscali (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Abusivismo con prescrizione limitata. Edilizia. Per le Sezioni unite, se il Comune non risponde in 60 giorni il conteggio riparte.
Più difficile la prescrizione dei reati urbanistici, per la sentenza 13.04.2016 n. 15427 delle Sezz. unite penali della Corte di Cassazione (tratta da www.lexambiente.it)).
Concludendo una vicenda di condoni edilizi nati dalla legge 47/1985 (cioè con procedure più volte prorogate fino al 31.12.1993), i giudici hanno cristallizzato due princìpi sulla prescrizione quinquennale:
- se si presenta al Comune istanza di accertamento di conformità (articolo 36, Dpr 380/2001), il processo è sospeso e quindi il quinquennio non decorre;
- la prescrizione ricomincia a decorrere se il Comune non si pronuncia entro 60 giorni.
È quindi inutile che l’imputato o il difensore chiedano al giudice di mantenere a lungo sospeso il processo, sperando nel fluire del quinquennio in attesa che l’ente si pronunci. Per meglio comprendere l’utilità della sentenza, giova ricordare che la condanna penale è un serio rischio per chi costruisce abusivamente, sia per le conseguenze professionali su imprese e tecnici sia perché gli articoli 31 e 44 del Dpr 380 prevedono che il giudice penale ordini la demolizione delle opere, se non ha già provveduto il sindaco.
Per frenare le macchine sanzionatorie amministrativa (comunale) e giudiziaria (penale), gli autori degli abusi ricorrevano a procedure intricate, chiedendo la sanatoria (possibile fino a tutto il 1993) o un "accertamento di conformità” nel caso in cui l’abuso risultasse genericamente sanabile: in tale situazione, per ragioni che la Cassazione ha più volte definito “imperscrutabili”, i procedimenti amministrativi si arenavano e non rispettavano i corretti tempi di decisione (60 giorni dall’istanza di accertamento). Così, facendo leva sull’inerzia dei Comuni, gli imputati ottenevano lunghe sospensioni dei processi, che si concludevano quando gli enti si pronunciavano sfavorevolmente.
Ma anche in caso di provvedimento sfavorevole gli imputati ottenevano vantaggi, perché con poca lealtà, chiedevano comunque di calcolare a loro favore gli anni passati in attesa del provvedimento. Tutto ciò rendeva agevole accumulare i cinque anni entro i quali si consuma il potere sanzionatorio penale (compreso, quindi, il potere del giudice di disporre la demolizione). In sostanza, attraverso labirinti penali ed amministrativi, si generava una sostanziale impunità.
Con la sentenza di ieri, la prescrizione penale resta di cinque anni, ma non subisce più interruzioni chieste per mera strategia processuale: l’imputato potrà far valere, come periodo valido ai fini del quinquennio, solo i primi 60 giorni dall’istanza di accertamento di conformità. Tutti gli altri periodi di sospensione del processo, ottenuti con poca trasparenza, non gli saranno utili ai fini del calcolo e quindi non danneggeranno il potere d’intervento della magistratura penale.
Non potendo intervenire sulla durata della prescrizione (una modifica normativa non potrebbe essere retroattiva), la Cassazione snellisce quindi il procedimento, restituendo linearità e tempi definiti ai poteri giudiziari e all’operato dei Comuni
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria e prescrizione del reato urbanistico.
Il periodo di sospensione del processo disposto dal giudice nelle ipotesi di presentazione di istanza per la concessione in sanatoria, ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, deve essere considerato ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio, e, in caso di successive istanze di rinvio del processo dinanzi al giudice penale ed all’esito negativo della domanda amministrativa di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, si applicano le disposizioni previste dall’art. 159, comma 1, par. 3), del codice penale per effetto di richieste di rinvio su istanze del privato.
---------------
   1. Le questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite sono le seguenti:
- "
se la sospensione del processo, prevista nel caso di presentazione della istanza di 'accertamento di conformità', ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 legge n. 47 del 1985), debba essere considerata ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio";
- "
se, in caso di sospensione del processo disposta su richiesta dell'imputato o del suo difensore oltre il termine previsto per la formazione del silenzio-rifiuto ex art. 36 d.P.R. cit., operi la sospensione del corso della prescrizione a norma dell'art. 159, primo comma, n. 3, cod. pen.".
   2. Occorre preliminarmente richiamare l'attenzione sulle differenze intercorrenti tra la disciplina del "condono edilizio", di cui alle leggi 28.02.1985, n. 47, 23.12.1994, n. 724, e 24.11.2003, n. 326 (quest'ultima di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 30.09.2003, n. 269), e quella della "sanatoria" conseguente ad accertamento di conformità, disciplinata dall'art. 36 del Testo Unico dell'edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), specificamente riguardante la questione sottoposta all'attenzione delle Sezioni Unite.
Come è noto, con la legge 28.02.1985, n. 47, si è individuata, per la prima volta, una disciplina organica dell'attività edilizia, sulla quale era in precedenza intervenuta la legge 28.01.1977, n. 10, operandosi una consistente revisione della normativa previgente.
L'entrata in vigore della legge n. 47/1985 venne accompagnata dalla previsione del primo condono edilizio, che aveva lo scopo di dare un netto taglio al passato, recuperando le opere abusive fino ad allora realizzate. Tale scelta legislativa, venne poi replicata, per ragioni di razionalizzazione della finanza pubblica, con la legge 23.12.1994, n. 724, e, successivamente, con la legge 24.11.2003, n. 326, la quale convertiva, con modificazioni, il decreto-legge 30.09.2003, n. 269.
La legge n. 724/1994 e la successiva legge n. 326/2003, pur prevedendo, per la definizione degli illeciti edilizi presi in considerazione, requisiti e formalità differenti, fanno comunque riferimento alle disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47 del 1985, alle quali hanno anche apportato modifiche.
   3. Come si rileva, dunque, dalla lettura delle menzionate disposizioni,
il condono edilizio si caratterizza per l'efficacia limitata nel tempo, poiché è finalizzato alla regolarizzazione di determinati abusi edilizi realizzati entro un limite temporale individuato dalla norma.
Il suo effetto estintivo, inoltre, consegue al pagamento di un'oblazione, formalizzato attraverso l'attestazione, da parte dell'autorità comunale, della congruità di quanto corrisposto a tale titolo.
Esso opera, peraltro, anche con riferimento ad interventi in contrasto con gli strumenti urbanistici e produce effetti estintivi anche verso reati conseguenti alla violazione delle norme antisismiche e sulle costruzioni in cemento armato.

La sanatoria disciplinata dagli articoli 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 (e, in precedenza, dagli artt. 13 e 22 legge n. 47 del 1985) opera, al contrario, su un piano del tutto diverso, in quanto destinata, in via generale, al recupero degli interventi abusivi previo accertamento della conformità degli stessi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione, nonché alla verifica della sussistenza di altri requisiti di legge specificamente individuati.
In base al menzionato articolo 36,
la sanatoria può essere ottenuta quando l'opera eseguita in assenza del permesso sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati o non in contrasto con quelli adottati, tanto al momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento della presentazione della domanda, che può avvenire fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e, comunque, fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative.
Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi -con adeguata motivazione- entro sessanta giorni, trascorsi inutilmente i quali la domanda si intende respinta. L'istanza è subordinata, inoltre, al pagamento di una somma a titolo di oblazione, secondo le modalità descritte nello stesso articolo.
In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il rilascio della sanatoria «estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti», con esclusione, quindi, di altri reati eventualmente concorrenti.
   4.
Si tratta, dunque, di istituti che hanno finalità ed ambito di applicazione del tutto differenti e che non possono essere confusi, come ha già rilevato la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 6331 del 20/12/2007, dep. 2008, Latteri, Rv. 238822; Sez. 3, n. 10307 del 28/09/1988, Serra, Rv. 179501; Sez. 3, n. 9797 del 22/06/1987, Scarcella, Rv. 176643), riconoscendo, tra l'altro, la specialità della disciplina del condono edilizio rispetto a quella della sanatoria conseguente all'accertamento di conformità (Sez. 3, n. 23996 del 12/5/2011, De Crescenzo, Rv. 250607).
A conclusioni analoghe è peraltro pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, rilevando l'antiteticità dei presupposti dei due procedimenti di sanatoria, per il fatto che il condono edilizio concerne il perdono ex lege per la realizzazione, senza titolo abilitativo, di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, comportante una violazione sostanziale, mentre la sanatoria riguarda l'accertamento postumo della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza permesso di costruire agli strumenti urbanistici e riguarda una violazione formale (così, Cons. Stato, sez. 6, n. 466 del 02/02/2015).
   5. Entrambe le procedure, tuttavia, presuppongono periodi di sospensione, diversamente disciplinati, che assumono specifico rilievo riguardo al computo del termine massimo di prescrizione del reato.
In particolare, per ciò che concerne il condono edilizio, sono state individuate due distinte cause di sospensione del processo.
La prima, prevista dall'art. 44 legge n. 47/1985, definita "automatica", in quanto applicabile a tutti i procedimenti in cui risulti contestato un reato urbanistico o commessa una violazione di detta normativa, indipendentemente dalla presentazione o meno di una domanda di condono e quantificata in 223 giorni.
Detta quantificazione veniva effettuata dalle Sezioni Unite (sent. n. 1283 del 03/12/1996, dep. 1997, Sellitto, Rv. 206849), chiamate a risolvere il contrasto venutosi a creare in ordine al calcolo dei termini complessivi di sospensione del decorso della prescrizione in conseguenza della mancata conversione di vari decreti legge, succedutisi nel tempo prima della approvazione della legge n. 724/1994.
La seconda causa di sospensione, prevista dall'art. 38 della stessa legge, indicata come "obbligatoria" -ma subordinata all'accertamento di determinati presupposti, quali la presentazione di una domanda di condono relativa all'immobile abusivo oggetto del processo realizzato nei limiti temporali stabiliti ed il versamento della prima rata di oblazione autodeterminata- che non può superare i due anni.
Sull'applicabilità in concreto delle sospensioni previste dalle disposizioni sul condono edilizio si contrapponevano, tuttavia, opposti indirizzi giurisprudenziali, in quanto, secondo un primo orientamento, maggioritario, tanto la sospensione "automatica", quanto quella "obbligatoria" erano applicabili a tutti i procedimenti riguardanti i reati edilizi indicati agli artt. 38, comma 2, legge n. 47/1985 e 39, comma 8, legge n. 724/1994; e ciò indipendentemente dall'epoca di commissione degli illeciti (considerato il requisito temporale previsto per la condonabilità delle opere) e dall'effettiva sospensione disposta con provvedimento del giudice.
L'altro indirizzo, invece, escludeva l'applicabilità della sospensione ai reati la cui consumazione risultava, sulla base della contestazione e degli atti del procedimento, proseguita dopo il 31.12.1993, data individuata dalla legge n. 724/1994 quale termine ultimo per il completamento delle opere, che ne consentiva la condonabilità.
Le Sezioni Unite (sent. n. 22 del 24/11/1999, Sadini, Rv. 214792), chiamate a risolvere il contrasto, hanno ritenuto preferibile quest'ultimo indirizzo interpretativo, sulla base del dato letterale dell'art. 39, comma 1, legge n. 724/1994, il quale richiama, tra l'altro, il capo IV della legge n. 47/1985 -nel quale sono compresi gli artt. 44 e 38, che riguardano le due ipotesi di sospensione dei procedimenti penali e che fanno, a loro volta, riferimento agli artt. 35 e 31, concernenti la presentazione della domanda di condono- osservando come esso non sembri consentire una interpretazione diversa da quella secondo la quale la data del 31.12.1993 costituisce uno dei presupposti per la condonabilità e per la sospensione dei procedimenti penali.
Veniva ulteriormente rilevato che l'inesistenza di detto presupposto impediva non soltanto il condono delle opere abusive, ma anche la sospensione del procedimento penale e ciò indipendentemente dal fatto che il giudice avesse disposto o negato la sospensione del procedimento, dovendosi, nel primo caso, ritenere la sospensione inesistente per assenza, appunto, del suo fondamentale presupposto.
Analoga lettura delle richiamate disposizioni veniva successivamente offerta dalla Terza Sezione penale (Sez. 3, n. 21679 del 06/04/2004, Paparusso, Rv. 229319. V. anche Sez. 3, n. 47342 del 15/11/2007, Maffongelli, Rv. 238619; nonché Sez. 3, n. 40434 del 13/07/2006, Gambino, Rv. 236270, non massimata sul punto), osservandosi che, mentre l'art. 31 legge n. 47/1985, nella sua formulazione testuale, prevedeva una serie di requisiti esclusivamente in relazione alla possibilità di conseguire la concessione o la autorizzazione in sanatoria, l'art. 32, comma 25, decreto legge n. 269/2003, poi convertito dalla legge n. 326/2003 (come già l'art. 39 legge n. 724/1994), subordinava l'applicazione degli interi capi 4 e 5 della legge n. 47/1985 all'esistenza di determinati requisiti di condonabilità dell'opera.
   6. Conseguentemente, l'art. 44 legge n. 47/1985 veniva ritenuto applicabile nei soli casi di oggettiva presenza di detti requisiti, in assenza dei quali era esclusa anche l'applicabilità dell'art. 39 della legge medesima (il quale prevede l'estinzione dei reati conseguente alla mera effettuazione dell'oblazione, «qualora le opere non possano conseguire la sanatoria»), osservandosi che risulterebbe incongruo argomentare che la sospensione possa essere comunque finalizzata a conseguire il beneficio già previsto da tale ultima norma.
Va anche ricordato che,
in relazione al difetto dei requisiti di condonabilità, la possibilità di sospensione del processo era stata esclusa in caso di richiesta di condono presentata per violazioni edilizie relative a nuove costruzioni non residenziali, in quanto l'art. 32 legge n. 326/2003 limita l'applicabilità del condono edilizio alle sole nuove costruzioni residenziali (Sez. 3, n. 8067 del 19/01/2007, Zenti, Rv. 236084; Sez. 3, n. 14436 del 17/02/2004, Longo, Rv. 227959; Sez. 3, n. 3358 del 18/11/2003, dep. 2004, Gentile, Rv. 227178); in relazione a interventi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, rientranti tra quelli esclusi dal condono dall'art. 32, comma 26, lett. a), legge n. 326/2003 (Sez. 3, n. 9670 del 26/01/2011, Rizzo, Rv. 249606; Sez. 3, n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi, Rv. 235033; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci, Rv. 231315 ed altre conformi) o, più in generale, in caso di presentazione di domanda di sanatoria strumentale o dilatoria e inerente a un fabbricato non ultimato entro il termine stabilito (Sez. 3, n. 5452 del 17/03/1999, Somma G, Rv. 213369).
La sospensione è stata inoltre esclusa anche con riferimento al c.d. "condono paesaggistico" di cui all'art. 37 legge n. 308/2004, mancando una espressa previsione normativa ed in assenza di qualsivoglia correlazione con le disposizioni in tema di condono edilizio (Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, Rv. 246759, non rnassimata sul punto; Sez. 3, n. 32529 del 19/04/2006, Martella, Rv. 234934).
Si è chiarito, inoltre, che la sospensione riguarda soltanto la fase del giudizio e non anche quella delle indagini preliminari (Sez. 3, n. 48986 del 09/11/2004, Cerasoli, Rv. 230475).
In altre decisioni si è poi affermato che l'omessa sospensione del procedimento da parte del giudice non può essere dedotta quale vizio della decisione eventualmente presa, non determinandosi alcuna nullità, stante l'assenza di una previsione di legge in tal senso (Sez. 3, n. 19235 del 15/02/2005, Benzo, Rv. 231848; Sez. 3, n. 7847 del 27/05/1998, Todesco, Rv. 211354; Sez. 3, n. 11422 del 29/09/1997, Onolfo, Rv. 210101 ed altre conformi), osservandosi, tra l'altro, che la sospensione del processo opera indipendentemente dalla pronuncia del giudice, avente natura meramente dichiarativa, purché sussistano i presupposti di legge e può essere accertata anche in sede di giudizio finale (Sez. 3, n. 3871 del 22/10/2010, dep. 2011, Pisa, Rv. 249151, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 22921 del 06/04/2006, Guercio, Rv. 234475; Sez. 3, n. 6054 del 12/03/1999, Bartaloni, Rv. 213763 ed altre conformi)
Inoltre, qualora applicata, la sospensione deve riguardare l'intero procedimento quando il giudice di merito, riconoscendo il vincolo della continuazione, abbia proceduto unitariamente per varie ipotesi di reato, delle quali alcune soltanto siano divenute estinguibili a seguito di condono (v. per tutte Sez. U, n. 9080 del 09/06/1995, Luongo, Rv. 201861).
La possibilità di sospendere il procedimento a seguito della presentazione della domanda di condono edilizio (nella specie, ai sensi della legge n. 326/2003) è stata anche esclusa in caso di inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi, sul presupposto che la sospensione deve essere disposta con riferimento ai procedimenti in corso, mentre, impedendo l'inammissibilità del ricorso la formazione di un valido rapporto di impugnazione, non può ritenersi che tale condizione si sia verificata (Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 9536 del 20/01/2004, Mancuso, Rv. 227404; Sez. 3, n. 979 del 27/11/2003, dep. 2004, Nappo, Rv. 227950; Sez. 3, n. 5309 del 13/11/2003, dep.2004, Sciaccovelli, Rv. 227556).
   7. Alla luce di quanto affermato dalla sentenza Sadini delle Sezioni Unite, si è ricavato -considerando la formulazione "speculare" dell'art. 32, comma 25, d.l. n. 269/2003 rispetto all'art. 39 legge n. 724/1994, preso in esame nella menzionata decisione- un ulteriore principio generale, secondo il quale
il giudice, già prima di sospendere il processo in forza dell'art. 44 legge n. 47/1985, deve effettuare un controllo in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti per la concedibilità in astratto del condono, perché, diversamente opinandosi, si allungherebbero «inevitabilmente ed inutilmente i tempi del processo» e, nel caso in cui il giudice sospenda il processo in assenza dei presupposti di legge, la sospensione deve ritenersi inesistente (Sez. 3, n. 9670 del 26/01/2011, Rizzo, cit.; Sez. 3, n. 563 del 17/11/2005, dep. 2006, Martinico, Rv. 233011; Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, cit.; Sez. 3, n. 3350 del 13/11/2003, dep. 2004, Lasí, Rv. 227217).
L'ambito del controllo relativo alle condizioni legittimanti l'accesso alla procedura di sanatoria riguarda, secondo altra pronuncia, la data di esecuzione delle opere; lo stato di ultimazione delle stesse secondo la nozione fornita dall'art. 31 della legge n. 47/1985; il rispetto dei limiti volumetrici; eventuali esclusioni oggettive della tipologia d'intervento dalla sanatoria, nonché la tempestività della presentazione, da parte di soggetti legittimati, di una domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate nel capo di imputazione (Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Termíniello, Rv. 237824; Sez. 3, n. 28517 del 29/05/2007, Marzano, Rv. 237140, non massímata sul punto).
Il successivo accertamento dell'inesistenza dei presupposti per l'applicazione del condono, tuttavia, non determina inevitabilmente l'inesistenza della sospensione, perché, a tal fine, deve ovviamente prendersi in considerazione la situazione prospettatasi al giudice nel momento in cui ha pronunciato la relativa ordinanza.
Sempre tenendo conto di quanto affermato nella sentenza Sadíní, si è del tutto correttamente rilevato come, in tale pronuncia, venga affermato che, in tema di condono edilizio, le cause di sospensione del processo penale sono soltanto quelle previste dalla legge, che richiedono determinati presupposti, in difetto dei quali la sospensione eventualmente disposta non può produrre risultati efficaci.
Ciò implica, tuttavia, che l'inesistenza di una valida causa di sospensione risulti dagli atti processuali o dalla stessa contestazione del reato e sia, conseguentemente, immediatamente rilevabile dal giudice, perché, altrimenti, il successivo accertamento della inesistenza dei requisiti per l'applicazione della causa estintiva della contravvenzione non farebbe venir meno la correttezza dell'iniziale ordinanza sospensiva (e, quindi, gli effetti ad essa connessi, della conseguente sospensione della prescrizione), avendo il giudice proceduto nella esatta osservanza di quanto previsto dalla legge (Sez. 3, n. 8536 del 18/05/2000, Zarbo, Rv. 217754; conf. Sez. 3, n. 29253 del 24/06/2005, Di Maio, Rv. 231951).
È di tutta evidenza che le argomentazioni sviluppate nelle richiamate decisioni assumono particolare rilievo per ciò che concerne il computo dei termini di prescrizione, sulla decorrenza dei quali incide, in maniera significativa, la sospensione del procedimento.
   8. Per ciò che riguarda, invece, il diverso istituto della sanatoria conseguente ad accertamento di conformità, va osservato come il già menzionato art. 45 d.P.R. n. 380/2001 stabilisca, al comma 1, che l'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all'art. 36.
Tale articolo dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, poiché, decorso tale termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato orientamento, una ipotesi di silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240234; Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, Rv. 232181; Sez. 3, n. 16706 del 18/02/2004, Brilla, Rv. 227960; Sez. 3, n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353), al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
Pur verificandosi tale evenienza, tuttavia, l'Amministrazione non perde il potere di provvedere, in quanto il silenzio-rigetto è esplicitamente previsto al solo fine di consentire all'interessato di adire il giudice (ex plurimis Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240233. V. anche Sez. 3, n. 11604 del 11/11/1993, Schiavazzi, Rv. 196069; Sez. 3, n. 16245 del 10/10/1989, Allegrini, Rv. 182627),
sebbene l'eventuale instaurazione di un procedimento amministrativo avviato mediante ricorso avverso il diniego di sanatoria non comporti alcuna estensione della durata della sospensione fino alla sua definizione (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, Rv. 265085; Sez. 3, n. 24245 del 24/03/2010, Chiarello, Rv. 247692; Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, Rv. 245418, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 4614 del 13/01/1994, Cammariere, Rv. 197767; Sez. 3, n. 12779 del 02/12/1991, Leggio, Rv. 188743), come rilevato anche dalla Corte costituzionale nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità dell'art. 22, primo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (ord. n. 247 del 2000, la quale richiama anche la sentenza n. 85 del 1998 e l'ordinanza n. 309 del 1998).
Il provvedimento con il quale il giudice dispone la sospensione richiede, peraltro, il previo accertamento della effettiva sussistenza dei presupposti necessari per il conseguimento della sanatoria e, inoltre, la mancata sospensione -in assenza di espressa previsione normativa e non configurandosi pregiudizi al diritto di difesa dell'imputato, potendo questi far valere l'esistenza o la sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di giudizio- non determina alcuna nullità (Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, cit.).
La sospensione, inoltre, non opera con riferimento ai reati esclusi dagli effetti estintivi determinati dal rilascio della concessione in sanatoria, diversamente da quanto previsto in materia di condono (Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997, dep. 1998, Casà, Rv. 209662).
   9.
Il richiamo, effettuato espressamente dall'art. 45 d.P.R. n. 380/2001 all'art. 36 dello stesso decreto, il quale prevede, all'ultimo comma, il termine di sessanta giorni entro il quale il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi sulla domanda di sanatoria, limita -evidentemente- la durata della sospensione a tale determinato lasso temporale. In tal senso si è, peraltro, più volte espressa anche la Corte costituzionale (ordd. nn. 304 e 201 del 1990; n. 423 del 1989).
Sebbene in precedenza (Sez. U, n. 10849 del 01/10/1991, Mapelli, Rv. 188579) si sia affermato che, in mancanza di impugnazione, la sospensione del procedimento, ai sensi dell'allora vigente art. 22 legge n. 47/1985, anche se disposta fuori dei limiti consentiti, produce i suoi effetti propri, tra cui la sospensione del corso della prescrizione, in una successiva pronuncia delle Sezioni Unite (n. 4154 del 27/03/1992, Passerotti, Rv. 190245),
si è osservato come la sospensione dipenda direttamente dalla richiesta del titolo abilitativo in sanatoria e la sua durata corrisponda al tempo stabilito dalla legge per la definizione del procedimento, cioè per sessanta giorni dalla richiesta, con la conseguenza che il provvedimento del giudice, avente natura meramente dichiarativa, non può svolgere alcun ruolo preclusivo, cosicché non potrà assumere rilievo una sospensione disposta in mancanza delle condizioni stabilite, né un periodo di sospensione superiore a quello fissato dalla legge.
A tali principi si sono adeguate successive pronunce, le quali hanno considerato limitato il periodo di sospensione a soli sessanta giorni (Sez. 3, n. 16706 del 18/02/2004, Brilla, cit.; Sez. 3, n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353; Sez. 3, n. 2220 del 26/01/1999, Sasso, Rv. 212717), evidenziando anche la preclusione, per il giudice penale, a sindacare la legittimità del provvedimento della competente autorità amministrativa di diniego di rilascio del permesso di costruire in sanatoria (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, cit.; Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, cit.).
   10. Anche riguardo alla disciplina della sanatoria per accertamento di conformità, come già osservato con riferimento al condono edilizio, la prevista sospensione assume rilievo determinante ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato e proprio con riferimento ad essa è stato rilevato il contrasto che ha portato alla rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Si è infatti ritenuta, in una prima pronuncia (Sez. F, n. 34938 del 09/08/2013 Bombaci, Rv. 256714), l'illegittimità dell'ordinanza di sospensione dei termini di prescrizione per un tempo superiore alla durata della procedura amministrativa per la definizione della sanatoria e conseguente al differimento del procedimento penale, disposto su richiesta della difesa proprio in ragione della pendenza della procedura medesima.
La sospensione è stata infatti considerata in contrasto con il disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, con il limite temporale massimo di sessanta giorni fissato dalla legge per la definizione del procedimento finalizzato al rilascio del titolo abilitativo sanante, trascorso il quale la domanda si intende respinta.
A tale indirizzo interpretativo si è successivamente contrapposta altra decisione (Sez. 3, n. 41349 del 28/05/2014, Zappalorti, Rv. 260753), nella  quale, in presenza di un rinvio disposto su richiesta della difesa e giustificato dalla pendenza del procedimento amministrativo, successivamente non perfezionatosi, di sanatoria edilizia di un immobile abusivo, l'operatività della sospensione ai fini del computo dei termini di prescrizione è stata estesa per l'intera durata del differimento.
Dichiarando di non condividere il diverso orientamento espresso dalla menzionata sentenza Bombaci, la Terza Sezione ricorda come le Sezioni Unite (n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220509), sostanzialmente anticipando quanto poi espressamente stabilito dal legislatore con le modifiche apportate, nel 2005, all'art. 159 cod. pen., abbiano affermato che «
oggi il processo vive prevalentemente delle iniziative non solo istruttorie delle parti anche private, che hanno il potere di contribuire autonomamente a determinare tempi, modalità e contenuti delle attività processuali. Le parti non hanno più solo poteri limitativi dell'autorità del giudice, ma condividono con il giudice la responsabilità dell'andamento del processo. E debbono assumersi conseguentemente gli oneri connessi all'esercizio dei loro poteri».
La sentenza Zappalorti ritiene, dunque, del tutto incongrua un'interpretazione della norma «che consenta alla stessa parte che ha chiesto ed ottenuto il rinvio della udienza, pur in mancanza dei presupposti legittimanti, di lamentare la correlata considerazione della sospensione della prescrizione proprio da tale rinvio derivante» (analoghe considerazioni erano state svolte, in precedenza, in Sez. 3, n. 26409 del 08/05/2013, C., Rv. 255579), pur distinguendo le diverse ipotesi in cui il rinvio sia stato invece disposto per impedimento della parte o del difensore, ovvero, in pendenza di sanatoria e oltre il sessantesimo giorno dall'avvio del relativo procedimento amministrativo, sia disposto d'ufficio dal giudice, in mancanza di richiesta di parte, riconoscendo, in tali casi, una operatività del rinvio limitata a soli sessanta giorni.
   11. Tale ultimo indirizzo interpretativo risulta pienamente condivisibile. Invero, la sentenza Bombaci, pur partendo da un presupposto corretto e, cioè, che la sospensione ex lege del procedimento, in pendenza della domanda di sanatoria, è limitato, come si è precisato in precedenza, a soli sessanta giorni, giunge a conclusioni errate laddove sembra fondare la riconosciuta illegittimità del differimento oltre il sessantesimo giorno sul presupposto che la decorrenza di detto termine comporti il silenzio-rigetto, considerando quindi ogni ulteriore rinvio (e la conseguente sospensione dei termini di prescrizione), anche se espressamente richiesto al giudice, come ingiustificato.
Una simile affermazione non tiene conto del fatto che, nonostante il decorso del termine ed il significativo silenzio dell'amministrazione competente, questa non perde il potere di rilasciare comunque, in presenza dei presupposti di legge, il permesso di costruire in sanatoria, cosicché una eventuale richiesta di rinvio in previsione dell'accoglimento della domanda già presentata risulterebbe pienamente giustificato, considerato, peraltro, i vantaggiosi effetti per l'imputato che conseguono al rilascio del titolo abilitativo postumo.
Al contrario, del tutto irragionevoli risulterebbero le conseguenze di una diversa lettura delle disposizioni richiamate che considerino non superabile, in ogni caso, il termine di sospensione di sessanta giorni.
Invero, detto termine di definizione del procedimento amministrativo di sanatoria non viene, in pratica, quasi mai rispettato per diverse ragioni, e gli effetti, decisamente negativi per il richiedente, conseguenti al fatto che dopo il decorso del temine la domanda si intende rifiutata, sono sostanzialmente compensati dalla più volte ricordata possibilità, per l'amministrazione competente, di rilasciare comunque la sanatoria anche oltre il sessantesimo giorno dalla presentazione della richiesta.
Ebbene, accedendo all'orientamento secondo il quale ogni ulteriore sospensione del procedimento, comunque disposta, sarebbe illegittima, si verrebbe a configurare una singolare situazione, nella quale, al fine di evitare il decorso dei termini di prescrizione, il giudice si vedrebbe costretto a proseguire comunque nella trattazione del processo, anche in presenza di una espressa richiesta in tale senso della parte.
Ciò detto, va chiarito che
devono comunque tenersi distinte l'ipotesi della sospensione ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e quella della sospensione conseguente al rinvio su istanza di parte.
Nel primo caso, infatti, vanno applicati i principi, richiamati in precedenza e sviluppati con riferimento tanto alla disciplina del condono che a quella sulla sanatoria per accertamento di conformità, i quali presuppongono, ai fini della legittimità della sospensione, la previa verifica, da parte del giudice, della oggettiva sussistenza dei presupposti di legge.
L'analisi effettuata dalla giurisprudenza è stata particolarmente approfondita, come si è visto, riguardo alla più ampia casistica sviluppatasi in relazione al condono, sebbene conclusioni non dissimili siano state tratte anche con riferimento alla sanatoria per accertamento di conformità.
Ne consegue che, a fronte di una situazione, risultante chiaramente dagli atti o dall'imputazione, che evidenzi, pacificamente e senza necessità di specifici accertamenti, l'assenza dei requisiti per l'accoglimento della domanda, come, ad esempio, in caso di plateale contrasto delle opere con le previsioni degli strumenti urbanistici, la sospensione, per il periodo di sessanta giorni indicato dalla legge per la definizione del procedimento amministrativo (o per quello, superiore, eventualmente indicato nel provvedimento che la dispone), non potrà operare e, se disposta comunque dal giudice, autonomamente e senza richiesta di parte, non potrà produrre effetti di sospensione dei termini di prescrizione.
Per contro, avranno in ogni caso effetti sospensivi del corso della sospensione i rinvii disposti in accoglimento di una richiesta dell'imputato o del suo difensore, dovendosi al riguardo condividere le osservazioni svolte dalla citata sentenza Zappalorti.
Ricorda infatti tale pronuncia che la giurisprudenza formatasi in tema teneva necessariamente conto di quanto stabilito dall'art. 159 cod. pen. prima degli interventi modificativi ad opera della legge 05.12.2005, n. 251 («
Il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere o di questione deferita ad altro giudizio, e in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge»), la quale, con l'art. 6, ne ha sostituito il testo che, come è noto, stabilisce ora, al primo comma, n. 3, che il corso della prescrizione rimane, tra l'altro, sospeso in caso di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori, ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore, disponendo che, nella prima ipotesi, l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento, dovendosi avere riguardo, in caso contrario, al tempo dell'impedimento aumentato di sessanta giorni.
La disposizione è stata sempre interpretata nel senso che il rinvio dell'udienza, accordato su richiesta del difensore, determina la sospensione dei termini di prescrizione del reato, ritenendosi, peraltro, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 159 cod. pen., sollevata per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non indica il termine massimo di sospensione della prescrizione conseguente alla richiesta della difesa dell'imputato di un differimento dell'udienza, osservandosi che la previsione di rinvii del dibattimento su richiesta di parte è finalizzata al soddisfacimento di esigenze diverse da quelle costituenti legittimo impedimento e tiene conto della libera scelta del difensore di chiedere il rinvio, sicché è stato ritenuto logico, in tal caso, contemperare l'aggravio per l'ufficio giudiziario derivante dal soddisfacimento di esigenze di parte, rimettendo alla sua determinazione la durata del rinvio in modo da tener conto delle esigenze dell'ufficio medesimo (Sez. 3, n. 45968 del 27/10/2011, Diso, Rv. 251629).
Si è inoltre osservato (Sez. 3, n. 29885 del 15/04/2015, Vuolo, Rv 264433) come, in tali casi, la durata del differimento sia discrezionalmente determinata dal giudice in considerazione delle esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, dei diritti e delle facoltà delle parti coinvolte nel processo, nonché dei principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della giurisdizione, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite (n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262914) con riferimento a tutti i casi in cui il giudice, su richiesta del difensore, accordi un rinvio della udienza, pur in mancanza delle condizioni che integrano un legittimo impedimento per concorrente impegno professionale del difensore.
   12. In caso di rinvio su richiesta dell'imputato o del suo difensore, dunque, ai fini della sospensione dei termini di prescrizione operano i principi generali stabiliti dal codice di rito, i quali, peraltro, avranno effetto, a differenza di quanto avviene con riguardo alla sospensione prevista dal combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001, anche con riferimento ai reati eventualmente concorrenti con la contravvenzione di cui all'art. 44 del medesimo decreto.
   13. Ne consegue che ai quesiti posti in apertura della presente parte motiva, al § 1, deve rispondersi affermativamente.
...
   15. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento al secondo e al terzo motivo di ricorso, perché le opere, come descritte nel capo di imputazione, necessitavano, per essere eseguite, del preventivo rilascio del permesso di costruire.
Si tratta di un intervento edilizio che deve essere unitariamente considerato, diversamente da quanto affermato in ricorso, ove viene effettuata la disamina delle singole opere al fine di sostenere la soggezione delle stesse ad un diverso regime autorizzatorio, ponendosi così in contrasto con il principio, ripetutamente affermato, secondo il quale il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, dep. 2015, Prevosto, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011, dep.2012, Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010, Tulipani, non massimata, ed altre conformi).
Corretta risulta pertanto la soluzione adottata dalla Corte territoriale, la quale ha puntualmente analizzato la natura e consistenza dell'intervento realizzato, qualificando correttamente la condotta oggetto di contestazione, con motivazione adeguata, del tutto immune da salti logici o manifeste contraddizioni, che il ricorso denuncia senza ulteriori specificazioni, evidenziando, così, un'assoluta genericità (Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 13.04.2016 n. 15427 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi, anche in assenza di un termine perentorio stabilito in via normativa, sulla base del principio generale per il quale ogni procedimento amministrativo ha un termine.
Tale principio consente di fondare la legittimazione ad agire attraverso la procedura del silenzio, quando sono stati superati limiti ragionevoli e non sussistono cause giustificative oggettivamente rilevabili o formalmente dichiarate dall’Amministrazione con atti interlocutori.
In tali casi sussiste l’interesse tutelato delle parti alla conclusione del procedimento di emersione, anche se poi spetterà al giudice di valutare se vi sono le condizioni per fissare un termine e quale debba essere questo termine in relazione al tempo trascorso e alla esistenza o meno di cause giustificative.

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6.4. – La vera questione da approfondire sulla base di una non del tutto univoca giurisprudenza del consiglio di Stato è quella già indicata al punto 6.1. relativa alla azionabilità della procedura del silenzio con riferimento al provvedimento conclusivo del procedimento di emersione dal lavoro irregolare in relazione a quanto previsto per i provvedimenti in materia di immigrazione dalla disciplina generale dei termini amministrativi prevista dalla legge n. 241/1990.
6.5. – La giurisprudenza più recente di questa Sezione, ed in particolare le sentenze 25.02.2014, n. 891, 10.09.2014, n. 4607, 21.01.2015, n. 206, 17.11.2015, n. 5262, hanno esaminato e analizzato la disciplina dei termini dei procedimenti amministrativi prevista dall'art. 2 della legge n. 241/1990 ed in specie i commi 2, 3, 4: "2. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni.
3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza.
4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione.
"
6.6. - Considerata la sequenza delle sopra riportate norme, la richiamata giurisprudenza ne deduce la evidenza che l'esclusione della materia dell'immigrazione, di cui all'ultimo periodo del sopra riportato comma 4, riguarda l'intero sistema dei termini per il procedimento amministrativo prevista dai tre commi e a maggior ragione il termine più breve previsto dal comma 2.
Lo dimostra anche il fatto che la disciplina attuativa del sopra riportato comma 3, per il Ministero dell'Interno adottata con il dpcm n. 214/2012, che regola i termini dei procedimenti amministrativi di durata non superiore a novanta giorni, di competenza del Ministero dell'Interno, non considera tra questi la procedura di emersione.
6.7. - Anche il termine di 60 giorni previsto dall'art. 5, comma 9, del d.lgs. n. 286/1998, come modificato dal d.lgs. n. 40/2014, per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno non è perentorio, come dimostrano senza alcun ombra di dubbio le disposizioni del successivo comma 9-bis del medesimo articolo, che disciplinano la situazione dello straniero conseguente al superamento del termine stesso, prevedendo la possibilità di svolgimento o di continuazione del lavoro a determinate condizioni.
6.8. - Di conseguenza, la giurisprudenza del Consiglio di Stato deduce dalla sopra riportata normativa la non estensibilità dei termini previsti dalla disciplina generale dei termini del procedimento amministrativo di cui all'art. 2 della legge n. 241/1990 alla procedura di emersione in base alla espressa esclusione della materia dell'immigrazione, che la stessa normativa prevede.
Oltre alle deduzioni direttamente conseguenti dalla lettura delle disposizioni soprarichiamate, può aggiungersi che la ragionevolezza della assenza di termini per la conclusione del procedimento di emersione deriva dal fatto che, nell'ambito dei procedimenti relativi all'immigrazione, di particolare complessità sul piano amministrativo, tale procedura ha natura del tutto eccezionale coinvolgendo soggetti eterogenei tra loro, sia per gli interessi di cui sono portatori, sia per i plurimi requisiti da verificare per ciascuno di essi.
6.9. – Deve essere tuttavia richiamata e valorizzata ai fini della definizione della presente causa anche la sentenza 14.01.2015 n. 59, anche essa di questa medesima III Sezione del Consiglio di Stato come quelle soprarichiamate, la quale sentenza si è pronunciata in modo parzialmente diverso, riconoscendo l'obbligo dell'Amministrazione a provvedere (senza pronunciarsi su quale sia il termine che la stessa Amministrazione dovrebbe ordinariamente rispettare) e fissando solo il termine di 30 giorni dalla comunicazione della medesima sentenza all’Amministrazione per provvedere nella singola fattispecie.
Richiamando espressamente la sentenza n. 59, l’obbligo di provvedere della Amministrazione nei tempi più rapidi possibili è stato riconosciuto anche dalle sentenze più recenti di questa stessa Sezione 13.05.2015 n. 2384, 13.05.2015, n. 2407, n. 17.11.2015 n. 5262, già in precedenza richiamate, le quali hanno però concluso con l’accoglimento dell’appello dell’Amministrazione e, in riforma della sentenza impugnata, con la conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso di primo grado avverso al silenzio dell’Amministrazione per mancanza di un termine fissato dalla legge e la inapplicabilità dei termini generali fissati dall’art. 2 della legge n. 241/1990.
6.10. – La questione deve pertanto essere ulteriormente approfondita. Occorre infatti trarre tutte le conseguenze dall’affermazione contenuta nelle sentenze da ultimo citate, che, pur in assenza di un termine, hanno comunque statuito che sussisteva un obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi nel più breve tempo possibile riprendendo solo in parte la netta e coerente statuizione della sentenza n. 59.
6.11. – Bisogna superare in un senso o nell’altro la contraddizione nella giurisprudenza più recente della Sezione. Questo Collegio ritiene di poter armonizzare i diversi orientamenti nel senso di riaffermare l’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi -anche in assenza di un termine perentorio stabilito in via normativa- sulla base del principio generale per il quale ogni procedimento amministrativo ha un termine.
Tale principio consente di fondare la legittimazione ad agire attraverso la procedura del silenzio, quando sono stati superati limiti ragionevoli e non sussistono cause giustificative oggettivamente rilevabili o formalmente dichiarate dall’Amministrazione con atti interlocutori. In tali casi sussiste l’interesse tutelato delle parti alla conclusione del procedimento di emersione, anche se poi spetterà al giudice di valutare se vi sono le condizioni per fissare un termine e quale debba essere questo termine in relazione al tempo trascorso e alla esistenza o meno di cause giustificative.
6.12. – Nel caso di specie è trascorso un tempo notevole e non si riscontra la esistenza di cause impeditive. Deve pertanto concludersi nel senso dell’accoglimento dell’appello quanto al riconoscimento della legittimazione a ricorrere mediante procedura del silenzio avverso alla mancata conclusione del procedimento di emersione in tempi ragionevoli e alla affermazione dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere.
Quanto al termine esso deve essere fissato in modo ragionevole e proporzionato alla procedura in essere. Pertanto nel caso di specie questo Collegio ritiene di fissarlo in via provvisoria in sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza per analogia con il già ricordato termine ordinatorio previsto dall’art. 5, comma 9, del d.lgs. n. 286/1998, come modificato dal d.lgs. n. 40/2014.
Il Collegio si riserva inoltre di nominare su istanza di parte un Commissario ad Acta, se il termine dovesse scadere inutilmente e l’Amministrazione non abbia fornito alcuna idonea causa giustificativa. In tale ultimo caso si fisserà un nuovo termine proporzionato alla causa giustificativa riconosciuta valida.
13. – In base alle considerazioni che precedono l’appello deve essere accolto nei limiti di cui alla motivazione, accogliendosi negli stessi limiti il ricorso in primo grado con corrispondente riforma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.04.2016 n. 1425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le offerte devono essere conformi al progetto in gara. La difformità è causa di esclusione.
In una gara di appalto pubblico è legittima l'esclusione dell'offerta difforme dal progetto a base di gara.

È quanto afferma il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 08.04.2016 n. 359 nella quale si affronta il tema della legittimità dell'esclusione di una offerta difforme dal progetto a base di gara anche in relazione all'applicazione di quanto dispone l'articolo 46, comma 1-bis del codice dei contratti pubblici.
La norma del codice stabilisce che sono cause di esclusione il mancato adempimento di prescrizioni previste dal codice, dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché i casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali.
I giudici affermano che proprio in base a questa norma la stazione appaltante deve procedere all'esclusione se individua difformità essenziali nell'offerta tecnica tali da rivelare l'inadeguatezza del progetto proposto dall'impresa offerente rispetto a quello posto a base di gara. In questi casi occorre quindi andare oltre la mera penalizzazione dell'offerta in fase di attribuzione del punteggio dal momento che si determina «la mancanza di un elemento essenziale per la formazione dell'accordo necessario per la stipula del contratto».
In passato la giurisprudenza del Consiglio di stato aveva precisato che tale conclusione «non solo non può ritenersi in contrasto con l'art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici ma consegue proprio alla diretta applicazione dell'art. 46, comma 1-bis, medesimo».
La sentenza chiarisce inoltre che l'articolo 46, comma 1-bis deve essere interpretato nel senso che l'esclusione dalla gara è disposta sia nel caso in cui il Codice, la legge statale o il regolamento attuativo la comminino espressamente, sia nell'ipotesi in cui impongano «adempimenti doverosi» o introducano, comunque, «norme di divieto» pur senza prevedere espressamente l'esclusione.
Quel che conta, per i giudici, è che sia rilevata l'inadeguatezza del progetto proposto dall'impresa offerente rispetto a quello posto a base di gara; soltanto in questo caso si può disporre l'esclusione dell'offerta con la «copertura normativa» del comma 1-bis (articolo ItaliaOggi del 15.04.2016).
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MASSIMA
Il primo motivo di ricorso, formulato nei confronti dell’esclusione, non può trovare accoglimento.
Giova ricordare che il Capitolato speciale d’appalto, in relazione al lotto n. 5, punto “A- Lavaendoscopio”, tra l’altro, stabiliva espressamente: “Lavatrice per endoscopi flessibili monovasca in grado di realizzare un reprocessing ad alta disinfezione, garantire un’alta produttività strumenti/ora con cicli a tempi brevi di lavaggio completo (secondo ISO 15833-1-4: lavaggio, risciacquo, detersione, risciacquo, disinfezione, risciacquo, asciugatura): 20/25 minuti max. Permettere di settare e lavorare con cicli diversi, dotata di camera di disinfezione/sterilizzazione ampia per consentire facilità nell’inserimento strumenti, e un sistema di lavaggio che garantisca il trattamento su ogni punto esterno dello strumento in modo che non ci siano aree di contatto dello strumento su se stesso o con la vasca della macchina”.
Ebbene, ritiene il Collegio che tali prescrizioni tecniche configurino, nella loro oggettiva e chiara formulazione, requisiti minimi essenziali che le apparecchiature offerte dovevano possedere (e la cui legittimità è rimasta incontestata nel presente giudizio), con la conseguenza che la accertata mancanza di detti requisiti non poteva che determinare, ex se, l’esclusione dalla procedura di gara, anche in mancanza di espressa comminatoria. Invero, i predetti requisiti tecnici, posti a presidio della sicurezza dei pazienti, individuano uno specifico prodotto, con caratteristiche ben determinate, la cui mancanza si risolve nella proposta di un prodotto diverso da quello richiesto dalla Stazione Appaltante.
A tal proposito, è stato, peraltro, autorevolmente osservato che “
le difformità essenziali nell’offerta tecnica, che rivelano l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente rispetto a quello posto a base di gara, legittimano l’esclusione dell’impresa dalla gara e non già la mera penalizzazione dell’offerta nella valutazione del punteggio da assegnare, determinando la mancanza di un elemento essenziale per la formazione dell’accordo necessario per la stipula del contratto (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5604 del 26.11.2013; v. anche, da ultimo, Cons. St., III, 01.07.2015, n. 3275)” (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. III, 21.10.2015, n. 4804).
E’ stato, altresì, ulteriormente precisato che
tale conclusione “non solo non può ritenersi in contrasto….con l'art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici (in quanto l'esclusione è determinata non dal mancato rispetto di adempimenti solo documentali o formali o privi, comunque, di una base normativa espressa, ma dall'accertata mancanza dei necessari contenuti dell'offerta richiesti per la partecipazione alla gara), ma l'esclusione stessa consegue proprio alla diretta applicazione dell'art. 46, comma 1-bis, medesimo …., che prevede quali cause di esclusione il mancato adempimento di prescrizioni previste dal codice, dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché i casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione".
Tale norma deve essere intesa nel senso "
che l'esclusione dalla gara è disposta sia nel caso in cui il Codice, la legge statale o il regolamento attuativo la comminino espressamente, sia nell'ipotesi in cui impongano "adempimenti doverosi" o introducano, comunque, "norme di divieto" pur senza prevedere espressamente l'esclusione ma sempre nella logica del numerus clausus" (Consiglio di Stato, Ad.. plen., sentenza 25.02.2014, n. 9; v. anche Cons. St., VI, 30.04.2015, n. 2203)” (in tal senso Consiglio di Stato n. 4804/2015 cit.).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo comma, che il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione.
Presupposto per la debenza del costo di costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001 prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire.
In tal senso deve essere interpretato anche il comma 10, dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere, ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo abilitativo del permesso di costruire in conformità a quanto previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione che “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10, comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001.
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La giurisprudenza ha precisato che per le opere di ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso di costruire), il pagamento degli concessori è dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico.
E’ stato ancora precisato che, ai fini della corresponsione o meno degli oneri d'urbanizzazione in caso di intervento su un fabbricato già autorizzato, l'unico legittimo presupposto dell’imposizione è costituito dalla sussistenza o meno dell'eventuale maggiore carico urbanistico, dovendosi considerare illegittima la richiesta del pagamento di tali maggiori oneri se non si verifica la variazione del carico urbanistico.
Il fondamento del contributo di urbanizzazione, invero, non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità.
Anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
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Le modifiche della disposizione interna degli ambienti, il rifacimento di pavimenti e controsoffitti, così come l’adeguamento o la realizzazione di impianti igienico-sanitari privati, idraulici o elettrici, non comportano la necessità del permesso di costruire, mancando la configurazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente con “modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti” o “mutamenti della destinazione d'uso” (peraltro rilevanti solo se relativi a immobili compresi nelle zone omogenee A) o “modificazioni della sagoma” (peraltro solo sugli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42).
Anzi le opere poste in essere appaiono addirittura rientrare nell’ambito della manutenzione straordinaria di cui art. 3, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001.
Gli interventi effettuati, inoltre, per la loro natura non hanno comportato alcuna variazione del carico urbanistico, né tale aspetto è stato sollevato dal Comune, trattandosi di mere opere di rifacimento interno, senza cambi di destinazione.
Gli oneri concessori richiesti non risultavano, pertanto dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali autonomamente sufficiente; ovverosia perché le opere poste in essere non rientrano nel regime abilitativo del permesso di costruire e in quanto le stesse non hanno comportato l’aumento del carico urbanistico.
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... per l'accertamento del diritto della ricorrente alla restituzione degli importi versati al Comune di Marcianise a titolo di costo di costruzione in relazione a taluni interventi edilizi eseguiti presso il Centro Commerciale Campania;
...
1) In primo luogo il Collegio intende puntualizzare di trovarsi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, vertendosi in materia di diritti soggettivi, in quanto l'art. 133, lett. f), del c.p.a. devolve al giudice amministrativo "le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia".
La qualificazione in termini di diritto soggettivo delle situazioni giuridiche qui coinvolte, deriva dalla circostanza che, pur in presenza di contestazione circa la quantificazione o la debenza degli oneri connessi al permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura del contributo imposto, non l'esercizio del potere al rilascio del titolo edilizio (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2015, n. 4950).
2) In secondo luogo, il Collegio rileva l’infondatezza dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva sollevata dal Comune, e fondata sull’assunto della mancata dimostrazione della parte ricorrente di essere titolare dell’immobile in questione; eccezione, peraltro, formulata in modo del tutto generico.
La società ricorrente, infatti, seppure non ha versato in atti formale documentazione attestante la sua proprietà dell’immobile, ha comprovato (né la circostanza è stata specificamente contestata) di aver essa presentato le C.I.L. per l’effettuazione dei lavori in questione; e in virtù di tale circostanza di essere stata tenuta al pagamento degli oneri di costruzione: ma è appunto tale situazione ad essere, allora, sufficiente a radicare la sua legittimazione attiva all’azione e il suo interesse a ricorrere.
3) Nel merito il ricorso si palesa fondato.
L’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo comma, che il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione.
Presupposto per la debenza del costo di costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001 prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire.
In tal senso deve essere interpretato anche il comma 10, dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere, ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo abilitativo del permesso di costruire in conformità a quanto previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione che “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10, comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001.
3.1) Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che per le opere di ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso di costruire), il pagamento degli concessori è dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (Cons. Stato Sez. IV, 29.10.2015, n. 4950; Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
E’ stato ancora precisato che, ai fini della corresponsione o meno degli oneri d'urbanizzazione in caso di intervento su un fabbricato già autorizzato, l'unico legittimo presupposto dell’imposizione è costituito dalla sussistenza o meno dell'eventuale maggiore carico urbanistico, dovendosi considerare illegittima la richiesta del pagamento di tali maggiori oneri se non si verifica la variazione del carico urbanistico (Cons. Stato Sez. V, 16.06.2009, n. 3847; Cons. Stato, Sez. IV 29.04.2004 n. 2611; Cons. Stato, Sez. V, 15.09.1997, n. 959, Cons. Stato, Sez. V, 21.01.1992, n. 61 e 27.01.1990 n. 693).
Il fondamento del contributo di urbanizzazione, invero, non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità.
Anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (Cons. Stato Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4014).
3.2) Nel caso specie, gli interventi di cui si discute, anche a voler ammettere, come sostiene il Comune, che potessero rientrare nelle opere di ristrutturazione, non sarebbero comunque da ricomprendere tra quegli interventi che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001, richiedevano il permesso di costruire o, in alternativa, la d.i.a. cosiddetta sostitutiva.
Le modifiche della disposizione interna degli ambienti, il rifacimento di pavimenti e controsoffitti, così come l’adeguamento o la realizzazione di impianti igienico-sanitari privati, idraulici o elettrici, non comportano infatti, come previsto da quest’ultimo articolo, la necessità del permesso di costruire, mancando la configurazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente con “modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti” o “mutamenti della destinazione d'uso” (peraltro rilevanti solo se relativi a immobili compresi nelle zone omogenee A) o “modificazioni della sagoma” (peraltro solo sugli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42).
Anzi le opere poste in essere appaiono addirittura rientrare nell’ambito della manutenzione straordinaria di cui art. 3, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001.
La riprova della circostanza che gli interventi in questione non necessitassero del permesso di costruire, per essere invece soggetti al regime delle comunicazioni effettuate dalla ricorrente, è, per vero, nello stesso comportamento del Comune, atteso che, in caso contrario, avrebbe dovuto contestare alla medesima parte ricorrente la necessità del titolo abilitativo concessorio per la realizzazione degli interventi e non limitarsi a richiedere gli oneri concessori.
Gli interventi effettuati, inoltre, per la loro natura non hanno comportato alcuna variazione del carico urbanistico, né tale aspetto è stato sollevato dal Comune, trattandosi di mere opere di rifacimento interno, senza cambi di destinazione.
Gli oneri concessori richiesti non risultavano, pertanto dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali autonomamente sufficiente; ovverosia perché le opere poste in essere non rientrano nel regime abilitativo del permesso di costruire e in quanto le stesse non hanno comportato l’aumento del carico urbanistico.
3.3) Per quanto indicato, quindi, il ricorso va accolto, e, conformemente alla domanda formulata in giudizio, va dichiarato che gli oneri in questione non risultano dovuti, e, pertanto, qualora siano stati effettivamente versati, gli stessi andranno restituiti dal Comune alla parte ricorrente.
A quest’ultimo riguardo, infatti, pur essendo state allegate agli atti le disposizioni date agli istituti bancari in merito al pagamento, non è allegata agli atti la prova dell’avvenuta successiva effettiva corresponsione, per cui, a fronte della pur generica contestazione della circostanza da parte del Comune, il Collegio allo stato, non può disporne la restituzione.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.04.2016 n. 1769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 22, c. 1, lett. b), legge n. 241/1990, nel testo novellato dalla legge 11.02.2005 n. 15, richiede per la legittimazione attiva all’esercizio del diritto di accesso la titolarità “di interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l'accesso” e che il successivo comma terzo prevede che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e 6”; mentre l'art. 24, c. 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
In sostanza ai sensi del suesposto art. 24, c. 7, l’accesso va garantito qualora sia funzionale “a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e indipendentemente dall'effettivo esercizio di un'azione giudiziale”.
Ne consegue che l'interesse all'accesso ai documenti deve essere valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all'accesso non può essere valutata “alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante”.
Inoltre, ai sensi dell’art. 25 della L. 241/1990 “la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata” ed in particolare deve indicare la situazione qualificata di cui è portatore il ricorrente. Deve inoltre contenere l’indicazione degli elementi diretti circoscrivere l’oggetto dell’accesso, al fine di evitare che l’esercizio di tale diritto si traduca in una inammissibile forma di controllo generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione.
Ai sensi del comma 3 del citato art. 25, l’Amministrazione ha il potere di rifiutare, limitare o differire l’accesso ai documenti amministrativi. In particolare la domanda di accesso può essere respinta oltre che espressamente anche tacitamente per effetto dell’inutile decorso di 30 giorni dalla richiesta.
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E’ vero che ai fini dell’esperimento dell’azione per l’accesso agli atti è necessario essere titolari di un interesse individuale e giuridicamente qualificato, non trattandosi di uno strumento a disposizione di qualunque cittadino che intenda controllare il corretto svolgimento dell’attività amministrativa.
Tuttavia la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere a tutte le imprese che operano nel settore di attività oggetto di un contratto che l’amministrazione abbia assegnato con una procedura negoziata la legittimazione ad impugnare l’atto di aggiudicazione, a prescindere dal fatto che esse abbiano o meno partecipato alla procedura.
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...  per l'annullamento del diniego di accesso agli atti inerente le procedure per l'affidamento in concessione dell'installazione dei molteplici distributori automatici presso l'Azienda Sanitaria Provinciale di Catania.
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La ricorrente Pa. & C srl, e’ un’impresa che opera nel settore della erogazione mediante distributori automatici di caffè, bevande, snack.
La ricorrente con istanza di accesso presentata a mezzo posta elettronica certificata il 28.10.2014 -dopo aver premesso di operare da decenni ne1 settore, e di vantare "...un interesse giuridicamente rilevante a conoscere ogni atto e/o provvedimento sulla scorta dei quali l'Azienda ha affidato in concessione a terzi l'installazione di distributori automatici negli uffici, reparti ed altri ambienti ospedalieri..."- ha chiesto di accedere alla documentazione inerente le procedure per l‘affidamento in concessione dell'installazione dei molteplici distributori automatici presenti nei medesimi uffici, reparti ed ambienti ospedalieri.
L'Azienda intimata non ha risposto.
Da ciò il ricorso in esame con cui parte ricorrente lamenta la lesione dei diritti partecipativi ed informativi di cui agli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990 a lui spettanti.
Giova premettere che l’art. 22, c. 1, lett. b), legge n. 241/1990, nel testo novellato dalla legge 11.02.2005 n. 15, richiede per la legittimazione attiva all’esercizio del diritto di accesso la titolarità “di interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l'accesso” e che il successivo comma terzo prevede che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e 6”; mentre l'art. 24, c. 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
In sostanza ai sensi del suesposto art. 24, c. 7, l’accesso va garantito qualora sia funzionale “a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e indipendentemente dall'effettivo esercizio di un'azione giudiziale” (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
Ne consegue che l'interesse all'accesso ai documenti deve essere valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all'accesso non può essere valutata “alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante” (ex multis Consiglio Stato sez. V 10.01.2007, n. 55, TAR Umbria 30.01.2013, n. 56).
Inoltre, ai sensi dell’art. 25 della L. 241/1990 “la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata” ed in particolare deve indicare la situazione qualificata di cui è portatore il ricorrente. Deve inoltre contenere l’indicazione degli elementi diretti circoscrivere l’oggetto dell’accesso, al fine di evitare che l’esercizio di tale diritto si traduca in una inammissibile forma di controllo generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione (cfr. TAR Lazio, sez. I, 20.11.2013 n. 867).
Ai sensi del comma 3 del citato art. 25, l’Amministrazione ha il potere di rifiutare, limitare o differire l’accesso ai documenti amministrativi. In particolare la domanda di accesso può essere respinta oltre che espressamente anche tacitamente per effetto dell’inutile decorso di 30 giorni dalla richiesta.
Ciò premesso, ad avviso del Collegio, il ricorso è fondato.
E’ vero che ai fini dell’esperimento dell’azione per l’accesso agli atti è necessario essere titolari di un interesse individuale e giuridicamente qualificato, non trattandosi di uno strumento a disposizione di qualunque cittadino che intenda controllare il corretto svolgimento dell’attività amministrativa.
Tuttavia la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere a tutte le imprese che operano nel settore di attività oggetto di un contratto che l’amministrazione abbia assegnato con una procedura negoziata la legittimazione ad impugnare l’atto di aggiudicazione, a prescindere dal fatto che esse abbiano o meno partecipato alla procedura (Cfr.: Tar Lombardia I, n. 1829/2012).
Ne consegue che, sussistendo tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi prima richiamati, il ricorso in epigrafe merita accoglimento con conseguente affermazione del diritto di parte ricorrente ad avere conoscenza degli atti indicati nella richiesta inoltrata in data 28.10.2014 (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 07.04.2016 n. 960 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Contributo unificato, ok Ue.
Il contributo unificato da pagare per i procedimenti giurisdizionali in materia di appalti non viola il diritto comunitario.

Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue -Sez. XI- nell'ordinanza 07.04.2016 causa C-495/14 che ha visto contrapposti uno studio infermieristico di Trento e il ministero della giustizia.
Secondo la Corte, la legislazione italiana che prevede contributi processuali non eccedenti il 2% del valore dell'appalto (si va da un minimo di 2 mila euro a un massimo di 6 mila a seconda del valore dell'appalto, rispettivamente di valore uguale o inferiore a 200 mila euro sino a un importo superiore al milione di euro) non costituisce un ostacolo all'accesso alla giustizia e quindi non si verifica alcuna lesione del principio di effettività.
Si tratta infatti, dice la Corte, di una percentuale «in sé assai contenuta», tenuto conto che «la partecipazione di un'impresa a un appalto pubblico ne presuppone un'appropriata capacità economica e finanziaria» (articolo ItaliaOggi del 19.04.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Nona Sezione) dichiara:
L’articolo 1 della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, nonché i principi di equivalenza e di effettività devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prescrive il versamento di tributi giudiziari, come il contributo unificato oggetto del procedimento principale, all’atto della proposizione di un ricorso in materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici amministrativi.

APPALTI: La stazione appaltante può limitare avvalimenti. Sentenza della Corte di giustizia Ue su un caso polacco.
La stazione appaltante può limitare l'utilizzo dell'avvalimento quando specifiche capacità dell'impresa non sono trasmissibili al concorrente o offerente; in questi casi legittimamente si può imporre a chi presta il requisito di partecipare all'esecuzione del contratto.

Lo afferma la Corte di giustizia con la sentenza 07.04.2016 (C-324/14) che esamina alcuni profili dell'articolo 48 della direttiva 2004/18 in materia di appalti pubblici.
La vicenda oggetto della sentenza riguardava un appalto affidato a Varsavia per il quale la stazione appaltante aveva ritenuto essenziale la partecipazione personale ed effettiva alla realizzazione dell'appalto da parte della società che avrebbe dovuto prestare i requisiti.
La corte europea premette che le direttive europee riconoscono il diritto di qualunque operatore economico di fare affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi; l'unica condizione è che sia dimostrato all'amministrazione aggiudicatrice che il candidato o l'offerente disporrà effettivamente delle risorse di tali soggetti che sono necessarie per eseguire detto appalto.
Ciò premesso però la Corte europea afferma che «non è escluso che l'esercizio di tale diritto (cioè di avvalersi delle capacità di altro soggetto) possa essere limitato, in circostanze particolari, tenuto conto dell'oggetto dell'appalto in questione e delle finalità dello stesso».
Il caso che viene fatto è quello nel quale la stazione appaltante ritiene che determinate capacità tecniche o professionali essenziali per partecipare all'esecuzione del contratto, «non siano trasmissibili al candidato o all'offerente, di modo che quest'ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente all'esecuzione di tale appalto».
Pertanto, tenuto conto dell'oggetto dell'appalto e delle sue finalità, la Corte europea ritiene del tutto legittimo «in circostanze particolari, ai fini della corretta esecuzione dell'appalto» che indichi espressamente nel bando di gara o nel capitolato d'oneri «regole precise secondo cui un operatore economico può fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, purché tali regole siano connesse e proporzionate all'oggetto e alle finalità di detto appalto».
In particolare risulterebbe legittimo prevedere che l'offerente può fare affidamento su dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente all'esecuzione dell'appalto in questione. Nel caso di specie veniva criticato il fatto che determinate capacità professionali sarebbero state messe a disposizione soltanto attraverso lo svolgimento di attività di consulenza e di formazione, senza alcuna partecipazione diretta della società ausiliaria all'esecuzione dell'appalto.
Su questo punto va precisato come le nuove direttive appalti (e il nuovo codice appalti), per quanto attiene alle pregresse esperienze professionali e ai titoli di studio, impongano la partecipazione diretta all'appalto dell'operatore economico che presta il requisito (articolo ItaliaOggi del 13.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, la canna fumaria deve ritenersi ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione, a meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto alla costruzione ed alla sagoma dell’immobile, occorrendo solo in tal caso il permesso di costruire.
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Quanto ai profili igienico-sanitari, colgono nel segno le ineccepibili doglianze della ricorrente secondo cui la violazione regolamentare di norme preordinate alla salvaguardia della salubrità ambientale avrebbe dovuto trovare rimedio –nel caso di canne fumarie- non già nell’ordine di demolizione, bensì nella diversa intimazione a ricondurre tali opere alle altezze e distanze prescritte, tanto più nel caso di specie ove –secondo puntuali argomentazioni della ricorrente che il comune, neanche costituito, non ha inteso evidentemente confutare- sarebbero bastati piccoli accorgimenti tecnici per una piena conformazione agli statuti del vigente Regolamento Edilizio.

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... per l'annullamento DEL PROVVEDIMENTO N. 01 DEL 27/01/2010 EMESSO DAL RESPONSABILE DEL SERVIZIO TECNICO DEL COMUNE DI AIELLI CON IL QUALE VIENE INGIUNTO ALLA RICORRENTE DI PROVVEDERE ALLA DEMOLIZIONE DI DUE CANNE FUMARIE ED A RIPRISTINARE LO STATO DEI LUOGHI.
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Visti i motivi di ricorso con i quali si lamenta:
   i) la violazione delle regole sul contraddittorio e sul giusto procedimento (anche mediante gravi ritardi del comune nella consegna degli atti presupposti di indagine e di sopralluogo, avvenuta -dopo molte insistenze- ben dopo l’adozione dell’atto impugnato);
   ii) la grave superficialità istruttoria, con particolare riguardo alla erronea riconduzione temporale delle opere a periodi recenti “intorno” al 2008 (con conseguente applicazione del nuovo più severo regime sanzionatorio introdotto dal 1998 con l’art. 32 del Regolamento Edilizio e con gli artt. 34 e 31 del DPR 380/2001), periodo desunto esclusivamente dal fatto che i confinanti autori dell’esposto –proprietari fin dal 2007- si sarebbero lamentati delle presunte immissioni nocive solo nel corso degli anni 2008 e 2009, senza considerare l’esistenza di documentazione ben più significativa, che dimostrerebbe la risalenza delle opere de quibus al 1988 (come da planimetria del 12.09.1988 allegata alla denuncia di variazione depositata all’Ufficio Tecnico Erariale di L’Aquila l’08.02.1989, ove risulterebbero entrambe le canne fumarie oggetto di causa, con l’ulteriore precisazione che proprio tale denuncia al catasto era stata prodotta anche al comune di Aielli, che l’aveva espressamente citata nelle premesse dell’autorizzazione di sindacale di abitabilità dell’immobile rilasciata il 18.08.1989); ulteriore circostanza che smentirebbe la superficiale asserzione del comune in ordine al tempo di realizzazione delle due canne fumarie, emergerebbe poi dal contratto di transazione del 25.09.1993 sottoscritto dai proprietari confinanti pro tempore, ove si sarebbe dato atto della preesistenza di tali opere;
   iii) in ogni caso la sanzione demolitoria sarebbe sproporzionata, trattandosi opere pertinenziali poste a servizio di un camino domestico, per le quali –a tutto concedere, nel caso in cui non si ritenesse attività libera nei sensi puntualizzati da autorevole giurisprudenza- la normativa edilizia imporrebbe una sola sanzione pecuniaria, fermo restando che la misura demolitoria –anche ai sensi dell’art. 34 TUE- risulterebbe inapplicabile nella specie, perché la sua attuazione pregiudicherebbe la statica dell’intero edificio;
   iiii) per le ragioni prima esposte a proposito del tempo di realizzazione delle opere, non sarebbe applicabile ratione temporis l’art. 32 del vigente regolamento edilizio sul regime regolatorio riservato alle canne fumarie; in ogni caso tale norma -nello stabilire l’altezza delle canne fumarie e la distanza dalle finestre- presidierebbe interessi di carattere igienico-sanitario, ma in tal caso il Comune avrebbe dovuto adottare misure di polizia sanitaria (es. art. 54, comma 4, d.leg.vo 267/2000) per l’eliminazione delle presunte immissioni, e non già l’impugnato provvedimento edilizio, per di più in presenza di agevoli possibilità di adeguare le due canne fumarie –mediante semplici accorgimenti tecnici, con prolungamento della canna fumaria di un metro oltre il colmo del tetto- alla normativa introdotta dal citato art. 32 del RE, senza alcuna necessità di misure demolitorie (adeguamento che la ricorrente non avrebbe effettuato, solo perché a suo tempo rassicurata dal consenso scritto dei vicini sullo stato attuale delle canne fumarie);
   iiiii) gli esposti, che il comune avrebbe superficialmente posto a base del provvedimento impugnato, sarebbero in ogni caso del tutto infondati e fuorvianti, “anche perché da diversi anni le due canne fumarie non vengono più utilizzate e quindi non arrecano nessun fastidio ai vicini ed ai loro ospiti” (sic, pag. 18 del ricorso); piuttosto sarebbero proprio i coniugi denuncianti (peraltro privi di un titolo di proprietà sull’immobile di loro residenza) a molestare la ricorrente con immissioni di fumo prodotte da un loro forno abusivo, privo dei requisiti di idoneità, come da comunicazione ASL del 10.07.2008; da qui emergerebbero ulteriori elementi del grave sviamento istruttorio, in cui sarebbe incorsa l’amministrazione;
Preso atto della mancata costituzione in giudizio del Comune intimato;
Ritenuto che il ricorso va accolto per le seguenti decisive argomentazioni:
- quanto ai profili edilizi, la misura demolitoria delle due canne fumarie si manifesta priva di adeguata istruttoria e motivazione:
   i) in relazione alla frettolosa stima circa il tempo di realizzazione delle opere (riportate al 2008, basandosi solamente sulle lamentele dei proprietari finitimi, mentre la ricorrente ha dedotto ben altre più significative circostanze –illustrate in precedenza e comunque mai prese in considerazione dal Comune, nonostante vari tentativi di interlocuzione da parte della medesima ricorrente- che portano a ritenere le opere risalenti al 1998, con tutte le conseguenze derivanti –oltre che dalla maturazione di aspettative di sorta- dall’applicazione di una norma edilizia allora non in vigore),
   ii) ma soprattutto –e più in radice- per la mancata valutazione dell’impatto visivo e dell’ingombro delle due canne fumarie, atteso che per costante giurisprudenza, la canna fumaria deve ritenersi ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione (ex multis, Tar Campania NA sez. VII 15.12.2010 n. 27380), a meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto alla costruzione ed alla sagoma dell’immobile, occorrendo solo in tal caso il permesso di costruire (TAR Campania–Napoli, 3612/2015, Sez. VI 3039/2009); nel delineato contesto il Comune ha completamente omesso qualsiasi indagine, dando per scontata la misura demolitoria, senza alcuna motivazione sul punto e comunque nell’implicito erroneo assunto che le canne fumarie debbano tout court ricondursi ad opere sottoposte a permesso;
- quanto ai profili igienico-sanitari: colgono nel segno le ineccepibili doglianze della ricorrente in precedenza illustrate, secondo cui la violazione regolamentare di norme preordinate alla salvaguardia della salubrità ambientale avrebbe dovuto trovare rimedio –nel caso di canne fumarie- non già nell’ordine di demolizione, bensì nella diversa intimazione a ricondurre tali opere alle altezze e distanze prescritte, tanto più nel caso di specie ove –secondo puntuali argomentazioni della ricorrente che il comune, neanche costituito, non ha inteso evidentemente confutare- sarebbero bastati piccoli accorgimenti tecnici per una piena conformazione agli statuti del vigente Regolamento Edilizio;
Considerato pertanto che il ricorso trova accoglimento per le suesposte ragioni, con conseguente annullamento dell’impugnata determinazione del 27.01.2010 (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 07.04.2016 n. 209 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., troppa fretta sui furbetti. Pochi 30 giorni per l'iter. Danno all'immagine gonfiato. Molti rilievi nel parere del Cds sul decreto sui licenziamenti di chi timbra e se ne va.
Il decreto sul licenziamento dei dipendenti che attestano falsamente la presenza in servizio o «furbetti del cartellino» prevede termini troppo brevi, che rischiano di far saltare il procedimento disciplinare, nonché viola la delega legislativa sia nella previsione del danno di immagine, sia nell'introduzione di una nuova fattispecie penale di omissioni d'atti d'ufficio, per mancata adozione del provvedimento di licenziamenti.

Il parere 05.04.2016, n. 864 reso dal Consiglio di Stato, Commissione speciale, è «favorevole» allo schema di decreto legislativo approvato dal Governo, ma nella sostanza è una vera e propria stroncatura.
Fattispecie. Il parere evidenzia che la riforma specifica ed ampia il fatto sanzionabile col licenziamento. È precisato che «deve trattarsi di modalità fraudolenta... per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso». Contestualmente, la fattispecie si amplia, perché concerne «qualunque» modalità fraudolenta, assumendo rilevanza anche la circostanza dell'aiuto (omissivo o commissivo di terzi).
Sospensione cautelare. Solo la sospensione cautelare da disporre entro 48 ore con provvedimento motivato, di fatto, passa indenne il varo del Consiglio di stato.
La misura viene condivisa da Palazzo Spada, perché riferita specificamente per altro alla flagranza della violazione disciplinare o all'accertamento della falsa attestazione della presenza mediante strumenti di registrazione tecnici e audiovisivi. Proprio la flagranza o la registrazione dell'evento non rendono necessarie garanzie di contraddittorio, alle quali supplisce l'obbligo di motivare la sospensione cautelare. Il parere, tuttavia, invita il Governo a prevedere espressamente il mantenimento al dipendente sospeso dal servizio quanto meno dell'assegno alimentare.
Inoltre, secondo Palazzo Spada è da precisare quale possa essere la responsabilità del dirigente o dei componenti dell'ufficio per i procedimenti disciplinari che non attivino la sospensione cautelare entro le 48 ore, escludendo che possa consistere nel licenziamento, dovuto, invece per mancata irrogazione della sanzione del licenziamento.
Procedimento accelerato. Il Consiglio di stato, come molti altri osservatori, evidenzia che il termine breve previsto per la conclusione del procedimento, 30 giorni, non si coordina con le disposizioni generali sullo svolgimento del procedimento disciplinare previste dall'articolo 55-bis, commi 2 e 4, del dlgs 165/2001. Queste prevedono tempi procedurali incompatibili con l'accelerazione del procedimento (che dovrebbe ridursi da 120 a 30 giorni). In particolare, critica è la fase della convocazione dell'incolpato, da disporre non prima di 20 giorni dalla contestazione, che sottrae moltissimo tempo alla procedura.
Altrettanto grave è la mancanza della specificazione di un preciso giorno a decorrere dal quale occorre avviare il procedimento disciplinare, essendo troppo generica la previsione di «dare immediato avvio» al procedimento, sì da esporlo ad una decadenza decorrente dal giorno di prima acquisizione della notizia della violazione, sottraendo ulteriore tempo ai 30 giorni complessivi.
Il Consiglio di stato oltre a suggerire di correggere i termini propone un procedimento più agile e basato sull'oralità: «convocazione dell'incolpato, già sospeso dal servizio, presso l'ufficio dei provvedimenti disciplinari alla presenza del dirigente responsabile della struttura di appartenenza per la formale contestazione dell'addebito e per raccoglierne le giustificazioni nel corso di un'audizione orale».
Danno di immagine. Per Palazzo Spada la commisurazione del danno alla rilevanza data sulla stampa all'evento rischia di enfatizzare troppo il decreto come misura «mediatica».
Non solo: il parere rileva il vizio di legittimità di eccesso di delega, perché la legge 124/2015 non ha indicato al legislatore delegato di disciplinare responsabilità erariali.
Responsabilità oggettiva dei dirigenti. Allo stesso vizio di eccesso di delega si presta la norma secondo cui l'omessa comunicazione all'ufficio competente per procedimenti disciplinari, l'omessa attivazione del procedimento disciplinare e l'omessa adozione del provvedimento di sospensione cautelare costituiscono, a carico dei dirigenti ovvero, negli enti privi di qualifica dirigenziale, a carico dei responsabili di servizio competenti, illecito disciplinare punibile con il licenziamento; tali comportamenti configurano il reato di «omissione di atti di ufficio», punito dall'art. 328 del codice penale.
Si tratta, secondo il Consiglio di stato, per un verso di una norma introduttiva di una sorta di responsabilità oggettiva eccessiva nei riguardi dei dirigenti. Ma, soprattutto di una disposizione penale nuova, diversa da quella prevista dal codice penale, che richiede una specifica norma primaria, per non violare la Costituzione (articolo ItaliaOggi del 12.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il Consiglio di Stato ha reso parere favorevole con osservazioni sullo schema di decreto legislativo sulla disciplina relativa alla responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 05.04.2016, n. 864 - "Schema di decreto legislativo recante “Modifiche all’art. 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera s), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare”.".
I punti principali del parere del Consiglio di Stato sulla disciplina relativa alla responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti.
Il parere, dopo aver ricordato il ruolo e la natura della funzione consultiva del Consiglio di Stato, prosegue con la attenta e dettagliata ricostruzione normativa della disciplina in materia disciplinare.
Segue l’esame ricostruttivo, anche in termini di obiettivi, delle regole predisposte nello schema.
In particolare, lo schema di decreto prevede:
– l'ampliamento del novero delle ipotesi riconducibili alla fattispecie “falsa attestazione della presenza in servizio”, con la statuizione che risponde della violazione anche chi abbia agevolato, con comportamenti attivi o omissivi, la condotta fraudolenta;
– l'introduzione della sanzione della sospensione cautelare senza stipendio del dipendente pubblico nei casi di “falsa attestazione della presenza in servizio”, da irrogarsi immediatamente e comunque entro 48 ore;
– l'introduzione di un procedimento disciplinare accelerato nei casi di “falsa attestazione della presenza in servizio”;
– l'introduzione dell’azione di responsabilità per danni di immagine della PA nei confronti del dipendente sottoposto ad azione disciplinare per assenteismo;
– l'estensione della fattispecie di reato “Omissione d’atti d’ufficio”, di cui all’artt. 328 c.p., ai casi in cui il dirigente (o il responsabile del servizio) ometta l’adozione del provvedimento di sospensione cautelare o l’attivazione del procedimento disciplinare nei confronti del dipendente che abbia attestato falsamente la propria presenza;
– l'estensione della responsabilità disciplinare del dirigente (o del responsabile del servizio) e irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare ai casi in cui lo stesso ometta l’adozione del provvedimento di sospensione cautelare o l’attivazione del procedimento disciplinare.
Modifiche proposte.
Quanto alle modifiche proposte, vanno segnalate le osservazioni concernenti la necessità di introdurre specifici e chiari termini procedimentali, in specie in tema di contestazione dell’addebito e di preavviso per la convocazione in contraddittorio, i quali devono essere compatibili con il termine di conclusione del procedimento, ma anche idonei ad assicurare l’effettività del diritto di difesa, nonché con la specifica indicazione del dies a quo di decorrenza del termine di conclusione del procedimento.
Viene poi suggerita una riflessione, sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, in ordine all’introduzione della sanzione disciplinare del licenziamento in capo ai dirigenti e ai responsabili di servizio per i casi previsti dal comma 3-bis, che sostanzialmente equipara il dirigente, quanto al trattamento sanzionatorio, ad un soggetto che ha concorso nella commissione dell’illecito, mentre in realtà la condotta omissiva del dirigente, cui la norma si riferisce, è una condotta successiva e diversa rispetto all’illecito posto in essere dal dipendente.
Eccesso di delega.
Di particolare rilievo appaiono le considerazioni conclusive svolte in termini di eccesso di delega, sotto due profili.
In primo luogo, è chiesta l’espunzione dal testo della disciplina concernente l’azione di responsabilità per danno d’immagine alla pubblica amministrazione, in quanto posta al di fuori della delega conferita dall’art. 17, comma 1, lett. s), l. 07.08.2015, n. 124. Tale disciplina appare, infatti, estranea alla materia della responsabilità disciplinare e al procedimento disciplinare, vertendosi in tema di responsabilità di diversa natura.
Né è possibile indirettamente ricondurre l’istituto alla materia della responsabilità disciplinare mediante riferimento ad una ipotetica contestualità delle azioni nei confronti del pubblico dipendente, atteso che neppure questa sussiste. Ad avviso del Consiglio di Stato la formulazione della norma porta a ritenere che tale azione di responsabilità per danno di immagine si svolga e si esaurisca successivamente alla conclusione della procedura di licenziamento.
Va inoltre considerato che la stessa non concerne direttamente la disciplina del lavoro con la pubblica amministrazione. Né i relativi profili di organizzazione amministrativa, attenendo piuttosto agli effetti che la violazione degli obblighi del lavoratore produce, in relazione alla tutela di interessi e beni che non riguardano direttamente il rapporto di lavoro.
L’unica parte della disposizione che risulta pienamente compatibile con la previsione della lett. s) dell’art. 17 della legge delega -prosegue il Consiglio di Stato- è la prima parte del comma 3-quater, laddove prevede che “Nei casi di cui al comma 3-bis, la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei Conti avvengono entro quindici giorni dall’avvio del procedimento disciplinare”, rinvenendosi in tal caso la posizione di un mero obbligo di denuncia connesso alla commissione di fatti per i quali è avviato ed è in corso un procedimento disciplinare; collegamento che potrebbe essere rafforzato dalla espressa previsione di tale obbligo in capo all’ufficio per i procedimenti disciplinari.
Da tale denuncia, e dalla segnalazione alla Corte –correttamente previste dalla norma delegata– già discende l’obbligo per la giurisdizione contabile di valutare la consistenza dei fatti, senza certo potersi escludere che il danno alla immagine debba costituire componente significativa del danno “erariale” risarcibile dal dipendente infedele.
E' poi evidenziata l'introduzione, con riferimento alla disposizione del comma 3-quinquies, di una nuova ipotesi di omissione di atti d'ufficio ex art. 328 c.p.. Il cit. comma 3-quinquies ha infatti previsto che "Il comma 3-quinquies prevede che, per i casi di cui al comma 3-bis, l’omessa comunicazione all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, l’omessa attivazione del procedimento disciplinare e l’omessa adozione del provvedimento di sospensione cautelare costituiscono, a carico dei dirigenti ovvero, negli enti privi di qualifica dirigenziale, a carico dei responsabili di servizio competenti, illecito disciplinare punibile con il licenziamento; tali comportamenti configurano il reato di omissione di atti di ufficio, punito dall’art. 328 del codice penale".
Indubbia è la differenza rispetto all'art. 328 c.p. che, per la configurabilità del fatto di reato, prevede la preventiva formulazione di una richiesta, il mancato compimento dell’atto dell’ufficio e la mancata risposta per esporre le ragioni del ritardo. Trattasi, dunque, di introduzione di una nuova norma penale, in relazione alla quale non si riscontra il supporto di idonea delega legislativa.
Ad avviso del Consiglio di Stato qualora il Governo, nel quadro di un inasprimento della responsabilità dei dirigenti, ed al fine di dare forte impulso alla iniziativa di controllo e denuncia dei fenomeni di assenteismo, intenda introdurre una estensione, ai comportamenti dirigenziali omissivi nei casi in esame, dell’art. 328 c.p.., sarà necessario un intervento con norma primaria giacché la norma delegata, così come formulata, si presterebbe ad essere censurata con successo da eventuali incolpati per eccesso di delega, compromettendo così l’obiettivo finale di giusto rigore nei confronti degli assenteisti e di chi omette di denunciare i comportamenti.
Il parere quindi conclude con il suggerimento di espungere dal testo le disposizioni che attengono all’azione di responsabilità per danno d’immagine e alla responsabilità penale dei dirigenti, senza con ciò voler porre alcuna preclusione in merito e in diritto a che le stesse previsioni siano riprese in considerazione per l’inserimento in un successivo idoneo provvedimento legislativo, anche in via urgente (tratto da a e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pa digitale, primo stop dal Consiglio di Stato. I giudici contro l’obbligo di «anonimizzare» tutte le sentenze.
Riforma Madia. Da rivedere il capitale minimo chiesto ai gestori di Pec e «identità».

Il decreto attuativo della riforma Madia sul Codice dell’amministrazione digitale inciampa al Consiglio di Stato, che chiede al governo una serie di chiarimenti e integrazioni prima di dare il proprio parere. Se sugli altri provvedimenti esaminati finora, dal decreto Scia a quello sulla conferenza dei servizi (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) e sulle sanzioni anti-assenteismo, i giudici amministrativi hanno finora dato il via libera, anche se accompagnato da suggerimenti di correzioni, il provvedimento sull’amministrazione digitale incontra obiezioni più pesanti.
Palazzo Vidoni, in pratica, è chiamato a fornire le motivazioni puntuali su un gruppo di scelte, e solo dopo il Consiglio di Stato potrà fornire il giudizio definitivo.
In effetti le domande dei giudici amministrativi, messe in fila nel
parere 23.03.2016 n. 785 (Schema di decreto legislativo recante “modifiche e integrazioni al Codice dell’Amministrazione Digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche), puntano su questioni parecchio delicate.
I giudici amministrativi, prima di tutto, rilanciano le obiezioni già sollevate dagli operatori del settore sul nuovo super-requisito imposto dall’articolo 25 del decreto alle imprese che si candidano a gestire la posta elettronica certificata, l’identità digitale e gli altri servizi elettronici certificati.
A loro il decreto legislativo chiede di avere un capitale sociale di almeno 5 milioni di euro, cioè il livello che Bankitalia ha imposto nella circolare 285/2013 alle banche di credito cooperativo: sul punto, i giudici amministrativi richiamano una prima obiezione già sollevata dal Tar Lazio, che nella sentenza 9951/2015 ha ritenuto «sproporzionato» il requisito, e chiede al governo di chiarire le ragioni della scelta, e di tener conto dell’esigenza di «non escludere dal mercato società che, pur in possesso di accertati requisiti di affidabilità», hanno un capitale inferiore.
Per l’articolo 46 si arriva invece a ipotizzare «l’esigenza di espungere dal testo» le novità. La riforma prevede infatti l’obbligo di cancellare da tutte le sentenze i dati personali, con l’eccezione di quelle dei giudici e degli avvocati. L’«anonimizzazione totale», che sostituisce quella oggi imposta quando la chiede una delle parti o il giudice, quando c’è in gioco l’identità di minori, i rapporti famigliari o la salute, non è però prevista in alcun punto della delega, e potrebbe soffocare di lavoro aggiuntivo le cancellerie danneggiando «l’efficacia e la speditezza» della giustizia.
Da chiarire, poi, il taglio alle regole sulla «continuità operativa», in base alle quali il Codice attuale (articolo 50-bis) impone alle Pa di preparare piani di emergenza per superare gli inciampi informatici, e la validità automatica prevista per i documenti elettronici con firma digitale. La «firma elettronica», osserva il Consiglio di Stato, è rappresentata oggi da tanti sistemi diversi, a volte limitati a una «semplice password» che «per sua natura potrebbe non fornire la certezza» sulla provenienza effettiva del documento.
Mentre la Funzione pubblica è al lavoro per superare le obiezioni del Consiglio di Stato, il cantiere della riforma continua a lavorare. Ieri sono arrivati in Parlamento i primi testi, quelli che hanno già raccolto tutta la dote dei pareri preventivi, mentre per domani sono attesi in Conferenza unificata i due decreti paralleli sul taglio delle partecipate e il riordino dei servizi locali, insieme al regolamento sulle semplificazioni su cui già nelle scorse settimane si è acceso il confronto con le Regioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Tassa rifiuti, esenzione solo con denuncia.
Per invocare l'esenzione dal pagamento della tassa sui rifiuti, in caso di immobile inutilizzato, è necessario presentare tempestivamente la denuncia al relativo comune, affinché l'ente possa disporre le opportune verifiche; di contro, non è plausibile richiedere al comune un accertamento postumo delle condizioni d'uso dell'immobile, una volta ricevuto l'atto impositivo.

È quanto si legge nella sentenza 22.03.2016 n. 252/02/2016 della Ctp di Frosinone (presidente e relatore Ferrara). La vertenza nasce dal ricorso proposto da una contribuente residente nel comune di Frosinone, contro un avviso di accertamento per la Tarsu, relativamente alle annualità dal 2009 al 2012.
La contribuente sosteneva di non aver mai abitato l'immobile in questione, seppur vi risultava residente, poiché dimorava abitualmente presso l'abitazione dell'anziana madre, bisognosa di cure e assistenza; tant'è che, si affermava nel ricorso, non v'erano neppure consumi di elettricità o gas, per cui non si erano potuti produrre rifiuti di alcun tipo.
Resisteva il comune di Frosinone, palesando il fatto che nessuna denuncia era mai stata presentata in tal senso e che, invece, la contribuente aveva avanzato una richiesta di accertamento sull'immobile solamente dopo aver ricevuto l'atto impositivo.
La Ctp di Frosinone ha respinto il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento di trecento euro per le spese di giudizio. «Incombeva alla contribuente», affermano i giudici frusinati, «l'obbligo di denuncia di nuova utenza, con l'indicazione delle condizioni ostative all'applicazione della tassa, denuncia che invece non risulta sia stata prodotta a suo tempo». Neppure può avere alcun valore la richiesta di verifica avanzata dalla contribuente dopo la notifica dell'atto impositivo, ossia a distanza di diverso tempo rispetto alle annualità per cui veniva richiesta la tassa: in tal senso, una verifica postuma non avrebbe consentito di attestare retroattivamente le condizioni d'uso dell'immobile.
Infine, la Ctp ha respinto l'ulteriore profilo difensivo avanzato nel ricorso, con cui la contribuente sosteneva di aver versato ella stessa la tassa rifiuti per l'altro immobile, quello intestato alla madre; circostanza che il collegio non ha ritenuto sufficiente per riconoscere l'invocata esenzione dal pagamento, atteso che «le cause di esclusione dalla tassa non sono automatiche e devono essere indicate nella denuncia di utenza, nuova o variata».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il ricorso non è fondato e pertanto merita di essere respinto. Il comune di Frosinone, avvalendosi di quanto disposto in materia di Tarsu dal decreto legislativo n. 507/1993 e dallo specifico stato di residenza anagrafica, quindi a titolo di presunzione legale relativa, ha richiesto il pagamento della tassa in questione per gli anni dal 2009 al 2012, gravando sulla contribuente l'onere di dimostrare la non idoneità dei locali di cui trattasi a produrre rifiuti e perciò il proprio diritto alla non applicazione della tassa.
Detta dimostrazione non pare essere andata a buon fine. Infatti le tre richieste di verifica dei luoghi, tutte di data successiva all'avvenuta notifica, in data 16/10/2013, di un primo avviso di accertamento e non accolte dall'ufficio in mancanza di novità tali da metter in discussione l'esito degli accertamenti eseguiti in precedenza dai vigili urbano, non avrebbero potuto attestare retroattivamente le condizioni d'uso dell'immobile.
Comunque a parte tale male intesa pretesa di accertamento amministrativo postumo, che al contrario poteva essere ottenuto mediate autocertificazione, resta il fatto, assai più rilevante che incombeva sulla contribuente, ossia l'obbligo della denuncia di nuova utenza in via [omissis], con l'indicazione delle condizioni ostative all'applicazione della tassa, denuncia che invece non risulta che sia stata prodotta a suo tempo.
Le attestazioni di versamento prodotte in copia, intestate o alla madre della ricorrente oppure agli eredi della detta genitrice, non sono in grado di provare che trattasi di pagamenti effettuati dalla stessa ricorrente in qualità di debitrice della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
Dalla giurisprudenza maggioritaria emerge che le cause dell'esclusione dall'applicazione della tassa non sono automatiche, che devono essere indicate nella denuncia di utenza (nuova o variata) e che detta mancanza preclude la possibilità di invocare in sede processuale la circostanza della inidoneità dei locali. Il ricorso è, pertanto, privo di fondamento e va respinto.
PQM
Rigetta il ricorso. Le spese seguono la soccombenza nella misura di euro 300 (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016).

CONDOMINIO: Vietato occupare la «colonna d’aria» sopra il cortile. Spazi comuni. Costruzioni «aggettanti».
La colonna d’aria sovrastante il cortile condominiale è da considerarsi comune (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 21.03.2016 n. 5551).
La Cassazione ha avuto modo di precisare, in diverse situazioni, che lo spazio aereo sovrastante alle unità abitative in condominio, non può essere occupato dai singoli condomini con costruzioni proprie in aggetto, non essendo consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri ai sensi dell’articolo 840, comma terzo, del Codice civile («sottosuolo e spazio sovrastante al suolo»), l’utilizzazione ancorché parziale a proprio vantaggio della colonna d’aria sovrastante ad area comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti compromessa (Cassazione sentenza 966/1993).
In condominio, la funzione dei cortili è quella di dare aria e luce alle unità abitative che vi prospettano e la costruzione di manufatti nel cortile comune di un fabbricato condominiale è consentita al singolo condomino solo se non alteri la normale destinazione di quel bene, non anche quando si traduca in corpi di fabbrica aggettanti, con incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante ed utilizzazione della stessa a fini esclusivi (Cassazione, sentenza 3098/2005).
La sopraelevazione, disciplinata dall’articolo 1127 codice civile, pur essendo riconosciuta come un diritto potestativo del proprietario dell’ultimo piano o del lastrico solare ad uso esclusivo, non solo prevede il pagamento di un’indennità da corrispondere agli altri condomini ma è sottoposta a limitazione in quanto prevede per i condòmini la possibilità di opporvisi, tra l’altro, quando con la nuova costruzione diminuisce notevolmente l’aria o la luce dei piani sottostanti.
Nella fattispecie sottoposta all’esame della suprema Corte risultava evidente, dalla descrizione dei luoghi, che si era in presenza di un vero e proprio corpo di fabbrica aggettante sul cortile comune, realizzato mediante incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante la relativa area, con conseguente alterazione della normale destinazione del cortile, che è principalmente quella di fornire aria e luce agli immobili circostanti.
Secondo i giudici di legittimità, la Corte di appello, pur dando atto che il manufatto in esame poggiava su tre pilastri che «occupano stabilmente e definitivamente parte della corte comune» di «dimensioni assolutamente minime e marginali», aveva, comunque, tratto delle conclusioni che si basavano su un’incompleta valutazione della fattispecie, perché non aveva tenuto conto del fatto che lo spazio aereo sovrastante il cortile comune, stabilmente occupato dal manufatto in questione, si poneva in contrasto con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza, disattendendo il motivo di gravame principale con cui si sosteneva che l’opera alterava la destinazione della cosa comune, rendendola inservibile all’uso degli altri condomini.
Per tali ragioni, la suprema Corte accoglieva tale motivo del ricorso
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2016).
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MASSIMA
5) Il terzo e quarto motivo, che per ragioni di connessione possono essere trattati congiuntamente, sono fondati.
Come si legge a pag. 6 della sentenza impugnata, la costruzione di cui gli attori hanno chiesto l'abbattimento è costituita da "un'appendice posteriore di tipo pensile" posta sul lato est del fabbricato. Tale costruzione appoggia sul suolo (cortile comune) verso est, mediante tre pilastri della sezione 35 x 35 cm., mentre dall'altro lato appoggia totalmente sul muro perimetrale posteriore del fabbricato condominiale. Le dimensioni esterne della costruzione in appendice sono di m. 5,40 x 3,34 in proiezione orizzontale e di m. 5,53 in altezza (primo e secondo piano), oltre la falda. A tale costruzione si accede dalla contigua porzione di fabbricato di proprietà della convenuta, mediante ampliamento delle originarie finestre.
Siffatta descrizione rende evidente che
si è in presenza di un vero e proprio corpo di fabbrica aggettante sul cortile comune, realizzato mediante incorporazione di una parte della colonna d'aria sovrastante la relativa area, con conseguente alterazione della normale destinazione del cortile, che è principalmente quella di fornire aria e luce agli immobili circostanti.
La Corte di Appello, pur dando atto che il manufatto in esame poggia su tre pilastri che "occupano stabilmente e definitivamente parte della corte comune", ha disatteso, in considerazione delle "dimensioni assolutamente minime e marginali del suolo su cui sono installati i tre pilastri", il motivo di gravame principale con cui si sosteneva che l'opera alterava la destinazione della cosa comune, rendendola inservibile all'uso degli altri condomini.
Tali conclusioni si basano su un'incompleta valutazione della fattispecie, non tenendo conto dello spazio aereo sovrastante il cortile comune stabilmente occupato dal manufatto in questione, e si pongono in contrasto con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza.
Deve, infatti, rammentarsi che
negli edifici in condominio, poiché la funzione dei cortili comuni è quella di fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano, lo spazio aereo ad essi sovrastante non può essere occupato dai singoli condomini con costruzioni proprie in aggetto, non essendo consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri, ai sensi dell'art. 840, comma terzo c.c., l'utilizzazione ancorché parziale a proprio vantaggio della colonna d'aria sovrastante ad area comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti compromessa (Cass. 27.01.1993 n. 966).
La costruzione di manufatti nel cortile comune di un fabbricato condominiale, pertanto, è consentita al singolo condomino solo se non alteri la normale destinazione di quel bene, non anche quando si traduca in corpi di fabbrica aggettanti, con incorporazione di una parte della colonna d'aria sovrastante ed utilizzazione della stessa a fini esclusivi (Cass. 16.02.2005 n. 3098; nello stesso senso Cass. 13.04.1991 n. 3942).
S'impone, pertanto, la cassazione della sentenza impugnata nella parte de qua, con conseguente assorbimento degli ulteriori profili di illegittimità dell'opera dedotti con gli stessi motivi, nonché del quinto, sesto, settimo e undicesimo motivo.

EDILIZIA PRIVATA: Tlc, mega antenne promosse. Stazioni radio per cellulari compatibili con il Prg. Sentenza del Tar Veneto sui limiti alle infrastrutture tecnologiche. Comuni in k.o..
Compagnia tlc batte comune. Si presume che il progetto di mega antenna per cellulari della società telefonica sia sempre compatibile con il piano regolatore generale del comune: la stazione radio-base, infatti, risulta assimilabile a un'opera di urbanizzazione primaria e dunque non soggiace ai divieti previsti per altri manufatti. Ecco allora che se in base al Prg la zona è soggetta a un piano attuativo già approvato, lo stop all'infrastruttura tecnologica può scattare soltanto quando l'opera si rivela del tutto inconciliabile con l'intervento urbanistico previsto nell'area. Diversamente l'ente locale non può bloccare i lavori.

È quanto emerge dalla sentenza 15.03.2016 n. 294, pubblicata dalla II Sez. del TAR Veneto, che aggiunge un nuovo episodio alla saga in cui i giganti delle comunicazioni si trovano contrapposti agli enti locali, creando un notevole contenzioso.
Prescrizioni escluse. Deve rassegnarsi l'amministrazione locale che ha reiteratamente bocciato il progetto della mega antenna. Se il Prg nulla dispone in senso contrario, la stazione radio-base che dà il segnale ai telefonini deve ritenersi compatibile con qualunque destinazione d'uso impressa alle opere dagli strumenti urbanistici: i servizi tecnologici non risultano quindi assoggettati alle prescrizioni che valgono per altri tipi di opere e che sono dettate per disciplinare diversi usi del territorio.
Nel caso specifico il manufatto è di soli sei metri per cinque e si trova sul retro di una costruzione: il proprietario del terreno è favorevole all'installazione e la presenza della mega antenna non può dirsi inconciliabile in senso assoluto con il piano attuativo del Prg approvato per l'area; solo questo avrebbe potuto far scattare il niet dell'ente locale. Al quale non resta che pagare le spese di giudizio.
Obbligo di motivazione. Attenzione, però. L'assimilazione delle stazioni radio-base a opere di urbanizzazione primaria produce anche altre conseguenze giuridiche: la mega antenna per cellulari non deve osservare le norme sulle distanze, per esempio dalla strada, che valgono per i comuni manufatti edilizi. E dunque il comune non può bloccare soltanto per questo i lavori che stanno a cuore alla compagnia telefonica.
In ogni caso quando l'amministrazione locale nega il titolo edilizio richiesto per incompatibilità con il regolamento deve motivare il rigetto indicando la norma violata. Lo stabilisce la sentenza 1146/2016, pubblicata dalla settima sezione del Tar Campania.
Pubblica utilità. Troppo frettolosi i tecnici dell'ente che reputano l'impianto per la telefonia mobile non conforme al regolamento edilizio né all'epoca della realizzazione né al momento in cui risulta chiesta la sanatoria. La stazione radio-base della compagnia deve essere considerata un impianto di pubblica utilità.
Ciò che conta, però, è che l'unica struttura a restare fuori terra sarebbe l'antenna vera e propria, dal momento che tutte le altre opere di rilevante valore edilizio e urbanistico sono interrate: a riconoscerlo è lo stesso provvedimento di diniego adottato dal comune quando dà atto che le armature del basamento si trovano al di sotto del piano campagna. Insomma: mancano opere edilizie significative che impongano l'osservanza delle disposizioni dettate a tutela delle distanze tra fabbricati. Spese di giudizio compensate fra le parti in causa.
Impianti compatibili. Veniamo ai rapporti fra istituzioni. Non è il comune che può proibire le mega antenne per cellulari vicino a case, scuole e ospedali: il regolamento dell'ente locale invade la riserva di competenza dello stato se interviene sulle soglie di attenzione con divieti generalizzati invece che curare il corretto insediamento territoriale degli impianti.
Ecco allora che è accolto il ricorso del big delle telecomunicazioni contro il regolamento dell'ente locale che vieta di installare praticamente ovunque le stazioni radio-base che servono a far funzionare i telefonini: gli impianti sono invece «compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica». È quanto emerge dalla sentenza 503/2015, pubblicata dal Tar Calabria, sezione staccata di Reggio.
Interesse generale. Sbaglia la compagnia telefonica quando sostiene che l'amministrazione locale avrebbe bisogno del placet della regione nell'adottare il regolamento con tutte le modifiche che ha introdotto sul piano urbanistico. In realtà l'ente locale ha i poteri per disciplinare il corretto insediamento territoriale degli impianti.
Il punto è che con il regolamento di «minimizzazione» il comune non può spingersi a porre divieti generalizzati che puntano a tutelare la popolazione amministrata dai campi magnetici: spetta infatti al legislatore nazionale indicare obiettivi di qualità per le installazioni degli impianti con criteri unitari da applicare uniformemente in tutta Italia. Bisogna invece consentire dappertutto la copertura della telefonia mobile: le mega antenne devono infatti ritenersi «infrastrutture primarie e impianti di interesse generale».
Infine: il comune non può dare il placet alla mega antenna senza ascoltare la voce del quartiere (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).
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MASSIMA
Il ricorso ed i motivi aggiunti sono fondati e devono essere accolti.
Infatti
l'art. 86, comma 3, del Dlgs. 01.08.2003, n. 259 dispone espressamente che le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazioni di cui agli art. 87 e 88 sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, DPR 06.06.2001 n. 380.
Tale assimilazione comporta che, in assenza di specifica previsione per gli impianti in questione, gli stessi debbano ritenersi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica impressa dagli strumenti urbanistici
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 05.02.2013 n. 687; Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.06.2011 n. 3646).
Da tale principio discende che tale tipo di impianti possa essere localizzato anche in aree nelle quali l’edificazione sia subordinata dallo strumento urbanistico alla previa redazione di un piano attuativo, in quanto si tratta di infrastrutture che, non potendo essere assimilate alle normali costruzioni edilizie, non sono assoggettate alle prescrizioni urbanistico edilizie preesistenti che si riferiscono a tipologie di opere diverse e sono state elaborate con riferimento a possibilità di diverso utilizzo del territorio (cfr. ex pluribus Tar Sicilia, Palermo, Sez. II, 15.01.2015, n. 100), e che, qualora, come nel caso di specie, sia stato già approvato un piano attuativo, la realizzazione dell’impianto possa essere negata solo ove ricorra una condizione di effettiva ed assoluta incompatibilità con le previsioni del piano.
Tale condizione non sussiste nel caso di specie.
Infatti come emerge dalla documentazione versata in atti (cfr. la planimetria di progetto allegata quale doc. 9 alle difese del Comune) l’area interessata dall’impianto ha una limitata estensione (6 m per 5) ed è posta in un angolo dell’intervento urbanistico posto sul retro dello scivolo che porta al piano interrato, in un punto per il quale il piano attuativo non reca alcuna previsione e che risulta quindi idoneo ad ospitare la realizzazione di servizi tecnologici.
Pertanto, contrariamente a quanto reiteratamente affermato dal Comune nei provvedimenti impugnati, non sussiste alcun contrasto con le previsioni del piano attuativo.
Da quanto esposto emerge l’infondatezza anche della tesi del Comune secondo la quale dovrebbe procedersi ad una previa variazione delle previsioni del piano attuativo per consentire l’inserimento dell’infrastruttura.
Infatti l’istanza per la realizzazione dell’impianto è stata presentata con l’espresso assenso della Società Te.Im. Srl (cfr. doc. 3 allegato al ricorso introduttivo), proprietaria delle aree comprese nel piano attuativo dalla stessa presentato, e l’impianto, non comportando alcun sostanziale mutamento del disegno edificatorio previsto dall’elaborato progettuale, non incide sui suoi criteri informatori.
Parimenti privo di fondamento è il capo di motivazione del diniego che fa riferimento alla mancata previsione di una accesso all’impianto dalla pubblica via, atteso che,
una volta valutata la conformità dell’istanza alla disciplina applicabile al titolo richiesto, il rilascio del provvedimento abilitativo assume carattere vincolato, e l’eventuale interclusione può essere ovviata con la possibilità di ottenere, in via consensuale o giudiziale, la costituzione di una servitù di passaggio ai sensi dell’art. 1051 c.c. (cfr. Tar Veneto, sez. II, 08.02.2016, n. 127; id. 12.01.2011, n. 37; Consiglio di Stato, parere Sez. II, 27.02.2002, n. 2559/2001).
E’ inoltre erronea l’affermazione, contenuta nel provvedimento impugnato con i motivi aggiunti, secondo la quale l’area interessata dall’intervento dovrebbe essere ceduta al Comune al pari delle altre aree con destinazioni ad uso pubblico, in quanto l’art. 86, comma 3, del Dlgs. 01.08.2003, n. 259, nell’affermare l’assimilazione di tali impianti alle opere di urbanizzazione primaria, precisa che restano “di proprietà dei rispettivi operatori”.
In definitiva, in accoglimento delle assorbenti censure di carenza di presupposti, difetto di motivazione e di istruttoria di cui al secondo e terzo motivo del ricorso introduttivo e al secondo e terzo dei motivi aggiunti, devono essere annullati i dinieghi impugnati.

PUBBLICO IMPIEGO: Il dipendente si paga da solo le spese legali. Tar della Calabria.
Innocente sì, ma più povero. Dopo l'assoluzione dall'imputazione di peculato il dipendente del Comune chiede all'ente datore di coprirlo sulle spese legali sostenute nel procedimento il reato ipotizzato, inerente motivi di servizio. Ma dovrà rassegnarsi a pagarle da solo perché a suo tempo non ha coinvolto l'amministrazione, anzi ha taciuto l'esistenza del processo a suo carico, forse temendo la condanna: l'ente datore, invece, deve essere messo in condizione di verificare se sussistono conflitti d'intesse con il dipendente.

È quanto emerge dalla sentenza 09.03.2016 n. 272, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria, che interviene su di una questione controversa in giurisprudenza.
Schema procedimentale - Niente da fare per la lavoratrice, che pure è stata mandata esente da pena nel procedimento in cui era accusata di essersi appropriata di marche da bollo nella sua disponibilità. Non c'è dubbio che il dipendente pubblico sotto inchiesta per reati riconducibili al suo lavoro possa scegliersi l'avvocato che preferisce.
Ma non può farsi vivo con l'amministrazione solo a giudizio concluso perché sia il Comune a farsi carico della parcella forense: lo schema procedimentale, infatti, è quello previsto per l'intervento dell'avvocatura dello Stato e l'ente datore deve poter verificare se gli atti per i quali si procede in giudizio riguardano davvero in modo diretto funzioni del lavoratore.
E se non ci sono conflitti di interesse l'ente deve farsi carico delle spese legali a tutela propria e del dipendente (articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).
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MASSIMA
... per la condanna al pagamento delle spese legali dovute dalla ricorrente al proprio difensore di fiducia ai sensi dell’art. 67 del D.P.R. n. 268/1987.
...
La domanda è infondata.
All’epoca dei fatti, la ricorrente era impiegata presso l’Ufficio Anagrafe del Comune di San Ferdinando.
La normativa applicabile al caso di specie, pertanto, è quella prevista per il comparto del personale degli enti locali e, segnatamente, l’art. 67 del D.P.R. 13.05.1987, n. 268 (contenente “Norme abrogato, a decorrere dal 06.06.2012, dall’art. 62, comma 1, e dalla tabella A allegata al D.L. 09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 04.04.2012, n. 35 e, dunque, applicabile al caso di specie ratione temporis), rubricato “Patrocinio legale”, ai sensi del quale: “1. L’ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento.
2. In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o con colpa grave, l’ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni grado di giudizio
”.
Sostiene la ricorrente che il rimborso sarebbe comunque dovuto, a seguito della sua assoluzione, indipendentemente da qualsivoglia coinvolgimento iniziale dell’Amministrazione.
E’ circostanza pacifica, infatti, che la stessa non solo non ha rivolto al Comune istanza di assistenza legale o di assunzione degli oneri di difesa, ma non ha finanche comunicato l’instaurazione del procedimento penale a suo carico.
Il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale che non condivide la predetta tesi.
L’art. 67, cit., infatti, prevede un modello procedimentale analogo a quello regolamentato dall’art. 44 del R.D. n. 1611/1933, relativo all’assunzione a carico dello Stato della difesa dei pubblici dipendenti per fatti e cause di servizio (“
L'Avvocatura dello Stato assume la rappresentanza e la difesa degli impiegati e agenti delle Amministrazioni dello Stato o delle amministrazioni o degli enti di cui all'art. 43 nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio, qualora le amministrazioni o gli enti ne facciano richiesta, e l'Avvocato Generale dello Stato ne riconosca la opportunità”).
Tale modello procedimentale ex art. 67 cit. “
rimette alla valutazione ex ante dell’ente locale, con specifico riferimento all’assenza di conflitto di interessi, la scelta di far assistere il dipendente da un legale di comune gradimento, per cui non è in alcun modo riconducibile al contenuto della predetta norma la pretesa… di ottenere il rimborso delle spese del patrocinio legale a seguito di una scelta del tutto autonoma e personale nella nomina del proprio difensore. Del resto, l’onere della scelta di un legale di comune gradimento appare del tutto coerente con le finalità della norma perché, se il dipendente vuole l’amministrazione lo tenga indenne dalle spese legali sostenute per ragioni di servizio, appare logico che il legale chiamato a tutelare tali interessi, che non sono esclusivi di quelli del dipendente, ma coinvolgono anche quelli dell’ente di appartenenza , debba essere scelto preventivamente e concordemente tra le parti… in caso diverso, si priverebbe di significato la previsione normativa volta a tutelare diritti ed interessi che sono comuni ad entrambe le parti” (Consiglio di Stato, Sez. V, 12.02.2007, n. 552).
Alla stregua della predetta norma
è senz’altro configurabile un potere di intervento a posteriori, per l'accollo di spese già sostenute direttamente dal dipendente (in tal senso, Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.03.2002, n. 1476), ma pur sempre nel presupposto dell’iniziale coinvolgimento dell’ente di appartenenza che deve essere messo nelle condizioni di svolgere un apprezzamento discrezionale dell'ente circa la sussistenza o meno di un conflitto d'interessi o la qualificazione dei fatti o degli atti per cui si procede in sede giudiziaria, se direttamente o meno connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, fermo restando che, in assenza di un dichiarato e motivato conflitto di interessi, l'assunzione di ogni onere di difesa da parte dell'ente costituisce un'attività vincolata, in quanto preordinata alla tutela degli interessi del dipendente, oltre che a tutela di quelli propri dell'ente (in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.03.2002, n. 1476, cit.).
In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite della Cassazione che, con sentenza n. 12719 del 29.05.2009, in sede di decisione su un conflitto negativo di giurisdizione, hanno affermato quanto segue: “
I presupposti per l'insorgenza di questa speciale garanzia, prevista in favore dei dipendenti degli enti locali, sono costituiti: a) dal fatto che la commissione di fatti o atti addebitati al dipendente in sede penale siano direttamente connessi all'espletamento del servizio o all'adempimento dei compiti d'ufficio; b) dalla mancanza di una situazione di conflitto di interesse.
Sussistendo questi presupposti il dipendente, quindi, sulla base della suddetta disciplina può avvalersi della garanzia alla rivalsa alle spese attraverso il riconoscimento di un diritto, che sorge -come emerge dalla lettera del citato art. 67- nel momento stesso in cui il procedimento penale ha inizio e le spese legali vengono concretamente sostenute, atteso che espressamente la disposizione scrutinata prevede detta garanzia al momento dell'"apertura del procedimento" ed atteso che risponde ad un interesse sia del dipendente che della pubblica amministrazione che sin da tale momento la difesa in giudizio avvenga ad opera di "un legale di comune gradimento
"
”.
Anche le Sezioni Unite, dunque, postulano quale presupposto necessario dell’insorgenza del diritto al rimborso il coinvolgimento iniziale dell’ente.
La sussistenza di un preciso onere, da parte del dipendente, di comunicare all’amministrazione interessata la pendenza del procedimento in cui è coinvolto, ai fini dell’operatività dell’accollo imposto ex lege è stata sostenuta dal Giudice Ordinario anche più recentemente.
La Corte d’Appello di Campobasso, nella sentenza del 06.11.2013 (resa in causa r.g.n. 337/2012), ha correttamente richiamato la sentenza n. 1657 del 25.08.2009 con cui la Corte dei Conti, Reg. Lazio “esclude che vi possa essere un rimborso "ex post" delle spese sostenute dall'interessato, se egli non segue l'iter previsto dalla legge, in quanto la norma prevede l'onere a carico dell'ente "anche a tutela dei propri diritti e interessi…Questa precisazione deve interpretarsi nel senso che l'Amministrazione deve comunque preventivamente valutare che non sussista un conflitto di interessi, a prescindere da una possibile futura assoluzione, e si deve anch'essa far carico che la vicenda processuale non abbia esiti che possano ripercuotersi negativamente sui suoi interessi o sulla sua immagine pubblica. Né la procedura viola il principio del diritto alla difesa e la facoltà di scegliersi un avvocato di personale fiducia. Invero, non è in discussione la facoltà per l'interessato di scegliersi l'avvocato che preferisce, ma se vuole essere tenuto indenne da parte dell'ente locale per le spese del giudizio in cui è coinvolto, deve seguire la procedura di cui si è detto”.
Parte della giurisprudenza richiamata da parte ricorrente, inoltre, non è attinente al caso di specie.
Le sentenze del TAR Piemonte, Torino, Sez. II, n. 4585/2010 e del TAR Sicilia, Palermo, sez I, n. 1309/2002 si riferiscono al comparto del personale dipendente del Servizio Sanitario Nazionale, al quale si applica l’art. 41 del D.P.R. 20.05.1987, n. 270, che non richiede che il dipendente sia assistito da un legale di comune gradimento (“L'ente, nella tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti del dipendente per fatti e/o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio è all'adempimento dei compiti d'ufficio assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interesse, ogni onere di difesa fin dall'apertura del procedimento e per tutti i gradi del giudizio, facendo assistere il dipendente da un legale”).
La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8750/2009, si limita a chiarire che il dipendente può agire sia per ottenere l'assunzione diretta del patrocinio che per il pagamento delle spese richieste dal proprio difensore all'esito del procedimento penale e richiama la sopra citata Cass., Sez. Un., 29.05.2009, n. 12719.
La sentenza del TAR Veneto n. 1505/1999 si riferisce ad ipotesi in cui l'Amministrazione non abbia espresso l'assenso circa la scelta del difensore, ma non al caso in cui essa Amministrazione non abbia avuto conoscenza della pendenza del processo.
Dal mancato coinvolgimento iniziale del Comune resistente, in conclusione, deriva l’infondatezza della domanda per insussistenza del diritto al rimborso.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per il dehors serve il sì del condominio. Poteri di veto. I proprietari devono dare il consenso alla realizzazione del manufatto in aderenza alla facciata.
Il conduttore di un immobile destinato ad uso birreria che intende realizzare nell’area antistante il locale un dehors che verrà montato solo in aderenza alla facciata non può essere autorizzato dal comune a realizzare l’opera se non dimostra di aver ottenuto il consenso della collettività condominiale.

È questo il principio affermato dal TAR Toscana -Sez. II- nella sentenza 04.03.2016 n. 379.
La vicenda prendeva l’avvio quando il titolare di un locale birreria, facente parte di un caseggiato, decideva di realizzare, nello spazio antistante il locale condotto in locazione, un dehors temporaneo con possibilità di chiusura stagionale in cui installare tavoli, sedie.
Il progetto definitivo prevedeva che la struttura portante del dehors non fosse ancorata alla parete condominiale, ma fosse realizzata soltanto in aderenza del muro perimetrale con montanti verticali in acciaio indipendenti.
L’opera, quindi, veniva autorizzata, ma una condòmina richiedeva al comune l’annullamento in via di autotutela del provvedimento autorizzatorio, per la mancanza di nulla osta da parte del condominio. La richiesta veniva respinta, anche perché tutti gli altri condomini (compreso il proprietario del locale-birreria) con apposita comunicazione, avevano confermato l’autorizzazione ad occupare l’area privata antistante il pubblico esercizio.
La questione, poi, è stata sottoposta all’attenzione del Tar che ha dato torto al titolare della birreria, rilevando che la domanda volta ad ottenere la concessione e/o l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio, con occupazione di tutta l’area esterna condominiale, richiede il consenso degli altri condòmini (inclusa la ricorrente che non ha mai prestato il suo assenso), anche nel caso in cui la struttura venga posta solo a contatto dell’edificio.
A diversa conclusione si potrebbe arrivare, però, se il dehors fosse realizzato con le stesse modalità ma con occupazione parziale del cortile: in tal caso, infatti, se si considera che i rapporti condominiali richiedono il continuo rispetto del principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora sia prevedibile (come nel caso in questione) che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino potrebbe ritenersi legittima
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.04.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento:
- del provvedimento Autorizzativo Unico n. 152 del 29.07.2013 con cui il Dirigente del Settore Urbanistica e Suap ha autorizzato il Sig. Er.Si., nella sua qualità di legale rappresentante dell’impresa “Pi. Bar di Er.Si. & C. <<ad occupare l’area privata antistante il pubblico esercizio denominato “Bar Lume” posto in via Rinchiosa, angolo Via Garibaldi al fine di poter installare tavoli, sedie e strutture a padiglione con temporanea possibilità di chiusura stagionale […]>>, nonché degli atti connessi, presupposti e conseguenti nonché per il risarcimento:
- dei danni subiti e subendi dalla ricorrente per effetto degli illegittimi provvedimenti impugnati;
...
2. Il primo motivo del ricorso introduttivo del presente giudizio è fondato.
La circostanza, infatti, che “la struttura portante del dehors da installare non verrà agganciata alla parete condominiale, ma sostenuta da montanti verticali in acciaio indipendenti, come si legge nel provvedimento autorizzativo impugnato, non esonerava dalla necessità di ottenere il previo consenso da parte dei proprietari della facciata medesima.
A riguardo va rilevato come sia incontestato che il progetto per la realizzazione del dehors di cui si discute sia quello graficamente rappresentato nel documento prodotto dalla ricorrente come all. 18, consegnato al Comune nell’aprile del 2013, nel quale si trova espressamente scritto “Dehors distaccato 1 cm dalla facciata con struttura indipendente”.
Ora, l’Allegato L del Regolamento edilizio comunale al punto 2.8 prevede, con riferimento alle “strutture a padiglione temporanee con possibilità di chiusura stagionale”, il generale divieto di ogni infissione al suolo e alla parete dell’edificio di pertinenza.
Tuttavia, il quarto comma del citato punto 2.8 stabilisce che “
nel caso di presenza di marciapiede sopraelevato di larghezza tale da consentire la coesistenza del manufatto e del percorso pedonale, il manufatto stesso può essere collocato in aderenza alla facciata a condizione che venga comunque garantita una striscia libera di almeno 2 metri di larghezza a partire dal filo esterno del marciapiede”.
Ed è questa la fattispecie in cui rientra, secondo il progetto di cui si è detto, la struttura per cui è causa, per la quale, dunque, viene consentita la collocazione in aderenza alla facciata, mentre rimane vietata ogni infissione alla stessa.
Inoltre, il citato Allegato L del Regolamento edilizio comunale al punto 1.2 lett. c richiede in via generale, per tutte le domande volte ad ottenere la concessione e/o l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio di somministrazione, il “nulla-osta del proprietario o dell’amministratore dell’immobile qualora la struttura venga posta a contatto dell’edificio”; ciò in piena coerenza con la disciplina del condominio negli edifici (artt. 1117 e ss. cod. civ.).
Ne discende che,
oltre al divieto di infissione-aggancio alla parete condominiale, viene stabilito altresì che il contatto-aderenza –essendo i due termini sinonimi– dell’edificio richiede il previo nulla-osta dei proprietari o dell’amministratore dell’immobile.
Ciò significa che
l’amministrazione non avrebbe dovuto ridurre la questione di cui si controverte all’esistenza o meno dell’”aggancio” alla parete, ma avrebbe dovuto prendere in considerazione la specifica disciplina regolamentare del “contatto-aderenza” con l’edificio per dedurne la necessità del suddetto nulla-osta dei proprietari.
E’ evidente, infatti, che la progettata struttura, proprio in quanto distaccata di un solo centimetro dalla facciata, non può non essere considerata come aderente alla facciata stessa, con la conseguenza che la sua collocazione richiedeva il previo nulla-osta di tutti i proprietari della medesima, in quanto muro perimetrale condominiale ai sensi dell’art. 1117 cod. cic., ivi incluso quello della ricorrente che non risulta, invece, aver mai prestato il suo assenso a tal fine.

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza, il datore non è responsabile per l’operaio distratto. Prevenzione. Sentenza della Cassazione.
Il datore di lavoro non ha un obbligo di vigilanza assoluta nei riguardi del lavoratore, ma una volta forniti tutti i mezzi idonei alla prevenzione e adempiute tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.

Il principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione -Sez. IV penale-  con la sentenza 03.03.2016 n. 8883, in cui si considera maggiormente la responsabilità dei lavoratori attuando il cosiddetto «principio di auto responsabilità» degli stessi. Viene così abbandonato il criterio esterno delle mansioni che «si sostituisce con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità del fattore causale».
La sentenza trae motivo dal ricorso proposto dall’amministratore di una società e dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) della società stessa, contro la sentenza d’appello che li aveva riconosciuti colpevoli del reato di lesioni a carico di un lavoratore caduto dal tetto di un capannone. Dai fatti accertati è risultato che la sera prima dell’incidente, il lavoratore, elettricista manutentore, dipendente della società da 5 anni, si era recato per un sopralluogo, su incarico della propria azienda e accompagnato dall’amministratore della società, presso un capannone del committente dove avrebbe dovuto montare dei faretti sulle pareti esterne.
In tale circostanza il lavoratore e il Rspp della committente avevano utilizzato un elevatore con braccio meccanico. A conclusione del sopralluogo il Rspp della società datrice di lavoro, informato telefonicamente del lavoro da eseguire, gli aveva detto di prendere tutte le attrezzature di lavoro e di sicurezza, con la verosimile certezza che l’operaio avrebbe operato dall’elevatore messo a disposizione dal committente. È avvenuto invece che il lavoratore, pur servendosi dell’elevatore, si era portato sul cordolo esterno del capannone, frantumatosi per l’esilità delle lastre di eternit causando l’infortunio.
In base alla ricostruzione istruttoria dei fatti, per il Tribunale non era possibile sostenere che quei lavori dovessero essere svolti dal tetto e non dall’elevatore. Era risultato, inoltre, che gli imputati avevano organizzato il lavoro da effettuare senza che fosse prevista la necessità di salire sul tetto, sincerandosi che la ditta cliente mettesse a disposizione l’elevatore, ritenuto più che sufficiente per svolgere l’attività in sicurezza.
Di diverso avviso la Corte d’appello, che condannava invece i due imputati per aver omesso di predisporre i necessari apprestamenti di sicurezza.
Prima di stabilire il principio già citato, la Corte di legittimità ha ribadito che la radicale riforma in appello di una sentenza di assoluzione non può essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, ma deve fondarsi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineata situazione di conflitto valutativo delle prove
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2016).
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MASSIMA
9. Questa Corte Suprema ha reiteratamente affermato -e si ritiene di dover ribadire- che
non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr. ex multis questa sez. 4, n. 7364 del 14.01.2014, Scarselli, rv. 259321).
Tuttavia, quello che ci occupa è proprio un caso in cui tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte.
Era da prevedersi che un operaio dotato di siffatta qualificazione -ponesse in essere un comportamento del genere?
Sul punto va ricordato che, come affermato nella recente sentenza delle Sezioni Unite n. 38343/2014 sul c.d. caso Thyssenkrupp,
in tema di colpa, la necessaria prevedibilità dell'evento -anche sotto il profilo causale- non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articocolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo (Cass.  Sez. Un., n. 38343 del 24.04.2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, rv. 261103 nella cui motivazione la Corte ha precisato che, ai fini della imputazione soggettiva dell'evento, il giudizio di prevedibilità deve essere formulato facendo riferimento alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali).
Inoltre, è stato precisato che
nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Cass. Sez. Un., n. 38343 del 24.04.2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, rv. 261103; conf. sez. 4, n. 49707 del 04.11.2014, Incorcaia ed altro, rv. 263284; sez. 4, n. 22378 del 19.03.2015, PG in proc. Volcan ed altro, rv. 263494).
Ebbene, la risposta in termini di possibile prevedibilità dell'evento non può che essere che il comportamento posto in essere dal Se. non era assolutamente prevedibile.
10. Questa Corte di legittimità ha anche ricordato, in una recente pronuncia (sez. 4, n. 41486 del 05.05.2015, Viotto, non mass.),
come il sistema della normativa antinfortunistica, si sia lentamente trasformato da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.
Tale principio, normativamente affermato dal Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro di cui al D.Lgs. 09.04.2008 n. 81, naturalmente non ha escluso, per la giurisprudenza di questa Corte, come si ricordava, che permanga la responsabilità del datore di lavoro, laddove la carenza dei dispositivi di sicurezza, o anche la mancata adozione degli stessi da parte del lavoratore, non può certo essere sostituita dall'affidamento sul comportamento prudente e diligente di quest'ultimo.
Ricordava ancora la sentenza 41486/2015 -che il Collegio condivide pienamente- che
in giurisprudenza, dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" (che si rifà spesso all'art. 2087 del codice civile), si è passati -a seguito dell'introduzione del D.Lgs. 626/1994 e, poi del T.U. 81/2008- al concetto di "area di rischio" (cfr. sez. 4, n. 36257 del 01.07.2014, rv. 260294; sez. 4, n. 43168 del 17.06.2014, rv. 260947; sez. 4, n. 21587 del 23.03.2007, rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.
Strettamente connessa all'area di rischio che l'imprenditore è tenuto a dichiarare nel DVR si sono, perciò, andati ad individuare i criteri che consentissero di stabilire se la condotta del lavoratore dovesse risultare appartenente o estranea al processo produttivo o alle mansioni di sua specifica competenza.
Si è dunque affermato il concetto di comportamento "esorbitante", diverso da quello "abnorme" del lavoratore. Il primo riguarda quelle condotte che fuoriescono dall'ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell'ambito del contesto lavorativo, il secondo, quello, abnorme, già costantemente delineato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, si riferisce a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con l'attività svolta.
La recente normativa (T.U. 2008/81) impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia.

Le tendenze giurisprudenziali -va qui ribadito- si dirigono anch'esse verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. "principio di autoresponsabilità del lavoratore"). In buona sostanza, si abbandona il criterio esterno delle mansioni e -come condìvisibilmente rilevava la sentenza 41486/2015 "si sostituisce con il parametro della prevedibilità intesa come dominabìlità umana del fattore causale".
Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.
Questi princìpi si attagliano specificamente al caso di specie, essendo rimaste provate non solo la valutazione preventiva del rischio derivante dallo svolgimento in quota dei lavori di sostituzione dei faretti e di posizionamento dei fili, ma anche la concreta dotazione al lavoratore, nel frangente dell'infortunio, degli strumenti idonei ad effettuare tali tipi di lavoro in sicurezza.
Ne deriva, ad avviso del Collegio, l'assenza di violazione della norma cautelare che, idonea forse, come ritenuto dal giudice di primo grado, ad influire sotto il profilo della tipicità oggettiva del reato, lo è certamente sotto il profilo soggettivo dell'assenza di colpa.
Ne deriva che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio e che entrambi gli imputati vanno mandati assolti dal reato loro ascritto perché il fatto non costituisce reato, con il conseguente venir meno delle statuizioni civili del giudice di secondo grado.

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione da parte del ricorrente della domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in funzione della repressione dell'abuso edilizio.
Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta.
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Il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di quel procedimento.
Tale semplice considerazione induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria.
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
   1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
   2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
   3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa;
   4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il procedimento non è definito, ma una volta negata la sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.

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... per l'annullamento, previa sospensione cautelare, dell’ordinanza n. 2 del 27.11.2014 (prot. n. 3864), notificata in data 18.12.2014, con la quale il Comune di Busso ha ordinato al ricorrente la demolizione di un manufatto realizzato nella parte retrostante il fabbricato di civile abitazione, contenente un serbatoio di acqua potabile avente struttura portante in muratura di mattoni e soprastante terrazzo.
...
Il ricorso è improcedibile.
La presentazione da parte del ricorrente della domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n. 735; Tar Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Nel caso di specie, poi, il ricorrente ha prodotto il parere positivo espresso dalla Regione nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004.
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di quel procedimento.
Tale semplice considerazione, come di recente rilevato da questo Tribunale in un caso analogo (sentenza 20.11.2015, n. 441), induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: TAR Umbria Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il procedimento non è definito, ma una volta negata la sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.
In conclusione, il ricorso è da ritenersi improcedibile (TAR Molise, sentenza 26.02.2016 n. 105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe ragioni che militano per l’orientamento che depone per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
   1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
   2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
   3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa;
   4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni;
   5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più ovviabile.

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... per l'annullamento dei seguenti atti: 1) l’ordinanza di demolizione di opere abusive prot. n. 2/2015, emessa dal Comune di Rocchetta al Volturno in data 08.01.2015, notificata al ricorrente in data 16.02.2015, con la quale è stata ordinata la demolizione delle dette opere a propria cura e spese; 2) ogni atto presupposto, connesso e conseguente;
...
  III - La presentazione da parte del ricorrente della domanda di sanatoria edilizia comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti, in funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia del Comune su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n. 735; T.a.r. Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale semplice considerazione induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: Tar Umbria Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni;
5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più ovviabile (TAR Molise, sentenza 26.02.2016 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Niente «tassa» per le associazioni ambientaliste. Contributo unificato. Esentata la Onlus.
Le associazioni a tutela dell’ambiente e del paesaggio non sono tenute a pagare il contributo unificato per l’accesso alla tutela giurisdizionale, in quanto agiscono in difesa di interessi della collettività, senza che possa essere sottesa alcuna capacità contributiva.
Lo ha affermato la Ctr della Lombardia con la sentenza 22.02.2016 n. 987/19/2016 (presidente Labruna, relatore Scarcella).
La vicenda origina da un ricorso al Tar Lombardia presentato da una Onlus che ha chiesto di annullare un provvedimento comunale sul trasferimento di un bene di valore ambientale dal patrimonio indisponibile a quello disponibile. A fronte dell’omesso pagamento del contributo unificato per l’iscrizione della causa a ruolo, il Segretario generale del Tar ha notificato alla Onlus un invito di pagamento, che è stato impugnato davanti alla Ctp di Milano.
Il giudice di primo grado ha accolto la tesi difensiva della Onlus, secondo cui troverebbe applicazione anche agli atti processuali l’esenzione stabilita per l’imposta di bollo (di cui il contributo unificato è divenuto sostitutivo) dall’articolo 27-bis, tabella, del Dpr 642/1972.
La presidenza del Consiglio dei ministri impugna la pronuncia davanti alla Ctr, che respinge l’appello. Infatti l’articolo 27-bis -si legge nella sentenza- prevede che siano esenti dall’imposta di bollo «atti, documenti, istanze, contratti, nonché copie anche se dichiarate conformi, estratti, certificazioni, dichiarazioni e attestazioni poste in essere o richiesti da organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) e dalle federazioni sportive ed enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni».
L’articolo 10 del Dpr 115/2002 stabilisce che «non è soggetto al contributo unificato il processo già esente, secondo previsione legislativa e senza limiti di competenza e di valore, dall’imposta di bollo o da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura». La questione interpretativa ruota pertanto attorno al significato da attribuire alla parola «atti» contenuta nell’articolo 27-bis.
La Ctr afferma che «atto» è anche il ricorso in sede giurisdizionale e non solo l’atto amministrativo prodotto nell’ambito dell’attività procedimentale delle Onlus (come sosteneva la presidenza del Consiglio).
Del resto –prosegue la Ctr– se si applicasse l’interpretazione restrittiva proposta dalla presidenza del Consiglio, si giungerebbe al paradosso che le Onlus beneficerebbero dell’esenzione per gli atti endoprocedimentali, che sottintendono una capacità contributiva dell’associazione, mentre si negherebbe l’esenzione per i ricorsi giurisdizionali, finalizzati alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, che non sottintendono alcuna capacità contributiva dell’associazione ma, anzi, la escludono in quanto sono posti in essere per conto della collettività, in difesa di interessi diffusi di rango costituzionale particolarmente meritevoli.
La pronuncia è importante anche perché va in senso opposto rispetto a quanto sostenuto, in un caso sostanzialmente analogo, dalla Cassazione con la sentenza 21522/2013, per cui l’esenzione per le Onlus riguarderebbe solo gli atti amministrativi, non anche gli atti giudiziari
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016).

CONDOMINIO: Amministratori senza incarico. Se manca la delibera, la nomina può essere tacita. La Cassazione sulla gestione di fatto del condominio e sulla durata del mandato.
Per amministrare un condominio non occorre necessariamente un incarico formale. Ove, infatti, manchi la delibera assembleare di nomina dell'amministratore (e, quindi, anche l'annotazione delle generalità del medesimo nello speciale registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7, c.c.), lo stesso può considerarsi in carica per tacito rinnovo del mandato, ove risulti un comportamento concludente da parte dei condomini, che lo abbiano considerato tale a tutti gli effetti, rivolgendosi abitualmente al medesimo in detta veste e senza mai metterne in discussione i poteri di gestione e la rappresentanza del condominio.

Questo il principio che emerge dalla sentenza 04.02.2016 n. 2242 della II Sez. civile della Corte di Cassazione.
La decisione in questione arriva tra l'altro proprio nel momento in cui più ferve il dibattito sulla durata del mandato dell'amministratore condominiale a seguito della nuova disposizione introdotta dalla legge n. 220/2012 di riforma del condominio (si veda ItaliaOggi Sette dell'08.02.2016) e potrebbe aggiungere ulteriori elementi di riflessione.
Il caso concreto. Nella specie un condominio aveva presentato opposizione nei confronti del decreto ingiuntivo ottenuto nei suoi confronti dal condominio per il mancato pagamento dei relativi oneri. L'opposizione era stata respinta e il condomino aveva allora impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di appello, contestando in via pregiudiziale, per la prima volta, il difetto di legittimazione attiva del condominio, poiché la procura rilasciata in relazione al procedimento monitorio era stata rilasciata da un soggetto che non risultava essere formalmente l'amministratore.
I giudici di secondo grado avevano però evidenziato come l'eccezione in questione fosse tardiva, non essendo stata proposta nel giudizio di prime cure, e comunque infondata nel merito, in quanto nel corso del procedimento era emerso che il soggetto di cui si contestava la qualifica di amministratore avesse svolto varie attività in rappresentanza del condominio, per esempio partecipando alle assemblee per l'approvazione del riparto delle spese e inviando la diffida di pagamento al condomino opponente. Anche l'appello era stato dunque rigettato e il condomino aveva allora deciso di ricorrere in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. Anche la Cassazione ha però rigettato l'eccezione pregiudiziale in questione, chiarendo meglio i contorni della questione ed esprimendo interessanti considerazioni in tema di nomina dell'amministratore condominiale.
I giudici di legittimità hanno in primo luogo chiarito come l'eccezione in questione non riguardasse propriamente il difetto di legittimazione attiva del condominio, quanto piuttosto il preteso difetto del potere di rappresentanza di quest'ultimo in capo al soggetto che aveva fornito il mandato al legale incaricato di richiedere l'emissione del decreto ingiuntivo per il mancato pagamento delle spese comuni.
La seconda sezione civile della Cassazione, nel fare proprie le conclusioni alle quali erano pervenuti i giudici di merito, ha quindi evidenziato come alla nomina dell'amministratore, giusto il rapporto contrattuale di mandato che regolamenta i rapporti di quest'ultimo con la compagine condominiale, sia applicabile l'art. 1392 c.c., che disciplina i requisiti di forma della procura, ovvero dell'atto con cui un soggetto conferisce a un terzo il potere di compiere atti giuridici in nome proprio e dal quale sorge il diritto di rappresentanza.
Detta disposizione codicistica prevede che la procura sia efficace soltanto laddove abbia la forma prescritta per l'atto che il procuratore (rappresentante) è chiamato a concludere. Ne discende, quindi, che la stessa deve avere necessariamente forma scritta soltanto laddove l'atto da compiere necessiti a sua volta, per esplicare i propri effetti, della medesima forma. In caso contrario la procura potrà anche essere verbale o tacita, ovvero desunta da comportamenti concludenti.
Sulla base di questa disposizione i giudici di legittimità hanno quindi concluso che la nomina dell'amministratore, anche in mancanza di una specifica delibera assembleare (e della conseguente annotazione delle generalità del medesimo nello speciale registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7, c.c.), possa desumersi dal comportamento concludente dei condomini che abbiano considerato una data persona quale amministratore condominiale, rivolgendosi abitualmente a questa per il disbrigo delle varie questioni legate alla gestione del condominio, senza mai metterne in discussione i relativi poteri e la rappresentanza.
Si tratta, a ben vedere, del riconoscimento della figura dell'amministratore condominiale di fatto, figura generalmente ritenuta non configurabile dalla dottrina. A maggior ragione dopo la riforma del 2012, che ha preteso una maggiore formalizzazione del rapporto tra amministratore e condomini, sia prevedendo una sorta di accettazione della nomina assembleare, sia richiedendo come obbligatorio, a pena di nullità della delibera, la presentazione di un preventivo relativo al compenso richiesto, sia ammettendo che la nomina possa essere subordinata dall'assemblea alla stipula di una polizza assicurativa per la responsabilità civile, sia ancora indicando una serie di requisiti necessari per tale nomina, la verifica dei quali è nuovamente lasciata all'assemblea. Questi e ulteriori adempimenti connessi alla designazione dell'amministratore sembrano infatti difficilmente conciliabili con una nomina tacita.
La questione della durata del mandato dell'amministratore condominiale. La posizione espressa dalla Suprema corte sulle modalità di nomina dell'amministratore potrebbe quindi incidere anche sul dibattito in corso relativamente alla durata dell'incarico, alle modalità del suo rinnovo e alla permanenza dell'istituto della c.d. prorogatio.
Non è chiaro, infatti, quale sia la durata del mandato dell'amministratore condominiale. Il vecchio art. 1129 c.c. si limitava a stabilire che quest'ultimo restasse in carica per un anno. Si riteneva, quindi, per il combinato disposto di cui agli artt. 66 disp. att. c.c. e 1135 c.c., che lo stesso dovesse sempre ottenere la conferma dell'incarico annuale da parte dell'assemblea (con le stesse maggioranze previste per la prima nomina, salvo qualche isolata decisione di merito di segno contrario), ossia una nuova nomina della durata di un anno. Nel caso in cui non fosse stata raggiunta la necessaria maggioranza, si ricorreva quindi generalmente all'applicazione analogica dell'istituto della c.d. prorogatio, in base al quale l'amministratore era temporaneamente legittimato a curare gli interessi del condominio in attesa della decisione assembleare sulla conferma del suo incarico o sulla nomina di un nuovo mandatario.
Con il nuovo art. 1129, comma 10, c.c., il legislatore ha quindi confermato che la durata dell'incarico dell'amministratore è annuale, ma ha altresì sibillinamente aggiunto che il relativo incarico si intende rinnovato per eguale durata. Di qui l'incertezza interpretativa sulla reale durata del mandato. Il dibattito si è quindi incentrato da una parte sul funzionamento di detto meccanismo di rinnovo automatico ex lege e, dall'altra, sulla necessità o meno di inserire all'ordine del giorno dell'assemblea la questione della nomina/conferma dell'amministratore.
Sul primo tema vi è chi sostiene la tesi dell'indeterminatezza temporale di tale meccanismo di rinnovo, nel senso che il mandato continuerebbe tacitamente anno dopo anno, salvo che ne intervenga la revoca. Un altro orientamento, recentemente fatto proprio dai tribunali di Milano e Cassino, ritiene invece che il rinnovo automatico valga soltanto per il primo biennio di durata in carica dell'amministratore.
Il secondo aspetto sul quale si è acceso il dibattito è stato quindi quello relativo all'obbligo di continuare a indicare tra le questioni all'ordine del giorno dell'assemblea ordinaria quella relativa alla conferma/revoca dell'amministratore. I menzionati precedenti giudiziali di Milano e Cassino hanno infatti avallato la prassi di non indicare più tale questione all'ordine del giorno, anche se soltanto per il primo rinnovo biennale.
Detta omissione da parte dell'amministratore è infatti stata giudicata conforme alla nuova disciplina condominiale, secondo la quale la durata annuale dell'incarico è tacitamente prorogabile per un altro anno, salvo delibera di revoca assunta dall'assemblea (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Nelle strade extraurbane autovelox col sì prefettizio.
Spetta al rappresentante governativo autorizzare l'installazione di un misuratore di velocità in sede fissa fuori centro abitato. E in questo caso non occorre fare riferimento alle dimensioni della strada ma solo all'ubicazione esatta dell'autovelox.

Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 04.12.2015 n. 1691.
Un automobilista incorso nei rigori dei limiti di velocità ha presentato un esposto alla prefettura denunciando l'illegittimità del provvedimento che ammette la collocazione di un misuratore elettronico su una strada comunale extraurbana di modeste dimensioni. A seguito del mancato accoglimento dell'istanza l'interessato ha proposto ricorso ai giudici amministrativi contro il rinnovato decreto prefettizio che ha confermato la precedente determinazione. Ma senza successo.
A parere del collegio infatti l'elemento fondamentale da valutare attiene alla natura della strada comunale scelta dalla prefettura per l'installazione dell'autovelox fisso. Ovvero se la stessa risulta essere una strada extraurbana o meno. L'art. 4 della legge 168/2002 permette il controllo automatico dell'eccesso di velocità, infatti, solo su certi tipi di strade, previa autorizzazione del prefetto. Ovvero le strade extraurbane secondarie e quelle locali di scorrimento. Si definiscono strade extraurbane secondarie tutte le strade che non interessano i centri abitati senza riferimento alle dimensioni del manufatto.
A differenza delle strade extraurbane principali, munite di spartitraffico, quelle secondarie devono solamente disporre di una corsia per senso di marcia e delle banchine. Il decreto ministeriale 6792/2004 sulle dimensioni delle strade, prosegue la sentenza, interessa solo le modalità di costruzione dei nuovi manufatti. Per l'attività di classificazione delle strade occorre fare riferimento all'art. 2 del codice stradale.
La strada in esame, conclude il Tar, è fuori dal centro abitato, e quindi correttamente classificata come extraurbana, dotata di due corsie, priva di uno spartitraffico locale, ma le banchine sono esistenti, essendovi su entrambi i lati una spazio tra la linea di margine e il ciglio erboso (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).
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MASSIMA
La questione centrale attiene alla natura della strada, cioè se sia stata correttamente classificata come strada extraurbana secondaria, ovvero se si tratti di una strada extraurbana locale, per cui il Prefetto non aveva alcun potere di autorizzare l’attività di rilevamento a distanza di cui all’art. 4 L. 168/2002, che prevede la possibilità di installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico sulle strade di cui all'articolo 2, comma 2, lettere C e D, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, (cioè rispettivamente C - Strade extraurbane secondarie e D - Strade urbane di scorrimento).
Secondo la tesi di parte ricorrente la strada non può classificarsi come strada extraurbana neppure secondaria, poiché il Codice della Strada richiede per le strade extraurbane secondarie che siano “ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e banchine”.
La strada de qua invece è priva di corsie e di banchine e non presenta le dimensioni richieste dal D.M. Infrastrutture e Trasporti 05.11.2001 n. 6792 che impone quanto meno come larghezza di una corsia mt. 3,50.
La tesi del ricorrente non può essere condivisa.
La qualificazione della strada come extraurbana è stata effettuata sulla base dell’art. 2 del Codice della Strada, che distingue le strade all’interno dei centri abitati e le strade che si sviluppano fuori da questi. Tra questi vengono distinte le autostrade, le strade secondarie urbane ed extraurbane secondarie (lett. C), cioè quelle “ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e banchine”.
La classificazione che viene effettuata in base al Codice la strada fa riferimento non tanto alle dimensioni, ma alla ubicazione della strada (urbana ed extra urbana, se all’interno del centro abitato o all’esterno), alla effettiva destinazione e alla conformazione: tra le strade extra urbane, in quanto esterne al centro abitato, si distinguono quelle principali (che devono avere uno spartitraffico centrale di separazione dei flussi di circolazione), da quelle secondarie, per le quali la disposizione si limita a richiedere una unica carreggiata, con una corsia per senso e le banchine, senza tuttavia porre delle precise dimensioni.
Al contrario il DM citato 6792/2004 attiene solo alle modalità di costruzione di nuove strade, mentre per l’attività di classificazione delle strade già esistenti i criteri sono contenuti nel Codice della strada.

La strada in esame è fuori dal centro abitato, e quindi correttamente classificata come extraurbana, dotata di due corsie, priva di uno spartitraffico centrale, ma le banchine sono esistenti, essendovi su entrambi i lati uno spazio tra la linea di margine e il ciglio erboso.
Pertanto, essendo corretta la qualificazione della strada come extraurbana secondaria, non può essere censurata la scelta dell’Amministrazione di posizionare il sistema di controllo di velocità anche su detto tratto di strada.

EDILIZIA PRIVATA: FALSO IDEOLOGICO IN ATTO PUBBLICO E SUA CONFIGURABILITÀ SE LA VERIFICA DI CONFORMITÀ IMPLICA ESERCIZIO DI DISCREZIONALITÀ TECNICA.
In tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto.
Diversamente, se l’atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicché l’atto può risultare falso se il suddetto giudizio di conformità non è rispondente ai parametri cui esso è esplicitamente o implicitamente vincolato.

La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione della configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico da parte del pubblico ufficiale nel caso in cui questi sia chiamato ad effettuare una verifica di conformità tra una situazione di fatto e parametri ben determinati dalla legge.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado avente ad oggetto la realizzazione di opere edilizie in assenza di titoli abilitativi idonei presso un immobile -già oggetto di pratiche di condono, non ancora definite, per ampliamenti e modifiche della destinazione d’uso- ed adibito ad albergo-ristorante, in zona sottoposta a vincolo paesistico e dichiarata di notevole interesse pubblico.
Per quanto qui di interesse, nel presentare ricorso per Cassazione, il pubblico ufficiale sosteneva di essersi limitato a riportare l’attestazione del privato a corredo della sua istanza amministrativa, senza realizzare dunque una falsa attestazione, ma solo una errata argomentazione, che come tale ha dato luogo ad una falsa conclusione; in tal senso, inesistente doveva ritenersi il dolo, avendo egli operato un controllo sugli atti, senza sopralluogo, sulla base delle sole dichiarazioni del proponente la domanda di permesso.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha rigettato il ricorso, osservando come del tutto coerentemente i Giudici di merito avevano ritenuto che negli atti amministrativi richiamati nei rispettivi temi d’accusa i ricorrenti avevano falsamente attestato il fatto che i lavori erano da ritenersi variazioni non essenziali (quando la richiesta variazione prevedeva una modifica della struttura di uno dei solai di copertura con materiale diverso), ovvero che potevano realizzarsi senza il nulla osta della Soprintendenza ed erano conformi alla normativa vigente, così determinando il rilascio del permesso a costruire con l’omessa indicazione del dato di oggettiva rilevanza che l’immobile ricadeva in zona vincolata.
L’oggetto della immutatio veri, infatti, è stato da essi individuato nell’attestazione di una situazione diversa da quella reale, attraverso l’omessa indicazione della reale consistenza delle opere richieste, della loro incidenza sulla realtà territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto, a fronte di una disciplina urbanistica, nazionale e locale, le cui previsioni non consentivano la possibilità di esprimere giudizi, ma stabilivano, per contro, il ricorso a criteri di valutazione vincolati ad un tipo di verifica guidata da specifiche competenze e propriamente ricadenti, in quanto tali, nell’area della c.d. discrezionalità tecnica (in precedenza, nel senso della configurabilità del delitto di falso ideologico in atto pubblico: Cass., Sez. II, 11.01.2013, n. 1417, in CED, n. 254305; Id., Sez. V, 17.12.1999, n. 14283, in CED, n. 216123) (Corte di Cassazione, Sez. fer. penale, sentenza 02.10.2015 n. 39843 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
3. Muovendo dalle implicazioni di tale quadro ricostruttivo, dunque, del tutto coerentemente i Giudici di merito hanno ritenuto che negli atti amministrativi richiamati nei rispettivi temi d'accusa i ricorrenti (Di Na. e Ve.) hanno falsamente attestato il fatto che i lavori dalla Un. richiesti erano da ritenersi variazioni non essenziali (quando la richiesta variazione prevedeva una modifica della struttura di uno dei solai di copertura con materiale diverso), ovvero che potevano realizzarsi senza il nulla osta della Soprintendenza ed erano conformi alla normativa vigente, così determinando il rilascio del permesso a costruire con l'omessa indicazione del dato di oggettiva rilevanza che l'immobile ricadeva nella zona vincolata del su menzionato Parco regionale.
L'oggetto della immutatío veri, infatti, è stato da essi individuato nell'attestazione di una situazione diversa da quella reale, attraverso l'omessa indicazione della reale consistenza delle opere richieste, della loro incidenza sulla realtà territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto, a fronte di una disciplina urbanistica, nazionale e locale, le cui previsioni non consentono la possibilità di esprimere giudizi, ma stabiliscono, per contro, il ricorso a criteri di valutazione vincolati ad un tipo di verifica guidata da specifiche competenze e propriamente ricadenti, in quanto tali, nell'area della cd. discrezionalità tecnica.
Sulla stregua delle rappresentate emergenze probatorie, pertanto, deve ritenersi che l'impugnata pronuncia abbia fatto buon governo del quadro di principi che regolano la materia in esame, avendo questa Suprema Corte ormai da tempo affermato il principio secondo cui (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 11/01/2013, Rv. 254305; Sez. 5, n. 14283 del 17/11/1999, dep. 17/12/1999, Rv. 216123)
in tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicché l'atto può risultare falso se il suddetto giudizio di conformità, come avvenuto nel caso in esame, non è rispondente ai parametri cui esso è esplicitamente o implicitamente vincolato.
V'è ancora da osservare, al riguardo, che
la fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.Lgs. n. 42/2004, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 48478 del 24/11/2011, dep. 28/12/2011, Rv. 251635), è punita a titolo di dolo generico, con la conseguenza, quanto alla coscienza dell'antigiuridicità dell'azione, che presupposto della responsabilità penale è la conoscibilità, da parte del soggetto agente, dell'effettivo contenuto precettivo della norma e che, secondo la sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale (in relazione alla previsione dell'art. 5 cod. pen.), va considerata quale limite alla responsabilità personale soltanto l'oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto (cd. ignoranza inevitabile, e quindi scusabile, della legge penale).
Nella fattispecie in esame, come osservato dai Giudici di merito, non v'era alcun dubbio che la zona ricadesse nei vincoli posti dalle su indicate disposizioni normative e la ricorrente Ungaro, dunque, aveva il dovere di informarsi preventivamente (anche) circa l'eventuale assoggettamento a vincoli dell'area sulla quale andava a costruire.
Al riguardo, peraltro, si è in questa Sede precisato che una eventuale rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma primo e non certo quello di cui al su citato comma 1-bis, dell'art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Sez. 3, n. 33542 del 19/06/2012, dep. 31/08/2012, Rv. 253139).

EDILIZIA PRIVATA: IN PRESENZA DI UNA RISTRUTTURAZIONE IMPLICANTE MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO È NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
In tema di competenza concorrente Stato-Regioni in materia di governo del territorio, per costante giurisprudenza della Corte costituzionale, rientrano nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi, le disposizioni che definiscono le categorie di interventi -perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi-, con riguardo al procedimento e agli oneri nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali, sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato e non alle Regioni.
Ne consegue che la potestà legislativa della Regione, nella materia di legislazione concorrente (quella relativa al governo del territorio), non può incidere su principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato (art. 117, comma 3, Cost.), non potendosi pertanto fondare la legittimità di un intervento edilizio su una potestà legislativa regionale intervenuta su una normativa di “principio” riservata alla legislazione statale.

La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione del rapporto intercorrente tra la potestà legislativa dello Stato e quella spettante alle Regioni in materia di governo del territorio.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il Tribunale, rigettando la richiesta di riesame, aveva confermato il sequestro preventivo di un fabbricato in relazione ad alcune violazioni edilizie ipotizzate a carico di S.M. (legale rappresentante della società proprietaria dell’immobile), B.E. (direttore dei Lavori) e F.C. (esecutore).
Agli indagati -quanto interessa- era stata contestata la violazione dell’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, per avere posto in essere, nelle rispettive qualità, una attività di “sostituzione edilizia” nell’immobile originariamente destinato a magazzino, mediante completa demolizione e successiva ricostruzione del complesso edilizio con modifica di sagoma e destinazione d’uso, avendo iniziato la realizzazione, mediante iniziale demolizione completa, di 50 appartamenti destinati a civile abitazione e uffici nonché 109 autorimesse, in assenza di permesso di costruire.
Secondo i giudici del riesame, gli indagati avevano realizzato una ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d’uso mediante opere strutturali e totali modificazioni rispetto al preesistente edificio con variazioni tra categorie non omogenee, sicché per tale intervento -definito di ampia portata- occorreva il permesso di costruire e non già la DIA (di cui essi erano in possesso), trattandosi di un organismo del tutto diverso. Hanno inoltre ritenuto privo di rilievo il parere della Commissione Edilizia osservando che esso riguardava solo la fedele ricostruzione della parte demolita, ma nulla dice del cambio di destinazione d’uso.
Contro l’ordinanza proponevano ricorso per cassazione gli indagati, da un lato, analizzando il progetto allegato alla DIA nonché la normativa di riferimento nazionale (art. 3, comma 1, lett. d, d.P.R. n. 380 del 2001) e regionale (art. 79, comma 2, lett. d, L.R. Toscana n. 1 del 2005), ed osservando che la demolizione rappresenta un intervento minoritario rispetto alla consistenza dell’edificio, e quindi non sarebbe propedeutica ad una demolizione totale e quindi ancora una volta soggetta a DIA: a tale problematica il Tribunale -secondo i ricorrenti- non aveva fatto alcun riferimento benché sollevata nel corso delle discussione; dall’altro, gli indagati osservavano che il cambio di destinazione d’uso su cui si è soffermato il Tribunale doveva invece ritenersi conforme agli strumenti urbanistici, a tal proposito riportando il contenuto dell’art. 10, d.P.R. n. 380 del 2001, e, quanto alla potestà regionale in materia prevista dall’ultimo comma di tale disposizione, richiamando gli artt. 77 e 78, L.R. Toscana n. 1 del 2005, per concludere che gli interventi di ristrutturazione implicanti modifica della destinazione d’uso non richiedono il rilascio del permesso di costruire (a tal fine invocavano anche il contenuto degli artt. 7 e 8 norme tecniche attuazione Piano regolatore che qualificano tra gli interventi di ristrutturazione anche quelli finalizzati al mutamento di destinazione d’uso).
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come la questione di diritto riguarda evidentemente la competenza concorrente in materia di governo del territorio. Orbene, puntualizzano i Supremi Giudici, per costante giurisprudenza della Corte costituzionale, rientrano nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi (sent. Corte cost. n. 259/2014, punto 3.1 del considerato in diritto; sent. n. 303 del 2003, punto 11.2): a fortiori "sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali” (così la sent. n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013).
Più specificamente, la sentenza della Corte cost. n. 309 del 2011, occupandosi di una legge della Regione Lombardia, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale proprio in quanto definiva come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, in contrasto con il principio fondamentale stabilito (“allora”) dall’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001.
Da quanto esposto, discende, secondo la Cassazione, che la potestà legislativa della Regione Toscana, nella materia di legislazione concorrente (quella relativa appunto al governo del territorio), non poteva incidere su principi fondamentali, come quello di cui oggi si discute, riservati alla legislazione dello Stato (art. 117, comma 3, Cost.) e quindi errano i ricorrenti nel fondare la legittimità dell’intervento su una potestà legislativa regionale intervenuta su una normativa di “principio” riservata alla legislazione statale.
E, nel caso di specie, era assolutamente pacifico che l’immobile si trovasse in “zona A” (Centro Storico fuori le mura) e che vi fosse stato un mutamento di destinazione d’uso (da commerciale a residenziale), essendo quindi ciò sufficiente per ritenere necessario il previo rilascio del titolo abilitativo.
Peraltro, e conclusivamente, aggiunge la Cassazione, la L.R. Toscana, invocata dagli indagati, risulta di recente abrogata dall’art. 254, L.R. 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio) che ha disciplinato nuovamente le trasformazioni urbanistiche ed edilizie soggette a permesso di costruire (art. 134), le opere ed interventi soggetti a SCIA (art. 135) e l’attività edilizia libera (art. 136), prevedendo, in particolare, il permesso di costruire anche per gli interventi di ristrutturazione edilizia ricostruttiva (v. art. 134, comma 1, lett. h, n. 2).
Si rivelava, pertanto, a maggior ragione corretta l’ordinanza laddove aveva ritenuto necessario, in presenza di una ristrutturazione implicante mutamento della destinazione d’uso, il permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.09.2015 n. 39374 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA: PER L’ULTIMAZIONE EFFETTIVA DEI LAVORI INTERNI NECESSARIA LA PROVA DELLA CONCLUSIONE DEGLI INTERVENTI DI RIFINITURA.
L’ultimazione coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi; ne consegue che, al fine della corretta individuazione del termine di prescrizione del reato, nel caso in cui l’immobile sia privo di infissi, impianti elettrici e imbiancatura, spetta all’imputato l’onere di dimostrare di avere non solo sospeso l’attività edilizia, ma anche di aver voluto lasciare volutamente l’opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della questione relativa all’individuazione del dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione del reato edilizio.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza con cui il tribunale condannava G.G. per il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che la Corte d’Appello non aveva motivato sulla richiesta di proscioglimento per prescrizione; secondo l’imputato, non rileverebbe lo stato degli interni al manufatto; in ogni caso, la permanenza del reato urbanistico, concludeva l’imputato, cessa anche nel momento di sospensione volontaria dei lavori, sicché il reato sarebbe comunque estinto per prescrizione in quanto i lavori erano cessati nell’arco temporale 2000/2003.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare osservando, quanto all’ultimazione delle opere, che era rimasto insoddisfatto il requisito della ultimazione effettiva dei lavori interni, non essendovi prova della conclusione degli interventi di rifinitura. Ed invero, la Corte di cassazione ha più volte affermato che l’ultimazione coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Cass., Sez. III, 03.11.2011, n. 39733, V., in CED Cass., n. 251424, fattispecie in tema di prescrizione del reato di cui all’art. 44, d.P.R. 06.06.2001, n. 380; in senso conforme, Cass., Sez. III, 20.11.2014, n. 48002, S., in CED, n. 261153, riguardante fattispecie relativa ad immobile privo di infissi, impianti elettrici e imbiancatura, nella quale la Corte ha specificato che spetta al ricorrente l’onere di dimostrare di avere non solo sospeso l’attività edilizia, ma anche di aver voluto lasciare volutamente l’opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta).
Errato, infine, per gli Ermellini, è il richiamo da parte dell’imputato alla previsione normativa dell’art. 31, L. n. 47 del 1985. Ed infatti, la Cassazione ha già da tempo chiarito che la cessazione della permanenza del reato di costruzione abusiva va individuato nel momento della ultimazione dell’opera, ivi comprese le rifiniture esterne ed interne, atteso che la particolare nozione di ultimazione, contenuta nell’art. 31, L. 28.02.1985, n. 47 e che anticipa tale momento a quello della ultimazione della struttura, è funzionale ed applicabile solo in materia di condono edilizio e non anche per stabilire in via generale il momento consumativo del reato di costruzione in difetto di concessione, ora permesso di costruire (Cass., Sez. III, 5 agosto 2003, n. 33013, S. ed altro, in CED, n. 225553) Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2015 n. 38792 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
4. Sulla questione dedotta, la Corte territoriale motiva sul dies a quo con argomentazioni immuni da vizi logico-giuridici e coerenti con i dati processualmente acquisiti; quanto, in particolare, all'ultimazione delle opere, era rimasto insoddisfatto il requisito della ultimazione effettiva dei lavori interni, non essendovi prova della conclusione degli interventi di rifinitura.
Ed invero, questa Corte ha più volte affermato che
l'ultimazione coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011 - dep. 03/11/2011, Ventura, Rv. 251424, fattispecie in tema di prescrizione del reato di cui all'art. 44, d.P.R. 06.06.2001, n. 380; in senso conforme, Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014 - dep. 20/11/2014, Surano, Rv. 261153, riguardante fattispecie relativa ad immobile privo di infissi, impianti elettrici e imbiancatura, nella quale la Corte ha specificato che spetta al ricorrente l'onere di dimostrare di avere non solo sospeso l'attività edilizia, ma anche di aver voluto lasciare volutamente l'opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta: Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014 - dep. 20/11/2014, Surano, Rv. 261153).
5. Errato, infine, è il richiamo da parte del ricorrente alla previsione normativa dell'art. 31, legge n. 47 del 1985. Ed infatti, questa Corte ha già da tempo chiarito che
la cessazione della permanenza del reato di costruzione abusiva va individuato nel momento della ultimazione dell'opera, ivi comprese le rifiniture esterne ed interne, atteso che la particolare nozione di ultimazione, contenuta nell'art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, e che anticipa tale momento a quello della ultimazione della struttura, è funzionale ed applicabile solo in materia di condono edilizio e non anche per stabilire in via generale il momento consumativo del reato di costruzione in difetto di concessione, ora permesso di costruire (Sez. 3, n. 33013 del 03/06/2003 - dep. 05/08/2003, Sorrentino ed altro, Rv. 225553).

EDILIZIA PRIVATA: IL P.D.C. IN SANATORIA NON PUÒ AVERE EFFETTI TEMPORANEI O RIGUARDARE PARTE DEGLI INTERVENTI O ESSERE SUBORDINATO ALL’ESECUZIONE DI OPERE
È illegittimo -né determina l’estinzione del reato edilizio ai sensi del combinato disposto dagli artt. 36 e 45, d.P.R. 06.06.2001, n. 380,- il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati od ancora, subordinato all’esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su una non infrequente questione giuridica, relativa alla possibilità di ritenere legittimo il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato a termine o a condizione ovvero limitato solo a parte degli abusi edilizi realizzati.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di appello ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale per il reato di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, 44, lett. b), per aver l’imputato, quale direttore dei lavori, ed in concorso con i committenti e il titolare della ditta esecutrice dei lavori stessi, in totale difformità dalla dichiarazione di inizio attività e da quella in variante, ed in assenza di permesso di costruire, la modifica della destinazione d’uso del sottotetto, reso abitabile con opere murarie e l’installazione di impianti e la modifica della copertura.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che, a fronte di una prima dichiarazione di inizio attività, che prevedeva la realizzazione della copertura a due falde, ne era stata presentata un’altra che contemplava proprio la modifica della copertura a una falda, conformemente al progetto allegato alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, in particolare osservando come non fosse contestato, in fatto, che l’originaria dichiarazione di inizio attività prevedesse la realizzazione di una modifica del sottotetto con realizzazione di un ambiente non abitabile destinato alla collocazione di vasche, mentre era stato realizzato un appartamento di tre vani, completamente rifinito e munito di locale cucina e bagno. La Corte d’Appello aveva affermato che il permesso di costruire in sanatoria era stato subordinato alla demolizione delle opere abusivamente realizzate e ne aveva correttamente tratto la conclusione in ordine all’inefficacia estintiva del reato urbanistico.
I Supremi Giudici ribadiscono l’illegittimità di un siffatto permesso di costruire in sanatoria (v., tra le tante: Cass., Sez. III, 27.04.2011, n. 19587, M., in CED, n. 250477; Id., Sez. III, 26.11.2003, n. 291, F., in CED, n. 226871; cfr., altresì, Cass., Sez. III, 15.01.2015, n. 7405, B., in CED, n. 262422, secondo cui la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all’art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001, può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall’art. 36, d.P.R. cit. e, precisamente, la conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica), così facendo applicazione di una giurisprudenza sul punto da ritenersi ormai diritto vivente (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2015 n. 38547 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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2. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi non consentiti dalle legge, generico e totalmente infondato.
3. Non è contestato, in fatto, che l'originaria dichiarazione di inizio attività prevedesse la realizzazione di una modifica del sottotetto con realizzazione di un ambiente non abitabile destinato alla collocazione di vasche, mentre fu realizzato un appartamento di tre vani, completamente rifinito e munito di locale cucina e bagno.
3.1. La Corte di appello ha affermato che il permesso di costruire in sanatoria era stato subordinato alla demolizione delle opere abusivamente realizzate e ne ha correttamente tratto la conclusione in ordine all'inefficacia estintiva del reato urbanistico.
3.2. Questa Suprema Corte ha più volte affermato (ed il principio deve essere ribadito) che
è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati od ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini, Rv. 250477; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003, Fannmiano, Rv. 226871; cfr., altresì, Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422, secondo cui la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica).
3.3. L'eccezione secondo la quale «l'interpretazione-applicazione degli artt. 36 e 44 del DPR 380/2001 che fa la corte territoriale nel condannare l'Arch. Sc. non corrisponde nella realtà, ed alla conseguente ricostruzione dei fatti di causa» è volta a scardinare in fatto la corretta applicazione del principio di diritto affermato dalla Corte di appello ed è perciò inammissibile in questa sede.
3.4. E' in ogni caso totalmente infondata, sotto vari profili, la deduzione secondo la quale la presentazione della dichiarazione di variante in sanatoria prova la non intenzionalità dell'abuso:
   a) per un primo profilo perché l'abuso non riguarda la sola modifica della copertura (oggetto della D.I.A. in variante), ma la trasformazione del sottotetto in appartamento abitabile;
   b) per un secondo profilo perché la sussistenza dell'elemento psicologico va valutata al momento della realizzazione dell'abuso edilizio che la presentazione della D.I.A. in variante presuppone già consumato;
   c) per un terzo profilo perché
il reato per il quale si procede ha natura contravvenzionale, sicché di esso l'autore risponde anche a titolo di colpa;
   d) per un ultimo profilo perché
il direttore dei lavori è per legge responsabile della conformità delle opere al titolo edilizio (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001) e, in caso di DIA, anche alla conformità dell'opera agli strumenti urbanistici ed edilizi vigenti (art. 22, d.P.R. n. 380 del 2001).

EDILIZIA PRIVATA: QUANDO SONO QUALIFICABILI COME RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA E NON COME  SEMPLICI INTERVENTI DI MANUTENZIONE LE OPERE INTERNE?
Ancorché senza aumento volumetrico, appartengono al novero delle ristrutturazioni (e non delle semplici manutenzioni) le opere anche solamente interne che alterano, anche sotto il semplice profilo della diversa distribuzione dei vani, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi; ed invero queste ultime, per costante giurisprudenza anche amministrativa, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano a pieno titolo nell’ambito della ristrutturazione edilizia.
Ne consegue che perché sia ravvisabile un intervento del genere, è sufficiente che siano modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell’edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente.

La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in esame, sul tema della rilevanza penale delle cc.dd. opere interne, categoria giuridica prevista nella previgente disciplina normativa (art. 26, L. n. 47 del 1985), non più riproposta nell’attuale regime giuridico dettato dal d.P.R. n. 380 del 2001.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello, parzialmente riformando la sentenza di primo grado, aveva condannato agli effetti civili gli imputati per il reato p. e p. dell’art. 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e art. 81 cpv. per avere, S.C. in qualità di committente delle opere da realizzare in zona sottoposta a vincolo e C.G. in qualità di direttore dei lavori di ristrutturazione interna, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, iniziato, continuato ed eseguito, in assenza del permesso di costruire, le seguenti opere: realizzazione dei lavori di ristrutturazione interna dell’immobile prima indicato, lavori descritti nella DIA e nella successiva variante, opere illecite in quanto poste in essere su immobile abusivo oggetto di procedura di condono non ancora definita.
Contro la sentenza proponevano ricordo per cassazione i due imputati, in particolare dolendosi del fatto che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente inquadrato i lavori come ristrutturazione edilizia e non già interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione, come invece correttamente sostenuto nella perizia tecnica di ufficio e nella relazione tecnica del consulente di parte.
Ed invero, i giudici di appello -pur dando atto che gli interventi in esame erano stati giustificati dalla necessità di una diversa distribuzione degli spazi interni al fine di adeguare gli impianti igienici alle regole comunitarie e pur dando atto del fatto che non fosse stata interessata la struttura portante del fabbricato e che il volume e le superfici dello stesso fossero rimaste immutate- pervenivano di poi, in maniera che si assumeva essere del tutto illogica e contraddittoria, alla conclusione che si rientrasse nel novero dei lavori di ristrutturazione edilizia, avendo comunque le aperture sui muri di tompagno (divisorie) modificato i prospetti, alterando la sagoma.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, in particolare osservando come proprio dalla lettura della DIA si acquisiva la certezza che si versi in ipotesi di ristrutturazione non di manutenzione, essendo stati gli interventi giustificati dalla necessità di una diversa distribuzione degli spazi interni al fine di adeguare gli impianti igienici alle regole comunitarie, a nulla rilevando il fatto che non fosse stata interessata la struttura portante del fabbricato e che il volume e le superfici dello stesso fossero rimaste immutate. La modifica delle aperture sui muri di tompagno, invero, aveva comunque modificato i prospetti, alterando la sagoma.
E sul punto non va dimenticato che la stessa Corte di legittimità ha precisato che l’esecuzione di interventi comportanti la modifica dei prospetti non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie “minori” e come tale richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire (Cass., Sez. III, 21.05.2013, n. 38338, C., in CED, n. 256381, fattispecie in cui è stato ritenuto integrato il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44; conf. Cass., Sez. III, 07.11.2013, n. 48478, C., in CED, n. 258352) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2015 n. 38139 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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7. Chiave di volta della decisione è, infatti, la qualità dei lavori eseguiti sull'immobile del Sa. con la direzione dei lavori dell'ing. Ca.: se lavori di manutenzione per lo più ordinaria e solo in parte straordinaria ovvero se lavori di ristrutturazione interna, come si legge nell'imputazione.
La conclusione del giudice di prime cure, a cui dire le opere edilizie de quibus, in quanto assentibili con semplice DIA e da qualificare di manutenzione straordinaria, piuttosto che di ristrutturazione interna, come nel capo, non costituirebbero illecito penale, ma solo amministrativo, sanzionabile a mente dell'art. 37 piuttosto che dell'art. 44 del D.P.R. 380/2001 non può essere condivisa secondo la Corte territoriale in quanto non considera né la tipologia di intervento praticato, né il fatto che il principio invocato è valido esclusivamente in caso di loro conformità agli strumenti urbanistici vigenti nel comune di San Giorgio a Cremano.
Così si evince, fuori da ogni dubbio, secondo i giudici del gravame del merito, dalla piana lettura dell'art. 22 del precitato testo normativo il cui I comma recita testualmente "Sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente", risulta integrata la fattispecie penalmente sanzionata.
In primo luogo, secondo quanto si legge nella motivazione del provvedimento impugnato,
vanno qualificati gli interventi edilizi in parola, atteso che, ancorché senza aumento volumetrico, appartengono al novero delle ristrutturazioni (e non delle semplici manutenzioni) le opere anche solamente interne che alterano, anche sotto il semplice profilo della diversa distribuzione dei vani, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi.
Corretta è l'affermazione secondo cui queste ultime, per costante giurisprudenza anche amministrativa, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano -a pieno titolo e come da contestazione- nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
Perché sia ravvisabile un intervento del genere, è sufficiente che siano modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente.
Ebbene, proprio dalla lettura della DIA -rileva la Corte territoriale- si acquisisce la certezza che si versi in tale ipotesi, essendo stati gli interventi giustificati dalla necessità di una diversa distribuzione degli spazi interni alfine di adeguare gli impianti igienici alle regole comunitarie, a nulla rilevando il fatto che non sia stata interessata la struttura portante del fabbricato e che il volume e le superfici dello stesso siano rimaste immutate.
La modifica delle aperture sui muri di tompagno, invero, viene ricordato nella sentenza impugnata, ha comunque modificato i prospetti, alterando la sagoma. E sul punto non va dimenticato che questa Corte di legittimità ha precisato che
l'esecuzione di interventi comportanti la modifica dei prospetti non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire (sez. 3, n. 38338 del 21.05.2013, Cataldo, rv. 256381, fattispecie in cui è stato ritenuto integrato il reato dì cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001; conf. sez. 3, n. 48478 del 07.11.2013, Cottone, rv. 258352).
Questa Corte di legittimità ha anche precisato che,
in tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art. 17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3 del citato d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso (sez. 3, n. 3953 del 16.10.2014 dep. il 28.01.2015, Statuto, rv. 262018, fattispecie relativa a trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale).
8. Né giova, secondo il condivisibile opinare dei giudici di appello, il riferimento alla conservazione del procedimento amministrativo per le cosiddette
opere interne di cui al previgente art. 26 L. 47/1985 le quali non sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380 come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti di talché esse rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti -com'è nel caso di specie- e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (corretto è il richiamo al dictum di questa Corte Suprema di cui a sez. 3 n. 47438 del 24/11/2011 , Truppi, rv. 251637; vedasi anche in senso conf. sez. 3, n. 27713 del 20.05.2010, Olivieri ed altro, rv. 247919; sez. 3, n. 35177 del 12.07.2001 dep. 21.10.2002, Cinquegrani, rv. 222740).
Come ricorda in sentenza la Corte napoletana
deve escludersi che, entrato in vigore il D.P.R. 06.06.2001 n. 380, gli interventi de quibus, di ristrutturazione edilizia, siano senz'altro eseguibili in forza di dichiarazione di inizio di attività, in conformità all'art. 22, comma 3, lett. a), D.P.R. n. 380, cit., pure ottenuta. Tale disposizione, infatti, realizza solo una semplificazione procedurale nel senso che gli interventi di cui trattasi sono eseguibili a mezzo di DIA, purché conformi alle disposizioni dello strumento urbanistico generale, come dimostra la circostanza che essa dev'essere accompagnata da asseverazione circa la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e la loro non contrarietà con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti.
I giudici del gravame del merito rilevano, invece, che la prova documentale e testimoniale agli atti -al contrario- ha comprovato che:
• tra gli strumenti urbanistici vigenti nel comune di San Giorgio a Cremano, al tempo, vi fosse la Delibera di Giunta Municipale n. 979 del 17.11.1998 intitolata "Autorizzazioni Edilizie" che al punto 5 recita testualmente: "non possono essere consentiti gli interventi di cui al punto 2 (manutenzione straordinaria) nel caso in cui le opere di cui si chiede l'esecuzione determinino modifiche di parti dell'edificio abusivamente realizzate anche se oggetto di richiesta di condono edilizio ai sensi della legge 47/1985 e/o della legge 724/1994 non ancora definita ovvero per le quali è stato disposto il diniego; la preclusione in questione riguarda, in via esclusiva, le parti dell'edificio abusivamente realizzate con l'esclusione delle altre parti del medesimo edificio ed inoltre i suoli di pertinenza delle costruzioni interamente illegittime (non sanate ovvero con atto di diniego della sanatoria). Su tali parti abusivamente realizzate potranno essere ammessi solo interventi atti ad eliminare stati di pericolo ed a ripristinare, conseguentemente, la situazione preesistente";
• la dimostrazione della vigenza dello strumento urbanistico in esame è stata offerta tramite le dichiarazioni del dirigente del Settore Gestione del Territorio del comune di San Giorgio a Cremano ing. Ca.In. rese al consulente del P.M. e da quest'ultimo allegate sub 4) al suo elaborato, senza che alcuna ipotesi ricostruttiva alternativa sul punto sia stata offerta dalla difesa.
La Corte territoriale confuta i dubbi difensivi circa il carattere precettivo della delibera di giunta (per la quale indica la natura di atto interno) e finanche di quello provvedimentale, come induce a ritenere l'inciso che ivi si legge che non si tratta di atto a natura provvedimentale, evidenziando che, a tacere d'altro si tratta di riedizione dei principi normativi, su cui anche oltre, per i quali in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente.
Del resto, come chiarito dall'ing. In. -si legge ancora nella motivazione del provvedimento impugnato- analoga previsione si mutua dal P.R.G. ("D'Altra parte il P.R.G. già adottato dal C.C. di S. Giorgio con delibera n. 95197 e quindi precedente alla del. 979198, così come specificato nella tav. i Relazione Generale nulla differenzia nelle tipologie di intervento ammesse circa le opere oggetto di concessione in sanatoria").
9. La Corte territoriale analizza in maniera approfondita e corretta i risvolti normativi che giustificavano la necessità del permesso di costruire per l'opera realizzata.
E fa buon governo della giurisprudenza di questa Corte di cui alla richiamata sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010:
gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche se soggetti a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non possono essere eseguiti su immobili originariamente abusivi (sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010, Perna, rv. 246217, relativa ad un caso di un intervento di demolizione e ricostruzione, eseguito in base a D.I.A., di un preesistente manufatto abusivamente realizzato).
Nella stessa sentenza 8739/2014 si precisa, peraltro, che
gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata disposizione, necessitano del preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (in motivazione la Corte ha precisato che solo per gli interventi di restauro e risanamento conservativo e per quelli di manutenzione straordinaria non comportanti alterazione dello stato dei luoghi o dell'aspetto esteriore degli edifici, la D.I.A. non deve essere preceduta dall'autorizzazione paesaggistica).

EDILIZIA PRIVATA: VALUTABILE L’ADEMPIMENTO DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE AL FINE DI OTTENERE LA RIABILITAZIONE DA PARTE DEL CONDANNATO PER REATI EDILIZI.
Mentre deve escludersi che l’inosservanza dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo possa costituire in sé un elemento ostativo alla concessione della riabilitazione, l’adempimento dell’ordine può farsi rientrare, per analogia, nell’obbligo di adoperarsi in favore della vittima del reato, da individuarsi nell’ente pubblico territoriale, titolare dell’interesse al corretto svolgimento dell’attività edificatoria.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da parte dei giudici di legittimità con la sentenza in commento, in cui viene ad essere affrontato il tema della possibile incidenza che l’adempimento, da parte del condannato per un reato edilizio, dell’ordine di demolizione possa avere sulla eventuale istanza di riabilitazione proposta.
La vicenda processuale traeva origine dall’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato l’istanza avanzata da B.M.S., tesa a ottenere la riabilitazione in relazione alla sentenza di condanna alla pena dell’ammenda di euro millecinquecento, emessa dal Tribunale per il reato di cui all’art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001. Il Tribunale rilevava, a ragione della decisione, la insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della richiesta, poiché era emerso dalla svolta istruttoria che l’istante non aveva assolto l’obbligo di demolizione del manufatto, come statuito in sentenza.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione il condannato, in particolare sostenendo che il Tribunale si era limitato a fare generico e apodittico riferimento alla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, senza alcun argomento in ordine alla concreta incidenza di tale aspetto nell’accertamento della prova della buona condotta in relazione alla chiesta riabilitazione. Né il Tribunale aveva tenuto conto della dimostrata regolarità amministrativa del manufatto, acquisita in corso di istruttoria, e delle documentate attività amministrative svolte, che rappresentavano attività del reo volte alla eliminazione, per quanto possibile, delle conseguenze di ordine civile del reato, da valutarsi positivamente ai fini della sussistenza del requisito della buona condotta.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato l’ordinanza, censurandola per aver esaurito la sua motivazione nell’affermazione che l’istante non aveva assolto l’obbligo di demolizione del manufatto, come statuito in sentenza, e nella rappresentazione della esclusa sussistenza per tale ragione dei presupposti per l’accoglimento della richiesta di riabilitazione.
Il Tribunale, limitandosi a evocare detto inadempimento, non aveva, tuttavia, offerto alcuna indicazione, anche soltanto per negarvi rilievo, riguardo al fatto per cui è intervenuta la condanna cui atteneva l’imposto ordine di demolizione dell’opera abusiva, ai destinatari di tale ordine, alla sua eseguibilità e alle ragioni della incorsa inottemperanza, alla stessa concreta consistenza negativa del profilo valutativo individuato e al suo carattere sintomatico di irregolare o illegale comportamento del condannato riabilitando dopo il reato, nel contesto delle valutazioni riguardanti la buona condotta e la sopravvenuta emenda della stessa, funzionali all’accoglimento della sua domanda (v., in precedenza, sulla valutazione da compiersi in tema di istanza di riabilitazione: Cass., Sez. I, 28.05.1996, n. 1274, P., in CED, n. 204698; Id., Sez. I, 11.01.2013, n. 1507, C., in CED, n. 254251; Id., Sez. I, 09.10.2014, n. 42066, P.G. in proc. S., in CED, n. 260517) (Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 17.09.2015 n. 37829 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
2. Deve premettersi in diritto che
la riabilitazione è un istituto che ha come risultato la reintegrazione del condannato nella sua capacità giuridica, che si consegue mediante l'estinzione delle pene accessorie e degli altri effetti penali derivanti dalla condanna penale, a norma dell'art. 178 cod. pen..
Atteso detto risultato,
la riabilitazione è possibile, ai sensi del successivo art. 179 cod. pen., se, in presenza degli altri requisiti di legge, il condannato abbia mostrato dì avere tenuto buona condotta con fatti positivi e costanti dì emenda e di ravvedimento, dopo la condanna e fino alla data della decisione sulla istanza presentata (tra le altre, Sez. 1, n. 1274 del 27/02/1996, dep. 28/05/1996, Politi, Rv. 204698; Sez. 1, n. 1507, del 17/12/2012, dep. 11/01/2013, Carnaghì, Rv. 254251; Sez. 1, n. 42066 del 04/04/2014, dep. 09/10/2014, P.G. in proc. Secondo, Rv. 260517), dovendo la valutazione del comportamento tenuto dall'interessato essere attuata globalmente e non essere limitata al periodo minimo fissato dalla legge.
2.1. Questa Corte ha più volte rimarcato che,
ai fini del conseguimento della riabilitazione, l'attivarsi del condannato al fine della eliminazione, per quanto possibile, delle conseguenze di ordine civile derivanti dalla condotta criminosa ha valore dimostrativo di emenda dello stesso (tra le altre, Sez. 1, n. 9755 del 27/01/2005, dep. 11/03/2005, Fortuna, Rv. 231589; Sez. 1, n. 16026 del 12/04/2006, dep. 10/05/2006, P.G. in proc. Luodiyi, Rv. 234135; Sez. 1, n. 7752 del 16/11/2011, dep. 28/02/2012, Liberatore, Rv. 252412), e che è a carico del medesimo l'onere di dimostrare, in funzione di detto valore, di avere fatto quanto in suo potere per adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato ovvero di dimostrare l'impossibilità di adempiervi (tra le altre, Sez. 1, n. 6704 del 02/12/2005, dep. 22/02/2006, Pettenati, Rv. 233406; Sez. 1, n. 4089 del 07/01/2010, dep. 01/02/2010, De Stasi, Rv. 246052; Sez. 1, n. 35630 del 04/05/2012, dep. 18/09/2012, Critti, Rv. 253182; Sez. 1, n. 4004 del 09/01/2014, dep. 29/01/2014, P.G. in proc. Pollero, Rv. 259141).
2.2.
Tale impossibilità di adempimento ricomprende, in particolare, tutte le situazioni non addebitabili al condannato, istante per la riabilitazione, che gli impediscano l'esatta osservanza dell'obbligo cui è tenuto per conseguirla, non potendosi frapporre ingiustificato ostacolo al suo reinserimento sociale, qualora abbia fornito prova, con la buona condotta tenuta, di esserne meritevole (tra le altre, Sez. 3, n. 685 del 11/02/2000, dep. 31/03/2000, Fortin, Rv. 216156; Sez. 1, n. 4429 del 16/06/2000, dep. 16/10/2000, P.G. in proc. Grigolin, Rv. 217240).
Pertanto,
in tema di riabilitazione, atteso che l'impossibilità di adempiere le dette obbligazioni non costituisce ostacolo alla concessione della causa estintiva in presenza di situazioni dì fatto che impediscano l'adempimento, il giudice, nel rigettare l'istanza, deve indicare in che modo il reato abbia determinato l'insorgenza di obbligazioni civili, e se siano state individuate o siano comunque individuabili e non siano irreperibili persone danneggiate dalla condotta sanzionata penalmente (Sez. 1, n. 5707 del 18/12/2012, dep. 05/02/2013, Piccinini, Rv. 254806).
2.3. Un tale percorso logico deve presiedere anche la verifica da compiersi quando, come nella specie, l'adempimento, in funzione dimostrativa di emenda, sia correlato più specificamente all'ordine di demolizione della costruzione abusiva, impartito al condannato con la sentenza dì condanna definitiva per il reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001.
L'indicato ordine ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 è emesso dal giudice penale quale provvedimento accessorio alla condanna, sulla base dell'accertamento della persistente offensività dell'opera edilizia abusiva in danno dell'interesse tutelato dalla norma. In tal senso si è espressa la giurisprudenza di questa Corte (Sezioni U, n. 714 del 20/11/1996, dep. 03/02/1997, Luongo, Rv. 206659, e, tra le successive, Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, dep. 16/10/2007, Terminiello, Rv. 237825; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, dep. 01/07/2013 Farina, Rv. 255466; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, dep. 28/01/2014, Russo, Rv. 258517), che ha evidenziato come l'ordine di demolizione, adottabile in concorrenza con l'analogo potere che compete all'autorità amministrativa, non costituisce una pena in senso stretto, ma uno strumento ripristìnatorio, diretto a eliminare le conseguenze dannose del reato, e lo stesso riceve una tutela rinforzata per la previsione, contenuta nella stessa norma, secondo la quale, in caso di mancata ottemperanza entro il termine dì novanta giorni dall'ingiunzione di demolizione, l'area di sedime e le opere su di essa realizzate vengono acquisite a titolo gratuito al patrimonio indisponibile del comune nel cui territorio insistono.
In conseguenza di tale sua natura,
mentre deve escludersi che l'inosservanza dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo possa costituire in sé un elemento ostativo alla concessione della riabilitazione, l'adempimento dell'ordine può farsi rientrare, per analogia, nell'obbligo di adoperarsi in favore della vittima del reato, da individuarsi nell'ente pubblico territoriale, titolare dell'interesse al corretto svolgimento dell'attività edificatoria.

COMPETENZE PROGETTUALI: NON CONSENTITA LA DIREZIONE LAVORI AL GEOMETRA SE GLI INTERVENTI SONO ESEGUITI IN ZONA SISMICA.
Per la realizzazione di interventi edilizi in zona sismica i lavori devono essere diretti da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell’albo “nei limiti delle rispettive competenze”; per quanto concerne il geometra, l’oggetto e i limiti dell’esercizio della professione sono disciplinati dal R.D. 11.02.1929, n. 274, art. 16, che consente a tale figura professionale la progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, che non necessitino di complesse operazioni di calcolo e non presentino implicazioni per la pubblica incolumità.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a tal fine, mentre non è stato ritenuto decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), è rilevante il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa antisismica prevista dal T.U. Edilizia, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.

La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della possibilità di far eseguire i lavori in zona sismica ad un soggetto apparentemente dotato di conoscenze professionali idonee, qual è il geometra.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui il Tribunale assolveva per insussistenza del fatto il proprietario di un immobile dai reati di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 93, 94 e 95 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in particolare, per quanto qui di interesse, per avere realizzato lavori edilizi in zona sottoposta a vincolo sismico, senza che gli stessi fossero diretti da un professionista iscritto all’albo.
In particolare, rilevava, quanto all’omessa nomina dì un professionista quale direttore dei lavori, che dalla consulenza tecnica del P.M. emergeva che l’imputato era assistito dallo studio tecnico C. S.a.s. del geom. C., il quale aveva anche inoltrato, come da missiva in atti, comunicazione al Sindaco del Comune nella qualità di direttore dei lavori; la regolarità di tutta la procedura posta in essere dall’imputato era stata altresì acclarata dal verificatore, ingegner M., nominato dal Tar, il quale non aveva rilevato alcuna violazione di legge in capo al G.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.M., in particolare sostenendone l’erroneità per avere ritenuto che la direzione dei lavori, in caso di opere sismiche, potesse essere affidata ad un geometra. Evidenziava, infatti, che a norma del R.D. 11.02.1929, n. 274, art. 16, lett. m), e secondo quanto anche previsto dalla legislazione antisismica e dal Testo unico dell’edilizia circa le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, esula dalla competenza dei geometri la progettazione e la direzione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l’importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Proprio per tal motivo, nel caso di specie, il Genio Civile aveva rilasciato parere favorevole, allegato alla relazione del consulente del PM, espressamente però subordinandolo alla condizione che “la direzione lavori sia eseguita da tecnico in possesso di laurea magistrale e quinquennale”.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato la sentenza, in particolare osservando come il Tribunale, nel ritenere sufficiente, a escludere nella specie la violazione di tale disposizione, il fatto che risultassero l’affidamento e l’effettivo espletamento dell’incarico di direttore dei lavori da parte del geom. C., non aveva evidentemente tenuto conto del principio indicato (in precedenza, sull’argomento, nella giurisprudenza civilistica: Cass., Sez. II, sent. 07.09.2009, n. 19292, in CED, n. 609967; nel senso che in materia di costruzioni edilizie, i geometri non possono progettare o dirigere costruzioni in cemento armato di tipo civile, neppure di modesta entità, sicché è loro consentito progettare o dirigere costruzioni in cemento armato solo se sono costruzioni accessorie di tipo rurale e che non presentano particolari complessità, v. Cass. pen., Sez. III, 06.11.2000, n. 11287, B., in CED, n. 217802) (
Corte di Cassazione, Sez. Feriale penale, sentenza 12.08.2015 n. 34849 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).
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MASSIMA
5. Il secondo motivo di ricorso è solo parzialmente fondato.
Giova premettere alcune brevi osservazioni sull'oggetto e lo scopo delle disposizioni che si assumono violate (artt. 93 e 94 d.P.R. n. 380/2001) e sulla natura della correlata fattispecie penale (art. 95).
Le norme definiscono forme di controllo di tipo permissivo-preventivo sugli interventi edilizi da eseguirsi in zone sismiche.
L'art. 93 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, impone a chiunque intenda effettuare interventi di costruzione, riparazione e sopraelevazione nelle zone sismiche, comprese quelle a bassa sismicità, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, di effettuare la denuncia dei lavori e il deposito del relativo progetto esecutivo (c.d. «deposito sismico»), presentando un preavviso scritto al c.d. sportello unico edilizio. Questo, a sua volta, provvede ad inoltrarlo al competente ufficio tecnico regionale. La denuncia deve essere accompagnata dal deposito del progetto, in doppio originale, sottoscritto, da un ingegnere, un architetto o un geometra, secondo le rispettive competenze, e dal direttore dei lavori.
Il successivo art. 94 impone inoltre di munirsi di un'autorizzazione regionale preventiva ed espressa per l'inizio dei lavori.
Dopo la presentazione della denuncia dei lavori ai sensi dell'art. 93, l'inizio effettivo degli stessi può dunque aver luogo soltanto dopo il rilascio dell'autorizzazione scritta dell'ufficio tecnico regionale. Questa è rilasciata nel termine di 60 giorni dalla richiesta, ed è comunicata, a cura dell'ufficio tecnico regionale, allo sportello unico edilizia, per i provvedimenti di sua competenza. L'autorizzazione sismica non sostituisce il titolo edilizio abilitativo (sia esso permesso di costruire o SCIA) ma si somma ad esso, consentendo all'avente titolo di iniziare legittimamente i lavori.
Più precisamente
il rilascio del titolo edilizio è condizione per l'ottenimento dell'autorizzazione sismica, mentre questa condiziona l'efficacia del primo, nel senso che fino a quando non è rilasciata non è possibile dare inizio ai lavori, ma non è presupposto di legittimità del permesso di costruire (v. Cons. Stato, sez. V, n. 875 del 08/08/1997). Il mancato rispetto delle prescrizioni di cui agli artt. 93 e 94 T.U. edilizia è punito con un'ammenda ai sensi del successivo art. 95.
Le fattispecie di reato sanzionate sono dunque costituite segnatamente da:
   a) inizio dell'attività di costruzione, riparazione e sopraelevazione in zona sismica, senza avere preventivamente dato il preavviso scritto allo sportello unico;
   b) inizio dell'attività edilizia sulla base di un preavviso scritto privo della documentazione richiesta, ai sensi dei successivi commi da 2 a 5;
   c) inizio dell'attività edilizia in assenza dell'autorizzazione sismica rilasciata dall'ufficio tecnico regionale ai sensi dell'art. 94, comma 1;
   d) esecuzione dell'attività edilizia senza la direzione di un ingegnere, di un architetto o di un geometra iscritto all'albo ai sensi del successivo comma 4.

Fattispecie queste tutte contestate all'odierno imputato, con la sola esclusione di quella di cui alla lettera b), che non risulta in effetti compresa in nessuno dei due capi della rubrica.
La norma incriminatrice punisce dunque inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della pubblica amministrazione sulla sicurezza statica degli edifici in zona sismica.
Più in particolare, in quanto riferita alle prescrizioni di cui all'art. 93,
la norma tutela l'interesse al controllo della P.A. nella fase della progettazione dell'opera, al fine di verificare l'effettiva corrispondenza del progetto presentato alle norme tecniche sulle costruzioni in zona sismica; in quanto invece riferita alle previsioni di cui all'art. 94 tutela l'interesse che consegue all'esecuzione dell'opera, ed è finalizzata a mettere in condizione la P.A. di effettuare l'attività di verifica circa la corrispondenza dei lavori con quanto indicato nel progetto approvato e il concreto rispetto delle norme tecniche sulle costruzioni in zona sismica.
Le due norme, tutelando beni giuridici solo in parte coincidenti, danno luogo ad altrettante distinte fattispecie di reato, che possono operare in concorso tra loro.
La giurisprudenza ha peraltro chiarito che,
in entrambi i casi, l'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza l'autorizzazione del genio civile e senza le prescritte comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato, come pure lo è la verifica postuma dell'assenza del pericolo, in quanto la normativa è finalizzata, come detto, a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone (v. Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007; Sez. 3, n. 2181 del 12/06/2001).
...
8. È altresì fondato il terzo motivo di ricorso.
A norma dell'art. 94, comma 4, d.P.R. n. 380/2001 i lavori devono essere diretti da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell'albo «nei limiti delle rispettive competenze».
Il Tribunale nel ritenere sufficiente, a escludere nella specie la violazione di tale disposizione, il fatto che risultino l'affidamento e l'effettivo espletamento dell'incarico di direttore dei lavori da parte del geom. Ca., non ha evidentemente tenuto conto di tale ultima importante precisazione.
L'oggetto e i limiti dell'esercizio della professione di geometra sono invero disciplinati dall'art. 16, r.d. 11.02.1929, n. 274.
Questo consente a tale figura professionale la progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, che non necessitino di complesse operazioni di calcolo e non presentino implicazioni per la pubblica incolumità.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle.

A questo fine, mentre non è stato ritenuto decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione «non modesta» essere realizzata senza di esso), è stata data rilevanza al fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64/1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri (v. Cass. Civ., Sez. 2, n. 19292 del 07/09/2009, Rv. 609967; Cass. Civ., Sez. 2, n. 8543 del 08/04/2009, Rv. 607639).
Ne discende che anche sul punto la decisione impugnata deve ritenersi supportata da motivazione carente, in quanto non adeguatamente rapportata alle dette indicazioni normative.
La contestazioni svolte al riguardo nella memoria difensiva depositata avanti questa Corte in data 22/07/2015, secondo cui la censura svolta dal P.G. ricorrente sarebbe infondata in punto di fatto, essendo stati gli incarichi in parola affidati a ingegnere abilitato, non possono essere in questa sede valutate, implicando esse ovviamente un accertamento di merito da riservare al giudice del rinvio e occorrendo piuttosto qui arrestarsi al rilievo che sul punto la sentenza impugnata omette qualsiasi verifica limitandosi ad affermare, erroneamente, la sufficienza dell'incarico affidato al geom. Ca..

EDILIZIA PRIVATA: PERMESSO DI COSTRUIRE E DISTINZIONE TRA IL REGIME DELLE VARIANTI IN SENSO PROPRIO E LE CC.DD. VARIANTI ESSENZIALI.
In tema di reati edilizi, mentre le “varianti in senso proprio”, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire, le “varianti essenziali”, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla diversità del regime giuridico applicabile alle varianti quantitative e qualitative non consistentemente rilevanti rispetto all’originario p.d.c. e quello applicabile alle varianti cc.dd. essenziali, che si presentano invece radicalmente incompatibili con il progetto approvato.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale rigettava l’istanza di riesame proposta dall’indagata avverso il decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari di quello stesso Tribunale, sulla ritenuta sussistenza dei reati di lottizzazione abusiva di terreni ed altri reati urbanistici ed edilizi inerenti la costruzione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in variazione essenziale e totale difformità dai titoli edilizi rilasciati, di 8 villette unifamiliari, aveva disposto il sequestro preventivo delle aree, dei terreni, delle opere e dei fabbricati meglio in detto decreto individuati.
Annullata dalla Cassazione l’ordinanza, chiedendosi nuovamente al tribunale di valutare la legittimità dell’intervento alla stregua del P.R.G. solo ove potesse ritenersi che le modifiche autorizzate con il permesso in variante fossero tali da comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, il tribunale del riesame rigettava nuovamente l’istanza ritenendo variante non essenziale (e dunque non variante propria) quella assentita con successiva concessione, con la conseguenza che l’intervento edilizio doveva essere ricondotto sotto l’ambito applicativo del P.R.G. del 2009, con l’ulteriore conseguenza della patente illegittimità della concessione edilizia per la mancata preventiva predisposizione dello strumento attuativo piano quadro in zona non urbanizzata e l’omesso computo della nuova volumetria assentita e relativa alla riqualificazione in seminterrati abitabili degli originari piani interrati nel complessivo calcolo della volumetria edificabile secondo l’indice 0,03 mc/mq.
Contro l’ordinanza proponeva nuovamente ricorso per cassazione l’indagata, in particolare sostenendo che la stessa era stata adottata in palese violazione dei principi fissati dalla sentenza di annullamento e l’assenza totale di motivazione in relazione al fumus commissi delicti. Nel sostenere la piena validità della concessione edilizia, si doleva del fatto che il Tribunale del riesame quale giudice di rinvio in particolare non avrebbe tenuto dell’intervenuta decadenza delle cd. “norme di salvaguardia” del P.R.G. del 2004 aventi validità di tre anni, con la conseguenza che l’area in cui erano state costruite le villette continuava ad essere identificata sulla base del vecchio P.R.G. del 1978 quale zona stralciata da ristudiare in cui era consentita l’edificazione; da, quindi, dunque, anche l’erronea interpretazione ed applicazione del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 32, in tema di varianti urbanistiche e la legittimità del permesso di costruire n. 107 del 2010.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare escludendo la fondatezza della tesi difensiva rilevando come il Tribunale avesse correttamente sussunto l’ipotesi concreta nella disciplina del nuovo P.R.G., spiegando con ampiezza di argomenti sulla base di quali emergenze istruttorie gli interventi edilizi assentiti non potessero qualificarsi come varianti non essenziali e dovessero, invece, ritenersi interventi edilizi palesemente diversi da quelli originariamente assentiti, con relativo assoggettamento alla normativa urbanistica vigente al momento del rilascio della nuova concessione, dunque alla normativa ampiamente descritta, che vietava interventi edificatori in assenza di apposito strumento attuativo del P.R.G.
Il Tribunale aveva, sul punto, dunque colmato il vuoto motivazionale della prima ordinanza annullata dalla Cassazione, ottemperando all’indicazione fornita nella sentenza di annullamento e spiegando sulla base di quali elementi ritenesse che le varianti avessero carattere essenziale, nel pieno rispetto di quanto prevedono al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 31 e 32 (in precedenza, sull’argomento: Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2010, n. 24236, M. e altro, in CED., n. 247686) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 11.08.2015 n. 34829 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).
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MASSIMA
5. Nella citata sentenza di annullamento questa Corte ha rilevato che, ai fini della verifica di sussistenza (ancorché indiziaria) del reato di lottizzazione abusiva, non ha importanza decisiva stabilire se il frazionamento del 2005 fosse dolosamente preordinato alla successiva lottizzazione abusiva dell'area, quanto piuttosto chiarire i seguenti aspetti della vicenda che sono rimasti del tutto inesplorati:
a) il regime urbanistico-edilizio dell'area oggetto d'intervento alla data di rilascio del primo permesso di costruire, e la conseguente verifica di conformità ad esso dell'intervento assentito; b) la natura delle varianti in corso d'opera consentite con il rilascio del permesso di costruire n. 107/2010.
Quanto al primo punto osservava che, come dato atto dallo stesso Tribunale del riesame, a seguito dell'adozione del nuovo PRG del 2004, l'amministrazione comunale di Agrigento aveva anche adottato le c.d. misure di salvaguardia, tuttavia decadute al momento del rilascio del permesso di costruire n. 182/2008. Il regime urbanistico-edilizio cui far riferimento è, dunque, fornito dalla pianificazione vigente in epoca anteriore al PRG definitivamente approvato nel 2009 (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 3), dalle prescrizioni di cui al D.M. 16.05.1968 (che, per le zone B, non pone il vincolo di inedificabilità, ma solo indici di fabbricabilità molto bassi) e dal vincolo paesistico imposto per legge, ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142, comma 1, lett. a), sulla fascia di rispetto (all'interno della quale, però, non pare sia stata realizzata alcuna delle 8 villette).
Il Tribunale, prosegue la sentenza di annullamento, però, ritiene in ogni caso applicabile il PRG del 2009 sul rilievo che le varianti apportate alle villette approvate con permesso di costruire n. 107/2010, comportassero, per la loro natura essenziale, la loro soggezione al nuovo strumento urbanistico.
Il principio non è errato, ma non è chiaro sulla base di quali elementi il Tribunale ha ritenuto la natura "essenziale" delle varianti. La motivazione, sul punto, è assente.
Tale valutazione andava fatta (e spiegata) sulla scorta dei criteri stabiliti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 1, e art. 32, nonché, avuto riguardo alle deduzioni difensive circa la natura tecnica degli ulteriori volumi ottenuti dalla realizzazione di locali seminterrati al posto dei locali originariamente previsti come totalmente interrati, e tuttavia pur sempre destinati a garage, dall'art. 22 delle NTA (sempre che di garage effettivamente si tratti) (sulla natura essenziale della variante, sul necessario riferimento al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, e sulle conseguenze in tema di regime urbanistico applicabile, cfr. Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010, Muoio, Rv. 247686: "
In tema di reati edilizi, mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementario ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante"). 7.6. Non va peraltro nemmeno sottaciuto che la rubrica provvisoria non specifica affatto quali siano le "varianti essenziali" ai progetti approvati.
In ogni caso, ove dovesse ritenersi, in sede di rinvio, applicabile il nuovo PRG del 2009, il Tribunale non potrebbe esimersi dal valutare le vicende amministrative derivanti dall'annullamento del decreto di approvazione dello stesso PRG, n. 1106 del 28/10/2009, e le concrete ricadute sul regime urbanistico ed edilizio dell'area oggetto di intervento.
Quanto all'urbanizzazione dell'area, ricordava la Corte che, secondo il principio costantemente affermato dal giudice amministrativo, "
la necessità dello strumento attuativo, quale presupposto di legittimità per il rilascio della concessione edilizia, normalmente esclusa nel caso di zone completamente urbanizzate, sussiste, invece, non soltanto nelle ipotesi estreme di zone assolutamente inedificate, ma anche in quelle (intermedie) di zone parzialmente urbanizzate, nelle quali si manifesti un'esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione; pertanto, per escludere la necessità della lottizzazione, è necessario che la zona presenti una situazione di pressoché completa e razionale edificazione, tale da rendere del tutto superfluo, un piano attuativo" (Cons. St., Sez. 5, sent. n. 790 del 15/02/2001;cfr. sullo stesso punto, in materia di lotti interclusi, Sez. 4, n. 5764 del 27/10/2011: "Ai sensi dell'art. 9 del T.U. Edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nella aree per le quali non sono stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi di quello generale è inibita qualsiasi attività edilizia, a meno che questa non debba essere svolta all'interno di un lotto intercluso. La relativa fattispecie costituisce una deroga eccezionale al divieto per le amministrazioni comunali di rilasciare un permesso di costruire in assenza della preventiva approvazione dei piani attuativi previsti dallo strumento urbanistico generale").
...
Esaminando, in quanto dirimente, la questione della conformità dell'ordinanza impugnata alla traccia motivazionale indicata dalla sentenza di annullamento, è bene ricordare quanto già affermato dalla Corte di Cassazione in merito alla natura essenziale della variante: <
In tema di reati edilizi, mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante> (Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010, Muoio, Rv. 247686).
Nella specie il Tribunale dopo aver operato una ricostruzione normativa del quadro urbanistico di riferimento a partire dall'adozione da parte del comune di Agrigento nel 2004 del Piano Regolatore Generale e attraverso l'esame delle successive modifiche apportate per assicurare l'osservanza delle vigenti disposizioni statali e regionali, nonché gli effetti dell'annullamento del decreto n. 1106 del 28.10.2009 del Dirigente Generale dell'Assessorato Regionale Territorio e Ambiente ed avente ad oggetto l'approvazione del PRG, nella parte in cui recependo il parere reso dal Consiglio Regionale dell'urbanistica apponeva al PRG le prescrizioni n. 1, 2, 3, 4, 8 e 11 (effetti limitati alle sole modifiche apportate dal D.D.G. 1106/2009 e non l'intero impianto del PRG), ha ritenuto che l'area in sequestro ricadeva in una parte "stralciata" cioè da pianificare successivamente ad opera del Comune.
Il che avveniva con la successiva destinazione dell'area a "Parco Territoriale sottozona G2 (ove non era assentibile nessuna nuova costruzione) e "parcheggio pubblico". Donde, nonostante le successive precisazioni, l'intervento diretto poteva essere assentito solo nell'ambito di un piano di lottizzazione con la conseguente illegittimità della concessione del 2008.
Ancorché non risulti corretta in punto di diritto la valutazione operata dal Tribunale in merito all'asserita illegittimità della prima concessione edilizia (in quanto, per espressa indicazione del Tribunale, all'epoca in cui fu rilasciato il provvedimento concessorio, il PRG non era ancora approvato e, con esso, non erano applicabili le relative NTA, in particolare l'art. 33 richiamato a pag. 8 a sostegno della necessità di un Piano Quadro attuativo del predetto PRG), tale erronea applicazione della normativa di riferimento non comporta annullamento del provvedimento impugnato, bensì solo correzione della motivazione ai sensi dell'art. 619 cod. proc. pen., in quanto del tutto infondate si presentano le censure mosse con riguardo alla affermata illegittimità della concessione rilasciata nel 2010.
Il Tribunale ha, infatti, sul punto, correttamente sussunto l'ipotesi concreta nella disciplina del nuovo PRG, spiegando con ampiezza di argomenti sulla base di quali emergenze istruttorie gli interventi edilizi assentiti non potessero qualificarsi come varianti non essenziali e dovessero, invece, ritenersi interventi edilizi palesemente diversi da quelli originariamente assentiti, con relativo assoggettamento alla normativa urbanistica vigente al momento del rilascio della nuova concessione, dunque alla normativa ampiamente descritta, che vietava interventi edificatori in assenza di apposito strumento attuativo del PRG.
Le deduzioni in fatto contenute nel ricorso tendono ad ottenere un giudizio su asseriti vizi della motivazione del provvedimento, precluso, come detto, in sede di legittimità nel giudizio d'impugnazione di ordinanza in materia cautelare reale ove non si tratti di vizi qualificabili in termini di assoluta carenza e, in quanto tali, riconducibili nell'alveo della violazione di legge. Il Tribunale ha, sul punto, colmato il vuoto motivazionale ottemperando all'indicazione fornita nella sentenza di annullamento e spiegando sulla base di quali elementi ritenesse che le varianti avessero carattere essenziale, nel pieno rispetto di quanto prevedono gli artt. 31 e 32 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Né risulta condivisibile quanto sostenuto dal ricorrente a proposito della apoditticità della motivazione sul punto relativo al periculum in mora, sia perché il Tribunale aveva specificamente replicato alle doglianze concernenti l'asserita urbanizzazione dell'area, ma soprattutto perché nel ricorso si analizza detto presupposto sulla base dell'assunto, smentito dalla puntuale descrizione dell'ampio intervento edilizio che la misura cautelare tende ad impedire, che si trattasse di otto villette di 40 mq di superficie già terminate.

EDILIZIA PRIVATA: PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ E REATO PAESAGGISTICO.
In tema di reati paesaggistici, la fattispecie D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 181, rappresenta un reato di pericolo e, pertanto, per la sua configurabilità non è necessario un effettivo pregiudizio per l’ambiente, potendo escludere dal novero della condotte penalmente rilevanti solo quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l’aspetto esteriore degli edifici; ne consegue che il principio di offensività deve essere inteso in termini non di concreto apprezzamento di un danno ambientale, bensì della attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame concerne un tema di particolare interesse, rappresentato dalla possibile configurabilità dell’illecito paesaggistico in presenza di interventi che, apparentemente, si presentino di modesta entità e, quindi, sostanzialmente inoffensivi.
La vicenda processuale trae origine della ordinanza con cui il Gip presso il Tribunale rigettava la richiesta del p.m. di sequestro preventivo di un volume edilizio, ottenuto mediante la chiusura perimetrale di un porticato, con superficie di circa 80 mq., trasformato, da area di collegamento tra una S.S. e l’Albergo S.S., in locale chiuso destinato all’esercizio del ristorante “A.M.”, in relazione all’astratta ipotesi di reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, contestato a B.G., in concorso con l’amministratore della società proprietaria dell’immobile e della società H.S.S., sull’assunto della intervenuta prescrizione delle violazioni, per essere maturato il relativo termine quinquennale.
Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sull’appello proposto dal P.M, in accoglimento del gravame, aveva disposto la misura cautelare reale, rilevando la sussistenza del fumus del delitto ambientale contestato e, in particolare, che relativamente ad esso il termine prescrizionale non poteva considerarsi ancora consumato. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare contestando la sussistenza del periculum in mora ai fini della applicazione del sequestro preventivo del manufatto in contestazione.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, così facendo applicazione del predetto principio ed osservando che le opere realizzate, al di fuori da ogni controllo preventivo ed autorizzatorio da parte delle autorità preposte, determinanti la creazione di una nuova attività commerciale di ristorazione, hanno incidenza non solo sulla consistenza del paesaggio, ma, in maniera significativa, anche sull’equilibrio ambientale, nella sua accezione più ampia: l’utilizzo, il funzionamento di un ristorante determina inevitabili e sostanziali conseguenze anche in termini di maggiore affluenza di persone, traffico veicolare, produzione di rifiuti, inquinamento, legati alla gestione dell’esercizio commerciale.
Peraltro, in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale, nonché a speciale protezione dell’autorità, come il sito del Comune interessato, l’opera in contestazione, che ivi insiste, e l’uso della stessa, concorreva a modificare l’assetto ambientale e del territorio, incidendo notevolmente sull’equilibrio paesaggistico, considerato che la ratio della apposizione di vincoli e della speciale protezione di una zona risiede proprio nell’impedire situazioni di degrado e a preservare la integrità di luoghi particolarmente ameni, che hanno determinate conformazioni da non compromettere.
Del resto, concludevano i Supremi Giudici, l’oggetto tutelato non è il concetto astratto di “bellezze naturali”, bensì l’insieme delle cose, beni materiali o le loro composizioni, che presentano valore paesaggistico, che non possono non ritenersi in alcun modo compromesse dalla allocazione di una attività commerciale, anche se nella zona ne siano sussistenti altre, come nella specie (v., in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 20.03.2003, n. 12863 A., in CED, n. 224896) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2015 n. 33034 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: È FALSO PER INDUZIONE L’ATTESTAZIONE DEL P.U. CHE UN FABBRICATO È CONFORME AL PROGETTO APPROVATO CON IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Il falso per induzione ex artt. 48 e 479 c.p. sussiste indipendentemente dalla natura fidefacente dell’autocertificazione; ne consegue che l’atto con cui il pubblico ufficiale attesta la conformità di un fabbricato al progetto approvato con la concessione edilizia costituisce atto pubblico.
Il tema esaminato dalla Cassazione, con la sentenza in esame, verte sulla natura o meno di atto pubblico dell’attestazione, promanante dal pubblico ufficiale, circa la conformità del fabbricato al progetto assentito.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza che aveva condannato l’imputato per falso per induzione, in particolare per avere dichiarato falsamente in sede di autocertificazione che l’intervento di costruzione di una palazzina residenziale era stato realizzato in conformità ai disegni approvati e tenendo presenti tutte le prescrizioni di cui al permesso di costruire rilasciato dal comune, dichiarazione non veritiera atteso che non erano stati realizzati gli allacci alle reti tecnologiche, in particolare alla rete idrica gestita dalla società R.R. S.p.A..
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare deducendo la mancanza di un’autocertificazione fidefacente, per inesistenza di una specifica previsione normativa che conferisse valore de veritate all’attestazione resa dal privato al pubblico ufficiale.
La dichiarazione resa in autocertificazione sarebbe stata priva dei requisiti richiesti dal d.P.R. n. 445 del 2000, art. 46 per avere la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, per cui sarebbe priva di potenzialità lesiva della pubblica fede.
Inoltre, l’autocertificazione non era stata sottoscritta in presenza di un dipendente del Comune, né era stata presentata unitamente alla copia fotostatica di un documento di identità, onde non aveva i requisiti per valere come dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ex d.P.R. n. 445 del 2000, artt. 47 e 38, di tal che non poteva provare i fatti in essa attestati e non poteva confluire nel certificato di agibilità. Infine, la medesima autocertificazione, come risulta dal testo, non era idonea a comprovare i fatti della stessa dichiarati perché non espressamente indicati nell’art. 46 (con riferimento al cit. d.P.R., art. 47, comma 3), onde anche per tale motivo non aveva alcuna potenzialità lesiva della pubblica fede.
Trattavasi di una semplice dichiarazione, priva di qualunque efficacia certificativa, tanto più se si considera che essa non è necessaria ai sensi dell’art. 25, comma 1, del Testo unico in materia edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001) per cui non è destinata a confluire nel certificato di agibilità e quindi a provare la verità dei fatti in essa attestati.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato per insussistenza del fatto la sentenza di condanna, in particolare osservando come che il reato non sussisteva, atteso che la prescrizione del permesso di costruire (“Prima della richiesta del rilascio del permesso di agibilità dovranno essere realizzati gli allacci alle reti tecnologiche”) non implicava l’attivazione in concreto della fornitura (che, peraltro, non si vede come possa essere richiesta dal costruttore a nome del futuro acquirente), bensì solo la predisposizione tecnica degli impianti per l’allacciamento alla rete idrica, mediante esternalizzazione dell’impianto fino all’armadio o al pozzetto di successiva installazione del contatore.
Tale interpretazione era, altresì, confortata non solo dagli atti dell’ufficio tecnico comunale, che, dopo un’iniziale sospensione dell’agibilità, aveva revocato il provvedimento cautelare, ma gli stessi atti privati, risultando in modo espresso dal contratto preliminare di compravendita che l’impresa avrebbe proceduto esclusivamente alla realizzazione degli impianti, restando a carico dell’acquirente il successivo allaccio mediante stipula del relativo contratto di fornitura (v., nel senso del principio affermato: Cass. pen., SS.UU., 17.09.984, n. 7299, Nirella, in CED, n. 165602) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 23.07.2015 n. 32433 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: CONTRATTI DELLA P.A. LA CASSAZIONE FA IL PUNTO SULL’ESPERIBILITÀ DELL’AZIONE D’INDEBITO ARRICCHIMENTO VERSO LA P.A.
Il requisito della sussidiarietà -presupposto per l’applicazione dell’art. 2041 c.c.- consiste nell’assenza di un rimedio tipico, atto a reintegrare la parte che ha determinato l’arricchimento altrui in una posizione di equilibrio economico e va inteso nel senso che l’azione è esperibile solo quando quella contrattuale non è andata a buon fine e non esistano rimedi residuali com’è, per le obbligazioni prestate a favore di una P.A. in assenza di un valido contratto scritto, quella dell’art. 23, comma 4, D.L. n. 66/1989 (conv. in L. n. 144/1989 e riprodotto senza sostanziali modifiche dall’art. 35 del D.Lgs. n. 77/1995, art. 35).
Un Comune ricorre in Cassazione contro una sentenza di Corte d’Appello che, pronunciandosi in sede di rinvio dalla Cassazione stessa, ha accolto un appello in origine proposto da due privati riconoscendo agli stessi una somma a titolo d’ingiustificato arricchimento derivante da prestazioni rese a favore del medesimo Comune. La Corte respinge il ricorso, facendo un interessante punto sulla ricorrente giurisprudenza maturata sull’applicabilità dell’art. 2041 c.c. nei confronti della P.A..
La fattispecie si caratterizza per essere anteriore all’entrata in vigore dell’art. 23, comma 4, D.L. n. 66/1989 (conv. in L. n. 144/1989 e riprodotto senza sostanziali modifiche dall’art. 35 del D.Lgs. n. 77/1995, art. 35) a mente del quale in caso di assunzione, da parte delle PP.AA., di obbligazioni prive di contratto scritto e impegno di spesa validamente assunto, il rapporto intercorre in via diretta fra il prestatore di beni o servizi e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentito la fornitura.
Tale disciplina, perché anteriore al rapporto di cui è causa, non è qui applicabile, altrimenti dovendosene fare applicazione in ossequio al canone ricavabile dall’art. 2042 c.c. per il quale l’azione d’indebito arricchimento verso la P.A., stante la sua natura residuale, è proponibile dal privato “impoverito” solo in assenza di altre azioni tipiche, secondo un orientamento ormai invalso e ricorrente del Giudice di legittimità.
Per questa ragione, è applicabile de plano la disciplina dell’azione generale di arricchimento indebito verso la P.A. In relazione ad essa, dottrina e giurisprudenza non hanno avuto dubbi nel ravvisarne i presupposti: a) nell’arricchimento senza causa di un soggetto; b) nell’ingiustificato depauperamento di un altro; c) nel rapporto di causalità diretta ed immediata tra le due situazioni, di modo che lo spostamento risulti determinato da un unico fatto costitutivo; d) nella sussidiarietà dell’azione (art. 2042 c.c.), nel senso che essa può avere ingresso solo quando nessun’altra azione sussista ovvero se questa, pur esistente in astratto, non possa essere esperita per carenza ab origine di taluno dei suoi requisiti.
Si ritenne, poi, del tutto pacifico che l’arricchimento debba consistere in un’effettiva attribuzione patrimoniale: configurabile, tuttavia, con il conseguimento di qualunque utilità economica, e quindi non soltanto quando vi sia stato un incremento patrimoniale, ma anche se la prestazione eseguita da altri, con diminuzione del proprio patrimonio, abbia fatto risparmiare una spesa od abbia evitato il verificarsi di una perdita (Cass. 28.01.1970, n. 178; da ultimo, Cass. 05.07.2013, n. 16820).
Anche in questi casi, infatti, il soggetto beneficiato riceveva un’utilità in mancanza della quale avrebbe dovuto effettuare un esborso, o subire una diversa diminuzione patrimoniale. La questione -osserva la Suprema Corte- acquistò rilevanza quando la giurisprudenza iniziò ad ammettere la proponibilità dell’azione anche nei confronti della P.A. qualora questa abbia riconosciuto, sia pur implicitamente, l’utilità derivata dall’opera o dalla prestazione altrui. E ritenne che detto riconoscimento ben potesse risultare per implicito dal fatto che l’ente sia addivenuto alla sua utilizzazione: posto che l’oggetto era costituito quasi sempre da prestazioni di privati in dipendenza di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti coinvolgenti, in genere, appaltatori, fornitori o professionisti. E, quindi, situazioni caratterizzate dal fatto che l’opera svolta dall’impoverito ha carattere imprenditoriale ovvero professionale, ed in ogni caso, consiste in un’attività posta in essere abitualmente e professionalmente al fine di procurarsi un guadagno.
Il requisito della sussidiarietà consiste nell’assenza di un rimedio di carattere specifico o ordinario atto a reintegrare la parte che ha determinato l’arricchimento altrui in una posizione di equilibrio economico. Ma la sussidiarietà va intesa nel senso che l’azione di ingiustificato arricchimento è esperibile quando quella contrattuale non è andata a buon fine. In questo senso, infatti depongono quelle decisioni che consentono la sua proposizione nei confronti della P.A. quando il rapporto contrattuale è basato su di un contratto, ad esempio, invalido perché annullato dal giudice amministrativo (Cass., SS.UU., 11.09.2008, n. 23385).
D’altra parte le due azioni, quella contrattuale e quella d’ingiustificato arricchimento, non si pongono in una situazione di alternatività, nel senso che se è proposta la prima, la seconda non è più proponibile, ma in una situazione di successione cronologica. Questo perché tale seconda azione è diversa per petitum e per causa petendi e che, inoltre, avendo funzione sussidiaria e natura residuale, trova il riconoscimento della sua esperibilità proprio nell’indicato diniego di tutela contrattuale (Cass. 25.05.2011, n. 11489, ord.; Cass. 27.01.2010, n. 1707; Cass. 13.12.1984, n. 6537).
Diversamente, si tratterebbe di un’interpretazione eversiva del concetto di ingiustificato arricchimento (che è un principio di equità). Di qui la proponibilità, anche nel medesimo giudizio, delle due azioni, ma in via subordinata (Cass., SS.UU., 07.10.2010, n. 26128; Cass. 23.06.2009, n. 14646) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 19.03.2015 n. 5480 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: EFFICACIA INDIRETTA DEL D.M. 1444/1968 NEI CONFRONTI DEI PRIVATI.
L’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 impone agli Enti titolari di poteri pianificatori l’osservanza di limiti edilizi in sede di formazione o di revisione degli strumenti urbanistici: per l’effetto le previsioni di PRG con distanze inferiori sono illegittime e suscettibili di disapplicazione e sostituzione con quelle previste dal citato D.M..
In ragione di questo effetto automatico, può concludersi che la normativa di cui ai regolamenti edilizi ed urbanistici locali, come così integrata e modificata, ha carattere di immediata applicazione anche nei rapporti tra privati.

La Cassazione si occupa dell’applicazione del D.M. n. 1447/1968 e della sua incidenza sulle norme di PRG, in relazione ad una controversia sorte tra privati per questioni di natura dominicale.
In disparte ogni punto strettamente privatistico, estraneo alla materia della Rivista, merita osservarsi come il Supremo Collegio - con riguardo alla sopravvenienza di distoniche previsioni legislative e regolamentari, anche se di livello locale - affermi che in tema di edilizia, quando nel tempo si succeda una pluralità di norme regolatrici, la legittimità o meno di ciascuna attività edificatoria e le relative conseguenze vadano accertate con riferimento alla normativa vigente all’epoca della realizzazione dell’attività stessa (Cass. 15.03.2001, n. 3771).
Ancora, la sentenza merita attenzione ove ricorda che, in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, emanato su delega contenuta all’art. 41-quinquies (introdotto dall’art. 17, L. 06.08.1967, n. 765) della L. 17.08.1942, n. 1150 (legge urbanistica) è produttivo di effetti assimilabili a quelli d’una fonte primaria, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass., SS.UU., 07.07.2011, n. 14953).
Per tale inderogabilità, la previsione di dieci metri va interpretata nel senso che questa distanza minima è richiesta anche nell’ipotesi in cui una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e, ancora, che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell’edificio preesistente, essendo sufficiente, per l’applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza infra-legale; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre (Cass. 07.07.2011, n. 13547).
La Cassazione qui osserva che se pure è vero che l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 impone precipuamente ai Comuni l’osservanza di determinati limiti edilizi in sede di formazione o di revisione degli strumenti urbanistici -sicché esso non ha immediata valenza interprivatistica- nondimeno eventuali previsioni di PRG con distanze inferiori sono da ritenersi illegittime e quindi suscettibili di disapplicazione e sostituzione con quelle previste dal citato D.M.: in ragione di questo effetto automatico, può concludersi che la normativa di cui ai regolamenti edilizi ed urbanistici locali, come integrata e modificata dal D.M. n. 1444/1968, ha carattere di immediata applicazione anche nei rapporti tra privati (Cass. 15.03.2001, n. 3771).
Ancora interessante, nella sentenza in commento, è l’affermazione per la quale l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 non impone di rispettare, in ogni caso, una distanza minima dal confine sicché -in applicazione del principio di prevenzione- esso deve interpretarsi nel senso che tra una parete finestrata e l’edificio antistante vada rispettata la distanza di dieci metri con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di m. 5 dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, ha rispettato una distanza di almeno m. 5 dal confine.
Tuttavia, se il preveniente abbia realizzato una parete finestrata ad una distanza dal confine inferiore a cinque metri, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino a rispettare la distanza di dieci metri da tale parete ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine ed eventualmente procedere all’interpello di cui all’art. 875, comma 2, c.c., ove ne ricorrano le condizioni (Cass. 07.03.2002, n. 3340) (Cassazione civile, Sez. II, sentenza 12.03.2015 n. 4968 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: ALLE SEZIONI UNITE IL TEMA DELL’APPLICABILITÀ DEL CRITERIO DELLA PREVENZIONE EDILIZIA SE LE DISPOSIZIONI LOCALI PREVEDONO SOLO UNA DISTANZA FRA COSTRUZIONI MAGGIORE DI QUELLA CODICISTICA.
Mentre è pacifica l’inoperatività del criterio della prevenzione quando la disciplina regolamentare imponga il rispetto d’una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini, meno univoca è, di contro, la soluzione concernente l’ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore di quella codicistica.
A riguardo si registrano contrasti tra due contrapposti orientamenti giurisprudenziali che giustificano la remissione degli atti al Primo presidente, per l’eventuale trattazione da parte delle Sezioni Unite.

Un privato convenne al Tribunale civile un altro privato lamentando l’edificazione, da parte di quest’ultimo, d’una costruzione in violazione delle distanze fissate dalla L. n. 765/1967: di tal manufatto era chiesto l’arretramento, oltre al rilascio della striscia di terreno di proprietà attorea posta oltre il confine a protezione del muro di cinta. Il Tribunale accolse la domanda condannando il convenuto ad arretrare il proprio edificio di dodici metri.
La Corte territoriale accolse solo in parte il gravame condannando l’originario convenuto (divenuto appellante) ad arretrare la recinzione realizzata sul muro di confine fino ad osservare una distanza non inferiore all’altezza della costruzione di proprietà dell’appellato.
L’appellato ricorreva per la Cassazione, con ricorso che era accolto: ivi il Giudice nomofilattico osservava che il Comune nel quale gli immobili si trovavano era dotato di regolamento edilizio anteriore alla L. n. 765/1967, quindi applicabile in luogo di questa. Tale regolamento imponeva un distacco fra costruzioni non inferiore a otto metri in relazione al quale, pertanto, doveva essere nuovamente esaminata la controversia.
La Corte di rinvio condannava ad arretrare la costruzione a otto metri da quella dell’attrice, quest’ultima a sua volta condannata ad arretrare la recinzione metallica realizzata sul vecchio muro di confine, fermo restando tale manufatto, fino a osservare dalla frontistante costruzione una distanza non inferiore all’altezza di quest’ultima. Il fondamento della decisione era da rivenire, secondo la Corte del riesame, nel fatto che in applicazione del regolamento comunale, era la costruzione preveniente a dover essere arretrata a tale distanza.
La questione torna all’esame della Suprema Corte che, con l’ordinanza in rassegna trasmette l’affare al Primo Presidente, per l’eventuale remissione alle Sezioni Unite.
Osserva la Cassazione che il punto di partenza non può che essere costituito dal principio di diritto enunciato, da Cass. n. 13338/2006 nella precedente fase di legittimità, secondo cui “le limitazioni previste dall’art. 41- quinquies della legge urbanistica n. 1150/1942 (introdotto dall’art. 17 della legge n. 765/1967) in materia di distanza fra edifici contigui, nel Comuni privi di PRG o di un programma di fabbricazione, si estendono anche ai Comuni dotati di regolamento edilizio se esso è privo di norme disciplinanti i distacchi tra costruzioni, mentre prevalgono nel caso in cui il regolamento contenga tali disposizioni”. Il che accade nello specifico, sorgendo gli edifici in un Comune munito di un regolamento edilizio anteriore alla “legge ponte” n. 765/1967 cit., il cui art. 26 pone un divieto di spazi vuoti inferiori a otto metri.
Osserva la Cassazione che è pacifica l’inoperatività del criterio della prevenzione allorquando la disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini (Cass. nn. 23693/2014, 18728/2005, 627/2003, 12561/2002, 4895/2002, 4366/2001, 10600/1999, 4438/1997, 3737/1994, 7747/1990 e 4737/1987, tutte precedute dall’incipit di S.U. n. 2846/1967).
Meno univoca, di contro, è la soluzione concernente l’ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore di quella codicistica.
A tale ultimo riguardo nella giurisprudenza si registra un contrasto sincrono. Un primo indirizzo afferma che, nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine (Cass. nn. 25401/2007, 8283/2005, 6101/1993, 5474/1991, 3859/1988, 8543/1987 e 4352/1983).
In base al secondo orientamento, invece, se i regolamenti edilizi stabiliscono una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, tal prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, dell’operatività del criterio della prevenzione (Cass. nn. 4199/2007, 16574/2006, 5953/1996, 5062/1992,  055/1984 e 4246/1981; in posizione intermedia, Cass. n. 1282/1999).
Circa la specifica incidenza sul criterio della prevenzione delle norme regolamentari locali che, in materia edilizia, stabiliscono una distanza non espressamente collegata al confine, le Sezioni Unite si sono pronunciate una sola volta, allorché hanno affermato che nel caso di norma regolamentare che determini la distanza fra costruzioni non dal confine ma in via assoluta, commisurandola alla maggiore altezza di uno dei corpi di fabbrica, rimane esclusa la possibilità di costruire sul confine e l’applicabilità del criterio della prevenzione, onde colui che costruisce per primo deve osservare, rispetto al confine, una distanza pari alla meta dell’altezza dell’erigendo fabbricato (Cass., SS.UU., n. 3873/1974).
Di contro, una più recente sentenza ha affrontato, risolvendolo in senso affermativo, il diverso problema della compatibilità del principio codicistico della prevenzione con la disciplina sulle distanze tra fabbricati vicini dettata dall’art. 41-quinquies, comma 1, lett. c), legge urbanistica, traendone la conseguenza che quando il fabbricato del preveniente si trovi a una distanza dal confine inferiore alla metà del distacco tra fabbricati prescritto dalla citata norma speciale, il prevenuto ha, ai sensi dell’art. 875 c.c., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro allo scopo di costruirvi contro (Cass., SS.UU., n. 11489/2002).
In ragione di questi contrasti nomofilattici, la Sezione ritiene sussistenti le condizioni per rimettere la relativa questione alle S.U. per la soluzione del contrasto, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 12.03.2015 n. 4965 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: In alternativa al provvedimento definitivo espresso sull’istanza di accertamento di conformità, ex art. 36 del DPR n. 380/2001, la legge ha previsto, dopo il decorso di 60 gg., la formazione di un silenzio-significativo con valore legale di rigetto.
Siffatto silenzio, nella specie, si è formato e poiché il cittadino può sempre tutelarsi mediante impugnativa del silenzio-diniego (la cui formazione, essendo prevista dalla legge come alternativa al provvedimento esplicito, non è illegittima soltanto perché intervenuta appunto per silentium), non vi è alcun obbligo per l’Amministrazione, sanzionabile con l’illegittimità del silenzio, di pronunciarsi espressamente.
Tale principio non può non valere anche per la presente fattispecie.
Sull’istanza di accertamento di conformità prodotta dall’affittuario del terreno si è formato silenzio-rigetto, per decorso dei termini prescritti sia prima che dopo la notifica della richiesta di osservazioni sul preavviso di rigetto (e le osservazioni stesse).
Non si tratta, ripetesi, di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-significativo con valore di reiezione dell’istanza, per il quale non è configurabile un obbligo per l’Amministrazione di emanare un atto scritto reiterativo degli effetti di diniego disposti dal sopra richiamato art. 36.

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Trattandosi di silenzio-significativo, ne consegue che è anche privo di fondamento il profilo di censura relativo al difetto di motivazione.
Invero, il provvedimento tacito, in quanto tale, è ontologicamente privo di motivazione, sicché esso è impugnabile non per difetto di esplicazione dell’iter giustificativo, ma per il suo contenuto di rigetto, potendo farsi valere quindi, contro di esso, direttamente censure afferenti alla fondatezza della pretesa, che siano quindi idonee a dimostrare la sussistenza dei presupposti a base dell’invocata sanatoria (sull’insussistenza di un obbligo specifico di motivazione in caso diniego tacito di sanatoria, cfr. da ultimo, tra le tante, citata decisione CdS, VI, n. 395/2014).
Peraltro, nel caso di cui trattasi, l’Amministrazione, alla stregua del contenuto del preavviso di rigetto, ha anche manifestato (ad abundantiam) le ragioni del diniego al soggetto richiedente, sulle quali quest’ultimo è stato quindi posto in grado di argomentare anche nel ricorso che ne occupa. Ciò non cambia evidentemente la tipologia del silenzio: da rigetto ad inadempimento.
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In ordine al profilo del difetto di legittimazione dell’affittuario a presentare istanza di sanatoria, opposto dall’Amministrazione, il Collegio concorda con la ricostruzione in fatto ed interpretativa dell’Amministrazione.
Invero, sia l’art. 36 del DPR n. 380/2001 che l’art. 22, comma 1, della LR n. 15/2008 (norme che espressamente regolano il permesso di costruire in sanatoria) indicano, come soli soggetti legittimati a chiedere il permesso stesso, “il responsabile dell’abuso” e il “proprietario”.
Nessun cenno è operato al conduttore dell’immobile o ad altri soggetti. Nel caso di specie poi il consenso del proprietario nemmeno è stato (previamente) fornito in sede procedimentale, né tale consenso può essere automaticamente desunto dal contratto e dal rapporto di locazione.
Infine anche la generica disponibilità manifestata in sede di osservazioni di far firmare l’istanza al sig. Ta. non si è mai concretizzata davanti all’Amministrazione fino alla presentazione del ricorso, non potendo quindi farsi ricadere sull’Amministrazione stessa la responsabilità dell’omissione per mancata richiesta di documentazione integrativa, essendo onere del soggetto interessato quello di dimostrare gli elementi di legittimazione alla presentazione dell’istanza.
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... per l'annullamento, quanto al ricorso introduttivo:
- del provvedimento implicito di rigetto in ordine alla domanda di sanatoria edilizia del 03.06.2011 di cui al prot. n. 3152 presentata, ai sensi dell’art. 36 DPR n. 380/2001, dal sig. Vi.Mi. in qualità di affittuario e possessore dei terreni su cui insistono gli immobili sanandi: provvedimento implicito che si impugna, ove da intendersi formato silenzio significativo nonostante l’intervenuta successiva comunicazione interlocutoria di avvio del procedimento di rigetto dell’istanza sopra indicata del 10.06.2011 prot. n. 4280 a firma del Responsabile del procedimento cui non tuttavia fatto seguito alcun provvedimento espresso di rigetto;
- della nota del 10.06.2011 prot. n. 4280, successivamente notificata ed avente ad oggetto la comunicazione di avvio del provvedimento di rigetto mai assunto in via espressa, emessa dal responsabile del procedimento in relazione all’istanza di permesso di costruire in sanatoria prot. n. 3152 del 03.06.2011 presentata dal signor Mi.Vi.;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali, ancorché eventualmente non richiamati nel provvedimento impugnato e rispetto ai quali i ricorrenti vantano una posizione di interesse;
e per l’annullamento, altresì, quanto ai motivi aggiunti:
- della Ordinanza del 02.05.2012 prot. n. 2124 Ord. n. 32/UT con il quale il responsabile del Comune di Carbognano, ritenendo consolidati gli effetti della ingiunzione di demolizione n. 21/UT del 27.04.2011, applicava al signor Ta.Le., ritenuto quale unico responsabile dell’abuso, la sanzione pecuniaria di € 20.000, ai sensi dell’art. 15 della L.R. n. 15/2008;
- dell’accertamento prot. n. 1620 del 02.04.2012 redatto dall’Ufficio di Polizia Locale del Comune di Carbognano dal quale emergerebbe che le opere per le quali è stata emessa l’ingiunzione di demolizione n. 21/UT del 27.04.2011 non sono state demolite;
- per quanto occorrer possa, del verbale di accertamento prot. n. 1458 del 24.03.2011 della Polizia Locale in quanto richiamato nella ordinanza del 02.05.2012 prot. n. 2124 ord. N. 32/UT;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali, ancorché eventualmente non richiamati nel provvedimento impugnato e rispetto ai quali i ricorrenti vantano una posizione di interesse;
...
Premesso quanto sopra, la valutazione propria della sede di merito convince il Collegio dell’infondatezza del ricorso e dei motivi aggiunti, alla stregua delle seguenti considerazioni:
1) La vicenda per cui è causa trae origine da un sopralluogo sull’immobile distinto in catasto terreni al fgl. 11, part.lle 272, 291 e 169, ed in catasto fabbricati al fgl. 11, part.lla 292, da cui emergeva l’esistenza di opere non assistite da titolo abilitativo. Seguivano, da parte del Comune di Carbognano, ordinanze di sospensione lavori e di demolizione, del 27.04.2011, notificate al sig. Ta.Le. il 28.04.2011.
Tali provvedimenti non risultano impugnati. Sono invece gravati, con il ricorso introduttivo, il diniego tacito sull’istanza di sanatoria, ex art 36 del DPR n. 380/2001, presentata il 03.06.2011 dal sig. Mi. in qualità di affittuario degli immobili, nonché la nota del 10.06.2011, successivamente notificata, avente ad oggetto la comunicazione di avvio del procedimento di rigetto, mai peraltro successivamente assunto in via espressa;
2) Il primo motivo del ricorso suddetto è privo di fondamento, dal momento che in alternativa al provvedimento definitivo espresso sull’istanza di accertamento di conformità, ex art. 36 del DPR n. 380/2001, la legge ha previsto, dopo il decorso di 60 gg., la formazione di un silenzio-significativo con valore legale di rigetto (cfr. articolo predetto, ma anche art. 22, comma 4, della L.R. Lazio n. 15/2008).
Siffatto silenzio, nella specie, si è dunque formato dopo il decorso di 60 gg. dal 03.06.2011 e comunque, a tutto concedere, anche successivamente alla richiesta di controdeduzioni (notificata al sig. Mi. il 31.08.2011), non essendo ulteriormente seguito alcun provvedimento espresso.
Poiché il cittadino può sempre tutelarsi mediante impugnativa del silenzio-diniego (la cui formazione, essendo prevista dalla legge come alternativa al provvedimento esplicito, non è illegittima soltanto perché intervenuta appunto per silentium), non vi è alcun obbligo per l’Amministrazione, sanzionabile con l’illegittimità del silenzio, di pronunciarsi espressamente.
Tale principio non può non valere anche per la presente fattispecie.
Sull’istanza di accertamento di conformità prodotta dall’affittuario del terreno si è formato silenzio-rigetto, per decorso dei termini prescritti sia prima che dopo la notifica della richiesta di osservazioni sul preavviso di rigetto (e le osservazioni stesse). Non si tratta, ripetesi, di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-significativo con valore di reiezione dell’istanza, per il quale non è configurabile un obbligo per l’Amministrazione di emanare un atto scritto reiterativo degli effetti di diniego disposti dal sopra richiamato art. 36 (cfr. CdS, IV, 13.01.2010, n. 100 e CdS, VI, n. 395 del 27.01.2014);
3) Trattandosi di silenzio-significativo, ne consegue che è anche privo di fondamento il profilo di censura relativo al difetto di motivazione.
Invero, il provvedimento tacito, in quanto tale, è ontologicamente privo di motivazione, sicché esso è impugnabile non per difetto di esplicazione dell’iter giustificativo, ma per il suo contenuto di rigetto, potendo farsi valere quindi, contro di esso, direttamente censure afferenti alla fondatezza della pretesa, che siano quindi idonee a dimostrare la sussistenza dei presupposti a base dell’invocata sanatoria (sull’insussistenza di un obbligo specifico di motivazione in caso diniego tacito di sanatoria, cfr. da ultimo, tra le tante, citata decisione CdS, VI, n. 395/2014).
Peraltro, nel caso di cui trattasi, l’Amministrazione, alla stregua del contenuto del preavviso di rigetto, ha anche manifestato (ad abundantiam) le ragioni del diniego al soggetto richiedente, sulle quali quest’ultimo è stato quindi posto in grado di argomentare anche nel ricorso che ne occupa. Ciò non cambia evidentemente la tipologia del silenzio: da rigetto ad inadempimento.
Il contegno del Comune di Carbognano continua a mantenere il suo significato di rigetto dell’istanza e delle controdeduzioni, non potendo evidentemente una condotta in via amministrativa modificare la qualificazione del silenzio operata da una disposizione di legge;
4) In ordine al profilo del difetto di legittimazione dell’affittuario a presentare istanza di sanatoria, opposto dall’Amministrazione sia nella nota n. 4280 del 10.06.2011 che in sede difensiva, il Collegio concorda con la ricostruzione in fatto ed interpretativa dell’Amministrazione.
Invero, sia l’art. 36 del DPR n. 380/2001 che l’art. 22, comma 1, della LR n. 15/2008 (norme che espressamente regolano il permesso di costruire in sanatoria) indicano, come soli soggetti legittimati a chiedere il permesso stesso, “il responsabile dell’abuso” e il “proprietario”. Nessun cenno è operato al conduttore dell’immobile o ad altri soggetti. Nel caso di specie poi il consenso del proprietario nemmeno è stato (previamente) fornito in sede procedimentale, né tale consenso può essere automaticamente desunto dal contratto e dal rapporto di locazione.
Infine anche la generica disponibilità manifestata in sede di osservazioni di far firmare l’istanza al sig. Ta. non si è mai concretizzata davanti all’Amministrazione fino alla presentazione del ricorso, non potendo quindi farsi ricadere sull’Amministrazione stessa la responsabilità dell’omissione per mancata richiesta di documentazione integrativa, essendo onere del soggetto interessato quello di dimostrare gli elementi di legittimazione alla presentazione dell’istanza.
Il secondo motivo è quindi privo di fondamento (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 06.10.2014 n. 10204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell'ambito di un procedimento amministrativo per la demolizione di opere abusive, non è ….necessaria la rinnovazione dell'ingiunzione originaria a fronte della domanda di accertamento in conformità; in quanto nessuna norma prevede il venir meno dell'efficacia dell'ordine di demolizione.
In assenza, invero, di un'esplicita norma di legge, per potersi affermare l'inefficacia sopravvenuta delle ordinanza demolitoria sul piano procedimentale sarebbe necessario un provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull'istanza di sanatoria.
In caso contrario anche l’eventuale riesame negativo circa l'abusività dell'opera, che fosse provocato dall'istanza di sanatoria, ove portasse alla formazione di un provvedimento di rigetto, non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica e quindi costituirebbe un tipico atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio. Come tale, esso non costituirebbe un fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario.
Allo stesso modo, in caso di silenzio-rigetto sull’istanza di sanatoria, l’efficacia dell’ordinanza di demolizione, solamente sospesa con la presentazione dell’istanza stessa, si riespande e i termini per la demolizione riprendono il loro corso, senza che sia necessario provvedere ex novo.
E’ bensì vero che l’interessato deve poter avere a sua disposizione l’intero termine previsto per la demolizione ma questo appunto è avvenuto nel caso di specie, dato che l’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione del 27.04.2011 (peraltro non impugnato dagli istanti) è avvenuto il 30.03/02.04.2012, quando tutti i possibili termini (per la formazione del silenzio-rifiuto e per l’esecuzione dell’ordinanza di demolizione) erano scaduti.
Correttamente, pertanto, l’Amministrazione, richiamando la mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione del 27.04.2011, ha applicato la sanzione pecuniaria impugnata con i motivi aggiunti (nota del 02.05.2012).
In punto di fatto non vengono poi formulate specifiche di censure su detta mancata demolizione (peraltro accertata con atti aventi valore legale e probatorio rafforzato). Il motivo afferente alla mancata rinnovazione dell’ordine di ripristino va quindi respinto al pari, data la reiezione delle censure di cui al ricorso introduttivo, dei motivi di relativa illegittimità derivata mossi anch’essi nell’atto di motivi aggiunti.

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6) Quanto ai motivi aggiunti, anch’essi vanno disattesi, poiché il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale, allo stato in via di progressivo consolidamento, secondo il quale “nell'ambito di un procedimento amministrativo per la demolizione di opere abusive, non è ….necessaria la rinnovazione dell'ingiunzione originaria a fronte della domanda di accertamento in conformità; in quanto nessuna norma prevede il venir meno dell'efficacia dell'ordine di demolizione” (cfr. Consiglio di Stato, IV, 08/05/2013 n. 2484 e Consiglio Stato sez. V 09.05.2006 n. 2562; v. anche di recente, Consiglio di Stato, IV,18/04/2014, n. 1994 e VI, 14.03.2014, n. 1292).
In assenza invero di un'esplicita norma di legge, per potersi affermare l'inefficacia sopravvenuta delle ordinanza demolitoria sul piano procedimentale sarebbe necessario un provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull'istanza di sanatoria.
In caso contrario anche l’eventuale riesame negativo circa l'abusività dell'opera, che fosse provocato dall'istanza di sanatoria, ove portasse alla formazione di un provvedimento di rigetto, non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica e quindi costituirebbe un tipico atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio. Come tale, esso non costituirebbe un fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario.
Allo stesso modo, in caso di silenzio-rigetto sull’istanza di sanatoria, l’efficacia dell’ordinanza di demolizione, solamente sospesa con la presentazione dell’istanza stessa, si riespande e i termini per la demolizione riprendono il loro corso, senza che sia necessario provvedere ex novo. E’ bensì vero che l’interessato deve poter avere a sua disposizione l’intero termine previsto per la demolizione ma questo appunto è avvenuto nel caso di specie, dato che l’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione del 27.04.2011 (peraltro non impugnato dagli istanti) è avvenuto il 30.03/02.04.2012, quando tutti i possibili termini (per la formazione del silenzio rifiuto e per l’esecuzione dell’ordinanza di demolizione) erano scaduti.
Correttamente, pertanto, l’Amministrazione, richiamando la mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione del 27.04.2011, ha applicato la sanzione pecuniaria impugnata con i motivi aggiunti (nota del 02.05.2012).
In punto di fatto non vengono poi formulate specifiche di censure su detta mancata demolizione (peraltro accertata con atti aventi valore legale e probatorio rafforzato). Il motivo afferente alla mancata rinnovazione dell’ordine di ripristino va quindi respinto al pari, data la reiezione delle censure di cui al ricorso introduttivo, dei motivi di relativa illegittimità derivata mossi anch’essi nell’atto di motivi aggiunti (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 06.10.2014 n. 10204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.04.2016

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi-urbanistici, la violazione dell’obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, vale anche in caso di cantiere inattivo, ed è tuttora punita dall’art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001 se commessa dal titolare del permesso a costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore dei lavori.
Trattasi di fattispecie già sanzionata sotto la vigenza dell’ormai abrogata l. n. 47/1985, e tuttora in essere, in ragione del rapporto di continuità normativa intercorrente tra le diverse disposizioni.
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Secondo il costante orientamento di questa Corte, i destinatari dell'obbligo in esame vanno individuati nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori sulla base di quanto espressamente previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 6 e, oggi, dall'art. 29, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001.
Quanto al fondamento della responsabilità del direttore dei lavori, va richiamato il principio affermato da questa Corte di legittimità secondo cui
è configurabile la responsabilità del direttore dei lavori per le contravvenzioni in materia di edilizia ed urbanistica, indipendentemente dalla sua concreta presenza in cantiere, in quanto sussiste a carico del medesimo un onere di vigilanza costante sulla corretta esecuzione dei lavori, collegato al dovere di contestazione delle irregolarità riscontrate e, se del caso, di rinunzia all'incarico.
La responsabilità del costruttore, quale esecutore materiale e diretto responsabile dell'opera, trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistico-edilizia.
Il chiaro disposto dell'ad art. 29, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001 non consente, infine, di differenziare le responsabilità del costruttore e del direttore dei lavori dei lavori da quella del committente, tanto meno sotto il profilo temporale dell'adempimento dell'obbligo di esposizione del cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo.

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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 08.07.2014, il Tribunale di Lucca, a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, pronunciando nei confronti di Ch.Ma., Mo.Mo. e Ca.Ra., imputati del reato di cui all'art. 44, lett. a), dpr n. 380/1990, per avere, nella qualità rispettiva di committente dei lavori, direttore dei lavori ed esecutori degli stessi, in violazione dell'art. 4 p.6 della scheda L.6-normativa di dettaglio del Reg. Edilizio del Comune di Viareggio, omesso di esporre la prescritta tabella indicante gli estremi dell'atto autorizzativo e dell'intervento edilizio, dichiarava i predetti responsabili del reato loro ascritto e li condannava ciascuno alla pena di euro 3.000 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Mo.Mo. e Ca.Ra., tramite il difensore di fiducia, articolando entrambi il motivo, fondato su inosservanza o falsa applicazione della legge penale, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
I ricorrenti, premettendo che la norma incriminatrice, costituita dall'art. 44, lett. a), e dall'art. 29, comma 1, Dpr n. 380/2001, è una norma penale cd in bianco, in quanto rinvia ai regolamenti edilizi, deducono che l'art. 4 p.6 della scheda L6 del regolamento edilizio del Comune di Viareggio, norma di rango amministrativo, deve essere correttamente interpretata nel senso che il riferimento al cantiere deve intendersi quale riferimento ad un cantiere effettivamente attivo.
Argomentano che, quindi, poiché, nella specie, al momento del sopralluogo da parte della polizia municipale i lavori al cantiere erano sospesi, il Giudice territoriale erroneamente dava rilievo alla semplice apertura formale del cantiere per ritenere configurato il reato contestato.
Aggiungono, poi, sotto altro profilo, che l'obbligo di apposizione del cartello deve ritenersi esistente a carico del direttore dei lavori e della ditta esecutrice solo al momento dell'apertura del cantiere e non per tutta la durata dei lavori, dovendosi, in caso contrario, ritenere sussistente un inaccettabile e diabolico obbligo di custodia a carico dei predetti.
Chiedono, quindi, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non è previsto come reato dalla legge o con la formula ritenuta di giustizia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili perché basati su motivo manifestamente infondato.
2. Va premesso che il reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), ha natura residuale rispetto alle altre violazioni menzionate dal medesimo articolo e sanziona, con la sola pena dell'ammenda, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal titolo 4 del menzionato D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto applicabili, l'inosservanza delle disposizioni dei regolamenti edilizi, l'inosservanza di prescrizioni contemplate dagli strumenti urbanistici e l'inosservanza delle prescrizioni fissate dal permesso di costruire (Sez. 3, Sentenza n. 29730 del 04/06/2013 Rv. 255836).
Questa Corte, vigente la L. n. 47 del 1985, ha avuto modo di rilevare l'estrema genericità della disposizione, allora contenuta nella previgente, omologa disposizione di cui all'art. 20, lett. a) e la possibilità di una pluralità indiscriminata di utilizzazioni, con conseguente insufficienza della interpretazione letterale, se non altro perché in contrasto con il principio della tassatività delle fattispecie legali penali ed ha posto in evidenza la necessità di delimitarne l'ambito applicativo tenendo conto della sua collocazione in un contesto normativo volto a disciplinare l'attività edilizia, affermando, conseguentemente, che "le norme, prescrizioni e modalità esecutive" di cui all'art. 20, lett. a), dovevano intendersi riferite soltanto a quelle regole di condotta che sono direttamente afferenti all'attività edilizia (Sez. 3 n. 8965, 21.06.1990).
Parimenti è stata rilevata la sua natura di norma penale in bianco poiché, mentre la sanzione è determinata, il precetto di carattere generico rinvia ad un dato esterno quale il titolo abilitativo, il regolamento edilizio, ecc. (SS.UU. n. 7978, 14.07.1992; v. anche SS.UU. n. 11635, 21.12.1993).
Si è, altresì, evidenziato (Sez. 3 n. 21780, 31.05.2011), come il riferimento contenuto nella norma attualmente vigente alle disposizioni di legge "previste nel presente titolo" (del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo 4, Parte prima comprendente gli artt. da 27 a 51) sia certamente riduttivo rispetto alla previgente fattispecie di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. a), la quale, punendo "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalle presente legge, dalla L. 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni e integrazioni", si riteneva effettuasse un rinvio aperto a tutta la legislazione urbanistico-edilizia, addirittura comprensiva, secondo parte della giurisprudenza, anche delle leggi regionali integrative. Ciò non di meno, pur in presenza di un ambito di operatività più contenuto, si è comunque ritenuto che la mancata apposizione del cartello di cantiere continui ad essere assoggettata alla sanzione penale prevista dalla richiamata disposizione.
Deve, inoltre, rimarcarsi quanto già rilevato da questa Corte sull'argomento (Sez. 3 n. 16037, 11.05.2006) ricordando come il contenuto della L. n. 47 del 1985, art. 4, comma 4, prevedesse, per coloro che eseguivano interventi edilizi, il duplice obbligo di esibizione della concessione edilizia e dell'esposizione del cartello di cantiere -a condizione che lo stesso fosse espressamente previsto dai regolamenti edilizi o dalla concessione- la cui violazione era penalmente sanzionata dall'art. 20, lett. a), più volte menzionato (a tale proposito si richiamava quanto stabilito dalle precedenti decisioni: SS.UU. 7978/92, cit.; Sez. 3^ n. 10435, 05.10.1994).
Veniva, altresì, dato atto dell'intervenuta abrogazione della L. n. 47 del 1985, art. 4, rilevando, tuttavia, la riproduzione del suo contenuto nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 27, comma 4, laddove si impone agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria l'obbligo di comunicazione immediata all'autorità giudiziaria nel caso in cui accertino che nei luoghi in cui vengono realizzate opere edilizie non sia esibito il permesso di costruire ovvero non sia apposto il prescritto cartello.
Contestualmente si individuavano i destinatari dell'obbligo in quelli già indicati dalla L. n. 47 del 1985, art. 6, comma 1, e, segnatamente, nel titolare della concessione, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori. Anche tale ultima affermazione è pienamente condivisibile: infatti il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, comma 1, riproduce attualmente il medesimo contenuto della disposizione previgente, con l'unica differenza del riferimento al titolo abilitativo, che non è più la concessione ma il permesso di costruire.
Conseguentemente è stato affermato il principio di diritto, in base al quale
la violazione dell'obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, già sanzionata sotto la vigenza dell'ormai abrogata L. n. 47 del 1985, è tuttora punita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), in ragione del rapporto di continuità normativa intercorrente tra le diverse disposizioni (sez. 3, 04/06/2013, n. 29730 Rv. 255836; Cassazione penale, sez. 3, 10/12/2014, n. 537; sez. 3 16/01/2015, n. 10713).
3. Ciò posto, è manifestamente infondato il primo profilo di doglianza.
La sentenza impugnata, infatti, correttamente applicando i suesposti principi, ha rilevato che l'art. 4.6 della scheda L.6 del Regolamento edilizio del Comune di Viareggio -richiamato nel capo di imputazione- prevede specificamente l'obbligo che ogni cantiere sia provvisto di cartello indicante gli estremi dell'atto autorizzativo e, pacifica l'assenza del cartello all'epoca del sopralluogo, ha ritenuto configurabile la fattispecie criminosa contestata.
La doglianza dei ricorrenti, che deducono che il permanere dell'obbligo di esposizione sussisterebbe solo in caso di cantiere effettivamente attivo, è manifestamente infondata.
Il Tribunale ha correttamente considerato irrilevante l'assunto difensivo circa una momentanea inattività del cantiere dovuta al ritardo nei pagamenti da parte del committente.
Tale valutazione è conforme ai principi espressi da questa Corte in subíecta materia.
La circostanza che il cartello fosse presente all'inizio dei lavori, infatti, non esclude la configurabilità del reato, in quanto ciò che rileva è che lo stesso non fosse esposto al momento del controllo da parte del personale di vigilanza, in quanto funzione del cartello è proprio quella di rendere edotti gli organi di vigilanza dell'esistenza in loco di interventi edilizi, al fine di consentire l'espletamento di tutte quelle attività di verifica dell'osservanza della normativa edilizia e di corrispondenza dell'assentito al realizzato (Sez. 3 30/04/2014, n. 28123). Inoltre, la finalità cui assolve l'obbligo di apposizione del cartello, deve ritenersi che sia anche quella di indicare i soggetti responsabili, nel caso in cui durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni a terzi (Sez. 3, 22/05/2012, n. 40118).
Tale funzione comporta che l'esposizione del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili deve non solo essere effettuata all'inizio dei lavori ma protrarsi in maniera continuativa durante tutta la fase di esecuzione degli stessi, ivi compresi i periodi in cui i lavori siano momentaneamente sospesi, risultando irrilevante la causa della sospensione, nella specie addebitabile a fatto volontario del committente.
4. Anche la doglianza dei ricorrenti, che deducono che l'obbligo di esposizione a carico del direttore dei lavori e del costruttore sussisterebbe solo al momento di apertura del cantiere, è manifestamente infondata.
Correttamente il Tribunale ha ritenuto la penale responsabilità, oltre che del committente, anche degli attuali ricorrenti Mo.Mo. e Ca.Ra., nelle rispettive qualità di direttore dei lavori ed esecutori degli stessi.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti,
i destinatari dell'obbligo in esame vanno individuati nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori sulla base di quanto espressamente previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 6 e, oggi, dall'art. 29, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Rv.255836, Sez. 3 n. 38380 del 15.07.2015; sez. III, 16/01/2015, n. 10713; Sez. III, 10/12/2014, n. 537).
Quanto al fondamento della responsabilità del direttore dei lavori, va richiamato il principio affermato da questa Corte di legittimità, che il Collegio condivide e che va qui riaffermato, secondo cui
è configurabile la responsabilità del direttore dei lavori per le contravvenzioni in materia di edilizia ed urbanistica, indipendentemente dalla sua concreta presenza in cantiere, in quanto sussiste a carico del medesimo un onere di vigilanza costante sulla corretta esecuzione dei lavori, collegato al dovere di contestazione delle irregolarità riscontrate e, se del caso, di rinunzia all'incarico (sez. 3, n. 34602 del 17.6.2010, Ponzio, rv. 248328, nella cui motivazione questa Corte, nel confermare la sentenza di condanna che aveva ritenuto sussistere l'obbligo del direttore dei lavori di recarsi quotidianamente sul cantiere al fine di vigilare le attività eseguite, ha precisato che questi, oltre ad essere il referente del committente per gli aspetti di carattere tecnico, assume anche la funzione di garante nei confronti del Comune dell'osservanza e del rispetto dei contenuti dei titoli abilitativi all'esecuzione dei lavori; sez. 3 15/01/2015, n. 7406; sez. 3, 11/05/2005, n. 22867).
La responsabilità del costruttore, quale esecutore materiale e diretto responsabile dell'opera, trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistico-edilizia (sez. 3, 25/11/2004, n. 860).
Il chiaro disposto dell'ad art. 29, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001 non consente, infine, di differenziare le responsabilità del costruttore e del direttore dei lavori dei lavori da quella del committente, tanto meno sotto il profilo temporale dell'adempimento dell'obbligo di esposizione del cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.04.2016 n. 13963).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: È reato penale l'accesso abusivo alla casella di posta elettronica.
La casella di posta elettronica rappresenta, inequivocabilmente, un "sistema informatico" rilevante ai sensi dell'art. 615/ter cod. pen..
Conformemente alle acquisizioni del mondo scientifico, il "sistema informatico" recepito dal legislatore non può essere che il complesso organico di elementi fisici (hardware) ed astratti (software) che compongono un apparato di elaborazione dati.
Invero,
sistema informatico è, infatti, qualsiasi apparecchiatura o gruppo di apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle quali, in base ad un programma, compiono l'elaborazione automatica dei dati. La "casella di posta" non è altro che uno spazio di memoria di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o informazioni di altra natura (immagini, video, ecc.), di un soggetto identificato da un account registrato presso un provider del servizio. E l'accesso a questo "spazio di memoria" concreta, chiaramente, un accesso al sistema informatico, giacché la casella non è altro che una porzione della complessa apparecchiatura -fisica e astratta- destinata alla memorizzazione delle informazioni.
Allorché questa porzione di memoria sia protetta -come nella specie, mediante l'apposizione di una password- in modo tale da rivelare la chiara volontà dell'utente di farne uno spazio a sé riservato, ogni accesso abusivo allo stesso concreta l'elemento materiale del reato di cui all'art. 615/ter cod. pen.. I sistemi informatici rappresentano, infatti, «un'espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita dall'art. 14 Cost. e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali dagli artt. 614 e 615».
Inaccettabile, pertanto, è l'equiparazione -fatta dalla difesa del ricorrente-
della casella di posta elettronica alla "cassetta delle lettere" collocata nei pressi dell'abitazione, poiché detta "cassetta" non è affatto destinata a ricevere e custodire informazioni e non rappresenta una "espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto interessato", ma un contenitore fisico di elementi (cartacei e non) solo indirettamente riferibili alla persona.
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Allorché, in un sistema informatico pubblico (che serva, cioè, una Pubblica Amministrazione), siano attivate caselle di posta elettronica -protette da password personalizzate- a nome di uno specifico dipendente, quelle "caselle" rappresentano il domicilio informatico proprio del dipendente, sicché l'accesso abusivo alle stesse, da parte di chiunque (quindi, anche da parte del superiore gerarchico), integra il reato di cui all'art. 615/ter cod. pen., giacché l'apposizione dello sbarramento -avvenuto col consenso del titolare del sistema- dimostra che a quella "casella" è collegato uno ius excludendi, di cui anche i superiori devono tenere conto.
Dimostra anche che la casella rappresenta uno "spazio" a disposizione -in via esclusiva- della persona, sicché la sua invasione costituisce, al contempo, lesione della riservatezza. 
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L'aggravante di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio non presuppone necessariamente che il reato sia commesso in relazione al compimento di atti rientranti nella sfera di competenza del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, né l'attualità dell'esercizio della funzione o del servizio, ma è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia reso possibile o comunque facilitato la commissione del reato
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Nella fattispecie,
il superiore gerarchico
si servì, per accedere alla casella di posta elettronica del proprio collaboratore, di una password "generale" -che gli consentì di entrare in rete- e si avvalse della posizione di sovraordinazione -in cui si trovava rispetto al dipendente- per allontanarlo dall'ufficio ed effettuare le operazioni che gli premevano.
Tali elementi non rappresentano, quindi, "un presupposto del fatto" -come opinato dal ricorrente- ma elementi che hanno reso possibile l'accesso alla posta del dipendente e perciò rientrano nelle modalità dell'azione prese in considerazione dalla norma incriminatrice.
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2.
La casella di posta elettronica rappresenta, inequivocabilmente, un "sistema informatico" rilevante ai sensi dell'art. 615/ter cod. pen..
Nell'introdurre tale nozione nell'ordinamento il legislatore ha fatto evidentemente riferimento a concetti già diffusi ed elaborati nel mondo dell'economia, della tecnica e della comunicazione, essendo stato mosso dalla necessità di tutelare nuove forme di aggressione alla sfera personale, rese possibili dallo sviluppo della scienza. Pertanto,
conformemente alle acquisizioni del mondo scientifico, il "sistema informatico" recepito dal legislatore non può essere che il complesso organico di elementi fisici (hardware) ed astratti (software) che compongono un apparato di elaborazione dati.
Anche per la Convenzione di Budapest, richiamata in sentenza e dal ricorrente,
sistema informatico è, infatti, qualsiasi apparecchiatura o gruppo di apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle quali, in base ad un programma, compiono l'elaborazione automatica dei dati. La "casella di posta" non è altro che uno spazio di memoria di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o informazioni di altra natura (immagini, video, ecc.), di un soggetto identificato da un account registrato presso un provider del servizio. E l'accesso a questo "spazio di memoria" concreta, chiaramente, un accesso al sistema informatico, giacché la casella non è altro che una porzione della complessa apparecchiatura -fisica e astratta- destinata alla memorizzazione delle informazioni.
Allorché questa porzione di memoria sia protetta -come nella specie, mediante l'apposizione di una password- in modo tale da rivelare la chiara volontà dell'utente di farne uno spazio a sé riservato, ogni accesso abusivo allo stesso concreta l'elemento materiale del reato di cui all'art. 615/ter cod. pen.. I sistemi informatici rappresentano, infatti, «un'espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita dall'art. 14 Cost. e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali dagli artt. 614 e 615» (Relazione al disegno di legge n. 2773, tradottosi poi nella L. 23.12.1993, n. 547).
Inaccettabile, pertanto, è l'equiparazione -fatta dalla difesa del ricorrente- della casella di posta elettronica alla "cassetta delle lettere" collocata nei pressi dell'abitazione, poiché detta "cassetta" non è affatto destinata a ricevere e custodire informazioni e non rappresenta una "espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto interessato", ma un contenitore fisico di elementi (cartacei e non) solo indirettamente riferibili alla persona.
Il secondo e il terzo motivo sono, pertanto, palesemente infondati.
3.
Allorché, in un sistema informatico pubblico (che serva, cioè, una Pubblica Amministrazione), siano attivate caselle di posta elettronica -protette da password personalizzate- a nome di uno specifico dipendente, quelle "caselle" rappresentano il domicilio informatico proprio del dipendente, sicché l'accesso abusivo alle stesse, da parte di chiunque (quindi, anche da parte del superiore gerarchico), integra il reato di cui all'art. 615/ter cod. pen., giacché l'apposizione dello sbarramento -avvenuto col consenso del titolare del sistema- dimostra che a quella "casella" è collegato uno ius excludendi, di cui anche i superiori devono tenere conto.
Dimostra anche che la casella rappresenta uno "spazio" a disposizione -in via esclusiva- della persona, sicché la sua invasione costituisce, al contempo, lesione della riservatezza. 

...
6.
Ba. si introdusse nella casella di posta elettronica di Mu. abusando dei poteri e in violazione dei doveri inerenti alla sua funzione.
L'aggravante di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio non presuppone necessariamente che il reato sia commesso in relazione al compimento di atti rientranti nella sfera di competenza del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, né l'attualità dell'esercizio della funzione o del servizio, ma è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia reso possibile o comunque facilitato la commissione del reato (Cass., n. 50586 del 13/12/2013; sez. 1, n. 24894 del 28/05/2009; sez. 2, n. 20870 del 30/04/2009; sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999; sez. 6, n. 9209 del 01/06/1988).
Di tanto è stato dato conto in sentenza, specificando che
Ba. si servì, per accedere alla casella di posta elettronica di Mu., di una password "generale" -che gli consentì di entrare in rete- e si avvalse della posizione di sovraordinazione -in cui si trovava rispetto al dipendente- per allontanarlo dall'ufficio ed effettuare le operazioni che gli premevano.
Tali elementi non rappresentano, quindi, "un presupposto del fatto" -come opinato dal ricorrente- ma elementi che hanno reso possibile l'accesso alla posta del dipendente e perciò rientrano nelle modalità dell'azione prese in considerazione dalla norma incriminatrice (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 31.03.2016 n. 13057).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Progetto di Variante normativa al Piano stralcio per l’assetto idrogeologico del bacino del fiume Po (PAI) - Primi chiarimenti in ordine alla disciplina normativa ed alle misure di salvaguardia applicabili alle aree individuate nell'ambito delle Mappe della pericolosità e del rischio di alluvioni del Piano di Gestione del rischio di Alluvioni del bacino del Po (PGRA) (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo - Difesa del Suolo, nota 07.04.2016 n. 3590 di prot.).
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Nell’ambito del progetto di Variante normativa al Piano stralcio per l’assetto idrogeologico del bacino del fiume Po (PAI), di cui è stata data comunicazione con lettera del 24 marzo u.s. a firma dell’Assessore al Territorio Urbanistica e Difesa del Suolo, finalizzato al raccordo e coordinamento tra il PAI stesso e il Piano di Gestione dei Rischi di Alluvioni (PGRA), l’Autorità di bacino del fiume Po ha redatto una nota, inviata alle Regioni territorialmente interessate e alla Provincia Autonoma di Trento, con la quale fornisce “Primi chiarimenti in ordine alla disciplina normativa ed alle misure di salvaguardia applicabili alle aree individuate nell'ambito delle Mappe della pericolosità e del rischio di alluvioni del Piano di Gestione del rischio di Alluvioni del bacino del Po”. (...continua).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al quesito sulla formazione specifica dei lavoratori (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 21.03.2016 n. 4/2016).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al quesito relativo all'applicazione dell'art. 28, comma 3-bis, del d.lgs. n. 81/2008 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 21.03.2016 n. 3/2016).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al quesito in merito all'art. 90, comm1 9 e 10, del d.lgs. n. 81/2008 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 21.03.2016 n. 1/2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 11.04.2016 n. 84 "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2014 e delle variazioni percentuali annuali, in aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento, relative all’anno 2015, ai fini della determinazione delle compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 31.03.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'11.04.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.03.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.04.2016 n. 53).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 07.04.2016, "Approvazione delle linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni in materia sismica (artt. 3, comma 1, e 13, comma 1, della l.r. 33/2015)" (deliberazione G.R. 30.03.2016 n. 5001).

SICUREZZA LAVORO: G.U.U.E. 31.03.2016 n. L 81 "REGOLAMENTO (UE) 2016/425 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 09.03.2016 sui dispositivi di protezione individuale e che abroga la direttiva 89/686/CEE del Consiglio".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Musone, Determinazione conclusiva e provvedimento finale della Conferenza di servizi (Giornale di diritto amministrativo n. 5/2015).
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Il TAR Latina valuta che, nell’attuale assetto normativo della Conferenza di Servizi, la determinazione finale della Conferenza rappresenta sia il momento terminale di questa, sia il provvedimento conclusivo del procedimento: quindi, la determinazione conclusiva, avendo valore provvedimentale e non più di atto endoprocedimentale, è dotata di immediata lesività e, come tale, è immediatamente impugnabile.

ATTI AMMINISTRATIVI: S. Screpanti, Il risarcimento del danno da ritardo procedimentale (Giornale di diritto amministrativo n. 3/2015).
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Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato condanna l’amministrazione al risarcimento del danno da ritardo per aver concluso una procedura concorsuale dopo undici anni. Il caso di specie offre lo spunto per approfondire il tema della responsabilità da ritardo procedimentale, sotto il profilo dei presupposti e dell’onere probatorio. Consente, inoltre, di ragionare sull’attuale configurazione della tutela risarcitoria del danno da ritardo, con particolare riguardo al dibattito sul c.d. giudizio di spettanza del bene finale. La vicenda in esame, conclusa in ventuno anni (undici per il procedimento e dieci per il contenzioso), suggerisce, infine, di riflettere sulla valenza del principio di tempestività dell’azione amministrativa e sul problema dell’effettività dei rimedi previsti dall’ordinamento contro le inerzie e i ritardi dell’amministrazione.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Magri, I concorsi e le assunzioni (Giornale di diritto amministrativo n. 3/2015).
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Specie negli ultimi anni, la giurisprudenza in tema di assunzioni nelle pubbliche amministrazioni si è dovuta confrontare con questioni interpretative nuove e delicate, emergenti per un verso dai rapidi mutamenti delle norme sul contenimento della spesa per il personale, che hanno richiesto una interpretazione adeguata alla loro evoluzione; per l’altro verso, da un allargamento della regola generale del concorso pubblico, la quale ha impegnato i giudici nella applicazione di tale principio costituzionale ad una realtà giuridica connotata dalla “convivenza” di molteplici categorie: idonei, stabilizzati, precari, soprannumerari, pensionati trattenutisi in servizio, i cui rapporti non sono vicendevolmente ben delimitati dalla legge. Proprio questa pluralità categoriale sembra da annoverarsi come l’elemento di spicco della materia delle assunzioni e giustifica una sempre più marcata tendenza al dialogo tra giurisdizioni nella fase costitutiva del rapporto di lavoro pubblico.

APPALTI: A. Grappelli, LA CERTIFICAZIONE DI QUALITÀ: È DA INTENDERSI COME REQUISITO DI IDONEITÀ TECNICO ORGANIZZATIVA DELL’IMPRESA AI FINI DEL RICORSO ALL’ISTITUTO DELL’AVVALIMENTO (Gazzetta Amministrativa n. 2/2015).
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Con il presente commento si affronta, il tema dell’avvalimento in rapporto con la certificazione di qualità; l’analisi scaturisce dalla sentenza n. 3949 del 24.07.2014 del Consiglio di Stato che conferma l’orientamento della V sezione, che in precedenza ha già avuto modo di intervenire evidenziando che la certificazione di qualità rientra tra i requisiti che valorizzano gli elementi di eccellenza dell’organizzazione complessiva dell’azienda. L’istituto dell’avvalimento pertanto deve essere applicato ricorrendo ad una interpretazione volta a garantire il più ampio potere operativo.
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Sommario: 1. L’evoluzione giurisprudenziale sul tema dell’avvalimento nell’ambito delle certificazioni di qualità; 2. Il dibattito e le diverse interpretazioni; 3. La sentenza del Consiglio di Stato n. 3949/2014; 4. Conclusioni.

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: P. Turco, IL DIRITTO DI ACCESSO ALLE INFORMAZIONI AMBIENTALI (Gazzetta Amministrativa n. 2/2015).
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Il diritto di accesso alle informazioni ambientali. Fonti: La Dichiarazione di principi dell’ambiente umano di Stoccolma del 1972 e la convenzione di Aarhus (Danimarca). Normativa Interna ed Europea. Interventi della giurisprudenza. Considerazioni conclusive.
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Sommario: 1. Il diritto di accesso alle informazioni ambientali: le Fonti. 2. Normativa Interna ed Europea. 3. Interventi della giurisprudenza. 4. Il d.lgs. 19.08.2005, n. 195. 5. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: T. Bonetti e A. Sau, La nullità del provvedimento amministrativo (Giornale di diritto amministrativo n. 2/2015).
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La categoria della nullità del provvedimento amministrativo è stata codificata in termini generali attraverso l’introduzione dell’art. 21-septies nel corpus della l. n. 241/1990. Pur trattandosi di un fenomeno quantitativamente marginale nell’ambito del diritto vivente, la giurisprudenza successiva alla novella del 2005 ha svolto una intensa opera di ricomposizione della trama ordinamentale nella prospettiva di definirne con maggiore precisione i contorni teorici ed applicativi. A fronte di una formulazione del dettato normativo che presenta diversi profili di criticità, però, permangono ancora alcune incertezze che investono il regime sostanziale e processuale applicabile al provvedimento nullo.

PUBBLICO IMPIEGO: S. Vinci, LA DIRIGENZA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: DISCIPLINA ATTUALE E PROSPETTIVE FUTURE (Gazzetta Amministrativa n. 1/2015).
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Il tema d’interesse della presente trattazione concerne la dirigenza delle pubbliche amministrazioni, in quanto colonna portante del sistema amministrativo italiano così come evolutosi fino a oggi. Volendo succintamente introdurre l’argomento, la “Dirigenza” può essere definita come quella quota di funzionari pubblici chiamati comporre l’“alta burocrazia pubblica” e come tali disciplinati dall’ordinamento dello Stato secondo una particolare normativa, predisposta proprio in ragione della funzione di vertice ricoperta all’interno degli uffici dell’amministrazione.
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Sommario: 1. Profili costituzionali della distinzione tra “indirizzo politico” e “gestione amministrativa”; 2. Profili legislativi della distinzione tra “indirizzo politico” e “gestione amministrativa”; 3. Funzioni della dirigenza amministrativa; 4. L’incarico dirigenziale; 5. Criteri per il conferimento dell’incarico; 6. Cenni sulla responsabilità dirigenziale; 7. Conclusioni e prospettive future per la dirigenza amministrativa pubblica.

AMBIENTE-ECOLOGIA: F. R. Marcacci Balestrazzi, L’ANALISI DEL PRINCIPIO DI “CHI INQUINA PAGA” RISPETTO AL PROPRIETARIO INCOLPEVOLE, ALLA LUCE DELLA RECENTE SENTENZA DELLA C.G.U.E., III, 04.03.2015, CAUSA C-534/2013, M.A.T.T.M. E ALTRI CONTRO FIPA GROUP S.R.L. E ALTRI (Gazzetta Amministrativa n. 1/2015).
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Esclusione della responsabilità oggettiva nel caso di danno ambientale commesso da un soggetto diverso dal proprietario. Applicazione ponderata del principio di “chi inquina paga”. Il proprietario incolpevole ha il solo obbligo di rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità amministrativa competente.
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Sommario: 1. Evoluzione storico-normativa del concetto di responsabilità civile per danno ambientale; 2. Novità introdotte dalla dir. 2004/35/CE del 21.04.2004; 3. Caso di specie e recente interpretazione della C.G.UE (marzo 2015).

APPALTI: S. Napolitano, INCERTEZZA DEL CONTENUTO DELL’OFFERTA: IL CASO DELLA MANCATA INDICAZIONE DEI COSTI DA INTERFERENZE E COSTI AZIENDALI (Gazzetta Amministrativa n. 1/2015).
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L’Adunanza Plenaria risolve il contrasto giurisprudenziale e si pronuncia sull’obbligo per un’impresa concorrente di indicare nell’offerta i costi aziendali anche se tale requisito non è specificato nel bando di gara.
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Sommario: 1. Le questioni oggetto dell’ordinanza di rimessione 2. Il contrasto giurisprudenziale. 3. L’Adunanza Plenaria del 20.03.2015, n. 3.

APPALTI: T. Molinaro, I LIMITI OGGETTIVI DI AMMISSIBILITÀ ALLE VARIANTI PROGETTUALI IN SEDE DI GARA (Gazzetta Amministrativa n. 1/2015).
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L’istituto delle varianti in sede di gara e i limiti di ammissibilità alla luce delle linee guida fissate dalla giurisprudenza.
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Sommario: 1. La disciplina del codice appalti 2. Limiti oggettivi di ammissibilità delle varianti in sede di gara 3. Differenze fra soluzioni migliorative e varianti in sede di offerta: sentenza del Consiglio di Stato del 09.09.2014, n. 4578.

APPALTI: M. Dell'Unto, CRITERI INTERPRETATIVI IN ORDINE ALLE DISPOSIZIONI DELL’ART. 38, CO. 2-BIS, E DELL’ART. 46, CO. 1-TER, DEL D.LGS. 12.04.2006, N. 163 (Gazzetta Amministrativa n. 1/2015).
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Le irregolarità negli appalti dopo le modifiche introdotte dal d.l. 24.6.2014 n. 90.
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Sommario: 1. Premessa. 2. Oneri dichiarativi e nuovo co. 2-bis dell’art. 38 del Codice. 2.1 Irregolarità essenziali degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al co. 2-bis dell’art. 38 del Codice stipula del contratto d’appalto - 2.2 applicazione della sanzione. 3. Nuovo soccorso istruttorio ex art. 46, co. 1-ter del Codice. 3.1 Impatto del “nuovo” soccorso istruttorio sulla disciplina delle cause tassative di esclusione. 3.2 Carenze ed irregolarità essenziali sanabili (e non). 3.2.1. Irregolarità concernenti gli adempimenti formali di partecipazione alla gara. 3.3 Altre irregolarità concernenti elementi e dichiarazioni che devono essere prodotte in base alla legge, al bando o al disciplinare.

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Firmata L'Ipotesi di ACQ per la definizione dei comparti e le nuove aree di contrattazione del pubblico impiego (CSA di Milano, nota 07.04.2016 n. 134/SN/csa16 di prot.)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Trattamento economico accessorio/Utilizzazione delle risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività/ E’ possibile, ai sensi dell’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, fare confluire nelle risorse decentrate di un determinato anno le economie derivanti dalla mancata erogazione nell’anno precedente di parte delle risorse stabili?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno precisare quanto segue.
L’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999 espressamente dispone: “Le somme non utilizzate o non attribuite con riferimento alle finalità del corrispondente esercizio finanziario sono portate in aumento delle risorse dell’anno successivo”.
Questa clausola contrattuale, quindi, consente di incrementare le risorse destinate al finanziamento della contrattazione integrativa di un determinato anno solo con quelle che, pure destinate alla medesima finalità nell’anno precedente, non sono state utilizzate in tale esercizio finanziario.
Pertanto, nell’ambito di applicazione del citato art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, rientrano gli importi delle risorse comunque definitivamente non attribuite o non utilizzate con riferimento alle finalità del corrispondente esercizio finanziario, come certificati dall’organo di controllo (non possono considerarsi tali le risorse per le quali, per qualunque ragione, anche di possibile contenzioso l’ente non abbia la certezza giuridica del definitivo mancato utilizzo).
Spetta al singolo ente, nella sua autonomia gestionale, verificare, sulla base delle previsioni del contratto integrativo già stipulato e con riferimento alle risorse dei vari istituti disciplinati, se effettivamente sussistano le condizioni per la concreta attuazione della disciplina dell’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999.
Si coglie l’occasione anche per ricordare che:
   a) l’incremento consentito dall’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, ha natura di incremento “una tantum”, consentito cioè solo nell’anno successivo a quello in cui le risorse disponibili non sono state utilizzate, e, comunque si traduce in una implementazione delle sole risorse variabili, che, come tali, non possono essere confermate o comunque stabilizzate negli anni successivi;
   b) per effetto della loro particolare natura solo risorse stabili non utilizzate né più utilizzabili in relazione agli anni di riferimento, possono incrementare le risorse destinate al finanziamento della contrattazione integrativa dell’anno successivo, come risorse variabili;
   c) relativamente alle risorse variabili, si deve ricordare che esse sono quelle che gli enti possono prevedere e quantificare, in relazione ad un determinato anno, previa valutazione della propria effettiva capacità di bilancio (nonché dei vincoli del rispetto del patto di stabilità interno e dell’obbligo di riduzione della spesa, per gli enti che vi sono tenuti).
Le fonti di alimentazione di tale tipologia di risorse sono espressamente indicate nell’art. 31, comma 3, del CCNL del 22.01.2004, che le finalizzano a specifici obiettivi a tal fine individuati (v. ad esempio, art. 15, commi 1 e 2, del CCNL dell’01.04.1999; risorse destinate alla progettazione; ecc.).
Sulla base delle fonti legittimanti, ogni determinazione in materia, comunque, è demandata alle autonome valutazioni dei singoli Enti, sia nell’“an” che nel “quantum”. Conseguentemente, in virtù della specifica finalizzazione annuale e della loro natura variabile (sia il loro stanziamento che l’entità delle stesse possono variare da un anno all’altro), le risorse di cui si tratta non possono né essere utilizzate per altri scopi, diversi da quelli prefissati, né, a maggior ragione essere trasportate sull’esercizio successivo in caso di non utilizzo nell’anno di riferimento.
Diversamente ritenendo, esse finirebbero sostanzialmente per “stabilizzarsi” nel tempo, in contrasto con la ratio della previsione del CCNL e con la specifica finalizzazione delle risorse stesse, che è alla base del loro stanziamento annuale;
   d) le risorse variabili, derivanti dal mancato utilizzo nell’anno di riferimento di risorse stabili, avendo caratteristiche diverse da quelle richiamate nella lett. c), ove effettivamente non utilizzate nell’anno seguente, possono esserlo, eventualmente, di fatto, anche in anni successivi o a distanza di tempo rispetto a quello in cui si è determinato il mancato utilizzo che le ha determinate;
   e) poiché trattasi di risorse variabili, una tantum, che, come sopra detti, non possono essere confermate o stabilizzate, l’avvenuti impiego delle stesse né esaurisce ogni ulteriore utilizzabilità;
   f) pertanto, alla luce di quanto detto, si ritiene che le risorse variabili derivanti da risorse stabili comunque, non utilizzate nel corso del 2014, valutate e computate secondo quanto sopra detto, possano essere riportate ed utilizzate anche per il finanziamento della contrattazione integrativa anche nel 2015.
Si ricorda, comunque, che non possono essere ricomprese bell’ambito applicativo dell’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, le risorse che espressamente la vigente legislazione vieta di destinare al finanziamento della contrattazione integrativa (ad es. i risparmi derivanti dall’applicazione della decurtazione del salario accessorio per i primi 10 giorni di malattia del lavoratore, ai sensi dell’art. 71 della legge n. 133/2008; i risparmi derivanti dall’applicazione dell’art. 9 del D.L. n. 78/2010, come la mancata valorizzazione economica delle progressioni economiche, utili solo a fini giuridici e previdenziali; ecc.).
Infine, poiché le risorse variabili di cui si tratta hanno carattere di variabilità e non possono essere consolidate, le stesse non possono essere utilizzate per il finanziamento di istituti del trattamento economico accessorio che richiedono solo risorse stabili (progressioni economiche; posizioni organizzative; ecc.) (
parere 03.03.2016 n. RAL-1830 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Accessori, recupero impossibile per le somme non attribuite. Personale. Per l’Aran le valutazioni negative tagliano le risorse disponibili.
I risparmi sul trattamento economico accessorio derivanti dal mancato raggiungimento degli obiettivi non possono essere utilizzati per l’incentivazione del personale.
Questo principio si applica alle risorse aggiuntive inserite nei fondi: a fissare questi principi è il parere 03.03.2016 n. RAL-1826 del'Aran.
Il divieto deriva direttamente dal carattere mirato che ha l’inserimento di queste risorse nel fondo, per cui la loro disponibilità non accresce tout court le somme disponibili per la contrattazione decentrata, ma è finalizzata unicamente alla remunerazione del personale impegnato nel perseguimento di questi obiettivi.
È questo il punto di maggiore rilievo su cui l’Aran richiama l’attenzione degli operatori: non si possono fare restare nei fondi, e quindi mettere a disposizione del personale, risorse che non sono state ripartite a seguito di una valutazione non positiva.
Di conseguenza, nel fondo dell’anno successivo non possono essere riportati i risparmi che derivano dalle voci di parte variabile non utilizzate: questa mancata integrale utilizzazione è infatti direttamente connessa a una valutazione non positiva sulle attività svolte. Nel fondo dell’anno successivo vanno inserite solamente le risorse che derivano dalla mancata integrale utilizzazione della parte stabile del fondo, quindi da risorse che sono naturalmente di spettanza del personale e che possono essere utilizzate per tutte le forme di incentivazione e non unicamente per remunerare la performance.
Occorre ricordare, si legge nel parere, che questo divieto riguarda i risparmi derivanti dalla mancata integrale applicazione sia del comma 2 sia del comma 5 dell’articolo 15 del contratto nazionale del 22.01.2004. La prima di queste disposizioni consente l’aumento della parte variabile del fondo fino allo 1,2% del monte salari 1997 a fronte di risparmi conseguiti a seguito di misure di razionalizzazione organizzativa o della destinazione a specifici obiettivi di produttività e qualità dei servizi.
La seconda consente l’aumento della parte variabile del fondo per finanziare il salario accessorio del personale impegnato nella realizzazione di nuovi servizi o nel miglioramento o ampliamento dei servizi esistenti. Non c’è in questo caso un tetto specifico, ma questo va determinato dalle singole amministrazioni in relazione all’impegno aggiuntivo richiesto al personale e all’importanza del servizio di nuova istituzione o oggetto dell’ampliamento.
In questo modo si dà corso all’estensione al personale del comparto di principi dettati per i dirigenti, parere Aran 18248 dell’aprile del 2015: con quella pronuncia è stato chiarito che le risorse non erogate come indennità di risultato a seguito del mancato o parziale raggiungimento degli obiettivi assegnati, in deroga alle previsioni del contratto nazionale del 23.12.1999, non vanno a incrementare il fondo per la retribuzione di risultato della dirigenza dell’anno successivo.
In questi casi infatti non si verifica una condizione di «impossibilità di utilizzo delle risorse», ma si tratta di un modo attraverso cui evitare che le risorse non attribuite ai dirigenti per il mancato raggiungimento degli obiettivi, quindi a seguito di una valutazione negativa o quanto meno non interamente positiva, rimangano nella loro disponibilità, con effetti che devono essere definiti come, per lo meno, paradossali
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Trattamento economico accessorio/Utilizzazione delle risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività/Indicazioni generali/ Nel caso di risorse che sono disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo raggiungimento degli obiettivi di performance organizzativa, ai quali l’incremento è stato correlato, cosa accade alle stesse se non sono raggiunti gli obiettivi di performance? Sono economie o possono essere rinviate all’esercizio successivo?
In ordine a tale problematica, si rende necessario comprendere a che tipologia di risorse si fa riferimento.
Ove le risorse di cui si tratta siano quelle variabili derivanti dall’applicazione dell’art. 15, comma 5, o del 15, comma 2, del CCNL dell’01.04.1999 (come sembrerebbe emergere dal formulazione del quesito che fa riferimento a “risorse che sono disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli obiettivi…”), esse , in caso di ridotto o mancato raggiungimento degli obiettivi di performance, sulla base della relazione della performance, che ne hanno giustificato l’apposizione, costituiscono economie e, quindi, non possono essere trasportate sull’esercizio successivo (
parere 03.03.2016 n. RAL-1826 - link a www.aranagenzia.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Revisori-politici, sì ai compensi. Non rileva fare il sindaco o consigliere in altro comune. La Corte dei conti sezione autonomie corrobora la tesi sempre sostenuta da Ancrel.
L'avevamo già scritto in queste pagine un anno fa (ItaliaOggi del 10.04.2015) che il compenso al revisore che opera in un comune spetta in ogni caso anche se lo stesso ricopre l'incarico di consigliere comunale o sindaco in altro comune.

Ci ha dato ragione la Corte dei conti del Veneto alla fine del 2015 ed ora conferma la nostra tesi anche la Corte dei conti sezione autonomie.
Ma cosa era successo?
Sull'applicazione dell'art. 5, comma 5, del dl 78/2010, la Corte dei conti della Lombardia nel 2010 e nel 2012 con le delibere n. 199/2010/PAR e n. 257/2012/PAR aveva ricompreso, tra i soggetti interessati al provvedimento, anche i revisori dei conti dei comuni ritenendo che l'interpretazione corretta era quella letterale della norma ovvero che al revisore dell'ente locale, titolare di carica elettiva presso un altro ente, non può spettare alcun compenso se non il rimborso delle spese sostenute e un gettone di presenza di massimo 30 euro, anche nel caso in cui il revisore dei conti rinunci al compenso da consigliere comunale. Si erano espresse in tal senso anche altre Corti, quali quelle della Puglia, della Campania e dell'Emilia-Romagna, anche se con diverse argomentazioni.
La stessa Corte della Lombardia era tornata ancora una volta sull'argomento il 04.02.2015 con la delibera n. 38/2015/PAR rispondendo al sindaco del Comune di Chiari, in provincia di Brescia, ribadendo il concetto che «la norma trova applicazione al titolare di cariche elettive che svolga qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni» pertanto, sosteneva la Corte, «al soggetto che è titolare di carica elettiva è preclusa la possibilità di percepire emolumenti per lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni, salva la possibilità di richiedere un rimborso spese delle spese sostenute, nonché eventuali gettoni di presenza che non possono superare l'importo di 30 euro a seduta». La Corte concludeva richiamando le sue precedenti delibere che definivano tale disposizione un «vincolo di finanza pubblica».
Prima della nota del Ministero dell'interno del 5 novembre scorso, con la quale si specificava che «il divieto del cumulo degli emolumenti, preso atto che la finalità perseguita dal legislatore è la riduzione del costo degli apparati politici, deve ritenersi limitato ai costi e alle spese necessarie per l'esercizio degli incarichi conferiti all'amministrazione in relazione alla carica elettiva e quindi all'esercizio del minus pubblico», si era già espresso anche il Ministero dell'economia e delle finanze, con una circolare del 2011, dichiarando che «va tenuto conto che il rapporto che si instaura tra l'ente e i componenti dei collegi dei revisori dei conti e sindacali può essere assimilato a un rapporto di natura contrattuale che mai si concilia con la gratuità dell'incarico, in quanto l'attività svolta dai predetti revisori e sindaci, di natura prettamente tecnica, è una prestazione d'opera a cui normalmente corrisponde una prestazione economica».
Su questa base interpretativa si era fondata la delibera 569/2015/QMIG del 16.12.2015 della Corte dei Conti del Veneto, che, dopo un articolata spiegazione del concetto «di attività professionale», era giunta alla conclusione che detta attività del revisore aveva prevalenza rispetto al ruolo istituzionale, ritenendo peraltro discriminante, diversamente, l'attività del revisore con cariche elettive rispetto al revisore senza incarichi, ancorché svolgente la medesima attività sul piano tecnico.
La Corte veneziana, però, pronunciandosi in maniera opposta rispetto alle altre Corti regionali e non potendo cassare tali tesi già espresse da organismi di pari grado, rimandava il tutto alla definitiva interpretazione della norma da parte della Corte centrale sezione autonomie, la quale con la deliberazione 31.03.2016 n. 11 sanciva che «in forza di un'interpretazione sistematica che tenga conto della norma di interpretazione autentica di cui all'art. 35, comma 2-bis, dl 09.02.2012, n. 5 (convertito dalla legge 04.04.2012, n. 35) è possibile configurare una eccezione al principio di tendenziale gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni ai titolari di cariche elettive. Tale eccezione è da intendersi riferibile alla sola tipologia di incarichi obbligatori ex lege espressamente indicati dalla predetta norma (collegi dei revisori dei conti e sindacali e revisori dei conti). Il revisore dei conti di un comune, nominato successivamente sia all'entrata in vigore dell'art. 5, comma 5, del dl n. 78/2010 sia al nuovo sistema di nomina dell'organo di revisione degli enti locali, ha diritto di percepire il compenso professionale ai sensi dell'art. 241 del Tuel, nel caso in cui sia consigliere comunale in altra provincia».
La delibera segna un passo importante.
Sì, segna un passo importante per due ragioni: la prima è che accogliendo la tesi della Corte dei conti del Veneto, la Sezione autonomie smentisce interpretazioni ripetute negli ultimi quattro anni, in senso opposto, da parte di altre Corti e in particolare quella della Corte della Lombardia, che fino a febbraio dello scorso anno sosteneva la tesi che non era dovuto il compenso al revisore, se non un gettone di presenza di massimo 30 euro oltre al rimborso delle spese. La seconda, è che finalmente si definisce da parte del Mef prima e della Corte dei Conti poi, che l'attività del revisore dei conti dell'ente locale è un'attività professionale e che non ha niente a che fare con le cosi dette «spese per la politica».
Non si comprende perché, invece, sempre la stessa Sezione autonomie della Corte abbia confermato il 14.09.2015 con la delibera n. 29/SEZAUT/2015/QMIG, il taglio del 10% del compenso spettante al revisore, sempre introdotto con il dl 78/2010, in quanto rientrante tra i soggetti destinatari ovvero tra i «gli organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli di amministrazione e organi collegiali comunque denominati e ai titolari di incarichi di qualsiasi tipo» quando definisce ora nella sua recente delibera, il compenso del revisore come «professionale» e proveniente da nomina «ex lege», quindi non dipendente da volontà individuali.
È chiaro che c'è una contraddizione. Se il compenso, come dice il Ministero dell'interno, non rientra tra i cosi detti «costi per gli apparati politici», perché deve subire il taglio del 10%? (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).

PATRIMONIO: Sulla possibilità -o meno- di destinare fondi comunali ad interventi su beni di proprietà provinciale.
E' evidente che l’amministrazione comunale sia interessata al fatto che la rete viaria esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela delle esigenze e della sicurezza della collettività locale, sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti proprietari.
In situazione peculiari,
qualora sia accertata l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe comunque trovare puntuale giustificazione nella dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse della comunità locale.

D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie, ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni pubbliche.

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Con la nota pervenuta in data 05.02.2016 il Sindaco del Comune di Zubiena (BI) ha rivolto alla Sezione una richiesta di parere in ordine alla questione inerente la possibilità di effettuare interventi destinati a strade provinciali.
In particolare l’istante formula un quesito circa la possibilità per il Comune di intervenire con proprie risorse di bilancio per far fronte ad interventi su strade provinciali.
Precisa di aver ricevuto sollecitazione a tale tipo di intervento dalla locale amministrazione provinciale e da rappresentanti della minoranza consiliare, ma di non avere ancora posto in essere alcuna iniziativa.
...
Il quesito formulato attiene sotto un aspetto generale alla tematica della possibile destinazione di fondi comunali ad interventi su beni di proprietà di un soggetto giuridico diverso, trattandosi nella fattispecie delineata dall’istante di strade appartenenti all’ente Provincia.
Va al proposito evidenziato che
qualunque genere di intervento economico dell’amministrazione comunale, per potersi eventualmente qualificare in termini di legittimità della sottostante azione, deve necessariamente sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il Comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, co. 2, d.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità.
Al riguardo va osservato che la giurisprudenza contabile, nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha avuto modo di elaborare da tempo il principio generale per cui
se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (come tali generalmente ammissibili) l’erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Corte conti, sez. contr. Lombardia, 29.06.2006, n. 9, sez. controllo Lombardia 13.12.2007 n. 59, sez. controllo Lombardia 05.06.2008 n. 39).
Inoltre anche in ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale o comunque del beneficiario dell’intervento del Comune, la medesima giurisprudenza ha precisato che
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge di disciplina del procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico (Corte conti, sez. contr. Lombardia, 13.01.2010 n. 1; id. 31.05.2012 n. 262; Corte conti, sez. contr. Piemonte, 19.02.2014 n. 36).
E’ stato altresì precisato che
ogniqualvolta l’amministrazione ricorre a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale ovviamente le cautele debbono essere maggiori –rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici- anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte conti, sez. contr. Lombardia, 11.09.2015 n. 279).
Dunque
sotto tale profilo il baricentro dell’attenzione circa il corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai attestato in correlazione con l’effettiva realizzazione di un interesse pubblico (riferibile all’ente interessato) a prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale.
Occorre al riguardo evidenziare che
il Comune è tenuto in via generale a realizzare gli interessi della collettività locale e secondo l’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000 esercita tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico.
Sotto un profilo specifico inerente la gestione della rete stradale inoltre, ai sensi dell’art. 14 del Codice della strada, va rammentato che il comune è chiamato, quale ente proprietario delle strade a provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione.
La suddetta regola del resto è altresì contenuta nell’art. 39 della legge 20.03.1865 n. 2248 –allegato F- legge sui lavori pubblici che pone infatti a carico dei comuni gli oneri di “costruzione, sistemazione e mantenimento” delle strade comunali così come specularmente l’art. 37 pone a carico delle province i medesimi oneri relativi alle strade provinciali.
Al riguardo non può non rilevarsi che
l’ordine delle competenze di ciascun ente pubblico è fissato in via tassativa della legge, sicché non è arbitrariamente alterabile dal singolo ente pena l’indebita invasione di competenze altrui.
Va tuttavia osservato che nell’ambito del territorio comunale di norma esistono una pluralità di strade appartenenti anche ad altri enti pubblici ovvero lo Stato, la Regione o la provincia secondo le previsioni del codice stradale.
In siffatto contesto
è evidente che l’amministrazione comunale sia interessata al fatto che la rete viaria esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela delle esigenze e della sicurezza della collettività locale, sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti proprietari.
In situazione peculiari,
qualora sia accertata l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe comunque trovare puntuale giustificazione nella dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse della comunità locale.

D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie, ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni pubbliche.
Entro il sopra delineato quadro complessivo l’amministrazione comunale dovrà pertanto procedere ad effettuare le valutazioni discrezionali di propria spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 24.03.2016 n. 29).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte conti Sicilia. Le divise dei vigili con i proventi delle multe.
I comuni possono destinare quote dei proventi derivanti dalle sanzioni per violazioni al codice della strada per l'acquisto delle divise del corpo di polizia locale e degli ausiliari del traffico. Infatti, la nozione di «attrezzature» indicata dal legislatore nella norma sopra richiamata, ben si presta a individuare il vestiario dei vigili che, in forza del potenziamento del servizio, è sottoposto a una usura nel tempo oltre che a un incremento del relativo fabbisogno.

È quanto ha precisato la Sez. regionale di controllo della Corte dei Conti per la Regione Siciliana, nel testo del parere 22.03.2016 n. 74 con cui si forniscono ulteriori spunti sugli interventi ammissibili grazie ai proventi che le amministrazioni comunali incassano dalle violazioni al codice della strada.
La Corte ha ritenuto che, nella nozione di «attrezzature», possa rientrare anche il vestiario del personale addetto alla vigilanza e al rispetto della circolazione stradale. Se la volontà del legislatore è quella di potenziare il rispetto delle norme sulla circolazione, si deve, di conseguenza, tenere conto che il maggior impegno della polizia municipale comporterà, nel tempo, una ricaduta, in termini di maggiore usura, delle dotazioni in capo al personale di polizia urbana, tra cui le divise d'ordinanza.
Il perseguimento degli obiettivi del legislatore, ovvero il potenziamento del controllo sulle strade, può dunque essere perseguito anche con l'acquisto del vestiario del personale impegnato (articolo ItaliaOggi del 09.04.2016).

INCENTIVO PROGETTAZIONENel periodo intercorrente tra l'entrata in vigore dell'art. 13-bis, 1° comma, del d.l. n. 90/2014 come convertito con la legge n. 14/2014 (agosto 2014) e l'entrata in vigore del regolamento comunale di disciplina del fondo di progettazione (dicembre 2015, nella fattispecie), sorge l’astratta pretesa alla corresponsione del suddetto incentivo, nel rispetto dei limiti sopra ricordati, ma la stessa si concretizza solo a seguito dell’entrata in vigore del regolamento stesso.
Fermo il criterio discretivo relativo alla disciplina intertemporale applicabile sancito dalla deliberazione 24.03.2015 n. 11 della Sezione delle Autonomie,
la concreta quantificazione dell’incentivo in analisi è, dunque, rimessa al potere regolamentare del comune, con la conseguenza che rientra nella valutazione discrezionale di quest’ultimo se applicare, nella concreta attività di quantificazione dell’incentivo, i criteri adottati nel regolamento da ultimo adottato o prevedere una specifica disciplina transitoria.

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Il Sindaco del Comune di Magenta (MI) ha formulato una richiesta di parere in materia di corretta applicazione dell’art. 93, comma 7-bis, del dlgs. n. 163/2006.
Dopo aver ricordato l’evoluzione subita dalla ora richiamata disposizione, a seguito della novella recata dall’art. 13-bis, comma 1, del d.l. n. 90/2014 (convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014) e aver premesso che il Comune di Magenta si è dotato del regolamento previsto dalla norma de qua nel mese di dicembre 2015, ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
1) “è possibile corrispondere l'incentivo per l’attività̀ di progettazione e direzione lavori svolta dai dipendenti comunali interessati nel periodo dall'entrata in vigore dell'art. 13-bis, 1° comma, del d.l. nr. 90/2014 come convertito con la legge nr. 14/2014 (agosto 2014) e fino all'entrata in vigore del regolamento comunale di disciplina del fondo di progettazione (dicembre 2015)?
2) “In caso positivo qual è la disciplina regolamentare applicabile? Quella del vecchio regime dell'incentivo o è possibile introdurre nel nuovo regolamento una disposizione regolativa dell'attività̀ svolta nel predetto periodo?
...
2. Nel merito i quesiti posti dal Comune istante vertono sulla corretta applicazione dell’art. 93, comma 7-bis, del dlgs. n. 163/2006, come modificato dall’art. 13-bis, comma 1, del d.l. n. 90/2014 (convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014).
La disposizione in parola, come noto, prevede che “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare”. La disposizione è stata già oggetto di ampia esegesi da parte di questa Sezione, in particolare nel parere 05.05.2015 n. 191, a cui si rinvia per l’inquadramento generale della stessa e per l’esame delle novità recate dalla novella del 2014 sopra ricordata.
Per quanto qui maggiormente interessa giova ricordare come nella deliberazione ora richiamata, che sul punto fa proprie le conclusioni a cui era pervenuta il precedente
parere 13.11.2014 n. 300 di questa Sezione sulla scorta dell’autorevole insegnamento della Sezione delle Autonomie (deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG), è stato fissato il principio secondo cui “il diritto all’incentivo [ex art. 93, comma 7-bis, del dlgs. n. 163/2006] deve essere corrisposto sulla base della normativa vigente al momento in cui questo è sorto”. Ciò in quanto, come chiarito dalla Corte di Cassazione (Cass. Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004), esso costituisce “un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso”.
Va, altresì, preliminarmente ricordato come sia stato già affrontata anche la questione relativa alla fissazione del criterio per individuare le attività di progettazione, rilevanti ai fini del riconoscimento dell’incentivo in questione in base alla disciplina più recente, riconoscendosi che “
la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, non sarebbe, da ricercarsi nel momento in cui l’attività incentivata viene compiuta ... e neppure nel momento in cui la prestazione resa viene remunerata, bensì nel momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento” (deliberazione 24.03.2015 n. 11 Sezione delle Autonomie, da ultimo in questo senso Sez. reg. di controllo per il Veneto parere 17.12.2015 n. 568).
2.1. Alla luce dei principi ora richiamati, è possibile rispondere ai quesiti posti dal Comune istante.
E’ evidente, in relazione al quesito sub 1), come la pretesa alla corresponsione dell’incentivo in esame, relativo alle eventuali opere approvate successivamente all’entrata in vigore della disposizione novellata, trovi la sua fonte prima in quest’ultima disposizione, con la conseguenza che la mancata adozione del regolamento comunale non possa essere considerata ex se ostativa al successivo riconoscimento della suddetta pretesa o giustificare una sorta di reviviscenza della previgente disciplina.
Il regolamento, infatti, nell’ottica della disposizione in esame, è volto a fissare in concreto l’ammontare del complessivo fondo incentivante, in misura, comunque, non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro, tenendo, altresì, conto dell'entità e della complessità dell'opera da realizzare.
Attraverso l’attribuzione del potere di adottare il suddetto regolamento, è stata rimessa dal Legislatore alla discrezionalità del singolo Ente la valutazione sull’an del riconoscimento dell’incentivo in analisi, nonché sul quantum, ovvero sulla quantificazione in concreto dell’incentivo stesso, nel rispetto dei parametri legislativamente fissati (su cui cfr.
parere 01.10.2014 n. 247 di questa Sezione).
2.2. Ne deriva, dunque, che
nel periodo intercorrente tra l'entrata in vigore dell'art. 13-bis, 1° comma, del d.l. n. 90/2014 come convertito con la legge n. 14/2014 (agosto 2014) e l'entrata in vigore del regolamento comunale di disciplina del fondo di progettazione (dicembre 2015), sorge l’astratta pretesa alla corresponsione del suddetto incentivo, nel rispetto dei limiti sopra ricordati, ma la stessa si concretizza solo a seguito dell’entrata in vigore del regolamento stesso.
Fermo il criterio discretivo relativo alla disciplina intertemporale applicabile sancito dalla deliberazione 24.03.2015 n. 11 della Sezione delle Autonomie sopra richiamato,
la concreta quantificazione dell’incentivo in analisi è, dunque, rimessa al potere regolamentare del comune, con la conseguenza che, in relazione allo specifico quesito sub 2) posto dall’Ente istante, rientra nella valutazione discrezionale di quest’ultimo se applicare, nella concreta attività di quantificazione dell’incentivo, i criteri adottati nel regolamento da ultimo adottato o prevedere una specifica disciplina transitoria (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 04.03.2016 n. 69).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorso pubblico. Applicazione art. 35, comma 3-bis, d.lgs. 165/2001.
L'art. 35, comma 3-bis, del d.lgs.165/2001, prevede la possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di bandire concorsi per titoli ed esami finalizzati a valorizzare, con l'attribuzione di apposito punteggio, l'esperienza professionale maturata da personale che abbia maturato almeno tre anni di servizio, con rapporto di lavoro a tempo determinato, nello stesso ente che bandisce il concorso.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine all'espletamento di una procedura concorsuale finalizzata all'assunzione a tempo indeterminato di 'istruttore amministrativo, categoria C. In particolare, l'Amministrazione istante si è posta la questione relativa alla correttezza di prevedere l'attribuzione di un punteggio specifico ai candidati in possesso di almeno tre anni di lavoro subordinato a tempo determinato presso lo stesso Ente, nell'ultimo quinquennio, a mente di quanto disposto dall'art. 35, comma 3-bis, del d.lgs. 165/2001.
E' doveroso evidenziare che la richiamata norma richiama, ai fini applicativi, innanzitutto la sussistenza di definiti presupposti, in dettaglio elencati. Infatti, stabilisce che le amministrazioni pubbliche, nel rispetto della programmazione triennale del fabbisogno di personale, nonché del limite massimo complessivo del 50 per cento delle risorse finanziarie disponibili ai sensi della normativa vigente in materia di assunzioni ovvero di contenimento della spesa di personale, secondo i rispettivi regimi limitativi fissati dai documenti di finanza pubblica, possono avviare procedure di reclutamento mediante concorso pubblico, con determinate caratteristiche.
Più precisamente può essere prevista una riserva di posti, nel limite massimo del 40 per cento di quelli banditi, a favore dei titolari di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato che, alla data di pubblicazione dei bandi, abbiano maturato almeno tre anni di servizio alle dipendenze delle amministrazioni che emanano il bando.
Inoltre, in alternativa, si possono bandire concorsi per titoli ed esami finalizzati a valorizzare, con l'attribuzione di apposito punteggio, l'esperienza professionale maturata dal personale sopra individuato, e da coloro che, alla data di emanazione del bando, abbiano maturato almeno tre anni di contratto di collaborazione coordinata e continuativa nelle amministrazioni che bandiscono il concorso.
La Corte dei conti
[1] ha rilevato come la previsione di cui al citato comma 3-bis dell'articolo 35 del d.lgs. 165/2001 sia finalizzata a contemperare l'esigenza di stabilizzazione del personale precario degli enti con il principio generale di accesso ai pubblici impieghi mediante concorso, contenuto nell'articolo 97 della Costituzione.
E' da notare che il comma 3-ter dell'articolo 35 in esame fa rinvio ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottarsi entro il 31.01.2013
[2], con cui sono definiti in dettaglio le modalità e i criteri applicativi del comma 3-bis e la disciplina della riserva di posti, come prevista, in rapporto ad altre categorie riservatarie. Nel contempo si sancisce, ad ogni buon conto, che le dettate disposizioni normative costituiscono principi generali a cui devono conformarsi tutte le amministrazioni pubbliche [3].
In ordine alla possibile, attuale, applicabilità di quanto disposto dall'art. 35, comma 3-bis, del d.lgs. 165/2001, indipendentemente dall'adozione del d.p.c.m richiamato dalla medesima disposizione, fanno propendere anche le indicazioni fornite a suo tempo dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica
[4], che ha sottolineato come la norma in argomento, in tema di reclutamento speciale a regime, sia volta al superamento del precariato. Le procedure concorsuali pubbliche, ivi previste, sono aperte a tutti coloro che risultano in possesso dei requisiti prescritti per l'accesso alla qualifica per cui il concorso viene bandito. Detti requisiti, quindi, compreso il titolo di studio, devono essere posseduti dai soggetti indicati alle lettere a) e b) del comma 3-bis, come sopra specificati.
In alternativa alle procedure di cui alla lett. a)
[5] del comma 3-bis -precisa il Dipartimento- si possono espletare concorsi pubblici, per titoli ed esami, nei quali, attraverso la valutazione dei titoli -e ciò vale per la fattispecie prospettata- può essere dato diverso rilievo alla tipologia del contratto di lavoro (tempo determinato o co.co.co.) e all'anzianità maturata.
Pertanto, non si rinvengono motivi ostativi all'applicazione della disposizione in argomento, ricorrendone tutti i presupposti, fermo restando il rigoroso rispetto del limite massimo complessivo, imposto dal legislatore, riferito alle risorse finanziarie disponibili per le assunzioni.
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[1] Cfr. sez. reg. di controllo per l'Emilia-Romagna, deliberazione n. 259/2013/PAR.
[2] Decreto che, a tutt'oggi, non risulta essere stato adottato.
[3] L'art. 12, comma 2, della l.r. 19/2003 dispone espressamente che le assunzioni del personale sono effettuate, dalle aziende pubbliche di servizi alla persona, nel rispetto dei principi generali in materia di accesso al pubblico impiego.
[4] Cfr. circolare n. 5/2013, punto 3 (Reclutamento ordinario e reclutamento speciale).
[5] Riserva di posti
(12.04.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglio in stile libero. Dal presidente le indicazioni. Condivise. Così l'organizzazione delle sedute in assenza di un regolamento.
Se l'ente locale non è dotato di regolamento per il funzionamento del consiglio comunale e lo statuto non reca indicazioni circa le modalità di verbalizzazione delle sedute di consiglio, qual è la corretta modalità per provvedere a tale adempimento?
È possibile supplire a tale carenza procedendo alla registrazione e alla trascrizione integrale della discussione, nonché alla pubblicazione della stessa sull'albo pretorio online e sul sito web istituzionale del Comune?

L'adozione del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale è riservata, ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, all'autonomia dell'ente.
Tale strumento, da adottare nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è necessario per il corretto funzionamento del consiglio, proprio per l'ampia serie di istituti da regolamentare, e per il superamento della disciplina transitoria prevista dall'art. 273, comma 6, del Tuoel.
Nelle more di una disciplina autonoma, il Tar Lazio, I sez. con sentenza 10.10.1991, n. 1703, ha stabilito che «il verbale non attiene al procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona con la proclamazione del risultato della votazione, ma assolve ad una funzione di mera certificazione dell'attività dell'organo deliberante».
Tale strumento «ha l'onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto «iter» di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l'eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse. D'altra parte deve aggiungersi che il verbale della seduta di un organo collegiale, quale il consiglio comunale, costituisce atto pubblico che fa fede fino a querela di falso dei fatti in esso attestati» (Conforme Consiglio di stato, sez. IV, 25/07/2001, n. 4074).
Fermo restando che la «cura delle verbalizzazioni» delle sedute del consiglio e della giunta sono riservate, ai sensi dell'art. 97, comma 4, del citato decreto legislativo n. 267/2000, direttamente al segretario comunale, va rilevato che il presidente del consiglio comunale, in base all'articolo 39 del citato decreto legislativo, ha poteri di convocazione nonché di direzione dei lavori e delle attività del consiglio, che potrebbero comportare la possibilità di fornire istruzioni, opportunamente condivise dal consiglio comunale, in merito all'adempimento di cui trattasi (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ È legittimo il rifiuto, da parte di un consigliere comunale anziano, di controfirmare delle deliberazioni consiliari dopo aver regolarmente sottoscritto i verbali delle relative sedute?
L'articolo 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, dispone che «il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento», mentre il comma 3 prevede che «i consigli sono dotati di autonomia funzionale e organizzativa».
Nessuna particolare indicazione è contenuta nel citato decreto legislativo in ordine alla sottoscrizione delle deliberazioni, essendo invece prevista, all'art. 124 la sola obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all'albo pretorio.
È, pertanto, necessario fare riferimento alle disposizioni interne di cui l'ente si è dotato, in virtù proprio del rinvio operato dal citato art. 38, nonché alle disposizioni di carattere generale.
Nel caso di specie, lo statuto comunale demanda la sottoscrizione del verbale di riunione di consiglio al segretario comunale, al sindaco ed al consigliere anziano, soggetti che devono sottoscrivere anche le deliberazioni comunali.
Il regolamento consiliare, inoltre, ribadisce che il verbale delle adunanze è firmato dal presidente, dal consigliere anziano e dal segretario comunale. Lo stesso regolamento non contiene alcuna norma che disciplini la sottoscrizione delle deliberazioni; tuttavia, l'obbligo di firma delle deliberazioni anche da parte del consigliere anziano scaturisce proprio dallo statuto comunale che dispone testualmente che le deliberazioni del consiglio comunale sottoscritte dai soggetti tra i quali rientra anche il consigliere anziano.
La sottoscrizione del provvedimento deliberativo, ai fini della pubblicazione, assume, invece, una mera funzione certificativa della regolarità formale dell'atto (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per l'assistenza ex 104 anche in caso di ricovero. Ma è necessario che i medici ne certifichino la necessità.
Domanda
Usufruisco della legge 104/1992 in quanto mio fratello è disabile e i nostri genitori sono deceduti. Mio fratello ha dovuto subire un ricovero ospedaliero e a scuola mi hanno detto che se è ricoverato non posso più usufruire dei tre giorni di permesso mensili. Il che mi rende ancora più difficile assisterlo.
Risposta
Quanto le hanno detto a scuola (spero non sia stato il dirigente scolastico o il direttore dei servizi generali e amministrativi) non è supportato da alcuna disposizione di legge o di contratto.
Le norme in vigore in materia di permessi per assistere un parente disabile sono principalmente l'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992, l'articolo 15, comma 6, del CCNL scuola 2007, oltre ad alcune circolari Inps quale ad esempio la n. 90 del 23.05.2007.
Dall'esame delle predette norme si ricava chiaramente che il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per assistere un parente disabile in stato di gravità viene meno solo se la persona handicappata sia ricoverata a tempo pieno in una struttura sia pubblica che privata (non rientra in tale fattispecie un semplice ricovero ospedaliero anche se di non breve durata).
Stando inoltre a quanto si legge nella citata circolare Inps n. 90/2007, il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile permane anche in caso di ricovero a tempo pieno qualora i sanitari della struttura attestino il bisogno di assistenza da parte di un parente che ne abbia titolo (articolo ItaliaOggi del 05.04.2016).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOLa rivincita dell'architetto licenziato ventuno anni fa. Stazzema, condannato il Comune: «Deve essere reintegrato». 
L'architetto Baldo Chioran Walter compirà 57 anni a giugno. E finalmente potrà essere assunto dal Comune di Stazzema, dopo un periodo di prova di un anno sostenuto nel lontano 1994.
Ci sono voluti 21 anni perché la Giustizia italiana stabilisse che quel posto fisso gli spettava, che non doveva essere mandato a casa. «E vero, sono più vicino alla pensione -riconosce sorridendo-. Ma i magistrati hanno deciso il reintegro e io sono pronto a iniziare il lavoro che mi spetta».
L'architetto Chioran spiega che, in questi vent'anni d'attesa, «non è stato facile andare avanti, ci sono stati alti e bassi, molti progetti di vita sono saltati». Ma adesso non è facile neppure per il Comune, tremila abitanti divisi in 17 frazioni nelle montagne dell'Alta Versilia, e per l'attuale sindaco, Maurizio Verona: «E una sentenza che comporterà un esborso considerevole e a farne le spese saranno i cittadini e i sei vizi comunali. E evidente che ci fu un errore e c'è un danno subito, ma è altrettanto evidente che non deve essere l'ente locale ad affrontare il risarcimento dopo tutto questo tempo».
Insomma, è colpa della lentezza dello Stato e allora se ne faccia carico lo Stato. Così il sindaco ha promesso una nuova battaglia legale e un ricorso «la cifra finale sarà probabilmente più contenuta. Anche se il calcolo è complesso». L'architetto rimase per sei anni senza lavoro, e quei mancati stipendi gli vanno restituiti tutti. Nel 2001 trovò lavoro in una società che attesta le aziende idonee a partecipare alle gare d'appalto, e quindi adesso va conteggiata l'eventuale differenza tra quanto ha percepito e quanto avrebbe invece guadagnato come dirigente comunale. E in più, vanno aggiunti i contributi previdenziali, gli interessi legali e il calcolo della svalutazione. Di sicuro, un bel gruzzoletto.
L'architetto è soddisfatto, ma anche provato. «Da allora non sono mai più tornato a Stazzema. Per me è stata un'esperienza dolorosa, choccante. Non solo per la lunghezza dei tempi, ma anche per le accuse e le maldicenze da cui mi sono dovuto difendere. Proprio io che avevo denunciato alcune cose che non andavano».
Chioran, infatti, al termine dell'anno di prova non solo fece ricorso al Tar (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 30.05.2006 n. 2613) per l'irregolarità della «risoluzione del rapporto», decisa dalla giunta e non dal sindaco (e dopo quattro lustri il Consiglio di Stato gli ha dato ragione), ma si rivolse anche alla Procura per denunciare che durante il suo breve incarico all'Ufficio tecnico l'amministrazione comunale aveva affidato le pratiche più delicate a un consulente esterno, per questo adeguatamente retribuito.
E soprattutto trovò che qualcuno aveva firmato, con il suo nome, tre atti per ottenere dal ministero dell'Interno un finanziamento da un miliardo e 300 milioni di lire per i danni di un'alluvione.
Presentò una perizia calligrafica, ma la Procura si convinse che era lui il mistificatore e ne chiese il processo per calunnia. Nove anni di altro tormento che si chiusero con l'assoluzione, Chioran chiese di indagare ancora per scoprire chi era l'autore dei falsi, ma il procedimento si esaurì per prescrizione.
Per questo, adesso, il Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 16.03.2016 n. 1064), nel chiedere il suo reintegro, ha anche trasmesso gli atti alla Procura regionale della Corte di conti, per capire se quell'incarico esterno di 21 anni fa e quelle firme false abbiano provocato un danno all'Erario. I processi sono come gli esami, non finiscono mai
 (articolo Corriere della Sera del 12.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA (
TAR Toscana, Sez. II, sentenza 30.05.2006 n. 2613)
E’ fondato il primo mezzo di gravame con cui viene dedotta l’illegittimità del provvedimento di risoluzione del rapporto sul rilievo che competente alla relativa adozione doveva ritenersi, a norma dell’art. 25 del DPR 25.06.1983 n. 347, il sindaco e non la giunta.
In base a tale articolo, contenente le norme risultanti dall’accordo del 29.04.1983 per il personale dipendente dagli enti locali,
la nomina in prova e la nomina in ruolo, previo giudizio favorevole, nonché la proroga per altre sei mesi e la risoluzione del rapporto di impiego del dipendente dell’ente locali, ove il giudizio sia ancora sfavorevole, compete al capo dell’Amministrazione che deve adottare un provvedimento motivato (art. 25, 6° comma).
Al momento dell’adozione della delibera impugnata (09.12.1994) era già in
vigore la legge 08.06.1992 n. 142, sull’ordinamento della autonomie locali che individua nel Sindaco l’organo monocratico del Comune che, al contempo, svolge le funzioni di capo dell’amministrazione comunale e di ufficiale di governo (cfr. Cons. St., Ad Plen. 15.11.1991 n. 8).
In conformità all’art. 36, 1° comma (anche nella formulazione di cui all’art. 12, della L. 25.03.1993 n. 81) i Sindaci esercitano le funzioni loro attribuite dalla legge e dalle disposizioni anche regolamentari, per cui, nella fattispecie in esame, il Sindaco del Comune di Stazzema, quale capo dell’Amministrazione, costituiva l’organo legittimato all’adozione del provvedimento impugnato, tenuto conto, peraltro, del valore cogente riconosciuto dalla L. 29.03.1983 n. 93, agli accordi collettivi, come quello compreso nel DPR 25.06.1983 n. 347 (cfr. Cons. St., V Sez., 11.09.2000 n. 4794).
La fondatezza del motivo determina l’accoglimento della domanda di annullamento della delibera impugnata (delibera contenente, peraltro, un giudizio formulato prima che si completasse il periodo di prova).
Sugli effetti di tale annullamento è da rilevare che il citato art. 25, comma settimo, del DPR 25.06.1983, n. 347, dispone (analogamente a quanto previsto per tutto il settore del pubblico impiego) che la prova si intende conclusa favorevolmente ove entro tre mesi dalla scadenza del periodo di prova non sia intervenuto un provvedimento di proroga ovvero un giudizio sfavorevole.
L’Amministrazione, dunque, se vuole evitare che si configuri il superamento tacito della prova ha l’onere di emettere: a) entro tre mesi dalla scadenza della prima prova un provvedimento di proroga ovvero un giudizio sfavorevole; b) entro tre mesi dalla scadenza della proroga, un giudizio sfavorevole.
E’ stato, peraltro, pacificamente ritenuto, avuto riguardo al carattere non provvedimentale del giudizio (preordinato, se favorevole alla conferma in ruolo, se sfavorevole alla risoluzione del rapporto) che in realtà, nel termine di tre mesi, debba intervenire l’atto conclusivo del procedimento e cioè il provvedimento risolutivo del rapporto non essendo, di per sé, il parere sfavorevole idoneo a modificare la posizione del dipendente (basti pensare all’ipotesi in cui al giudizio sfavorevole, pur emesso nei termini, non segua la risoluzione).
E la giurisprudenza si è costantemente espressa nel senso che
la prova si intende definitivamente superata non solo nel caso di inerzia dell’amministrazione che non emetta un provvedimento negativo nel prescritto termine, ma anche nel caso di annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento di risoluzione del rapporto essendo preclusa all’amministrazione la rinnovazione dell’atto (cfr. per tutte, Cons. St., VI Sez., 11.03.2004 n. 1229 e TAR Sicilia, Palermo, I Sez., 01.06.1999 n. 1178).
L’accertata illegittimità della delibera con cui il comune intimato ha fatto cessare il rapporto di impiego del ricorrente, comporta l’accoglimento anche della domanda da questi formulata diretta ad ottenere la ricostruzione di carriera agli effetti economici oltre che giuridici.
La giurisprudenza è invero pacifica nel ritenere che
nei casi in cui il rapporto di lavoro sia stato illegittimamente interrotto, ai pubblici dipendenti spetti, in deroga al principio della corrispettività della prestazione, la ricostruzione della carriera ed il corrispondente trattamento economico arretrato con decorrenza dalla data della interruzione.
La cosiddetta “restitutio in integrum” è costituita, difatti, dal lato attivo dal diritto del dipendente di vedersi reintegrato nel pristino stato, e quindi di percepire gli emolumenti che a lui sarebbero stati corrisposti qualora il rapporto non avesse subito interruzioni e, dal lato passivo, dall’obbligo dell’Amministrazione di corrispondergli, dalla data della interruzione, tutta la retribuzione e gli elementi accessori di essa che dalle modalità della normativa e dalla prestazione lavorativa risultano non esclusivamente destinate a retribuire o comunque compensare la presenza in servizio (cfr. Cons. St., VI Sez., 05.11.1990 n. 944 e 24.11.1989 n. 1495), cioè gli emolumenti e le indennità a carattere fisso e continuativo e non anche quelle connesse alla effettiva prestazione del servizio (cfr. Cons. St., IV Sez., 28.01.1991 n. 49).
Ovviamente, nella liquidazione degli stipendi arretrati, l’Amministrazione deve detrarre dalla retribuzione e dagli assegni dovuti quanto l’impiegato abbia percepito per eventuali attività lucrative, svolte durante l’interruzione del rapporto di impiego sia nell’ambito di un diverso (e contemporaneo) rapporto di impiego, che per lo svolgimento di attività professionali (cfr. Cons. St., IV Sez., 03.12.1990 n. 952).
Naturalmente l’Amministrazione è tenuta a provare l’esistenza e l’ammontare di tali guadagni.
Concludendo
il ricorso va accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato e con declaratoria del diritto del ricorrente di vedersi ricostruita la carriera e, quindi, di percepire gli emolumenti che a lui sarebbero stati corrisposti qualora il rapporto non avesse subito interruzioni.
Sulle somme dovute dal comune al ricorrente a titolo di “restitutio in integrum” spettano interessi legali e svalutazione monetaria come per legge.

Le spese ed onorari di causa, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Quanto sopra deciso,
il Collegio, atteso che i fatti esposti dal ricorrente in sede di formulazione del ricorso, supportati dalla documentazione prodotta in giudizio e riportati in narrativa, appaiono assumere rilevanza penale, ritiene di disporre, ai sensi dell’art. 331, comma 4, c.p.p., la trasmissione degli atti relativi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lucca per le valutazioni di competenza e gli adempimento consequenziali.
Considerato inoltre che le circostanze dedotte in ricorso, e costituite dall’affidamento ad un unico professionista esterno, con una sequenza di delibere (n. 177, del 23.06.1994; n. 228 del 04.08.1994; n. 268 del 16.09.1994; n. 298 del 14.10.1994 e n. 318 del 03.11.1994), di funzioni di progettazione e direzione tecnica di opere pubbliche, stanziandosi, a titolo di competenze professionali una somma di circa £. 200.000.000 (affidamento che sarebbe stato “giustificato” dalla giunta comunale “affermando falsamente la vacanza del posto di dirigente tecnico”) e dalla effettuata falsificazione della firma del ricorrente “su tre atti amministrativi della serie procedimentale che aveva condotto il comune di Stazzema ad acquisire un contributo di un miliardo e trecento milioni dal Ministero dell’Internoappaiono, unitamente all’esborso di danaro che l’Amministrazione è tenuta a corrispondere al ricorrente, in seguito all’accoglimento della relativa domanda, configurare ipotesi di danno erariale, il Collegio ritiene di trasmettere gli atti anche alla Procura Regionale della Corte dei Conti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione II, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e per l’effetto annulla la delibera impugnata con contestuale declaratoria del diritto del ricorrente a vedersi ricostruita la carriera e, quindi, ai percepire gli emolumento che gli sarebbero stati corrisposti qualora il rapporto non avesse subito interruzione. Sulle somme dovute dal comune al ricorrente spettano interessi legali e svalutazione monetaria, come per legge.
Condanna il comune al pagamento delle spese ed onorari di causa liquidati in complessivi €. 3.000,00 (tremila/00) oltre accessori di legge.
Dispone la trasmissione degli atti sia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lucca, che alla Procura Regionale della Corte dei Conti per quanto di rispettiva competenza.
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MASSIMA
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.03.2016 n. 1064)
6.- L’appello è infondato.
6.1- Con la prima censura l'appellante Comune deduce l’erroneità della sentenza appellata per violazione degli art. 25 de1 D.P.R. n. 347/1983, nonché artt. 33, 35 e 36 della L. 142/1990 e contesta l'individuazione del capo dell'amministrazione nel Sindaco e non nella Giunta comunale, richiamando a sostegno sia lo statuto del Comune di Stazzema che l'art. 35, comma 2, della L. 142/1990, secondo cui la giunta è l’organo avente una competenza di carattere generale e quindi l'espressione "capo dell'Amministrazione" di cui all'art. 25 del D.P.R. n. 347/1983 non sarebbe riferibile al Sindaco, ma alla Giunta municipale, di cui peraltro fa parte anche il Sindaco.
Tale prospettazione non può essere condivisa.
In proposito si osserva che il Collegio si è pronunciato su un’analoga controversia (Cons. St. sez. V, n. 5175/2003), nella quale il giudice di primo grado (TAR Marche n. 284/1996) aveva respinto il ricorso proposto dall’interessato, accogliendo l’appello e pervenendo alle stesse conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado nel presente giudizio.
Infatti
la statuizione dell'art. 25, comma 5, del D.P.R. n. 347/1983 sancisce che "Nel caso di giudizio sfavorevole il periodo di prova è prorogato di altri sei mesi, al termine dei quali, ove il giudizio sia ancora sfavorevole, il capo dell'amministrazione dichiara la risoluzione del rapporto di impiego con provvedimento motivato" ed anche il successivo comma sesto dello stesso articolo ribadisce il riferimento al “capo dell'amministrazione”, organo competente in ordine alla risoluzione del rapporto di impiego.
D’altronde il D.P.R. 25.06.1983 n. 347, in cui è incluso il suddetto art. 25, ha ad oggetto la disciplina prevista dall'accordo del 29.04.1983 per il personale dipendente dagli enti locali, la nomina in prova e la nomina in ruolo, previo giudizio favorevole, nonché la proroga del periodo di prova per altri 6 mesi e la risoluzione del rapporto di impiego del dipendente dell'ente locale.
La competenza sindacale in subiecta materia trova ulteriore conferma nella legge 08.06.1990, n. 142, sull'ordinamento delle autonomie locali, che individua nel Sindaco l'organo monocratico del Comune che, al contempo, svolge le funzioni di capo dell'amministrazione comunale e di ufficiale di governo ed anche nella vigenza del d.p.r. n. 333/1990, avente ad oggetto il “regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 23.12.1989 concernente il personale del comparto delle regioni e degli enti pubblici non economici da esse dipendenti, dei comuni, delle province, delle comunità montane, loro consorzi o associazioni, di cui all'art. 4, D.P.R. 05.03.1986, n. 68".
L’art. 50, "norma finale di rinvio", del suddetto decreto n. 333 ribadisce espressamente che: "restano confermate ed approvate anche per il periodo antecedente, ove non modificate o sostituite dal presente regolamento, le disposizioni di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 25.06.1983, n. 347, 31.05.1984, n. 665, 13.05.1987, n. 268, e 17.09.1987, n. 494".
Nella fattispecie in esame,
deve ritenersi pertanto illegittimo, per vizio di incompetenza, il provvedimento di dispensa dal servizio per esito negativo del periodo di prova, adottato dalla Giunta municipale e non dal Capo dell'Amministrazione, che, contrariamente all’assunto di parte appellante, è indubitabilmente il Sindaco in base alle summenzionate statuizioni normative di univoco contenuto.

ENTI LOCALI: Governo. Bilanci, no a ulteriori proroghe.
Nessun ulteriore rinvio per i bilanci dei comuni, che quindi dovranno essere approvati entro il 30 aprile. Al momento, pare essere questo l'orientamento del Governo, anche se da ambienti parlamentari continuano a filtrare voci di una nuova proroga.

È quanto emerso nel corso di un seminario organizzato giovedì scorso dall'Ifel per chiarire i tanti punti oscuri del riparto del fondo di solidarietà comunale.
È stata anche l'occasione per fare il punto sui prossimi adempimenti contabili richiesti ai municipi, che entro fine mese dovranno varare anche il rendiconto 2015, oltre al preventivo 2016-2018. Per quest'ultimo, come sempre, rimane aperta la possibilità di sforare fino al 20 maggio, mentre Ifel raccomanda di rispettare rigorosamente la dead-line per le deliberazioni sui tributi, in modo da evitare la replica del pasticcio verificatori nel 2015, allorché molti comuni arrivarono fuori tempo massimo con conseguente caducazione dei provvedimenti adottati tardivamente. Peraltro, nel 2016 la leva fiscale è bloccata verso l'alto, tranne che per la Tari e poche altre fattispecie.
Sui numeri da iscrivere, Ifel ha insistito soprattutto sulla necessità di tenere conto del recupero Imu derivante dall'abbassamento della quota di alimentazione del fondo. Operativamente, occorre sommare l'importo indicato nella voce A3 del prospetto ministeriale alla previsione Imu già nettizzata del gettito che non verrà più incassato per effetto delle misure di detassazione introdotte dall'ultima legge di stabilità, gettito che viene rimborsato dalla quota di fondo indicata nella casella C5.
Riguardo a tale aspetto, Ifel ha tranquillizzato rispetto i diversi comuni che lamentano un ristoro non completo della perdita (ItaliaOggi del 05/04/2016), evidenziando che i problemi dovrebbero essere risolti nel giro di due o tre mesi grazie ai 75 milioni accantonati e non ancora distribuiti. In ogni caso, eventuali scostamenti rilevanti fra le stime utilizzate nel riparto e quelle dei singoli enti possono essere segnalati al ministero dell'interno, al Mef e allo stesso Ifel con nota motivata (articolo ItaliaOggi del 09.04.2016).

APPALTI: Province, 47 stazioni uniche.
Sono 47 le stazioni uniche appaltanti delle province già operative e a tutti gli effetti funzionanti, a cui sono aggregati 1.035 comuni.

Questo il dato che emerge dal un report sullo stato di attuazione della stazione unica appaltante nei 76 enti di area vasta riformati dalla legge 56/2014, che l'Upi ha consegnato all'Anac, l'authority anticorruzione, e ha inviato al governo.
Si tratta, si legge in una nota, di strutture stabili e organizzate per le esigenze specifiche, quali la progettazione tecnica, di cui gli enti di area vasta sono dotati; uffici che nel 65% dei casi hanno definito una modulistica standard e unitaria a garanzia della trasparenza e della massima efficienza e che stanno sperimentando, attraverso il sostegno di Upi, la condivisione di esperienze e know how.
L'Anac, tramite un comunicato, ha reso noto di aver registrato positivamente la volontà dell'Upi di contribuire attivamente agli obiettivi di riduzione e qualificazione delle stazioni che la nuova disciplina dei contatti pubblici sta perseguendo (articolo ItaliaOggi del 09.04.2016).

APPALTI: Appalti, ridimensionato il massimo ribasso. Opere pubbliche. Nel parere delle commissioni parlamentari la richiesta di limitarlo alle commesse inferiori ai 150mila euro.
Dire addio al massimo ribasso. Relegando la possibilità di assegnare le commesse tenendo conto solo del prezzo ai microappalti sotto i 150mila euro.
Tra le decine di correzioni richieste dal Parlamento al codice degli appalti
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare), in un parere gemello approvato ieri dalle commissioni di Camera e Senato, è questa la scelta che farà più discutere, saldando le posizioni contrarie messe nero su bianco nei pareri di Regioni e Comuni, con quelle dei costruttori che già ieri hanno già fatto sapere di «essere molto preoccupati» per gli effetti negativi sui tempi di assegnazione degli appalti e dunque sul passaggio dai progetti al cantiere.
«Mi immagino un piccolo comune costretto ad assegnare appalti di importo risibile con l'offerta più vantaggiosa (prezzo più aspetti tecnici del progetto, ndr) -dice il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis- significa ritardare l’aggiudicazione di 8-12 mesi in un momento in cui abbiamo invece bisogno di accelerare la spesa».
Critiche dai costruttori arrivano anche sull’obbligo di assegnare con gare formali anche le opere di urbanizzazione secondaria (scuole e altri edifici pubblici). «Questo vuol dire che avremo le case, ma non i servizi di quartiere», sintetizza De Albertis che parla di un settore «in fibrillazione» anche per l’apertura di una falla nel delicato compromesso (80% in gara, 20% in house) sugli appalti dei concessionari.
Incassato il parere del Parlamento ora il decreto punta dritto verso la Gazzetta Ufficiale. L’obiettivo del governo è centrare il traguardo dell’entrata in vigore entro il 18 aprile, data di scadenza per il recepimento delle nuove direttive Ue su appalti e concessioni. Prima serve però un nuovo passaggio in Consiglio dei ministri, per adeguare il provvedimento ai rilievi del Parlamento, oltre alla bollinatura della Ragioneria e alla firma del capo dello Stato.
Tra le principali richieste spicca quella di esplicitare il divieto di nuove proroghe per le concessioni autostradali, la stabilizzazione dell’anticipazione del 20% del prezzo per i vincitori di cantieri pubblici (misura che scade il 31.07.2016) insieme al tetto al 30% per i subappalti, alla riduzione delle deroghe per le emergenze di protezione civile e alla stretta sulla trasparenza dei piccoli lavori (gara a procedura ristretta tra 150mila e un milione di euro).
Su questo fronte è arrivata anche un’obiezione relativa agli appalti della Rai, che in base alla riforma varata a fine 2015 possono sfuggire ai paletti imposti dal codice se inferiori all’importo di 5,2 milioni. Qui la richiesta è di tornare sotto l’ombrello del codice, prevedendo procedure a evidenza pubblica. Allo stesso modo si chiede di inserire tra le attività soggette alle norme sugli appalti pubblici anche le operazioni legate all’estrazione e alla produzione di petrolio.
«Finalmente abbiamo un Codice degli appalti che dà tutti gli strumenti contro la corruzione e lo spreco di denaro e che ci fa stare in Europa», ha detto il relatore in Senato Stefano Esposito, che ha lavorato duramente alla riforma. Mentre i presidenti delle due commissioni parlamentari Ermete Realacci (Camera) e Altero Matteoli (Senato), in una nota congiunta sottolineano il «superamento della legge obiettivo», «l’archiviazione delle varianti», l’introduzione del débat public, il ruolo dell’Anac e il ritorno alla «centralità della progettazione
» tra i «punti salienti» della riforma (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza, corsi online. Formazione anche in modalità e-learning. Un interpello chiarisce i requisiti per l'utilizzo di strumenti tecnologici.
Formazione sulla sicurezza online. Infatti, anche la formazione specifica ai lavoratori, prevista a carico dei datori di lavoro dal T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008), può essere erogata in modalità e-learning nel caso di progetti formativi sperimentali previsti da regioni e province autonome.

Lo precisa, tra l'altro, la commissione per gli interpelli sulla sicurezza nell'interpello 21.03.2016 n. 4/2016 con cui ha risposto a un quesito in merito di Assobiomedica.
La formazione dei lavoratori. La formazione dei lavoratori è un compito/obbligo previsto a carico dei datori di lavoro. L'art. 37, comma 1, del dlgs n. 81/2008 (il T.u. sicurezza), prevede che «il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento ai ( ) rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell'azienda».
In via di principio, la formazione dei lavoratori si distingue in: formazione generale (durata di 4 ore minimo) e formazione specifica (durata dipendente dal grado di rischio aziendale: 4, 8 o 12 ore). L'accordo Stato-Regioni n. 221 del 21.12.2011 disciplina, «ai sensi dell'articolo 37, comma 2, del dlgs 09.04.2008 n. 81, e successive modifiche e integrazioni, la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione, nonché dell'aggiornamento, dei lavoratori e delle lavoratrici come definiti all'art. 2, comma 1, lett. a, dei preposti e dirigenti, nonché la formazione facoltativa dei soggetti di cui all'art. 21, comma 1, del medesimo dlgs n. 81/2008».
Tra l'altro, il punto 3 dell'accordo prevede la possibilità di erogare, nei casi ivi previsti, la formazione in modalità e-learning sulla base dei criteri e delle condizioni di cui all'Allegato I.
Sì alla formazione online. L'accordo Stato-Regioni del 21.12.2011, spiega la commissione, stabilisce chiaramente al punto 3 che «sulla base dei criteri e delle condizioni di cui all'Allegato I l'utilizzo delle modalità di apprendimento e-learning è consentito per la formazione generale dei lavoratori; ( )».
Pertanto, aggiunge la commissione, «la formazione specifica dei lavoratori non può essere erogata in modalità e-learning salvo nel caso di progetti formativi sperimentali, eventualmente individuati da regioni e province autonome nei loro atti di recepimento del presente accordo, che prevedano l'utilizzo delle modalità di apprendimento e-learning anche per la formazione specifica dei lavoratori e dei preposti» (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVORO: Cantieri. Pos redatto prima dei lavori.
Il Pos (piano operativo di sicurezza) va sempre redatto prima dell'inizio dei lavori, anche nel caso di imprese di nuova costituzione, non essendo applicabile la deroga di 90 giorni prevista invece per la redazione del Dvr (Documento valutazione rischi).

Lo stabilisce la commissione per gli interpelli sulla sicurezza nell'interpello 21.03.2016 n. 3/2016 in risposta a un quesito della Federazione sindacale italiana dei tecnici e coordinatori della sicurezza in merito alle modalità con cui deve essere redatto il Piano operativo di sicurezza (Pos) da parte delle imprese di nuova costituzione alla luce di quanto previsto dall'art. 28, comma 3-bis, del dlgs n. 81/2008 (il T.u. sicurezza) che consente, a tali imprese, la possibilità di fare immediatamente la valutazione dei rischi e di elaborare, però, il relativo documento (Dvr) entro 90 giorni dalla data d'inizio dell'attività.
In sostanza, è stato chiesto se il principio del citato art. 28, comma 3-bis, circa la possibilità di posticipare la redazione del Dvr, possa ritenersi applicabile anche al Pos. La risposta della commissione è negativa. Spiega, infatti, che il principio enunciato dall'art. 28, comma 3-bis citato, non è applicabile al Pos per due ragioni: la prima è perché non espressamente previsto dalla legge; seconda perché la sua mancata redazione, prima dell'inizio dei lavori, impedirebbe al coordinatore per l'esecuzione di verificarne «l'idoneità del piano operativo di sicurezza, da considerare come piano complementare di dettaglio del piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 100, assicurandone la coerenza con quest'ultimo» (art. 92, comma 1, lett. b), obbligo sanzionato penalmente.
Infine, la commissione evidenzia che, in caso di costituzione di nuova impresa, la citata norma (art. 28, comma 3-bis) obbliga comunque il datore di lavoro a effettuare immediatamente la valutazione dei rischi e a dare «immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell'adempimento degli obblighi di cui al co. 2, lett. b), c), d), e), e f) e al comma 3 e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza» (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali fantasma. Sparisce l'area contrattuale. Province ancora in vita. PUBBLICO IMPIEGO/ Le novità per gli enti locali nell'accordo che riduce i comparti.
Firmato tra Aran e sindacati l'accordo che riduce i comparti del pubblico impiego a quattro, prende forma il primo tassello della riforma del lavoro pubblico, a 7 anni di distanza dalla sua prima previsione contenuta nel dlgs 150/2009, la «legge Brunetta».
I comparti previsti (si veda ItaliaOggi del 6 aprile scorso) saranno quello delle Funzioni centrali, quello delle Funzioni locali, quello della Sanità e quello de Istruzione e ricerca. Se sul piano formale l'accordo siglato produce l'effetto innovativo voluto, riducendo da 12 a 4 i comparti, sul piano sostanziale, specie nel periodo transitorio, le novità reali appaiono, però, poche.
Segretari comunali. A ben vedere, l'innovazione principale coinvolge la categoria dei segretari comunali e provinciali. L'accordo quadro, infatti, anticipa gli effetti dell'abolizione della figura, tanto che sparisce la specifica area contrattuale, fino ad oggi presente nel comparto regioni-enti locali.
L'articolo 7, comma 3, dell'accordo prevede, infatti, che l'area delle Funzioni locali comprende tutti i dirigenti delle amministrazioni del comparto (elencate nell'articolo 4), i dirigenti amministrativi, tecnici e professionali delle amministrazioni del comparto Sanità nonché, appunto, i segretari comunali, come conseguenza dell'abolizione della figura, disposta dall'articolo 11 della legge 124/2015.
Quindi, diviene già una realtà la confluenza dei segretari comunali e provinciali nell'area contrattuale della dirigenza locale. E assumono concretezza i rilievi espressi a suo tempo dalla Corte dei conti sulla riforma-Madia, perché non appare chiaro quali possano essere le conseguenze finanziarie di questa scelta, visto che la retribuzione media dei segretari è più bassa, al netto degli incrementi consentiti dal contratto d'area, in base al «galleggiamento».
Province highlander. A confermare la sensazione che il contratto quadro, comunque, innovi poco è anche un dettaglio: l'elencazione delle amministrazioni dell'area Funzioni locali appare scaturire da incertezza ed imbarazzo nel definirle.
Infatti, l'articolo 4 elenca città metropolitane ed enti di area vasta, ma vi aggiunge anche i liberi consorzi comunali (confuso ente locale sovra comunale disciplinato dalla legge regionale siciliana 15/2015) e, tanto per non sbagliare, anche le «province». Che, sull'orlo del dissesto, dissanguate di risorse e personale potranno vantarsi di continuare ad avere un'area contrattuale tutta per loro.
Regime transitorio. L'articolo 8 dell'intesa è un primo fulcro dell'innovazione più apparente che concreta operata.
Infatti, si demanda alla contrattazione collettiva nazionale di lavoro di scomporsi in due parti. Una definita «comune» riguarderà gli istituti applicabili ai lavoratori di tutte le amministrazioni afferenti al comparto o all'area.
I Ccnl potranno, inoltre, essere composti da «eventuali parti speciali o sezioni», cui l'intesa demanda il compito di regolare «peculiari aspetti del rapporto di lavoro che non siano pienamente o immediatamente uniformabili o che necessitino di una distinta disciplina». Come dire, insomma, che i quattro comparti previsti, a meglio vedere altro non saranno, specie nel periodo di prima applicazione, dei contenitori di discipline speciali e particolari, o anche di «specifiche professionalità», che potranno essere anche nel nuovo contesto oggetto di regolamentazione peculiare.
Per quanto riguarda il comparto enti locali, potrebbero non essere necessarie molte parti speciali o sezioni, anche se è facile immaginare che i segretari comunali ambiranno ad una disciplina professionale specifica. In generale per tutta la dirigenza inquadrata nel ruolo unico, la potenziale «girandola» degli incarichi innescata dalla legge 124/2015 metterà certamente a dura prova la funzionalità del sistema.
Rappresentatività sindacale. L'altro elemento di conservazione o, quanto meno, «prudenza», riguarda la rappresentatività sindacale all'interno dei comparti. Infatti, si prevede una fase transitoria per tenere vivi gli effetti delle ultime elezioni delle Rsu, pur restando ferma la soglia del 5% di deleghe e voti.
In ogni caso, si vuol dare tempo e modo alle sigle sindacali più piccole di fondersi, affiliarsi o scegliere altre forme aggregative, per conservare le deleghe e, quindi, il «peso» nella contrattazione (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi dirigenziali, indisponibilità anche negli enti. L'applicazione delle disposizioni contenute nella legge di stabilità 2016.
Da un po' di tempo a questa parte si è acceso il dibattito sulla portata delle disposizioni limitative di cui all'art. 1, comma 219, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di Stabilità per l'anno 2016), tra coloro che le ritengono precettive per tutte le amministrazioni pubbliche e coloro che, Anci in testa, le considerano, viceversa, limitate alle amministrazioni centrali e dintorni, non estensibili, pertanto, alle amministrazioni locali ed alle regioni.
Le prescrizioni legislative sono state introdotte dal richiamato comma 219 e dispongono che sono resi indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, come rideterminati in applicazione dell'articolo 2 del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, vacanti alla data del 15.10.2015 e che gli incarichi conferiti a copertura di tali posti dirigenziali nel periodo intercorrente dal predetto termine del 15 ottobre e fino alla data di entrata in vigore della legge di stabilità (01/01/2016), cessano, di diritto, alla medesima data, con risoluzione dei relativi contratti di lavoro.
Sono fatti salvi i casi per i quali alla data del 15.10.2015, sia stato avviato il procedimento per il conferimento dell'incarico dirigenziale e, anche dopo la data di entrata in vigore della legge n. 208/2015, quelli, comunque, conferiti a dirigenti assunti per concorso pubblico bandito prima della data di entrata in vigore della ripetuta legge di Stabilità. Un primo punto attiene al richiamo che la disposizione formalmente opera alle posizioni dirigenziali di prima e seconda fascia, ciò che, a sostegno della tesi esclusiva, deporrebbe per la sola applicabilità agli enti centrali delle prescrizioni normative qui esaminate.
In realtà, per contro, non pare proprio che tale specifico richiamo sia risolutivo ai predetti fini, in quanto il riferimento sembra avere più natura specificativa che limitativa dei ruoli dirigenziali coinvolti dagli effetti interdittivi, natura, quindi, che non esclude espressamente il coinvolgimento dei ruoli dirigenziali presenti negli enti il cui ordinamento non preveda tale specifica dicotomia.
D'altra parte, viceversa, dirimente risulta il successivo ed esplicito richiamo alle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001, prescrizione che, ad ogni evidenza, intende picchettare i margini attuativi della norma, ricomprendendo tutte le amministrazioni collocabili nel novero indicato dalla disciplina generale del lavoro pubblico, tra le quali le amministrazioni locali e regionali.
Si sostiene, ancora, che l'espresso richiamo operato dalla norma alla rideterminazione dei ruoli dirigenziali realizzato ai sensi dell'art. 2 del dl 95/2012 (c.d. «spending review»), appaia sintomatico della sua portata limitativa alle sole amministrazioni centrali, attesa la specifica destinazione di tale prescrizione normativa. Anche tale osservazione, tuttavia, non pare cogliere nel segno, in quanto la predetta disposizione risulta, nella sua articolazione, evidentemente destinata anche alle amministrazioni locali, atteso che il comma 8 del citato art. 2, pur con disposizione di rinvio, regola la ridefinizione dei ruoli dirigenziali che, ai sensi dell'art. 16, comma 8, dello stesso dl 95/2012, sarebbe dovuta avvenire con dpcm, da emanarsi entro il 31.12.2012.
Ancora, poi, si afferma la possibilità di disporre dei posti dirigenziali in questione presso le amministrazioni locali in conseguenza del fatto per cui il comma 228 della ridetta legge di stabilità, nel disciplinare le facoltà assunzionali dei predetti enti, statuisce che tali amministrazioni possano procedere, per gli anni 2016, 2017 e 2018, ad assunzioni di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale nel limite di un contingente di personale corrispondente, per ciascuno dei predetti anni, ad una spesa pari al 25% di quella relativa al medesimo personale cessato nell'anno precedente, laddove l'affermata esclusione delle assunzioni di personale di qualifica dirigenziale equivarrebbe a sostenere che le stesse siano rimaste regolate dalle disposizioni permissive di cui all'art. 3, comma 5, del dl n. 90/2014.
Anche tale valutazione, tuttavia, non convince, atteso che detta esclusione pare maggiormente coerente con le disposizioni impeditive introdotte dal precedente comma 219 della legge di Stabilità, piuttosto che funzionale a limitare le sole assunzioni di personale non dirigenziale escludendo, da tali limitazioni, proprio i ruoli dirigenziali i cui incarichi sono, di fatto, bloccati dalle disposizioni della legge n. 208/2015.
È da ritenere, infatti, che il sistema normativo oggi introdotto sia integralmente sostitutivo del precedente assetto regolativo delle assunzioni di personale presso le amministrazioni locali e regionali, di talché le precedenti disposizioni legislative, in particolare l'assetto limitativo di cui all'art. 3, comma 5, del dl n. 90/2014, siano da ritenersi implicitamente abrogate dall'occupazione organica della materia in questione, tant'è vero che il legislatore, laddove abbia inteso mantenerne la vigenza, ha dovuto espressamente richiamarne l'applicazione per disciplinare effetti particolari di tali disposizioni, come si evidenzia dal chiaro disposto del comma in questione (comma 228), nella parte in cui (secondo periodo) consente ancora l'applicazione delle statuizioni migliorative recate dal vecchio impianto legislativo al solo e limitato fine di consentire il ricollocamento del personale in esubero proveniente dagli enti di area vasta.
Da tali considerazioni, pertanto, può fondatamente concludersi per un'applicazione delle norme limitative di che trattasi estesa, per sua natura e per naturale portata, a tutte le amministrazioni pubbliche ricomprese nell'espressa qualificazione fornita dall'art. 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, ivi compresi, dunque, regioni ed enti locali (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).

APPALTI: Riforma appalti entro il 18 aprile. Chieste modifiche su affidamenti, cauzioni e Bim. I pareri delle commissioni di camera e senato sul decreto delegato relativo al nuovo codice.
Limite del 30% sul subappalto; elenco speciale dei commissari per le grandi stazioni appaltanti; meno trattative private e più concorrenza sotto soglia; niente cauzioni per i progettisti; prezzo più basso vietato oltre i 150 mila euro.

Sono queste alcune delle proposte principali contenute nei pareri, sostanzialmente allineati, delle commissioni lavori pubblici del senato e ambiente, territorio e lavori pubblici della camera sullo schema di decreto delegato che contiene il nuovo codice dei contratti pubblici approvati ieri (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Adesso il testo dovrà essere rivisto dal governo e necessariamente approvato entro il 18 aprile. Le commissioni preliminarmente danno atto «dell'approfondito e articolato parere espresso dal Consiglio di stato, di cui si condividono in larga parte i contenuti e i rilievi espressi» ed evidenziano numerosi punti, sui singoli articoli, rispetto ai quali chiedono modifiche.
Per le opere di urbanizzazione a scomputo i pareri chiedono che si presenti un progetto definitivo e non il progetto di fattibilità. Per gli affidamenti di incarichi di progettazione la procedura negoziata senza bando con inviti a cinque si propone di renderla applicabile da 40 mila a 100 mila euro come è oggi e non, come nella bozza di decreto, fino ai 209 mila euro della soglia Ue.
Per gli altri contratti sotto soglia (lavori, forniture e servizi, diversi da quelli tecnici) si definisce una prima soglia (40 mila-150 mila) nella quale si procede con procedura negoziata e invito a cinque i soggetti; da 150 mila a un milione si utilizza la procedura ristretta con almeno 10 invitati, oltre 1 milione si andrà all'affidamento con la procedura aperta. Viene imposto alle stazioni appaltanti di applicare sempre il cosiddetto «d.m. parametri» per calcolare l'importo a base di gara delle procedure di affidamento di incarichi di progettazione altri servizi tecnici. Si rendono obbligatorie le «clausole sociali» negli appalti ad alta intensità di manodopera.
Per quel che riguarda l'utilizzo delle metodologie Bim (Building information modelling), potrà essere richiesto soltanto dalle stazioni appaltanti dotate di personale adeguatamente formato nel tempo mediante specifici corsi di formazione. Sarà invece un'apposita commissione ministeriale da costituire entro luglio prossimo a definire «le modalità e i tempi di progressiva introduzione dell'obbligatorietà dei suddetti metodi presso le stazioni appaltanti». Per i progettisti si propone l'eliminazione della cauzione provvisoria e definitiva.
Per la disciplina delle commissioni giudicatrici si crea una eccezione all'albo generale gestito dall'Anac per le centrali di committenza, per Consip e per Invitalia che potranno scegliere i commissari attingendo a un elenco speciale di esperti o utilizzando anche propri esperti o, in ultima analisi, ricorrendo all'albo gestito dall'Anac. I pareri propongono che le commissioni interne siano ammesse soltanto fino a 150 mila euro e non fino alla soglia Ue (come oggi previsto nella bozza di decreto.)
Per i criteri di aggiudicazione si conferma che al di sopra dei 150 mila euro (su questo il parere del senato è drastico) non si potrà utilizzare il criterio del prezzo più basso. Non si comprende però come si aggiudicheranno i lavori sulla base di un progetto esecutivo, con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e in particolare quali potranno essere gli elementi di valutazione di natura qualitativa che accompagneranno la valutazione economica (prezzo); forse le linee guida Anac aiuteranno a risolvere il dilemma.
Per il subappalto in tutti i contratti di lavori, servizi o forniture esisterà la soglia-limite del 30% «dell'importo complessivo del contratto». Soddisfazione è stata espressa dalla Cna (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOAgenti di polizia locale fuori dai seggi elettorali.
Quest'anno non si vedranno agenti di polizia locale impiegati nei servizi di vigilanza fissa ai seggi. Spetterà solo alle forze di polizia dello stato occuparsi di queste attività e ricevere di conseguenza la relativa indennità.

Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, con la nota 05.04.2016 n. 555/0001040/2016 di prot. diramata a tutte le prefetture.
L'ordine è tassativo. I dispositivi di sicurezza e vigilanza ai seggi quest'anno dovranno essere pianificati attraverso l'impiego del solo personale delle forze di polizia di cui alla legge 121/1981. Dunque niente vigili urbani a presidiare le sezioni elettorali. Solo carabinieri e poliziotti veri.
Le ragioni del divieto non sono chiare. Probabilmente si tratta di una scelta tecnica che impedisce di dirottare gli emolumenti verso la polizia locale. Non sono mancate le immediate reazioni dei sindacati. Il Sulpm, con una nota urgente, ha scritto al Presidente del Consiglio, evidenziando l'ennesimo attacco ai vigili. Una decisione, specifica la lettera del 6 aprile, «che non solo è incomprensibile ai fini della sicurezza dei seggi, ma che spezza quel modello di collaborazione da sempre esistito tra forze di polizia ad ordinamento statale e locale».
In buona sostanza a parere del sindacato autonomo si preferiscono aumentare le distanze piuttosto che favorire le sinergie e le professionalità. In effetti alla polizia municipale sono state tolte attribuzioni e prerogative a partire soprattutto dal governo Monti, che ha abolito l'equo indennizzo.
In pratica si richiede a dei semplici impiegati comunali di girare armati, svolgere servizi particolari, affrontare trattamenti sanitari obbligatori e occuparsi di gravi omicidi stradali senza nessuna garanzia di legge e preparazione. E senza adeguate coperture normative. La legge di riforma della polizia municipale resta infatti un tema di discussione per addetti ai lavori.
Ma intanto sul territorio gli operatori continuano a svolgere attività molto delicate nonostante l'incertezza del ruolo e delle funzioni. Ma senza possibilità di entrare nelle cabine elettorali in occasione del prossimo referendum. Lo vieta espressamente il Viminale (articolo ItaliaOggi del 07.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego, comparti ridotti a 4. Accordo fra l’Aran e i sindacati che ora chiedono di rinnovare i contratti - Madia: così sistema più semplice.
Per i rinnovi contrattuali dei dipendenti pubblici la partita vera inizia ora, e la palla ripassa al governo che dovrà elaborare una proposta con i 300 milioni di euro messi a disposizione dall’ultima manovra, a cui si aggiungono i fondi che regioni ed enti locali dovranno trovare da soli.
È questo il primo effetto dell’intesa raggiunta ieri notte (e anticipata sul Sole 24 Ore di ieri) fra sindacati e Aran, l’agenzia che rappresenta la pubblica amministrazione come datore di lavoro, sulla riforma dei comparti, che aggrega in quattro ambiti gli undici nei quali oggi è diviso il pubblico impiego.
«Così il sistema contrattuale è più semplice e innovativo per i lavoratori pubblici e per il Paese», commenta su Twitter la ministra per la Semplificazione e la Pa Marianna Madia; per il presidente dell’Aran Sergio Gasparrini «la riduzione drastica del numero dei contratti collettivi nazionali potrà favorirne la rapida definizione, e si potrà anche provare ad utilizzare la strumentazione, rimasta nel cassetto in questi anni, per valutare performance e premi di produttività».
Definito il quadro, toccherà andare nel merito dei rinnovi contrattuali, e lì le questioni sono ancora più spinose: «Ora non ci sono più alibi», fanno subito sapere i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Camusso, Furlan e Barbagallo, ma per i rinnovi le risorse attuali «non bastano». Da Palazzo Vidoni, comunque, filtra l’intenzione di convocare le organizzazioni sindacali per una sorta di “tavolo di ascolto” sia sul rinnovo contrattuale sia sul nuovo testo unico del pubblico impiego: il testo rappresenta un pilastro nel secondo capitolo dell’attuazione della riforma Madia, e ovviamente solleva temi che si intrecciano in modo stretto con i nuovi contratti.
La riforma che si attua oggi è quella prevista nel 2009 dal decreto Brunetta, che per semplificare i contratti e sfoltire la rete di sigle e prerogative sindacali fissò in quattro il numero massimo dei comparti a partire dal «successivo rinnovo contrattuale»: l’anno dopo, però, la crisi di finanza pubblica spinse l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti a bloccare la contrattazione nel pubblico impiego, con una misura poi rinnovata due volte prima che a luglio la Corte costituzionale, con la sentenza 178/2015, imponesse di far ripartire la macchina.
Di qui il riavvio delle trattative, che dopo settimane passate sul filo dei tecnicismi hanno prodotto una soluzione ponte per avviare l’aggregazione dei comparti senza imporre ricette troppo amare per essere digerite da sindacati e dipendenti. Nel comparto delle «funzioni locali» (che oggi si chiama «regioni ed enti locali») e in quello della sanità non cambia in realtà quasi nulla, con l’unica precisazione che i dirigenti sanitari del ministero della Salute finiranno fra le «funzioni centrali» e quelli di aziende sanitarie e ospedaliere fra le «funzioni locali», in cui anche i segretari comunali e provinciali saranno insieme ai dirigenti. Le novità più importanti si concentrano invece nel «comparto dell’istruzione e della conoscenza», chiamato a riunire i circa 100mila dipendenti dell’università (con l’esclusione dei docenti, che in regime di diritto pubblico) e i 20mila degli enti di ricerca al milione di persone che lavora nella scuola, e in quello delle «funzioni centrali», dove confluiranno ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici come Inps, Inail e Aci.
Scrivere regole comuni per strutture così diverse non è impresa facile, e per questa ragione l’intesa imbocca la strada del doppio binario contrattuale, formato da una «parte comune riferita agli istituti applicabili ai lavoratori di tutte le amministrazioni» del comparto e «parti speciali o sezioni» per disciplinare «alcuni peculiari aspetti» che non sono «pienamente e immediatamente uniformabili».
Nell’intesa, questo secondo aspetto è descritto come eventuale e quasi marginale, ma è probabile che almeno all’inizio le parti comuni si occuperanno delle regole di base del rapporto di lavoro, per esempio i permessi, le malattie o le ferie, mentre toccherà alle parti speciali regolare i temi più caldi anche per le buste paga. Tra un’agenzia fiscale e un ministero, per esempio, i livelli retributivi sono molto diversi, e regolati da istituti costruiti spesso su misura per le singole amministrazioni: e per far migrare questi aspetti nella contrattazione di secondo livello ci vuol tempo.
La fusione dei comparti ha poi ricadute importanti sul terreno sindacale perché per partecipare alle trattative, e alla divisione di permessi e distacchi, ogni sigla deve raggiungere il 5% nella media di voti e deleghe (si veda l’articolo qui a fianco). Anche su questo aspetto, che ha allungato parecchio le trattative e interessa soprattutto i sindacati più “settoriali”, l’accordo costruisce un ponte fra vecchio e nuovo sistema, che però non è privo di incognite.
Dopo la firma definitiva, i sindacati avranno 30 giorni per comunicare all’Aran, con «idonea documentazione», l’intenzione di allearsi fra loro per rispettare i nuovi parametri, per poi ratificare il nuovo assetto entro la fine del 2017
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICodice, i correttivi dei progettisti. Corradino (Anac): la centralità del progetto recuperata nelle linee guida.
Appalti. Fondazione Inarcassa: modifiche a cauzione, obbligo dei parametri e soglie per la trattativa privata
Correggere il passaggio che impone il versamento della cauzione a corredo dell’offerta. Ripensare il tetto di 209mila euro per la trattativa privata e l’utilizzo delle commissioni targate Anac solo sopra la soglia comunitaria. Senza dimenticare la necessità di esplicitare l’obbigo di utilizzo del Dm parametri per gli importi a base di gara. Abbandonata l’idea di ottenere un capitolo dedicato ai servizi di progettazione, i professionisti puntano ad un obiettivo più realistico in fase di redazione della versione definitiva del Codice appalti: assestare tre o quattro correzioni mirate che, poi, possano essere messe a sistema in fase di preparazione delle linee guida Anac.
È quanto emerso ieri nel corso di un incontro a porte chiuse, organizzato dalla Fondazione Inarcassa per mettere attorno a un tavolo il consigliere dell’Autorità anticorruzione, Michele Corradino e i principali rappresentanti di architetti e ingegneri, alla vigilia dell’emanazione del parere delle commissioni parlamentari. Oggi è prevista la presentazione delle proposte dei relatori e domani è in programma la votazione.
Proprio Corradino ha affermato l’importanza che potranno avere le linee guida alle quali la commissione da lui presieduta comincerà a lavorare da domani: «Potranno recuperare l’unitarietà del sistema della progettazione». I punti che è possibile chiarire sono soprattutto tre. «Il primo è l’innalzamento della soglia per la trattativa privata. Se il tetto dovesse restare così alto, possiamo compensare con un rafforzamento della trasparenza e delle rotazioni». Quindi, ci saranno regole molto stringenti sullo svolgimento delle procedure negoziate. «Sulla qualificazione pensiamo che la nostra determina aveva trovato un punto di equilibrio che andrà difeso». In tema di fatturato si diceva di attestarsi sul doppio del giro d’affari rispetto all’importo dell’incarico. Ancora, «daremo indicazioni per l’offerta economicamente più vantaggiosa, dal momento che un appalto di progettazione non è uguale a un servizio di mensa».
Restano, però, sul tavolo diversi problemi che, secondo i progettisti, non possono essere risolti con le linee guida. Michele Lapenna, tesoriere del Consiglio nazionale degli ingegneri ne elenca qualcuno: «Bisogna esplicitare l’obbligo di utilizzo del Dm parametri, andrà ritoccata la norma sulla cauzione, così come le regole sul sottosoglia e sulle commissioni giudicatrici. Servirebbe, poi, la previsione di nuove linee guida per la progettazione». Senza dimenticare il tema delle risorse, indicato dal presidente Cni, Armando Zambrano: «Il Codice prevede un fondo per la sola progettazione delle opere strategiche, ma mi chiedo come si farà per le altre».
Approccio simile dal presidente della Fondazione Inarcassa, Andrea Tomasi: «Con le regole sul Dm parametri torniamo al libero arbitrio delle stazioni appaltanti. La struttura di questo Codice non ci piace. Avremmo voluto che fosse rivisto il vecchio approccio, dando una dignità maggiore ai servizi di progettazione e regolando meglio il ruolo di programmazione della Pa».
Poco coraggio c’è stato sui concorsi, come dice il presidente del Consiglio nazionale degli architetti, Giuseppe Cappochin: «Il testo non agisce sul problema principale, che è la mancanza nella Pa di strutture capaci di fare i concorsi». Infine, il presidente di Inarcassa, Giuseppe Santoro sulla regolarità contributiva sollecita «regole chiare e semplici per tutti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti semplificati. Saranno quattro, per 2,5 mln di lavoratori. PUBBLICO IMPIEGO/ Ok all'accordo. Palazzo Chigi, norme ad hoc.
Semplificazione al via per i contratti del pubblico impiego. Saranno 4 per 2,5 milioni di lavoratori della pa rispetto agli attuali 11: Funzioni centrali, Funzioni locali, Sanità, Istruzione e ricerca e i relativi comparti.
I sindacati e l'Aran, l'agenzia governativa per la contrattazione nel pubblico impiego, dopo una non stop di 17 ore hanno sottoscritto l'accordo, anticipato ieri da ItaliaOggi, che attua un pezzo della riforma Brunetta datata 2009. Un restyling che consentirà l'omogeneizzazione della disciplina normativa e anche economica del rapporto di lavoro, al quale sfuggono i soli dipendenti della Presidenza del consiglio dei ministri.
I circa 1200 travet di Palazzo Chigi continueranno infatti a usufruire di un regime speciale, così come previsto dall'articolo 74 del decreto legislativo n. 150/2009, richiamato all'articolo 2 dell'intesa. Una specificità, sul fronte economico e normativo, che rende di fatto l'amministrazione al servizio del premier, Matteo Renzi, un comparto autonomo, il quinto.
Le operazioni di accorpamento hanno riguardato i ministeri, gli enti pubblici non economici e, nonostante le proteste del settore, le Agenzie delle entrate e delle dogane: finiscono nel comparto unico delle Funzioni centrali. E la scuola che con la ricerca, l'Afam e gli amministrativi delle università (fuori i docenti) darà vita al compartimento dell'istruzione e ricerca. La riduzione dei comparti determina anche la riduzione delle aree dirigenziali, sempre quattro. Per salvaguardare specifiche professionalità, è previsto che a una parte comune del contratto possano essere affiancate parti speciali.
Quanto alla rappresentatività sindacale all'interno dei nuovi settori, ed è stata la questione più dibattuta su cui si è rischiato di far saltare il tavolo, è prevista una fase transitoria, che fa salve le ultime elezioni delle Rsu, ma resta ferma la soglia del 5% di deleghe e voti. L'articolo 9 prevede che per i comparti delle Funzioni centrali e dell'Istruzione, in cui si hanno gli accorpamenti più sostanziosi, entro 30 giorni dalla data di sottoscrizione dell'accordo le organizzazioni sindacali diano vita, tramite «fusione, affiliazione o in altra forma, a una nuova aggregazione associativa cui imputare le deleghe».
Le sigle che intendono avvalersi di tale facoltà dovranno trasmettere le necessarie modifiche statutarie all'Aran. La ratifica di queste modifiche, tramite congresso, potrà però intervenire successivamente, entro il 31.12.2017. Saranno dunque i singoli sindacati a decidere, seppure con tempi contingentati, l'assetto interno con sui sedersi al tavolo. In via eccezionale, sempre per le Funzioni centrali e per l'Istruzione, anche le sigle che non hanno optato per la nuova aggregazione potranno «partecipare» ai rinnovi contrattuali 2016-2018.
«Il sindacato ha fatto la sua parte, adesso tocca al governo fare la sua, rinnovando i contratti fermi da sette anni», hanno commentato le sigle Cgil. «Non ci sono più alibi, ora vogliamo un contratto pieno e soddisfacente per i lavoratori», commenta il segretario confederale Uil, Antonio Foccillo, anche se ad oggi, dice Foccillo, «sono troppe le incognite sia sul piano economico che su quello normativo. Ma noi siamo pronti a trovare le soluzioni».
«Abbiamo semplificato il meccanismo della rappresentanza senza penalizzare le organizzazioni rappresentative che avevano partecipato alle ultime elezioni delle Rsu», spiega il segretario confederale della Cisl, Maurizio Bernava. Ora si attende l'apertura del confronto sui nuovi contratti. Prima però, hanno concordato sindacati e Aran in una nota aggiunta in calce all'intesa, serve un accordo quadro sui modelli di relazione sindacale nel lavoro pubblico. Obiettivo: introdurre i meccanismi di flessibilità e decentramento già previsti per il lavoro privato (articolo ItaliaOggi del 06.04.2016).

PATRIMONIO: Obbligo di led anche sui vecchi semafori. Sicurezza. Disciplina in vigore dal 2 febbraio per ogni caso in cui si sostituiscono le lampadine esistenti.
Dal 2 febbraio scorso, nei semafori non si possono più utilizzare lampadine tradizionali: quando occorre sostituire quelle a incandescenza guaste o esaurite vanno adottati modelli a basso consumo, anche a led.
Lo stabilisce l’articolo 20 della legge 221/2015, con lo scopo dichiarato di favorire il risparmio energetico e la green economy. Ma potrebbe anche esserci un altro effetto, negativo: semafori meno sicuri, perché con luci meno visibili e più soggette a malfunzionamenti. Infatti, la legge prescrive di apportare agli impianti tutte le modifiche tecniche necessarie per adattarli alle nuove lampadine, ma di fatto ciò è difficile da garantire.
Questo problema era stato tra i motivi per cui tra il 2013 e il 2014 un analogo obbligo era stato prima inserito e poi cancellato, anche a causa dei pareri negativi espressi dagli uffici tecnici del ministero delle Infrastrutture. Tutto era avvenuto con emendamenti a decreti legge su materie del tutto diverse, dando l’idea che si fosse in presenza dei consueti blitz fatti in Parlamento su pressioni lobbistiche.
La norma entrata in vigore aggiunge un comma, l’8-bis, all’articolo del Codice della strada che parla dei semafori (il 41). Dispone che le sostituzioni negli impianti esistenti devono essere effettuate con lampade a basso consumo energetico e tra esse cita espressamente quelle a led. Richiede in ogni caso che le lampade da installare abbiano marchiatura Ce e «attacco normalizzato E27» (uno standard di forma -in pratica,le lampadine che si avvitano- e dimensione) e garantiscano l’accensione istantanea (un requisito fondamentale, da quando non pochi semafori sono “presidiati” da sistemi automatici che rilevano le infrazioni attivandosi proprio quando parte il segnale di accensione del rosso, che quindi deve essere immediatamente percepibile dai guidatori).
La norma si pone anche il problema dell’adattamento dei semafori più vecchi alle nuove lampade. Perciò prescrive di conservare immutata la struttura ottica esistente, ma solo se ciò è «tecnicamente possibile»; in caso contrario, sono ammesse modifiche. Infine, per le lampade a led, occorre prevedere lo spegnimento automatico se si rompe anche un solo elemento sulle centinaia che le compongono, in modo da «garantire l’uniformità del segnale luminoso».
Dunque, requisiti piuttosto stringenti. Che probabilmente metteranno fuori gioco molti semafori appena ci sarà da cambiare la prima lampadina, se non altro perché non tutti hanno gli attacchi E27: ce ne sono anche del tipo “a baionetta”. Diventerà quindi necessario sostituire urgentemente interi impianti semaforici e non è detto che gli enti proprietari abbiano immediatamente in cassa i soldi necessari e riescano a espletare subito tutte le procedure necessarie per affidare i lavori. Così si rischia che alcuni incroci restino senza regolazione per settimane o mesi.
Inoltre, la severità dei requisiti non impedisce che il “trapianto” delle nuove lampadine sui vecchi semafori sia esente da rischi di “rigetto”. Innanzitutto, va verificata la compatibilità elettromagnetica, per evitare che col nuovo abbinamento si creino correnti e campi in grado di provocare malfunzionamenti. Poi, visto che si parla di impianti installati all’aperto in mezzo al traffico, bisogna essere sicuri che resti immutata la resistenza a umidità e vibrazioni. Infine, va considerata la sicurezza per software e hardware di gestione dei semafori (ci sono norme europee armonizzate che hanno assunto valore di legge, come le En 50556 e 12675), che non sono adattabili a qualsiasi lampadina.
Il nuovo comma 8-bis non considera tutto questo: si limita a prescrivere la conservazione dell’impianto originario quando «tecnicamente possibile», ma lo fa solo per la struttura ottica. Quindi si occupa esclusivamente del problema che nasce dal fatto che le lampadine a incandescenza emettono luce calda, quelle a led luce fredda, per cui le lenti colorate vanno cambiate per mantenere la colorazione originaria.
In mancanza di prescrizioni sugli altri problemi, alcuni costruttori di semafori stanno valutando se inviare agli enti proprietari di strade comunicazioni in cui declinano ogni responsabilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Regolamento edilizio unico, città ancora in ordine sparso. Tra un Comune e un altro spesso mutano anche le definizioni.
Urbanistica. Ampie differenze nelle nozioni di superficie, volume e distanze.
Tutti i Comuni dovranno adeguare i propri regolamenti edilizi alle definizioni che troveranno posto nel nuovo regolamento edilizio tipo; per alcuni sarà più semplice, per altri più complicato. Dipende dalla “distanza” che separa l’attuale regolamento edilizio del singolo Comune dalla bozza di regolamento unico già diffusa.
L’articolo 17-bis del decreto legge 133/2014 (il cosiddetto Sblocca Italia) ha previsto che Governo, Regioni e Autonomie locali elaborino un testo standard, per mettere fine alla babele dei regolamenti edilizi diversi uno dall’altro, vigenti negli oltre 8mila Comuni.
La sua approvazione è un tassello del più grande mosaico dell’agenda per semplificazione per il triennio 2015-2017, che punta molto anche sull’unificazione delle diverse procedure in campo edilizio. L’approvazione del regolamento tipo è in ritardo sul calendario dell’agenda: il via libera ai Comuni doveva essere dato entro lo scorso mese di novembre.
Al momento una prima serie di definizioni è già stata messa a punto e approvata nel tavolo tecnico a cui partecipano, oltre al dipartimento della Funzione pubblica anche il ministero Infrastrutture e tutte le Autonomie. La versione finale del regolamento dovrà poi essere approvata in Conferenza unificata, una volta completata la redazione di tutte le parti del regolamento. Poi i Comuni dovranno adottare il regolamento unico entro i termini che saranno stabiliti con gli accordi in sede di conferenza unificata. L’adozione è inderogabile: il regolamento tipo costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali da applicare con uniformità su tutto il territorio nazionale.
Le definizioni
Il gruppo tecnico è arrivato a una definizione condivisa dei parametri edilizi, dopo aver sentito anche i rappresentanti degli Ordini professionali e delle imprese del settore. Il capitolo del regolamento riguardante le definizioni è particolarmente importante: esse stabiliscono le distanze tra edifici, le loro altezze e gli altri parametri da tenere presente nella progettazione e nella realizzazione di case, capannoni e ogni altra opera edilizia. Mettere d’accordo tutte le regioni su 42 descrizioni non è stato un percorso sempre in discesa. Si è trattato di fare una sintesi delle descrizioni contenute nei singoli regolamenti vigenti, dove sotto un’identica voce sono definiti fenomeni diversi. La distanza maggiore è quella relativa alla nozione di superficie.
Anche se formalmente potrebbe essere sufficiente sostituire il nuovo al vecchio testo, nell’applicazione concreta ogni Comune dovrà lavorare anche di taglia e cuci per raccordare le pratiche in essere con le nuove, e, forse, non tutti i Comuni saranno contenti di vedere eccessivamente compressa la loro autonomia. L’operazione coinvolgerà sostanzialmente tutti i Comuni: è difficile che ce ne sia qualcuno in cui le vecchie e le nuove definizioni coincidano.
Le attuali distanze
L’aspetto comune ai regolamenti di un campione di città capoluogo di provincia prese in esame nella scheda a fianco è il maggior dettaglio che le definizioni dei parametri edilizi presenta oggi rispetta alle definizioni standard che saranno adottate; spesso non coincidono neanche le denominazioni. Difficile, tuttavia, elaborare un indicatore sintetico per ordinare i regolamenti in base a quanto ognuno di essi si discosta dal futuro standard. È possibile invece cogliere le differenze per le singole voci.
Le descrizioni di superficie coperta a Bologna, Cagliari e Roma non sono proprio coincidenti con quella del regolamenti tipo, ma si discostano per pochi particolari. Nelle altre città la distanza aumenta: soprattutto a Palermo, Torino e Venezia, dove ora le descrizioni del parametro elencano le diverse parti dell’immobile le cui superfici concorrono a formare quella coperta.
Anche l’esame delle altre tipologie di superficie mostra che la necessità di adattamento alle nuove descrizioni delle grandezze varia da città a città. A Milano la definizione di superficie lorda è molto minuziosa ed elenca anche gli elementi che vi rientrano, mentre il regolamento vigente non definisce la superficie utile. Anche per le altre definizioni lo scarto differisce da Comune a Comune. Nel caso del volume totale, per esempio, dalla definizione futura Bologna si discosta poco, mentre Napoli, Bari e Palermo sono molto più lontane.
È probabile che, in molti casi, i criteri per la determinazione quantitativa dei parametri che ora sono parti importanti delle definizioni possano essere riportati in testi allegati ai nuovi regolamenti. Con l’approvazione del testo completo del regolamento in conferenza unificata, saranno decisi anche i margini di libertà dei Comuni sui singoli punti, definizioni comprese
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Rosso sì, ma non per la polizza. Il semaforo non legge la mancata copertura assicurativa. CIRCOLAZIONE STRADALE/ Per il ministero dei trasporti la norma non lo permette.
Passare con il semaforo rosso può costare caro al trasgressore. Ma alla multa per mancato rispetto della lanterna non potrà unirsi pure quella ben più grave per mancanza della copertura assicurativa del veicolo. Non lo permette la norma.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 21.03.2016 n. 1787 di prot..
Il contrasto dei furbetti dell'assicurazione parte in salita nonostante tutte le buone intenzioni sbandierate dal legislatore.
In questi anni si sono infatti stratificati numerosi interventi normativi ma gli effetti concreti sono sempre modesti. In conseguenza delle modifiche che sono state introdotte dalla legge di Stabilità 2012, l'art. 193 del codice della strada prevede che l'accertamento della mancanza di copertura assicurativa obbligatoria del veicolo possa essere effettuato anche utilizzando alcuni dispositivi omologati per il funzionamento in modo completamente automatico. Ovvero autovelox, varchi ztl e altri strumenti poco diffusi. In questo caso il trasgressore che viola le norme di comportamento e non è assicurato incorre in una duplice sanzione.
L'altra procedura di contrasto dei furbetti del tagliando assicurativo è invece quella prevista dall'art. 31 del dl 1/2012, convertito nella legge 27/2012, non ancora operativa per la mancanza degli adempimenti previsti dall'art. 31 che prefigura una procedura di accertamento della violazione in via autonoma. La legge di Stabilità 2016, infine, conferma questo trend.
Per quanto riguarda il controllo della mancata copertura assicurativa, della revisione e del trasporto irregolare di cose sui mezzi a motore una piccola modifica all'art. 201 del codice della strada ad avviso degli estensori permetterà il controllo automatico di queste importanti infrazioni da remoto. Ma solo tra qualche anno, ovvero quando saranno disponibili attrezzature specificamente omologate per questo particolare tipo di accertamenti.
Il ministero con il parere del primo giorno di primavera conferma queste indicazioni evidenziando in particolare che i dispositivi per il controllo delle infrazioni semaforiche non permettono di controllare la mancata copertura assicurativa. Manca la norma di riferimento (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTILa verifica dell’anomalia risulta del tutto conforme al paradigma procedimentale previsto dagli articoli citati ed in particolare dall’art. 88, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, che consente l’istituzione di una commissione ad hoc per l’“esame delle giustificazioni prodotte” in tale sede dell’offerente, ferma rimanendo la competenza della stazione appaltante (rappresentata dal RUP) a decidere definitivamente sulla congruità o meno dell’offerta.
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7.3.1. Il thema decidendum si restringe quindi all’esame dei primi due motivi di ricorso con i quali si fanno valere vizi astrattamente idonei ad inficiare l’intera procedura svolta, rispetto ai quali la ricorrente conserva l’interesse strumentale alla ripetizione totale della gara (primo motivo), ovvero del solo sub-procedimento di verifica di anomalia nei confronti di tutte le offerte (secondo motivo).
7.4. Con il primo motivo, la ricorrente contesta l’illegittima composizione della commissione di gara, per violazione dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, a causa del fatto che il commissario di polizia locale Au.Va. (componente tecnico sia della Commissione giudicatrice che di quella nominata per l’esame dell’anomalia dell’offerta) avrebbe svolto “per il comune di Treviso l’incarico di rappresentante e responsabile dei servizi di vigilanza del Palazzo di Giustizia di Treviso, svolti sino ad oggi anche dalla polizia municipale di Treviso”.
Secondo la ricorrente anche un altro membro della commissione (la dott.ssa La.Te.) verserebbe nella stessa situazione di incompatibilità.
7.4.1. La censura non merita accoglimento.
Ed invero, né il Commissario Va. né la dott.ssa Te. hanno svolto alcuna “funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto di cui si tratta” (art. 84, comma 4, cit.), avendo partecipato entrambi al procedimento di affidamento di un contratto di appalto diverso da quello per cui vi è causa (l’appalto di vigilanza, tele vigilanza e telesorveglianza di alcuni immobili del Comune).
Del pari, non integra alcuna causa d’incompatibilità ai sensi dell’art. 84, comma 4, cit. il fatto che il Commissario Va. abbia anche svolto funzioni di sorveglianza dell’ingresso del palazzo di giustizia in questione, trattandosi all’evidenza di funzioni ricomprese nei compiti d’istituto del predetto Commissario.
7.5. Quanto al secondo motivo di ricorso, diretto a censurare il sub-procedimento di verifica dell’anomalia, deve rilevarsi che, come emerge dai verbali del 4 e 08.08.2015, esso è stato attivato dal RUP e condotto da una commissione con una formazione diversa da quella della Commissione giudicatrice, in quanto composta dall’ing. R.M. (RUP), dal Commissario Va. (Componente tecnico), dal dott. L.B. (segretario dalla Commissione).
Dal verbale del 24.08.2015, emerge infine che la valutazione della congruità dell’offerta presentata da Si. è stata definitivamente effettuata dal RUP, ai sensi dell’art. 88, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006.
7.5.1. Tanto premesso, il fatto che sia stato quest’ultimo a svolgere, con l’ausilio di un’apposita commissione, la verifica dell’anomalia risulta del tutto conforme al paradigma procedimentale previsto dagli articoli citati ed in particolare dall’art. 88, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, che consente l’istituzione di una commissione ad hoc per l’“esame delle giustificazioni prodotte” in tale sede dell’offerente, ferma rimanendo la competenza della stazione appaltante (rappresentata appunto dal RUP) a decidere definitivamente sulla congruità o meno dell’offerta (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 08.04.2016 n. 363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 ) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
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Con il secondo motivo di ricorso si contesta il merito sia dell’ordine di demolizione sia del diniego di sanatoria: lo stesso è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei termini, sicché il ricorrente non può tardivamente rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse, potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
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L’ordine di demolizione è atto dovuto e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella specie, non può giammai legittimare.

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... per l'annullamento del provvedimento del 13.02.2010 prot. 616 a firma del responsabile dell'ufficio tecnico del Comune di Campodipietra con il quale il Comune ha respinto la richiesta di sanatoria, nonché di ogni atto prodromico o consequenziale, compresa l'ordinanza di demolizione del 05.11.2008 prot. 5148;
...
Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 38/2001 a mente del quale: <<Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale>>.
In sostanza, secondo il ricorrente, il Comune non avrebbe considerato che la demolizione parziale delle opere difformi comporterebbe pregiudizio anche delle porzioni di esso regolarmente assentite, in quanto queste sarebbero strutturalmente compenetrate con le prime.
Il motivo è, in primo luogo, inammissibile, in quanto esso non può che riferirsi all’ordine di demolizione che, tuttavia, parte ricorrente non ha impugnato nei termini (il provvedimento in questione è del 05.11.2008, mentre il ricorso è stato notificato, come detto, in data 16.04.2010), con la conseguenza che ogni doglianza non può che appuntarsi sul diniego di sanatoria, essendo il ricorrente decaduto dalla possibilità di far valere in via diretta eventuali vizi del provvedimento molitorio.
Né l’addotto vizio dell’ordine di demolizione potrebbe essere invocato come causa di illegittimità del successivo diniego di sanatoria, in quanto la denunciata violazione riguarda le modalità di reazione al rilevato abuso ovvero un profilo specificamente riguardante l’ordine di demolizione non suscettibile di riverberarsi sul diniego che, come si preciserà ulteriormente con riguardo al secondo motivo, costituisce il risultato di un procedimento autonomo.
Quand’anche poi si ipotizzasse l’ammissibilità di una tale censura, essa sarebbe comunque infondata, atteso che secondo la giurisprudenza, anche di questo Tribunale, <<L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 ) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001>> (cfr. ex multis: TAR Molise, 04.12.2015, n. 455; da ultimo anche TAR Lazio 4 febbraio 2016, sez. I-quater, n. 1677).
Con il secondo motivo di ricorso, il sig. -OMISSIS- contesta il merito sia dell’ordine di demolizione sia del diniego di sanatoria, rilevando, con riferimento al primo, che le violazioni contestate al sig. -OMISSIS- (1. modifica sostanziale dei prospetti, con diversa imostazione delle falde; 2. modifica del corpo scala che non risulta dai prospetti; 3. realizzazione di un porticato con pilastri in muratura e copertura in legno; 4. due piccoli locali destinati a deposito) non integrerebbero abusi, mentre, con riferimento al secondo, che la motivazione di esso non sarebbe coincidente con quella dell’ordinanza demolitoria, evidenziando quindi un’illegittima contraddittorietà.
Il motivo, nelle due censure in cui si articola è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei termini, sicché il ricorrente non può tardivamente rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse, potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
Con specifico riferimento alle violazioni rilevate con il provvedimento di diniego, poi, il ricorrente nemmeno le contesta nella loro oggettiva sussistenza, limitandosi a negare che le stesse costituiscano violazioni della normativa edilizia, non avvedendosi che le rilevate difformità attengono alle altezze, alla distanza dalle altre costruzioni, alla volumetria e al lotto minimo integrando violazioni tipiche e anche gravi della normativa edilizia.
Né parte ricorrente contesta la circostanza, rilevata nel provvedimento di diniego di sanatoria, che le opere realizzate fossero difformi sia alla disciplina edilizia vigente al momento in cui esse sono state realizzate sia a quella in vigore quando è stata proposta la domanda di sanatoria, in violazione del c.d. principio della doppia conformità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001. Tale disposizione prevede che: <<In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso….il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda>>.
Nel caso di specie è stata, invece, accertata la sussistenza di difformità edilizie tanto al tempo della loro realizzazione quanto a quella della proposizione dell’istanza di condono, con la conseguenza che il diniego di condono costituiva un atto dovuto (ex multis: TAR Veneto, sez. I, 20.11.2015, n. 1239).
Con riguardo a tale ultimo profilo, e si giunge così allo scrutinio del terzo motivo di censura, la valutazione demandata agli organi comunali sulla sanatoria edilizia non presuppone, come sostiene parte ricorrente, la comparazione di ipotetici interessi antagonisti e, cioè, tra l'interesse pubblico primario all'ordinato sviluppo del territorio con quello secondario del privato alla regolarizzazione edilizia del manufatto abusivo, essendo piuttosto intesa all'obiettivo riscontro della conformità dell'opera con la disciplina legale.
Tali considerazioni valgono, ovviamente, anche per l’ordine di demolizione che è atto dovuto e che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella specie, non può giammai legittimare (cfr. ex multis da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII, 17.03.2016, n. 1454).
Peraltro, a quanto appena rilevato si aggiunge nella fattispecie che il sig. -OMISSIS- non ha mai provveduto ad integrare la documentazione dell’istanza di sanatoria, sebbene il Comune ne abbia a più riprese sollecitato l’invio per poter procedere al riesame dei provvedimenti impugnati, secondo quanto prescritto dall’ordinanza cautelare n. 143/2010 di questo Tribunale, con ciò sottraendosi ad un onere fissato nel suo stesso interesse.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Molise, sentenza 08.04.2016 n. 171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Consiglio di Stato ha reso il parere sul decreto sulla conferenza di servizi (Schema di decreto legislativo recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”).
I punti principale del parere del Consiglio di Stato sulla conferenza dei servizi.
1. La norma di delega e lo schema di decreto legislativo
La delega contenuta nell’art. 2 della legge n. 124 del 2015 mira a riformare integralmente la conferenza di servizi, il principale istituto di semplificazione in caso di procedimenti complessi, che richiedono una valutazione contestuale tra plurimi interessi, sia pubblici sia privati, in vista di un risultato finale unitario.
La delega si fonda su alcuni principi innovativi (accanto ad altri confermativi della disciplina vigente), fra i quali:
• la riduzione delle ipotesi in cui la conferenza di servizi è obbligatoria;
• la possibilità di limitare l’obbligo di presenziare alle riunioni della conferenza ai soli casi di procedimenti complessi;
• la partecipazione in conferenza di un rappresentante unico, anche per le amministrazioni statali;
• l’espressa introduzione del potere di autotutela;
• le nuove modalità di superamento del dissenso, che assume ora la forma di un’opposizione dinanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Lo schema si compone di due Titoli:
• il Titolo I opera la completa riformulazione degli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241;
• il Titolo II contiene, invece, le disposizioni di coordinamento fra tale disciplina generale e la normativa di settore che regola lo svolgimento della conferenza di servizi.
2. Il contenuto del parere reso dal Consiglio di Stato: aspetti generali.
L’importanza della formazione, della comunicazione istituzionale, del monitoraggio.
Il Consiglio di Stato rileva che la disciplina della conferenza di servizi è stata modificata in tutte le legislature e da quasi tutti i Governi dal 1990 ad oggi; auspica che il futuro decreto legislativo si riveli più efficace dei molteplici interventi legislativi precedenti, ma ritiene altresì necessario chiedersi se, dopo tanti tentativi, la soluzione non possa risiedere anche in interventi ulteriori e di tipo diverso rispetto a quello dell’(ennesima) novella della legge n. 241.
Il parere auspica che, oltre alla semplificazione procedimentale conseguibile con il nuovo testo, si debba perseguire una semplificazione sostanziale, che si concretizzi in politiche pubbliche capaci di regolare e graduare i diversi interessi, allo scopo di rendere più agevole la loro composizione.
È necessario poi adottare misure ‘non normative’ di sostegno alla riforma:
- la prima riguarda il ‘fattore umano’, che ricopre un ruolo fondamentale per il successo della riforma. Occorrono amministratori professionalmente ‘capaci’ e in grado di condurre il processo decisionale verso decisioni corrette, tempestive e non incentrate solo su profili giuridico-amministrativi: appare dunque indispensabile un programma formativo ad hoc, che ben potrebbe essere affidato alla supervisione della riformata Scuola nazionale dell’amministrazione (SNA);
- occorre altresì che il Governo si impegni in un’opera di comunicazione istituzionale delle potenzialità dei nuovi strumenti e di diffusione della cultura del cambiamento, rivolta agli amministratori, ma anche agli operatori privati;
- è necessario, infine, che la fase di implementazione della riforma in atto venga accompagnata da adeguate misure di monitoraggio delle prassi applicative, ricorrendo allo strumento della verifica di impatto della regolamentazione (VIR).
3. La partecipazione del privato alla conferenza di servizi.
Il parere rileva l’opportunità di reintrodurre in modo espresso nel nuovo testo la possibilità per il privato di partecipare attivamente ai lavori della conferenza, con pieno accesso ai relativi atti (facoltà che è invece prevista dall’attuale art. 14-ter).
4. I rapporti fra la nuova conferenza di servizi e le valutazioni ambientali (VIA e VAS).
Si suggerisce di operare un più adeguato raccordo fra la disciplina della conferenza di servizi e la disciplina speciale in tema di valutazioni ambientali (VIA e VAS), in particolare estendendo le previsioni di cui al nuovo art. 14 anche alle ipotesi di progetti sottoposti a VIA statale (mentre l’attuale formulazione esclude in modo espresso tale possibilità).
5. La possibilità di far eseguire l’istruttoria da organismi privati.
Il parere ritiene utile riproporre la previsione di cui all’attuale art. 14-ter, secondo cui l’amministrazione procedente può far eseguire l’attività istruttoria prodromica alle decisioni della conferenza anche da altri organi della P.A. o da istituti universitari, ponendo i relativi oneri economici a esclusivo carico del privato richiedente che vi consenta.
6. Tempi certi e responsabilizzazione del privato e della P.A.
Il Consiglio di Stato condivide la ratio acceleratoria sottesa alla formulazione del nuovo art. 14-bis (Conferenza semplificata); occorre però, al contempo, responsabilizzare anche il privato richiedente imponendo la presentazione di istanze complete e ben istruite.
7. Conferenza in modalità ‘sincrona’ e ‘asincrona’, ‘semplificata’ e ‘simultanea’: un necessario chiarimento.
Il parere raccomanda di chiarire se sussista una distinzione, ovvero un rapporto di specialità fra le ipotesi di conferenza “in forma simultanea” e quelle “in modalità sincrona”.
8. Il ‘rappresentante unico’ delle amministrazioni statali: alcuni necessari chiarimenti.
Una delle principali innovazioni della riforma è il rappresentante unico delle amministrazioni statali. La Commissione speciale esprime il proprio favore per una disciplina che appare bilanciata, prevedendo:
- da un lato, una regolazione flessibile del rapporto tra rappresentante unico e amministrazioni statali;
- dall’altro, la possibilità di partecipazione e di intervento, ma senza diritto di voto, delle altre amministrazioni.
Il parere rappresenta però l’esigenza:
- di specificare chi dispone la nomina del rappresentante unico a livello periferico (per quello centrale c’è il Presidente del Consiglio);
- di evitare che il rappresentante unico (nell’ambito di decisioni assunte a maggioranza) risulti sistematicamente in minoranza;
- di chiarire meglio quanti sono i rappresentanti unici per gli enti, o i livelli, locali.
9. Il ritiro in autotutela della determinazione conclusiva.
Il parere condivide l’impostazione secondo cui l’amministrazione rimasta inerte durante la conferenza di servizi non possa poi sollecitare l’adozione del ritiro in autotutela della determinazione conclusiva (art. 14-quater). Occorrerebbe, tuttavia, temperare tale soluzione nei casi in cui la richiesta di autotutela non si fondi su ragioni di opportunità, bensì su ragioni di legittimità.
10. La funzionalizzazione delle modalità di componimento del dissenso.
Per quanto riguarda l’art. 14-quinquies, circa i rimedi per le amministrazioni dissenzienti, il parere raccomanda al Governo di:
- reintrodurre l’obbligo di un dissenso che sia espresso in sede di conferenza di servizi, pertinente, motivato e costruttivo;
- valutare se sia funzionale risolvere sempre al livello centrale la procedura di componimento e se ciò corrisponda davvero ai principi di sussidiarietà e del ‘minimo mezzo’.
11. Le modifiche al T.U. edilizia: rapporti con la disciplina del silenzio-assenso.
Per quanto riguarda l’art. 2 dello schema di decreto, recante modifiche al T.U. edilizia del 2001, il Consiglio di Stato invita a valutare se sia sempre indispensabile indire una conferenza di servizi anche nelle ipotesi in cui si potrebbe fare applicazione nuovo articolo 17-bis della legge n. 241 del 1990 (in tema di silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici).
12. Il coordinamento con la disciplina in tema di autorizzazione paesaggistica.
In relazione all’art. 6 dello schema di decreto, il parere raccomanda di introdurre correttivi per evitare il rischio che il parere del Soprintendente sia espresso a ridosso dello spirare del termine di conclusione della conferenza (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 07.04.2016 n. 890 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La Corte di Giustizia interviene su alcuni ambiti di carattere sostanziale del diritto degli appalti: limiti dell’avvalimento; unitarietà dell’offerta; ripetizione di gara in caso di mancato esame di offerta ammissibile.
La normativa europea in materia di avvalimento negli appalti pubblici deve essere interpretata nel senso che: in primo luogo è riconosciuto il diritto di qualunque operatore economico di fare affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi, purché sia dimostrato all’amministrazione aggiudicatrice che il candidato o l’offerente disporrà effettivamente delle risorse di tali soggetti che sono necessarie per eseguire detto appalto; in secondo luogo, non è escluso che l’esercizio di tale diritto possa essere limitato, in circostanze particolari, tenuto conto dell’oggetto dell’appalto in questione e delle finalità dello stesso.
È quanto avviene, in particolare, quando le capacità di cui dispone un soggetto terzo, e che sono necessarie all’esecuzione di detto appalto, non siano trasmissibili al candidato o all’offerente, di modo che quest’ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente all’esecuzione di tale appalto.
In tema di avvalimento, l’art. 48, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2004/18 deve essere interpretato nel senso che, tenuto conto dell’oggetto di un determinato appalto e delle finalità dello stesso, l’amministrazione aggiudicatrice può, in circostanze particolari, ai fini della corretta esecuzione dell’appalto, indicare espressamente nel bando di gara o nel capitolato d’oneri regole precise secondo cui un operatore economico può fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, purché tali regole siano connesse e proporzionate all’oggetto e alle finalità di detto appalto.
I principi di parità di trattamento e di non discriminazione degli operatori economici, enunciati all’art. 2 della direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, ostano a che un’amministrazione aggiudicatrice, dopo l’apertura delle offerte presentate nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico, accetti la richiesta di un operatore economico, che abbia presentato un’offerta per l’intero appalto in questione, di prendere in considerazione la sua offerta ai fini dell’assegnazione solo di determinate parti di tale appalto.
I medesimi principi di parità di trattamento e di non discriminazione, devono essere interpretati nel senso che richiedono l’annullamento e la ripetizione di un’asta elettronica alla quale un operatore economico che aveva presentato un’offerta ammissibile non sia stato invitato, e ciò anche se non può essere accertato che la partecipazione dell’operatore escluso avrebbe modificato l’esito dell’asta.
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Con la sentenza 07.04.2016 n. C-324/14 la Corte di Giustizia, Sez. I, torna ad affrontare alcune delicate questioni interpretative in ambiti sostanziali del diritto degli appalti.
In primo luogo, vengono dettate una serie di interessanti precisazioni in tema di avvalimento.
Per un verso, dopo aver ribadito la generalità dell’istituto e della relativa applicabilità (con conseguente libertà dell’offerente di stabilire vincoli con i soggetti sulle cui capacità fa affidamento e di scegliere la natura giuridica di tali vincoli), si precisa come l’offerente stesso sia in ogni caso tenuto a dimostrare di disporre effettivamente dei mezzi di tali soggetti che non gli appartengono in proprio e che sono necessari per l’esecuzione di un determinato appalto.
Per altro verso, dopo aver ribadito la regola generale a mente della quale l’amministrazione aggiudicatrice non può imporre condizioni espresse che possano ostacolare l’esercizio del diritto di avvalimento, si detta una possibile eccezione: l’esercizio di tale diritto può essere limitato in circostanze particolari, in cui non è da escludere a priori che l’amministrazione aggiudicatrice, ai fini della corretta esecuzione dell’appalto di cui trattasi, possa indicare espressamente, nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, regole di dettaglio, le quali devono essere connesse e proporzionate all’oggetto e alle finalità di detto appalto.
In secondo luogo, vengono dettate alcune regole applicative dei principi fondamentali, noti sotto la dizione di parità di trattamento e non discriminazione.
Per un verso, tali principi escludono che, a fronte dell’offerta presentata da un operatore economico per l’intero appalto in questione, la stazione appaltante possa prendere in considerazione la stessa offerta ai fini dell’assegnazione solo di determinate parti di tale appalto. Viene quindi ribadito altresì il principio di immodificabilità dell’offerta.
Per altro verso, tali principi impongono l’annullamento e la ripetizione di un’asta elettronica alla quale un operatore economico che aveva presentato un’offerta ammissibile non sia stato invitato, e ciò anche se non può essere accertato che la partecipazione dell’operatore escluso avrebbe modificato l’esito dell’asta. Tale statuizione appare connessa, sul versante sostanziale, con quanto affermato pochi giorni prima dalla Grande sezione, sul versante processuale, in relazione all’obbligo di esaminare tutti i ricorsi, incidentale e principale, proposti dalle imprese partecipanti alla gara d’appalto, cui consegue il superamento dell’orientamento (a suo tempo fatto proprio dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2011), circa l’esame prioritario del ricorso incidentale escludente (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
1) Gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, letti in combinato disposto con l’articolo 44, paragrafo 2, di tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che:
   – riconoscono il diritto di qualunque operatore economico di fare affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi, purché sia dimostrato all’amministrazione aggiudicatrice che il candidato o l’offerente disporrà effettivamente delle risorse di tali soggetti che sono necessarie per eseguire detto appalto, e
   – non è escluso che l’esercizio di tale diritto possa essere limitato, in circostanze particolari, tenuto conto dell’oggetto dell’appalto in questione e delle finalità dello stesso. È quanto avviene, in particolare, quando le capacità di cui dispone un soggetto terzo, e che sono necessarie all’esecuzione di detto appalto, non siano trasmissibili al candidato o all’offerente, di modo che quest’ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente all’esecuzione di tale appalto.
2) L’articolo 48, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2004/18 deve essere interpretato nel senso che, tenuto conto dell’oggetto di un determinato appalto e delle finalità dello stesso, l’amministrazione aggiudicatrice può, in circostanze particolari, ai fini della corretta esecuzione dell’appalto, indicare espressamente nel bando di gara o nel capitolato d’oneri regole precise secondo cui un operatore economico può fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, purché tali regole siano connesse e proporzionate all’oggetto e alle finalità di detto appalto.
3) I principi di parità di trattamento e di non discriminazione degli operatori economici, enunciati all’articolo 2 della direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, ostano a che un’amministrazione aggiudicatrice, dopo l’apertura delle offerte presentate nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico, accetti la richiesta di un operatore economico, che abbia presentato un’offerta per l’intero appalto in questione, di prendere in considerazione la sua offerta ai fini dell’assegnazione solo di determinate parti di tale appalto.
4) I principi di parità di trattamento e di non discriminazione degli operatori economici, enunciati all’articolo 2 della direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che richiedono l’annullamento e la ripetizione di un’asta elettronica alla quale un operatore economico che aveva presentato un’offerta ammissibile non sia stato invitato, e ciò anche se non può essere accertato che la partecipazione dell’operatore escluso avrebbe modificato l’esito dell’asta.
5) In circostanze come quelle di cui al procedimento principale, le disposizioni dell’articolo 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18 non possono essere interpretate alla luce di quelle dell’articolo 63, paragrafo 1, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18.

APPALTI: Appalti pubblici, rinvio alla Corte Ue sempre legittimo. Procedura. Non conta la regola amministrativa.
Nessun freno ai rinvii pregiudiziali alla Corte Ue. Se è in gioco il diritto dell’Unione, i giudici nazionali, in caso di dubbi interpretativi o applicativi, devono sospendere il procedimento interno e chiamare in aiuto Lussemburgo. Poco importa, quindi, se le regole processuali amministrative interne impongano di rinviare una questione all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue nella sentenza 05.04.2016 (causa C-689/13), su rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana alle prese con una procedura di aggiudicazione di appalti.
La società di gestione dell’aeroporto civile di Trapani aveva indetto una gara. La ditta “sconfitta” aveva impugnato il provvedimento di aggiudicazione, ma la società vincitrice aveva eccepito il difetto di interesse perché la ricorrente non aveva i requisiti per poter vincere l’appalto. Il tribunale aveva annullato l’aggiudicazione e condiviso l’assenza di interesse della ricorrente.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana ha chiamato in aiuto la Corte Ue sia per l’interpretazione della direttiva 89/665 che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, modificata dalla 2007/66, sia dell’articolo 267 del Trattato sul funzionamento della Ue che fissa le regole per i rinvii pregiudiziali.
Punto centrale è se sia ammissibile una norma interna che impedisca a una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza di rivolgersi agli eurogiudici, obbligando la sezione a rivolgersi all’Adunanza plenaria se intende discostarsi da un principio già affermato dalla stessa plenaria. Evidente la contrarietà al Trattato Ue. Il diritto interno –osserva Lussemburgo- «non può impedire a un organo giurisdizionale nazionale di avvalersi» del rinvio pregiudiziale, alla base del sistema di cooperazione tra giudici interni e Corte Ue. Non solo. Gli organi giurisdizionali nazionali, per assicurare l’effetto utile dell’articolo 267 del Trattato, devono applicare subito il diritto Ue in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e disapplicare di propria iniziativa le norme contrarie senza attendere “la previa rimozione legislativa” o altri procedimenti interni.
Di qui la conclusione che i giudici devono applicare i principi stabiliti nella sentenza Fastweb e, quindi, valutare sempre nel merito se l’appalto è stato legittimo. Questo anche se il ricorso di un offerente, interessato a ottenere l’aggiudicazione dell’appalto, sia dichiarato irricevibile per le norme processuali interne che prevedono un esame prioritario del ricorso incidentale presentato da chi si è aggiudicato l’appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sui ricorsi l'esame è di rigore. Appalti/sentenza della corte di giustizia europea.
È sempre obbligatorio esaminare il ricorso contro l'aggiudicazione di un appalto, anche se è stato proposto da chi non avrebbe dovuto partecipare alla gara; incompatibile la regola applicata in Italia per cui si valuta soltanto il ricorso di chi è legittimato a partecipare alla gara.

È quanto ha stabilito la
sentenza 05.04.2016 (causa C-689/13) della Corte Ue  in merito alla compatibilità del principio giurisprudenziale italiano secondo cui il giudice può valutare la richiesta di annullamento solo se proposta da soggetto che avrebbe potuto partecipare alla gara.
In una gara bandita nel 2012 la seconda classificata aveva infatti impugnato l'aggiudicazione al Tar Sicilia e l'aggiudicataria, con ricorso incidentale, aveva eccepito la carenza dei requisiti di partecipazione alla gara del secondo classificato e richiesto la sua esclusione.
Il Tribunale amministrativo regionale aveva accolto le argomentazioni di entrambe le parti, annullando l'aggiudicazione al primo classificato e non riconoscendo alcun diritto alla seconda classificata. La stazione appaltante ha poi proceduto ad affidare l'appalto con procedura negoziata, ovviamente facendo scattare i ricorsi al Consiglio di giustizia amministrativa siciliana di entrambi i soccombenti.
Il Collegio siciliano ha chiesto alla Corte europea di pronunciarsi in via pregiudiziale dal momento che in Italia vige la regola dettata dall'Adunanza plenaria del Consiglio di stato n. 4 del 07.04.2011, che impone al giudice di esaminare per primo il ricorso incidentale escludente (cioè quello proposto dal vincitore dell'appalto in «risposta» al ricorso principale proposto dalla società concorrente esclusa e teso a sancire l'inammissibilità di quest'ultimo) e, in caso di accoglimento, di omettere l'esame del ricorso presentato dal secondo classificato. Nel caso di specie, quindi, il Tar Sicilia non avrebbe dovuto esaminare il ricorso del secondo classificato ma limitarsi alla pronuncia sul ricorso incidentale proposto dall'aggiudicatario che quindi sarebbe rimasto titolare del contratto oggetto della gara e dell'aggiudicazione.
Il collegio europeo dà ragione al Tar Sicilia riprendendo i principi affermati nella sentenza C-100/12 Fastweb, di analogo contenuto, in cui si affermò la necessità di esaminare non soltanto il ricorso relativo all'offerta dell'escluso che ha proposto il ricorso principale (eventualmente dichiarando che costui non ha interesse a proporre ricorso) ma anche quello concernente l'offerta dell'aggiudicatario, eventualmente annullando l'aggiudicazione: cosa che, in effetti, ha disposto, correttamente, il Tar Sicilia.
Se quindi la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha seguito fino ad oggi un approccio «formale» (se il ricorrente non ha titolo per partecipare alla gara, non ha neppure titolo per contestare l'aggiudicazione a favore di un'altra impresa), la Corte di giustizia ha scelto un approccio «nel merito», chiedendo quindi a tutti i giudici nazionali di valutare sempre e comunque la legittimità dell'aggiudicazione di un appalto pubblico a prescindere alla legittimazione a partecipare alla gara.
Va peraltro notato che nel nuovo codice appalti da approvarsi entro il 18 aprile, si prevede che i vizi inerenti la carenza dei requisiti soggettivi, economico-finanziaria e tecnico-professionali sono considerati immediatamente lesivi e sono ricorribili dinanzi al Tar soltanto nei trenta giorni successivi alla pubblicazione dell'elenco dei soggetti ammessi, non potendo rilevare nelle successive fasi della procedura (articolo ItaliaOggi del 06.04.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) L’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato da detto altro offerente.
2) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale.
3) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che, dopo aver ricevuto la risposta della Corte di giustizia dell’Unione europea ad una questione vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione da essa sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha già fornito una risposta chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione del diritto dell’Unione.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d’ufficio l’ingaggio illegittimo. Cassazione. Reato per il dirigente comunale che proroga la convenzione senza il via libera degli organi competenti.
Abuso d’ufficio per il dirigente del Comune che proroga la convenzione con un centro, senza il via libera degli organi competenti. Il reato scatta anche in virtù dell’ingiusto vantaggio procurato a cinque persone ingaggiate per l’occasione al di fuori di ogni criterio di trasparenza e per due contratti di collaborazione prorogati.
La Corte di Cassazione (Sez. VI penale, sentenza 04.04.2016 n. 13426) esclude che l’abuso si possa giustificare, come nel caso esaminato, con l’intento di non perdere dei fondi europei. Il ricorrente, infatti, aveva motivato la proroga della convenzione con la finalità di assicurare il completamento di un progetto affidato al centro in modo da garantirsi un finanziamento Ue.
In realtà per la Cassazione il comportamento del dirigente è intenzionalmente doloso e nell’abuso d’ufficio il dolo essere desunto anche da elementi che sono la spia della macroscopica illegittimità dell’atto compiuto. Mentre non serve la prova dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire: l’intenzionalità del vantaggio può prescindere dalla volontà di “aiutare” specificamente quel privato interessato alla singola vicenda.
Nel concreto c’era stato il conferimento di cinque nuovi contratti, non richiesti neppure dal centro interessato, a persone scelte discrezionalmente e pagate con denaro pubblico. Al progetto europeo aveva, infatti, aderito solo la Regione molto tempo dopo le determinazioni illegittime del dirigente, ma mai il Comune. Inoltre si trattava di un progetto pagato in gran parte dall’ente che intendeva “sottoscriverlo”.
Il ricorrente aveva comunque firmato le proroghe in violazione delle regole sul riparto delle attribuzione (Dlgs 267/2000) che riserva agli organi di indirizzo del Comune le scelte fondamentali. A questo si era unito l’ingiusto vantaggio conseguito da sette persone
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2016).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Le censure, per quanto formalmente raggruppate sotto un unico motivo, in realtà si riferiscono sia al profilo oggettivo sia al profilo soggettivo del reato di abuso di ufficio.
3. Per quanto attiene al profilo oggettivo, le doglianze insistono sul fatto che illogicamente la sentenza impugnata non avrebbe considerato la natura degli atti adottati dal ricorrente, qualificabili come di mera proroga di provvedimenti preesistenti.
3.1. La sentenza impugnata rappresenta innanzitutto che le due determine dirigenziali del LU. (la n. 21-bis del 30.06.2004 e la n. 29 del 29.09.2004):
   a) comportarono un sensibile incremento di organico del soggetto destinatario dei provvedimenti, il Centro Risorse Donne, che passò da tre a sette unità, in assenza di qualunque previsione contenuta in atti degli organi comunali, e persino di specifiche richieste della responsabile del Centro, la quale si limitò a richiedere l'assunzione di un operatore esperto in lingua inglese;
   b) facevano riferimento non più al progetto europeo RECITE II-E.N.R.E.C., cui il Comune di Taranto aveva formalmente aderito con delibera del Commissario Straordinario del 13.12.1999, e che era definitivamente cessato alla data del 30.06.2004, bensì al progetto europeo Interreg III CASDES-WEFnet, cui, però, la Regione Puglia, quale "soggetto referente", aderirà solo successivamente alla determine, in data 28.10.2004, che non risulta mai oggetto di formale delibera di adesione da parte del Comune di Taranto, e che addossava una quota consistente del costo complessivo al singolo ente aderente;
   c) non contenevano alcuna indicazione dei fondi necessari ad assicurare la copertura del progetto, limitandosi a richiamare «entrate terze», esterne al bilancio, senza precisare quali fossero.
Rileva, poi, che le violazioni delle regole procedurali sul riparto di attribuzioni tra gli organi del Comune, indicate dal capo di imputazione negli art. 42, 48, 107, 169, 175, 183 e 191 d.lgs. n. 267 del 2000, e che riservano agli organi di indirizzo le scelte fondamentali, non hanno avuto, nel caso di specie, valenza meramente endoprocedimentale, ma si sono poste «in evidente e diretto rapporto causale con l'ingiusto vantaggio arrecato ai beneficiari delle determine medesime e con il correlativo danno che ne è scaturito a carico del Comune».
Osserva, quindi, che «all'ingiustizia delle determine adottate dall'imputato, e tra loro strettamente correlate [...] si somma l'ingiustizia della percezione degli emolumenti da parte dei soggetti indicati nel capo d'accusa [i cinque neoingaggiati ed i due prorogati]».
3.2. Questi essendo i presupposti di fatto, la cui ricostruzione non è oggetto di puntuali contestazioni nel ricorso, corretta risulta essere la conclusione raggiunta.
Il delitto di abuso di ufficio, infatti, postula l'avvenuta violazione di una norma di legge o di regolamento e l'ingiustizia del danno o del vantaggio procurato a sé o ad altri, ma non una duplicità di violazioni di legge. Come osserva un significativo orientamento giurisprudenziale, l'integrazione del reato di abuso d'ufficio, se richiede una duplice distinta valutazione di ingiustizia, sia della condotta (che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento), sia dell'evento di vantaggio patrimoniale (che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo), non presuppone, però, che l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale derivi da una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha caratterizzato l'illegittimità della condotta, qualora -all'esito della predetta distinta valutazione- l'accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba considerarsi contra ius (così Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, Rv. 265473, nonché Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, Rv. 262793).
Nella specie, la sentenza impugnata ha individuato le norme violate nelle disposizioni di legge del testo unico sugli enti locali in tema di ripartizioni di competenze tra gli organi comunali, l'ingiustizia del vantaggio nel conferimento ex novo o nella proroga di incarichi di collaborazione retribuita in difetto di ogni potere in materia e sulla base di criteri di selezione dei beneficiati assolutamente arbitraria, l'ingiustizia del danno nell'assunzione di una spesa a carico del Comune in assenza di qualunque deliberazione degli organi competenti.
Deve perciò escludersi che, con riferimento al profilo dell'elemento obiettivo del reato di abuso di ufficio, la decisione della Corte di appello sia censurabile per violazione di legge o vizio di motivazione.
4. Con riferimento al profilo soggettivo, le censure deducono che la sentenza impugnata è sostanzialmente priva di motivazione o fondata su «mere ed apodittiche supposizioni», pur essendo necessaria per legge la certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto, che la prova del dolo non può essere desunta dalla sola illegittimità degli atti adottati dall'imputato, e che, in realtà, le determine adottate dal LU. avevano la finalità pubblicistica di portare a compimento il lavoro del Centro Risorse Donne per garantirsi gli importi del finanziamento europeo.
4.1. Occorre premettere in proposito che, secondo un orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio,
la prova del dolo intenzionale, necessaria per l'integrazione della fattispecie di abuso di ufficio, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (cfr., tra le più recenti: Sez. 6, n. 14038 del 02/10/2014, dep. 2015, De Felicis, Rv. 262950, non specificamente massimata sul punto; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290).
4.2. Nella vicenda in esame, pur mancando la prova di un accordo collusivo tra soggetti beneficiati e pubblico ufficiale, la pluralità di violazioni di regole giuridiche e, in particolare, il conferimento di ben cinque contratti di collaborazione retribuita con l'impiego di denaro pubblico a persone scelte al di fuori di ogni criterio di leggibilità e di competenza professionale (persino la responsabile del Ce.Ri.Do. si era limitata a chiedere esclusivamente l'assunzione di un operatore esperto in lingua inglese) rendono immune da vizi la valutazione della sentenza impugnata che ha ritenuto sussistente il dolo intenzionale richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
Tale rilievo, anzi, esclude la plausibilità della prospettazione difensiva, peraltro allegata in termini generici, secondo cui il LU. avrebbe agito nel modo accertato al solo fine di realizzare l'interesse pubblico di portare a compimento il lavoro del Ce.Ri.Do. per garantirsi gli importi del finanziamento europeo. Invero, la finalità di assicurare il completamento del progetto affidato al Ce.Ri.Do. non può comunque spiegare la stipulazione di cinque contratti di collaborazione con persone scelte al di fuori di ogni criterio obiettivamente verificabile.

APPALTI: L'offerta zero non vale. Cds: è inammissibile in una gara.
In una gara di appalto pubblico è inammissibile un'offerta pari a zero anche se relativa a una sottovoce di prezzo dell'offerta stessa.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza 01.04.2016 n. 1307, della Sez. III, in cui viene affrontata la questione dell'ammissibilità di un'offerta economica pari a zero, anche nell'ipotesi in cui tale offerta riguardasse una delle sottovoci di prezzo in cui la stazione appaltante aveva impostato l'offerta che i concorrenti avrebbero dovuto inviare.
Sul tema si registra fino a oggi un duplice orientamento del Consiglio di stato sia a favore della legittimità sia propenso a dichiarare l'illegittimità dell'offerta pari a zero.
La sentenza aderisce a quest'ultimo orientamento ritenendo che l'offerta economica in cui alcune voci sono uguali a zero debba essere considerata alla stregua di una «mancata offerta in quanto non conforme alla lex di gara»; da ciò la conseguenza che deve ritenersi inammissibile.
Nel merito la stazione appaltante aveva stabilito che l'offerta fosse formulata con riferimento a cinque categorie di apparecchiature, cui corrispondeva un relativo sub punteggio.
La formula di valutazione presupponeva un valore positivo per ciascuna voce e sub voce, facendo intendere che per quanto bassissima, l'offerta dovesse essere, comunque, superiore allo zero.
L'impresa esclusa che ha proposto ricorso ha invece scelto di indicare il punteggio zero per tre voci su cinque dell'offerta. Questo comportamento viene quindi censurato dal Consiglio di stato che conferma la legittimità dell'esclusione.
La motivazione dei giudici fa riferimento al fatto che, avendo la stazione appaltante deciso di scomporre l'offerta in voci e sub-voci la commissione era vincolata e non poteva intervenire in alcun modo, come in subordine aveva richiesto il ricorrente, essendo precluso ogni intervento manipolativo sulle offerte, salvo i casi di errore materiale. Come è noto, infatti, la stazione appaltante deve attenersi rigorosamente ai criteri di ammissione e di aggiudicazione predeterminati nel bando di gara e ciò in quanto si deve evitare qualsiasi parzialità nelle operazioni di gara (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).
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MASSIMA
1. - L’appello non merita accoglimento.
Tutti i motivi formulati dall’appellante tendono a dimostrare, con varie argomentazioni, l’ammissibilità dell’offerta, potendo la Commissione ricorrere ad un'applicazione della formula matematica secondo criteri di ragionevolezza e in virtù del favor partecipationis, in modo da conseguire un risultato utile, ossia sostituendo il prezzo zero con un valore minimo senza snaturare l'offerta migliore, in ossequio ai principi della massima partecipazione alle gare, di ragionevolezza e proporzionalità, di tassatività delle cause di esclusione.
Tali argomenti non sono condivisibili.
2. - La questione che si sottopone all’esame del Collegio ha dato luogo in giurisprudenza a due diverse soluzioni.
Un indirizzo ha giudicato ammissibile l'offerta, esponendo argomenti cui si è ispirata la tesi dell’appellante (Cons. St., sez. VI, 17.09.2009 n. 5583, sez. V, n. 3435 del 2007 e sez. VI, n. 8146 del 2004, ivi citate).
L’altro indirizzo, invece, ha ritenuto inammissibile l'offerta (cfr. Cons. St., sez. V, 16.07.2010 n. 4624; sez. III, 15/01/2013, n. 177).
2.1. - Il Collegio ritiene convincente l’orientamento già espresso da questa Sezione col richiamato precedente n. 177 del 15.01.2013, concernente un’ipotesi analoga.
2.2. - Invero,
l'offerta economica in cui alcune voci sono uguali a zero va considerata alla stregua di una “mancata offerta” in quanto non conforme alla lex di gara e, pertanto, è inammissibile.
2.3. - Il disciplinare della gara in questione, dopo avere elencato le voci dell’offerta, all’art. 8B prevede che tutti i punteggi parziali siano attribuiti secondo la formula proporzionale con l’attribuzione del punteggio più alto all’offerta più bassa, ovvero al ribasso più alto, e proporzionalmente punteggi inferiori alle altre offerte.
L’art. 7.3 e l’allegato 4 al disciplinare prevedono che l’offerta indichi, oltre al prezzo della gestione per il primo anno (in termini unitari), per gli anni successivi il “canone base di gestione”, il “canone per i materiali consumabili” (in termini percentuali), il “prezzo per la sola gestione”, “un’offerta per il collaudo”, “un’offerta per i controlli funzionali” ( in termini unitari).
Per il “canone base”, il “canone consumabili” e il “prezzo per la gestione” si prevede che l’offerta sia formulata con riferimento a cinque categorie di apparecchiature, cui corrisponde un relativo sub punteggio.
La formula di valutazione presuppone un valore positivo per ciascuna voce e sub voce, ossia che per quanto bassissima, l’offerta sia, comunque, superiore allo zero.
La ricorrente ha scelto di indicare il punteggio zero per tre voci dell’offerta, disattendendo la previsione del disciplinare; pertanto, andava esclusa.
2.4. - Poiché la stazione appaltante aveva ritenuto, in quanto a suo avviso rilevante, di scomporre l’offerta in voci (e alcune in sub-voci) e indicato il criterio di valutazione, la Commissione era vincolata al rispetto di tale regola.
E’ principio consolidato quello secondo cui è precluso alla Commissione l’intervento manipolativo sulle offerte, salvo i casi di errore materiale.
Il rispetto rigoroso dei criteri di ammissione e aggiudicazione predeterminati dalla Stazione appaltante ha la funzione di evitare che si possano determinare parzialità nelle operazioni, sicché l'integrazione da parte della Commissione giudicatrice degli elementi tecnici ed economici di valutazione stabiliti dalla lex specialis è consentita solo eccezionalmente, a condizione che:
a) non siano modificati i criteri di valutazione stabiliti da detta lex specialis;
b) non sia influenzata la preparazione delle offerte;
c) non siano introdotte discriminazioni a danno dei concorrenti
(Consiglio di Stato, sez. V, 06/05/2015, n. 2267).
In definitiva,
il rispetto rigoroso delle regole di gara rappresenta la garanzia migliore di attuazione dei principi di legalità, buon andamento, imparzialità, par condicio e trasparenza e va, ad avviso del Collegio, osservato anche in situazioni come quella in esame (che non ricade nelle ipotesi eccezionali sopra ricordate) in cui la correzione infinitesimale di alcune voci dell’offerta non comporterebbe un sostanziale stravolgimento del suo valore economico, ma comporterebbe una diversa graduatoria definitiva.
Va tenuto presente, tra l’altro, che anche l’offerta di altra concorrente esclusa è stata formulata in modo analogo a quella della ricorrente; l’accoglimento della tesi della società appellante non rispetterebbe il principio di parità di trattamento, né l'obbligo di trasparenza che ne deriva, né il principio di affidamento (erroneamente invocato solo a proprio favore).
In tale quadro, è evidente che recede anche l’invocato principio della massima partecipazione.
2.5. - E’ irrilevante, inoltre, il fatto che la lex specialis non precludesse espressamente di formulare una siffatta offerta, considerato altresì che la Commissione di gara non ha introdotto una non prevista clausola di esclusione o di incompatibilità, bensì ha giustamente sanzionato, in conformità al disposto dell'art. 46, co. 1-bis, del codice dei contratti (introdotto dall'art. 4, co. 2, lett. d, del d.l. 13.05.2011 n. 70 conv. con l. n. 106 del 2011) il difetto di un elemento essenziale dell'offerta economica per come strutturata dalla stazione appaltante, la cui essenzialità è resa specificamente manifesta proprio dall'approntamento della formula matematica di valutazione.
2.6. – Per quanto sin qui detto, in assenza nella lex specialis di previsioni favorevoli alla prospettazione della società, non è configurabile un preteso dovere dell'Amministrazione di "correggere" il valore nullo in applicazione del principio di conservazione degli atti di gara o di ragionevolezza.
A tal proposito,
giova ribadire che non è dato alla Commissione alcun potere di modifica delle offerte in base a non codificati e soggettivi criteri di ragionevolezza, dovendo essa limitarsi ad accertare eventuali inosservanze delle regole di gara.
2.7. - Quanto al motivo con cui si denuncia l’omessa pronuncia circa la mancata attivazione del soccorso istruttorio, il Collegio osserva che, comunque, la censura non è fondata.
Il soccorso istruttorio è applicabile solo alle dichiarazioni carenti, non in caso di offerta economica carente: dopo la sua presentazione, l’offerta non è modificabile dalla parte; né, a maggior ragione, la stazione appaltante potrebbe sollecitarne la modifica.
3. - Infine, la società appellante chiede di deferire la questione di diritto all’Adunanza Plenaria, considerato il contrasto giurisprudenziale esistente.
Il Collegio non ritiene opportuna la rimessione all’Adunanza plenaria essendo la decisione conforme al più recente indirizzo interpretativo espresso sull’argomento da questa stessa Sezione e condiviso per le argomentazioni sopra svolte (Sez. III, n. 177/2013); né potendosi considerare consolidato l’orientamento interpretativo di segno contrario invocato dall’appellante.
Nel processo amministrativo le ipotesi di deferimento della causa all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sono solo due, e cioè quella facoltativa di cui all'art. 99, comma 1, c.p.a., che ricorre quando la Sezione riscontri un contrasto di giurisprudenza reale o potenziale e non intende seguire l'indirizzo consolidato, e quella obbligatoria di cui all'art. 99, comma 3, c.p.a., quando la Sezione intende rimettere in discussione un principio di diritto già enunciato dall'Adunanza plenaria.

AMBIENTE-ECOLOGIA: In materia di ordine di rimozione e smaltimento rifiuti abbandonati su area privata, il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi dall’orientamento consolidato secondo cui il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali destinatari del provvedimento conclusivo.
Di conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell'avvio del procedimento costituisce un adempimento indispensabile al fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati e -diversamente da quanto ha affermato il TAR- non si può applicare il temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa legge.

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... per la riforma della sentenza del TAR Puglia – sede staccata di Lecce, Sezione I n. 3210/2015, resa tra le parti, concernente ordine di rimozione e smaltimento rifiuti abbandonati su area privata.
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Il primo motivo dell’appello è fondato.
Viene in questione il citato comma 3 dell’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale stabilisce: “Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi dall’orientamento consolidato (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061; Id., sez. II, parere 21.06.2013, n. 2916; Id., sez. V, 22.02.2016, n. 705), secondo cui, in materia, il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali destinatari del provvedimento conclusivo. Di conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell'avvio del procedimento costituisce un adempimento indispensabile al fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati e -diversamente da quanto ha affermato il TAR- non si può applicare il temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa legge.
Nel caso di specie, è indiscusso che l’avviso di avvio del procedimento non sia stato comunicato alla parte destinataria dell’ordinanza sindacale, che ha visto leso il proprio diritto alla partecipazione procedimentale.
Da ciò l’illegittimità del provvedimento impugnato, con assorbimento dei motivi ulteriori dell’appello, tenuto conto dei principi elaborati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato con la sentenza 27.04.2015, n. 5.
Dalle considerazioni che precedono discende che, come già detto, l’appello è fondato e va pertanto accolto. In riforma della sentenza di primo grado, ne segue l’accoglimento del ricorso introduttivo con annullamento dell’atto impugnato e rimessione degli atti all’Autorità amministrativa, che provvederà anche tenendo conto dei principi affermati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (con le ordinanze n. 21 del 25.09.2013 e n. 25 del 13.11.2013), dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (con la sentenza 04.03.2015 in causa C-534/13) e dalla sezione V del Consiglio di Stato (con la sentenza 25.02.2015, n. 933).
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.04.2016 n. 1301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti, una riforma rivedibile. Più trasparenza sulle trattative e rigore nei controlli. Il parere del Consiglio di stato sul regolamento con il nuovo codice dei contratti pubblici.
Valutare la reintroduzione del limite del 30% per il subappalto; rendere vincolante la qualificazione delle imprese di costruzioni con il sistema delle attestazioni Soa evitando la qualificazione gara per gara; garantire più concorrenza e trasparenza nelle trattative private sotto soglia Ue e nelle gare informali nei contratti esclusi; più rigore sui requisiti morali; approvare tempestivamente e in maniera coordinata i 50 provvedimenti attuativi previsti dal nuovo codice, sotto la guida della cabina di regia della presidenza del Consiglio.

Sono questi alcuni dei numerosi rilievi contenuti nel corposo parere 01.04.2016 n. 855, favorevole con osservazioni, emesso dal Consiglio di stato (di 228 pagine) riguardante lo schema di nuovo codice dei contratti pubblici (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) sul quale si attendono adesso i pareri delle commissioni parlamentari (il via libera definitivo dovrà avvenire il 18 aprile).
Nel documento i giudici rilevano la presenza di numerosi «refusi, aporie e duplicazioni di norme», mancanze di coordinamento e di abrogazione di norme ancora in vigore, oltre a scelte di merito in alcuni casi non coerenti con la delega della legge n. 11/2016.
Per quel che riguarda i numerosi provvedimenti attuativi contemplati nel nuovo codice, l'auspicio è che si arrivi a un varo tempestivo, ordinato e coordinato per evitare incertezze. Per fare questo il Consiglio di Stato individua nella cabina di regia della presidenza del Consiglio l'organo più idoneo al coordinamento di questa delicatissima fase.
Successivamente il parere suggerisce anche di raccogliere in testi unici (del Mit e dell'Anac) gli atti attuativi emanati. Nel merito il parere ritiene che vi potrebbero essere norme in violazione del divieto di gold plating (ad esempio il limite del 30% per le opere specialistiche e il divieto di utilizzo dell'avvalimento nei contratti per il settore dei beni culturali), nonché disposizioni che devono essere recepite in modo più rigoroso (la disciplina dei contratti esclusi per i quali non viene più inserito l'obbligo di consultare almeno 5 operatori nelle gare informali).
Il parere ritiene inoltre in contrasto con la delega [lettera ii) dell'art. 1, comma 1, della legge 11] la riduzione del numero dei soggetti da invitare alle procedure negoziate senza bando di gara al di sotto delle soglie Ue (oggi almeno 10 o 5, a seconda delle sub-soglie), portati a cinque o a tre. Per i magistrati di palazzo Spada è poi necessario ridurre «rapidamente» il numero delle stazioni appaltanti: occorrono «amministrazioni» di adeguate dimensioni, con un corpo di dipendenti specificamente dedicato, formato e costantemente aggiornato.
Per rendere effettivo il principio della centralità e qualità della progettazione il Consiglio di Stato invita ad emanare celermente i provvedimenti attuativi sui livelli di progettazione e i requisiti dei progettisti, ma anche a citare espressamente i casi in cui non si affidano i lavori sulla base del progetto esecutivo. Sul tema della qualificazione il parere chiede di rendere esplicito che sopra i 150 mila euro la Soa è obbligatoria e non è dato procedere con qualificazione gara per gara.
Sui requisiti morali dei concorrenti il parere invita ad un maggior rigore ampliando le condanne penali ad effetto escludente e ripescando fattispecie escludenti previste dal vecchio codice. Sul subappalto si invita il governo a reintrodurre il limite del 30%, previsto invece solo per le opere superspecialistiche, Per i «settori speciali» il parere apprezza la scelta di estendere ad essi le norme sulla nomina delle commissioni giudicatrici, sulla trasparenza degli atti e sul dibattito pubblico (disciplina che in via generale deve essere subito resa obbligatoria).
Sulla disciplina degli affidamenti in house si invita ad un attento coordinamento con la normativa in itinere sulle società pubbliche. Sui criteri di aggiudicazione il parere evidenzia come non sia del tutto corretto fare riferimento alla sola nozione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, dal momento che nella direttiva ci si riferisce a un criterio più ampio comprendente anche i criteri basati sul rapporto/qualità prezzo e quelli fondati sul prezzo più basso.
Per il Consiglio di stato è poi discutibile la scelta di avere inserito il rating di legalità nell'offerta economicamente più vantaggiosa dal momento che si tratta di requisito soggettivo del concorrente (articolo ItaliaOggi del 05.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante.
Al fine di ritenere configurabile il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie sono irrilevanti le modifiche -recentemente apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del 2014, convertito dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso.
E si deve, in particolare, osservare che, per il caso della trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale, viene in rilievo il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1, del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di mutamento d'uso urbanisticamente rilevante.

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3. - Il ricorso è inammissibile, perché proposto al di fuori dei limiti fissati dall'art. 325, comma 1, cod. proc. pen..
Esso è infatti basato su censure che -al di là della loro intestazione formale- non sono sostanzialmente riferite a violazioni di legge, ma a pretesi vizi della motivazione. Le censure sono, inoltre, del tutto generiche, perché nel ricorso non si indicano gli elementi concreti sulla base dei quali la conforme valutazione dello stato di fatto operata dal Gip e dal Tribunale dovrebbe essere disattesa.
Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, deve comunque rilevarsi che -contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso- il Tribunale ha evidenziato, sulla base di numerosi convergenti indizi, sia l'illegittimità macroscopica del permesso di costruire rilasciato sia, in ogni caso, l'evidente non conformità delle opere realizzate a tale permesso.
È sufficiente qui richiamare, innanzitutto, il profilo che il Tribunale ha ritenuto assorbente, ovvero la destinazione del nuovo immobile realizzato a civile abitazione, in violazione dell'accordo del 22.05.2003, con il quale si era autorizzato l'indagato a demolire un fabbricato adibito a deposito e a ricostruire un altro immobile avente uguale tipologia, nonché identici volume e superficie coperta.
E sul punto deve essere richiamato il principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
al fine di ritenere configurabile il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie sono irrilevanti le modifiche -recentemente apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del 2014, convertito dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso (sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E si deve, in particolare, osservare che,
per il caso della trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale, viene in rilievo il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1, del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
E non possono essere qui prese in considerazione le asserzioni svolte dalla difesa sul punto, secondo cui dagli atti non emergerebbe che il fabbricato preesistente fosse un deposito agricolo. Si tratta, infatti, di rilievi puramente fattuali, puntualmente smentiti dal Tribunale e, comunque, inammissibili in sede di legittimità.
Né possono essere condivise le considerazioni -anche esse puramente fattuali- svolte dalla difesa relativamente alla reale consistenza dell'immobile effettivamente realizzato, perché la stessa è stata constatata dalla polizia giudiziaria e dal consulente tecnico del pubblico ministero e risulta ampiamente confermata dalla documentazione fotografica in atti. Del resto, la linea difensiva dell'indagato muove, sul punto, dall'erroneo presupposto che la volumetria rappresentata da piani che saranno interrati o seminterrati -e che, peraltro, non risultano tali allo stato in cui si trovano i lavori- non dovrebbe essere considerata ai fini del computo volumetrico totale.
Si tratta, in ogni caso, di valutazioni che potranno essere oggetto di definitivo approfondimento in sede di merito. Ed anzi la ragione giustificativa della previsione dell'articolo 325, comma 1, cod. proc. pen. nel senso di limitare alla sola violazione di legge il ricorso per cassazione avverso il riesame del sequestro probatorio, risiede proprio nell'esigenza -rilevante ai fini dell'economia processuale- di evitare che il giudizio di merito sulla responsabilità penale possa essere anche parzialmente anticipato in sede cautelare (ex plurimis, sez. 3, 09.07.2015, n. 41211; sez. 3, 17.01.2013, n. 24824) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2016 n. 12904 - tratto da www.lexambiente.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sindaco e consigliere regionale, non c'è incompatibilità. Ordinanza del Tribunale di Vallo della Lucania.
In Campania essere contemporaneamente sindaco di un comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e consigliere regionale non implica incompatibilità delle due cariche.

Lo ha sancito il TRIBUNALE di Vallo della Lucania, con ordinanza 31.03.2016, che ha rigettato il ricorso presentato contro il comune di Novi Velia e la Prefettura di Salerno, per ottenere la pronuncia di incompatibilità tra le cariche di sindaco del comune stesso e consigliere regionale.
La sentenza ha rigettato la ricostruzione giuridica proposta dai ricorrenti, secondo la quale il consiglio comunale nel non deliberare l'incompatibilità del sindaco-consigliere regionale avrebbe violato l'articolo 65 del dlgs 267/2000, ai sensi del quale la carica di sindaco non può cumularsi a quella di consigliere regionale.
Secondo i ricorrenti, a evitare l'incompatibilità non potrebbe essere d'aiuto la legge regionale della Campania 16/2014. Infatti, l'articolo 1, comma 212, di tale disposizione prevede esclusivamente un'ipotesi di ineleggibilità a consigliere regionali per i sindaci dei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, compresi nel territorio regionale; dunque, di conseguenza, nei comuni con popolazione inferiore dovrebbe continuare a considerarsi operante l'incompatibilità prevista dall'ordinamento degli enti locali.
Anche perché, sebbene la legge regionale sia attuativa dell'articolo 3 della legge 165/2004 a sua volta contenente disposizioni di attuazione dell'articolo 122, comma primo, della Costituzione che rimette alle regioni la specifica individuazione e la disciplina dei casi di incompatibilità, tuttavia la Costituzione determina i limiti della potestà legislativa regionale nei principi fondamentali stabiliti con legge della repubblica. Secondo i ricorrenti, i principi impongono l'incompatibilità laddove si ravvisino situazioni che possano compromettere il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione ovvero il libero espletamento della carica elettiva.
L'ordinanza ritiene esattamente l'opposto. La materia dell'elezione dei consiglieri regionali, secondo il giudice, non è riservata alla potestà legislativa esclusiva statale, ma a quella concorrente regionale, proprio per il combinato disposto dell'articolo 122 della Costituzione e dell'articolo 3 della legge 165/2004. Spetta, quindi, al legislatore regionale disciplinare le cause di ineleggibilità ed incompatibilità concernenti il presidente regionale, gli assessori e i consiglieri.
L'ordinanza aggiunge che, poiché la legge regionale 16/2014 prevede la sola causa di ineleggibilità per i sindaci di comuni con oltre 5.000 abitanti eletti consiglieri regionali, o, simmetricamente, per i consiglieri regionali eletti sindaci sempre in comuni con oltre 5.000 abitanti, nel caso di specie nessuna causa ostativa al mantenimento delle cariche di consigliere regionale e di sindaco si era verificata, perché si tratta di un comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.
Nella sostanza, la lettura data dall'ordinanza del Tribunale di Vallo della Lucania è nel senso che la normativa regionale, coperta dall'articolo 122 della Costituzione, prevale sul punto rispetto alle previsioni dell'articolo 65 del dlgs 267/2000. La soluzione non appare, tuttavia, del tutto consolidata. Infatti, occorre tenere presente che se la disciplina elettorale regionale è rimessa alla potestà concorrente delle regioni, l'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la legislazione elettorale degli enti locali.
Dunque, un problema di coordinamento tra l'articolo 65 del dlgs 267/2000 e le disposizioni regionali in tema di ineleggibilità e incompatibilità certamente si pone (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI REGIONALI: Pure la regione può adottare atti politici. Sentenza del Tribunale amministrativo ligure.
Anche le regioni possono adottare atti politici, in quanto tale prerogativa non è appannaggio esclusivo del governo della Repubblica.

Questo è il principio contenuto nella sentenza 30.03.2016 n. 297 del TAR Liguria, Sez. I.
La delicata vicenda ha preso le mosse dal rinvio a giudizio di un consigliere regionale per il reato di peculato continuato in concorso con il capogruppo consiliare.
I fatti erano correlati ai rimborsi delle spese sostenute nell'ambito dello svolgimento delle proprie funzioni istituzionali. L'interessato ha chiesto alla regione di essere dichiarato immune dalle accuse, invitandola a proporre conflitto di attribuzioni nei riguardi dello Stato. Ciò sul presupposto che il ricorrente avesse svolto un'attività di rilevanza costituzionale, come tale insindacabile dal giudice penale ed eventualmente da quello contabile.
La regione Liguria tuttavia non ha battuto ciglio sulla sollecitazione del suo componente, il quale si è poi rivolto al giudice amministrativo impugnando il silenzio, deducendo che l'Ente aveva l'obbligo di pronunciarsi sull'argomento. Il Tar ha invece affermato in primo luogo che tale obbligo non sussiste e in secondo luogo che la decisione della Regione di sollevare o meno un conflitto dinanzi al giudice delle leggi ai sensi dell'art. 134 Cost. rientra nella sfera degli atti politici, come tale oggetto di riserva assoluta e rimessa alla discrezione politica e non certo alla funzione amministrativa.
Quindi il consigliere regionale non si trovava nella posizione di sindacare la determinazione del Consiglio circa la sua immunità. A dispetto di quanto sostenuto dal ricorrente i giudici di primo grado non hanno peraltro condiviso la tesi che faceva rientrare l'atteggiamento silente dell'amministrazione nel novero degli atti di alta amministrazione.
Il collegio giudicante ha concluso che, a voler seguire il filo conduttore del ragionamento contenuto nel ricorso, si correva il rischio di trasferire in sede contenziosa il confronto politico, il che condurrebbe a comprimere (anziché a tutelare) l'autonomia degli organi elettivi dalle ingerenze degli altri poteri dello Stato (articolo ItaliaOggi del 05.04.2016).
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MASSIMA
Il ricorrente ha svolto la funzione di consigliere della regione Liguria dal 2005 al 2015, ed in relazione a tale incarico ne è stato chiesto il rinvio al giudizio del tribunale di Genova per il delitto di peculato continuato in concorso con il capogruppo consiliare per avere:
- esposto la somma di euro 7.902,74 quale rimborso dovuto per le attività istituzionali degli anni 2010 e 2011, mentre si trattava di spese personali non inerenti alla carica ricoperta;
- esposto la somma di euro 4,20 quale rimborso dovuto per l’attività istituzionale in data 04.03.2011, trattandosi invece di spese personali non inerenti l’attività ricoperta;
- esposto la somma di euro 7.610,28 quale rimborso dovuto per l’attività istituzionale 2012, trattandosi invece di spese personali non inerenti l’attività ricoperta.
Egli si è difeso nel corso delle indagini preliminari e nella fase successiva agli atti del PM di cui agli artt. 416 e seguenti del cpp osservando di essersi attenuto alle direttive del consiglio, ed in particolare a quelle emanate dal capogruppo consiliare del raggruppamento politico di appartenenza, essendo questi il soggetto avente la qualifica di pubblico ufficiale rilevante per la configurazione della contestata fattispecie di cui all’art. 314 cp.
Non è noto quale sia stato il rilievo attribuito nel corso dell’udienza preliminare a tali difese, ma in questa sede il ricorrente lamenta il silenzio serbato dall’amministrazione regionale sulla sua richiesta di essere dichiarato immune dalla accuse mosse per avere egli svolto un’attività di rilevanza costituzionale, come tale insindacabile dal giudice penale ed eventualmente da quello contabile.
La ricostruzione contenuta nel ricorso muove dalla collocazione della regione nel disegno costituzionale dei poteri dello Stato, richiama le innovazioni apportate alla materia della riforma costituzionale del 2001 e conclude con l’affermazione dell’obbligo in capo alla regione Liguria di tutelare la propria autonomia politica ed organizzativa dagli altri poteri dello Stato. In tale contesto la resistente sarebbe risultata inadempiente rispetto alle prescrizioni che derivano dalle disposizioni costituzionali denunciate allorché non ha riscontrato la significazione e diffida notificata: essa avrebbe infatti dovuto dar corso all’impulso così ricevuto e proporre il conflitto di attribuzioni avanti alla corte costituzionale al fine di conseguire il dovuto rispetto alla propria autonomia autorizzativa a fronte dell’ingerenza dell’autorità giudiziaria.
Così riassunte le censure, il ricorso va innanzitutto dichiarato ricevibile, posto che la giurisprudenza della corte costituzionale (sentt. 10.04.2003, n. 116 e 30.01.2004, n. 58) ha chiarito che la legge ha inteso svincolare la proposizione dei ricorsi quale è quello in esame dall’osservanza dei termini decadenziali, così da favorire la decisione delle questioni di natura politico-costituzionale che vengono proposte.
L’oggetto di tali contese fuoriesce per lo più dall’ambito che caratterizza le controversie ordinariamente rimesse alla decisione dei giudici, sì che già la legge 31.03.1877, n. 3761 in termini di conflitti di attribuzione aveva sottrarre la loro deduzione dall’osservanza delle cadenze che invece sono imposte per le liti comuni. In tal senso l’omessa indicazione di ogni termine da parte della legge 11.03.1953, n. 87 ha il preciso significato indicato, cosa che induce a disattendere l’eccezione di tardività formulata dalla regione Liguria.
Nel merito si può osservare che la descrizione degli assetti costituzionali richiamati può prescindere dalle innovazioni che la riforma introdotta dalla legge costituzionale 20.04.2012, n. 1 ha apportato alla legge fondamentale, posto che l’art. 6 della novella ha postergato all’esercizio 2014 l’efficacia delle norme introdotte, e così ad un’epoca successiva alle condotte contestate. Tale riforma ha prestato particolare attenzione alla finanza della cosa pubblica, sì che in qualche misura l’autonomia regionale potrà essere in futuro posposta rispetto a “…l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico…”; tuttavia la norma transitoria citata esclude la possibilità di conoscere la presente fattispecie anche nell’ottica della novella costituzionale citata.
Ciò premesso, l’enunciazione delle doglianze muove da un profilo che non può essere condiviso dal tribunale, derivando da ciò l’inammissibilità del ricorso.
Il presupposto dell’esposizione in diritto è infatti nel senso che a seguito della diffida del consigliere Ga. la regione Liguria avrebbe dovuto esprimersi con un atto ufficiale di proposizione del conflitto di attribuzioni insorto tra lo Stato (il tribunale di Genova) ed essa regione (art. 134 cost.), ovvero denegando la sussistenza della violazione ascritta dalla magistratura: tale determinazione costituirebbe un atto di alta amministrazione, sì che il silenzio denunciato sarebbe giustiziabile avanti al tribunale amministrativo adito, non dovendosi con ciò fare applicazione dell’art. 7, primo comma, ultimo capoverso, del d.lvo 02.07.2010, n. 104 che esclude il potere del giudice amministrativo di sindacare gli atti politici.
La differenziazione tra gli atti politici e quelli di alta amministrazione è stata oggetto di riflessioni si può dire sin dall’individuazione della nozione di Stato di diritto, essendo sempre risultata necessaria l’enucleazione di una sfera di attribuzioni riservata alla politica nella quale gli altri poteri non possono intromettersi.
Tale vicenda ha avuto risvolti particolari nell’ordinamento italiano, attese le alterne vicende conosciute nel tempo dai rapporti tra i poteri statuali.
La Costituzione vigente ha scandito in modo preciso gli ambiti di attribuzione delle funzioni riconosciute, ma anche il disegno così delineato nel 1948 è stato toccato dai mutamenti occorsi nella società italiana. Va notato al riguardo che la possibilità di esercitare un sindacato giudiziale sugli atti politici ovvero di altra amministrazione è stata regolata per molto tempo dal testo unico sul consiglio di Stato del 1924, a cui è stata data con gli anni una lettura sempre più aderente al testo costituzionale.
In oggi sono intervenuti dapprima la legge istitutiva dei tribunali amministrativi regionali e successivamente il codice del processo amministrativo che si sono tuttavia limitati a ribadire l’inammissibilità delle impugnazioni avverso gli atti politici, demandando alla giurisprudenza la delimitazione del mutevole confine tra le due ipotesi.
La distinzione operata tra le due ipotesi è nel senso che l’atto politico è sostanzialmente libero nel fine da individuare, mentre quello di alta amministrazione si colloca all’interno dell’esercizio di una funzione ampiamente discrezionale, che deve tuttavia svolgersi in un ambito finalistico predeterminato dalla normativa.
In giurisprudenza sono stati ricompresi tra i provvedimenti impugnabili, perché esercizio dell’attività di alta amministrazione, la soppressione di un’ambasciata italiana, la scelta per la provvista delle alte cariche pubbliche, la nomina di un difensore civico, l’atto governativo di superamento dell’esito di una conferenza dei servizi (art. 14-quater della legge 07.08.1990, n. 241), la nomina del presidente di un conservatorio di musica, la conferma o la mancata conferma del direttore generale di un’azienda sanitaria, la nomina e la revoca degli assessori regionali; un esame delle ipotesi considerate induce a ritenere che si tratta comunque di determinazioni che restano nell’ambito della funzione amministrativa, quella cioè che deve provvedere alla gestione della cosa pubblica in nome dei cittadini o di parte di essi affinché la vita associata risulti il più possibile desiderabile.
Se ne conclude sul punto che
le norme non possono descrivere con precisione tutte le ipotesi che la realtà sottopone alla funzione pubblica, sì che in alcuni casi è opportuno che talune autorità, in genere di vertice, abbiano una sfera di discrezionalità particolarmente ampia per conformare al meglio le situazioni giuridiche allo stato effettivo delle cose.
Diversa è stata l’individuazione della categoria degli atti politici, che sono previsti dall’ordinamento per la libertà dei fini che li caratterizza, e nell’ordinamento attuale sono più strettamente legati alla natura elettiva diretta od indiretta degli organi titolati alla loro adozione.
In giurisprudenza (in termini la già citata decisione 10.4.2003, n. 116 della corte costituzionale) è stato chiarito che la commistione di funzioni che induce ad individuare l’atto politico si rinviene in special modo allorché un soggetto dotato di attribuzioni pubbliche interviene in un ambito di possibile pertinenza di altro ente, anch’esso titolare di mansioni di generale interesse.
Poste tali premesse va condivisa la narrativa del ricorso nella parte in cui sottolinea che
la giurisprudenza ha via via limitato lo spazio assegnato dall’ordinamento agli atti politici: si è registrato con ciò l’ampliamento del perimetro che la giurisdizione ha ritenuto di sua competenza, in quanto organo deputato al controllo dell’esercizio di un potere amministrativo che non può sottrarsi alle previsioni degli artt. 24 e 113 cost.
Non di meno la Costituzione individua degli spazi di azione in cui gli organi più elevati dello Stato o degli enti previsti dalla norma fondamentale si esprimono liberi nei fini, perseguendo gli interessi di maggior rilievo per la collettività: al riguardo è possibile operare un istruttivo rinvio alla decisione 29.05.2014, n. 2792 del consiglio di Stato nella parte in cui ha distinto l’attività (di alta amministrazione) di una commissione istituita per legge nell’ambito del ministero della marina mercantile incaricata di fornire pareri su un contenzioso diplomatico insorto con uno stato estero, e l’atto ministeriale (politico) di accoglimento o diniego del parere stesso.
In tale fattispecie la funzione di verifica dell’interesse nazionale eventualmente da tutelare viene demandata dapprima ad un organo tecnico che pondera l’interesse nazionale alla composizione della controversia ed alle eventuali modalità per giungere a ciò, mentre il ministro deve apprezzare in modo insindacabile come dar tutela al naviglio nazionale nei confronti di uno stato straniero.
Il caso qui in esame riguarda invece i rapporti più delicati tra un potere statuale e quello regionale: il tribunale di Genova ha aperto il procedimento nei confronti dell’interessato svolgendo la funzione costituzionalmente garantita di determinare in modo definitivo (proscioglimento o condanna) il potere di giudizio attribuitogli.
La Regione Liguria ha a sua volta una sfera intangibile di attribuzioni che la Costituzione riconosce e tutela al fine dar corpo ai principi di autonomia (artt. 5 e 114 cost.) che costituiscono un fondamento dell’ordinamento vigente; in tal senso è stato chiarito (corte costituzionale 01.10.2003, n. 303) che la regione ha una posizione ordinamentale differente dal comune, posto che solo il primo dei due enti citati ha la capacità esser parte avanti la corte costituzionale al di fuori di quanto accade nel corso dei comuni giudizi già instaurati; soltanto lo Stato e la regione possono chiedere la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge che ritengono lesiva delle rispettive attribuzioni, ovvero possono adire la corte ai sensi dell’art. 134 cost.
La vicenda rientra pertanto in un ambito simile a quello definito recentemente dalla corte costituzionale (sent. 07.07.2015, n. 137) allorché ha operato la ricognizione di quali sono i presupposti necessari per ritenere sussistente il conflitto tra i poteri, sì che la soluzione di tali vertenze o l’eventuale decisione di proporle non può rientrare tra gli atti di alta amministrazione.
Ed a tale proposito non può ritenersi che la formulazione letterale dell’art. 7 del cpa citato limiti al solo governo della Repubblica la possibilità di adottare degli atti liberi nei fini che si sottraggono al controllo del giudice, posta la condivisibilità sul punto delle argomentazioni spese dal ricorrente stesso sulla rilevanza costituzionale delle regioni. Tali enti sono infatti abilitati a promuovere i conflitti previsti dal ricordato art. 134 cost., ma la loro decisione in tal senso non è sindacabile in questa sede, trattandosi di un ambito rimesso alla discrezione politica e non alla funzione amministrativa.
Oltre a ciò la conclusione assunta circa l’impossibilità per un consigliere regionale di sindacare la determinazione del consiglio di cui egli fa parte di adire o di non adire la corte costituzionale ai sensi dell’art. 134 cost. si lascia preferire in forza di un’altra considerazione.
La maggior parte delle comuni attività giurisdizionali presuppone la sussistenza della situazione di controinteresse, ovvero –per giungere al concreto- la possibilità che l’eventuale determinazione del consiglio o di altri organi regionali di adire la corte costituzionale sia contestata in causa da altri soggetti. Così opinando si giungerebbe al trasferimento in sede contenziosa del confronto politico, una situazione la cui configurabilità è stata sempre negata dalla giurisprudenza (ad esempio Tar Puglia, Lecce, 28.11.2013, n. 2388) allorché si tratta dell’impugnazione da parte dei consiglieri comunali delle deliberazioni dell’organo di cui essi stessi fanno parte.
La tesi esposta porterebbe quindi a conseguenze opposte a quelle che sembra desiderare il ricorrente, che intende invece tutelare l’autonomia degli organi elettivi dalle ingerenze degli altri poteri dello Stato.
E’ poi rinvenibile un’ulteriore discrasia nella narrativa contenuta nell’atto di impugnazione, nella parte in cui il ricorrente allega l’opportunità di ampliare la sfera delle attribuzioni del giudice amministrativo al fine di conculcare quelle del giudice penale; il collegio rileva allora che, volendolo, la regione Liguria avrebbe potuto opporre avanti alla corte costituzionale la sua riserva di potestà a fronte dell’attività del giudice penale, sì che in tale caso la sede investita sarebbe stata idonea a pronunciarsi in materia.
Quel che non può condividersi è invece l’allegazione della sussistenza di un obbligo della regione di pronunciarsi sull’argomento che è oggetto di riserva assoluta degli organi politici dell’ente dotato delle prerogative stabilite dalla Costituzione.
In conclusione il ricorso è inammissibile e le spese vanno compensate attesa la complessità della natura del contendere.

PATRIMONIO: Le piogge eccezionali non giustificano l’incuria. Se il pluviale è difettoso resta comunque la responsabilità. Danni da eventi atmosferici. La Cassazione interviene sulle colpe del condominio.
Caso fortuito o forza maggiore devono essere tali da interrompere davvero qualsiasi nesso tra cosa ed evento. E quindi anche il condominio può essere chiamato in causa per il risarcimento dei danni dovuti sì a eventi atmosferici straordinari ma i cui effetti sono stati facilitati dall’incuria. Insomma, tempi duri per gli amministratori di condominio disattenti alla manutenzione.
Questo il senso della sentenza 24.03.2016 n. 5877 della Corte di Cassazione, Sez. III civile.
L’articolo 2051 del Codice civile, infatti, che ammette la possibilità di andare esenti da responsabilità, qualora il «custode» provi il caso fortuito ovvero la forza maggiore, per risultare operativa necessita di un fattore causale esterno di una tale intensità da risultare idoneo a impedire qualsivoglia «nesso eziologico» tra la cosa e l’evento lesivo.
Quindi, quando l’apporto esterno sia tale da integrare, in astratto, gli elementi tipici del caso fortuito o della forza maggiore, ma, tuttavia, vengano in rilievo condotte colpose del custode (in questo caso il condominio) potenzialmente idonee a interrompere o aggravare la componente causale estranea, queste possono fondare delle ipotesi di responsabilità esclusiva o concorrente.
Peraltro, lo stato di profondo dissesto idrogeologico in cui versa l’intero Paese, impone un doveroso rigore negli accertamenti giudiziali, in considerazione del fatto che stante la frequenza di eventi alluvionali a carattere calamitoso, a oggi, gli stessi risultano tutt’altro che imprevedibili.
Il ragionamento della Cassazione probabilmente imporrà una più cauta riflessione per tutti quei danni conseguenza dei rilevanti fenomeni atmosferici. La Corte ha quindi ribaltato la sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva negato il risarcimento del danno subito da un privato. Che conveniva in giudizio il condominio nel quale deteneva in locazione due locali (nonché il Comune), chiedendo che venissero condannati al risarcimento del danno subito in conseguenza dell’allagamento degli ambienti dopo un violento temporale, per cui vi erano state delle infiltrazioni dovute sia all’esondazione di un vicino sottopasso –causata dal mancato funzionamento delle elettropompe all’uopo installate– che alla fuoriuscita di acqua da un tubo pluviale del condominio.
Il Tribunale di Milano, e successivamente, la Corte d’appello rigettavano la domanda. Per la Cassazione il giudice d’appello avrebbe ritenuto, sbagliando, ininfluente la verifica in merito al corretto funzionamento degli impianti, data la loro acclarata inadeguatezza.
La Corte ha quindi chiarito che «La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento», pertanto, vista la responsabilità del condominio (e del Comune), tenuti alla manutenzione, il giudice di merito «avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della fattispecie, allo scopo di valutare se, come e in quale percentuale l’esecuzione dei lavori a regola d’arte e il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre l’entità dei danni», specie in rapporto allo stato attuale del territorio che impone: «criteri di accertamento improntati a un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti».
Gli amministratori di condominio dovranno quindi, anche in casi analoghi, dimostrare rigorosamente la corretta manutenzione delle cose in custodia
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2016).

PATRIMONIO: Danni da alluvione: danni da alluvione a carico del Comune non che non fa manutenzione delle fogne.
La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità del soggetto che invoca l'esimente in questione.
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Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi e mantenga un'opera pubblica trova un limite nell'obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che dall'inosservanza di queste disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità della responsabilità della stessa pubblica amministrazione per i danni arrecati a terzi.

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La s.r.l. "La Ch. di Is." convenne dinanzi al Tribunale di Milano il condominio "Gi. di Lissone", il comune di Lissone e le compagnie assicuratrici Helvetia e Sasa, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in seguito all'allagamento (verificatosi in occasione di un forte temporale, sia per esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni da un tubo pluviale del condominio) di due locali condotti in locazione da essa attrice.
Espose, in particolare, la società che, tra le cause dell'allagamento, un particolare rilievo aveva assunto il mancato funzionamento delle elettropompe che il comune aveva installato proprio al fine di prevenire l'evento poi verificatosi.
Il giudice di primo grado respinse sia la domanda della società, sia quella proposta in corso di giudizio dal condominio nei confronti del comune per omessa o carente manutenzione della fognatura.
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Quanto alla responsabilità del comune di Lissone risulta in fatto accertato -come si legge nella motivazione della pronuncia oggi impugnata:
- che i locali di proprietà dell'odierna ricorrente rimasero seriamente danneggiati a seguito dell'allagamento causato da un forte temporale, di carattere eccezionale;
- che la capacità di smaltimento delle elettropompe era da ritenersi comunque insufficiente rispetto all'intensità della precipitazione;
- che, conseguentemente, l'accertamento circa il mancato funzionamento delle pompe stesse (circostanza allegata dall'attrice in prime cure) doveva ritenersi ininfluente ai fini del decidere, proprio in conseguenza della loro insufficienza allo smaltimento della eccezionale precipitazione.
Di qui, la riconduzione dell'evento di danno al caso fortuito.
La questione giuridica sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste, pertanto, nello
stabilire se un fenomeno di pioggia intensa e persistente, tale da assumere i connotati di una pioggia definita dalla Corte d'appello come di eccezionale intensità, alla luce degli acquisiti dati pluviometrici, possa costituire o meno un evento riconducibile alla fattispecie del fortuito, idoneo di per sé ad interrompere il nesso di causalità, in considerazione del suo carattere di straordinarietà ed imprevedibilità - quesito al quale la Corte d'appello ha dato risposta affermativa.
La questione non è nuova nella giurisprudenza di questa Corte.
La sentenza 11.05.1991, n. 5267, relativa alla diversa fattispecie di un contratto di deposito nei magazzini generali, ebbe già ad affrontare il problema della possibilità di riconoscere la natura di caso fortuito in riferimento ad un allagamento provocato da intense precipitazioni atmosferiche; e, sia pure con le diversità evidenti rispetto alla fattispecie per la quale è ancor oggi processo, questa Corte osservò che "
per caso fortuito deve intendersi un avvenimento imprevedibile, un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente nella serie causale come fattore determinante in modo autonomo dell'evento. Il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza".
La successiva sentenza 22.05.1998, n. 5133, emessa in un giudizio avente ad oggetto un risarcimento danni per allagamento di un negozio conseguente all'invasione delle acque a seguito di abbondanti piogge, affermò che "
possono integrare il caso fortuito precipitazioni imprevedibili o di eccezionale entità", rilevando che l'evento imprevedibile costituisce caso fortuito e non determina responsabilità.
In tempi più recenti, la sentenza 09.03.2010, n. 5658 -emessa in un giudizio di risarcimento danni nei confronti dell'ANAS per allagamenti conseguenti alla tracimazione delle acque ed alla cattiva manutenzione dei sistemi di smaltimento delle acque piovane- ha affermato che
è certamente vero "che una pioggia di eccezionale intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad eventi di danno come quello in questione; ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso fortuito".
Con quest'ultima pronuncia, in particolare, è stato precisato che,
per potersi condividere la decisione del giudice di merito che in quell'occasione aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni, l'ANAS "avrebbe dovuto dimostrare che le piogge in questione erano state da sole causa sufficiente dei danni nonostante la più scrupolosa manutenzione e pulizia da parte sua delle opere di smaltimento delle acque piovane; il che equivale in sostanza a dimostrare che le piogge in questione erano state così intense (e quindi così eccezionali) che gli allagamenti si sarebbero verificati nella stessa misura pure essendovi stata detta scrupolosa manutenzione e pulizia".
La sentenza in esame ha poi aggiunto che,
ove fosse stato provato che la manutenzione e la pulizia sarebbero state idonee almeno a ridurre l'entità degli allagamenti, si sarebbe dovuto fare applicazione della previsione di cui all'art. 1227, coma 1, c.c..
Ritiene questo Collegio che
vada confermato tale, più recente orientamento, con le necessarie precisazioni richieste dalla specificità del caso in esame.
La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità del soggetto che invoca l'esimente in questione.

Applicando tale principio al caso di specie, è evidente l'errore in cui è caduta la sentenza impugnata la quale, trascurando del tutto ogni accertamento in ordine al funzionamento delle pompe di smaltimento (che si assume da parte ricorrente non funzionanti) sulla scorta dell'erronea considerazione della loro insufficienza a smaltire l'intero flusso delle acque (senza interrogarsi né sulla possibilità e sulla efficacia causale di uno smaltimento anche solo parziale, né su eventuali responsabilità amministrative circa le caratteristiche stesse delle pompe di filtraggio), ha tuttavia attribuito, sic et simpliciter, il carattere del fortuito determinante alla pioggia torrenziale che si era abbattuta sul territorio, omettendo altresì di considerare le rilevanti perplessità espresse dal ctu circa il reale stato di manutenzione della fognatura (ff. 11-12 della relazione, riportata in ricorso al foglio 26).
La Corte d'appello, di converso, ha ritenuto -sulla base di un sillogismo evidentemente privo delle necessarie premesse- che anche un sistema di deflusso che fosse stato realizzato e avesse funzionato nel pieno rispetto di tutte le norme tecniche e di ordinaria diligenza non sarebbe stato idoneo a contenere la furia delle acque e ad evitare il danno.
E' tale affermazione ad apparire, nella sostanza, sfornita di motivazione, mentre è evidente che l'accertamento di una sicura responsabilità in capo all'ente tenuto alla manutenzione avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della fattispecie, allo scopo di valutare se, come ed in quale percentuale l'esecuzione dei lavori a regola d'arte e il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre l'entità dei danni.
Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi e mantenga un'opera pubblica trova un limite nell'obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che dall'inosservanza di queste disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità della responsabilità della stessa pubblica amministrazione per i danni arrecati a terzi (tra le altre, Cass. 09.10.2003, n. 15061 e 11.11.2011, n. 23562).
E' appena il caso di aggiungere, infine, che ogni riflessione, declinata in termini di attualità, sulla prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere alluvionale, certamente impone, oggi, in considerazione dei noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti e, ormai, tutt'altro che imprevedibili
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 24.03.2016 n. 5877).

APPALTI SERVIZISui servizi di pulizia costi non congelabili. Appalti. Il Tar: obbligatoria la clausola d’adeguamento automatico dei prezzi.
Sono nulle le clausole contrattuali che limitano la revisione periodica dei prezzi negli appalti dei servizi di pulizia: lo sottolinea il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, nella sentenza 24.03.2016 n. 1556, decidendo una controversia tra il ministero dell’Istruzione e un consorzio di cooperative.
Il caso specifico riguarda i servizi di pulizia mediante l’impiego, presso istituti scolastici della regione Campania, di ex lavoratori socialmente utili: l’impresa esecutrice ha chiesto l’adeguamento dei corrispettivi dell’appalto in forza dell’articolo 115 del codice degli appalti pubblici (Dlgs 163/2006). In particolare quell’articolo prevede che i contratti a esecuzione periodica e continuativa, relativi a servizi o forniture, devono contenere una clausola di revisione periodica del prezzo, revisione che viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dall’amministrazione attraverso dati rilevati dal mercato.
Questa norma è di tipo imperativo, cioè si inserisce di diritto anche nei contratti in cui manchi una pattuizione del genere o addirittura vi sia un patto contrario: ciò per evitare che i pubblici appaltatori subiscano in proprio quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sull’utile stimato al momento della formulazione dell’offerta, potrebbero indurre l’appaltatore stesso a svolgere i servizi e le forniture a condizioni peggiori rispetto quanto pattuito, addirittura causando un'interruzione del rapporto.
Di qui la necessità della clausola di revisione prezzi, che opera attraverso un procedimento istruttorio con cui viene determinata l’entità del compenso revisionale. Peraltro il meccanismo di rilevazione del costo dei servizi, previsto dall’articolo 6 della legge 537/1993, non è stato concretamente attuato e di conseguenza, si applica il cosiddetto indice Foi (famiglie operai e impiegati) calcolato mensilmente dall’Istat. Il Tar ha quindi condannato l’amministrazione della pubblica istruzione al pagamento in favore dell’appaltatore del compenso revisionale, con importo da determinarsi a cura dell’amministrazione stessa.
Con lo stesso ricorso l’appaltatore ha chiesto anche il rimborso di maggiori oneri sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del personale impiegato nell’appalto. Sul punto, tuttavia, il Tar ha ritenuto di non potersi esprimere, essendo questa una materia di competenza del giudice ordinario. Si tratta infatti di incrementare l’importo contrattuale aggiungendo un’ora ulteriore di lavoro.
In altri termini, ci si rivolge al giudice amministrativo quando si discute di una revisione periodica e di un adeguamento del prezzo degli appalti di servizi o forniture, facendo valere le variazioni di andamento del mercato dei costi e dei fattori produttivi. Se invece cambiano le condizioni negoziali originariamente pattuite e si discute del rimborso di maggiori oneri derivanti da una circostanza estranea all’andamento del mercato dei costi del servizio occorre rivolgersi al giudice ordinario
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.04.2016).
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MASSIMA
Il Collegio, confermando l’orientamento di questa Sezione, dal quale non ha motivo di discostarsi, deve, in via preliminare, osservare che
la proposta domanda di riconoscimento delle somme spettanti in virtù dell’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, previo accertamento della nullità della clausola negoziale limitativa della revisione periodica dei prezzi prescritta da tale norma, rientra nella giurisdizione esclusiva dell'adito giudice amministrativo (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015, n. 1462 e n. 1475).
Ed invero, l'art. 244 del d.lgs. n. 163/20063 prevede che "il codice del processo amministrativo individua le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contratti pubblici" e l'art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm. stabilisce che "sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui all'articolo 115 del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163".
Tanto premesso in punto di giurisdizione, nel merito, la suindicata domanda è fondata per le ragioni di seguito esposte.
Ai sensi dell’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, “tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all'articolo 7, comma 4, lett. c, e comma 5”.
La giurisprudenza amministrativa è ormai costante nell'affermazione secondo cui
l'art. 115 citato (che riprende la formulazione già contenuta nell'art. 6 della l. n. 537/1993) è una norma imperativa, che si sostituisce di diritto ad eventuali pattuizioni contrarie (o mancanti) nei contratti pubblici di appalti di servizi e forniture ad esecuzione periodica o continuativa (cfr., ex multis, Cons. Stato, n. 2461/2002; n. 916/2003; n. 3373/2003; n. 3994/2008): ciò, in quanto la clausola di revisione periodica del corrispettivo di tali contratti ha lo scopo di tenere indenni gli appaltatori delle amministrazioni pubbliche da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell'offerta, potrebbero indurre l'appaltatore a svolgere i servizi o ad eseguire le forniture a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi pubblici.
Per evitare tali inconvenienti, il legislatore ha, quindi, disposto l'inserimento obbligatorio della clausola di revisione prezzi ed ha contemporaneamente delineato il procedimento istruttorio attraverso cui la stazione appaltante deve determinare l'entità del compenso revisionale.
Peraltro,
è noto che le disposizioni del previgente art. 6 della l. n. 537/1993 non sono state completamente attuate, visto che, ad esempio, non ha mai concretamente funzionato il meccanismo di rilevazione del costo dei beni e servizi, cosicché si applica normalmente il c.d. indice FOI fissato dall'ISTAT (cfr. Cons. Stato n. 3373/2003; n. 2461/2002; n. 4801/2002).
Può, pertanto, affermarsi che,
per i contratti ad esecuzione periodica o continuativa –relativi a servizi e forniture– stipulati da amministrazioni pubbliche, la regola ordinaria è quella per cui la revisione prezzi spetta senza alcun margine di alea a danno dell'appaltatore.
Nella fattispecie oggetto di gravame devono ritenersi applicabili i principi sopra richiamati, atteso che
la clausola contenuta nell’art. 12, comma 2, del contratto normativo (“la revisione dei prezzi … potrà essere effettuata subordinatamente ed entro i limiti di eventuali incrementi degli stanziamenti annuali di bilancio”) e recepita nel susseguente contratto attuativo risulta irrefutabilmente arbitraria nell’an e limitativa nel quantum dell’adeguamento periodico del corrispettivo, contraria, come tale, alla norma imperativamente prescrittiva del compenso revisionale tramite apposita statuizione contrattuale.
Conseguentemente, è da ritenersi operante, per effetto sostitutivo automatico, la clausola revisionale prevista dall'art. 115 del d.lgs. n. 163/2006.

Con riferimento al quantum revisionale, il meccanismo legale di aggiornamento del canone degli appalti pubblici di servizi e delle pubbliche forniture prevede che la revisione venga operata a seguito di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili della acquisizione dei beni e servizi sulla base dei dati rilevati e pubblicati semestralmente dall'ISTAT sull'andamento dei prezzi dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni appaltanti, ma l'insegnamento giurisprudenziale consolidato ha chiarito che –a fronte della mancata pubblicazione di tali dati da parte dell'ISTAT– l’adeguamento dei corrispettivi debba essere calcolato utilizzando l'indice (medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (c.d. indice FOI) mensilmente pubblicato dal medesimo ISTAT (cfr., ex multis, Cons. Stato, n. 2461/2002).
Quanto al maggior costo sostenuto per il personale impiegato per l'espletamento del servizio di pulizia, che –come argomentato da parte ricorrente– incide sull’economia del contratto nella misura dell’85%, ritiene il Collegio che il relativo importo debba essere riconosciuto in base agli incrementi desumibili dalle tabelle ministeriali, in rapporto ai valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, alle norme in materia previdenziale e assistenziale, ai diversi settori merceologici ed alle differenti aree territoriali.
Alla stregua delle superiori considerazioni, la domanda in esame va accolta per quanto di ragione, con conseguente condanna dell’amministrazione resistente al pagamento, in favore del C.N.S. e del Consorzio Stabile Mi., del compenso revisionale ex 115 del d.lgs. n. 163/2006.
Detto compenso revisionale andrà determinato, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., su proposta dell’amministrazione resistente, secondo i predetti principi di diritto, e tenendo conto sia delle fatture emesse dalla parte ricorrente ai fini del calcolo della rivalutazione dei canoni sulla base delle variazioni dell’indice FOI rilevato dall’ISTAT, sia delle fatture già saldate dalla stazione appaltante, nonché decurtando le somme già forfetariamente e parzialmente riconosciute a titolo di adeguamento dei corrispettivi.
L’importo così determinato andrà maggiorato degli interessi moratori che –ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 231/2002– decorreranno dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento fino all’effettivo soddisfo (cfr. TAR Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015, n. 1475 cit.).
La proposta di determinazione a cura dell’amministrazione resistente e il pagamento, in favore dei ricorrenti, dell’importo dovuto a titolo di compenso revisionale dovranno avvenire entro il termine che si fissa, quanto alla proposta, in 40 giorni decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della presente decisione, e, quanto al pagamento, in 40 giorni dalla notizia dell’accettazione della proposta.
Venendo ora alla domanda di rimborso dei maggiori costi sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del personale impiegato in appalto, il Collegio, confermando l’orientamento già fatto proprio dalla Sezione in casi omologhi a quello dedotto nel presente giudizio, ritiene di dover declinare la giurisdizione di questo adito giudice amministrativo in favore della giurisdizione del giudice ordinario (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII, 23.10.2015, n. 5000, 05.11.2015, n. 5131).
Al riguardo, giova, in primis, chiarire gli esatti termini della controversia.
Il Collegio rileva, in particolare, che, stando alla prospettazione dei ricorrenti:
- in seguito all’accordo sindacale stipulato il 30.07.2007, l’orario di lavoro della manodopera adibita all’esecuzione dell’appalto, costituita da ex lavoratori socialmente utili (LSU) o di pubblica utilità (LPU), sarebbe stato innalzato da 35 a 36 ore settimanali;
- ciò avrebbe comportato il proporzionale aumento della retribuzione media mensile pro capite da € 1.544,08 a € 1.588,20;
- in capo al gestore del servizio di pulizia affidato, all’obbligo contrattuale “di assicurare, in ogni caso, il mantenimento dei livelli occupazionali … del personale ex LSU ed ex LPU esistenti alla data di stipula del … contratto” (art. 4, comma 6, del contratto normativo del 28.12.2006) –così come, appunto, quello imposto dal citato accordo sindacale del 30.07.2007– avrebbe dovuto corrispondere il diritto di percepire un compenso commisurato all’andamento della spesa per la manodopera, non potendo, quest’ultimo, tradursi in un fattore a discapito del gestore medesimo.
Rileva, altresì, il Collegio che la copertura dei maggiori costi derivanti dall’incremento dell’orario di lavoro in corso di appalto rinviene la propria disciplina negoziale nell’art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo del 28 dicembre 2006: “L’importo contrattuale … –recita, segnatamente, la clausola in parola– rimane fisso ed invariabile per l’intera durata del contratto anche in presenza di variazione del numero di lavoratori. Le ore erogate infatti non subiranno variazioni in diminuzione. Tale importo non deve considerarsi comunque garantito per l’assuntore stante la facoltà per il contraente di avvalersi di quanto stabilito dall’art. 11 del r.d. n. 2443/1923. Il contraente, pertanto, potrà richiedere all’assuntore di incrementare l’importo contrattuale stesso fino a concorrenza del limite di 1/5 … alle stesse condizioni, termini e corrispettivi del presente contratto normativo e del contratto attuativo … L’assuntore curerà di assicurare, in ogni caso, il mantenimento dei livelli occupazionali e retributivi del personale ex LSU ed ex LPU esistenti alla data di stipula del presente contratto; le economie rivenienti dalle cessazioni del personale a qualunque titolo verificatesi nell’arco temporale di durata del contratto, nonché quelle maturate, per effetto delle precedenti cessazioni, a decorrere dalla stipula del presente contratto, saranno utilizzate per il progressivo adeguamento contrattuale del personale dalle attuali 35 ore settimanali fino ad un massimo di 40 ore pro capite, per migliorare la qualità dei servizi prestati ovvero per far fronte, con le ore aggiuntive, alle predette cessazioni, alle quali, comunque, non potrà far seguito alcuna nuova assunzione di unità lavorative”.
Ciò posto, il Collegio ritiene che la controversia, così come dianzi inquadrata, esuli dal novero di quelle riservate dall’art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, c.p.a. alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le quali ineriscono alla “clausola di revisione del prezzo” ed al “relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuativa o periodica, nell’ipotesi di cui all’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163”.
La clausola e il provvedimento di revisione periodica disciplinati dal menzionato art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 concernono, infatti, –come desumibile anche dal richiamo al precedente art. 7, commi 4, lett. c, e 5– l’adeguamento del prezzo degli appalti di servizi e forniture rispetto all’andamento di mercato dei costi dei fattori produttivi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.01.2013, n. 465; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 23.09.2014, n. 2328; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 26.01.2015, n. 293), ceteris rebus sic stantibus’, ossia ferme restando le condizioni negoziali originariamente pattuite dalle parti in ordine alla natura ed alla quantità delle prestazioni dovute.
La domanda in esame, a differenza di quella già scrutinata ed accolta, ha, invece, per oggetto il totalmente distinto profilo del rimborso dei maggiori oneri economici derivanti da una circostanza estranea all’andamento di mercato dei costi del servizio affidato e, segnatamente, consistente nell’incremento dell’orario di lavoro della manodopera in corso di appalto; profilo che attiene, quindi, alla variazione del quantum delle prestazioni richieste al gestore, nonché all’incidenza della stessa sulla remuneratività del corrispettivo ab origine pattuito, e che non può, come tale, considerarsi attratto all’orbita di giurisdizione esclusiva dell’adito giudice amministrativo, essendo inammissibile una estensione analogica della eccezionale norma istitutiva di quest’ultima (art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., sulla cui natura tassativa, cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.07.2014, n. 4015; TAR Abruzzo, L’Aquila, 12.02.2015, n. 88; 14.05.2015, n. 391; più in generale, nel senso del carattere ‘particolare’ delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cfr. Corte cost., 06.07.2004, n. 204).
In realtà,
la fattispecie in scrutinio rientra pacificamente nella giurisdizione del giudice ordinario.
Essa sussegue, infatti, allo spartiacque rappresentato dalla stipula del contratto affidato ed afferisce alla fase della sua esecuzione, così da attingere, in via diretta e immediata, posizioni di diritto soggettivo scaturenti da un rapporto negoziale ‘iure privatorum’, perfezionato ed efficace, e cioè posizioni di diritto soggettivo che, in quanto tali, si incanalano nell’alveo naturale della cognizione del giudice ordinario, chiamato a verificare la conformità delle regole convenzionali e delle relative condotte attuative alla normativa civilistica
(cfr. Cass. civ., sez. un., 23.12.2003, n. 19787; 05.04.2005 n. 6992; 18.10.2005 n. 20116; 07.11.2008, n. 26792; 05.04.2012, n. 5446; 23.11.2012, n. 20729; 08.07.2015, n. 14188; Cons. Stato, sez. V, 28.12.2006, n. 8070; 17.10.2008, n. 5071; 25.07.2012, n. 4224; 16.01.2013, n. 236; 30.07.2014, n. 4025; 31.12.2014, n. 6455; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 05.06.2009, n. 3110; sez. VIII, 25.10.2012, n. 4228; TAR Abruzzo, Pescara, 14.07.2009 n. 511; 23.11.2011, n. 642; 28.01.2013, n. 44; 12.04.2013, n. 217; L’Aquila, 22.04.2014, n. 361; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 24.11.2010, n. 7346; 02.04.2015, n. 868; TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 07.12.2011, n. 2932; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 12.12.2011, n. 1925; TAR Molise, Campobasso, 08.02.2012, n. 20; 17.02.2012, n. 63; 19.03.2014, n. 174; 28.11.2014, n. 653; TAR Basilicata, Potenza, 09.03.2012, n. 114; 08.11.2013, n. 704; TAR Calabria, Reggio Calabria, 05.06.2012, n. 407; TAR Valle d’Aosta, Aosta, 19.07.2012, n. 70; TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.10.2012, n. 8755; 13.12.2012, n. 10379; sez. III, 02.05.2013, n. 4399; Latina, 19.07.2013, n. 648; TAR Emilia Romagna, Parma, 20.12.2012, n. 364; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 21.12.2012, n. 1389 e n. 1390; 06.02.2015, n. 259; TAR Liguria, Genova, sez. II, 16.05.2014, n. 769; 12.02.2015, n. 173; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 13.02.2015, n. 571).
Più in dettaglio,
investe pretese patrimoniali ingenerate dalla modifica quantitativa del contenuto delle obbligazioni gravanti su ciascuna delle parti –quale, da un lato, l’incremento del monte ore della manodopera impiegata e, quindi, delle prestazioni erogate dall’impresa appaltatrice e, d’altro lato, la proporzionale maggiorazione del compenso dovuto dalla stazione appaltante–, nonché l’interpretazione e l’applicazione della disciplina convenzionale dettata per tale ipotesi (art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo del 28.12.2006).
Ebbene,
l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del c.d. ius variandi, ossia del diritto potestativo di avvalersi di simili modifiche alla quantità (o anche alla qualità) delle prestazioni affidate, così come, specularmente, il diritto dell’appaltatore di esigere l’adeguamento del corrispettivo in proporzione alle modifiche stesse non si correlano –come, invece, inferito dai ricorrenti– ad un potere dell’amministrazione di tipo autoritativo, ma si esplicano a guisa di diritti soggettivi nell'ambito di un rapporto paritetico.
Pertanto, la controversia originata dall’esercizio del ius variandi è da intendersi esulante dalla giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che la modifica, quantitativa o qualitativa, delle prestazioni contrattuali rientra nell'ambito della fase negoziale di esecuzione del contratto già affidato e stipulato, devoluta –come illustrato– alla cognizione del giudice ordinario
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 07.02.2014, n. 897).
In questo senso, Cass. Civ., SS.UU., 05.04.2012, n. 5446 ha, più in generale, ribadito che appartengono al giudice amministrativo le controversie che attengono alla fase preliminare –antecedente e prodromica alla stipula del contratto pubblico– di formazione della volontà dell’amministrazione e di scelta del contraente privato in base alle regole della c.d. evidenza pubblica; mentre sono devolute al giudice ordinario le controversie che radicano le loro ragioni nella serie negoziale successiva, a partire dalla stipula del contratto pubblico fino alle vicende del suo adempimento, e che riguardano la disciplina dei rapporti instaurati in forza del contratto medesimo e sono, quindi, volte all’accertamento dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, nonché delle condizioni di sua validità ed efficacia.
Alla luce delle considerazioni svolte, con riguardo alla domanda di rimborso dei maggiori costi per incremento dell’orario di lavoro della manodopera impiegata in appalto, deve essere, conseguentemente, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, appartenendo la giurisdizione al giudice ordinario.
In conclusione, alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso in epigrafe deve essere accolto limitatamente alla domanda di adeguamento periodico dei corrispettivi dell’appalto di pulizia eseguito, con conseguente accertamento della nullità della clausola contrattuale limitativa di esso e condanna dell’amministrazione resistente al pagamento delle somme da determinarsi a tale titolo, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a.; con riguardo alla proposta domanda di rimborso dei maggiori costi sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del personale impiegato in appalto, va dichiarato il difetto di giurisdizione di questo adito giudice amministrativo, appartenendo la giurisdizione al giudice ordinario.
La riproposizione della relativa domanda è disciplinata dell’art. 11 del decreto legislativo 02.07.2010 n. 104.

EDILIZIA PRIVATASecondo il più recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di Stato, l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione in precedenza emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione materiale, con la conseguenza che la medesima ordinanza può essere portata ad esecuzione in caso di rigetto dell’istanza, dopo la maturazione del relativo termine di adempimento che riprende a decorrere dalla conoscenza del diniego.
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4. RITENUTA, per contro, l’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità dell’appello nella sua interezza, sollevata dall’appellato Comune di Bolzano sotto il profilo che la mera presentazione di istanza di sanatoria per i vari abusi contestati, successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione e ripristino, renderebbe quest’ultima inefficace e, quindi, improcedibile l’impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, secondo il più recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di Stato, l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione in precedenza emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione materiale, con la conseguenza che la medesima ordinanza può essere portata ad esecuzione in caso di rigetto dell’istanza, dopo la maturazione del relativo termine di adempimento che riprende a decorrere dalla conoscenza del diniego (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 02.02.2015, n. 466) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.03.2016 n. 1204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Schema di decreto legislativo recante “modifiche e integrazioni al Codice dell’Amministrazione Digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 23.03.2016 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Danni da burocrazia: sul risarcimento danni per i tempi lunghi della burocrazia se la condotta della Pa è colposa.
Nel caso in cui venga introdotta, avanti al giudice ordinario, una domanda risarcitoria, ai sensi dell'art. 2043 c.c., nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio di una funzione pubblica, il giudice deve procedere, in ordine successivo, alle seguenti indagini:
   a) in primo luogo, deve accertare la sussistenza di un evento dannoso;
   b) deve, poi, stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l'ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo);
   c) deve, inoltre, accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta della P.A.;
   d) infine, deve verificare se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., considerando che tale imputazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità del provvedimento, richiedendosi, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana.
Si deve peraltro precisare, in proposito:
   a) sotto il profilo oggettivo-causale, che laddove si deduca la lesione di un interesse legittimo pretensivo per il ritardo nel rilascio di un provvedimento abilitativo, e l'autorizzazione richiesta, dopo l'annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di un illegittimo diniego, sia poi effettivamente rilasciata sulla base della situazione originaria senza che siano intervenuti mutamenti nelle circostanze rilevanti, il giudizio prognostico circa la fondatezza dell'istanza della parte non può che ritenersi, ovviamente, positivo;
   b) sotto il profilo dell'elemento soggettivo, che pur essendo sempre necessaria l'imputabilità del fatto alla pubblica amministrazione a titolo di dolo o di colpa (non desumibile dalla sola illegittimità del provvedimento), tuttavia, «allorché la illegittimità del provvedimento derivi dal vizio di violazione di legge per mancata osservanza di prescrizioni dettate da norme giuridiche e non risultino fatti positivi escludenti la colpa nel caso concreto, il giudice deve ritenere provato l'elemento psichico della condotta», in guanto allorché a cagionare l'illegittimità di un provvedimento (illegittimità che è elemento essenziale della fattispecie risarcitoria) sia il vizio di violazione di legge, in senso stretto, la colpa specifica è comprovata, salvo che non resti positivamente esclusa da elementi acquisiti alla causa che non consentano di muovere all'amministrazione alcun rimprovero, neppure sotto il profilo della colpa generica, per non avere fatto applicazione della normativa, ovvero siano comprovate cause di giustificazione.

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La motivazione del provvedimento impugnato è insufficiente e contraddittoria.
La corte di merito ha correttamente individuato i principi di diritto da applicare alla fattispecie, ai quali ha inteso dichiaratamente conformarsi, e cioè quelli indicati inizialmente da Cass., SSUU, Sentenza n. 500 del 22.07.1999, e sostanzialmente tenuti fermi dalla giurisprudenza successiva (si veda, per tutte, Sez. 3, Sentenza n. 12282 del 27.05.2009: «nel caso in cui venga introdotta, avanti al giudice ordinario, una domanda risarcitoria, ai sensi dell'art. 2043 c.c., nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio di una funzione pubblica, il giudice deve procedere, in ordine successivo, alle seguenti indagini:
   a) in primo luogo, deve accertare la sussistenza di un evento dannoso;
   b) deve, poi, stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l'ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo);
   c) deve, inoltre, accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta della P.A.;
   d) infine, deve verificare se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., considerando che tale imputazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità del provvedimento, richiedendosi, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana; in applicazione di tale principio, la S.C., ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva omesso, ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria formulata sulla scorta di un interesse pretensivo al conseguimento di un'autorizzazione commerciale, nella specie negata, di procedere -sul piano oggettivo-causale- al giudizio prognostico circa la fondatezza o meno dell'istanza di parte, da condurre in relazione alla normativa applicabile, e di compiere, sul piano soggettivo, il doveroso controllo sull'imputazione almeno colposa della condotta del pubblico funzionario, non avendo ritenuto, invece, sufficiente, per l'affermazione della responsabilità risarcitoria dell'ente comunale, l'intervenuto annullamento del diniego del nulla-osta presupposto in sede di giurisdizione amministrativa
»).
Si deve peraltro precisare, in proposito:
   a) sotto il profilo oggettivo-causale, che laddove si deduca la lesione di un interesse legittimo pretensivo per il ritardo nel rilascio di un provvedimento abilitativo, e l'autorizzazione richiesta, dopo l'annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di un illegittimo diniego, sia poi effettivamente rilasciata sulla base della situazione originaria senza che siano intervenuti mutamenti nelle circostanze rilevanti, il giudizio prognostico circa la fondatezza dell'istanza della parte non può che ritenersi, ovviamente, positivo;
   b) sotto il profilo dell'elemento soggettivo, che pur essendo sempre necessaria l'imputabilità del fatto alla pubblica amministrazione a titolo di dolo o di colpa (non desumibile dalla sola illegittimità del provvedimento), tuttavia, «allorché la illegittimità del provvedimento derivi dal vizio di violazione di legge per mancata osservanza di prescrizioni dettate da norme giuridiche e non risultino fatti positivi escludenti la colpa nel caso concreto, il giudice deve ritenere provato l'elemento psichico della condotta», in guanto allorché a cagionare l'illegittimità di un provvedimento (illegittimità che è elemento essenziale della fattispecie risarcitoria) sia il vizio di violazione di legge, in senso stretto, la colpa specifica è comprovata, salvo che non resti positivamente esclusa da elementi acquisiti alla causa che non consentano di muovere all'amministrazione alcun rimprovero, neppure sotto il profilo della colpa generica, per non avere fatto applicazione della normativa, ovvero siano comprovate cause di giustificazione (Cass., Sez. L, Sentenza n. 7733 del 23.04.2004)
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,  sentenza 22.03.2016 n. 5621).

ATTI AMMINISTRATIVI: Privacy, esposto con diritto all’anonimato. Tar del Lazio. Bocciata la richiesta di accesso alle segnalazioni inviate al Garante.
L’accesso alle segnalazioni inviate al Garante della privacy su presunte violazioni nel trattamento dei dati personali farebbe venir meno il potere di controllo alternativo e le forme di tutela affidati dal legislatore a questo tipo di strumenti di garanzia, posto che chi li utilizza ha lo stesso diritto alla riservatezza riconosciuto ai lavoratori che rilasciano dichiarazioni agli ispettori del lavoro.
Il TAR Lazio-Roma –sentenza 18.03.2016 n. 3364, Sez. I-quater– ha bocciato così il ricorso di una titolare di agenzia di elaborazione dati che aveva chiesto al Garante di accedere a un esposto-denuncia su un presunto trattamento illecito dei “dati sensibili” nella propria attività.
Il Garante, che aveva archiviato il caso avendo accertato l’assenza di violazioni al Codice in materia di protezione di dati personali (Dlgs 196/2003), aveva respinto la richiesta poiché gli atti non avevano danneggiato la ricorrente e questa non aveva «alcun interesse diretto, concreto e attuale» a difendersi. La ricorrente sosteneva invece di aver diritto a conoscerli come soggetto interessato dai controlli, e che così avrebbe potuto chiedere ai responsabili di risarcirle i danni subiti per un’ispezione domiciliare, oltre a verificare l’ipotesi di calunnia.
I giudici hanno spiegato che in questi casi il diritto d’accesso va bilanciato con le forme di tutela riconosciute dal legislatore agli strumenti alternativi a garanzia della protezione dei dati personali quali il «reclamo circostanziato», la «segnalazione» e il «ricorso» (articolo 141, Codice privacy), garantendo l’«anonimato di chi, esercitando un diritto espressamente previsto dall’ordinamento, si pone quale stimolo dei poteri di accertamento e di controllo, anche a mezzo di ispezioni, propri del Garante...».
Per il Tar, anche per le segnalazioni vale l’indirizzo generale del Consiglio di Stato che tutela la privacy nei controlli sui contratti di lavoro (sentenza 5779/2014) per cui la «riservatezza di chi rende dichiarazioni in sede ispettiva assume una peculiare rilevanza, onde scongiurare eventuali ritorsioni o indebite pressioni da parte del soggetto nei cui confronti sono state rese le dichiarazioni, ma anche, (e, ritiene il Collegio, soprattutto) per preservare, su di un piano più ampio, il generale interesse ad un compiuto controllo delle attività oggetto di ispezione...».
Quindi, anche se il diritto d’accesso prevale su quello alla riservatezza quando la conoscenza degli atti è necessaria alla difesa dei propri interessi giuridici (comma 7, articolo 24, legge 241/1990), in questi casi «esiste, sullo sfondo, un preminente interesse dell’ordinamento giuridico, quale la tutela dei dati personali come declinata nei diversi mezzi pure previsti dal legislatore, che è altrettanto meritevole di essere preservato nella sua integrità ed effettività», posto che le segnalazioni, insieme ai ricorsi e ai reclami, garantiscono al potere di controllo del Garante «la più completa ed esauriente esplicazione…» a prescindere dall’esito.
Non può dunque essere ammesso l’invocato diritto a identificare chi segnala presunti abusi poiché «si risolverebbe, di fatto, in un depotenziamento di questo utile strumento posto a tutela di un bene giuridico considerato di particolare rilievo, quali sono, appunto, i “dati personali”»
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.04.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
E’ principio consolidato che
il giudizio in materia di accesso ai documenti di cui all’art. 25, legge 07.08.1990, n. 241, anche se si atteggia come impugnatorio -dovendo essere presentato il ricorso nel termine perentorio di 30 giorni ed essendo rivolto contro l’atto di diniego o il silenzio diniego formatosi sulla relativa istanza- è, in sostanza, rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all’accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza o completezza delle ragioni addotte dall’Amministrazione per giustificare il diniego, tanto è vero che, anche nel caso di impugnativa del silenzio diniego, la parte resistente potrebbe anche dedurre in giudizio le ragioni che precludono all’interessato di avere copia o di visionare i relativi documenti richiesti.
Come sopra esposto, alle richieste di accesso presentate dalla parte ricorrente, l’Autorità resistente ha opposto, dapprima la sussistenza di ragioni per il differimento, e poi, con la nota impugnata, la carenza di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti di cui è stato chiesto l'accesso.
Ed invero, è indubitabile che le norme introdotte dalla legge 241 nel 1990, come successivamente integrate e modificate, consentono
l’esercizio del c.d. «diritto di accesso», ovvero il diritto di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, a tutti coloro che l’art. 22, legge in esame, definisce «interessati», ovvero a tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l'accesso.
Il successivo art. 25, secondo comma, dispone, ancora, che la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata, e deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento e che lo detiene stabilmente.
Con norma speculare ai principi dianzi riportati, l’art. 2, d.P.R. 12.4.2006, n. 184, recante la disciplina applicativa in materia di accesso, prevede che “Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è esercitabile nei confronti di tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, da chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l'accesso. Il diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica amministrazione, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera e), della legge, nei confronti dell'autorità competente a formare l'atto conclusivo o a detenerlo stabilmente. La pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso.”
Il delineato quadro normativo fa ritenere al Collegio che
l’interesse all’accesso deve evidenziare la sua strumentalità rispetto alla sussistenza di un’ulteriore situazione soggettiva cui l’ordinamento riconosce tutela (“per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”, giusta l’art. 22, legge n. 241 del 1990, sopra richiamato) che deve essere necessariamente, a sua volta, d’interesse legittimo o di diritto soggettivo, onde evitare che, attraverso il ricorso a tale mezzo di tutela si determini, di fatto, l’accesso indifferenziato alla attività amministrativa, mentre invece la struttura normativa come sopra indicata porta ad escludere che il diritto di accesso comporti un indiscriminato potere esplorativo né, tantomeno, un generalizzato potere di vigilanza sull’operato delle Amministrazioni.
Tanto precisato, e venendo all’oggetto della richiesta ostensiva presentata dalla ricorrente, emerge con limpida evidenza che l’interesse alla stessa sotteso, ancorché diretto, concreto e attuale, va circoscritto, in sostanza, alla conoscenza del nominativo dell’autore della segnalazione che ha dato avvio al procedimento ispettivo eseguito a suo carico, onde rivalersi dei danni asseritamente patiti in conseguenza di ciò, atteso che invece, sul versante prettamente amministrativo, il procedimento si è concluso favorevolmente con una archiviazione, non essendo emerse violazioni della disciplina rilevante in materia di protezione dei dati personali suscettibili di costituire oggetto di specifici interventi da parte dell’Autorità.
Così circoscritto l’interesse all’accesso alla conoscenza del dato di cui sopra si è detto (nominativo dell’autore della segnalazione ricevuta dall’Ufficio del garante)
la questione giuridica da porsi è quella della prevalenza comunque del diritto alla ostensione rispetto alla tutela, non tanto della riservatezza di un terzo che, peraltro, nemmeno è parte del presente giudizio, ma, più in radice, delle forme di tutela che il legislatore ha posto a presidio del diritto alla protezione dei dati personali, attraverso la garanzia dell’anonimato di chi, esercitando un diritto espressamente previsto dall’ordinamento, si pone quale stimolo dei poteri di accertamento e di controllo, anche a mezzo di ispezioni, propri del Garante per la protezione dei dati personali.
E’ il caso, invero, dei procedimenti avviati sulla base di segnalazioni, ai sensi dell’art. 141, lett. b), che il d.lgs. n. 196/2003 annovera tra le forme di tutela del diritto alla protezione dei dati personali, cui il Collegio ritiene possano essere estesi i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in materia affine a quella oggetto della presente controversia.
Esiste, infatti, un orientamento assunto dal Consiglio di Stato (ancorché in occasione di controversie su una differente tipologia di procedimento, ma i cui tratti sono assimilabili per i fini di interesse; cfr. Sez. VI, n. 5779/2014), secondo cui
l’esigenza di tutela della riservatezza di chi rende dichiarazioni in sede ispettiva assume una peculiare rilevanza, onde scongiurare eventuali ritorsioni o indebite pressioni da parte del soggetto nei cui confronti sono state rese le dichiarazioni, ma anche, (e, ritiene il Collegio, soprattutto) per preservare, su di un piano più ampio, il generale interesse ad un compiuto controllo delle attività oggetto di ispezione (nella specie, si trattava dell’attività ispettiva sulla regolarità dei rapporti di lavoro).
Se, infatti, il bilanciamento tra diritto di accesso per la difesa e cura dei propri interessi, da un lato, e diritto di riservatezza del terzo, dall’altro, è stato risolto dal legislatore con la prevalenza alla tutela del diritto di accesso, quando questo sia strumentale alla cura o difesa di propri interessi giuridici (art. 24, co. 7, legge n. 241/21990),
non può essere trascurato che, nel caso di specie esiste, sullo sfondo, un preminente interesse dell’ordinamento giuridico, quale la tutela dei dati personali come declinata nei diversi mezzi pure previsti dal legislatore, che è altrettanto meritevole di essere preservato nella sua integrità ed effettività.
Come si evince dall’incipit della nota oggetto di contestazione, il Garante ha precisato che l’attività istruttoria in merito al trattamento dei dati personali effettuato dalla ricorrente in qualità di titolare dell’Agenzia “Il fi. ro.”, era stata avviata d’ufficio e sulla base di una segnalazione.
Si tratta, dunque, di un caso in cui l’attività amministrativa è stata sollecitata facendo legittimo ricorso ad uno strumento (la segnalazione) che costituisce una precisa forma di tutela, a prescindere dal fatto che poi il procedimento si sia concluso, per la ricorrente, con una archiviazione.
Ed invero,
il potere di controllo, che il Garante può esercitare anche in via del tutto autonoma, ottiene la più completa ed esauriente esplicazione anche con l’esercizio dei mezzi di tutela posti dall’art. 141, d.lgs. 196/2001, tra cui, le segnalazioni che possono essere presentate in mancanza di elementi tali da consentire la presentazione di un ricorso o di un reclamo circostanziato.
Pertanto, ammettere che la conoscenza del nominativo del segnalatore costituisca un diritto indefettibile del soggetto che tratta dati personali, che, in ragione di ciò, si ricorda, è sottoposto al permanente potere di controllo del Garante circa la regolarità e conformità a legge di tale trattamento si risolverebbe, di fatto, in un depotenziamento di questo utile strumento posto a tutela di un bene giuridico considerato di particolare rilievo, quali sono, appunto, i “dati personali”.

LAVORI PUBBLICI: Delegato e delegante ambedue legittimati. Tar sulle occupazioni illegittime.
Ai fini dell'individuazione del soggetto obbligato alla restituzione del bene e al risarcimento del danno derivante da illegittima occupazione, la delega al compimento delle operazioni espropriative delle aree ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione non priva entrambi i soggetti (delegato e delegante) della legittimazione passiva.

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con la sentenza 17.
03.2016 n. 528.
Inoltre i giudici amministrativi calabresi hanno evidenziato che solo nei casi in cui vi è sostituzione amministrativa, l'ente sostituto andrà ad agire ai fini dell'esecuzione dell'opera non in rappresentanza dell'amministrazione sostituita, ma per competenza propria e spendendo il proprio nome di persona giuridica diversa.
Pertanto si assumeranno di fronte all'espropriato o al titolare del bene occupato tutti gli obblighi relativi al pagamento dell'indennità o all'eventuale ristoro dei danni, è ovvio che ciò non vale nel caso in cui si affidi in concessione ad altro soggetto l'esecuzione dei lavori, attribuendo, altresì, al concessionario l'espletamento delle attività relative al procedimento di espropriazione che si renda necessario.
E i giudici catanzaresi hanno sottolineato come a ciò sia conseguente che, in tal caso, la legittimazione passiva nelle controversie promosse dall'espropriato per la determinazione delle indennità o del risarcimento del danno si impone a detto concessionario ovvero all'affidatario, e non anche all'ente territoriale, pur se beneficiario delle opere.
In ossequio anche a un ormai orientamento giurisprudenziale, l'ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un'opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario, tende ad escludere decisamente la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico della p.a., «poiché una tale pronuncia postula l'avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della p.a. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (si veda: Cons. stato, sez. IV, 03.10.2012 n. 5189)» (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).
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MASSIMA
Nel merito, occorre muovere dal mancato perfezionamento della procedura espropriativa nel termine dato nel decreto di occupazione d’urgenza e dall’irreversibile trasformazione del bene occupato.
L’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica rappresenta un impedimento alla possibilità di restituire l’area illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno (cfr. C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità, in ogni caso, di un passaggio intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015 n. 5172 e 16.11.2007 n. 5830; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 28.11.2014 n. 2029; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, secondo la legislazione vigente, è costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327, al cui testo si rinvia.
In applicazione di tale disposizione, affinché l’interesse primario della parte lesa possa essere soddisfatto, deve perciò imporsi ad ANAS s.p.a. di attivarsi presso il Prefetto di Cosenza, nella qualità di “autorità che ha occupato il terreno” attribuito in uso speciale ad ANAS s.p.a. per finalità di interesse pubblico (cfr. comma 5 dell’art. 42-bis), entro trenta giorni dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza, allo scopo di rinnovare la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione del fondo per cui è causa, adottando, all’esito di essa, un provvedimento col quale lo stesso, in tutto od in parte, sia alternativamente:
a) acquisito non retroattivamente al patrimonio indisponibile dello Stato;
b) restituito in tutto od in parte al legittimo proprietario entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se ad interessare è l’intero compendio occupato, o solo parte di esso, disponendo la restituzione del fondo rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni, sia corrisposto al proprietario il valore venale del bene, nonché un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del venti per cento del medesimo valore venale, detratte le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell’interesse legale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
- dovrà essere notificato al proprietario e comporterà il passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R. 08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti, mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su autorizzazione scritta da parte di questi ed inoltre che tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di conformazione alla presente decisione potranno formare oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso, tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore del ricorrente ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell’intero bene occupato per tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione.

VARI: Perdita punti. Il diabete non è una scusa.
Chi perde tutti i punti patente deve rifare l'esame di scuola guida. Non serve a nulla lamentare malattie invalidanti poi in caso di mancato superamento delle prove. Si resta a piedi come tutti.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con sentenza 09.03.2016 n. 473.
Un utente stradale incappato in una serie di sanzioni per condotta di guida negligente è stato invitato dalla motorizzazione alla revisione della patente ex art. 128 Cds.
A seguito del mancato superamento dell'esame teorico il ministero ha quindi disposto la revoca della licenza di guida e l'interessato ha proposto ricorso ai giudici amministrativi censurando le motivazioni dell'atto, in relazione alla sua patologia diabetica.
Il collegio ha rigettato il ricorso condannando l'interessato anche al pagamento delle spese. L'iter logico argomentativo della motorizzazione è corretto. Se un autista perde tutti i punti patente deve sottoporsi alla revisione della sua licenza di guida.
Al superamento delle prove mediche consegue anche un esame teorico sull'abilità alla guida. Chi viene bocciato a scuola guida poi resta a piedi (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).

APPALTI: Impresa esclusa, danni al cv. Tar sulle gare.
Scatta il risarcimento del danno al curriculum per l'impresa ingiustamente esclusa dall'appalto. E ciò perché fra le varie voci da ristorare a carico dell'amministrazione c'è anche la perdita della possibilità, patita dall'azienda, di incrementare il suo avviamento che la gara pubblica avrebbe garantito, in quanto particolarmente importante nel settore di riferimento. Senza dimenticare la lesione subita all'immagine e al prestigio nel comparto imprenditoriale.

È quanto emerge dalla sentenza 07.03.2016 n. 2966, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lazio-Roma.
L'estromissione dell'azienda partecipante integra la violazione dei principi di imparzialità e correttezza: nessun errore scusabile può invocare l'amministrazione perché non ha provveduto a dare tempestiva esecuzione agli obblighi che scaturivano da pronunce di giudici.
Il danno curriculare scatta in quanto specificazione della perdita di chance e non risulta compreso nel mancato utile d'impresa. Per chi opera nel settore degli appalti pubblici la partecipazione alla gara è un vantaggio valutabile sul piano economico perché accresce la competitività sul mercato. L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un operatore economico, va infatti oltre l'esecuzione dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti.
Il fatto stesso dell'esecuzione dei lavori rappresenta per la società aggiudicataria che opere nei lavori pubblici una nuova vittoria da esporre nel palmares, a prescindere dal lucro che l'impresa si ripromette di ricavare per effetto del corrispettivo pagato dalla stazione appaltante. E ciò al di là dell'impossibilità di riutilizzare altrove maestranze e attrezzature destinate al servizio non aggiudicato.
Deve invece essere disattesa la domanda di risarcimento del danno esistenziale perché mancano le prove di un danno all'onorabilità della società dopo il provvedimento illegittimo. All'amministrazione che aveva bandito la gara non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 06.04.2016).

APPALTI: Gare, risarcito il curriculum.
Scatta il risarcimento del danno al curriculum per l'impresa ingiustamente esclusa dall'appalto. E ciò perché fra le varie voci da ristorare a carico dell'amministrazione c'è anche la perdita della possibilità, patita dall'azienda, di incrementare il suo avviamento che la gara pubblica avrebbe garantito, in quanto particolarmente importante nel settore di riferimento. Senza dimenticare la lesione subita all'immagine e al prestigio nel comparto imprenditoriale.

È quanto emerge dalla sentenza 07.03.2016 n. 2966, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lazio-Roma.
Vantaggio economico. L'estromissione dell'azienda partecipante integra la violazione dei principi di imparzialità e correttezza: nessun errore scusabile può invocare l'amministrazione perché non ha provveduto a dare tempestiva esecuzione agli obblighi che scaturivano da pronunce di giudici. Il danno curriculare scatta in quanto specificazione della perdita di chance e non risulta compreso nel mancato utile d'impresa.
Per chi opera nel settore degli appalti pubblici la partecipazione alla gara è un vantaggio valutabile sul piano economico perché accresce la competitività sul mercato. L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un operatore economico, va infatti oltre l'esecuzione dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti.
Il fatto stesso dell'esecuzione dei lavori rappresenta per la società aggiudicataria che opere nei lavori pubblici una nuova vittoria da esporre nel palmares, a prescindere dal lucro che l'impresa si ripromette di ricavare per effetto del corrispettivo pagato dalla stazione appaltante. E ciò al di là dell'impossibilità di riutilizzare altrove maestranze e attrezzature destinate al servizio non aggiudicato.
Deve invece essere disattesa la domanda di risarcimento del danno esistenziale perché mancano le prove di un danno all'onorabilità della società dopo il provvedimento illegittimo. All'amministrazione che aveva bandito la gara non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 05.04.2016).
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MASSIMA
3. Nel caso all’odierno esame, quanto al comportamento tenuto dall’Amministrazione resistente, le richiamate pronunce del giudice amministrativo chiaramente accertano l’illegittimità dell’esclusione del RTI dalla gara in esame; dalla narrativa in fatto si evince, altresì, il protrarsi dell’inerzia della p.a. che reiteratamente ometteva di prestare esecuzione ai provvedimenti giudiziari suddetti e di aggiudicare il servizio in gara all’odierna ricorrente, restando ingiustificatamente inerte.
Quanto all’elemento soggettivo, si rammenta come,
secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, al privato non sia chiesto un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione, potendo egli invocare l’illegittimità del provvedimento quale presunzione (semplice) della colpa, ed anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che non si è trattato di un errore non scusabile (da ultimo Cass., n. 23170 del 2014 e Cons. Stato, sez. III, 10.09.2014, n. 4618; in termini, Cons. Stato, Sez. VI, 25.01.2008, n. 213; 03.06.2006, n. 3981; 09.03.2007, n. 1114; 09.06.2008, n. 2751).
Nessuna circostanza idonea ad integrare l’errore scusabile è stata per contro addotta dalla intimata Presidenza del Consigli, desumendosi, viceversa, nella vicenda controversa, la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e di buona amministrazione nel non aver provveduto a dare tempestivamente e fattivamente esecuzione agli obblighi discendenti dalle ripetute pronunce giurisdizionali.
4. Appare dunque evidente che la domanda risarcitoria avanzata dalla società ricorrente è fondata e va senz’altro accolta nell’an, salvo determinare concretamente le voci di danno da riconoscersi a Seap.
Occorre in proposito considerare che,
in materia di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, nel caso di accoglimento della domanda risarcitoria proposta dal partecipante ad una pubblica gara illegittimamente pretermesso (nella specie si trattava di una gara per l’affidamento di un incarico professionale), questi ha diritto all’integrale risarcimento dei danni subiti, a fronte della colpa dell’Amministrazione nel preferirgli un altro concorrente, qualora risulti accertato che, se la gara si fosse svolta regolarmente, ne sarebbe risultato vincitore. Nella quantificazione del danno, il giudice dovrà tener conto di tutte le circostanze del caso concreto e liquidare sia il danno emergente che il lucro cessante (quali le spese sostenute per partecipare alla gara, il mancato guadagno per non aver potuto svolgere l’attività professionale ed il mancato incremento del curriculum professionale) (Corte di Cassazione, sez. III civile, 08.06.2015, n. 11794).
La domanda sul quantum del richiesto risarcimento è dunque fondata e la pretesa risarcitoria dovrà essere commisurata al danno da mancata aggiudicazione del servizio de quo, la quale si pone in rapporto di diretta causalità con l’illegittima esclusione della società dalla gara e con la mancata tempestiva esecuzione delle pronunce giurisdizionali sopra richiamate, nei termini che di seguito si vanno ad esporre.
4.1 Preliminarmente va rilevato che Seap agisce uti singula rispetto al RTI SEAP ADORMARE nel quale, per effetto degli accordi intercorsi tra mandante e mandataria, le attività oggetto del servizio e i relativi corrispettivi venivano ripartiti secondo il seguente criterio di riparto: SEAP 58%, ADORMARE 42%.
Ne discende che, posto uguale a € 1.417.141,26 il valore complessivo dell’offerta formulata dal RTI predetto nella gara controversa, pari all’importo a base d’asta al netto del ribasso praticato (del 29,685%), maggiorato delle spese per gli oneri di sicurezza e per il costo del personale, la quota corrispondente alla ricorrente dovrà computarsi nella misura pari al 58% dell’offerta come sopra proposta, ossia in € 821.941,931.
4.2
Quanto alla prima voce di danno concernente il danno emergente, va premesso che i costi sostenuti per la partecipazione alla gara sono risarcibili all’impresa che lamenti la illegittima esclusione dall’appalto.
Ed invero
la partecipazione alle gare di appalto comporta, inevitabilmente, per le imprese, dei costi, che, ordinariamente, restano a carico dell’impresa medesima, sia in caso di aggiudicazione, che di mancata aggiudicazione; detti costi di partecipazione si connotano come danno emergente solo allorché l’impresa subisca un’illegittima esclusione, venendo in tale evenienza in considerazione la pretesa del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili (Cons. St., sez. III, 14.12.2012, n. 6444; Tar Bari, sez. I, 06.10.2011, n. 1466).
Ritiene tuttavia il Collegio che
tali costi debbano peraltro essere contenuti nell’ambito dei costi diretti subiti ai fini della partecipazione, e non anche degli oneri afferenti al mancato utilizzo dei mezzi dedicati alle peculiarità dei servizi appaltati, perché rientranti nella valutazione della voce del lucro cessante, né di quelli legati al mancato abbattimento delle spese generali in ragione dell’inattività dell’impresa, perché non direttamente connessi e non di facile determinazione.
Tuttavia nel caso di specie i costi sostenuti per la partecipazione alla gara sono oggetto di mera allegazione da parte di Seap e non anche di documentazione a fini di prova, e pertanto non possono essere riconosciuti alla ricorrente quale componente del risarcimento per equivalente del danno da illegittima esclusione dalla gara in questione.
4.3
Quanto al danno curriculare, che la ricorrente lamenta in dipendenza della mancata acquisizione dell’appalto che il RTI aveva titolo ad acquisire e consistente nel pregiudizio dallo stesso subito a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751), ritiene il Collegio che esso debba essere riconosciuto in virtù di una autonoma considerazione e non possa viceversa considerarsi incluso nel mancato utile d’impresa, anche tenuto conto della dedotta impossibilità per il RTI di utilizzare “aliunde” le attrezzature e le maestranze deputate all'espletamento del servizio non aggiudicato.
4.3.1 Si osserva al riguardo che, in linea di massima,
deve ammettersi che l'impresa ingiustamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.05.2011 n. 1681; sez. IV, 27.11.2010 n. 8253; sez. VI, 11.01.2010 n. 20; sez. VI, 21.05.2009 n. 3144; sez. VI, 09.06.2008 n. 2751; sez. IV, 06.06.2008 n. 2680; sez. V, 23.07.2009 n. 4594; sez. V, 12.02.2008 n. 491; sez. IV, 29.07.2008 n. 3723; nonché TAR Lazio, sez. III, 02.02.2011 n. 974 e TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 07.01.2010 n. 3).
4.3.2 E infatti, come la Sezione ha già avuto modo di osservare,
tale voce di danno, costituente una specificazione del danno per perdita di chance, si correla necessariamente alla qualità di impresa operante nel settore degli appalti pubblici; e, più in particolare, al fatto stesso dell’esecuzione di uno di questi tipi di contratto, a prescindere dal lucro che l'impresa stessa si riprometta di ricavare per effetto del corrispettivo pagato dalla stazione appaltante. Questa qualità imprenditoriale può ben essere fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, in quanto idonea ad accrescere la capacità competitiva sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicazione di ulteriori e futuri appalti: l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un operatore economico, va infatti oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti.
Alla mancata esecuzione di un'opera pubblica illegittimamente appaltata si ricollegano, pertanto, indiretti nocumenti all'immagine della società, al suo radicamento nel mercato, all'ampliamento della qualità industriale o commerciale dell'azienda, al suo avviamento; ulteriormente dovendosi prendere in considerazione la lesione arrecata al più generale interesse pubblico al rispetto della concorrenza, in conseguenza dell'indebito potenziamento di imprese concorrenti che operino sul medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara (Tar Lazio, sez. I, 02.08.2011, n. 6907).
4.3.3
Circa la quantificazione del risarcimento, considerato che gli effetti dell’illegittima esclusione e della conseguente mancata aggiudicazione riguardano il solo territorio dell’isola di Lampedusa, dei porti di Licata e Mazara del Vallo e dell’isola di Pantelleria, si ritiene equo, in applicazione del criterio ex art. 1226 c.c., riconoscere una somma pari al 2% dell’offerta economica del RTI, per la quota riferibile a Seap Srl.
4.4 Viceversa,
va disattesa la pretesa al maggiore danno con riguardo al c.d. “danno esistenziale”, in quanto nella vicenda controversa non risulta essere stato leso il diritto all’immagine, al buon nome e all’onorabilità aziendale della ricorrente, e che si concretizza nella considerazione che un soggetto ha di sé e della reputazione di cui gode (Cons. Stato, Sez. V, 12/02/2008, n. 491), considerato che il provvedimento di esclusione, impugnato con il primo ricorso, è stato annullato dalle richiamate decisioni del giudice amministrativo, mentre la mancata realizzazione del servizio in questione non può concretare, in sé, un motivo di svalutazione o di detrazione dell’impresa nel mondo degli affari.
4.5 Venendo alla seconda voce di danno, non vi è dubbio che alla ricorrente vada riconosciuto integralmente l’utile conseguibile e non conseguito per effetto della mancata aggiudicazione dell’appalto in ragione dell’illegittima esclusione dalla gara.
E invero,
tutte le volte che si tratti di quantificare il lucro cessante da mancata esplicazione di un’attività d’impresa, pari al mancato utile ritraibile, vanno determinati, sulla base dell’offerta presentata dalla società, gli utili attesi dall’intera iniziativa per il periodo di riferimento, e però diminuiti dei redditi sotto qualunque forma conseguiti dalla società nel medesimo periodo, per l‘impiego alternativo dei mezzi propri necessari al progetto mancato; e tanto, in applicazione del criterio dell’aliunde perceptum, vale a dire dell’utile alternativo che l’impresa può avere acquisito svolgendo attività alternative rispetto a quella che avrebbe dovuto eseguire, ove avesse ottenuto il servizio in appalto (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; Tar Lazio, sez. III-ter, 23.07.2010, n. 28158).
Tuttavia, nel caso in esame rileva la dedotta impossibilità per il RTI di utilizzare “aliunde” le attrezzature e le maestranze deputate all'espletamento del servizio non aggiudicato, essendo evidente che, se l’ambito territoriale del servizio de qua afferente il solo territorio dell’isola di Lampedusa, dei porti di Licata e Mazara del Vallo e dell’isola di Pantelleria, è stato affidato ad un’impresa (il Consorzio Comap), lo stesso contratto non può, ovviamente, esser stato eseguito da altra impresa (Seap Srl), la quale si è pertanto trovata nell’impossibilità di utilizzare le relative risorse aziendali all’uopo predisposte, e tanto giustifica l'integrale riconoscimento del danno per mancato utile d'impresa, ragguagliato all'intero utile che allo stesso ricorrente sarebbe derivato dall'esecuzione dell'appalto in questione .
Quanto alla determinazione del danno da mancato utile, il Collegio ritiene che all'impresa danneggiata possa essere riconosciuto un risarcimento che si reputa equo determinare nel 10% del valore dell'appalto, per la quota riferibile a Seap, anche perché la ricorrente non ha dato dimostrazione del fatto che il margine di utile sarebbe stato maggiore di quello presunto (cfr. CGARS, 05.10.2010, n. 1236).
Né, al riguardo, vale indagare sulla possibilità di diverso utilizzo delle risorse umane e strumentali da parte della ricorrente in quanto il Collegio mostra di condividere quella giurisprudenza che reputa illogico ed ingiusto caricare sul danneggiato le conseguenze negative della mancata prova di un fatto estintivo o modificativo della pretesa, quale è la compensazione per aliunde perceptum (CGARS, 21.09.2010, n. 1226; Tar Lazio, sez. II-ter, 13.12.2011, n. 9729)
5.
Sugli importi complessivamente dovuti alla società a titolo di risarcimento del danno va calcolata la rivalutazione monetaria (trattandosi di un debito di valore) dalla data della maturazione del diritto (e cioè dalla data dell’aggiudicazione al Consorzio Comap) fino alla pubblicazione della presente sentenza.
Su tale somma sono, poi, dovuti gli interessi compensativi (conseguenti alla mancata disponibilità della somma in cui viene liquidato il debito di valore) da computarsi:
- sulla somma non rivalutata (sulla base del tasso degli interessi legali vigente al momento della maturazione del rateo del credito) per il periodo intercorrente fra l'aggiudicazione e la pubblicazione della presente sentenza;
- ed, invece, sull'importo rivalutato, per il periodo dalla pubblicazione della sentenza fino al saldo effettivo a favore della ricorrente.

VARI: Parere. Si è a piedi da tempo? Scuola guida.
Non basta la valutazione positiva del medico per tornare a guidare dopo tanti anni senza mani sul volante. Occorre anche rifare gli esami tecnici di scuola guida.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere 02.03.2016 n. 596.
Un automobilista incorso nei rigori della guida in stato di ebbrezza ha superato positivamente i controlli medici richiedendo un duplicato della patente scaduta di validità da qualche anno. Contro il conseguente diniego della motorizzazione, con imposizione dell'obbligo di sottoporsi nuovamente all'esame di scuola guida l'interessato ha proposto censure gerarchiche ma senza successo.
Come specificato in diverse circolari ministeriali il titolare di una patente di guida che non utilizza l'abilitazione per un periodo superiore a tre anni può essere legittimamente sottoposto a revisione tecnica della licenza di guida.
Si tratta di un provvedimento cautelare che si fonda sull'art. 128 del codice stradale (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).
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MASSIMA
Considerato:
- I provvedimenti di revisione della patente, finalizzati alla verifica della permanenza dei requisiti di idoneità psicofisica alla guida, sono adottati dall’Ufficio della motorizzazione sulla base del potere-dovere ad esso conferito dall’art. 128 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (codice della strada), che discende dal compito istituzionale dell’Amministrazione di tutela della sicurezza della circolazione stradale e di prevenzione degl’incidenti.
Nel caso di specie l’Ufficio della motorizzazione ha ritenuto necessario richiedere l’accertamento dell’idoneità tecnica alla guida del ricorrente; il ricorso gerarchico proposto dal ricorrente avverso tale provvedimento è stato respinto e tale reiezione costituisce l’oggetto del ricorso straordinario.
- La Sezione preliminarmente osserva che
la revisione disposta dagli Uffici della motorizzazione non ha finalità sanzionatoria, ma soltanto cautelare, e può fondarsi su qualunque circostanza ritenuta tale da ingenerare nell’autorità competente, sulla base di una valutazione discrezionale, dubbi sull’idoneità alla guida del soggetto in esame.
- Ciò premesso, la Sezione ritiene infondate le censure proposte; ciò in considerazione della natura cautelare del provvedimento adottato in relazione all’interesse pubblico della sicurezza della circolazione stradale, risultando attendibile la valutazione dei comportamenti tenuti dal ricorrente svolta dal competente ufficio dell’Amministrazione.
Tale valutazione è stata fondata sul lungo lasso di tempo trascorso dal momento di scadenza di validità della patente (indipendentemente dall’allegazione del ricorrente secondo la quale egli avrebbe continuato a svolgere attività di guida) e sui provvedimenti prefettizi di sospensione della patente adottati fra il 1999 e il 2007, ai quali fa riferimento la decisione sul ricorso gerarchico, adottata in data 24.03.2015, che è stata impugnata con il ricorso in epigrafe.
Tali comportamenti costituiscono presupposti ragionevolmente sufficienti a determinare la misura precauzionale della verifica della permanenza dei requisiti di idoneità alla guida mediante nuovo esame.

- Le censure proposte, pertanto, sono infondate e, conseguentemente, il ricorso in esame deve essere respinto. Resta assorbita la domanda di sospensiva.

EDILIZIA PRIVATA: Non assimilabili tipologie eterogenee. Oneri di urbanizzazione ai raggi X.
Laddove il comune introduca nell'ambito della zonizzazione destinazioni particolari, come quella a impianti sportivi, deve tenere conto della relativa tipologia ai fini della determinazione dei parametri per la quantificazione degli oneri di urbanizzazione, non potendo procedere ad assimilare tipologie edilizie del tutto eterogenee.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del TAR Toscana con la sentenza 29.02.2016 n. 372.
I giudici amministrativi fiorentini erano chiamati ad esprimersi circa l'annullamento del provvedimento di un comune nella parte in cui con riferimento a una istanza di sanatoria edilizia presentata da una srl, richiedeva il «versamento dell'oblazione di cui [ai sensi di legge]» e il «versamento degli oneri di cui agli artt. 119-121 della Lrt 1/2005 (...)»; nonché di ogni altro atto amministrativo, presupposto, inerente, conseguente e/o comunque connesso, ove lesivo; nonché, per l'annullamento del permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal comune nella parte in cui determinava l'oblazione e gli oneri di urbanizzazione dovuti dalla Srl; nonché, per l'annullamento, ove lesiva, della delibera del consiglio comunale recante approvazione nuovo regolamento per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, e dunque per l'accertamento della minore somma dovuta dalla ricorrente in ordine all'istanza di sanatoria de qua e, conseguentemente, per l'accertamento del diritto della ricorrente ad ottenere il rimborso della maggiore somma indebitamente corrisposta dalla medesima, oltre interessi.
Secondo i giudici toscani, quanto alla contestazione della somma richiesta a titolo di oblazione per le opere oggetto di sanatoria questa abbia rilevanza penale. Trattasi, infatti, di strutture che, in quanto destinate a soddisfare bisogni non meramente provvisori e transeunti, non possono ritenersi precarie (Consiglio di stato, sez. VI, 01/12/2014, n. 5934). E che, inoltre, nemmeno possono considerarsi come opere accessorie rispetto ad un bene principale in quanto si tratta di elementi che nel loro insieme concorrono a costituire (ciascuno per la propria funzione) il complesso sportivo.
Nella sentenza in commento si sottolineava inoltre, come, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del dpr 380 del 2001, l'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita dal consiglio comunale in relazione, fra l'altro, alle destinazioni di zona previste dagli strumenti urbanistici vigenti.
Pertanto, poiché circa la contestazione relativa alle somme richieste a titolo di contributo di urbanizzazione, che la destinazione ad impianti sportivi, ai giudici amministrativi non appariva in alcun modo assimilabile a quella turistico ricettiva ai fini della determinazione degli oneri, essendo diverso il carico urbanistico indotto dalle due tipologie di uso del territorio (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Il sottoscala abusivo in zona vincolata blocca la sanatoria. Tar Liguria.
Perfino un sottoscala abusivo può bloccare la concessione del permesso di costruire in sanatoria se l'immobile si trova in zona vincolata. Anche le aree interrate, infatti, possono influire negativamente sui valori paesaggistici tutelati dalla Soprintendenza.
Ma i locali che costituiscono mere pertinenze dei vani abitabili non hanno un vero impatto sul territorio e dunque se il comune nega il titolo abilitativo al proprietario dell'immobile deve motivare in modo adeguato la sua decisione, altrimenti il provvedimento è annullato.

Così la sentenza 11.02.2016 n. 140 del TAR Liguria, Sez. I.
Nel mirino degli uffici finiscono due vani interrati: c'è anche un locale deposito accanto al sottoscala. Non c'è dubbio che anche i volumi sotto il piano di campagna possano risultare in contrasto con le norme dettate a tutela del paesaggio, che puntano a impedire l'alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture edilizie.
Il punto è invece stabilire se i locali costituiscono o meno semplici volumi tecnici: bisogna dunque accertare se i vani «incriminati» sono dotati di un certo grado di autonomia o invece sono del tutto accessori alle zone abitabili dell'immobile. E ciò perché nel secondo caso la rilevanza paesaggistica deve escludersi: le opere abusive realizzate dal proprietario, nelle specie, non incidono sul carico urbanistico e sono prive di impatto visivo (articolo ItaliaOggi del 09.04.2016).
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MASSIMA
4) Le censure dedotte con il secondo motivo di ricorso sono intese a rimarcare sia i caratteri sostanziali delle opere abusive (tali da renderle, ad avviso della ricorrente, suscettibili di regolarizzazione sotto il profilo paesaggistico ed edilizio) sia, sotto profili diversi da quelli esaminati in precedenza, le pretese carenze motivazionali del provvedimento impugnato.
Sostiene la ricorrente, infatti, che le opere realizzate nel compendio di proprietà, non compromettendo alcun valore paesaggistico, sarebbero qualificabili alla stregua di “abusi minori” che, in quanto tali, possono essere regolarizzati ai sensi dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004.
Essa lamenta che, in ogni caso, l’amministrazione ha omesso di valutare l’effettiva incidenza di tali opere sui valori paesaggistici tutelati.
4.1) Per quanto riguarda i locali interrati costruiti al di sotto del fabbricato principale, occorre preliminarmente rammentare che,
secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, anche i volumi sotterranei sono considerati rilevanti dal punto di vista paesaggistico e, pertanto, possono essere in contrasto con le previsioni intese ad impedire l’alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 02.09.2013, n. 4348).
Altra giurisprudenza ha precisato, però, che la rilevanza paesaggistica di un volume interrato non sussiste qualora esso, per le sue caratteristiche, possa essere qualificato come mero volume tecnico (cfr., fra le ultime, TAR Umbria, sez. I, 26.04.2014, n. 356).
Proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, infatti, tali volumi sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Ciò premesso, gli elementi in atti non consentono di stabilire con certezza se i locali interrati in questione possiedano effettivamente le caratteristiche proprie dei “volumi tecnici”, intesi quali opere prive di autonomia e aventi funzione meramente accessoria-pertinenziale rispetto ai volumi abitabili.
La questione, peraltro, non è stata approfondita dall’amministrazione che, stante l’incompletezza degli elementi riferiti nell’istanza di sanatoria, avrebbe dovuto svolgere più approfonditi accertamenti in ordine alla funzione e alla natura dei locali in questione.
Tanto più che le volumetrie sotterranee abusivamente realizzate dalla ricorrente, pur esistenti nella realtà fisica, non incidono sul carico urbanistico e sono prive di impatto visivo nonché della capacità di incidere significativamente sull’assetto del territorio.
Anche sotto questo profilo, pertanto, la motivazione dell’atto non è idonea ad esplicitare adeguatamente le ragioni del diniego.
4.2)
Rimane da vagliare la legittimità del diniego di sanatoria nella parte relativa al forno, avente dimensioni di metri 2,00 x 2,40 e altezza di metri 1,80.
Si tratta di un’opera di ridotto ingombro, non idonea a determinare nuove superfici utili o nuovi volumi, nonché priva di autonoma rilevanza urbanistica, poiché è funzionale all'abitazione principale cui accede ed insiste su una superficie già integralmente pavimentata.
Deve ritenersi, in conseguenza, che la stessa non risulti pregiudizievole per il territorio né idonea ad introdurre un impatto paesaggistico eccedente la costruzione principale
(cfr., in analoga fattispecie, TAR Puglia, Bari, sez. I, 25.09.2014, n. 1124).
Il manufatto in questione, pertanto, appare riconducibile alla categoria degli “abusi minori” che, pur essendo stati realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, sono suscettibili di regolarizzazione.
5) In conclusione, il provvedimento impugnato è inficiato sotto il profilo del difetto di motivazione nelle parti in cui respinge l’istanza di sanatoria avente per oggetto l’intervento sul box, la costruzione dei due locali interrati e le opere di sistemazione delle aree esterne; il diniego di sanatoria del forno, invece, è illegittimo per violazione dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004.

EDILIZIA PRIVATA: Cani, il box non si sana.
Niente sanatoria per il box dei cani sorto a ridosso del confine con la villetta del vicino. E ciò perché è la stessa natura del titolo edilizio concesso ex articolo 36 del testo unico a escludere che il rilascio possa essere subordinato alla realizzazione di altre opere edilizie: l'accertamento di conformità, infatti, presuppone che il manufatto sia già diventato conforme alla disciplina urbanistica con i lavori realizzati nelle more.

È quanto emerge dalla sentenza 09.02.2016 n. 163, pubblicata dalla I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Condizioni igieniche
Accolto il ricorso del confinante che blocca il ricovero per animali domestici «condonato» dal vicino. È lo stesso Comune a riconoscere che le distanze legali previste dal codice civile siano state fatte proprie dal piano regolatore generale dell'ente locale.
Il proprietario del box ammette di aver costruito a meno di mezzo metro dal confine e s'impegna a far arretrare il manufatto nella domanda del titolo edilizio necessario a mettersi in regola. Ma ormai è troppo tardi: una volta emersa l'irregolarità, l'amministrazione non poteva non tenerne conto in sede di sanatoria.
Il Comune, poi, non accerta se il box è adeguato dal punta di vista delle condizioni igienico-sanitarie, visto che deve ospitare animali domestici. E non risulta acquisito dal proprietario il necessario studio di inserimento ambientale: è ragionevole ritenere che il latrato dei cani possa disturbare i vicini. Che infatti bloccano il progetto e si fanno pagare le spese di giudizio dal Comune (articolo ItaliaOggi del 06.04.2016).
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MASSIMA
Osserva il Collegio come una prima questione si incentri sulla compatibilità dell’intervento edilizio con le prescrizioni di cui all’art. 28 delle n.t.a. del piano regolatore comunale.
La «relazione tecnica» allegata all’istanza di sanatoria aveva evidenziato che “…L’aspetto urbanistico della presente sanatoria è caratterizzato dalla possibilità di sanare il box per cani utilizzando la quota di edifìcabiltà “una tantum” prevista nelle “zone residenziali edificate B1” in cui, come nella fattispecie, la superficie costruita alla data di adozione dello strumento urbanistico vigente era maggiore dell’edificabilità ammessa dall’indice di utilizzazione fondiaria …” e che “…Tale possibilità oltre che per gli ampliamenti della superficie utile abitabile è ammessa anche per la creazione di servizi alle unità immobiliari esistenti. Nella fattispecie si ritiene che il box per il ricovero e la detenzione dei cani di proprietà del sig. Ca.It. sia una superficie di vero e proprio servizio …”, indicazioni poi fatte proprie dal titolo edilizio impugnato (“…Accertata la conformità urbanistica di cui all’art. 28 delle NTA, che ammette la creazione di opere pertinenziali, che concede, per tutti i fabbricati esistenti alla data dell’adozione del PRG vigente, un incremento di superficie utile per il miglioramento dell’abitabilità e per la creazione di servizi delle singole unità immobiliari. Verificato che dal conteggio presentato dal tecnico risulta un incremento di superficie spettante di diritto sull’intero fabbricato pari al 15% […] il manufatto risulta essere stato realizzato in aderenza ad un fabbricato già esistente ed autorizzato da regolare Concessione Edilizia …”).
Le ricorrenti, tuttavia, assumono non ammissibile l’opera in questione perché fonte di rumore ed esalazioni maleodoranti, produttiva di incremento di «superficie non residenziale» anziché di «superficie utile», localizzata in aderenza ad un fabbricato accessorio e non al fabbricato principale, assentita senza il prescritto studio di inserimento ambientale e indebitamente giustificata dall’addotta esigenza di assicurare un idoneo ricovero agli animali domestici del proprietario.
La questione è fondata nei limiti che si indicheranno.
L’art. 28 delle n.t.a. del piano regolatore comunale disciplina le «zone residenziali edificate (B1)» e prevede al loro interno le «sottozone B1», stabilendo che vi sono ammessi “…tutti gli usi esistenti, compatibilmente con le prescrizioni del Piano Comunale per il Commercio, a condizione che quelli non residenziali non presentino inconvenienti tali da contrastare con il carattere dell’edificio o degli edifici circostanti o da impedire il normale svolgimento delle funzioni abitative (ad esempio: fonti di rumore, esalazioni nocive o maleodoranti ...) come previsto per le zone A …”, con la possibilità di un “…ampliamento “una tantum”, da realizzare in aderenza al fabbricato esistente, per il quale è richiesto uno studio di inserimento ambientale, da estendere alla strada, alla piazza o comunque alla zona in cui è localizzato l’edificio (per un raggio di 50 m. almeno), che dimostri la sua compatibilità ambientale. L’incremento una tantum è previsto per il miglioramento dell’abitabilità delle singole unità immobiliari o per la creazione di servizi nella misura di: 20% per unità immobiliari fino ad 80 mq di Su …”.
Orbene, la circostanza che venga espressamente consentita la “creazione di servizi” rende evidente che l’ampliamento una tantum non è inderogabilmente circoscritto alla «superficie utile» ma può riguardare anche la «superficie non residenziale», benché il parametro di incremento venga commisurato, nella sua misura massima, alle dimensioni della parte abitabile; correttamente, dunque, si è ritenuta realizzabile la struttura destinata al ricovero di animali domestici.
Né il vincolo della costruzione in “aderenza al fabbricato esistente” può intendersi nella fattispecie violato, giacché la ratio di evitare la disordinata collocazione sul territorio di nuovi manufatti viene salvaguardata dallo stretto contatto di dette opere con strutture preesistenti, quantunque connotate da funzione accessoria (in questo caso si tratta di autorimesse).
Illegittimamente, invece, si è concessa la sanatoria nonostante l’istanza del sig. Ca. si fosse limitata a dichiarare soddisfatte le necessarie esigenze sanitarie, ambientali e di benessere, omettendo la produzione del prescritto “studio di inserimento ambientale, da estendere alla strada, alla piazza o comunque alla zona in cui è localizzato l’edificio”, indagine che avrebbe anche consentito di verificare la concreta adozione delle misure utili a garantire l’insussistenza di condizioni incompatibili con l’ordinario svolgimento delle funzioni abitative, in relazione –come prevede l’art. 28 n.t.a.– a possibili fonti di rumore o di esalazioni maleodoranti; sotto questo profilo, relativo ad una carenza di carattere istruttorio, si presenta di conseguenza fondata la censura delle ricorrenti, le quali imputano all’Amministrazione comunale di avere acriticamente condiviso le generiche conclusioni del sig. Ca., nonostante la disciplina urbanistica imponesse in parte qua un accertamento puntuale e determinasse anche la sfera territoriale (non meno di 50 metri) interessata dalla verifica.
Né una deroga a detta prescrizione poteva naturalmente derivare dalla normativa a tutela del benessere animale (legge reg. n. 5/2005), in sé inidonea ad esonerare dall’osservanza delle regole che attengono al governo del territorio.
E’ fondata anche la censura con cui le ricorrenti adducono che la sanatoria avrebbe dovuto essere negata a fronte dell’ammissione del privato di avere edificato in violazione del limite di distanza legale dal confine di proprietà e del dichiarato impegno a rimediare a tale irregolarità (dalla «relazione tecnica» risulta che “…Il box in oggetto è realizzato a circa 34 cm. dalla recinzione che definisce il confine catastale di proprietà; non avendo l’autorizzazione della proprietà confinante per costruire a tale distanza si prevede di arretrare la copertura del manufatto fino a mt. 1,50 da detta recinzione (vedi elaborato grafico). In tal modo si ritiene soddisfatta e rispettata la distanza minima dal confine del nuovo manufatto da sanare imposta dal Codice Civile (Art. 873) …”).
Per costante giurisprudenza, invero,
non è ammissibile il rilascio di un titolo abilitativo in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 che venga subordinato alla esecuzione di opere edilizie, anche se gli ulteriori interventi sono finalizzati a ricondurre l’immobile abusivo nell’alveo della compatibilità con gli strumenti urbanistici, giacché ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conciliabilità con la disciplina urbanistica (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 04.06.2014 n. 3066); del resto, la stessa Amministrazione comunale ha riconosciuto come le distanze legali previste dal codice civile siano state fatte proprie dal piano regolatore locale (v. nota prot. n. 16186 del 21.12.2009), sì che –una volta emersa l’irregolarità– non se ne poteva sicuramente prescindere in sede di rilascio del titolo edilizio in sanatoria.
Né induce a diverse conclusioni l’obiezione secondo cui il precedente proprietario dell’area delle ricorrenti avrebbe a suo tempo acconsentito (nel 1979) a che il confinante edificasse in deroga alle distanze legali, in quanto –a tacer d’altro– quella autorizzazione privata si riferiva unicamente a garages, non a ricoveri per animali domestici.
Quanto, poi, al denunciato silenzio degli atti progettuali allegati all’istanza di sanatoria circa le necessarie misure di tutela igienico-sanitaria –in relazione anche al disposto dell’art. 34 del Regolamento comunale di Polizia urbana e rurale (“…I proprietari di cani e di altri animali o coloro che li abbiano ricevuti in custodia sono responsabili degli insudiciamenti cagionati … Gli stessi devono, inoltre, garantire le condizioni igienico-sanitarie del luogo in cui vivono gli animali e di chi vive nelle vicinanze …”)–, il Collegio rileva in effetti la genericità delle indicazioni in tal senso contenute nella «relazione tecnica» del 15.09.2009.
Oltre all’affermazione secondo cui “…Le acque della copertura sono raccolte da una lattoneria in lamiera d’acciaio e canalizzate verso la fognatura bianca esistente …”, nulla viene specificato circa le modalità di smaltimento delle deiezioni degli animali e delle sostanze liquide legate alla pulizia; profili, questi, che non possono essere rimessi unicamente ad una verifica da effettuare nell’uso quotidiano della struttura di ricovero e alla responsabilità che grava sul proprietario dei cani, ma che necessariamente assumono rilievo in sede di rilascio del titolo edilizio relativo al manufatto a tale funzione destinato.
Né, d’altra parte, l’Amministrazione risulta avere operato in sede istruttoria per accertare l’adeguatezza delle misure eventualmente predisposte dal privato.
Non persuade, invece, la doglianza imperniata sul divieto di cui all’art. 37 del Regolamento comunale di Polizia urbana e rurale (“Nel centro abitato è vietato costruire ricoveri per animali quali pollai, stalle, canili, porcili e simili. E’ altresì vietato l’allevamento di animali da stalla e da cortile”).
Si tratta di prescrizione necessariamente riferita ad allevamenti e ricoveri relativi all’esercizio di attività di impresa, non ai box che, senza fini di lucro e per le sole finalità del proprietario, ospitino animali domestici o di compagnia, tanto più che le disposizioni contenute negli artt. 36 e 36-bis recano norme in materia di custodia dei cani che sottintendono la loro presenza in luoghi di residenza non isolati.
Circa, infine, la lamentata incoerenza dell’azione amministrativa del Comune di Vergato, che dopo l’ingiunzione di demolizione del precedente manufatto avrebbe omesso di sanzionare il nuovo abuso del sig. Ca. e avrebbe ingiustificatamente tollerato la presenza del manufatto sine titulo fino alla presentazione della relativa istanza di sanatoria,
il Collegio osserva come il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione non vizi ex se il successivo permesso di costruire in sanatoria, il cui presupposto è costituito unicamente dalla conformità dell’intervento alla disciplina urbanistico-edilizia (oltre al versamento di contributi vari). Il tardivo agire dell’ente locale, insomma, non incide sulla legittimità di un atto il cui rilascio non è soggetto a scadenza, neppure quando si sarebbe potuto da tempo ingiungere al proprietario la demolizione delle opere edilizie eseguite in assenza di titolo abilitativo.
In conclusione, il ricorso va accolto per la mancata acquisizione del prescritto “studio di inserimento ambientale”, per la violazione della distanza legale ex art. 873 cod. civ. (fatta propria dal piano regolatore comunale) e per l’omesso accertamento dell’adeguatezza del manufatto quanto alle condizioni igienico-sanitarie da assicurare per una simile destinazione d’uso. Dal che l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria n. 445/A - prot. n. 16010 del 17.12.2009.

PATRIMONIO: Tar Brescia. Strade strette, no ai camion.
Il comune può vietare la circolazione ai camion nelle strade troppo strette. E se aumenta il traffico e il disagio nella viabilità alternativa pazienza. Almeno fino alla realizzazione di nuove infrastrutture.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con l'ordinanza 02.02.2016 n. 111.
Un comune lombardo ha interdetto il traffico ai mezzi pesanti su una strada troppo stretta, incrementando la circolazione dei camion sulle strade vicine.
Contro questa decisione gli abitanti interessati dall'aumento dello smog hanno proposto ricorso al Tar evidenziando una serie di carenze tecniche delle loro strade.
Ma senza successo. Il collegio ha infatti incaricato la provincia di verificare le scelte comunali e i tecnici hanno confermato la logicità delle scelte. Anche se la decisione di indirizzare il traffico pesante su strade non completamente adeguate sembra censurabile, spiegano i giudici, è certamente una scelta opportuna vietare completamente il traffico pesante in una via dove due camion non potrebbero transitare per ragioni dimensionali (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).
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MASSIMA
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bagnolo Mella con ordinanza del comandante della Polizia Locale n. 73 del 29.09.2014, che segue analoghi provvedimenti, ha modificato in via sperimentale e provvisoria la viabilità di via Urne di Sopra e via Porzano, prevedendo in particolare il transito su tali strade dei mezzi pesanti fino alla realizzazione della bretella viaria tra la SP45-bis e la SP7.
2. I ricorrenti, che abitano nella zona interessata dalle nuove disposizioni, contestano la decisione del Comune, evidenziando che:
   (a) la condizione delle strade sopra indicate non sarebbe idonea a consentire il traffico dei mezzi pesanti, non essendo stati realizzati gli interventi suggeriti in uno studio della Provincia del dicembre 2013;
   (b) in realtà, la nuova soluzione viabilistica è destinata a rimanere in vigore per un lungo periodo, e dunque la rappresentazione dei fatti sarebbe fuorviante;
   (c) non sarebbero rispettate le indicazioni del PGT sulla viabilità nelle aree residenziali, né le norme tecniche sulla costruzione delle strade.
3. Un nuovo intervento sulla viabilità è stato poi disposto dal sindaco mediante ordinanza n. 45 del 25.05.2015. Le disposizioni di questo provvedimento assorbono anche quelle dell’ordinanza n. 73/2014, e confermano, in via definitiva, l’interdizione di via Gramsci ai mezzi pesanti e la deviazione di questi ultimi verso le strade di interesse dei ricorrenti.
4. Questo TAR con ordinanza n. 502 del 10.04.2015 ha disposto una verificazione a carico del responsabile dell’Area Tecnica della Provincia di Brescia, con facoltà di delega, per chiarire la compatibilità delle soluzioni viabilistiche descritte nell’ordinanza n. 73/2014 con le indicazioni contenute nello studio provinciale del dicembre 2013.
5. Successivamente, con ordinanza n. 1822 del 05.10.2015, questo TAR ha reiterato l’istruttoria, chiedendo di specificare:
   (a) se mezzi pesanti possano attualmente transitare in condizioni di sicurezza sulle strade indicate negli atti impugnati;
   (b) quali interventi di adeguamento siano necessari per migliorare il livello di sicurezza, anche con riferimento alle indicazioni contenute nello studio del dicembre 2013;
   (c) se vi siano soluzioni alternative praticabili con minori rischi e disagi;
   (d) se il ritorno dei mezzi pesanti su via Gramsci comporti un peggioramento delle condizioni di sicurezza.
6.
Dalla relazione, sottoscritta dall’arch. Lu.Za. e dal geom. Gi.Ba.Fr., funzionari tecnici della Provincia, e depositata il 24.12.2015, emergono in particolare le seguenti valutazioni e indicazioni:
   (a) il transito con mezzi pesanti sulle strade indicate negli atti impugnati può svolgersi in sicurezza, ma a condizione che siano risolte alcune criticità, puntualmente descritte nella relazione;
   (b) un paragrafo della relazione è dedicato ai suggerimenti per migliorare il livello di sicurezza sulle predette strade;
   (c) non è stato possibile valutare con precisione la praticabilità di percorsi alternativi, con deviazione del traffico verso direttrici esterne all’abitato, in particolare per quanto riguarda la misura dei rischi e dei disagi;
   (d) la carreggiata di via Gramsci presenta un restringimento, con annullamento delle banchine. Nel caso di transito contemporaneo di due mezzi pesanti in direzioni opposte si determina un rallentamento del traffico, che penalizza la funzionalità della strada ma non la sicurezza. Vi è però il rischio che i mezzi pesanti, anziché rallentare, preferiscano sormontare il marciapiede, creando una situazione di pericolosità grave.

7. Sulla base di questi elementi,
la decisione del Comune di indirizzare il traffico pesante su via Urne di Sopra e via Porzano, fino alla realizzazione della bretella viaria tra la SP45-bis e la SP7, non appare censurabile, in quanto la presenza di questo tipo di traffico in via Gramsci potrebbe esporre gli utenti della strada a rischi maggiori.
8. È peraltro evidente che la nuova organizzazione della viabilità richiede tempestivi interventi di sistemazione dei percorsi su cui è stato deviato il traffico pesante. L’aspettativa dei ricorrenti alla sicurezza della viabilità nei pressi delle rispettive abitazioni, se non può essere tutelata con la sospensione dei provvedimenti impugnati, è invece fondata e meritevole di attenzione per quanto riguarda gli interventi di sistemazione e messa in sicurezza suggeriti nella relazione della Provincia.

INCARICHI PROFESSIONALIL’incarico professionale va provato. Il professionista che chiede il pagamento dei compensi per la propria prestazione deve provare che gli è stato conferito l’incarico.
Contratti. Niente compenso per la prestazione se l’architetto non è in grado di dimostrare il conferimento del lavoro anche se la commissione è stata eseguita.

Lo ribadisce la Corte d’appello di Lecce, Sez. distaccata di Taranto (presidente Alessandrino, relatore Cosenza), con la sentenza 01.02.2016.
Con decreto del 2001 il giudice aveva ingiunto a una Srl di pagare 74 milioni di lire a un architetto; la somma era stata richiesta quale compenso per l’opera che il professionista affermava di aver svolto su commissione della società.
Il Tribunale aveva poi revocato il provvedimento monitorio, accogliendo l’opposizione che la Srl aveva presentato in base all’articolo 645 del Codice di procedura civile. Contro la sentenza di primo grado il professionista ha quindi proposto appello, contestando la valutazione delle prove effettuata dal Tribunale.
Nel respingere l’impugnazione, la Corte osserva, innanzitutto, che «manca la prova scritta della commissione» e non risultano anticipazioni di «spese e/o acconti sul compenso ex articolo 2234 del Codice civile». Tant’è che l’ordine professionale, nel rilasciare il proprio parere di congruità sui compensi richiesti, aveva tenuto conto solo della relazione presentata dall’architetto, precisando che non era stata esibita alcuna lettera d’incarico. Ciò impone -prosegue il giudice d’appello- di «valutare rigorosamente la prova orale espletata» in primo grado.
Secondo la Corte, le testimonianze assunte dal Tribunale dimostrano che l’architetto aveva senz’altro svolto le «attività di cui invoca il compenso»; tuttavia, tali prove non consentono di ritenere che la Srl «sia stata la committente dell’opera» di cui il professionista ha chiesto il pagamento. La Corte conferma quindi la sentenza del Tribunale e condanna l’appellante al pagamento delle spese del grado, che liquida in tremila euro.
La decisione è conforme alla giurisprudenza della Corte suprema. Secondo il giudice di legittimità, il professionista che chiede il pagamento della propria prestazione d’opera deve dimostrare -si legge nella sentenza 1244 del 2000- «l’avvenuto conferimento del relativo incarico, in qualsiasi forma idonea a manifestare, chiaramente e inequivocamente, la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera» da parte del cliente. Infatti, l’obbligo di eseguire una prestazione d’opera professionale intellettuale scaturisce da un contratto (articolo 2230 del Codice civile), che presuppone uno scambio di consensi tra committente e professionista.
Il che -conclude la Cassazione- «costituisce, prima ancora che un principio regolatore dei contratti di prestazione d’opera intellettuale, un principio regolatore dell’intera materia contrattuale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: No alla doppia pubblicità per il medesimo impianto.
Non si possono autorizzare due insegne di esercizio per lo stesso complesso produttivo. Specialmente se la seconda installazione viene realizzata sul retro dello stabile in perfetta aderenza al traffico autostradale, con evidenti finalità commerciali.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 09.12.2015 n. 1315.
Il titolare di una impresa ha richiesto all'Anas nulla osta alla collocazione di una insegna di esercizio anche nel retro dello stabile, nella parte che si affaccia sul tratto autostradale. Contro il conseguente diniego l'interessato ha proposto ricorso al Tar ma senza successo.
A parere dell'Anas il posizionamento di una seconda insegna di esercizio, oltre a quella affissa in prossimità dell'ingresso allo stabile, denota un evidente interesse pubblicitario del richiedente, specificamente vietato dall'art. 23 del codice stradale.
Anche se nessuna disposizione limita numericamente le insegne di esercizio, prosegue la sentenza, è evidente che il manufatto per poter essere qualificato come tale, impone che sia strettamente attiguo all'esercizio cui si riferisce e che la stessa insegna sia, nel contempo, «funzionale e diretta a identificare l'ubicazione della sede della stessa impresa».
In pratica quindi siccome una insegna di esercizio visibile dall'autostrada è consentita solo ove non presenti alcun contenuto pubblicitario, se l'ingresso non è rivolto al fronte autostradale meglio desistere con le richieste di autorizzazione (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sul punto è dirimente constatare che
l'art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma di pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade, o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione.
1.2 Va, altresì, rilevato come
l'articolo 47, primo comma, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada) qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
1.3 Ne consegue che
sebbene nessuna delle disposizioni sopra riportate preveda che l’insegna di un esercizio commerciale debba essere unica, è parimenti evidente che quest’ultima, per poter essere qualificata come tale, impone che sia strettamente contigua all’esercizio commerciale cui inerisce e sia, nel contempo, funzionale e diretta a identificare l’ubicazione della sede della stessa impresa.
1.4 Anche recenti pronunce (Cons. Stato Sez. IV, 25.11.2013, n. 5586) hanno avuto modo di precisare che
la nozione di insegna di esercizio deve essere intesa in senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall'art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito (Cons. Stato Sez. IV, 27.04.2012, n. 2480) che
un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è consentita solo ove non presenti alcun contenuto riconducibile a finalità pubblicitarie.
1.5 E’ allora evidente che
verificare se una determinata insegna integri il divieto di pubblicità di cui all’art. 23 sopra citato impone un esame in concreto sulle caratteristiche della singola insegna e, ciò, al fine di individuare quale sia la funzione che si intenda perseguire con l’installazione del singolo manufatto e, quindi, se quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un intento meramente pubblicitario.
1.6 Nel caso di specie è dirimente constatare come sia stata la stessa parte ricorrente a rilevare che l’insegna in questione è collocata sulla facciata dell'esercizio, rivolta verso la strada, senza che sulla stessa facciata sia presente un’entrata dell’esercizio.
1.7 E’ allora evidente che, seppur l’insegna in questione abbia le caratteristiche proprie di un’insegna di esercizio, ai sensi dell’art. 47 del DPR 16.12.1992 n. 495, la sua installazione è stata posta in essere per realizzare un intento pubblicitario, diretto nei confronti degli utilizzatori della strada prospiciente.
Dette conclusioni sono confermate dal fatto che l’insegna in questione, non solo duplica l’insegna di esercizio già esistente, ma in quanto posizionata su un lato in cui non vi è l’entrata dell’impresa, non aggiunge alcuna informazione ulteriore circa l’identificazione della stessa impresa che, in quanto tale, è già resa dall'altra insegna d'esercizio.
1.8 Ne consegue che risulta integrato il divieto di installazione di strumenti pubblicitari in prossimità delle strade, circostanza che consente di ritenere infondate le argomentazioni di parte ricorrente.
In definitiva il ricorso è, pertanto, infondato e va respinto.

TRIBUTI: Pertinenziali anche i terreni non «graffati» al catasto. Un terreno posto a servizio di un edificio è pertinenza anche se non è “graffato” al catasto.
Agevolazioni. La Ctr Lombardia ribadisce: contano destinazione del terreno e volontà del titolare.
Lo stabilito la Ctr Lombardia-Milano con la sentenza 05.01.2016 n. 14/19/2016 (presidente Craveia, relatore Monfredi).
Un notaio aveva rogato un atto di vendita di un terreno dagli acquirenti qualificato come pertinenza di un edificio che avevano in precedenza acquistato e per il quale avevano ottenuto le agevolazioni fiscali “prima casa”. In base a tale dichiarazione avevano versato l’imposta di registro al 3% e le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa.
L’ufficio aveva però ritenuto che l’acquisto del terreno non potesse beneficiare di quelle agevolazioni, perché esso non era censito al catasto urbano unitamente al bene principale: non era cioè “graffato” al fabbricato abitativo, ma censito autonomamente. Per questo era stato emesso avviso di liquidazione, per il recupero delle maggiori imposte dovute.
Il notaio rogante aveva allora proposto ricorso e la Ctp aveva annullato l’atto.
Ma l’ufficio aveva proposto appello chiedendo alla Ctr Lombardia di ritenere legittimo l’avviso di liquidazione che si basava sul dato oggettivo e documentale della mancata “graffatura” dell’immobile qualificato pertinenza.
Secondo l’Agenzia, contrariamente a quanto vale per i beni classificati C/2, C/6 e C/7, con riferimento ai terreni, le circolari dell’amministrazione finanziaria (del 12.08.2005 e del 29.05.2013) prevedono che il proprietario deve formalizzare catastalmente la sua scelta di destinare funzionalmente e durevolmente il bene a servizio di altro principale. Se non lo fa dimostra la sua volontà di non destinare il terreno a servizio del fabbricato.
Anche i giudici di secondo grado hanno tuttavia disatteso le tesi dell’ufficio, affermando che le circolari non possono derogare alla legge.
Secondo la Ctr, infatti, la normativa in materia di imposta di registro non prevede alcuna limitazione tassativa rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale di un fabbricato ai fini fiscali. Contiene invece solo un’elencazione esemplificativa e indica due requisiti necessari, uno oggettivo e uno soggettivo: la destinazione durevole al servizio o ad ornamento del bene principale; e la volontà del titolare del diritto reale sulla cosa principale di effettuare tale destinazione.
La “graffatura” rappresenta di certo manifestazione non equivoca di questa volontà. Ma non può al contrario sostenersi che la mancata “graffatura” escluda automaticamente e insuperabilmente tale volontà, perché una tale interpretazione non sarebbe conforme alla normativa primaria e non è previsto dal codice civile alcun obbligo di formalizzare la scelta in sede catastale.
Nel caso al loro esame, inoltre, i giudici rilevavano che le caratteristiche dimensionali del terreno erano in tutto compatibili ed in linea con i limiti fissati dall’articolo 5 del Dm 02.08.1962 perché un’area scoperta potesse considerarsi pertinenza di un’abitazione non di lusso. L’annullamento dell’avviso di liquidazione è stato dunque confermato con condanna dell’Agenzia al pagamento delle spese
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.04.2016).

VARI: Nella targa. È un falso cambiare una lettera.
Chi modifica una lettera della targa con del nastro adesivo nero incorre nel reato di falsificazione del supporto. Anche se la nuova lettera è visibilmente alterata infatti non si tratta di un falso innocuo perché lo stesso è in grado di impedire una immediata identificazione del veicolo.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 01.10.2015 n. 39804.
Un autista emiliano ha pensato di immettersi in autostrada camuffando con del nastro adesivo una lettera C in una O. Denunciato dalla polizia stradale è stato quindi condannato per falsificazione della targa da parte del tribunale di Bologna, con conferma della decisione in sede d'appello.
A parere della Cassazione questa condanna è corretta perché alterare una targa non rappresenta un falso innocuo.
Al contrario questo comportamento impedisce l'immediata identificazione del veicolo a chiunque possa essere interessato ad annotare l'iscrizione posteriore del mezzo a motore. In buona sostanza la falsificazione è conclamata anche se il metodo di alterazione è molto rudimentale (articolo ItaliaOggi Sette del 04.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: VALUTAZIONE POSTUMA DELLA COMPATIBILITÀ PAESAGGISTICA DEGLI INTERVENTI EDILIZI MINORI E SUA RILEVANZA IN SEDE PENALE.
L’art. unico, comma 36, L. n. 308 del 2004 (con previsioni trasfuse nell’art. 181, commi 1-ter e quater e, successivamente, nell’art. 167, commi 4 e 5, D.Lgs. n. 42 del 2004,), derogando al principio enunciato dall’art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004, dell’impossibilità di rilascio di una autorizzazione paesaggistica successiva alla realizzazione dei lavori, ha introdotto la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori, all’esito della quale -pur restando ferma l’applicazione detta sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 167, D.Lgs. n. 42 del 2004- non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dall’art. 181, comma 1, D.Lgs. n. 42 del 2004: ciò vale per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati o per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica, ovvero per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sul tema dei rapporti intercorrenti tra la c.d. valutazione di compatibilità paesaggistica (introdotta dalla normativa del 2004 in tema di condono ambientale), e la sua possibile rilevanza ai fini dell’applicabilità o meno delle sanzioni penali previste dal c.d. decreto Urbani.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, nella veste di giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’incidente di esecuzione proposto da T.D., Ma.Ch. A., F.D., C.S. e G.R., con il quale si chiedeva la revoca dell’ordine di demolizione del manufatto edilizio, destinato ad albergo, realizzato in località sottoposta a vincolo paesaggistico ex D.M. 25.03.1966, nonché l’ordine di rimessione in pristino dei luoghi disposta a seguito della sentenza definitiva per reati edilizi e paesaggistici emessa dal medesimo Tribunale in data 27.10.2011, divenuta irrevocabile il 10.07.2013, con la quale era stata riconosciuta, per quanto qui di interesse, la penale responsabilità di F.D., Ma.Ch.An., M.A., G.R., C.S. e T.D. per i reati di cui all’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, e art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. n. 42 del 2004 -F.D. e M.C.A. quali committenti, C.S. quale progettista e direttore dei lavori, T.D. quale legale rappresentante della società costruttrice, M.A. quale responsabile dell’Area Urbanistica del Comune di C. e G.R. quale responsabile del procedimento- per la realizzazione in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e in assenza della necessaria autorizzazione paesaggistica regionale di “un manufatto edilizio a destinazione alberghiera, integralmente diverso, per caratteristiche planivolumetriche e di utilizzazione, dal relativo progetto approvato dalla Commissione Edilizia”.
Il giudice dell’esecuzione aveva respinto l’istanza, considerata l’illegittimità della concessione in sanatoria rilasciata in data 13.06.2013 dal Comune di C., contenente anche un parere di “compatibilità paesaggistica” dell’autorità regionale. Contro l’ordinanza proponevano ricorso per cassazione gli interessati, in particolare sostenendo l’esercizio da parte del giudice di una potestà riservata alla pubblica amministrazione ed agli organi di giustizia amministrativa, in riferimento al controllo sugli atti amministrativi, connesso all’improprio ruolo di supplenza svolto nel caso di specie dai giudici del tribunale che hanno ritenuto che non fosse possibile il rilascio postumo di una autorizzazione paesaggistica nel caso di specie e che il provvedimento sarebbe ulteriormente viziato perché privo della doppia conformità.
Tale sindacato, secondo gli interessati, si sovrappone al merito della P.A. e costituisce un’ingerenza dei giudici penali nelle competenze della stessa; secondo la difesa il giudice dell’esecuzione non avrebbe alcun potere di disapplicare l’atto successivo se non quando lo stesso sia stato emanato nonostante sia espressamente vietato e non quando si possano essere realizzate delle mere invalidità, la cui valutazione spetta al giudice amministrativo; pertanto il giudizio sulla doppia conformità della sanatoria in sede esecutiva non sarebbe ammissibile.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando, come corretto fosse stato l’esito del giudizio di merito, adeguatamente motivato e corretto sotto il profilo dell’interpretazione normativa, avendo il tribunale accertato che:
1) l’opera non rientra tra quelle cd. minori per le quali è consentita l’autorizzazione paesaggistica postuma, considerati i lavori quali descritti nei capi di imputazione della sentenza da eseguire e tenuto altresì conto che la realizzazione di un seminterrato comporta sempre un aumento della superficie utile;
2) che l’accertamento di conformità non rientra nelle ipotesi di cui all’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto per realizzare tale conformità sono stati previsti altri interventi, per cui ha concluso considerando tale provvedimento tamquam non esset, in quanto illegittimo, perché avente ad oggetto interventi non rientranti nella definizione di “opere minori” ed implicanti interventi edilizi di completamento successivi, e ha valutato non revocabile l’ordine di demolizione e di rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
L’ordinanza impugnata risultava perciò immune dai vizi di legittimità, essendo provvista di una motivazione adeguata ed avendo fornito una corretta interpretazione delle norme di legge, avuto a riferimento le disposizioni di cui agli artt. 146 e 167, D.Lgs. n. 42 del 2004 (v., in senso conforme al principio di cui in massima: Cass., Sez. III, 23.02.2010, n. 7111, C.B., in CED, n. 246202) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2015 n. 38556 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA: PUNIBILE LA MANCATA APPOSIZIONE DEL CARTELLO ANCHE SE LA STESSA NON SI PROTRAE DALL’INIZIO SINO ALLA FINE DEI LAVORI EDILIZI.
È punibile ai sensi dell’art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 la mancata apposizione del cartello a prescindere dalla circostanza che tale mancanza si protragga dall’inizio dei lavori edilizi sino alla fine degli stessi; ed invero, attesa la ratio cui la previsione è informata, rientrano nella previsione sanzionatoria anche omesse apposizioni del cartello non coincidenti con tutto l’arco di esecuzione dei lavori stessi, essendo solo necessario che le stesse abbiano luogo prima che i lavori siano terminati.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame concerne un tema invero non molto frequente nella giurisprudenza di legittimità, riguardante la configurabilità del reato consistente nella mancata apposizione del cartello di cantiere.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza che aveva condannato gli imputati per il reato di cui all’art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, in relazione all’omessa esposizione nel cantiere della tabella indicante gli estremi degli atti autorizzativi e la descrizione dell’intervento edilizio in corso. Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli imputati, in particolare sostenendo per quanto qui di interesse che la ratio della norma consiste nella sanzionabilità della mancanza del cartello ab origine e per un lasso apprezzabile di tempo e non anche ove il cartello, originariamente apposto (come nella specie), sia stato successivamente rimosso, non venendo in tal caso intaccato il bene giuridico protetto; e nella specie il Tribunale non aveva appurato quale fosse stato il lasso temporale di protratta assenza del cartello.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, così chiarendo come l’assunto secondo cui la norma punirebbe unicamente la mancanza del cartello che si protragga dall’inizio dei lavori edilizi sino alla fine degli stessi non trova rispondenza nel dettato normativo che, anzi, attesa la ratio cui la previsione è informata, ben può includere anche omesse apposizioni del cartello non coincidenti con tutto l’arco di esecuzione dei lavori stessi solo essendo necessario che le stesse abbiano luogo prima che i lavori siano terminati.
E, nella specie, la sentenza aveva dato atto del fatto che il cantiere era ancora attivo e i lavori ancora in corso nel momento in cui venne constatata l’assenza del cartello e che, in ogni caso, nessuna traccia dello stesso - secondo la difesa asseritamente esposto ab origine ma poi danneggiato e solo successivamente riposizionato, venne rinvenuta al momento del sopralluogo (in precedenza, nel senso che la mancata apposizione del cartello è penalmente sanzionata a condizione che detto obbligo sia espressamente previsto dai regolamenti edilizi o dalla concessione: Cass., SS.UU., 29.05.1992, n. 7978, P.M. in proc. Aramini ed altro, in CED, n. 191176; Sez. III, del 04.06.2013, n. 29730, Stroppini ed altri, rv. 255836; Id., Sez. III, 15.10.2009, n. 46832, T. ed altro, in CED, n. 245613; Id., Sez. III, 07.04.2006, n. 16037 B., in CED, n. 234330) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.09.2015 n. 38380 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IMPUGNAZIONE AL TAR DEL DINIEGO DEL CONDONO EDILIZIO ED INSUFFICIENZA AD ESCLUDERE L’ESECUTIVITÀ DELLA DEMOLIZIONE.
L’impugnazione davanti al TAR del provvedimento di diniego del condono non è sufficiente per poter disporre la sospensione dell’esecuzione dell’ingiunzione a demolire, dovendo, in ogni caso, l’interessato prospettare quali sono gli elementi concreti sulla base dei quali possa ritenersi concretamente probabile l’emanazione entro breve tempo di un provvedimento amministrativo o giurisdizionale contrario all’ordine di demolizione.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla idoneità e sufficienza della mera impugnazione davanti al Giudice amministrativo del provvedimento con cui l’amministrazione comunale opponga il proprio diniego al rilascio del c.d. condono edilizio.
La vicenda processuale segue all’impugnazione del provvedimento del G.I.P. presso il Tribunale, in funzione di giudice dell’esecuzione, con la quale veniva rigettata l’istanza di revoca e/o sospensione dell’ordine di demolizione delle opere abusive realizzate. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in particolare sostenendo che il mancato accertamento da parte del giudice sull’applicabilità in concreto delle norme sul condono edilizio e l’erronea affermazione di irrilevanza della prospettata pendenza di un procedimento giurisdizionale amministrativo avverso il diniego espresso dall’autorità amministrativa alla domanda di condono edilizio.
La tesi è stata ritenuta manifestamente infondata dalla Cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato la sua consolidata giurisprudenza secondo cui l’ordine di demolizione può essere revocato esclusivamente se risulta assolutamente incompatibile con atti amministrativi o giurisdizionali resi dall’autorità competente e che abbiano conferito all’immobile altra destinazione o abbiano provveduto alla sua sanatoria (Cass. pen., Sez. III, n. 17066 del 04.04.2006 - dep. 18.05.2006, S., in CED, n. 234321), mentre può essere sospeso solo quando sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che, nell’arco di brevissimo tempo, sia adottato dall’autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con l’ordine di demolizione, non essendo sufficiente una mera ed ipotetica possibilità che si potrebbe verificare in un tempo lontano ed incerto, e, in particolare la semplice pendenza della procedura amministrativa o giurisdizionale (ex plurimis: Cass. pen., Sez. III, n. 16686 del 05.03.2009 - dep. 20.04.2009, M., in CED, n. 243463).
Quanto, poi, alla insufficienza della mera impugnazione al TAR per giustificare la sospensione dell’ingiunzione a demolire, la Cassazione, già in precedenza, ha giudicato inidonea a tal fine la semplice presentazione di un ricorso al TAR dopo oltre dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza che ebbe a disporre l’ordine di demolizione (Cass. pen., Sez. III, n. 42978 del 17.10.2007 - dep. 21.11.2007, P., in CED, n. 238145) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, ordinanza 27.05.2015 n. 22105 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Violare il «blocco» è abusivismo. Trasporto rifiuti. La Cassazione equipara sospensione dall’Albo e omessa iscrizione.
I trasportatori di rifiuti devono essere autorizzati dall’Albo gestori ambientali che, dopo oltre vent’anni di attività, è ora disciplinato dal Dm 120/2014. In difetto, anche se i rifiuti sono trasportati da chi li produce (come le imprese edili), scatta il reato di gestione illecita di rifiuti, con pesanti sanzioni penali previste dal Codice ambientale (Dlgs 152/2006). L’iscrizione all’Albo è requisito per svolgere le attività di raccolta e trasporto rifiuti ed è titolo per esercitarle.
Alla mancata iscrizione, la Corte di Cassazione (III Sez. penale, sentenza 09.04.2015 n. 14273) equipara la sospensione dell’iscrizione: per il periodo della sua durata fa venir meno l’efficacia del titolo.
Dunque, il trasporto deve ritenersi non autorizzato: non conta la mancanza fisica dell’iscrizione, ma gli effetti autorizzatori ad essa connessi, che sono sospesi (e dunque mancanti) per tutta la durata del provvedimento.
Per scoprire le violazioni è determinante il controllo su strada. A questi fini, sui veicoli occorre avere il formulario di identificazione del trasporto e copia del provvedimento di iscrizione all’Albo, con gli estremi identificativi degli automezzi che possono operare e i rifiuti che questi possono trasportare. I rifiuti sono individuati col Cer (Codice europeo dei rifiuti) presente nell’Elenco indicato nella parte quarta, allegato D, Dlgs 152/2006.
Il formulario non è richiesto per il trasporto dei rifiuti urbani effettuato dal gestore del servizio pubblico per il tratto dal cassonetto all’impianto indicato nell’atto di concessione. Ma, se l’impianti è fuori dal territorio comunale, sul mezzo deve esserci copia di tale atto di concessione.
L’Albo è operativo dal 1994 ed è è articolato in un Comitato nazionale (presso il ministero dell’Ambiente) e in Sezioni territoriali (presso le Camere di commercio dei capoluoghi di regione e di provincia autonoma). Il Comitato deve fare in modo che le norme siano applicate dappertutto in modo uniforme e decide sui ricorsi dalle imprese contro le delibere delle Sezioni. I rapporti tra Albo e imprese sono telematici. Sul sito www.albogestoririfiuti.it, per ogni impresa, si hanno: dati anagrafici, categorie e classi di iscrizione, tipologie dei rifiuti gestiti e i relativi codici dell’Elenco, numeri di targa dei veicoli.
Il passaggio alle regole attuali è stato reso più morbido da una serie di deliberazioni del Comitato. Si sono poi aggiunte le più recenti: le n. 2, 3 e 4 del 03.09.2014, con la modulistica per l’iscrizione all’Albo, rispettivamente con procedura ordinaria e semplificata (anche per il rinnovo dell’iscrizione);
la n. 5 del 03.09.2014, sulle variazioni dell’iscrizione all’Albo della dotazione dei veicoli;
la n. 6 del 09.09.2014, col modello di attestazione dell’idoneità dei veicoli; la n. 7 del 25.11.2014, sulle variazioni che prevedono il trasferimento dell’iscrizione ad altro soggetto giuridico; la n. 8 del 25.11.2014, che introduce il foglio notizie per l’iscrizione all’Albo, con procedura ordinaria, nelle categorie 1, 4 e 5; la n. 1 del 22.05.2015, sui controlli a campione sulle dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto notorio ai sensi del Dpr 445/2000 rese ai fini dell’iscrizione all’Albo; le n. 2 del 16.09.2015 e n. 3 del 15.10.2015, sull’accorpamento delle categorie di iscrizione; la n. 4 del 18.12.2015, sull’iscrizione di aziende speciali, consorzi di comuni e società di gestione dei servizi pubblici; la n. 1 del 10.02.2016, sulla gestione telematica delle domande e delle comunicazioni tra Albo e impresa (si veda l’articolo a fianco)
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2016).
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MASSIMA
3.11 ricorso è fondato.
4. La vicenda storica è chiara e non oggetto di contestazione.
4.1. Il Be. è titolare di un'impresa individuale che esercita attività di gestione, raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi, ed è iscritta all'Albo nazionale dei gestori ambientali. L'iscrizione è stata però sospesa con decorrenza dal 13/02/2013 perché il Be. aveva provveduto a regolarizzare la domanda di aggiornamento dell'iscrizione senza apporvi le necessarie marche da bollo.
La circostanza era emersa nel corso di un controllo su strada del 21/05/2014 all'esito del quale la Polizia Municipale aveva provveduto a sequestrare l'autocarro con provvedimento convalidato e reiterato dal Gip ma annullato con l'ordinanza impugnata.
4.2. Secondo i giudici del riesame la sospensione dell'iscrizione all'Albo non equivale alla sua assenza e non può integrare gli estremi del reato ipotizzato che si consumerebbe -affermano- solo in assenza dell'autorizzazione, non quando l'autorizzazione esiste ma è solo sospesa.
5. Il rilievo non è fondato.
5.1. L'art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006 sanziona, tra le altre, la condotta di chi effettua un'attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti
«in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione (...) di cui all'art. 212».
5.2. L'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto dei rifiuti e costituisce titolo per l'esercizio di tali attività (art. 210, commi 5 e 6, d.lgs. 152 del 2006).
5.3. La sospensione dell'iscrizione comporta il venir meno, per tutto il periodo della durata, dell'efficacia del titolo necessario per poter esercitare le attività per le quali l'impresa è stata iscritta.
5.4. Sicché lo svolgimento "medio tempore" dell'attività (in questo caso) di trasporto di rifiuti deve ritenersi effettuato in mancanza di autorizzazione, dovendosi aver riguardo, a tal fine, non alla mancanza fisica dell'iscrizione, bensì agli effetti autorizzatori connessi all'iscrizione, sospesi (e dunque mancanti) per tutta la durata del relativo provvedimento.

5.5. Tale interpretazione non è mai stata messa in discussione da questa Suprema Corte che si è solo interrogata se il mancato o ritardato pagamento del diritto annuale di iscrizione all'albo operi automaticamente oppure necessiti l'adozione di uno specifico provvedimento (per la necessità di un apposito provvedimento di sospensione, Sez. 3, n. 9490 del 29/01/2009, Scocca, Rv. 243113; per l'automatismo della sospensione, Sez. 3, n. 26923 del 04/05/2004, Baglio, Rv. 229454; Sez. 3, n. 24467 del 15/07/2007, Bertagna, Rv. 236887).
5.6. La specifica questione non rileva in questo procedimento poiché la condotta è stata tenuta in epoca successiva alla adozione della deliberazione di sospensione dell'iscrizione.
5.7. Non hanno rilievo, in questa sede, le considerazioni difensive in ordine alla effettiva conoscenza del provvedimento di sospensione e alle ragioni per le quali il Belletti non aveva provveduto a regolarizzare la domanda, trattandosi di questioni che esulano dalla cognizione devoluta a questa Suprema Corte.
5.8. Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere annullato senza rinvio, con conseguente ripristino dell'efficacia del decreto del Gip.

EDILIZIA PRIVATA: L’ACCERTAMENTO POSTUMO DI COMPATIBILITÀ NON VALE A ESTINGUERE IL REATO DI ABUSIVO INTERVENTO SU BENI CULTURALI.
Per il reato di abusivo intervento su beni culturali, previsto e punito dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 169, il bene tutelato è esclusivamente l’interesse strumentale al preventivo controllo da parte dell’autorità preposta alla tutela dei beni culturali, mentre la condotta configura una concreta offesa dell’interesse amministrativo tutelato, senza che l’accertamento postumo di compatibilità col vincolo culturale o l’autorizzazione in sanatoria rilasciata dalla autorità preposta possa valere a estinguere il reato o a escluderne la punibilità.
Ne consegue che l’accertamento postumo di compatibilità rilasciato dalla Soprintendenza competente non vale a estinguere il reato contestato od a escluderne la punibilità.

La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della natura giuridica del reato di abusivo intervento su beni culturali, previsto e punito dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 169.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna emessa per il reato di opere illecite su bene culturale, ritenuto consumato al momento dell’accertamento dell’intervento sul bene, escludendosi qualsiasi rilievo alla circostanza che, successivamente, i lavori di restauro sul manufatto fossero stati autorizzati dal punto di vista amministrativo con una nota con cui la Soprintendenza competente comunicava la definitiva archiviazione del procedimento.
La Corte d’Appello richiamava la giurisprudenza della Cassazione che esclude che l’accertamento postumo di compatibilità con il vincolo culturale rilasciato dalla predetta Soprintendenza né l’autorizzazione in sanatoria rilasciata dall’Autorità preposta esplichino effetto estintivo o escludano la punibilità del reato di abusivo intervento su beni culturali. Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, sostenendo che tale affermazione era illegittima, in quanto l’accertamento postumo era stato svolto dal Comune con il riconoscimento della conformità dei lavori agli strumenti urbanistici vigenti concedendo l’autorizzazione in sanatoria, laddove la Soprintendenza aveva riconosciuto l’inidoneità della condotta a porre in pericolo il bene tutelato.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare soffermandosi sulla circostanza che si trattasse di intervento di minima offensività, affermazione esclusa dalla stessa tipologia degli interventi eseguiti (demolizione del pavimento, creazione di un vano sottotetto, realizzazione di aperture, etc.). La Corte non ha inteso sottovalutare la complessità di un tema che ha travagliato a lungo dottrina e giurisprudenza.
Il principio di offensività nel diritto penale, secondo cui non sussiste reato senza una effettiva offesa (sotto forma di lesione o di messa in pericolo) del bene protetto, è infatti fondato su una precisa interpretazione dell’art. 49 c.p., comma 2, e confermato dai principi consacrati nell’art. 25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost., commi 1 e 3.
Tuttavia, puntualizzano gli Ermellini, la giurisprudenza formatasi con riferimento alla materia edilizia e paesaggistica (v., ad esempio: Cass. pen., Sez. III, n. 10641 del 07.03.2003, S., in CED, n. 224355, secondo cui il reato paesaggistico non viene integrato da qualsiasi opera o attività compiuta senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, atteso che anche in presenza di un reato formale e di pericolo presunto è riservata al giudice la verifica dell’offensività specifica della condotta tenuta, con valutazione ex ante e che perciò deve essere diretta ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all’ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato), non trova applicazione al reato di abusivo intervento su beni culturali (v., in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, n. 46082 del 15.12.2008, F. e altro, in CED, n. 241785) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.03.2015 n. 9784 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: Nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005 n. 15.
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3.3. Le ulteriori censure dedotte in appello non possono essere accolte, poiché:
- quanto alle garanzie partecipative non vi è motivo per discostarsi dalla concorde giurisprudenza, per la quale “nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005 n. 15” (Cons. Stato, Sez. IV, 06.02.2013, n. 666; cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011, n. 3398); ciò che nella specie è altresì avvalorato dalla considerazione che, secondo la ricorrente, la partecipazione al procedimento di cui si tratta sarebbe stata utile per prospettare la rilevanza delle intervenute domande di condono che, per quanto sopra considerato, non può essere ritenuta;
- per la stessa ragione non hanno rilievo l’asserzione del vizio di ultrapetizione della sentenza, la censura, riproposta nel presente grado, sull’interesse all’impugnazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza e la ribadita ritualità della presentazione dei motivi aggiunti ai sensi dell’art. 43 cod. proc. amm., in quanto motivi basati sulla non accolta deduzione del vizio della mancata considerazione delle domande di condono;
- non sussiste, di conseguenza, neppure l’asserito difetto di istruttoria e di motivazione dei provvedimenti repressivi, riscontrandosi anche che l’impugnata ordinanza di demolizione è basata sugli accertamenti della Polizia municipale e sulla connessa relazione tecnica di sopralluogo, nonché recante la compiuta descrizione delle opere abusive (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer l’esame della questione è anzitutto necessario richiamare la differente natura dei due istituti, dell’istanza di sanatoria, ovvero di richiesta dell’accertamento della così detta doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, e della domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47/1985, n. 724/1994 e n. 326/2003, che, nella prospettazione della ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell’opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché “…i presupposti dei due procedimenti di sanatoria –quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica– sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l’uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l’accertamento ex post della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)”.
Per tali osservazioni alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47/1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n. 724/1994 e dell’art. 32 della legge n. 326/2003”, poiché, come anche precisato, “A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47” (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) “…non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47/1985 con riferimento alle domande di condono edilizio".
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Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione sull’erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa, cosicché l’Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza “si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi”, non potendo trovare applicazione tali principi “al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente”, per cui “Sostenere…che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”.
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Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l’efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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3. L’appello è infondato nel merito essendo da respingere i motivi, dirimenti per la decisione della controversia, relativi alla rilevanza della presentazione nel 2004 delle sopra citate quattro domande di condono (di cui sopra sub. 2.a) e dell’intervenuta presentazione dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (sopra sub. 2.b).
...
3.2. La presentazione dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2011.
3.2.1. Per l’esame della questione è anzitutto necessario richiamare la differente natura dei due istituti, dell’istanza di sanatoria, ovvero di richiesta dell’accertamento della così detta doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, e della domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003, che, nella prospettazione della ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell’opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché “…i presupposti dei due procedimenti di sanatoria –quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica– sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l’uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l’accertamento ex post della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)” (TAR Lazio, sezione I-quater, 11.01.2011, n. 124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR Campania-Napoli, sezione VI, 03.09.2010, n. 17282 in quest’ultima citata). Per tali osservazioni alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 326 del 2003” (Tar Lazio, sezione I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché, come anche precisato, “A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47” (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) “…non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; …” (Tar Lazio, sezione I-quater, 24.01.2011, n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione, con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull’erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa, cosicché l’Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza “si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi”, non potendo trovare applicazione tali principi “al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente”, per cui “Sostenere…che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”.
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l’efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
3.2.2. In questo contesto nella vicenda in esame si rileva che:
- l’ordinanza di demolizione è stata notificata il 19.03.2012; l’istanza di accertamento di conformità è stata presentata il 12.04.2012; l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione è stata proposta successivamente, il 10.05.2012; il 13.06.2012 si è formato il silenzio-rigetto sull’istanza di sanatoria, come riscontrato con l’ordinanza cautelare di rigetto, n. 904 del 22.06.2012, adottata in primo grado e non impugnata; il 12.09.2012 è stato emanato il verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione notificato il 12 ottobre successivo;
- ne emerge perciò:
   a) che la ricorrente ha impugnato l’ordinanza di demolizione dopo la presentazione dell’istanza di accertamento della conformità, manifestando con ciò interesse all’annullamento dell’ordinanza nonostante la previa presentazione dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e non valendo perciò l’asserita improcedibilità dell’impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse, rilevata in giurisprudenza quando l’impugnazione del provvedimento sanzionatorio precede la presentazione dell’istanza di sanatoria per conformità;
   b) che il silenzio-rigetto dell’istanza non è stato impugnato, non di per sé né per via dell’impugnazione dell’ordinanza cautelare di primo grado che l’ha riscontrato;
   c) che all’esito di tutto ciò l’ordinanza di demolizione ha riacquistato piena efficacia risultando dovuto il consequenziale accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza stessa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sentenza impugnata del TAR fonda l’accoglimento del ricorso di primo grado sulle seguenti considerazioni:
- secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione dell’istanza di sanatoria, ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporta la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio rigetto, di un nuovo provvedimento che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa;
- che, nell’ipotesi di rigetto anche tacito dell’istanza di sanatoria l’amministrazione è in ogni caso tenuta, anche nel medesimo contesto documentale e con rinvio ai pregressi elementi istruttori e motivazionali, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere.
Il ricorso è stato accolto perché l’ordine di acquisizione impugnato traeva il suo presupposto dall’inottemperanza ad un pregresso ordine di demolizione da intendersi superato a seguito della presentazione della successiva istanza di sanatoria dichiarata improcedibile.
Il ricorso in appello del comune è fondato.
La consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza impugnata si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi.
Quei principi non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
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1. L’odierno appellato sig. Ba.Al. ha adito il Tribunale amministrativo regionale per la Campania per l’annullamento del provvedimento prot. n. 1266 del 07.03.2013, con il quale il responsabile del servizio assetto del territorio del Comune di Casapesenna ha dichiarato acquisite di diritto al patrimonio del medesimo comune l’opera edilizia abusiva (consistente in due fabbricati abusivi) e la relativa area di sedime, site in via .., n. 5 e n. 7 in catasto fg. 8 p.lle 652/A e 652/b, stante l’accertata inottemperanza all’ordine di demolizione n. 18 dell’08.11.2012 come da verbale prot. n. 172/P.M. del 04.03.2013.
2. Nella sentenza impugnata si dà atto che il sig. Ba. aveva impugnato il predetto ordine di demolizione con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica dell’08.03.2013 e aveva inoltrato, dopo la notifica in data 09.11.2012 dell’ordine di demolizione, posto a base della gravata acquisizione, istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 in data 27.12.2012.
La sentenza impugnata dà altresì atto che il Comune di Casapesenna aveva opposto che l’istanza di sanatoria era stata dichiarata improcedibile con provvedimento n. 27 del 02.01.2013 in quanto priva di documentazione e di aver ivi invitato il ricorrente a presentare nuova istanza corredata di documentazione.
3. La sentenza impugnata fonda l’accoglimento del ricorso di primo grado sulle seguenti considerazioni:
- secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione dell’istanza di sanatoria, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporta la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio rigetto, di un nuovo provvedimento che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa;
- che, nell’ipotesi di rigetto anche tacito dell’istanza di sanatoria l’amministrazione è in ogni caso tenuta, anche nel medesimo contesto documentale e con rinvio ai pregressi elementi istruttori e motivazionali, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere.
Il ricorso è stato accolto perché l’ordine di acquisizione impugnato traeva il suo presupposto dall’inottemperanza ad un pregresso ordine di demolizione da intendersi superato a seguito della presentazione della successiva istanza di sanatoria dichiarata improcedibile.
4. Il Comune di Casapesenna ha proposto ricorso in appello deducendo un unico complesso motivo così epigrafato: error in procedendo; error in iudicando; violazione dell’art. 112 del Cod. pro. Civ.; erroneità nella ricostruzione dei termini fattuali della vicenda sostanziale e nella sua valutazione giuridica; contraddittorietà; errata determinazione del thema decidendum; errata determinazione del thema probandum.
5. Il ricorso in appello è fondato.
6. La consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza impugnata si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi.
7. Quei principi non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto.
8. Per completezza di esposizione il Collegio non può non rilevare che, nella ricostruzione della vicenda effettuata dal giudice di primo grado, del tutto irrilevante si è rivelata la circostanza che il ricorrente abbia impugnato l’ordinanza di demolizione con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
D’altro canto dalla sentenza impugnata non emerge che tale provvedimento sia stato sospeso, con la conseguenza che esso poteva costituire idoneo presupposto per l’adozione del provvedimento di acquisizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2014 n. 2307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 04.04.2016

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IN EVIDENZA

Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso ed alle modalità esecutive stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380/2001).
Anche nel caso di D.I.A. (o S.C.I.A.)!!

EDILIZIA PRIVATANel procedimento penale per costruzioni prive di concessione o assistite da concessione illegittima, la violazione anche di norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni legittima i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile, essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo all'azione di risarcimento del medesimo.
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Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici.
A maggior ragione non lo è in caso di intervento realizzato direttamente in base a denunzia di inizio di attività, atto non pubblico proveniente dal privato e non dalla pubblica amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione del programma progettuale ed è dunque riconducibile all'ideazione del committente.
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2. Il ricorso è inammissibile perché generico, proposto per motivi non consentiti dalla legge e manifestamente infondato.
3. L'imputato risponde del reato di cui agli artt. 40, cpv., 110, cod. pen., 44, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 perché, quale proprietario committente, in concorso con due pubblici ufficiali del Comune di Castiglione della Pescaia (che avevano archiviato il procedimento amministrativo finalizzato all'accertamento dell'abuso edilizio, così concorrendo alla sua realizzazione), con i progettisti, i direttori dei lavori e il titolare dell'impresa esecutrice degli stessi, aveva ristrutturato, mediante soprelevazione e suddivisione di due unità immobiliari, il villino di sua proprietà, sito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, in assenza di valido titolo edilizio essendo illegittima la D.I.A. perché in contrasto con la normativa in materia di distanze tra fabbricati (art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 e 26 delle N.T.A. del P.R.G.), posto che la soprelevazione era stata realizzata ad una distanza inferiore a 10 metri rispetto al fabbricato adiacente.
3.1. Il Giudice di primo grado, dopo aver sottolineato come, in realtà, l'intervento edilizio dovesse piuttosto qualificarsi alla stregua di una vera e propria nuova costruzione (in considerazione della realizzazione di un piano in più nel quale ospitare un nuovo appartamento, della costruzione di cantine e di un terrazzo, della radicale variazione della sagoma), attenendosi alla rubrica, aveva comunque evidenziato che il «manufatto presentava una ovvia imponenza con muro parapetto, pilastri orizzontali e verticali» ed una loggia certamente computabile ai fini delle distanze alla luce sia degli strumenti urbanistici del 2007, che del PRG del 2009 secondo il quale non dovevano essere computati ai fini delle distanze solo gli elementi decorativi, i balconcini, le pergole e i porticati (e ciò a prescindere dal fatto che l'opera, realizzata in epoca precedente al 2009, non era comunque conforme nemmeno alle definizioni del nuovo PRG).
3.2. In sede di appello l'imputato si è a lungo soffermato sulla natura dell'intervento (ristrutturazione) e sulle sue caratteristiche oggettive, oltre che su altri temi, alcuni dei quali del tutto superflui alla luce degli odierni motivi di ricorso.
In alcun modo, però, era stato devoluto alla Corte territoriale il tema, esclusivamente fattuale, della natura della "loggia" realizzata a seguito della soprelevazione e della sua attitudine a incidere sul calcolo delle distanze, oggetto del secondo motivo di ricorso.
E' pur vero che la sentenza impugnata affronta il tema ricostruendo il fatto (la descrizione della "loggia") e interpretando le norme ad esso applicabili, ma è altrettanto vero che il ricorrente, negletto il secondo argomento -indubbiamente più acconcio a questa fase di legittimità- si avventura nella diversa ricostruzione del fatto attraverso ampi, quanto inammissibili richiami alle prove raccolte nella fase di merito.
3.3. Gli altri vizi denunziati con il primo motivo di ricorso, altro non sono se non la riedizione, per molti versi alla lettera, dei corrispondenti motivi di appello, affastellati in modo generico e confuso (si eccepisce, per esempio, la illegittimità della costituzione della parte civile, sotto lo stesso capitolo dedicato alla insussistenza dell'elemento psicologico del reato), senza alcuna considerazione per gli argomenti spesi nella sentenza impugnata per confutarli.
3.4. E' sufficiente ribadire che, come anche ricordato dalla Corte di appello,
nel procedimento penale per costruzioni prive di concessione o assistite da concessione illegittima, la violazione anche di norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni legittima i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile, essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo all'azione di risarcimento del medesimo (Sez. 3, n. 5190 del 15/03/1991, De Bigontina, Rv. 187094; Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009, Vespa, Rv. 245270; Sez. 3, n. 21222 del 04/04/2008, Chianese, Rv. 240044).
3.5. Inoltre,
il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 27261 del 08/06/2010, Caleprico, Rv. 248070).
A maggior ragione non lo è in caso di intervento realizzato direttamente in base a denunzia di inizio di attività, atto non pubblico (Sez. 3, n. 41480 del 24/09/2013, Zecca, Rv. 257690) proveniente dal privato e non dalla pubblica amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione del programma progettuale ed è dunque riconducibile all'ideazione del committente.
3.6. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.03.2016 n. 10106).

Sulle conseguenze di una D.I.A. mendace:

EDILIZIA PRIVATARisulta maggioritaria la tesi che riconosce la natura dichiarativa della d.i.a., la quale, con specifico riferimento alla disciplina urbanistica è stata descritta da autorevole dottrina come un istituto che non dà origine ad un provvedimento amministrativo in forma tacita e che consiste in una dichiarazione del privato alla quale, sussistendo le richieste condizioni ed in assenza di un intervento inibitorio a carattere vincolato dell'amministrazione comunale, la legge riconosce gli effetti corrispondenti a quelli tipici del permesso di costruire e, cioè, l'abilitazione alla realizzazione delle opere progettate.
Il ventennale dibattito sulla natura giuridica della d.i.a. ha interessato, ovviamente, anche la giurisprudenza amministrativa, anch'essa caratterizzata da opinioni difformi, tanto che, come ricordato in ricorso, la questione è stata sottoposta all'esame dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la quale,
con articolata motivazione, ha escluso che la denuncia di inizio attività sia un provvedimento amministrativo a formazione tacita e che dia luogo ad un titolo costitutivo, essendo, invece, un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Chiarisce l'Adunanza Plenaria, ponendosi in evidente sintonia con l'indirizzo dottrinario precedentemente ricordato, che «
il denunciante è, infatti, titolare di una posizione soggettiva originaria, che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge, sempre che ricorrano i presupposti normativi per l'esercizio dell'attività e purché la mancanza di tali presupposti non venga stigmatizzata dall'amministrazione con il potere di divieto da esercitare nel termine di legge, decorso il quale si consuma, in ragione dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici, il potere vincolato di controllo con esito inibitorio e viene in rilievo il discrezionale potere di autotutela».
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La relazione di accompagnamento alla d.i.a. edilizia ne costituisce parte integrante ed essenziale ed ha natura di certificazione per quanto riguarda sia la descrizione dello stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, sia la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizia.
La richiamata decisione, oltre a riproporre orientamenti già consolidati, ha dunque chiarito, riproponendo le argomentazioni prospettate in una precedente pronuncia, che
la natura di certificazione deve essere riconosciuta anche alla parte progettuale della relazione allegata alla d.i.a., così superando precedenti posizioni difformi.
Va peraltro rilevato che la suddetta sentenza
individua chiaramente la d.i.a. come atto del privato che esclude la necessità di un titolo di legittimazione, rilevando che il potere di verifica dell'amministrazione «non è finalizzato all'emanazione di un provvedimento di consenso all'esercizio dell'attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione. Con la DIA, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilltà dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore».
Ciò posto, osserva il Collegio che
le conclusioni cui è pervenuta la sentenza 35795/2012 appaiono pienamente convincenti, in quanto frutto di un'accurata analisi della natura dell'istituto della d.i.a. edilizia e della normativa che la disciplina, all'esito della quale viene giustamente riconosciuta alla condotta del professionista abilitato una specifica rilevanza pubblicistica in ragione della assunzione di responsabilità cui è chiamato, in considerazione «del particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento».
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5. Il ricorso è solo in parte fondato.
La Corte territoriale ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica della condotta di alterazione della d.i.a. effettuata dal giudice di prime cure, riconoscendo la natura di atto pubblico della denuncia di inizio attività, rilevando che gli interventi ad essa soggetti s'intenderebbero autorizzati, decorso il termine di trenta giorni per formazione del silenzio-assenso, nell'ambito di quanto prospettato nella denuncia stessa, la quale assume la forma e la sostanza di atto autorizzatorio, assurgendo al rango di atto pubblico.
A sostegno di tale soluzione interpretativa i giudici del gravame richiamano una decisione di questa Corte emessa nel medesimo procedimento in ambito di incidente cautelare (Sez. V n. 35153, 17.05.2007, non massimata) ed escludono che possa ritenersi la natura privatistica della denuncia sulla base della sua provenienza in quanto, una volta uscita dalla sfera del privato e presentata allo sportello unico corredata dagli elaborati di progetto e della relazione di asseveramento, essa determina l'avvio di una sequenza procedimentale che, all'esito di positivi riscontri sulla sussistenza delle condizioni di legge da parte del responsabile dell'ufficio tecnico comunale, dà luogo ad un provvedimento implicito di assenso all'esecuzione dei lavori ed acquista rilievo pubblicistico, come emergerebbe anche dal tenore letterale dell'art. 23, comma 5, d.P.R. 380/2001, ove è stabilito che «la sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della denuncia, l'elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l'attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari».
La decisione di questa Corte richiamata nella sentenza impugnata giunge alle medesime conclusioni, affermando che la d.i.a. assume, in conseguenza del silenzio-assenso che viene a formarsi dopo trenta giorni dalla sua presentazione, la forma e la sostanza del provvedimento autorizzativo che l'autorità non ha emesso, assurgendo, così, al rango di atto pubblico.
Di diverso avviso è, invece il ricorrente, per le ragioni sintetizzate in premessa.
Assume conseguentemente rilievo determinante l'individuazione della natura giuridica della denuncia di inizio attività.
6. Come è noto, l'istituto della d.i.a. è stato introdotto dalla legge 07.08.1990, n. 241 ed è disciplinato dall'articolo 19 della legge medesima che ha subito, nel tempo, numerose modifiche, tra le quali va ricordata quella ad opera dell'articolo 49, comma 4-bis, della L. 122/2010 di conversione del d.l. 31.05.2010, n. 78, con il quale si è proceduto all'introduzione della S.C.I.A., segnalazione certificata di inizio attività (secondo l'interpretazione autentica dell'art. 19 legge 241/1990 fornita dal dl. 70/2011, convertito nella Legge 106/2011, le disposizioni in esso contenute si applicano alle d.i.a. in materia edilizia disciplinate dal Testo Unico, con esclusione dei casi in cui esse siano, in base alla normativa statale o regionale, alternative o sostitutive del permesso di costruire).
Si tratta, pertanto, di un istituto di carattere generale il quale prevede, salvo eccezioni espressamente indicate, che ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una dichiarazione (ora segnalazione) dell'interessato corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell'atto di notorietà, nonché dalle attestazioni ed asseverazioni richieste.
Per ciò che concerne la disciplina edilizia, la relativa procedura è regolata dagli articoli 22 e 23 del d.P.R. 380/2001. Sulla base delle disposizioni richiamate,
restano attualmente soggetti a d.i.a. esclusivamente gli interventi edilizi eseguibili con d.i.a. alternativa o sostitutiva del permesso di costruire in base a leggi statali o regionali, mentre i richiami riguardanti le altre tipologie di interventi soggetti a d.i.a. devono ora intendersi riferiti alla s.c.i.a.
La particolarità dell'istituto della d.i.a. ha indotto dottrina e giurisprudenza ad interrogarsi, in più occasioni, sull'esatta qualificazione della sua natura giuridica, giungendo a conclusioni non univoche anche in considerazione del fatto che, strettamente correlata a tale questione, vi è anche quella della tutela del terzo.
7. In termini estremamente sintetici e generali, le due principali soluzioni adottate propendono una per la natura meramente dichiarativa della d.i.a., mentre l'altra attribuisce all'istituto una natura provvedimentale. Nel primo caso, quindi, si tratterebbe di una mera dichiarazione del privato alla quale la legge, in presenza di determinate condizioni, attribuisce la produzione di particolari effetti, mentre, nel secondo, la dichiarazione darebbe luogo alla formazione di un provvedimento tacito o implicito quale conseguenza del decorso del termine fissato per l'attività di verifica imposta alla RA.
Tra le due tesi
risulta maggioritaria quella che riconosce la natura dichiarativa della d.i.a., la quale, con specifico riferimento alla disciplina urbanistica è stata descritta da autorevole dottrina come un istituto che non dà origine ad un provvedimento amministrativo in forma tacita e che consiste in una dichiarazione del privato alla quale, sussistendo le richieste condizioni ed in assenza di un intervento inibitorio a carattere vincolato dell'amministrazione comunale, la legge riconosce gli effetti corrispondenti a quelli tipici del permesso di costruire e, cioè, l'abilitazione alla realizzazione delle opere progettate.
8. Il ventennale dibattito sulla natura giuridica della d.i.a. ha interessato, ovviamente, anche la giurisprudenza amministrativa, anch'essa caratterizzata da opinioni difformi, tanto che, come ricordato in ricorso, la questione è stata sottoposta all'esame dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 15, 29.07.2011) la quale,
con articolata motivazione, ha escluso che la denuncia di inizio attività sia un provvedimento amministrativo a formazione tacita e che dia luogo ad un titolo costitutivo, essendo, invece, un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Chiarisce l'Adunanza Plenaria, ponendosi in evidente sintonia con l'indirizzo dottrinario precedentemente ricordato, che «
il denunciante è, infatti, titolare di una posizione soggettiva originaria, che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge, sempre che ricorrano i presupposti normativi per l'esercizio dell'attività e purché la mancanza di tali presupposti non venga stigmatizzata dall'amministrazione con il potere di divieto da esercitare nel termine di legge, decorso il quale si consuma, in ragione dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici, il potere vincolato di controllo con esito inibitorio e viene in rilievo il discrezionale potere di autotutela».
Nel confutare gli argomenti prospettati a sostegno dell'opposta tesi sulla natura provvedimentale della d.i.a., il Consiglio di Stato prende in esame anche la specifica disciplina urbanistica, indicata, per la sua peculiarità, come significativa, evidenziando che il titolo II del d.P.R. 380/2001 indica, tra i «titoli abilitativi», tanto la denunzia di inizio di attività quanto il permesso di costruire, gli artt. 22 e 23 considerano la d.i.a. come abilitante all'intervento edificatorio e, nell'art. 22, ne delineano l'ambito di operatività rispetto al permesso di costruire, mentre nell'art. 38, il comma 2-bis formula una sostanziale equiparazione tra l'accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo per gli interventi edilizi soggetti a d.i.a. e quelli eseguiti in base a permesso annullato e, infine, l'art. 39, comma 5-bis, consente l'annullamento straordinario della d.i.a. da parte della Regione, inducendo così a ritenere che la denuncia sia considerata dal legislatore come un titolo passibile di annullamento.
Tali evenienze non sono tuttavia considerate determinanti dal giudice amministrativo, il quale osserva che
un primo elemento ostativo all'accoglimento dell'opzione ermeneutica che riconosce alla d.i.a. natura provvedimentale quale conseguenza del silenzio-significativo con effetto autorizzatorio è dato dal fatto che essa eliminerebbe ogni differenza sostanziale tra la d.i.a. ed il silenzio-assenso, che la legge specificamente distingue anche nel caso della disciplina urbanistica, la quale differenzia il permesso di costruire perfezionatosi con il silenzio-assenso rispetto alla d.i.a. ed alla s.c.i.a..
Ulteriori elementi indicativi sono poi individuati, ad esempio, nel tenore letterale dell'art. 19 legge 241/1990, il quale sostituisce, in presenza di determinati presupposti, ogni autorizzazione, comunque denominata, con una dichiarazione del privato ad efficacia legittimante immediata o differita, così contrapponendo l'istituto della d.i.a. al provvedimento amministrativo di stampo autorizzatorio, mentre i dubbi sollevati per il fatto che la scelta tra autorizzazione preventiva e controllo successivo sia rimessa, nella materia edilizia alla normativa regionale o addirittura all'iniziativa del privato (il riferimento è all'art. 22 del d.P.R. 380/2001) vengono ritenuti fugati dall'indirizzo giurisprudenziale che riconosce la possibilità di tecniche di tutela efficaci ed adeguate anche in caso di configurazione della d.i.a. come modello di liberalizzazione.
9. Alla luce delle considerazioni sinteticamente richiamate
non vi è dunque motivo per porre in dubbio la natura meramente dichiarativa della d.i.a. e, tenendo conto di tale scelta interpretativa già maggioritaria ed ormai avallata dall'autorevole intervento del giudice amministrativo, occorre rilevare quali conseguenze penali derivino in casi quale quello preso in considerazione nella sentenza impugnata.
Va osservato, a tale proposito, che l'art. 21, comma 2, legge 241/1990 specifica che con la denuncia o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l'interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e che, in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni, il dichiarante è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la sanzione prevista dell'articolo 483 cod. pen.
Il riferimento, come è dato desumere dal tenore letterale della disposizione, riguarda chiaramente la dichiarazione del privato e non anche la documentazione che necessariamente l'accompagna e che, per quanto riguarda la disciplina urbanistica, è costituita, in base a quanto stabilito dall'art. 23, comma 1, del Testo Unico, dagli elaborati progettuali e dalla relazione di asseverazione del professionista abilitato, rispetto alla quale il comma 6 del medesimo articolo ribadisce, in caso di falsità, l'obbligo di denuncia, già previsto in linea generale dall'art. 331 cod. proc. pen., prevedendo anche quello di informazione del consiglio dell'ordine di appartenenza.
L'art. 29, comma 3, del medesimo T.U. stabilisce inoltre che, per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 cod. pen., ricordando, ancora una volta, l'obbligo di segnalazione in caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all'articolo 23, comma 1.
10. Sul tema la giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente pronunciata, elaborando, in più occasioni, principi che sono stati ribaditi anche recentemente (Sez. III n. 35795, 17.04.2012, cui si rinvia anche per i puntuali richiami ai precedenti) ricordando che
la relazione di accompagnamento alla d.i.a. edilizia ne costituisce parte integrante ed essenziale ed ha natura di certificazione per quanto riguarda sia la descrizione dello stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, sia la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizia.
La richiamata decisione, oltre a riproporre orientamenti già consolidati, ha dunque chiarito, riproponendo le argomentazioni prospettate in una precedente pronuncia (Sez. III n. 23072, 08.06.2011, non massimata), che
la natura di certificazione deve essere riconosciuta anche alla parte progettuale della relazione allegata alla d.i.a., così superando precedenti posizioni difformi.
Va peraltro rilevato che la suddetta sentenza
individua chiaramente la d.i.a. come atto del privato che esclude la necessità di un titolo di legittimazione, rilevando che il potere di verifica dell'amministrazione «non è finalizzato all'emanazione di un provvedimento di consenso all'esercizio dell'attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione. Con la DIA, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilltà dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore».
11. Ciò posto, osserva il Collegio che
le conclusioni cui è pervenuta la sentenza 35795/2012 appaiono pienamente convincenti, in quanto frutto di un'accurata analisi della natura dell'istituto della d.i.a. edilizia e della normativa che la disciplina, all'esito della quale viene giustamente riconosciuta alla condotta del professionista abilitato una specifica rilevanza pubblicistica in ragione della assunzione di responsabilità cui è chiamato, in considerazione «del particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento».
La vicenda esaminata nella sentenza impugnata riguarda la materiale aggiunta di un testo sulla d.i.a. già presentata.
Una simile condotta, ad avviso del Collegio, una volta esclusa la natura provvedimentale della d.i.a. non può configurare il delitto di cui all'art. 476 cod. pen., in quanto il deposito presso l'ufficio competente a riceverla non le attribuisce natura di atto pubblico, mantenendo essa l'originaria caratteristica di mera dichiarazione corredata dalla relazione di asseverazione e dagli elaborati progettuali aventi valore di certificazione che ne costituiscono parte integrante. Va peraltro osservato che la decisione di questa Corte richiamata dai giudici del gravame ed emessa nell'ambito del medesimo procedimento (Sez. V n. 35153/2007, cit.) non assume alcun rilievo determinante, in quanto le conclusioni cui perviene si fondano sull'ormai minoritario indirizzo interpretativo confutato dal giudice amministrativo e sul richiamo ad altra decisione (Sez. V n. 8684, 26.02.2004) che riguarda, però, questione in parte diversa (modifica, ad opera di funzionari comunali, di domande di condono e sostituzione della documentazione allegata).
La riconducibilità delle condotte contestate all'ipotesi di cui all'art. 476 cod. pen. veniva infatti ritenuta, in quel caso, per il fatto che i documenti presentati dal privato, venendo recepiti dall'amministrazione, ricevono un contenuto aggiuntivo per effetto delle successive integrazioni di fonte pubblicistica e per tale nuovo profilo, che presenta indubbia autonomia funzionale, sono qualificabili come atti pubblici, ma nel caso esaminato l'elemento qualificante era rappresentato dall'apposizione del timbro del protocollo e sul conseguente rilievo assunto dalla soppressione della documentazione ove lo stesso era stato apposto.
La stessa sentenza, inoltre, afferma testualmente che «è fuor di dubbio che una scrittura privata o un altro documento, non costituente "ab origine" atto pubblico, non possa essere considerato tale in virtù del collegamento funzionale con l'atto cui esso mette o concorre a mettere capo ovvero assuma natura di atto pubblico, quasi che subisca una mutazione genetica, per il solo fatto che venga consegnato alla pubblica amministrazione, per effetto dell'inserimento di esso in una "pratica" il cui esito è costituito da un determinato provvedimento».
Deve dunque rilevarsi che, nella fattispecie, la materiale alterazione della d.i.a. mediante l'aggiunta manoscritta di una frase indicante lavori diversi da quelli originariamente dichiarati riguarderebbe, per quanto è dato desumere dal tenore del provvedimento impugnato, la sola descrizione dell'intervento, non viene tuttavia chiarito se l'intervento modificativo del testo abbia interessato parti del documento aventi, come si è detto in precedenza, valore di certificazione cosicché, esclusa la configurabilità del falso in atto pubblico di cui all'art. 476 cod. pen., si rende necessario l'annullamento dell'impugnata decisione sul punto affinché il giudice del rinvio, accertato preliminarmente in fatto, attraverso il diretto esame della d.i.a. e della documentazione che ne costituisce parte integrante, nella parte descrittiva delle opere da realizzare, qualifichi diversamente la condotta contestata alla luce dei principi in precedenza richiamati.
Il primo motivo di ricorso è dunque fondato e l'accoglimento del motivo consente di ritenere assorbita la questione prospettata nel secondo motivo di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.10.2013 n. 41480 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie soggette a DIA e relazione di accompagnamento.
Integra il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.) non solo la falsificazione della dichiarazione di inizio attività (cosiddetta DIA) ma anche quella riguardante la relazione di accompagnamento alla stessa, avendo essa natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.

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L'art. 481 cod. pen. punisce la condotta di colui il quale ponga in essere una falsità ideologica in certificati commessa nell'esercizio di una professione forense, sanitaria o di altro servizio di pubblica necessità.
In relazione a tale previsione sanzionatoria il Collegio ribadisce anzitutto il principio secondo il quale:
-- il progettista o, comunque, il tecnico abilitato che predispone la relazione di accompagnamento, all'interno del procedimento che la legge prescrive per la presentazione della DIA in materia edilizia, assume la qualifica di persona esercente un servizio di pubblica necessità ex art. 359 cod. pen..
L'art. 481 cod. pen. prevede, però, che la falsa attestazione dei fatti dei quali l'atto sia destinato a provare la verità sia contenuta all'interno di un "certificato" e da ciò discende la necessità di individuare se la relazione di accompagnamento alla DIA edilizia abbia o meno natura di "certificato".
Sui punto la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, con consolidato orientamento, che
costituisce "certificazione" la descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare.
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L'art. 29, 3° comma, del T.U. n. 380/2001 dispone che "Per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assuma la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 cod. pen. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all'art. 23, comma 1, l'amministrazione ne dà comunicazione al competente ordine professionale per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari".
Le previsioni anzidette devono essere lette in necessaria correlazione con quelle poste dai precedente art. 23, il quale prescrive che la DIA deve essere accompagnata da una relazione del progettista:
- "che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti" (comma 1);
- che il dirigente o responsabile dell'ufficio tecnico comunale, "in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza" (comma 6);
- che, ultimato l'intervento, "il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale ... con il quale si attesta la conformità dell'opera ai progetto presentato con la denuncia di inizio attività" (comma 7).

Il progettista, dunque, ha un duplice obbligo:
   a) redigere una relazione preventiva in cui si assume l'onere di "asseverare" tra l'altro la conformità delle opere agli strumenti urbanistici approvati e la mancanza dì contrasto con quelli adottati e con i regolamenti edilizi;
   b) rilasciare al termine dei lavori (ove non lo faccia altro tecnico abilitato) un certificato di collaudo circa la conformità di quanto realizzato al progetto iniziale.

E, quanto al primo aspetto di detta condotta doverosa, è stato esattamente osservato che
il termine "asseverare" ha il significato di "affermare con solennità", e cioè di porre in essere una dichiarazione di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto alla verità ed alla affidabilità del contenuto. Il progettista si pone come "persona esercente un servizio di pubblica necessità" proprio perché assume una posizione di particolare rilievo in un procedimento (quello di DIA) che prevede la sostituzione con una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione amministrativa comunque denominata.
La principale caratteristica della DIA, infatti, consiste nella sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione con uno schema diverso ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, con la conseguenza che per l'esercizio delle stesse non è più necessaria l'emanazione di un titolo di legittimazione.
A seguito della denuncia, il potere di verifica di cui dispone l'amministrazione -a differenza di quanto accade nel regime a previo atto amministrativo- non è finalizzato all'emanazione di un provvedimento di consenso all'esercizio dell'attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione.

Con la DIA, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore. Il ricorso al procedimento della DIA, conseguentemente, porta con sé una peculiare assunzione di responsabilità, in relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinarla, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento.
Proprio in considerazione di questo affidamento la condotta del professionista abilitato assume una specifica rilevanza pubblicistica (art. 29, comma 3, del T.U. n. 380/2001) che si connette alle previsioni dei commi 1 e 6 del precedente art. 23.
Il 6° comma dell'art. 23, in particolare, dispone che,
in caso di "falsa attestazione" del professionista, il funzionario comunale ha l'obbligo di inoltrare segnalazione informativa all'autorità giudiziaria, sicché è evidente che la "falsa attestazione" in parola, riferita dal comma 6 alla "assenza di una o più delle condizioni stabilite", risulta strettamente correlata alle prescrizioni poste dal 1° comma del medesimo art. 23, ove la relazione del progettista integra la dichiarazione stessa di inizio attività, che è atto dotato di piena autonomia.
Dalla delineata costruzione della DIA, come atto fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto qualificato, discende che
la relazione asseverativa del progettista, sulla quale si fonda dell'intermediazione dei potere autorizzatorio dell'attività dei privato da parte della pubblica amministrazione, assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi "certificativo".
In conclusione,
sulla base dell'assetto normativo vigente ed alla stregua delle argomentazioni dianzi svolte, deve ribadirsi il principio secondo il quale:
-- la relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che costituisce parte integrante ed essenziale della dichiarazione stessa di inizio dell'attività) ha natura di 'certificato' per quanto riguarda: sia la descrizione dello stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, sia la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
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Nella fattispecie in esame,
l'imputato:
-- nella relazione allegata alla DIA del 28.08.2003 ha descritto la prevista realizzazione di opere di manutenzione straordinaria e non di conservazione dello status quo di un edificio ormai sostanzialmente diruto:  in tal modo -secondo la giurisprudenza costante di questa Corte- ha reso una falsa "certificazione" riferita alla descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare.
Irrilevante è la circostanza della mancata esecuzione dei lavori denunziati (dovuta al fatto che, in seguito ad un controllo della DIA, il responsabile del procedimento aveva richiesto una relazione integrativa), poiché il reato deve ritenersi consumato con la presentazione della denuncia;

-- nella successiva relazione allegata alla richiesta di permesso di costruire ha inquadrato le opere da realizzare nella tipologia della 'ristrutturazione' a fronte di una situazione di fatto ove la realizzabilità di un intervento siffatto era vietata proprio dallo stato di rudere del fabbricato.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, invero,
la ricostruzione su ruderi costituisce sempre 'nuova costruzione', in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. In mancanza di tali elementi strutturali non é possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata.
Nella specie si é fatto surrettiziamente ricorso alla tipologia della "ristrutturazione" perché la realizzazione di una nuova costruzione residenziale non era consentita in area classificata come zona agricola dallo strumento urbanistico vigente.
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RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Bologna, con sentenza dell'11.02.2011, ha confermato la sentenza 01.02.2007 del Tribunale di Ravenna - Sezione distaccata di Lugo, che aveva affermato la responsabilità penale di Pa.Um. in ordine al delitto di cui:
-- agli artt. 81 cpv. e 481 cod. pen. [poiché -quale geometra progettista- in relazione ad un intervento edilizio di ricostruzione di un manufatto:
a) asseverava falsamente, in una DIA presentata al Comune di Lugo il 28.08.2003, che gli eseguendi lavori avrebbero riguardato la manutenzione straordinaria di un fabbricato che però era già semidemolito nel 2002 e che tale intervento non si poneva in contrasto con gli strumenti urbanistici, che invece non consentivano nuove costruzioni in area classificata come agricola;
b) in una successiva domanda di permesso di costruire per ristrutturazione, presentata il 19.12.2003, attestava falsamente resistenza del medesimo edificio ormai ridotto allo stato di rudere]; e lo aveva condannato alla pena (interamente condonata) di euro 516,00 di multa, concedendo li beneficio della non menzione.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cessazione il Pa., il quale -sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione- ha dedotto:
-- la insussistenza del reato di falso ideologico correlato alla DIA, per la mancanza di ogni intento fraudolento, in quanto la DIA presentata avrebbe rappresentato lo stato di fatto realmente esistente al momento della sua redazione e la procedura semplificata sarebbe stata utilizzata "perché i lavori che ci si apprestava ad eseguire erano essenzialmente diretti a conservare lo status quo, per poi, in un secondo momento, attraverso l'apertura di una nuova pratica edilizia ad hoc, poter procedere ah ristrutturazione ed al recupero dell'edificio";
-- la inconflgurabilità, in ogni caso, del reato di cui all'art. 481 cod. peri., riferito alla DIA, poiché la relazione ad essa allegata non avrebbe natura di "certificato", in quanto "non è destinata a provare la oggettiva verità di ciò che in essa é stato affermato e, per la parte progettuale, essa manifesta una semplice intenzione e non registra una realtà oggettiva";
-- la insussistenza anche dei reato di cui all'art. 481 cod. pen. riferito alla successiva richiesta di permesso di costruire, poiché il fabbricato era comunque ancora esistente "nei suoi tratti essenziali che lo identificavano come tale" e nella richiesta stessa veniva dato conto dei crollo parziale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perché articolato in fatto e manifestamente infondato.
2.
L'art. 481 cod. pen. punisce la condotta di colui il quale ponga in essere una falsità ideologica in certificati commessa nell'esercizio di una professione forense, sanitaria o di altro servizio di pubblica necessità.
In relazione a tale previsione sanzionatoria il Collegio -tenuto conto di quanto espressamente disposto dall'art. 29, 3° comma, del d.P.R. n. 380/2001, nonché della elaborazione giurisprudenziale già svolta da questa Corte- ribadisce anzitutto il principio secondo il quale:
-- il progettista o, comunque, il tecnico abilitato che predispone la relazione di accompagnamento, all'interno del procedimento che la legge prescrive per la presentazione della DIA in materia edilizia, assume la qualifica di persona esercente un servizio di pubblica necessità ex art. 359 cod. pen. [vedi Cass.: sez. V, 04.10.2010, n. 35615, D'Anna; 24.02.2010, n. 7408, Frigé; nonché sez. III 16.07.2010, n. 27699, Coppola; 19.01.2009, n. 1818, Baldessari].
3.
L'art. 481 cod. pen. prevede, però, che la falsa attestazione dei fatti dei quali l'atto sia destinato a provare la verità sia contenuta all'interno di un "certificato" e da ciò discende la necessità di individuare se la relazione di accompagnamento alla DIA edilizia abbia o meno natura di "certificato".
Sui punto la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, con consolidato orientamento, che
costituisce "certificazione" la descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare [Cass.: sez. V, n. 35615/2010, D'Anna; sez. III, n. 27699/2010, Coppola.
3.1 Tesi non convergenti sono state espresse, invece, quanto alla parte progettuale della relazione allegata da DIA edilizia.
In relazione a tale parte del documento si era sostenuto, infatti, che essa rifletterebbe non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione dell'interessato di realizzare le opere in essa descritte ed ancora inesistenti e, per quanto riguarda l'eventuale attestazione dell'assenza di vincoli, solamente un giudizio espresso dal dichiarante, come tale non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri [vedi Cass., sez. V: n. 7408/2010, Frigè; 03.05.2005, n. 24562, Mazzoni; 26.04.2005, n. 23668, Giordano; sez. III, n. 27699/2010, Coppola].
A divergenti conclusioni é pervenuta, invece, questa Sezione -con la più recente sentenza 08.06.2011, n. 23072, Lacorte- ove, in adesione alle argomentazioni svolte nella sentenza 19.01.2009, n. 1818, Baldessari, è stato evidenziato che, dalla lettura coordinata e sistematica della normativa di riferimento (art. 23, commi 1 e 6, e art. 29, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001), emerge un ''sostanziale affidamento" riposto dall'ordinamento sulla relazione tecnica che accompagna Il progetto e sulla sua veridicità, atteso che "quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento". In tale prospettiva la relazione dei tecnico abilitato costituisce un atto non solo idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio dell'attività, ma anche dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico, assumendo valore sostitutivo del titolo edilizio abilitante e quindi certificativo.
3.2 Quanto alla dichiarazione dl conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti -a fronte dell'orientamento secondo il quale si tratterebbe soltanto di un mero giudizio del dichiarante- la stessa è stata ricondotta, invece, all'attività certificativa già da Cass., sez. III, n. 27699/2010, Coppola.
4. Ribadisce il Collegio le argomentazioni svolte nella sentenza n. 23072/2011, Lacorte.
In tale sentenza è stato condivisibilmente evidenziato che
l'art. 29, 3° comma, del T.U. n. 380/2001 dispone che "Per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assuma la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 cod. pen. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all'art. 23, comma 1, l'amministrazione ne dà comunicazione al competente ordine professionale per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari".
Le previsioni anzidette devono essere lette in necessaria correlazione con quelle poste dai precedente art. 23, il quale prescrive che la DIA deve essere accompagnata da una relazione del progettista:
- "che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti" (comma 1);
- che il dirigente o responsabile dell'ufficio tecnico comunale, "in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza" (comma 6);
- che, ultimato l'intervento, "il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale ... con il quale si attesta la conformità dell'opera ai progetto presentato con la denuncia di inizio attività" (comma 7).

Il progettista, dunque, ha un duplice obbligo:
a) redigere una relazione preventiva in cui si assume l'onere di "asseverare" tra l'altro la conformità delle opere agli strumenti urbanistici approvati e la mancanza dì contrasto con quelli adottati e con i regolamenti edilizi;
b) rilasciare al termine dei lavori (ove non lo faccia altro tecnico abilitato) un certificato di collaudo circa la conformità di quanto realizzato al progetto iniziale.

E, quanto al primo aspetto di detta condotta doverosa, è stato esattamente osservato che
il termine "asseverare" ha il significato di "affermare con solennità", e cioè di porre in essere una dichiarazione di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto alla verità ed alla affidabilità del contenuto. Il progettista si pone come "persona esercente un servizio di pubblica necessità" proprio perché assume una posizione di particolare rilievo in un procedimento (quello di DIA) che prevede la sostituzione con una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione amministrativa comunque denominata.
La principale caratteristica della DIA, infatti, consiste nella sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione con uno schema diverso ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, con la conseguenza che per l'esercizio delle stesse non è più necessaria l'emanazione di un titolo di legittimazione.
A seguito della denuncia, il potere di verifica di cui dispone l'amministrazione -a differenza di quanto accade nel regime a previo atto amministrativo- non è finalizzato all'emanazione di un provvedimento di consenso all'esercizio dell'attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione.

Con la DIA, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore. Il ricorso al procedimento della DIA, conseguentemente, porta con sé una peculiare assunzione di responsabilità, in relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinarla, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento.
Proprio in considerazione di questo affidamento la condotta del professionista abilitato assume una specifica rilevanza pubblicistica (art. 29, comma 3, del T.U. n. 380/2001) che si connette alle previsioni dei commi 1 e 6 del precedente art. 23.
Il 6° comma dell'art. 23, in particolare, dispone che,
in caso di "falsa attestazione" del professionista, il funzionario comunale ha l'obbligo di inoltrare segnalazione informativa all'autorità giudiziaria, sicché è evidente che la "falsa attestazione" in parola, riferita dal comma 6 alla "assenza di una o più delle condizioni stabilite", risulta strettamente correlata alle prescrizioni poste dal 1° comma del medesimo art. 23, ove la relazione del progettista integra la dichiarazione stessa di inizio attività, che è atto dotato di piena autonomia.
Dalla delineata costruzione della DIA, come atto fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto qualificato, discende che
la relazione asseverativa del progettista, sulla quale si fonda dell'intermediazione dei potere autorizzatorio dell'attività dei privato da parte della pubblica amministrazione, assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi "certificativo".
4.1 In conclusione,
sulla base dell'assetto normativo vigente ed alla stregua delle argomentazioni dianzi svolte, deve ribadirsi il principio secondo il quale:
-- la relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che costituisce parte integrante ed essenziale della dichiarazione stessa di inizio dell'attività) ha natura di 'certificato' per quanto riguarda: sia la descrizione dello stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, sia la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.

5. Nella fattispecie in esame,
l'imputato:
-- nella relazione allegata alla DIA del 28.08.2003 ha descritto la prevista realizzazione di opere di manutenzione straordinaria e non di conservazione dello status quo di un edificio ormai sostanzialmente diruto:  in tal modo -secondo la giurisprudenza costante di questa Corte- ha reso una falsa "certificazione" riferita alla descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare.
Irrilevante è la circostanza della mancata esecuzione dei lavori denunziati (dovuta al fatto che, in seguito ad un controllo della DIA, il responsabile del procedimento aveva richiesto una relazione integrativa), poiché il reato deve ritenersi consumato con la presentazione della denuncia;

-- nella successiva relazione allegata alla richiesta di permesso di costruire ha inquadrato le opere da realizzare nella tipologia della 'ristrutturazione' a fronte di una situazione di fatto ove la realizzabilità di un intervento siffatto era vietata proprio dallo stato di rudere del fabbricato.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, invero,
la ricostruzione su ruderi costituisce sempre 'nuova costruzione', in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. In mancanza di tali elementi strutturali non é possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata [vedi Cass., Sez. III: 21.10.2008, n. 42521, Valeri; 24.09.2008, n. 36542, Verdi; 23.01.2007, Meli; 13.01.2006, Polverino, 0402..2003, Pellegrino e 20.02.2001, Perfetti; nonché C. Stato, Sez. IV: 26.02.2008, n. 681; 15.09.2006, n. 5375 e C. Stato, Sez. V: 28.05.2004, n. 3452; 15.04.2004, n. 2142; 01.12.1999, n. 2021; 04.08.1999, n. 398; 10.03.1997, n. 2401].
Nella specie si é fatto surrettiziamente ricorso alla tipologia della "ristrutturazione" perché la realizzazione di una nuova costruzione residenziale non era consentita in area classificata come zona agricola dallo strumento urbanistico vigente.
6.
Quanto alla individuazione dello stato di 'rudere' del manufatto, i giudici del merito, con argomentazioni puntualmente riferite agli elementi di prova raccolti (in particolare al sopralluogo effettuato dai vigili edilizi il 16.01.2004), hanno accertato che il tetto non era più esistente e si intravvedevano solo tracce di muri perimetrali.
Il ricorso si limita a confutare tale ricostruzione della vicenda senza alcuna specificazione tecnica, svolgendo censure in fatto del provvedimento impugnato.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio non sono proponibili -però- nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi di prova acquisiti, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito dei provvedimento impugnato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.09.2012 n. 35795 - tratta da www.lexambiente.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 04.04.2016, "Secondo aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 30.03.2016 n. 2278).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 13 dell'01.04.2016, "Legge europea regionale 2016. Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione Lombardia derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea" (L.R. 30.03.2016 n. 8).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Antimafia – Domanda di iscrizione alle white list – Circolare ministeriale (ANCE di Bergamo, circolare 01.04.2016 n. 85).

VARI: Oggetto: Omicidio stradale - pene più severe per i conducenti professionali (ANCE di Bergamo, circolare 01.04.2016 n. 84).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Validità dei provvedimenti dell’Albo Nazionale Gestori Ambientali e modalità di compilazione del formulario di identificazione rifiuti (ANCE di Bergamo, circolare 01.04.2016 n. 82).

VARI: OGGETTO: Interventi di ristrutturazione edilizia – Bonus mobili per giovani coppie (Agenzia delle Entrate, circolare 31.03.2016 n. 7/E).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: Project financing: le linee guida dei Commercialisti (IPSOA, 31.03.2016).

LAVORI PUBBLICI: Project Financing e partenariato pubblico privato: aspetti normativi e linee guida operative (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed egli Esperti Contabili, marzo 2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. L. Maddalena, Il punto sul danno da ritardo - Rassegna monotematica di giurisprudenza (aggiornata ad aprile 2014) (tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. La disciplina del danno da ritardo: dalla l. 18.06.2009, n. 69 al codice del processo amministrativo. 2. Le prime aperture della giurisprudenza amministrativa sul danno da ritardo mero. 3. Lo stato attuale della giurisprudenza. 3.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: un principio solo in parte acquisito dalla giurisprudenza. 3.2. L’onere della prova e la possibilità di ricorrere alla liquidazione equitativa. 3.3. Recenti orientamenti sulla possibilità di trattare la domanda risarcitoria in camera di consiglio, congiuntamente alla domanda di cui all’art. 117 c.p.a. 3.4. La determinazione dei danni risarcibili.

A.N.AC. (già AUTORITA' NAZIONALE CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIAppalti pre-commerciali per la sanità e l'energia. Non seguono il codice dei contratti. Chiarimenti dell'Anac.
La procedura dell'appalto pre-commerciale, caratterizzata dall'aleatorietà dei risultati e dall'esclusione dall'applicazione delle regole del codice dei contratti pubblici, è strumento di particolare efficacia nei settore della sanità e dell'efficienza energetica; caratteristiche peculiari sono l'aleatorietà dei risultati e il cofinanziamento da parte del privato.

Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato del Presidente 09.03.2016 (Oggetto: ambito oggettivo degli appalti pubblici pre-commerciali e disciplina di riferimento) che prende in esame i cosiddetti appalti pre-commerciali, quegli appalti pubblici esclusi dall'applicazione delle procedure di affidamento previste dal codice dei contratti pubblici, che tipicamente hanno ad oggetto servizi di ricerca e sviluppo tecnologico.
L'Anac chiarisce che fra tutti i servizi di ricerca e sviluppo gli appalti pre-commerciali si distinguono per alcune peculiarità: la condivisione dei rischi e dei benefici alle condizioni di mercato tra acquirente pubblico e soggetti aggiudicatari per lo sviluppo di soluzioni innovative, non già presenti sul mercato; la clausola di non esclusiva, in funzione della quale la stazione appaltante non riserva al suo uso esclusivo i risultati derivanti dalle attività di ricerca e sviluppo e il cofinanziamento da parte delle imprese aggiudicatarie.
L'aleatorietà del raggiungimento dello scopo obiettivamente e intrinsecamente aleatorio (non deve sussistere certezza dell'effettiva riuscita della ricerca) e non possono essere diretti alla realizzazione di soluzioni la cui ripetibilità è assicurata dall'esistenza di soluzioni offerte dal mercato già prima dell'indizione della gara; essi devono essere rivolti, infatti, allo sviluppo di una soluzione non disponibile o non pienamente disponibile sul mercato.
Più precisamente, con l'appalto pre-commerciale la ricerca è mirata a un progetto altamente innovativo, più difficile da gestire rispetto a situazioni nelle quali l'elemento della innovatività è presente ma assai limitato; si tratta, dice l'Anac, di appalti che si realizzano «in un progresso scientifico ottenuto nei vari campi delle scienze naturali o sociali nelle tre aree della ricerca e sviluppo, ovvero: ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo sperimentale».
Non rientrano invece nella categoria di appalto pre-commerciale quei servizi di ricerca e sviluppo che sono svolti in modo permanente e sono funzionali all'esercizio delle attività ordinarie della pubblica amministrazione, come i servizi di consulenza, di formazione e ausili che soggiacciono all'applicazione delle ordinarie regole del codice previste per gli appalti di servizi.
Il comunicato del presidente dell'Anac, Raffaele Cantone chiarisce che la procedura di appalto pre-commerciale non può essere ammessa allorché l'appalto risulti finalizzato in prevalenza all'acquisto di forniture o lavori di ricerca e sviluppo e non già di servizi di R&S, nell'ambito dei quali l'oggetto della prestazione è rappresentato dallo svolgimento di attività di ricerca e sperimentazione o quando il valore dei prodotti oggetto delle attività di ricerca sia prevalente, cioè superiore al 50% del valore dell'appalto del servizio di R&S. In questo casi, si devono applicare le regole ordinarie.
Invece per gli appalti pre-commerciali si devono applicare i principi comunitari di apertura alla concorrenza, non discriminazione, economicità, efficacia, concorrenza, parità di trattamento e imparzialità, trasparenza e pubblicità e proporzionalità (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIRevisore ed eletto? Deve essere pagato. Dalla Corte dei conti, no all'incarico gratuito.
Il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni ai soggetti titolari di cariche elettive, previsto dall'art. 5, c. 5, del dl n. 78/2010, non si applica agli incarichi che la legge rende obbligatori, quali i componenti dei collegi dei revisori dei conti degli enti locali.

È questo il principio che viene fuori dalla lettura della deliberazione 31.03.2016 n. 11 che la sezione delle autonomie della Corte dei conti ha pubblicato ieri, facendo chiarezza sulle disposizioni di contenimento della spesa pubblica contenute nella norma sopra evidenziata e alla luce dell'interpretazione autentica fornita con l'art. 35, comma 2-bis, del dl n. 5/2012.
Come noto, nel 2010 il legislatore varò una serie di norme che stringevano i cordoni della borse dell'alveo della pubblica amministrazione. Tra queste, quella che prevede la gratuità dello svolgimento dell'incarico conferito dalle p.a. nei confronti dei titolari di cariche elettive, che può dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute.
Sulla scorta di questa norma, un comune ha chiesto alla Corte la corretta procedura da adottare, posto che un suo revisore svolge la funzione di consigliere comunale in altro ente locale.
Su questa prospettiva, la Corte ha ricordato come, con il dlgs 138/2011, sia cambiato il sistema di reclutamento dell'organo di revisione, passando da una nomina intuitu personae ad un'estrazione da un albo tenuto presso tutte le prefetture, fermo restando il possesso di specifici requisiti professionali. Oltre a questo profilo, la Corte sottolinea che l'art. 35, comma 2-bis, dl 5/2012 prevede che il carattere onorifico della partecipazione agli organi collegiali è previsto «per gli organi diversi dai collegi dei revisori dei conti e sindacali e dai revisori dei conti».
Una disposizione che, si sottolinea, conferisce una connotazione specifica assoluta a tali incarichi. Connotazione che trova ragione e fondamento nella disciplina legale del conferimento e dello svolgimento dei predetti incarichi compresa, per i revisori, la determinazione del loro compenso ex art. 241 Tuel.
In definitiva, il revisore dei conti di un comune, nominato successivamente sia all'entrata in vigore dell'art. 5, comma 5, del dl 78/2010 che al nuovo sistema di reclutamento degli organi di revisione negli enti locali, ha diritto a percepire il compenso professionale determinato dall'articolo 241 Tuel, anche nel caso svolga una funzione elettiva in altro ente locale (articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).
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MASSIMA
Questione di massima sulla corretta interpretazione della disciplina vincolistica contenuta nell'art. 5, comma 5, d.l. n. 78/2010.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto con deliberazione n. 569/2015/QMIG, pronuncia il seguente principio di diritto: “
La disciplina vincolistica contenuta nell'art. 5, comma 5, decreto–legge n. 78/2010 si riferisce a tutte le ipotesi di incarico, comunque denominato.
Tuttavia, in forza di un’interpretazione sistematica che tenga conto della norma di interpretazione autentica di cui all’ art. 35, co. 2-bis del d.l. 09.02.2012, n. 5 (convertito dalla legge 04.04.2012, n. 35) è possibile configurare una eccezione al principio di tendenziale gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni ai titolari di cariche elettive.
Tale eccezione è da intendersi riferibile alla sola tipologia di incarichi obbligatori ex lege espressamente indicati dalla predetta norma (collegi dei revisori dei conti e sindacali e revisori dei conti).
Il revisore dei conti di un Comune, nominato successivamente sia all'entrata in vigore dell'art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010 sia al nuovo sistema di nomina dell'organo di revisione degli Enti locali, ha diritto a percepire il compenso professionale ai sensi dell'art. 241 del TUEL nel caso in cui sia Consigliere comunale in altra Provincia
”.

TRIBUTI: Baratto amministrativo limato. No all'applicazione quando si tratta di debiti pregressi. Dai giudici contabili emiliani i paletti sullo scambio tasse-lavori di pubblica utilità.
Le forme di riduzione di imposte e tasse locali in cambio di lavori eseguiti per la collettività, meglio note come «baratto amministrativo», non possono riguardare debiti pregressi che i cittadini hanno maturato nei confronti dell'ente locale.
Inoltre, è necessario che sussista un rapporto di stretta inerenza tra le riduzioni dei tributi che il comune può deliberare e le attività di valorizzazione del territorio e che queste siano concesse per un periodo limitato. Infine, le agevolazioni possono essere indistintamente concesse ad associazioni di cittadini che singoli utenti amministrati.

È quanto ha reso noto l'interessante
parere 23.03.2016 n. 27 emanato dalla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l'Emilia Romagna, con il quale, per la prima volta sul panorama consultivo, si interviene a chiarire ambito e portata delle disposizioni innovative contenute all'articolo 24 del decreto legge n. 133/2014, che disciplina le misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione dei territori.
Come noto, con tale disposizione, i comuni possono definire, con apposita regolamentazione, interventi di decoro urbano, pulizia e manutenzione di aree verdi, strade o beni immobili inutilizzati, su progetti presentati da cittadini singoli o associati, al fine di vedersi riconosciuta una esenzione o una riduzione sui tributi inerenti il tipo di attività posta in essere.
In risposta al comune di Bologna, la Corte emiliana ha pertanto precisato che il «baratto amministrativo» può aver luogo solo con un atto deliberativo dell'ente locale che fissi i criteri e le modalità di svolgimento, secondo la «traccia» che il legislatore ha messo nero su bianco nel citato articolo 24 del dl n. 133/2014.
È altresì pacifico, poi, che per la concessione di esenzioni o riduzioni deve sussistere un rapporto di stretta inerenza tra queste e le attività di cura e manutenzione del territorio. Detto in soldoni, un'attività di pulizia e manutenzione di un'area verde andrà ad incidere sull'ammontare della tariffa rifiuti e non certo sul canone di occupazione degli spazi pubblici.
Non è altresì possibile, poi, che la regolamentazione del baratto si protragga «sine die». Come prescrive la legge, infatti, l'esenzione o la riduzione del pagamento dei tributi locali può essere concessa solo per un periodo definito di tempo e per determinate attività, in ragione «dell'esercizio sussidiario della stessa attività». Inoltre, precisa il parere, anche se la norma, nell'indicare i destinatari dei benefici, utilizza l'avverbio «prioritariamente» per le comunità di cittadini, nulla vieta che l'ente locale possa permettere anche a singoli cittadini la concessione del baratto, dietro la presentazione di un progetto valido.
Sulla specificità dell'oggetto del baratto, ovvero la temporanea riduzione o esenzione di imposte locali, la Corte è stata categorica. In dettaglio, il minor gettito è quello che viene già definito negli stanziamenti dei bilanci di previsione degli enti che hanno adottato il baratto amministrativo. In nessun caso è pertanto ammissibile che si possa consentire la riduzione di tasse ed imposte locali afferenti a esercizi finanziari precedenti.
In primo luogo, perché difetterebbe il requisito dell'inerenza tra agevolazione tributaria e tipologia di attività svolta dai cittadini amministrati. Poi, perché una simile prospettiva determinerebbe effetti pregiudizievoli sugli equilibri di bilancio dell'ente, in considerazione che i debiti tributari dei cittadini vengono iscritti tra i residui attivi dell'ente (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).

TRIBUTI: Stop al «baratto» senza regolamento. Tasse locali. Corte dei conti dell’Emilia.
Il baratto amministrativo deve essere disciplinato dall'apposito regolamento comunale e non può riguardare i debiti pregressi dei contribuenti.
Lo ha chiarito la Corte dei Conti Emilia Romagna con il parere 23.03.2016 n. 27, definendo i contorni di applicabilità dell'articolo 24 del Dl 133/2014, che consente ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi a fronte di interventi per la riqualificazione del territorio, da parte di cittadini o associazioni. Si tratta di uno strumento che consente ai cittadini che non riescono a far fronte al pagamento dei tributi comunali di ottenere sconti prestando ore di lavoro in favore della comunità.
Sul nuovo istituto è intervenuto l'IFEL (fondazione dell'Anci) con due note del 16.10.2015 (si veda Il Quotidiano Enti Locali & Pa del 20/10/2015) e del 22.10.2015 (si veda Il Quotidiano Enti Locali & Pa del 27/10/2015), che vengono ora prese in esame dalla Corte dei Conti Emilia Romagna considerando corretta solo la prima versione, la più restrittiva.
I giudici contabili evidenziano in primo luogo che il principio dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria è derogabile solo in forza di una disposizione di legge, che nel caso del baratto amministrativo è l'articolo 24 del Dl 133/2014. L'agevolazione tributaria può essere quindi applicata entro limiti ben circoscritti, attraverso l'adozione di un apposito regolamento comunale ai sensi dell'articolo 52 del Dlgs 446/1997.
Pertanto, non è possibile introdurre il baratto amministrativo con una semplice delibera di Giunta ma occorre seguire la via regolamentare, con l'ulteriore conseguenza che la delibera deve essere approvata entro il termine fissato per l'adozione del bilancio, altrimenti ha efficacia a partire dall'anno successivo.
Inoltre, dal punto di vista del contenuto del regolamento, è necessario che lo stesso individui “criteri” e “condizioni” in base ai quali i cittadini, singoli o associati, possano presentare progetti relativi ad interventi di riqualificazione del territorio. Interventi che possono riguardare solo ed esclusivamente quelli previsti dalla legge, tra cui “la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade, ovvero interventi di decoro urbano” e “la valorizzazione di una limitata zona del territorio”.
Deve poi sussistere un rapporto di stretta inerenza tra le esenzioni e/o le riduzioni di tributi che il comune può deliberare e le attività che i cittadini possono realizzare.
Infine, i giudici contabili precisano che non è possibile utilizzare il baratto amministrativo per i debiti pregressi dei contribuenti, trattandosi di un'ipotesi che: 1) non rientra nell'ambito di applicazione della norma, difettando il requisito dell'inerenza tra l'agevolazione tributaria e l'attività posta in essere dal cittadino; 2) potrebbe determinare effetti pregiudizievoli sugli equilibri di bilancio, considerato che si tratta di debiti ormai confluiti nella massa dei residui attivi dell'ente.
In definitiva la Corte dei Conti Emilia Romagna delinea un modello di baratto amministrativo disatteso dalla maggior parte dei Comuni, specie da quelli che hanno individuato nelle morosità pregresse (anche incolpevoli) l'oggetto principale del nuovo istituto. Comuni che ora dovrebbero rivedere le proprie scelte, se non vogliono rischiare di essere chiamati a rispondere di danno erariale
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa p.a. morosa non può assumere. Decisione della corte dei conti umbra.
Divieto di procedere ad assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, per le amministrazioni pubbliche che registrano un indice dei tempi medi di pagamento superiore a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a decorrere dal 2015.

Questo è il principio di diritto affermato dalla Corte dei conti, sezione Umbria (parere 12.11.2015 n. 148), in risposta al parere del Comune di Terni.
Quest'ultimo infatti chiedeva alla Corte dei conti se ai fini dell'assunzione, tramite concorso, di personale non amministrativo dei servizi scolastici ed educativi, tra le «limitazioni assunzionali vigenti» rientrava anche quella prevista dall'articolo 41, 2° comma, del dl 66/2014 (mancato rispetto per l'anno 2014 dell'indicatore dei tempi medi nei pagamenti).
Ricordano i giudici della Corte di conti che la ratio del legislatore, quale traspare dalla formulazione letterale della norma citata («nel rispetto delle limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti»), deve essere intesa nel senso che la facoltà di «indire le procedure concorsuali per il reclutamento a tempo indeterminato di personale in possesso di titoli di studio specifici abilitanti o in possesso di abilitazioni professionali necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei servizi educativi e scolastici, con esclusione del personale amministrativo, oltre alle condizioni espressamente richiamate nella richiesta di parere ossia: l'esaurimento delle graduatorie vigenti, l'assenza di figure professionali idonee tra le unità soprannumerarie «destinatarie dei processi di mobilità», debba svolgersi nel rispetto di tutte le limitazioni (anche di natura finanziaria) previste dalla normativa vigente in materia di assunzione di personale.
Tra dette limitazioni non può ritenersi esclusa quella prevista dall'art. 41, comma 2, del dl 66/2014, convertito in legge 89/2014, che sanziona con il divieto di procedere ad assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, nell'anno successivo a quello di riferimento, le amministrazioni pubbliche che non rispettano i tempi di pagamento (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a. morose assumono.
In merito all'articolo pubblicato ieri su ItaliaOggi a pag. 39 dal titolo «La p.a. morosa non può assumere», che commenta la decisione n. 148 della sezione Umbria della Corte dei conti, adottata in data 11 novembre, e riferita all'art. 42, comma 2, del decreto legge numero 66 del 2014 (c.d. decreto Renzi o decreto Irpef/80 euro), si precisa che tale norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Suprema corte con sentenza 01/22.12.2015, pubblicata in G.U. n. 52 del 30/12/2015, per cui è venuto meno il divieto di procedere ad assunzioni di personale per le amministrazioni che presentano un indice dei tempi medi di pagamento superiore a 60 giorni.
Ci scusiamo con i lettori per l'imprecisione (articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazioni, atto dovuto. Al presidente spettano solo le verifiche formali. Obbligatorio riunire il consiglio salvo che non si tratti di oggetto illecito.
Che cosa deve intendersi per «convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri», prevista dall'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?

L'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 prescrive che il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste.
La giurisprudenza prevalente in materia ha affermato che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea, in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Pertanto, in base a tale consolidato orientamento giurisprudenziale, le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sono la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell'art. 42 del Tuel, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell'adozione di un provvedimento finale. Il consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di controllo politico-amministrativo sull'attività del comune, nel cui ambito rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato della giunta (conforme, Tribunale di giustizia amministrativa di Trento n. 20/2010 del 14.01.2010, che ha ritenuto legittima la richiesta di convocazione del consiglio comunale da parte di un quinto dei consiglieri).
La norma pare, quindi, configurare un obbligo del presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell'organo assembleare, per la trattazione da parte del consiglio delle questioni richieste, senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
Nella fattispecie in esame, il regolamento del consiglio comunale stabilisce che i consiglieri comunali hanno diritto di iniziativa su ogni argomento sottoposto alla deliberazione del consiglio e esercitano tale diritto, tra l'altro, mediante la presentazione di proposte di deliberazione. Le disposizioni regolamentari, inoltre, ribadiscono l'obbligo sancito dall'articolo 39, comma 2, e dall'art. 43, comma 1, del Tuel di riunire il consiglio, in un termine non superiore ai 20 giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri. Nel caso di specie l'attenzione va, quindi, trasferita alla natura degli argomenti per i quali è richiesto l'inserimento all'ordine del giorno da parte dei consiglieri, al fine di verificarne l'eventuale estraneità alle competenze del collegio.
In tal senso, ferma restando la generale responsabilità del consiglio comunale, nell'ipotesi in esame potrà sempre essere esercitata dal segretario comunale la funzione, prevista dallo statuto comunale e dal regolamento consiliare, di esprimere il proprio parere sulla competenza del consiglio a trattare l'argomento (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione è tenuto a procedere nei confronti del RUP a seguito di una segnalazione che contesti il modo e la scelta delle ditte invitate a una procedura in economia?
IL CASO: il Responsabile del servizio manutenzioni ha affidato, mediante trattativa privata, previo invito a cinque imprese, il secondo lotto dei lavori di completamento della pubblica illuminazione di una strada. L'affidamento è stato disposto a favore dell'impresa già aggiudicataria del primo lotto, che ha effettuato un ribasso inferiore al 7%.
Un'impresa che, pochi mesi prima, era rimasta aggiudicataria di lavori analoghi per un ribasso superiore al 50%, non essendo stata invitata alla trattativa in questione ha presentato al RPC una segnalazione di irregolarità per quanto concerne la formazione, a cura del RUP, dell'elenco ditte, e per quanto concerne l'affidamento da parte del Responsabile del servizio manutenzioni a favore dell’impresa già aggiudicatarie del primo lotto.

(Risponde l’Avv. Nadia Corà)
A fronte di segnalazioni da parte di dipendenti comunali o, come nel caso di specie, da parte di terzi, il RPC è tenuto ad aprire un procedimento volto a verificare la consistenza della segnalazione pervenuta. Il RPC, laddove risulti la fondatezza della segnalazione, è tenuto a dar corso all’apertura del procedimento disciplinare e/o alla trasmissione degli atti alle Autorità competenti (ad es. al Nucleo/OIV, alla Procura CdC, alla Procura della Repubblica) per l’accertamento dei profili di responsabilità di rispettiva competenza (responsabilità dirigenziale, erariale, penale).
Nel caso di specie, la segnalazione proveniente dall’impresa esclusa dall'elenco ditte, e già aggiudicataria, pochi mesi prima, di lavori analoghi con un ribasso superiore del 50%, deve essere oggetto di attenta analisi da parte del RPC, tenuto conto che, laddove la segnalazione risulti fondata, il danno per il Comune, derivante da impossibilità di conseguire un’offerta economicamente migliore, dovrebbe considerarsi sussistente, e la colpa grave del RUP e del Responsabile del settore manutenzioni difficilmente potrebbe essere esclusa.
Tanto va rilevato in considerazione del fatto che, in questo caso, il RUP e il Responsabile del settore manutenzioni non potevano non conoscere l’interesse alla partecipazione dell'impresa segnalante che, con la sua partecipazione, avrebbe potuto consentire al Comune una più che probabile economia di spesa, tenuto conto del ribasso di oltre il 50% già offerto su lavori analoghi pochi mesi prima.
Si evidenzia, inoltre, che nel caso di specie, trattandosi di un secondo lotto di lavori, non c'è dubbio che esso avrebbe dovuto essere affidato unitamente al primo e, laddove l'affidamento unitario avesse determinato il superamento della soglia per consentire la trattativa privata, il RUP e il Responsabile avrebbero dovuto disporre l'affidamento mediante procedura aperta, potendosi in astratto configurare un’artificiosa suddivisione dell'appalto al solo fine di consentire una procedura in deroga all'evidenza pubblica. Né, ad escludere quanto in precedenza detto, vale l’eventuale circostanza che soltanto il primo lotto sia stato inserito nel piano triennale dei lavori pubblici ai fini della programmazione, circostanza, questa, che non fa venire meno l’unicità dell’intervento.
In definitiva, il RPC, indipendentemente dall'eventuale errore di programmazione, deve verificare se sono stati violati il divieto di artificioso frazionamento delle opere e il divieto di affidamento a trattativa privata di un secondo lotto funzionale, ribaditi da numerose deliberazioni dell’Autorità di Vigilanza. Il RPC deve altresì esaminare le concrete modalità di svolgimento della procedura di trattativa privata e, in particolare, i tempi che sono stati stabiliti per la presentazione delle offerte al fine di verificare se sono stati così ristretti da rendere praticamente quasi impossibile la partecipazione, esaminando, a tal fine, il numero delle offerte effettivamente pervenute al protocollo del Comune rispetto al numero delle imprese invitate.
In tal caso va ricordato che, realizzando la violazione delle regole della concorrenza e della trasparenza, un vulnus all’obbligo di servizio del dirigente preposto, per “danno alla concorrenza”, vi è l'obbligo di segnalazione alla Procura regionale della Corte dei conti (tratto dalla newsletter 31.03.2016 n. 143 di http://asmecomm.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Corresponsione, da parte del Comune, degli onorari al proprio legale. Necessità o meno che la parcella sia vistata dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati. Passività pregresse.
1) La parcella del legale è svincolata dalla liquidazione compiuta dal giudice; pertanto il difensore della parte vittoriosa potrebbe richiedere un compenso diverso da quello liquidato giudizialmente.
2) Quanto alla maggior somma richiesta dal legale al proprio cliente si tratta di verificare se tali importi costituiscano somme conseguenti alla sentenza o di maggiore parcella legata ad attività ulteriori non conosciute né conoscibili dal giudice.
3) L'Ente locale prima di procedere al pagamento della parcella presentata dal proprio difensore ha il dovere di esaminare la documentazione relativa all'attività svolta dal difensore per valutarne la congruità.
4) Circa quale sia la corretta procedura per l'imputazione in bilancio dei maggiori oneri relativi ad una parcella professionale presentata, a conclusione di un giudizio, dall'avvocato incaricato della difesa del Comune si contrappongono la teoria la quale afferma che la maggiore spesa tra quanto originariamente impegnato dall'Ente e l'importo finale della parcella presentata dal professionista costituisce debito fuori bilancio e quella che, invece, ritiene sufficiente, per sanare la maggiore spesa, effettuare un impegno residuale nell'esercizio in cui viene richiesto il pagamento (teoria delle passività pregresse).

Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere in merito alle spese da corrispondere al legale che lo ha assistito in una causa giudiziale ed a come le stesse debbano essere contabilizzate.
Più in particolare, riferisce che il giudice d'appello ha condannato le controparti alla rifusione delle spese di lite per entrambi i gradi di giudizio in favore dell'amministrazione comunale. A seguito di un tanto il legale ha emesso la relativa fattura di importo corrispondente alle spese come liquidate dal giudice, maggiorate di una ulteriore somma. Precisa l'Ente che quanto richiesto dal legale è di importo superiore alla cifra impegnata all'origine della causa dall'amministrazione comunale. Tale somma, rispetto al preventivo di massima rilasciato dall'avvocato in sede di attribuzione dell'incarico e sulla cui base era stato fatto l'impegno di spesa, era stata adeguata in corso di causa agli importi come successivamente comunicati dal difensore del Comune.
[1]
Atteso un tanto, l'Ente chiede se vada riconosciuto l'intero importo richiesto dal legale; se la parcella dell'avvocato debba o meno essere vistata dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati e se la maggiore somma da liquidare, rispetto a quella già impegnata, costituisca passività pregressa.
Sentito il Servizio finanza locale, per la parte di relativa competenza, si esprimono le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si osserva che, ai sensi dell'articolo 91, comma 1, c.p.c., il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte, liquidandone l'ammontare insieme con gli onorari di difesa.
In linea generale si rileva, altresì, che la parcella del legale è svincolata dalla liquidazione compiuta dal giudice. Il difensore della parte vittoriosa potrebbe richiedere un compenso diverso da quello liquidato giudizialmente. A sostegno di un tanto depone l'articolo 2 del D.M. 08.04.2004, n. 127 (Regolamento recante determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali, in materia civile, amministrativa, tributaria, penale e stragiudiziali', il quale recita: 'Gli onorari e i diritti sono sempre dovuti all'avvocato dal cliente indipendentemente dalle statuizioni del giudice sulle spese giudiziali' nonché l'articolo 61, secondo comma, del r.d.l. 27.11.1933, n. 1578, il quale prevede espressamente la possibilità che venga richiesto al cliente un onorario maggiore di quello liquidato a carico della parte soccombente.
[2]
Quanto alla maggior somma richiesta dal legale al proprio cliente si tratta di verificare se tali importi costituiscano somme conseguenti alla sentenza o di maggiore parcella legata ad attività ulteriori non conosciute né conoscibili dal giudice.
Nel primo caso, si tratta di somme che non possono essere liquidate dal giudice al momento della pronuncia essendo esse consequenziali alla stessa. Tra queste spese rientrano, ad esempio, quelle per la carta bollata adoperata e per i diritti relativi alla pubblicazione della sentenza nonché quelle relative al rilascio di copie o alla eventuale apposizione della formula esecutiva. Vi rientrano, altresì, quelle che la parte affronta per la registrazione della sentenza le quali, sebbene successive alla pronuncia, ne dipendono direttamente e non possono non seguire le sorti delle spese del giudizio. Come affermato dalla giurisprudenza, tali spese 'rientrano automaticamente tra quelle conseguenti alla decisione, senza che sia necessaria al riguardo un'espressa statuizione del giudice'.
[3] Tali somme vanno ricomprese tra le spese di lite e sono dovute al legale che le ha sostenute. Dette somme, oltretutto, vanno poste a carico della parte soccombente proprio in quanto spese conseguenti alla sentenza. [4]
Nel caso in cui, invece, l'importo richiesto dall'avvocato costituisca una maggiore parcella, rispetto a quanto liquidato dal giudice, al fine di valutare se lo stesso sia o meno dovuto dal cliente, bisogna, in primis, valutare se, all'inizio dell'incarico, l'amministrazione abbia stipulato un contratto sul compenso con l'avvocato, e quale tenore abbia lo stesso. Qualora, manchi tale accordo sopperiscono i criteri di legge.
[5] A tale ultimo riguardo, si ricorda che la legge 31.12.2012, n. 247 (Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense) stabilisce, all'articolo 13, che la pattuizione dei compensi è libera e indica una serie di tipologie di accordi utilizzabili dalle parti.
Il comma 6 dell'indicato articolo prevede, poi, che, 'quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge' si fa riferimento ai parametri indicati nel decreto emanato dal Ministero della Giustizia, su proposta del Consiglio Nazionale Forense, ogni due anni.
[6]
Per quanto riguarda l'acquisizione del visto del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati competente sulla parcella del legale, si osserva che la Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, intervenuta di recente con proprio parere posto su analogo quesito,
[7] ha affermato che: «L'ente locale prima di procedere al pagamento della parcella presentata dal proprio difensore ha il dovere di esaminare la documentazione relativa all'attività svolta dal difensore per valutarne la congruità. Detta valutazione di congruità (a prescindere che venga svolta dall'Avvocatura dello Stato come nella particolare fattispecie prevista dall'art. 18, comma 1, del D.L. 25/03/1997, n. 67, convertito, con modificazioni, nella Legge 23/05/1997, n. 135) risponde all'esigenza di garantire una "attenta e prudente gestione della spesa pubblica", pertanto deve tenere conto, "da un lato dell'incertezza dell'esatta individuazione delle voci che potrebbero concorrere alla determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità dovute agli avvocati per l'esercizio della loro attività professionale e dei relativi parametri legali, dall'altro della necessità di scongiurare il rischio di annoverare nella parcella spese oggettivamente superflue o non proporzionali all'opera prestata" (C. Conti, sez. reg. Piemonte del. n. 35/2011). Inoltre, anche quando non è richiesto dalla legge il parere dell'Avvocatura dello Stato, la valutazione di congruità deve "riguardare, non solo la conformità della parcella alla tariffa forense, ma anche il rapporto fra l'importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa (C. Conti, sez. reg. Piemonte del. n. 35/2011 che richiama Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sent. 23.01.2007, n. 1418)». [8]
Per completezza espositiva si fa presente che la legge 247/2012, all'articolo 13, comma 9, relativo alla disciplina dei compensi spettanti agli avvocati, prevede che: 'In mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell'ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione. In mancanza di accordo il consiglio, su richiesta dell'iscritto, può rilasciare un parere sulla congruità della pretesa dell'avvocato in relazione all'opera prestata'.
Passando a trattare dell'ultima questione posta, ovvero quale sia la corretta procedura per l'imputazione in bilancio dei maggiori oneri relativi ad una parcella professionale presentata, a conclusione di un giudizio, dall'avvocato incaricato della difesa del Comune, si rileva come tale questione sia stata esaminata dalla giurisprudenza contabile e dalla dottrina nel precedente sistema di contabilità basato sul principio della competenza finanziaria 'semplice', prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 e, con riferimento alla Regione Friuli Venezia Giulia, della legge regionale 17.07.2015, n. 18. I principi in quella sede elaborati sono stati esplicitati in un parere rilasciato dallo scrivente Ufficio (prot. n. 15066 del 26.09.2007) al quale si rinvia.
[9] In questa sede preme riportare succintamente i due diversi orientamenti formatisi sull'argomento alla luce dei pronunciamenti avutisi più di recente da parte della giurisprudenza nonché in considerazione delle evoluzioni normative che condizionano la soluzione della questione posta.
In particolare, si contrapponevano la teoria la quale affermava che la maggiore spesa tra quanto originariamente impegnato dall'Ente e l'importo finale della parcella presentata dal professionista costituisce debito fuori bilancio e quella che, invece, riteneva sufficiente, per sanare la maggiore spesa, effettuare un impegno residuale nell'esercizio in cui viene richiesto il pagamento (teoria delle passività pregresse)
[10].
Premessa l'attuale permanenza della duplicità di ricostruzione della fattispecie, si ritiene interessante riportare l'orientamento espresso, sull'argomento, dalla Corte dei Conti, sezione di controllo della regione Friuli Venezia Giulia.
[11] In particolare, essa dopo aver ripercorso entrambe le ricostruzioni, ha espressamente ritenuto di non volersi discostare dall'orientamento, ampiamente seguito in seno alla Corte dei Conti, che riconduce la fattispecie all'istituto del debito fuori bilancio.
Al contempo, tuttavia, la Corte compie una serie di considerazioni sull'onere di diligenza che l'Ente pubblico deve osservare, non solo al momento del conferimento dell'incarico al professionista ma anche durante tutto il periodo di svolgimento dell'incarico professionale, che si ritengono interessanti, specie in relazione al comportamento tenuto dal Comune nella fattispecie in esame.
In particolare, la Sezione friulana afferma che: 'La difficoltà di determinazione ex ante della parcella, infatti, giustificata dall'imprevedibilità dell'evoluzione del procedimento contenzioso, non significa impossibilità assoluta di pervenire ad un preventivo ancorato a parametri certi, in considerazione delle caratteristiche di difficoltà e di impegno professionali richiesti'.
La Magistratura contabile afferma, ancora, che: «È infatti [...] necessario che l'Ente verifichi periodicamente l'andamento della causa e adotti i conseguenti provvedimenti di revisione dei relativi impegni. In sostanza, l'Ente deve amministrare il proprio contenzioso, informando -anche in questo ambito- il suo operato a canoni di prudenza, accortezza, veridicità, attendibilità, proporzionalità ed equilibrio, nel preminente interesse di evitare 'sopravvenienze passive'».
Sulla scia di tali ultime considerazioni si pone anche un recente parere della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Campania,
[12] nel quale si afferma che: «L'obbligo di procurarsi un congruo preventivo del corrispettivo, oltre a gravare sulla p.a. e discendere da principi di sana gestione contabile, è oggi un espresso obbligo gravante sullo stesso professionista per effetto dell'art. 9, D.L. n. 1 del 2012: tale norma ha abrogato le tariffe professionali e ha stabilito che "Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito al momento del conferimento dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico [...]".
In altri termini: l'ente, da un lato, è tenuto in sede d'incarico a concordare nel titolo il corrispettivo affinché il suo ammontare risulti definito o, quantomeno, sufficientemente determinabile, di modo che, a scadenza, la liquidazione dell'onorario e della spesa trovi preventiva e sufficiente provvista nella contabilità dell'ente, evitando la formazione di debiti fuori bilancio. Per contro, in caso d'impegni "irrisori", sarebbero state violate le norme contabili che presidiano la corretta imputazione in bilancio della spesa; il titolo e la fattispecie generativa dell'obbligazione, inoltre, riguarderebbero integralmente un esercizio precedente nel quale l'ammontare della spesa non è stato correttamente rilevato.
Per tale ragione, in tali circostanze, l'unica procedura contabile adottabile è una formale delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio, che consente la verifica sull'utilità del patrocinio, e d'attivare il controllo in relazione a possibili profili di responsabilità erariale, stante l'obbligo di trasmissione delle delibere di riconoscimento dei debiti fuori bilancio alla Corte dei conti. Il procedimento di riconoscimento dei debiti fuori bilancio è lo strumento giuridico per riportare un'obbligazione giuridicamente perfezionata all'interno della sfera patrimoniale dell'ente, ricongiungendo il debito insorto con la volontà amministrativa; il procedimento mira a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del titolo e a reperire modalità di copertura finanziaria.
La possibilità di procedere alla contabilizzazione del maggior debito per maggiori costi sopravvenuti tramite un mero adeguamento dello stanziamento in bilancio, dev'essere collegabile, anche nel contesto dei nuovi principi contabili, a cause oggettive e imprevedibili e non a pregresse, soggettive, sottovalutazioni della spesa.
Da ultimo, si riportano le recenti considerazioni espresse dalla Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, nel parere del 20.05.2015, n. 200, ove si afferma che: «L'impegno di spesa per prestazioni professionali a tutela dell'ente può dirsi assunto correttamente quando in presenza di un eventuale maggior onere (emergente dall'imprevedibile lunga durata della causa), al fine di garantire la copertura finanziaria, l'ente adegua lo stanziamento iniziale integrando l'originario impegno di spesa. Ne consegue che se l'importo legittimamente impegnato si riveli insufficiente, la differenza non realizza automaticamente un debito fuori bilancio, ex art. 194, comma 1, lett. e), TUEL. Detta indicazione è confermata nella nuova disciplina sull'armonizzazione dei sistemi contabili, ove all'Allegato 4/2, D.Lgs. n. 118 del 2011, si afferma che "gli impegni derivanti dal conferimento di incarico a legali esterni, la cui esigibilità non è determinabile, sono imputati all'esercizio in cui il contratto è firmato, in deroga al principio della competenza potenziata, al fine di garantire la copertura della spesa"; poi si aggiunge "al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio, l'ente chiede ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla base della quale è stato assunto l'impegno e, di conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali ulteriori impegni"».
Volendo fare una sintesi di quanto sopra espresso, specie in considerazione del fatto che il Comune, come riferito, si è fatto rilasciare, in sede di attribuzione dell'incarico, un preventivo di massima da parte dell'avvocato e ha, successivamente, adeguato tale importo agli incrementi comunicatigli dal legale in corso di causa e motivati da lungaggini processuali o complessità della causa successivamente intervenute, e del fatto che l'eccedenza di spesa rispetto a quanto già impegnato, secondo quanto riferito, risulta essere di non eccessiva entità, parrebbero potersi ritenere integrati i presupposti per considerare tale maggiore spesa quale 'passività pregressa' con conseguente possibilità per l'Ente di procedere ad adottare un ulteriore impegno di spesa a copertura della minima eccedenza rispetto all'impegno contabile precedente.
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[1] Il legale aveva, infatti, comunicato all'Ente che l'importo di massima pattuito poteva essere oggetto di variazione in relazione alla durata prolungata del processo nonché in connessione alla complessità e impegno della causa da instaurare.
[2] In questo senso si veda, altresì, Cassazione civile, sez. I, sentenza del 22.04.2010, n. 9633.
[3] TAR Sicilia, Catania, sez. II, sentenza del 27.07.2015, n. 2052. Nello stesso senso, tra le altre, TAR Sicilia, Catania, sez. II, sentenza del 27.02.2015, n. 618 e sez. III, del 25.03.2015, n. 854; Tribunale Salerno, sez. III, sentenza dell'11.05.2015.
[4] In questo senso si vedano Cassazione civile, ordinanza del 29.07.2010, n. 17698; Tribunale de L'Aquila, sentenza dell'08.06.2013.
[5] Nel caso in esame si rientra in questa seconda ipotesi, attesa l'assenza di un contratto ad hoc tra le parti sulla determinazione del compenso. Secondo quanto riferito dal Comune, al momento del conferimento dell'incarico, è stato predisposto dal legale un 'preventivo di massima' cui hanno fatto seguito, nel corso del giudizio, degli adeguamenti degli importi legati, tra l'altro, alla complessità e durata della causa.
[6] Attualmente il riferimento è al D.M. 10.03.2014, n. 55.
[7] Corte dei Conti, sez. reg. contr. Lombardia, parere del 20.05.2015, n. 200.
[8] Si ricorda che, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, della legge 247/2012 il consiglio, tra l'altro, 'dà pareri sulla liquidazione dei compensi spettanti agli iscritti' [lett. l)]. L'articolo 14, primo comma, del R.D.L. 1578/1933 nel declinare le competenze dei Consigli degli ordini, alla lett. d), prevede che essi 'danno il parere sulla liquidazione degli onorari di avvocato nel caso preveduto dall'art. 59 e negli altri casi in cui è richiesto a termini delle disposizioni vigenti'.
[9] Si segnala, altresì, un parere dell'ANCI dell'01.05.2013 che distingue, sulla falsariga di quanto contenuto nel parere reso dallo scrivente Ufficio 15066/2007, i casi in cui la somma da liquidare ad un professionista per maggiori spese integri un debito fuori bilancio dai casi in cui è possibile procedere all'integrazione ed alla liquidazione a saldo della somma ulteriore non precedentemente impegnata.
[10] Con l'espressione di 'passività pregresse' o arretrate si suole fare riferimento a quelle spese che riguardano debiti per cui si è proceduto a regolare impegno (amministrativo, ai sensi dell'articolo 183 TUEL) ma che, per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza di copertura (mancanza o insufficienza dell'impegno contabile ai sensi dell'articolo 191 TUEL). Così Corte dei Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione del 22.07.2013, n. 339.
[11] Corte dei Conti, sez. regionale controllo Friuli Venezia Giulia, deliberazione del 17.01.2012, n. 25.
[12] Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Campania, parere del 25.03.2015
(17.03.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

APPALTIPiccoli appalti senza scorciatoie. Giustizia amministrativa. L’analisi del nuovo Codice dei contratti nel parere del Consiglio di Stato.
No alla semplificazione eccessiva dei piccoli appalti, attenzione alle deroghe per l a protezione civile, giusta la scelta di abbandonare il regolamento attuativo unico per accogliere la sfida della «soft law» affidata all’Anac. E poi il suggerimento di prevedere un congruo periodo transitorio per il passaggio dal vecchio al nuovo sistema, allungando anche da uno a due anni il tempo massimo per introdurre dei correttivi con un nuovo decreto del governo.
Con il parere 01.04.2016 n. 855 di oltre 200 pagine il Consiglio di Stato “fa le pulci” al testo del nuovo codice dei contratti varato dal governo
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La disamina parte dalla constatazione dei tempi stretti in cui la commissione governativa ha redatto il testo: una corsa che ha comportato «inevitabili refusi, incoerenze e difetti». Palazzo Spada riconosce però che la riforma del Codice degli appalti rappresenta «una sfida storica». Affidata a un «delicato equilibrio», che punta a ottenere un «codice snello», ma che deve anche garantire controlli efficaci.
In tre punti, per Palazzo Spada, la bozza del decreto è andata oltre i limiti della delega. Si tratta dei passaggi relativi alla riduzione delle imprese da invitare nei piccoli appalti, alle deroghe alle procedure di gara per la protezione civile e al débat public sulle grandi opere che va reso «subito obbligatorio».
Un chiarimento importante arriva sulla natura delle linee guida generali proposte dall’Anac e adottate dal Mit: sono o un vero e proprio regolamento. Si chiarisce così il valore cogente di questo provvedimento, che alcuni avevano messo in dubbio. Arriva poi anche l’invito a «perseguire con determinazione» l’obiettivo della «riduzione del numero delle stazioni appaltanti», ma «salvaguardando meglio» le Pmi.
Si chiede poi «maggior rigore» nella disciplina dei requisiti morali dei concorrenti attraverso l’ampliamento del novero delle condanne penali per cui si è esclusi dalle gare
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIBonus mobili, raddoppio senza cumulo. Per lo stesso immobile è impossibile «moltiplicare» lo sconto d’imposta valido per quest’anno.
Agevolazioni. Le istruzioni per fruire della detrazione al 50% collegata agli acquisti dopo una ristrutturazione e quella destinata alle giovani coppie.

La legge di Stabilità 2016 raddoppia i bonus per l’acquisto di mobili e arredi. Infatti la legge 208/2015 ha prorogato per quest’anno la detrazione del 50% delle spese sostenute (fino a 10mila euro) per l’acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici -di classe non inferiore ad A+, nonché di classe A per i forni e le apparecchiature per le quali è prevista l’etichetta energetica- che sono destinati all’arredo dell’immobile oggetto di ristrutturazione.
La proroga va in parallelo con la conferma, anche quest’anno, dell’agevolazione fiscale per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, con una detrazione del 50% (65% per gli interventi antisismici) per un massimo di 96mila euro.
Come detto, la legge di Stabilità ha potenziato ed esteso lo sconto fiscale per i mobili: per le giovani coppie, coniugi o conviventi, di cui uno almeno abbia meno di 35 anni (o compia 35 anni quest’anno) c’è la possibilità di detrarre in dieci anni il 50% della somma impiegata per l’acquisto di mobili destinati all’abitazione principale. La casa deve essere stata acquistata, a titolo oneroso o gratuito, nel 2015 o nel 2016. In questo caso il bonus mobili ha un plafond di 16mila euro.
Il nuovo bonus mobili è destinato a favorire le giovani coppie in possesso, nel 2016, dei requisiti soggettivi previsti dalla legge. In caso di coniugi non importa la data del matrimonio; la convivenza invece deve durare da almeno tre anni e deve essere attestata dalla stato di famiglia.
La casa può essere acquistata dalla coppia o da uno dei partner, in questo caso l’agenzia delle Entrate -nella circolare 31.03.2016 n. 7/E- richiede che il proprietario sia il partner under 35.
L’acquisto può essere stato effettuato anche lo scorso anno, visto che la normativa fiscale dà tempo 12 mesi per adibire l’immobile ad abitazione principale. La destinazione, per gli acquisti 2016, deve avvenire, comunque, entro il termine della presentazione della dichiarazione dei redditi 2017, relativa al 2016.
L’agenzia chiarisce che l’acquisto dei mobili può avvenire in qualsiasi momento nel 2016, purché la casa acquistata quest’anno sia destinata -come detto- ad abitazione principale entro il termine per la dichiarazione dei redditi 2017 (2 ottobre). Per gli acquisti di case nel 2015 la destinazione ad abitazione principale deve avvenire entro il 31.12.2016.
Il bonus mobili per giovani coppie è calcolato, come detto prima, su un importo complessivo di 16mila euro: l’acquisto può essere effettuato da entrambi i partner o da uno solo dei componenti, anche da colui che ha superato i 35 anni.
L’acquisto deve essere effettuato con bonifico o con carta di debito o di credito: non è richiesto il bonifico utilizzato per le ristrutturazioni edilizie (la regola vale anche per il bonus mobili ”generale”).
La circolare delle Entrate 7/E chiarisce che per la «medesima unità abitativa», non si può beneficiare sia della detrazione Irpef del 50% per l'acquisto di mobili da parte delle giovani coppie, sia di quella generale, sempre del 50%, utilizzabile da tutti i contribuenti Irpef. L'incompatibilità vale anche per acquisti di mobili diversi, necessari per arredare case acquistate quest'anno (o nel 2015), adibite ad abitazione principale entro il 02.10.2017 (o entro il 31.12.2016) e contemporaneamente soggette a lavori di ristrutturazione quest'anno. Cioè vale anche se sono rispettate tutte le condizioni delle due norme agevolative.
La normativa prevede genericamente che la nuova detrazione Irpef del 50% per l'acquisto di mobili da parte delle giovani coppie non sia cumulabile con quella generale utilizzabile da tutti i soggetti Irpef (persone fisiche, i professionisti e i soci delle società di persone). Come è accaduto per altre agevolazioni (ad esempio, per la detrazione del 36-50% sugli interventi di recupero del patrimonio edilizio e quella del 55-65% sul risparmio energetico qualificato) l'incumulabilità vale sicuramente per lo stesso acquisto agevolato (risoluzione 05.07.2007, 152/E).
Ad esempio, se una giovane coppia compera un arredo su una casa che ha acquistato quest'anno, nella quale fa fare, entro la fine del 2016, delle manutenzioni straordinarie detraibili al 50%, non può beneficiare della doppia detrazione del 50%, quella per le giovani coppie e quella generale.
Oltre a questa regola, però, secondo l'agenzia delle Entrate l'incompatibilità delle due agevolazioni è molto più ampia, in quanto «non è consentito fruire di entrambe le agevolazioni per l'arredo della medesima unità abitativa». Quindi, una giovane coppia non potrà acquistare, ad esempio, 16mila euro di mobili per arredare la propria abitazione principale di proprietà e acquistare anche 10mila euro di altri mobili per la stessa abitazione, previo lavori di recupero edilizio agevolabili al 50%.
Ma l'agenzia va oltre e afferma che se la coppia o uno solo dei componenti beneficia, «anche parzialmente, del bonus mobili e grandi elettrodomestici, per acquisti effettuati dal 06.06.2013 al 31.12.2016, non potrà altresì beneficiare del bonus mobili giovani coppie per l'arredo del medesimo immobile». L'incompatibilità, quindi, non riguarda solo «l'arredo della medesima unità abitativa», ma anche, da un lato, l'acquisto di grandi elettrodomestici (beneficiando, anche parzialmente, del bonus generale), dall'altro lato, l'acquisto di mobili, usufruendo della nuova detrazione per le giovani coppie.
Queste ultime, comunque, potranno beneficiare di entrambe le agevolazioni, nel rispetto delle relative prescrizioni, se i mobili (o i grandi elettrodomestici) acquistati saranno destinati all'arredo di unità abitative diverse
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.04.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti elettrici ai rivenditori senza l'acquisto obbligatorio.
In arrivo il ritiro uno-contro-zero dei tecnorifiuti più piccoli presso i rivenditori specializzati. Sarà un obbligo per tutti i distributori al dettaglio di apparecchiature elettriche ed elettroniche con superficie di vendita di almeno 400 mq, una facoltà per i distributori con superficie inferiore e per i distributori che effettuano vendite a distanza.
Chi dovrà (o vorrà) aderire al sistema di ritiro dei «Raee» (acronimo di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) dovrà rispettare una serie di requisiti di carattere informativo, organizzativo e burocratico per garantire ai cittadini la consegna gratuita e semplice dei prodotti giunti a fine vita e al sistema il deposito sicuro dei Raee preliminare alle successive attività di raccolta e trattamento a norma di legge.

È quanto prevede il dm firmato qualche giorno fa dal ministro dell'ambiente e che dovrebbe essere ufficializzato nelle prossime settimane.
Lo schema di regolamento dà attuazione all'articolo 11, comma 4, della normativa-madre in materia di Raee, ovvero il dlgs n. 49/2014 attuativo della direttiva 2012/19/Ue, e chiama in causa le imprese della distribuzione per quanto riguarda il ritiro dei tecnorifiuti fino a 25 cm (smartphone, tablet, chiavette usb, cuffie audio, ebook reader...), provenienti dai nuclei domestici, attraverso la predisposizione nei punti vendita di un luogo di ritiro ad hoc, con contenitori facilmente fruibili e adeguatamente segnalati.
«L'obbligo discende dal fatto che si è deciso di imporre ai rivenditori di svolgere un compito sussidiario rispetto agli organismi pubblici preposti alla raccolta dei rifiuti», spiega a ItaliaOggi Davide Rossi, direttore generale di Aires (associazione italiana retailer elettrodomestici specializzati), «i quali si sono dimostrati inefficaci nel convogliare i Raee dalle case dei cittadini alla filiera del recupero e dello smaltimento. Detto questo, il decreto poteva essere ancora più penalizzante per le nostre imprese e apprezziamo che il ministero ci abbia almeno dato ascolto su alcuni punti di semplificazione» (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).

APPALTI: Riforma appalti, servirà un anno di test.
Con la riforma del codice degli appalti «si va verso una maggiore discrezionalità della pubblica amministrazione, che deve essere bilanciata da una maggiore trasparenza e da maggiori controlli, il testo all'esame delle commissioni, con piccole correzioni, va nella giusta direzione».
Lo ha detto il presidente dell'Anac Raffaele Cantone a margine di un incontro di Confcooperative sulla riforma del codice degli appalti (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
«Certo nel momento dell'applicazione avrà dei problemi fisiologici come tutte le novità. Del nuovo codice dovremo valutare l'applicazione in non meno di un anno, pensare che possa avere effetti di qualunque tipo in tempi più brevi è impossibile. Chiaramente», ha concluso Cantone, «potrà funzionare solo con la collaborazione di tutti gli operatori. Siamo passati da una fase di grande entusiasmo ma ora vedo un po' di eccesso di depressione, aspettiamo il tempo sufficiente di capire».
«La riforma degli appalti può determinare subito una crescita del Pil pari al +1% l'anno che una volta a regime potrà salire fino al +3%
», ha affermato Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative. Mentre per Massimo Stronati, presidente Federlavoro e Servizi Confcooperative, le misure «se pienamente attuate, porterebbero a un notevole alleggerimento del carico burocratico, senza far venire meno i necessari controlli» (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondo salario calcolato sul valore medio dei presenti.
La riduzione del fondo del salario accessorio prevista dal comma 236 dell'ultima legge di stabilità deve essere operata sulla base del confronto tra il valore medio dei presenti nell'anno di riferimento (dedotte le unità per le quali è programmata la cessazione e aggiunte quelle assumibili in base alla normativa vigente) e il valore medio dei presenti nell'anno 2015.

Lo precisa la circolare 23.03.2016 n. 12 della Ragioneria generale dello stato, che, sebbene formalmente indirizzata alle amministrazioni statali, fornisce importanti chiarimenti anche agli enti locali circa l'impatto di molte delle disposizioni contenute nella legge 208/2015 (si veda anche ItaliaOggi del 30/3).
Fra queste, appunto il comma 236, ai sensi del quale, nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi della legge Madia, «l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001 non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è comunque automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente».
Di fatto, si tratta di un meccanismo analogo a quello introdotto dall'art. 9, comma 2-bis, del dl 78/2010. L'unica differenza (a parte la parametrazione del tetto al 2015 anziché al 2010), è rappresentata dal fatto che il calcolo della riduzione proporzionale del fondo dovrà ora essere effettuato «tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente». Tale inciso ha posto fin da subito un rilevante dubbio interpretativo, non essendo chiaro se il legislatore intendesse fare riferimento alla al personale in astratto reclutabile o a quello effettivamente assunto.
Al riguardo, la circolare chiarisce che la riduzione «andrà operata, sulla base del confronto tra il valore medio del personale presente in servizio nell'anno di riferimento ed il valore medio dei presenti nell'anno 2015. In particolare, i presenti al 31/12 dell'anno di riferimento scaturiranno dalla consistenza iniziale del personale all'1/1 alla quale andranno dedotte le unità per le quali è programmata la cessazione ed aggiunte quelle assumibili in base alla normativa vigente (tra cui, per esempio, quelle relative a facoltà assunzionali non esercitate e riferite ad annualità precedenti oggetto di proroga legislativa)».
Tuttavia, viene espressamente richiesta una «verifica finale dell'effettivo andamento», il che lascia ancora qualche incertezza sull'effettiva quantificazione del taglio.
Infine, per quanto concerne la ripartizione del budget assunzionale tra le varie componenti (aree e dirigenti) in presenza di fondi diversificati, ove non fosse possibile fare riferimento ad atti formali di programmazione dei fabbisogni, si potrà utilizzare un criterio di attribuzione delle risorse proporzionale rispetto a quelle risultanti dalla cessazione del relativo personale, tenendo conto, in ogni caso, anche delle indicazioni di cui alla circolare n. 12/2011 (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).

APPALTIGare, garantire la par condicio. Da prevedere misure per evitare vantaggi ai consulenti p.a.. Lo stabilisce lo schema di decreto legislativo che contiene la riforma del codice degli appalti.
Garantire la par condicio fra i concorrenti anche con l'esclusione del soggetto che ha partecipato alla predisposizione di documenti o atti di gara che vengono utilizzati per l'affidamento del contratto; necessario, però, prevedere adeguate misure per evitare asimmetrie informative a vantaggio dei consulenti della stazione appaltante che intendono partecipare alla gara.

È quanto stabilisce lo schema di decreto legislativo contenente il nuovo codice dei contratti pubblici sul quale parlamento, consiglio di stato e conferenza unificata si devono esprimere con i loro pareri
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La materia della partecipazione alla gara e dei cosiddetti conflitti di interesse, viene affrontata dal codice all'articolo 67 con una disposizione che afferma il principio generale di garanzia della par condicio; per cui se un candidato o un offerente o un'impresa collegata a un candidato o a un offerente hanno fornito consulenze, relazioni o altra documentazione tecnica che sia poi stata utilizzata nella pianificazione e nello svolgimento della procedura di aggiudicazione dell'appalto, la stazione appaltante deve adottare «misure adeguate per garantire che la concorrenza non sia falsata dalla partecipazione del candidato o dell'offerente stesso».
Subito dopo, la norma qualifica come misura adeguata la comunicazione agli altri candidati e agli altri offerenti delle informazioni pertinenti scambiate nel quadro della partecipazione del candidato o dell'offerente alla preparazione della procedura; analogamente la norma definisce come misura adeguata a garantire la par condicio fra i concorrenti la comunicazione a tutti i partecipanti alla gara delle informazioni ottenute a seguito di tale partecipazione.
Infine, è definita come misura di trasparenza e concorrenza anche la fissazione di termini adeguati per la ricezione delle offerte, nel presupposto che se l'offerente ha un lasso di tempo adeguato per studiare gli elementi e predisporre l'offerta automaticamente potrebbe colmare il gap di asimmetria informativa con il concorrente «privilegiato» dal precedente rapporto con la committenza.
In sostanza, sembrerebbe che con la completa trasparenza e diffusione delle informazioni in possesso del soggetto che ha in precedenza partecipato ad una procedura o ad una fase procedimentale connessa a quella oggetto di appalto, si riuscirebbe a annullare situazioni di violazione della par condicio. Una conclusione che in passato la giurisprudenza europea e nazionale non sempre aveva sposato, andando spesso a valutare caso per caso a seconda delle situazioni.
La norma prevede poi anche il caso in cui non si riesca a garantire il rispetto della par condicio fra i concorrenti: in questa ipotesi la regola sarà l'esclusione dalla gara ma al soggetto escluso in base alla sua «posizione privilegiata», si dovrà dare la possibilità, entro i dieci giorni successivi, di provare che avere partecipato alla preparazione della procedura di aggiudicazione non costituisce elemento tale da alterare la concorrenza.
Nello schema di decreto è però presente un'altra norma che affronta la stessa tematica: l'articolo 24, comma 7, stabilisce per il soggetto che sia stato affidatario dell'incarico di progettazione l'assoluto divieto di partecipare, anche attraverso società controllate o collegate, alla gara per l'affidamento dei lavori o della concessione. Si tratterà di casi evidentemente rari visto che l'appalto integrato è stato sostanzialmente azzerato; rimarrebbero gli affidamenti a contraente generale e le concessioni e i Ppp (partenariati pubblici e privato).
Va rilevato che la norma non riporta più la possibilità di dimostrare di non avere conseguito vantaggi concorrenziali rispetto agli altri concorrenti (oggi contenuta al comma 8-bis dell'articolo 90 del codice) (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, periodo transitorio di 3 mesi. Proposta di Cantone, ok di Delrio - Ance: bene, ma servono ancora correzioni.
La riforma. Il vecchio regolamento resterà in vita in attesa delle linee-guida generali dell’Anac.

C’è una novità sostanziale nel percorso di approvazione del nuovo codice degli appalti. Nel testo definitivo che sarà approvato dal Consiglio dei ministri entro il 18 aprile sarà inserito un periodo transitorio di tre mesi in cui continuerà a essere vigente il vecchio regolamento del 2010. Questo consentirà all’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone di varare le linee guida generali di soft law che completano il codice evitando periodi di “vuoto”.
È quanto emerso ieri nel corso di un convegno organizzato dall’Ance sul nuovo codice: la proposta dell’inserimento di un periodo transitorio è arrivata direttamente da Cantone e ha ricevuto subito una disponibilità del ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio.
In questa direzione andrebbe anche il parere del Consiglio di Stato di imminente trasmissione. D’accordo anche il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis, che nella sua relazione iniziale al convegno aveva messo in guardia dai pericoli che possono nascondersi in una serie di dettagli normativi che hanno però un grande impatto sul mercato e sulla vita delle imprese.
Sul subappalto, per esempio, De Albertis ha chiesto di eliminare la responsabilità solidale dell’appaltatore nel caso in cui il subappaltatore sia pagato direttamente dalla stazione appaltante e di spostare al momento dell’inizio lavori l’obbligo di indicazione da parte delle imprese partecipanti alla gara della “terna” di possibili subappaltatori, oggi previsto al momento dell’offerta.
De Albertis ha anche chiesto di eliminare il riferimento al requisito dei «lavori analoghi» per le opere di importo superiori a 20 milioni, proponendo semmai di sostituirlo con il requisito di «un fatturato pari a 2,5 volte l’importo a base d’asta». Tra le modifiche più rilevanti chieste dall’Ance anche l’innalzamento da 1 a 2,5 miliardi della soglia fino alla quale è possibile utilizzare il criterio di aggiudicazione del massimo ribasso.
Una criticità è anche l’eliminazione dei meccanismi di esclusione automatica sotto soglia. Il giudizio complessivo dell’Ance sul nuovo codice resta comunque positivo
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Cantone ha invitato la platea a «non passare dall’entusiasmo alla depressione», sostenendo la fase, difficile ma necessaria, della prima attuazione del nuovo codice. Cantone ha mandato ieri alle commissioni parlamentari una nota che ripercorre le correzioni più rilevanti proposte dall’Anac anche in sede di audizione.
Cantone ha poi ribadito al convegno Ance alcuni chiarimenti necessari: il rating reputazionale per le imprese che deve essere una competenza esclusiva dell’Anac (senza ambigue sovrapposizioni con le funzioni esercitate dalle Soa), un chiarimento per eliminare le possibili sovrapposizioni fra accordo bonario e collegio consultivo tecnico, l’introduzione di un potere sanzionatorio dell’Anac (o un potere di ordine) nei confronti dei concessionari che non rispettino la quota dell’80% di lavori da affidare a terzi, la previsione di una «quantomeno parziale vincolatività» degli atti di regolazione flessibile dell’Anac (bandi-tipo, linee-guida, capitolati e contratti-tipo).
Per Delrio il settore degli appalti «è molto delicato, perché viene da anni di malattia» e «non ci sarebbe stato bisogno di riscrivere codice degli appalti se tutto fosse andato bene».
Con riferimento al codice Delrio ha ammesso che i decreti attuativi «anche per me sono troppi» ma ha detto che «stiamo facendo un lavoro di pulizia»
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Periodo transitorio per il codice.
Un breve periodo transitorio di 1-2 mesi per il Codice appalti in attesa che arrivino le linee guida da parte dell'Anac.

La richiesta, formalizzata dal presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, in audizione in parlamento lo scorso 17 marzo, è stata di fatto accolta dal ministro per le infrastrutture e i trasporti, Graziano Delrio.
«Il governo non ha nessun problema a introdurre un regime transitorio in attesa delle linee guida per il nuovo Codice appalti», ha dichiarato il ministro nel corso di un convegno organizzato dall'Ance sulla riforma. «Il nostro obiettivo era di essere pronti il 18 aprile», ha detto il ministro. «Se il presidente dell'Anac chiede un mese di tempo per le linee guida non c'è nessuna opposizione da parte nostra per una riforma così importante».
In audizione davanti alle commissioni riunite di Camera e Senato, Delrio ha ribadito la disponibilità ad accogliere le numerose richieste di modifica dello schema di dlgs (approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri il 3 marzo scorso) [Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture - Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare
] fatte pervenire dagli operatori e dalla stessa Anac.
«Il nuovo codice degli appalti è un salto in avanti enorme rispetto al passato ma serve prudenza, ci siamo dati un anno per continuare a lavorarci. Siamo pronti ad ascoltare, intervenire e migliorare», ha dichiarato il ministro. Sulle clausole sociali, per esempio, Delrio si è detto pronto a introdurre correttivi. «Cercheremo di dare una versione non ambigua e che sia sostenibile secondo il ministero del lavoro, anche dal punto di vista costituzionale e della normativa europea», ha detto.
Il problema delle clausole sociali, volte a promuovere stabilità occupazionale e salvaguardia delle professionalità, nei bandi di gara ad alta intensità di manodopera, era stato sollevato in audizione dallo stesso Cantone che aveva sottolineato come la norma del codice, nel lasciare alle stazioni appaltanti «ampia discrezionalità» sul loro inserimento, non dia piena attuazione alla legge delega n. 11/2016 che invece promuove la tutela occupazionale (articolo ItaliaOggi del 31.03.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di Codice dei contratti pubblici (Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).
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I punti principali del parere del Consiglio di Stato sullo schema di codice dei contratti pubblici.
Contesto ordinamentale: il vecchio codice
I contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture sono una voce significativa della spesa pubblica, con la duplice implicazione di costituire una leva importante della politica economica e sociale di un Paese, e di essere particolarmente sensibili a pratiche corruttive e fenomeni di inquinamento del mercato da parte della criminalità organizzata.
Nella disciplina dei contratti pubblici occorre coniugare apertura del mercato, flessibilità e semplificazione burocratica con la tutela dei valori di trasparenza e lotta alla corruzione e criminalità organizzata.
La materia dei contratti pubblici è trasversale e conseguentemente il nuovo codice deve inserirsi armonicamente nel tessuto del vigente ordinamento, in termini di coerenza del linguaggio e uniformità degli istituti giuridici.
Finora in Italia i contratti pubblici relativi a lavori servizi e forniture sono stati regolati dal d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici) e dal d.P.R. n. 207/2010 (regolamento di esecuzione e attuazione del codice), oltre a una serie di altri atti normativi, primari o secondari, per specifici settori.
Il codice del 2006 (che a sua volta recepiva due direttive comunitarie e sostituiva la c.d. legge Merloni) è stato sino ad oggi modificato da 52 atti normativi nazionali e da sei regolamenti comunitari. Solo in tre casi si è trattato dei fisiologici decreti legislativi correttivi (nell’arco del primo biennio); nel solo anno 2012 il codice è stato modificato con otto atti normativi, di cui sette decreti legge; nell’anno 2014 è stato modificato da nove atti normativi di cui otto decreti legge.
Il quadro normativo previgente conta, solo sommando codice e regolamento generale, 630 articoli e 37 allegati. Senza contare normative settoriali (appalti della difesa, beni culturali, servizi segreti), norme isolate sparse, e, soprattutto le leggi regionali sui contratti pubblici, che possono essere veri e propri “codici” per le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano.
La Corte costituzionale è stata ripetutamente chiamata a dirimere i conflitti di competenza legislativa tra Stato, Regioni e Province autonome in materia di appalti.
Nel corso degli anni si sono sovrapposte norme e regimi transitori, con incertezza delle regole, aumento del contenzioso e dei costi amministrativi per le imprese, soprattutto piccole e medie.
Numerosi gli interventi interpretativi del giudice amministrativo e dell’ANAC: la sola adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha reso 48 decisioni in funzione nomofilattica dal 2010 ad oggi.
Il quadro normativo anteriore al nuovo codice sconta, oltre alla complessità delle fonti, una complessità soggettiva (sono state censite oltre 32.000 stazioni appaltanti) e procedurale (numerose procedure di gara atipiche rispetto ai modelli comunitari).
Infine, complesso è il quadro del contenzioso, essendo competenti sugli appalti pubblici, in diversi ambiti e sotto diverse angolazioni, il giudice amministrativo, il giudice civile, quello penale e quello contabile, senza contare gli interventi della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea. Non sempre è chiaro l’ambito di reciproca competenza e si genera così ulteriore contenzioso.
Contesto ordinamentale: le nuove direttive
Le tre nuove direttive comunitarie (23, 24 e 25 del 2014) sugli appalti pubblici fanno parte della strategia Europa 2020 e perseguono obiettivi ambiziosi:
- rendere più efficiente l’uso dei fondi pubblici;
- garantire la dimensione europea del mercato dei contratti pubblici di lavori servizi e forniture, incentivando la concorrenza e tutelando anche le piccole e medie imprese;
- l’uso strategico degli appalti pubblici, come strumento di politica economica e sociale;
- lotta alla corruzione attraverso procedure semplici e trasparenti, e certezza del quadro regolatorio.
Le tre nuove direttive perseguono gli obiettivi fissati attraverso importanti novità:
- per la prima volta, una disciplina sistematica delle concessioni di beni e servizi;
- strumenti di aggiudicazione innovativi e flessibili;
- strumenti elettronici di negoziazione e aggiudicazione;
- utilizzo generalizzato di forme di comunicazione elettronica;
- centralizzazione della committenza;
- criteri di sostenibilità ambientale e sociale nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti;
- rafforzata tutela dei subappaltatori;
- introduzione del documento unico europeo di gara;
- disciplina dei conflitti di interesse;
- risoluzione dell’appalto, anche a distanza notevole di tempo, per stigmatizzare gravi violazioni commesse in sede di aggiudicazione.
Contesto ordinamentale: la legge delega
La legge delega n. 11 del 2016 prevede una operazione di codificazione settoriale, mediante recepimento delle tre direttive e al contempo riordino dell’intera disciplina.
La legge delega n. 11 del 2016 impone semplificazione e accelerazione delle procedure salvaguardando al contempo valori fondamentali quali la trasparenza, la prevenzione della corruzione e della infiltrazione della criminalità organizzata, la tutela ambientale e sociale.
La legge delega n. 11 del 2016 va oltre il recepimento delle tre direttive, introducendo ulteriori strumenti e istituti inediti, che, se ben declinati, potranno portare effettiva trasparenza e efficienza in un mercato non immune da vischiosità burocratica e illegalità.
La legge n. 11 del 2016 costituisce delega “lunga” e puntuale, per un totale di 71 principi, rispetto ai quattro principi della delega contenuta nella legge n. 62 del 2005, sulla base della quale fu varato il previgente codice degli appalti pubblici.
La legge delega impone una drastica riduzione dello stock normativo, perciò esige un codice snello, abbandona il modello del regolamento di esecuzione e introduce strumenti attuativi di soft law.
La legge delega pone il divieto di gold plating, ossia di oneri burocratici non essenziali.
La legge delega fissa obiettivi di qualità della regolazione intesa in senso formale (codificazione e semplificazione normativa) e sostanziale (semplificazione burocratica).
La legge delega contiene essa stessa alcune regole più severe rispetto a quelle comunitarie, in funzione di valori di trasparenza e concorrenza, quali la centralizzazione obbligatoria della committenza, la qualificazione obbligatoria delle stazioni appaltanti, la istituzione di un albo dei commissari di gara, la separazione tra progettazione e esecuzione, i criteri reputazionali per gli operatori economici, il conto corrente dedicato, regole di rigore per gli appalti della protezione civile e per le concessioni autostradali, il dibattito pubblico sulle grandi opere.
La legge delega disegna una governance efficace e efficiente del settore, attraverso la nuova cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il rafforzato ruolo dell’ANAC che coniuga i compiti di autorità anticorruzione e di vigilanza e regolazione del mercato degli appalti pubblici.
Il recepimento delle tre direttive costituisce occasione e sfida per un ripensamento complessivo del sistema degli appalti pubblici in Italia, in una nuova filosofia che coniuga flessibilità e rigore, semplificazione ed efficienza con la salvaguardia di insopprimibili valori sociali e ambientali.
La “sfida storica” del nuovo codice appalti è affidata a un delicato equilibrio in cui è assolutamente indispensabile tenere insieme “il combinato disposto” degli istituti previsti. Perciò:
- il codice “snello” deve essere tempestivamente seguito da atti attuativi chiari, tempestivi, coordinati tra loro;
- le stazioni appaltanti avranno maggiore discrezionalità, ma devono essere poche, ben organizzate e qualificate;
- se aumentano gli appalti sotto soglia, per la previsione dei lotti, e se le regole del sotto soglia sono più flessibili, occorrono controlli rigorosi e una tutela giurisdizionale efficace.
Il nuovo codice e il parere del Consiglio di Stato
Il “codice degli appalti pubblici” e delle concessioni è il primo codice di diritto amministrativo elaborato nella presente legislatura, così auspicabilmente riaprendo una “stagione di codici”, necessari in funzione di semplificazione e chiarezza del quadro regolatorio.
Il codice potrebbe avere un “nome di battesimo” meglio rispondente ai suoi obiettivi ambiziosi, ed essere denominato “codice dei contratti pubblici”.
Il codice è stato elaborato in via preliminare in poco più di un mese. Il Governo ha meritoriamente optato per un’attuazione della delega in un solo tempo, entro il 18.04.2016.
I tempi stretti per il recepimento della delega (meno di tre mesi) hanno dettato una tabella di marcia veloce al Governo e agli organi consultivi.
Il Consiglio di Stato ha ricevuto lo schema di codice il 07.03.2016 e ha reso il suo parere in venticinque giorni, nei quali è stata istituita (il 12 marzo) una Commissione speciale di diciannove Magistrati, che ha ripartito i suoi lavori in cinque sottocommissioni, ciascuna coordinata da un Presidente di sezione. La Commissione speciale si è riunita in sede plenaria nell’adunanza del 21 marzo; il parere è stato successivamente redatto e infine pubblicato il 1° aprile.
L’apporto consultivo del Consiglio di Stato si è mosso lungo tre direzioni:
- esame di questioni di carattere generale;
- esame dei singoli articoli con formulazione di osservazioni puntuali e di agevole recepimento;
- esame dei singoli articoli con formulazione di osservazioni che richiedono maggior tempo e dovranno essere affidate ai decreti correttivi.
Dopo il varo del codice, il Consiglio di Stato potrà dare il proprio apporto consultivo per l’elaborazione dei decreti correttivi e degli atti attuativi, o rispondendo a specifici quesiti sulla nuova disciplina.
L’elaborazione di un codice richiede ordinariamente tempi molto lunghi. I tempi stretti di redazione hanno comportato inevitabili refusi, incoerenze e difetti, che potranno essere in parte rimediati da subito attraverso il recepimento dei pareri, in parte mediante gli altri strumenti apprestati dall’ordinamento (avvisi di rettifica, errata corrige, decreti correttivi).
A fini di maggior chiarezza il codice andrebbe corredato da tabelle di corrispondenza delle sue disposizioni a quelle delle direttive e del previgente codice.
Quanto più il codice riuscirà a essere chiaro e completo, tanto più esso avrà raggiunto gli obiettivi di semplificazione del quadro regolatorio, di certezza delle regole, di prevenzione e riduzione del contenzioso.
Il codice e il sistema delle fonti del diritto sovraordinate o pariordinate: rapporto con direttive, legge delega, leggi regionali
Un primo gruppo di problemi di carattere generale attiene alla collocazione del codice nel sistema delle fonti del diritto di rango sovranazionale e costituzionale e delle fonti di rango primario: rispetto delle direttive comunitarie, rispetto della legge delega sotto il duplice profilo della mancata o inesatta attuazione, rispetto delle competenze legislative regionali.
Il primo problema generale è il rapporto tra direttive, legge delega e codice, quanto al divieto di gold plating (inserimento di oneri aggiuntivi rispetto al livello minimo prescritto dalle direttive).
Tale divieto va riferito agli oneri burocratici fini a sé stessi, non alle prescrizioni poste a tutela di valori costituzionali ritenuti più pregnanti del valore competitività, quali la tutela del lavoro, della salute, dell’ambiente, la trasparenza e prevenzione della corruzione e delle infiltrazioni criminali.
La legge delega, che pone il divieto di gold plating nel recepimento delle direttive, può essa stessa derogarvi a tutela di detti valori.
Anche il codice può, in circostanze eccezionali, derogare al divieto di gold plating, dandone conto con adeguata motivazione (nella scheda di analisi di impatto della regolamentazione). Si giustificano così alcune opzioni di maggior rigore (ad esempio in materia di subappalto, o concessioni), già fatte dal codice.
Il Consiglio di Stato invita il Governo a valutare, in certi ambiti, la possibilità di una disciplina di maggior rigore a tutela di fondamentali valori: in tema di appalti sotto soglia, subappalto, contratti esclusi.
Il divieto di gold plating dovrà essere rispettato anche in sede di adozione degli atti attuativi del codice.
Il mancato o incompleto recepimento di alcuni punti della legge delega costituisce una scelta politica del Governo, non sindacabile in sede di parere di legittimità; con il warning che l’omessa attuazione della delega non potrà essere rimediata mediante i decreti correttivi.
È mancato il completo recepimento dei principi di delega relativi ai conti correnti dedicati, alle concessioni del servizio idrico, agli obblighi di esternalizzazione e avvio tempestivo delle nuove gare per le concessioni nuove.
La complessità della delega e i tempi stretti per la sua attuazione hanno determinato nel codice alcune imprecisioni, che vanno corrette per fugare dubbi di eccesso di delega.
Dubbi di violazione della delega sorgono con riguardo alla gara informale negli appalti sotto soglia con un numero minimo di tre concorrenti, in luogo del minimo di cinque fissato dalla delega, alla disciplina degli appalti della protezione civile e a quella del dibattito pubblico.
Le competenze legislative dello Stato e delle Regioni (ordinarie e speciali) nonché delle Province autonome di Trento e Bolzano, in materia di contratti pubblici, vanno verificate alla luce sia del vigente art. 117 Cost. che del futuro (in itinere) art. 117 Cost.
È sconsigliabile l’elaborazione di una norma codicistica che delinei tale riparto di competenza tra Stato e Regioni (che compete alla Costituzione), e in subordine va impiegata una formulazione elastica, compatibile sia con il vigente che con il futuro art. 117 Cost.
La nuova disciplina delle Commissioni di gara può ascriversi alla competenza esclusiva statale, nella prospettiva del suo carattere pro concorrenziale e di tutela della trasparenza.
Il codice e la qualità della regolazione formale e sostanziale
Un secondo gruppo di questioni di carattere generale attiene ai profili della codificazione nella prospettiva dei parametri, anche internazionali, di better regulation, e ai rapporti tra codice e suoi atti attuativi.
Il codice va analizzato anzitutto secondo i parametri della qualità formale della regolamentazione.
Sotto il profilo della completezza del riordino, si chiede che si riproducano e/o abroghino tutte le fonti previgenti, secondo il primato dell’abrogazione espressa su quella tacita; andrà (prima o poi) riordinata nel codice anche la legislazione di contabilità di Stato, ormai “ultranovantenne”.
Si auspica (futura) stabilità normativa, dovendosi evitare modifiche continue delle disposizioni sugli appalti; a tal fine, non essendo sufficiente, se non come monito morale ed esegetico, la clausola di riserva di codice, andrebbero de iure condendo utilizzati strumenti quali la legge annuale sugli appalti, o apposite sessioni parlamentari.
Il codice deve rispettare il canone della chiarezza formale, declinata come:
- chiarezza del linguaggio utilizzato, univoco e coerente con l’intero ordinamento giuridico nazionale;
- chiarezza dei singoli articoli, che devono essere snelli e sintetici; “peccano” per eccesso l’art. 3 del codice, con 83 definizioni, enumerate arrivandosi fino alla lettera vvvv), e il comma 7 dell’art. 93, articolato in sei lunghe frasi a loro volta composte di numerosi periodi sintattici;
- coerenza interna del codice, quanto a rinvii interni, definizioni, rubriche degli articoli;
- coerenza esterna del codice, con definizioni e norme contenute in altre discipline settoriali, vigenti o in corso di approvazione, quali il codice dell’amministrazione digitale, della trasparenza, la disciplina delle società pubbliche, il codice dei beni culturali, il codice penale, il testo unico del casellario giudiziale, la legge quadro sul procedimento amministrativo.
Il codice e i suoi atti attuativi. Natura degli atti attuativi di soft law
Il codice va analizzato anche secondo il parametro della qualità sostanziale della regolamentazione.
Si condivide l’abbandono del modello dell’unico regolamento di attuazione, che sinora non ha dato buona prova (per iper regolamentazione di dettaglio e tempi lunghi di adozione).
Si esprime preoccupazione per l’attuazione del codice affidata a oltre 50 atti attuativi, analiticamente censiti. Anche gli atti attuativi dovranno attenersi al divieto di gold plating.
Sarà necessario un costante monitoraggio e verifica di impatto della nuova disciplina codicistica, anche per i futuri correttivi.
Si richiede che la cabina di regia istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri elabori un piano di azione della fase attuativa del codice, coordinando gli interventi di competenza dei diversi Ministeri, assicurando la tempestiva e ordinata attuazione, e evitando sovrapposizioni e duplicazioni.
La cabina di regia dovrà avere un ruolo cruciale anche per il monitoraggio e la verifica di impatto del codice.
Una seria verifica di impatto richiede un tempo minimo di due anni: il termine per l’adozione dei correttivi, fissato in un anno, appare troppo breve, e si auspica che il Parlamento possa portarlo a due anni.
Si ipotizza un doppio ruolo dei decreti correttivi: un correttivo in senso “atecnico” per emendare da subito errori inevitabili stante la complessità dell’attuazione della delega e i tempi stretti; uno o più correttivi in senso “tecnico” dopo un congruo e effettivo periodo di monitoraggio e verifica di impatto della regolamentazione.
Gli atti attuativi, dopo l’adozione, devono essere raccolti in testi unici da ciascuna Autorità competente (in particolare MIT e ANAC).
Nella fase attuativa il Consiglio di Stato potrà esplicare la sua funzione consultiva mediante risposta a quesiti specifici o parere sui singoli atti attuativi.
Il delicato tema della natura giuridica della c.d. soft law, va affrontato analizzando le tre tipologie di linee guida previste dalla delega, tutte, secondo la delega, giustiziabili davanti al giudice amministrativo.
I decreti ministeriali contenenti le linee guida adottate su proposta dell’ANAC, e sottoposti a parere delle commissioni parlamentari, sono veri e propri regolamenti, che seguiranno lo schema procedimentale disegnato dall’art. 17, legge n. 400 del 1988 (ivi compreso il parere del Consiglio di Stato).
Le linee guida “vincolanti” dell’ANAC, sono (non regolamenti, bensì) atti di regolazione di un’Autorità indipendente, che devono seguire alcune garanzie procedimentali minime: consultazione pubblica, metodi di analisi e di verifica di impatto della regolazione, metodologie di qualità della regolazione, compresa la codificazione, adeguata pubblicità e pubblicazione, se del caso parere (facoltativo) del Consiglio di Stato.
Le linee guida non vincolanti dell’ANAC avranno un valore di indirizzo a fini di orientamento dei comportamenti di stazioni appaltanti e operatori economici.
Nel “regolamento di confini” tra materie assegnate alle linee guida ministeriali e alle linee guida dell’ANAC, la qualificazione, attenendo a requisiti e status soggettivi, è tipicamente affidata a regole generali e astratte che completano le norme di rango primario, e dovrebbe essere affidata a fonte regolamentare, quali sono i decreti ministeriali. La competenza dell’ANAC troverebbe comunque piena esplicazione attraverso il potere di proposta, essendo la proposta un atto tipico che predetermina il contenuto del provvedimento finale.
La disciplina transitoria
Un ultimo, ma non per ordine di importanza, problema di carattere generale è quello della fase transitoria. Essendo molteplici gli atti attuativi del codice che dovranno sostituire l’attuale, pressoché unico, regolamento generale, è auspicabile che detto regolamento non sia abrogato con effetto immediato, il che creerebbe un vuoto normativo, ma dalla data di adozione dei singoli atti attuativi (che opereranno una ricognizione delle disposizioni sostituite) e comunque con una “ghigliottina” allo scadere di due anni (circa) dall’entrata in vigore del codice.
Questioni specifiche maggiormente rilevanti
Riguardo alle disposizioni più rilevanti dell’articolato, il Consiglio di Stato ha richiesto che:
Ø sia espunta la previsione che fa salve speciali disposizioni vigenti per amministrazioni, organismi e organi dello Stato dotati di autonomia finanziaria e contabile, apparendo generica, eccentrica, non conforme alle direttive e alla legge delega (art. 1);
Ø la regola di riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni sia flessibile e coerente sia con il vigente che con il futuro art. 117 Cost. (art. 2);
Ø le definizioni siano chiare, leggibili, coerenti con gli articoli specifici (art. 3);
Ø l’in house sia meglio coordinato con la disciplina (in itinere) sui limiti alla costituzione delle società pubbliche (artt. 5 e 192);
Ø vi sia prudenza nel tasso di semplificazione degli affidamenti sotto soglia e dei contratti esclusi, che potrebbe esitare in una riduzione eccessiva di concorrenza e trasparenza; alla gara informale si invitino almeno cinque concorrenti (artt. 4 e 36);
Ø l’obiettivo, innovativo e centrale, della riduzione del numero delle stazioni appaltanti, attraverso la loro qualificazione e centralizzazione obbligatorie, sia perseguito con determinazione, mediante una celere adozione degli atti attuativi, e salvaguardando meglio le piccole e medie imprese nei confronti della grande committenza (artt. 37-41);
Ø la disciplina dei requisiti morali dei concorrenti abbia maggior rigore, mediante ampliamento del novero delle condanne penali ad effetto escludente e mediante ripescaggio di altre fattispecie escludenti previste dal vecchio codice (art. 80);
Ø la disciplina dei requisiti reputazionali non sia punitiva degli operatori che esercitano in modo legittimo e non emulativo o pretestuoso il diritto di difesa in giudizio (art. 84);
Ø il soccorso istruttorio sia chiaro nei suoi presupposti e limiti, e non sia mai oneroso (art. 83);
Ø la qualificazione degli operatori economici sia affidata a principi codicistici e regole attuative (di natura sostanzialmente regolamentare) chiare; il sistema SOA sia ripensato all’esito della revisione straordinaria affidata all’ANAC (artt. 83 e 84);
Ø sia chiaro il coordinamento tra codice appalti e codice della disciplina antimafia (art. 80);
Ø la disciplina dell’avvalimento, sia completata con la previsione del contratto di avvalimento, mentre è corretta la mancata riproduzione dei divieti di avvalimento plurimo, frazionato, e infra-ATI (art. 89);
Ø il preferenziale criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa non sia vanificato da fughe elusive nel criterio del prezzo più basso, e sia garantito per tutti i servizi a contenuto intellettuale (art. 95);
Ø nella disciplina delle offerte anomale si ripristinino garanzie procedimentali minime della fase di verifica in contraddittorio, e si valuti il ripristino dell’esclusione automatica per le offerte anomale sotto soglia; si ripristini la facoltà di estendere la verifica di anomalia anche a offerte che non superano la soglia matematica di anomalia (art. 97);
Ø il principio di tendenziale separazione tra progettazione e esecuzione non sia eluso mediante contratti atipici di partenariato pubblico-privato (art. 180);
Ø le deroghe alla gara pubblica in caso di eventi di protezione civile siano di stretta interpretazione e limitate allo stretto necessario; sia circoscritto il presupposto della previsione di un evento imminente, che non può che essere una previsione fondata su parametri scientifici e riferita alla probabile oltre che imminente verificazione dell’evento; siano abrogate espressamente le previgenti regole derogatorie specifiche dettate per singoli eventi (artt. 63 e 163);
Ø per gli appalti nei settori speciali, sia chiaro e definito il regime derogatorio; mentre è corretta l’estensione di disposizioni di maggior rigore a tutela della trasparenza, della partecipazione e della concorrenza, sia chiarito l’ambito della disciplina applicabile alla fase di esecuzione (artt. 114 ss.);
Ø nelle concessioni il rischio sia l’effettivo elemento differenziale dall’appalto; si valuti il completamento dell’attuazione della delega in tema di concessioni autostradali (ivi compresi il divieto di proroga e l’avvio tempestivo delle procedure di gara) e obblighi di esternalizzazione (artt. 164, 165, 177, 178);
Ø nella cornice generale del partenariato pubblico-privato siano chiari la definizione, l’ambito, la portata del rischio e l’ambito della progettazione a carico del partner privato (art. 180);
Ø il precontenzioso sia disciplinato con modalità chiare, per evitare che si generi un “contenzioso sul precontenzioso” (art. 211);
Ø la decisione dell’ANAC resa in sede precontenziosa sull’accordo delle parti, che vincola le parti, sia impugnabile entro un termine breve, e si preveda che il giudice valuterà la condotta della parte soccombente ai fini della lite temeraria (art. 211);
Ø si rimoduli il potere dell’ANAC di sollecito dell’autotutela delle stazioni appaltanti, trasformandolo da potere sanzionatorio a potere impugnatorio secondo il modello AGCM (controllo collaborativo) (art. 211);
Ø l’immediata impugnazione degli atti di ammissione e esclusione dalle gare sia accompagnata da tempi certi di conoscenza e accesso agli atti; si valuti una riduzione della misura del contributo unificato; non si sopprima la tutela cautelare nel rito superspeciale (artt. 204, 29, 76);
Ø il dibattito pubblico sia da subito obbligatorio, e si chiarisca l’ambito dei soggetti ammessi al dibattito, mentre è corretta l’estensione dell’istituto ai settori speciali (art. 22).
Altre questioni specifiche
Riguardo alle disposizioni più rilevanti dell’articolato, il Consiglio di Stato ha richiesto che:
Ø non si restringano eccessivamente i tempi per la verifica preventiva di interesse archeologico (art. 25);
Ø nella scansione delle fasi delle procedure di affidamento, si elimini ogni riferimento all’aggiudicazione provvisoria e definitiva, da qualificare, più propriamente, e rispettivamente, come proposta di aggiudicazione e aggiudicazione tout court (art. 32);
Ø non si eludano le regole dello stand-still nell’avvio di urgenza dell’esecuzione del contratto (art. 32);
Ø sia chiaro l’uso delle espressioni sotto soglia, sopra soglia, pari alla soglia (art. 35 e articoli che lo richiamano);
Ø nella scelta delle procedure sia meglio chiarito il rapporto tra regola (procedure aperte e ristrette) e eccezioni (procedure negoziate con e senza bando, dialogo competitivo, partenariato per l’innovazione) (art. 59);
Ø nella procedura negoziata senza bando per ragioni di estrema urgenza a causa di eventi imprevedibili non si menzionino tipi nominati, quali le bonifiche e la protezione civile, che non possono essere ipotesi aggiuntive, ma solo esemplificative (art. 63);
Ø nel dialogo competitivo non sia ricopiata la vecchia definizione non più attuale (artt. 3 e 64);
Ø nella disciplina dell’albo dei commissari di gara si fissino per legge i principi sui requisiti dei commissari (artt. 77 e 78);
Ø siano meglio precisati i presupposti per la partecipazione alle gare e per la prosecuzione dei contratti in caso di sottoposizione dell’operatore economico a procedure concorsuali (art. 110);
Ø sia espressamente motivato nell’AIR il divieto di avvalimento per gli appalti nel settore dei beni culturali (art. 146);
Ø nella cessione di immobili pubblici in cambio di opere sia meglio circoscritta e garantita la possibilità di trasferimento della proprietà del bene pubblico prima del completamento dei lavori (art. 191);
Ø nella disciplina del contraente generale siano più chiari deroghe e rinvii alla disciplina generale, e si valuti la competenza transitoria sul sistema di qualificazione (artt. 194 ss.);
Ø le discipline transitorie contenute nel codice siano tutte accorpate in un unico articolo finale (art. 216);
Ø sia integrato l’elenco delle abrogazioni espresse con una puntuale ricognizione del quadro normativo vigente (art. 217) (Consiglio di Stato, Commissione Speciale, parere 01.04.2016 n. 855 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Cds boccia la riforma Scia. Ignoti i procedimenti soggetti ai diversi istituti di verifica. Palazzo Spada: al buio segnalazione, silenzio-assenso, autorizzazione e comunicazione.
Parere negativo del consiglio di stato sullo schema di dlgs relativo alla Scia approvato lo scorso 20.01.2015 dal consiglio dei ministri. In quanto manca, la «precisa individuazione» dei procedimenti soggetti a Scia, a silenzio-assenso, ad autorizzazione espressa e a comunicazione preventiva. Tale individuazione viene espressamente rinviata a successivi decreti legislativi ma, almeno dal punto di vista ricognitivo, è uno degli oggetti principali della delega.

Dopo che la Conferenza unificata del 03.03.2016 aveva espresso parere favorevole all'intesa sul decreto legislativo che riforma la «Scia» arriva adesso il parere negativo del Consiglio di stato espresso dall'adunanza della commissione speciale (parere 30.03.2016 n. 839).
La conclusione per il Consiglio di stato è che il testo del decreto legislativo vada riscritto recependo i rilievi presentati e che il nuovo testo le venga sottoposto per un nuovo parere.
Individuazione procedimenti soggetti a Scia. La commissione speciale del Consiglio di stato evidenzia che lo schema del dlgs sulla Scia, sceglie di non esercitare una parte importante della delega: manca, infatti, la «precisa individuazione» dei procedimenti soggetti a Scia, a silenzio-assenso, ad autorizzazione espressa e a comunicazione preventiva, che viene espressamente rinviata ai successivi decreti legislativi ma che, almeno dal punto di vista ricognitivo, appare come uno degli oggetti principali della delega.
Sarebbe stato auspicabile che l'attuazione della delega, preferibilmente con un unico decreto legislativo, non prescindesse dalla pur non facile opera di ricognizione e classificazione dei procedimenti, di indiscutibile utilità per il cittadino chiamato a orientarsi tra le nuove potenzialità della liberalizzazione delle attività economiche e il permanente potere di intervento delle pubbliche amministrazioni, con le sue diverse tipologie.
Un'opera che dovrà essere portata a termine, a tempo debito, tenendo conto, comunque, dei «princìpi del diritto dell'Unione europea relativi all'accesso alle attività di servizi» e di quelli di «ragionevolezza e proporzionalità», al fine di tracciare un percorso riconfigurativo del complesso delle norme regolatrici dei rapporti tra poteri delle pubbliche amministrazioni e attività private.
I «
regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto dei princìpi di non discriminazione, di proporzionalità», costituendo il regime autorizzatorio l'eccezione, che deve essere adeguatamente motivata.
Silenzio-assenso e comunicazione preventiva. Un'altra parte della delega che non risulta esercitata è quella relativa alla disciplina generale del silenzio assenso e della comunicazione preventiva, di cui alla parte finale del comma 1 dell'articolo 5 della legge n. 124 del 2015.
Ad essa, sostiene la commissione del Consiglio di stato, non si fa alcun riferimento nello schema di decreto legislativo (nemmeno nel titolo), ancorché anch'essa sia espressamente prevista come oggetto della delega. Manca, in particolare, la previsione dell'obbligo di comunicazione ai soggetti interessati dei «termini entro i quali l'amministrazione è tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda».
I giudici del Consiglio di stato invitano, pertanto, il Governo a valutare l'opportunità di intervenire, almeno limitatamente ai suddetti aspetti, integrando la modulistica e prevedendo la conoscibilità dei detti elementi per il tramite dei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: I punti principali del parere del Consiglio di Stato sullo schema di “decreto scia” [Schema di decreto legislativo recante attuazione della delega di cui all’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)].
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1. Le raccomandazioni generali sulla riforma di cui alla legge n. 124 del 2015
Il Consiglio di Stato riprende le considerazioni generali sulla importanza di una “riforma organica” della pubblica amministrazione di cui alla legge n. 124 del 2015 e sulla necessità di una ‘visione nuova’ della pubblica amministrazione, già esposte nel parere del 18.02.2016 (n. 343/2016), sul “decreto trasparenza”, e ribadisce soprattutto:
• la rilevanza cruciale dell’implementazione della riforma, anche dopo l’approvazione dei decreti attuativi;
• l’importanza, in particolare, della creazione di una cabina di regia per l’attuazione ‘in concreto’, che curi anche gli strumenti ‘non normativi’ di intervento (quali: la formazione dei dipendenti incaricati dell’attuazione, la comunicazione istituzionale a cittadini e imprese sui loro nuovi diritti, l’adeguata informatizzazione dei procedimenti, etc.);
• l’importanza della “manutenzione” della riforma, attraverso una fase di monitoraggio e verifica dell’impatto delle nuove regole, nonché con la definizione, se del caso, di decreti correttivi, o di quesiti attuativi da porre al Consiglio di Stato.
2. La SCIA si riferisce ad attività ‘libere’ e non richiede alcun intervento preventivo della p.a.
Il parere opera una ricostruzione dell’evoluzione dall’istituto della SCIA e ne ricava indicazioni di principio, che possono indirizzare la successiva attività attuativa e interpretativa. Si conferma che le attività soggette a SCIA:
• sono ‘libere’, ‘consentite direttamente dalla legge’ in presenza dei presupposti normativamente stabiliti, senza più spazio per alcun potere di assenso preventivo della p.a.;
• sono ‘conformate’ dalle leggi amministrative, e quindi sottoposte a successiva verifica dei requisiti da parte delle autorità pubbliche, entro un termine stabilito.
3. Le parti della delega non esercitate
Il Consiglio di Stato rileva il mancato esercizio di due profili della delega:
- la ricognizione dei procedimenti soggetti a SCIA, a silenzio-assenso, ad autorizzazione espressa e a comunicazione preventiva (indicata, invece, tra gli oggetti principali della delega). Tale “precisa individuazione” –richiesta dalla delega– va assolutamente effettuata con successivo decreto;
- la previsione dell’obbligo di comunicare ai soggetti interessati i “termini entro i quali l’amministrazione è tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda”. Tale adempimento può svolgersi già con il decreto in oggetto.
4. L’opportunità di novellare direttamente l’art. 19 della legge n. 241 del 1990
Il Consiglio di Stato suggerisce di introdurre le innovazioni della disciplina generale in materia di SCIA non in un decreto a sé, ma novellando direttamente l’articolo 19 della l. n. 241: la concentrazione della disciplina dello stesso istituto nella stessa legge la rende più sistematica e più facilmente conoscibile.
5. Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni: i rapporti si consolidano dopo 18 mesi
Il parere ritiene che la legge n. 124 del 2015 abbia introdotto un ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, prevedendo un limite massimo di 18 mesi all’intervento “in autotutela”, dopo il quale si consolidano le situazioni dei privati.
Secondo il Consiglio di Stato, il legislatore del 2015 ha fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, valorizzando il principio di affidamento.
Tale ‘regola generale’ si rinviene nel nuovo testo dell’art. 21-nonies della legge n. 241.
6. Le applicazioni di tale ‘nuovo paradigma’ in materia di SCIA
Il ‘nuovo paradigma’ si applica anche alla SCIA, ma in modo diverso.
Difatti, per la SCIA non può parlarsi di ‘autotutela’ in senso tecnico, poiché essa costituisce un provvedimento ‘di secondo grado’ ed esso appare impossibile per la SCIA, dove il provvedimento iniziale manca del tutto.
Il nuovo art. 21-nonies detta piuttosto, per la SCIA, la ‘disciplina di riferimento’ per l’esercizio del potere ex post dell’amministrazione: un potere inibitorio, repressivo o conformativo da esercitarsi solo motivando sulle ragioni di interesse pubblico e sugli interessi dei destinatari e dei controinteressati oltre che, ovviamente, entro un termine comunque non superiore a 18 mesi per adottare il provvedimento definitivo.
7. Le perduranti esigenze di coordinamento per il legislatore delegato
Questo importante principio generale impone un’opera di raccordo con il resto della disciplina in materia di SCIA, per fugare i dubbi interpretativi che iniziano a emergere in dottrina e in giurisprudenza.
Tale intervento può essere fornito sia con una integrazione dello schema in esame sia con un successivo provvedimento.
Tra le varie questioni, il Consiglio di Stato segnala la necessità di precisare:
- quale sia il dies a quo per la decorrenza dei diciotto mesi dell’art. 21-nonies;
- se il limite temporale massimo di cui all’art. 21-nonies debba applicarsi o meno anche all’intervento in caso di sanzioni per dichiarazioni mendaci ex art. 21, comma 1, della l. n. 241;
- che, in fase di prima applicazione della riforma, il termine generale dell’art. 21-nonies debba valere per tutti i provvedimenti, anche precedenti all’entrata in vigore della legge n. 124, sembrando infondata l’interpretazione di una sorta di ‘rimessione in termini’ dell’amministrazione ad opera della riforma;
- che la regola generale dell’art. 21-nonies si applichi anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti di “annullamento”, ma di “revoca”, “risoluzione”, “decadenza” o analoghe;
- quale sia la esatta delimitazione della (unica) fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall’art. 21-nonies, comma 2-bis.
8. Il ‘principio di concentrazione e di esaustività della modulistica
Il parere ritiene molto rilevante la previsione di “moduli unificati e standardizzati” per la SCIA, da pubblicare sui siti istituzionali delle amministrazioni destinatarie delle segnalazioni, che ne indichino esaustivamente i contenuti tipici, ma anche tutta la documentazione da allegare.
Se ne ricava, a livello interpretativo, un ‘principio di concentrazione e di esaustività della modulistica’, che impone che:
- i moduli siano effettivamente ‘unificati’ ed ‘esaustivi’, e non rinviino di fatto ad altri formulari presso altre amministrazioni;
- si introduca un chiaro divieto di richiesta di documentazione ulteriore rispetto a quella indicata dai moduli unificati: tutta la documentazione necessaria deve essere indicata ‘a monte’ nel modulo unificato; eventuali richieste istruttorie potranno solo evidenziare la mancata corrispondenza degli allegati presentati con quelli previsti in quella sede, non chiedere ulteriori documenti non indicati ex ante.
9. L’importanza di una ‘SCIA unica
Il parere esprime il suo apprezzamento per la scelta di regolare la fattispecie, finora non normata, di attività soggette a SCIA che, tuttavia, per il loro svolgimento, necessitano di “altre SCIA, comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche” (cd. SCIA ‘plurima’). La disciplina si ispira correttamente alla “concentrazione dei regimi” delle SCIA presupposte presso la SCIA finale. Resta, invece, ancora non risolto il caso in cui la SCIA abbia come presupposto non soltanto ‘requisiti di fatto’, bensì uno o più provvedimenti di autorizzazione.
Il Consiglio di Stato configura tre diverse opzioni, in parte anche cumulabili fra loro, che consistono in:
- escludere espressamente tali fattispecie dalla SCIA, concentrandosi solo sulla cd. ‘SCIA pura’;
- considerare anche i casi di ‘SCIA non pura’ e imporre esplicitamente che la presentazione della SCIA possa avvenire soltanto una volta acquisito l’atto autorizzativo presupposto, ‘a cura del privato’;
- prevedere che la presentazione della SCIA attivi un meccanismo per l’ottenimento dell’autorizzazione ‘a cura dell’amministrazione ricevente’, rinviando però l’avvio dell’attività al momento di tale ottenimento (trasformando di fatto, in questi casi, la ‘segnalazione di inizio di attività’ in una sorta di ‘richiesta di inizio di attività’, che potrebbe essere un modello complementare rispetto a quello della ‘SCIA pura’).
Tutte e tre queste soluzioni richiedono comunque un intervento sul decreto in oggetto: la scelta fra queste (e la preferenza tra i rispettivi vantaggi e svantaggi) va lasciata alla potestà normativa del Governo, che deve tener conto delle esigenze pratiche dei destinatari della riforma (Consiglio di Stato, Commissione Speciale, parere 30.03.2016 n. 839 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il risarcimento del danno da ritardo, con particolare riferimento all’onere della prova in materia di elemento soggettivo.
La sussistenza del danno da ritardo non può presumersi iuris tantum, in relazione al mero “superamento” del termine fissato per l’adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provarne i presupposti sia di carattere oggettivo (sussistenza del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).
La prova dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria deve considerarsi raggiunta a fronte della dimostrazione di un esito favorevole del procedimento (con conseguimento da parte del privato del bene della vita richiesto) e a fronte di una palese ed oggettiva inosservanza dei termini procedimentali, non giustificata da parte dell’Amministrazione, né in sede procedimentale né in sede giudiziale, con riferimento a difficoltà oggettive di tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare trattato.

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Con la sentenza 25.03.2016 n. 1239 (in commento) la V Sez. del Consiglio di Stato ha ribadito principi consolidati nella giurisprudenza amministrativa in relazione alla riconducibilità della fattispecie del danno da ritardo a quella di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell’onere della prova in capo al danneggiato, circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell’illecito (si veda ex multis Cons. St., sez. V, 13.01.2014, n. 63; sez. IV, 07.03.2013, n. 1406; sez. IV, 04.05.2011, n. 2675; nonché, più di recente, sez. V, 10.02.2015, n. 675, che ha precisato come nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, c.c., opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento).
Si trattava, nel caso in esame, di un procedimento di VIA per l’autorizzazione ad un ampliamento di un impianto di smaltimento e recupero di rifiuti non pericolosi, conclusosi con un ritardo di 154 giorni rispetto al termine indicato dall’art. 20 del Codice dell’ambiente, ritardo calcolato tenuto conto dell’interruzione del procedimento, dovuta alla comunicazione ex art. 10-bis l. 241/1990.
In particolare, la sentenza in commento ha rilevato che, nel caso di specie, dovesse ritenersi raggiunta la prova dell’elemento soggettivo della colpa in capo alla PA procedente, una volta dimostrato l’esito favorevole del procedimento e l’oggettiva inosservanza dei termini del procedimento, senza che l’amministrazione avesse, né in sede procedimentale né giudiziale giustificato tale ritardo con riferimento a difficoltà oggettive di tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare trattato.
Quanto alla selezione dei danni risarcibili, la sentenza ha fatto riferimento al mancato guadagno dell’imprenditore, dimostrata in via presuntiva con riferimento alla differenza tra l’utile risultante dal bilancio del 2012 e quello derivante dal trattamento della maggiore quantità di rifiuti, secondo la richiesta autorizzazione.
Occorre subito premettere che la fattispecie di danno da ritardo in esame è quella per tardiva adozione di provvedimento favorevole, con preventivo accertamento della spettanza del bene della vita richiesto. La VIA, infatti, ancorché il relativo procedimento si era tardivamente concluso, era stata favorevole all’interessato, e l’autorizzazione all’ampliamento conseguentemente concessa.
Tale forma di tutela risarcitoria sostanzialmente coincide –come rilevato dalla stessa sentenza– con il risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo (cfr. Cons. St., sez. V, 13.01.2014, n. 63).
Da essa va, dunque, distinta la diversa e controversa figura del danno da mero ritardo, con la quale, secondo un’opinione, minoritaria in giurisprudenza, si potrebbero risarcire i danni derivanti dal puro e semplice superamento dei termini di conclusione del procedimento, a prescindere dall’accertamento della spettanza del bene della vita finale (si rinvia sul punto alla rassegna monotematica a cura dell’Ufficio studi: il punto sul danno da ritardo).
La fattispecie del danno da ritardo mero, infatti, muove dal presupposto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un 'costo', dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a progetti imprenditoriali, condizionandone la relativa convenienza economica; in questa prospettiva ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell'aumento del c.d. "rischio amministrativo" (sulla risarcibilità del danno da ritardo mero, le prime pronunce che si sono occupate della questione, per lo più sotto forma diobiter dicta, sono le seguenti: C.g.a., sez. giurisdizionale, 04.11.2010 n. 1368; Cons. St., sez. V, 28.02.2011 n. 1271; C.g.a., sez. giur., 24.10.2011, n. 684; v. inoltre più di recente: Cons. St., sez. III, 31.01.2014, n. 468; sez. IV, 04.09.2013, n. 4452; sez. V, 21.06.2013, n. 3405; Tar Lecce, sez. III, 15.01.2014, n. 112; Tar L'Aquila 19.12.2013, n. 1064).
Secondo la giurisprudenza prevalente, tuttavia, come si è detto, inquadrandosi la fattispecie nell’ambito del 2043 c.c. come risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo, per accedere alla tutela risarcitoria occorre che vi sia una lesione che incida sul bene della vita finale, il quale funge da sostrato materiale dell'interesse legittimo e che non consente di configurare la tutela di interessi c.d. procedimentali puri, di mere aspettative o di ritardi procedimentali (Cons. Stato, sez. V, 29.12.2014, n. 6407; v. inoltre in generale sulla riconducibilità della fattispecie all’art. 2043 c.c.: Cons. St., sez. V, 10.02.2015, n. 675; sez. V, 21.11.2014, n. 5757; sez. V, 16.04.2014, n. 1860; sez. V, 13.01.2014, n. 63; sez. IV, 28.05.2013, n. 2899; sez. IV, 07.03.2013, n. 1406; sez. V, 21.06.2013, n. 3408).
E’ dunque pregiudiziale, per l’accoglimento della domanda risarcitoria, l’accertamento della spettanza del bene della vita richiesto dall’istante.
Pertanto, solo quando il procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario o se sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo, il solo ritardo nell’emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno “ingiusto”, con conseguente obbligo di risarcimento (Cons. St., sez. V, 29.12.2014, n. 6407; sez. V, 13.01.2014, n. 63).
Va, tuttavia, rilevato che in altra isolata occasione, la giurisprudenza ha invece valorizzato l’aspetto della spettanza del bene della vita al fine della prova del nesso di causalità tra il fatto illecito e l’evento dannoso, configurando di contro il danno ingiusto come lesione dell'interesse legittimo al rispetto dei termini procedimentali (Cons. Stato, sez. VI, 14.11.2014, n. 5600).
Quanto alla questione dell’onere della prova, la sentenza si pone in linea di continuità con la giurisprudenza amministrativa ampiamente prevalente, secondo la quale spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza di tutti i presupposti del danno da ritardo.
Infatti, se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise, non potendosi, in assenza di ciò, fare ricorso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pre-giudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere di allegazione e prova da parte del privato (il principio è stato per la prima volta affermato da Cons. St., sez. V, 28.02.2011, n. 1271; v. inoltre ex multis più di recente: Cons. St., sez. IV, 22.10.2015, n. 4823; sez. III, 10.04.2015, n. 1839; sez. V, 10.02.2015, n. 675; sez. IV, 18.11.2014, n. 5663; sez. V, 21.06.2013, n. 3405; sez. V, 21.06.2013, n. 3407).
Solo in rari casi, infatti, la giurisprudenza ha ammesso il ricorso alla valutazione equitativa del danno (cfr. Tar Latina (Lazio), sez. I, 28.11.2012, n. 892; Tar Bari (Puglia), sez. III 04.05.2012 n. 923).
In particolare, per quanto alla prova dell’elemento soggettivo, la giurisprudenza sostiene che essa non possa derivare dal mero superamento del termine di conclusione del procedimento (Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5143), dovendosi dimostrare che il difettoso funzionamento dell'apparato pubblico sia riconducibile ad un comportamento gravemente negligente o ad una intenzionale volontà di nuocere, in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa ovvero ad un colpevole atteggiamento dilatorio addebitale a negligente comportamento dell'apparato amministrativo (Cons. St., sez. IV, 04.09.2013, n. 4452; Tar Napoli, sez. III, 03.07.2015, n. 3580).
In particolare, si afferma che la colpa dell'amministrazione possa essere riconosciuta solo in situazioni di inescusabilità, in un contesto di circostanze che palesi negligenza e imperizia, e di intenzionalità di agire in violazione delle regole di buona amministrazione (Cons. St., sez. III, 06.05.2013, n. 2452 e con riferimento al danno da ritardo Cons. St., sez. V, 17.06.2015, n. 3047).
Si segnala, in particolare, Tar Liguria, sez. II, 08.01.2016, n. 4, secondo la quale, la sola violazione del termine massimo di durata del procedimento amministrativo di per sé non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa.
La sentenza in esame, tuttavia, ha –come si è detto- ritenuto provata la colpa della amministrazione, con una sorta di inversione dell’onere della prova, in quanto essa non aveva giustificato, né in sede procedimentale né giudiziale, le ragioni del ritardo.
In tema, si veda anche Cons. St., sez. IV, 07.04.2015, n. 1770, secondo il quale la colpa dell'Amministrazione va esclusa in presenza di non contestate ragioni impeditive o quantomeno scusanti al rilascio del provvedimento richiesto.
Infine, quanto alla tipologia di danni risarcibili, trattandosi di una fattispecie di danno da ritardo previo accertamento della spettanza del bene della vita, essi vanno ricondotti alla perdita subita e al mancato guadagno, in relazione appunto al bene della vita tardivamente conseguito.
Nel caso di specie è stato liquidato unicamente il danno da mancato guadagno.
Per quanto riguarda, invece, la prova del danno emergente, la giurisprudenza ha recentemente rilevato che spetta all'istante dimostrare, tra l'altro, che la mancata adozione del provvedimento ha provocato nel suo patrimonio pregiudizi che non si sarebbero verificati ove l'atto fosse stato tempestivamente emanato (Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5143)
E’ evidente, invece, che tali rigorosi oneri di allegazione non si rinvengano nel caso in cui la pretesa al danno da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo sia formulata in termini di indennizzo da mero ritardo di cui all'art. 2-bis, comma 2, l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 28, d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni nella l. 09.08.2013, n. 98 ancorché in via sperimentale e circoscritto solo ad alcune tipologie di procedimenti (con estensione del rito speciale sancito dall’art. 117 c.p.a.).
In tali casi, il ristoro è configurabile per il solo decorso del termine, anche in casi di situazioni fortuite, di forza maggiore, errore scusabile e prescinde anche dall'elemento della colpa (Cons. St., sez. IV, 13.10.2015, n. 4712) (tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISecondo la giurisprudenza della Sezione, il solo ritardo nell'emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno “ingiusto”, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell'amministrato, quando tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario o se sussistano fondate ragioni per ritenere che l'interessato avrebbe dovuto ottenerlo.
E’ pur vero che un consistente indirizzo giurisprudenziale riconnette l’accertamento del danno da ritardo ovvero del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento favorevole, da un lato al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, per l'ontologica natura delle posizioni fatte valere, dall'altro, in ossequio al principio dell'atipicità dell'illecito civile, alla fattispecie dell'art. 2043 c.c. per l'identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità.
Di conseguenza, l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda.
In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante): in sostanza, il mero "superamento" del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma non integra "piena prova del danno".

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3. Pertanto, il nucleo della contestazione della Regione appellante si incentra sulla responsabilità civile riconosciuta dal TAR e discendente dal cd. danno da ritardo.
In proposito, deve rammentarsi che secondo la giurisprudenza della Sezione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 13.01.2014, n. 63), il solo ritardo nell'emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno “ingiusto”, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell'amministrato, quando tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario o se sussistano fondate ragioni per ritenere che l'interessato avrebbe dovuto ottenerlo.
Nel caso in esame, in primo grado il TAR ha rilevato espressamente che, dalle memorie depositate in prime cure successivamente, è sopravvenuto il decreto di VIA favorevole al richiesto ampliamento e tale circostanza non è contestata in sede di appello, con conseguente acquisita prova del danno ingiusto.
E’ pur vero che un consistente indirizzo giurisprudenziale riconnette l’accertamento del danno da ritardo ovvero del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento favorevole, da un lato al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, per l'ontologica natura delle posizioni fatte valere, dall'altro, in ossequio al principio dell'atipicità dell'illecito civile, alla fattispecie dell'art. 2043 c.c. per l'identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità.
Di conseguenza, l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda (si veda ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2011, n. 2675).
In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante): in sostanza, il mero "superamento" del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma non integra "piena prova del danno".
Nel caso in esame, tuttavia, a fronte della dimostrazione di un esito favorevole del provvedimento finale, che ha consentito al privato l’ottenimento del bene della vita, ovvero l’ampliamento dell’attività economica da esso gestita, e a fronte di una palese ed oggettiva inosservanza dei termini procedimentali non giustificata da rilievi da parte dell’Amministrazione, in sede procedimentale, ovvero in sede giudiziale, di difficoltà oggettive di tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare trattato, deve considerarsi raggiunta la prova dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria.
D’altra parte, la spessa Regione appellante, in appello, muove contestazioni legate ad una mancata considerazione degli elementi di cui all’art. 1227 c.c. che è del tutto generica e priva di concreti appigli fattuali.
Peraltro, in un caso come quello di specie, in cui è dimostrato l’esito favorevole del provvedimento finale, che ha consentito al privato l’ottenimento del bene della vita, e l’oggettiva inosservanza dei termini procedimentali non si vede come possa in altro modo il privato che aspiri al risarcimento del danno dimostrare l’elemento colpa della P.A. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.03.2016 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il Collegio, al fine di verificare la sussistenza dell’interesse ad agire, ritiene necessario focalizzare le due condizioni dell’azioni (legittimazione ad agire ed interesse ad agire) alla luce degli arresti della giurisprudenza amministrativa in materia di impugnazione di piani di governo del territorio.
Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti con l'area interessata ad un intervento edilizio in ragione della semplice "vicinitas", trovandosi, il terzo in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dall'edificazione, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale, giacché tale situazione vale a differenziare una posizione di interesse qualificato rispetto al "quisque de populo".
La citata giurisprudenza è stata integrata da pronunce che contemperano il criterio della “vicinitas” con quello dell'interesse ad agire, affermandosi che la legittimazione attiva sussiste ogni qual volta le previsioni del piano territoriale, pur concernenti un'area non di appartenenza del ricorrente, incidano negativamente sul bene di proprietà o in godimento del vicino sì da comprometterne la fruizione o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall'approvazione e dall'esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua sfera giuridica.
Ai fini del radicamento delle condizioni dell’azione è necessario che per i vicini si verifichi una specifica lesione alla loro sfera giuridica, che si concretizza e si attualizza immediatamente -e quindi a prescindere dalla richiesta e dal rilascio del titolo edilizio- nella sussistenza di un pregiudizio di natura economico patrimoniale comunque derivante per il bene.
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1.- Oggetto principale del presente giudizio sono i provvedimenti con i quali il Comune di Castel di Sangro, in accoglimento delle istanza delle cooperative controinteressate, ha approvato una variante al P.E.E.P. approvato nel 1995.
I ricorrenti, quali assegnatari di una porzione del lotto U6 del P.E.E.P. lamentano che l’invocata variante arrecherebbe un pregiudizio alle potenzialità edificatorie del lotto loro assegnato e ancora da edificare, in termini di riduzione di dimensioni, volumetria e superficie coperta realizzabile.
2.- In via preliminare, il ricorso va dichiarato in parte improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse nei confronti del ricorrente Sa.Pe., il quale ha dichiarato di non avere più interesse alla decisione del ricorso nel merito, per aver effettuato la cessione volontaria al Comune della quota di proprietà delle particelle 1077, 1078 e 1079 e per aver raggiunto con l’ente locale un accordo transattivo.
In simili casi, non avendo né il potere di procedere d’ufficio né quello di sostituirsi al ricorrente nella valutazione dell’interesse ad agire, il giudice è tenuto alla declaratoria dell’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (v., ex multis, Cons. giust. amm. Reg. Sic. 05.09.2008 n. 708).
3.- Con riferimento agli altri ricorrenti, il Collegio, al fine di verificare la sussistenza dell’interesse ad agire, ritiene necessario focalizzare le due condizioni dell’azioni (legittimazione ad agire ed interesse ad agire) alla luce degli arresti della giurisprudenza amministrativa in materia di impugnazione di piani di governo del territorio.
Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti con l'area interessata ad un intervento edilizio in ragione della semplice "vicinitas", trovandosi, il terzo in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dall'edificazione, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale, giacché tale situazione vale a differenziare una posizione di interesse qualificato rispetto al "quisque de populo" (Cons. Stato Sez. VI 26.07.2001 n. 4123; idem 15.06.2010 n. 3744; Cons. Stato Sez. V 07.05.2008 n. 2086; Cons. Stato Sez. IV 17.09.2012 n. 4926; idem 30.11.2009 n. 7491; 16.03.2010 n. 1535; 20.05.2004 n. 3263).
La citata giurisprudenza è stata integrata da pronunce che contemperano il criterio della “vicinitas” con quello dell'interesse ad agire, affermandosi che la legittimazione attiva sussiste ogni qual volta le previsioni del piano territoriale, pur concernenti un'area non di appartenenza del ricorrente, incidano negativamente sul bene di proprietà o in godimento del vicino sì da comprometterne la fruizione o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall'approvazione e dall'esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua sfera giuridica (Cons. Stato Sez. IV 24.12.2007 n. 6619; 22.06.2006 n. 3947; idem 10.06.2004 n. 3755; 05.09.2003 n. 4980; 09.11.2010 n. 8364).
Ai fini del radicamento delle condizioni dell’azione è necessario che per i vicini si verifichi una specifica lesione alla loro sfera giuridica, che si concretizza e si attualizza immediatamente -e quindi a prescindere dalla richiesta e dal rilascio del titolo edilizio- nella sussistenza di un pregiudizio di natura economico patrimoniale comunque derivante per il bene (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 23.03.2016 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’istituto dell’esercizio dei poteri sostitutivi, apprestato dall’ordinamento come ulteriore strumento di tutela avverso la mancata conclusione di un procedimento che deve essere attivato d’ufficio o su istanza di parte, comporta il mero trasferimento (o l’attribuzione) ad altro organo dell’esercizio di un potere a provvedere, salva restando la piena titolarità del potere medesimo nell’organo sostitutivo e pertanto configura un fenomeno di esercizio concorrente di potere, che viene meno con l’adozione della determinazione da parte di uno dei due organi (sostituto o sostituito).
Ciò in quanto, l’adozione della determinazione soddisfa l’obbligo di conclusione del procedimento e fa venir meno la materia e la causa stessa del provvedere.
Pertanto, finché non interviene una determinazione da parte dell’uno o dell’altro organo, entrambi, pur dopo l’attribuzione del potere al sostituto, conservano l’obbligo di provvedere.
Ne consegue che l’adozione del permesso di costruire in sanatoria da parte del responsabile dell’area tecnica determinava l’automatica decadenza del potere sostitutivo in capo al segretario comunale.

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8.- Passando all’esame del ricorso nel merito, con il primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2, comma 9-bis e 9-ter, della legge n. 241 del 1990, deducendo, nella sostanza, l’incompetenza del responsabile dell’ufficio tecnico ad adottare il permesso di costruire in sanatoria, una volta che la Giunta comunale aveva attribuito il potere sostitutivo al segretario comunale.
Il motivo non merita accoglimento.
L’art. 2, comma 9-bis, della legge 241 del 1990 prevede che: <<L'organo di governo individua, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione. Per ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale dell'amministrazione è pubblicata, in formato tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage, l'indicazione del soggetto a cui è attribuito il potere sostitutivo e a cui l'interessato può rivolgersi ai sensi e per gli effetti del comma 9-ter. Tale soggetto, in caso di ritardo, comunica senza indugio il nominativo del responsabile, ai fini della valutazione dell'avvio del procedimento disciplinare, secondo le disposizioni del proprio ordinamento e dei contratti collettivi nazionali di lavoro, e, in caso di mancata ottemperanza alle disposizioni del presente comma, assume la sua medesima responsabilità oltre a quella propria>>.
Il successivo comma 9-ter, della legge 241 del 1990 dispone, altresì, che: <<Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma 7, il privato può rivolgersi al responsabile di cui al comma 9-bis perché, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concluda il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario>>
Il procedimento per l’attribuzione del potere sostitutivo è diretto a indurre l’amministrazione a concludere il procedimento amministrativo, stante la previsione di cui al comma 1 dell’art. 2, legge 241 del 1990, secondo la quale “ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso”.
In caso di mancata conclusione del procedimento amministrativo con un provvedimento espresso l’interessato può chiedere al soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo di provvedere alla conclusione del procedimento.
Si tratta ora di verificare se l’ufficio competente in via ordinaria conservi, pur dopo la nomina e l’individuazione del sostituto, il potere di provvedere in senso pieno.
L’istituto dell’esercizio dei poteri sostitutivi, apprestato dall’ordinamento come ulteriore strumento di tutela avverso la mancata conclusione di un procedimento che deve essere attivato d’ufficio o su istanza di parte, comporta il mero trasferimento (o l’attribuzione) ad altro organo dell’esercizio di un potere a provvedere, salva restando la piena titolarità del potere medesimo nell’organo sostitutivo e pertanto configura un fenomeno di esercizio concorrente di potere, che viene meno con l’adozione della determinazione da parte di uno dei due organi (sostituto o sostituito). Ciò in quanto, l’adozione della determinazione soddisfa l’obbligo di conclusione del procedimento e fa venir meno la materia e la causa stessa del provvedere.
Pertanto, finché non interviene una determinazione da parte dell’uno o dell’altro organo, entrambi, pur dopo l’attribuzione del potere al sostituto, conservano l’obbligo di provvedere.
Ne consegue che l’adozione del permesso di costruire in sanatoria da parte del responsabile dell’area tecnica arch. Va. determinava l’automatica decadenza del potere sostitutivo in capo al segretario comunale (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 23.03.2016 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A norma dell’art. 11, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (che riproduce il contenuto dell’art. 4, comma 1, della legge 28/01/1977, n. 10) il permesso di costruire può essere rilasciato ai soggetti che hanno la disponibilità giuridica dell'area e la titolarità di un diritto reale o di obbligazione che dia facoltà di eseguire le opere, con la conseguenza che l'interessato è tenuto a fornire la documentazione idonea a comprovare il suo diritto, che il Comune è tenuto ad esaminare al fine di accertarne l’idoneità a dimostrare il requisito della legittimazione soggettiva.
Il comma 3 del medesimo articolo 11 del d.p.r. 380/2001 precisa che <<il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi>>.
Costituisce ius receptum che i rapporti tra vicini hanno natura e rilevanza privatistica e non devono interessare il Comune, che non è tenuto ad effettuare complessi ed approfonditi accertamenti sull'esistenza e validità di diritti reali, essendovi appunto la clausola di salvaguardia generale, prevista dall'art. 11, comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che fa salvi i diritti dei terzi quando vi sia dubbio sul titolo privatistico di un immobile.

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10.- Con un’ulteriore doglianza la parte ricorrente lamenta l’illegittimità del permesso di costruire 1426/2014 a causa dell’omessa verifica da parte del Comune della sussistenza da parte dell’istante di un titolo idoneo su parte dell’area oggetto degli interventi edilizi.
Il percorso argomentativo seguito dal ricorrente non è privo di suggestione tant’è che in sede cautelare il Collegio ha ritenuto di aderirvi. Tuttavia, un attento e più approfondito esame della questione porta ad un diverso approdo interpretativo, alla stregua di quanto segue.
A norma dell’art. 11, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (che riproduce il contenuto dell’art. 4, comma 1, della legge 28/01/1977, n. 10) il permesso di costruire può essere rilasciato ai soggetti che hanno la disponibilità giuridica dell'area e la titolarità di un diritto reale o di obbligazione che dia facoltà di eseguire le opere, con la conseguenza che l'interessato è tenuto a fornire la documentazione idonea a comprovare il suo diritto, che il Comune è tenuto ad esaminare al fine di accertarne l’idoneità a dimostrare il requisito della legittimazione soggettiva.
Il comma 3 del medesimo articolo 11 del d.p.r. 380/2001 precisa che <<il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi>>.
Costituisce ius receptum che i rapporti tra vicini hanno natura e rilevanza privatistica e non devono interessare il Comune, che non è tenuto ad effettuare complessi ed approfonditi accertamenti sull'esistenza e validità di diritti reali, essendovi appunto la clausola di salvaguardia generale, prevista dall'art. 11, comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che fa salvi i diritti dei terzi quando vi sia dubbio sul titolo privatistico di un immobile (ex multis: Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5223).
Invero, nel caso di specie la titolarità del diritto di proprietà sull’immobile distinto in catasto al foglio 26, part. 1819 (ex part. 879) risulta controversa, tant’è che nell’atto pubblico rogato dal notaio avente ad oggetto il negozio di donazione della particella in questione in favore di Lu.Ri., all’art. 4, la parte donante e la parte donataria <<riconoscono espressamente di essere state preventivamente avvertite>> dal notaio: della <<opportunità di far precedere la presente stipula dalla sentenza dichiarativa dell’acquisto per usucapione>>; <<della circostanza che la dichiarazione della parte donante di essere “proprietaria per possesso pacifico, continuo e ininterrotto ultraventennale” non può, in alcun modo essere oggetto di verifica da parte di me notaio>>.
Di fronte all’allegazione di tale atto pubblico di donazione, depositato dalla ricorrente a giustificazione della legittimazione ad ottenere il rilascio del titolo edilizio in sanatoria, al Comune non era esigibile alcun ulteriore accertamento o complesso approfondimento in ordine alla titolarità del diritto di proprietà dell’area.
Se, osserva il Collegio, ai sensi dell'art. 2700 c.c., l'atto pubblico forma piena prova solo della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, delle dichiarazioni rese dalle parti o dei fatti che agli attesti avvenuti in sua presenza, ma non è piena prova della veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni, osserva, altresì, il Collegio che non poteva comunque richiedersi al Comune di dirimere la controversia insorta tra le parti in ordine alla titolarità del diritto reale su parte dell’area e all’effettivo acquisto per usucapione, trattandosi di questione che involge diritti soggettivi, da risolvere davanti al giudice ordinario, presso il quale, peraltro, come comprovato dalla certificazione del Tribunale di Avezzano, almeno alla data del 13.05.2015, non risultava pendente alcun contenzioso tra Ma.Ce. e Lu.Ri..
In conclusione, non è censurabile l’operato del Comune che, sulla base della allegazione dell’atto pubblico di donazione, riteneva legittimata la controinteressata a presentare la richiesta di permesso di costruire, il cui rilascio a norma dell’articolo 11, comma 3, del d.p.r. 380/2001 non può comunque comportare una limitazione dei diritti dei terzi, con la conseguenza che resta impregiudicata la facoltà dell’odierno ricorrente di avanzare le sue pretese innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 23.03.2016 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO - SICUREZZA LAVOROIncolumità, palla ai professori. I responsabili e i dirigenti garantiscono la sicurezza. SCUOLA/ La Cassazione sulle iniziative da assumere se gli edifici sono pericolanti.
È responsabilità penale specifica dei docenti delle scuole incaricati come responsabili del servizio prevenzione e protezione, nonché dei dirigenti degli enti locali addetti all'edilizia scolastica, garantire l'incolumità degli edifici scolastici.

Per queste ragioni, la Corte di Cassazione, IV Sez. penale, con la sentenza 22.03.2016 n. 12223, ha confermato la sentenza di condanna in appello di funzionari e dirigenti della Provincia di Torino e dei docenti responsabili della prevenzione della protezione del Liceo Darwin di Rivoli, ove avvenne il 22.11.2008 il crollo nel quale perse la vita Vi.Sc., col ferimento di 16 altri studenti.
La sentenza fa chiarezza su punti da sempre controversi della disciplina della sicurezza negli edifici e luoghi di lavoro. La Cassazione considera assodato che spetti alla Provincia, quale ente proprietario degli immobili scolastici, assumere direttamente le iniziative necessarie per svolgere attività di controllo, manutenzione preventiva e riparazione, senza dovere allo scopo aspettare segnalazioni della scuola.
Tuttavia, rileva la sentenza, la scuola, nonostante sia priva di poteri decisionali e di spesa in merito agli interventi di manutenzione edilizia, di per sé non può restare esente da responsabilità e, con sé, gli incaricati della prevenzione e della sicurezza. I quali hanno in ogni caso l'obbligo di adottare ogni misura per l'incolumità, come del resto indicato nel decreto ministeriale 382/1998 e nella circolare 119/1999.
Nella sostanza, tanto i dirigenti e funzionari della provincia quanto i docenti del Liceo Darwin hanno violato la diligenza specifica richiesta hanno violato i doveri posti in capo a quello che la Cassazione definisce «l'agente modello», cioè il soggetto «ideale», in grado di svolgere pienamente e al meglio il compito affidatogli. Nelle difese, i funzionari e dirigenti, nonché i docenti della scuola, secondo la Cassazione non hanno operato così da rendere il danno che poi si è verificato come «prevedibile» ed «evitabile», nonostante vi fossero chiari indizi tecnici.
Né, a discolpa, potevano appellarsi all'assenza di una preparazione scientifica adeguata al caso specifico. Infatti, spiega la IV Sezione, l'agente modello adegua la propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità scientifica e se non dispone di tali conoscenze ha l'obbligo di acquisirle, oppure di utilizzare le conoscenze di professionisti terzi o, ancora, di «segnalare al datore di lavoro la propria incapacità a svolgere adeguatamente la funzione alla quale è incaricato».
Responsabilità particolare dei dirigenti degli uffici tecnici di edilizia scolastica provinciali succedutisi negli anni, poi, non è tanto non aver effettuato personalmente sopralluoghi e rilievi, del resto impossibili da chiedere dato l'elevato numero degli edifici, ma non aver provveduto a un'adeguata mappatura degli edifici, per valutarne i rischi connessi.
La sentenza oltre a mettere in rilievo le rilevanti responsabilità dei dirigenti provinciali e dei docenti incaricati della prevenzione, indirettamente mette il dito sulla piaga sempre aperta dello stato degli edifici scolastici in Italia, molti dei quali in condizioni di pericolosità. Sul punto, molte sono le contraddizioni dell'ordinamento. Infatti, per esempio, la Cassazione esorta i responsabili ad avvalersi delle competenze altrui, se privi delle conoscenze scientifiche: ma nella pubblica amministrazione incarichi di consulenza sono sostanzialmente tutti fonte di danno erariale.
Ma, cosa ancora più rilevante, le province sono rimaste titolari delle competenze sull'edilizia scolastica, pur essendo stati falcidiati i loro bilanci con tagli che le destinano al dissesto e nel personale. Essere nei panni di dirigenti dell'edilizia scolastica, date queste premesse, non è impresa facile (articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).
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MASSIMA
9. Con motivo comune le difese degli imputati Ma., Pi. e Tu., richiamando il contenuto dell'art. 18, comma 3, del decreto legislativo n. 81 del 2008 sostengono che avrebbero dovuto essere mandati esenti da ogni responsabilità per gli eventi di cui è causa. Significativamente la questione è posta sia da imputati ritenuti responsabili in quanto funzionari della Provincia che da altri che rivestivano, invece, il ruolo di RSPP.
Tale norma che ha trasfuso l'art, 4 comma 12, del decreto legislativo n. 626 del 1994 prevede che gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente Decreto Legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione.
In tale caso gli obblighi previsti dal presente Decreto Legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta de/loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.
Va osservato a riguardo che
nella specie è pacifico che il liceo Darwin dipendesse per gli interventi strutturali e di manutenzione dalla Provincia, mentre "datore di lavoro" era da intendersi l'istituzione scolastica, soggetto che non possiede poteri decisionali e di spesa. Non può pertanto dubitarsi della posizione di garanzia dei funzionari della Provincia cui gravava l'obbligo degli interventi di manutenzione straordinaria dell'edificio.
Ciò tuttavia non comporta che la scuola resti esente da responsabilità anche nel caso in cui abbia richiesto all'Ente locale idonei interventi strutturali e di manutenzione poi non attuati, incombendo comunque al datore di lavoro (e per lui come si vedrà al RSPP da questi nominato) l'adozione di tutte le misure rientranti nelle proprie possibilità, quali in primis la previa individuazione dei rischi esistenti e ove non sia possibile garantire un adeguato livello di sicurezza, con l'interruzione dell'attività.

Ulteriore conferma si rinviene nel decreto ministeriale n. 382 del 1998 e nella circolare ministeriale n. 119 del 1999 che
prevede l'obbligo per l'istituzione scolastica di adottare ogni misura idonea in caso di pregiudizio per l'incolumità dell'utenza. Si configura insomma una pregnante posizione di garanzia in tema di incolumità delle persone. Tale obbligo è stato palesemente violato a causa della mancata valutazione della inadeguatezza dell'edificio sotto il profilo della sicurezza a causa della presenza del vano tecnico sovrastante il controsoffitto.
10.
Quanto, in particolare, al ruolo ed ai connessi profili di responsabilità della figura del RSPP, va osservato che (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 254094) svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è priva di autonomia decisionale: esse, tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze.
Tale figura non è destinataria in prima persona di obblighi sanzionati penalmente; e svolge un ruolo non operativo, ma di mera consulenza. L'argomento non è tuttavia di per sé decisivo ai fini dell'esonero dalla responsabilità penale. In realtà, l'assenza di obblighi penalmente sanzionati si spiega agevolmente proprio per il fatto che il servizio è privo di un ruolo gestionale, decisionale. Tuttavia quel che importa è che il RSPP sia destinatario di obblighi giuridici; e non può esservi dubbio che, con l'assunzione dell'incarico, egli assuma l'obbligo giuridico di svolgere diligentemente le funzioni che si sono viste.
D'altra parte, il ruolo svolto dal RSPP è parte inscindibile di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro e la sua attività può ben rilevare ai fini della spiegazione causale dell'evento illecito.

Gli imputati, nella veste di RSPP, erano astretti, come si è sopra esposto, all'obbligo giuridico di fornire attenta collaborazione al datore di lavoro individuando i rischi lavorativi e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli. Le singole posizioni dei tre imputati sono state a riguardo debitamente evidenziate (cfr. pag. 68 dell'impugnata sentenza).
Né può censurarsi la gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto che gli imputati in questione avessero posseduto le competenze adeguate alla natura dei rischi presenti per poter adempiere in primis al loro obbligo di preliminare adeguata valutazione dei rischi, trattandosi comunque di professionisti qualificati, dotati di ampia esperienza nel campo.
Né può farsi genericamente valere la presenza di altri titolari della posizione di garanzia perché la compresenza di più titolari della posizione di garanzia non è evenienza che esclude, per ciascuno, il contributo causale nella condotta incriminata (cfr. Sez. 4 n. 1194 del 15/11/2013 Rv. 258232).
11. Con riferimento alle ulteriori problematiche sottese all'odierna vicenda,
vanno richiamati i principi individuati da questa Corte di legittimità (cfr. ex plurimis Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Rv. 247015) ed i criteri utilizzati per verificare la prevedibilità dell'evento e anche quelli riguardanti l'evitabilità del medesimo; nel senso che anche per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per evitarlo è necessario individuare criteri di misura oggettivi.
La giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l'ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un'attività di natura eminentemente tecnica) o dall'uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall'uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del c.d. "agente modello" (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all'esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili.
Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un'attività, tanto più se di carattere tecnico, ha l'obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività pericolose consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura "oggettiva" della colpa diversa dal concetto di misura "soggettiva" della colpa che non rileva nel presente giudizio.
È stato sottolineato che la necessità di individuare un modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei casi (per es. l'attività medico chirurgica) nei quali difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici.
L'agente modello, si è detto, va di volta in volta individuato in relazione alle singole attività svolte e "lo standard della diligenza, della perizia e della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che "svolga" la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell'agente reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera quest'ultimo".
Il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d'avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto. Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d'altro canto, neppure possono essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l'esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte.
Utilizzando quindi tale criterio dell'agente modello quale -lo si ribadisce- agente ideale in grado di svolgere al meglio il compito affidatogli; in questo giudizio si deve tener conto non solo di quanto l'agente concreto ha percepito ma altresì di quanto l'agente modello avrebbe dovuto percepire valutando anche le possibilità di aggravamento di un evento dannoso in atto che non possano essere ragionevolmente escluse.
L'addebito soggettivo dell'evento richiede comunque non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine, non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato. A questi criteri si è attenuta la Corte di merito che si è posta il problema dell'osservanza delle regole cautelari in relazione alla situazione percepibile con l'osservanza delle regole di cautela esigibili nella fattispecie dall'agente modello e non in relazione -come sostanzialmente sostenuto da parte di alcuni ricorrenti- alla preparazione professionale degli agenti concreti negando l'esistenza della colpa perché i medesimi non avevano la preparazione scientifica necessaria.
Detta tesi è da ritenere erronea perché
agente modello è colui che adegua la propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità scientifica e che, se non dispone di queste conoscenze, adempie all'obbligo -se intende svolgere un'attività che comporta il rischio di eventi dannosi- di acquisirle o di utilizzare le conoscenze di chi ne dispone o, al limite, di segnalare al datore di lavoro la propria incapacità di svolgere adeguatamente la propria funzione.
Insomma
se un soggetto riveste una posizione di garanzia per una funzione di protezione del garantito deve operare per assicurare la protezione richiesta dalla legge al fine di evitare eventi dannosi e non può addurre la propria ignoranza per escludere la responsabilità dell'evento dannoso. Ove si accedesse ad una diversa impostazione, chiunque, anche se inesperto e incapace, potrebbe svolgere un'attività che comporta rischi di eventi dannosi e che richiede, per il suo svolgimento, conoscenze tecniche o scientifiche adducendo la sua ignoranza nel caso in cui questi eventi dannosi in concreto si verifichino.
I ricorsi degli imputati nel resto sono a riguardo peraltro articolati con numerosi riferimenti a dati fattuali e, sostanzialmente, propongono una lettura alternativa del compendio probatorio effettuata, nella maggior parte dei casi, attraverso il confronto tra i contenuti della sentenza di primo grado e quella impugnata.
Va in proposito ricordata la consolidata giurisprudenza di questa Corte orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell'apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all'art. 606 cod. proc. pen. dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 3 n. 12110, 19.03.2009; Sez. 6 n. 23528, 06.07.2006; Sez. 6 n. 14054, 20.04.2006; Sez. 6 n. 10951, 29.03.2006).
Si è altresì precisato che il vizio di motivazione ricorre nel caso in cui la stessa risulti inadeguata perché non consente di riscontrare agevolmente le scansioni e gli sviluppi critici che connotano la decisione riguardo a ciò che è stato oggetto di prova ovvero impedisce, per la sua intrinseca oscurità od incongruenza, il controllo sull'affidabilità dell'esito decisorio, sempre avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle prospettazioni formulate dalle parti (Sez. 6 n.7651, 25.02.2010).
Ancor più efficacemente si è specificato come il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo della decisione impugnata sia circoscritto alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente, che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 n. 15801, 19.04.2010, Sez. 6 n. 38698, 22.11.2006).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha sviluppato un percorso argomentativo del tutto coerente e logico, confrontandosi adeguatamente -come già sopra sottolineato con la sentenza assolutoria di primo grado.
Con riferimento alla prevedibilità dell'evento (unica questione su cui sostanzialmente le due sentenze di merito divergono, avendo il primo giudice ritenuto che non si era in presenza di segni di dissesto agevolmente riconoscibili) la Corte territoriale ha in primo luogo posto in evidenza -come già ricordato- come quello che la sentenza di primo grado definiva un semplice "controsoffitto", aveva invece la funzione di costituire il solaio di un cosiddetto vano tecnico della estensione di circa 1000 mq., e del peso di circa otto tonnellate, che, come tale doveva sostenere oltre il peso proprio, di per sé molto rilevante, anche il sovraccarico dei servizi presenti, del materiale che nel tempo si era ivi accumulato, nonché l'eventuale peso del personale della manutenzione, che sicuramente vi aveva fatto accesso, quanto meno per la sostituzione dei tubi di scarico del piano superiore.
Agli imputati è stato quindi dì fatto addebitato di aver ignorato l'esistenza dei detto vano che presentava numerose varie criticità e difetti, nonostante l'accertata presenza di una botola che ne consentiva agevolmente l'accesso.
In particolare la sentenza impugnata ha sottolineato come il detto accesso, previa apertura della botola non costituiva un eccesso di scrupolo, ma una doverosa necessità per tutti gli imputati, onde adempiere agli obblighi giuridici connessi alle rispettive funzioni. L'apertura della botola avrebbe consentito di verificare lo stato del vano tecnico ed di evidenziarne le già ricordate problematiche (cfr. pagg. 34 e ss. della impugnata sentenza).
...
13. Vanno da ultimo esaminate alcune questioni specifiche poste in particolare dal ricorrente Mo., anche se riecheggiate anche in altri ricorsi.
Sostiene in particolare il Mo. che nulla gli potrebbe essere addebitato per aver emesso un'apposita direttiva volta ad effettuare dei sopralluoghi finalizzati ad accertare la necessità di eventuali interventi. Sul punto la gravata sentenza ha ritenuto l'assoluta genericità di detta direttiva.
Detta affermazione -confutata dal ricorrente- va tuttavia calata nell'ambito dell'intero compendio motivazionale della gravata sentenza che ha sottolineato che pur essendo evidente che i funzionari e dirigenti della Provincia di Torino non avrebbero potuto svolgere personalmente tutti i controlli, agli stessi doveva comunque essere addebitata la mancata adeguata mappatura degli edifici al fine della valutazione di tutti i "rischi" verificabili, incombente questo rientrante nei precipui obblighi di controllo e di interevento su tutte le fonti di insicurezza.
E che tale fosse la presenza del "controsoffitto" di cui si discute è di palmare evidenza alla luce delle caratteristiche dello stesso quali in precedenza rammentate, della sua risalenza nel tempo, elementi questi che, come icasticamente affermato dalla difesa della parte civile nel corso del giudizio di appello e riportato nella sentenza impugnata (cfr. pag. 15) lo rendevano una vera e propria "bomba ad orologeria", innescata e sovrastante l'aula $ G del liceo Darwin, a fronte della quale per quasi mezzo secolo, nessun intervento era stato operato.
Altra questione posta è quella relativa alla individuazione quale "luogo di lavoro" del vano tecnico. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che
nella nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui viene svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro, indipendentemente dalle finalità -sportive, ludiche, artistiche, di addestramento o altro- della struttura in cui essa si svolge e dell'accesso ad essa da parte di terzi estranei all'attività lavorativa (cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, Rv. 258435).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dalla circostanza che il vano tecnico in questione era accessibile e che allo stesso si era concretamente fatto in passato accesso da parte degli operai per la sostituzione dei tubi, non può tralasciarsi che esso costituiva anche il controsoffitto dell'aula sottostante (nonché di numerosi altri locali) , aula in cui si svolgeva costantemente attività lavorativa anche in senso stretto.
E' stata posta altresì questione in ordine alle effettive cause di morte dello studente Vi.Sc., individuate dai giudici di merito nel colpo da questi subito alla testa ove era stato attinto da uno dei tubi di ghisa abbandonati nel vano tecnico. Anche detto accertamento è stato compiuto dai giudici di merito sulla base delle risultanze peritali per cui si rimanda alle osservazioni svolte in precedenza.
La questione tuttavia non ha la rilevanza che gli viene attribuita atteso che non modifica sostanzialmente il decorso causale dell'evento, in ogni caso immediata conseguenza del crollo del solaio, cui ha sicuramente contribuito quale concausa il sovraccarico del materiale ivi lasciato. La presenza di detto materiale, icto oculi accertabile rafforza per altro verso le argomentazioni in ordine alla prevedibilità e prevedibilità dell'evento come sopra formulate.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICISulla Via «ex post» parola alla Corte Ue. Ambiente. Il Tar Marche ha rimesso ai giudici comunitari la decisione sulla valutazione resa per impianti già realizzati.
Il Tar Marche investe la Corte di Giustizia Ue con la questione pregiudiziale relativa alla «Via postuma». In sintesi, si tratta della possibilità di esperire il procedimento di valutazione di impatto ambientale per un impianto già realizzato, ma mai sottoposto a verifica di assoggettabilità a Via (screening). Il che ha comportato l’annullamento dell’autorizzazione.
La delicata questione scaturisce da una vicenda sorta per un impianto di biogas con potenza nominale di 999 KWe ed è stata sollevata dal TAR Marche con ordinanza 22.03.2016 n. 185. La soluzione del quesito sottoposto alla cognizione dei giudici di Strasburgo non mancherà di avere conseguenze importantissime.
Infatti, il Tar Marche chiede se sia compatibile con il diritto comunitario un procedimento di screening (ed eventualmente di Via) implementato dopo la realizzazione dell’impianto, qualora l’autorizzazione sia stata annullata dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a Via, poiché esclusa in base a normativa interna (regionale) in contrasto con il diritto comunitario.
Le norme comunitarie prese a riferimento dal giudice amministrativo nazionale sono l’articolo 191 Tfue e l’articolo 2 della direttiva 2011/92/Ue che paiono disporre per il carattere preventivo della Via.
Tuttavia, il dubbio è sorto poiché la giurisprudenza della Corte Ue (oggetto di puntuale ricognizione da parte dell’ordinanza marchigiana), anche se non recentissima, sembrerebbe non escludere a priori la possibilità di porre rimedio al mancato esperimento dello screening.
Un dubbio ulteriormente amplificato in ragione di un’altra pronuncia comunitaria, ma di segno contrario alle precedenti che, puntualmente censita dal Tar Marche (sentenza 03.07.2008 C-215/06, Commissione contro Irlanda, punto 51) ravvisa come contrastante con il diritto Ue una norma generale che permetta la realizzazione successiva della procedura di Via, ribadendone così la natura preventiva.
In questa ondivaga situazione, il Tar marchigiano nella sua ordinanza non manca però di prendere posizione sul caso specifico e ritiene che l’annullamento sottoposto alla sua cognizione potrebbe essere assimilabile all’annullamento dell’autorizzazione per illegittimità, per la quale anche la normativa nazionale (articolo 29, comma 5, decreto legislativo n. 152/2006) prevede la possibilità di ripetere la Via annullata. Il che sarebbe coerente con la giurisprudenza europea più rigorosa.
Non solo, l’esperimento postumo della procedura di Via potrebbe non essere in contrasto con le norme Ue, alla luce della sentenza comunitaria 07.01.2004 (C-201/02 – Wells) dove al punto 69 afferma che «a tale proposito spetta al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere un’autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto a una valutazione dell’impatto ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337»
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.04.2016).
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MASSIMA
1 Va premesso che il Collegio ritiene che il giudizio debba essere sospeso al fine di richiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una decisione in ordine alla compatibilità comunitaria dell’esperibilità della verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (art. 4, c. 2, direttiva 2011/92/UE) e, conseguentemente, alla VIA, relativamente ad un impianto già realizzato.
Nel caso in esame, ciò è avvenuto a seguito di annullamento giurisdizionale dell’autorizzazione concessa in assenza di verifica di assoggettabilità a VIA. Le autorizzazioni concesse illegittimamente in assenza di verifica di assoggettamento a valutazione di impatto ambientale sono state oggetto di diverse sentenze di annullamento di questo Tribunale (Tar Marche 559/2013, 659/2013, 61/2014, 64/2014, 707/2014, 377/2015 e 486/2015), alcune delle quali, come quella oggetto del presente ricorso, confermate in appello, e hanno riguardato il periodo di vigenza delle leggi Regione Marche 20/2011 e 3/2012, fino alle modifiche introdotte dalla successiva legge regionale 30/2012.
1.1 Riguardo la normativa nazionale e regionale applicabile, va premesso che all’epoca dell’adozione del provvedimento autorizzativo successivamente annullato (autorizzazione regionale n. 52/EFR del 25.06.2012 ), la normativa nazionale prevedeva la verifica di assoggettabilità alla VIA solo per gli impianti per la produzione di energia elettrica (e di vapore e acqua calda) con potenza termica complessiva superiore a 50 MW (v. punto 2-a dell'allegato IV alla parte seconda del d.lgs. 152/2006).
1.2 In dichiarata attuazione di quanto previsto dalla legge nazionale, la legge regione Marche 20/2011 (in vigore dal 09.11.2011) prevedeva l’esenzione della verifica di assoggettabilità a VIA per gli “Impianti termici, inclusi quelli a celle a combustibile, per la produzione di energia elettrici vapore e acqua calda alimentati a biomasse, a oli combustibili vegetali o a biodiesel, di potenza termica nominale inferiore ad 3 MW”.
1.3 Come già accennato, l’archiviazione del procedimento di verifica di assoggettabilità a VIA, sulla base dell’entrata in vigore della legge appena richiamata, e quindi la mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale ha portato all’annullamento dell’autorizzazione rilasciata dalla Regione Marche, con l’impianto già in funzione, che è stato successivamente spento, con avvio della procedura di verifica di assoggettabilità di cui al combinato disposto dell'art. 23 e segg. d.lgs. 152/2006 e dell'art. 12 e segg. della L.R. 3/2012.
1.4 La legge Regione Marche 20/2011 è stata modificata dalla legge regionale 3/2012 (quest’ultima legge, che confermava l’esenzione da verifica di assoggettabilità a VIA sulla base di soglie numeriche, come già accennato è stata dichiarata incostituzionale, per tale parte, dalla sentenza 22.05.2013 n. 93 della Corte Costituzionale).
Infine quest’ultima legge è stata modificata dalla legge Regione Marche 19.10.2012 n. 30, con la quale la Regione ha provveduto ad introdurre modifiche sia all’art. 3 che all’allegato C della legge regionale 3 del 2012, recanti l’esplicita previsione della necessità di tener conto, caso per caso ed indipendentemente dalle soglie dimensionali, di tutti i criteri di selezione dei progetti indicati negli allegati della direttiva. La nuova procedura di VIA è stata effettuata secondo le previsioni di cui sopra, nonché secondo quelle della normativa nazionale.
2 Sempre con riguardo alla normativa nazionale, l’art. 15, c. 4, del DL 25.06.2014 n. 91 recava la previsione che, nei casi in cui dovessero essere sottoposti a verifica di assoggettabilità postuma, anche a seguito di annullamento dell'autorizzazione in sede giurisdizionale, impianti già autorizzati e in esercizio per i quali tale procedura era stata a suo tempo ritenuta esclusa sulla base delle soglie individuate nell'Allegato IV alla parte seconda del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, e nella legislazione regionale di attuazione la procedura di verifica di assoggettabilità fosse svolta a norma dell'articolo 6, comma 7, lettera c), del predetto decreto legislativo, ferma restando la prosecuzione dell'attività fino all'adozione dell'atto definitivo da parte dell'autorità competente e, comunque non oltre il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto. La norma non è stata convertita in legge, per cui non ha trovato applicazione.
2.1 Per completezza, sempre con riguardo alla normativa nazionale, con la modifica all'art. 6, comma 7-c, del d.lgs. 152/2006 introdotta dall'art. 15, comma 1-c, del già citato DL 24.06.2014 n. 91 è stata prevista l'introduzione di nuove soglie mediante decreto ministeriale, con la precisazione che nel frattempo la valutazione circa la verifica di assoggettamento doveva essere effettuata caso per caso sulla base dei criteri stabiliti nell'allegato V alla parte seconda del d.lgs. 152/2006.
Come è noto, in precedenza la Commissione Europea aveva avviato la procedura d’infrazione di infrazione 2009/2086 per non conformità delle norme nazionali (Parte Seconda del D.Lgs. 152/2006) con la direttiva VIA 2011/92/UE relativamente, tra l’altro, alla procedura di verifica di assoggettabilità a VIA. Con il decreto ministeriale n. 52 del 30.03.2015 sono state emanate le “Linee guida nazionali destinate a ridefinire i criteri e le soglie per determinare l’assoggettamento alla procedura di verifica dei progetti dell’Allegato IV del D.Lgs. 152/2006”, portando all’archiviazione della procedura in data 19.11.1015. Il decreto però non è applicabile ratione temporis al giudizio in esame per cui la sua conformità alla direttiva non è oggetto del presente giudizio.
3 Ne consegue, ad avviso del Collegio, che
nell’ordinamento interno italiano non è attualmente presente alcuna norma che disciplini la valutazione di impatto ambientale cosiddetta postuma, ad impianto realizzato. Per gli impianti già autorizzati, l’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce semplicemente che i provvedimenti di autorizzazione o approvazione adottati senza la previa valutazione di impatto ambientale sono annullabili per violazione di legge, come avvenuto nel caso in esame.
In caso di realizzazione degli impianti senza la previa sottoposizione alle fasi di verifica di assoggettabilità o di valutazione, il medesimo art. 29 del d.lgs. n. 152/2006 dispone, al comma 4, che l’autorità competente, valutata l'entità del pregiudizio ambientale arrecato e quello conseguente alla applicazione della sanzione, dispone la sospensione dei lavori e può disporre la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi e della situazione ambientale a cura e spese del responsabile, o, in caso di inottemperanza, d'ufficio.

Il successivo comma 5 prevede che “in caso di annullamento in sede giurisdizionale o di autotutela di autorizzazioni o concessioni rilasciate previa valutazione di impatto ambientale o di annullamento del giudizio di compatibilità ambientale, i poteri di cui al comma 4 sono esercitati previa nuova valutazione di impatto ambientale”.
3.1 Con riguardo alla posizione del giudice interno, recenti pronunce hanno affermato la compatibilità comunitaria, della VIA successiva alla realizzazione dell’impianto. Essa non sarebbe in contrasto con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria, la quale si preoccupa di chiarire quali conseguenze derivino dalla mancata previa effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità alla VIA.
Si è argomentato che l’omissione comporta, in generale, la sospensione o l'annullamento dell'autorizzazione, salvo casi eccezionali in cui risulti preferibile per l'interesse pubblico che gli effetti del provvedimento siano conservati, ma il vero vincolo per le autorità e i giudici nazionali è che le conseguenze della violazione del diritto comunitario siano cancellate (Corte Giust. 28.2.2012 C-41/11, Inter-Environnement Wallonie, punto 63). La sospensione o l'annullamento sono quindi soluzioni giuridiche strumentali, il cui scopo è consentire l'applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l'effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza, o in alternativa attraverso il risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano subito pregiudizi a causa dell'omissione (Corte Giust. 14.03.2013 C-420/11, Leth, punto 37; Corte Giust. 07.01.2004 C-201/02, Wells, punto 65).
Si è quindi ritenuta, sulla base delle predette argomentazioni, la possibilità di effettuare in un secondo momento l'esame necessario per escludere la verifica di assoggettabilità alla VIA (Tar Brescia 04.06.2015 n. 795: in questo caso la verifica di assoggettabilità è stata successiva ma ha avuto esito negativo,per cui l’impianto non è stato sottoposto a VIA). Al contrario, il giudice di appello, in casi analoghi al presente, sembra avere escluso possibilità di una VIA postuma, seppure con riferimento alla possibilità di mantenere in esercizio gli impianti (in particolare, in sede cautelare Cons. Stato Sez. IV 19.02.2014 n. 798, che, in un caso simile a quello in esame, ordinava l’astensione “da qualsiasi attività comportante l’ulteriore prosieguo della realizzazione e/o dell’esercizio dell’impianto per cui è causa (fermo e impregiudicato, come è ovvio, l’iter procedimentale della VIA. nel frattempo chiesta dalla società odierna appellante, che non è però sufficiente a legittimare ad oggi l’operatività dell’impianto, in considerazione della nota e consolidata giurisprudenza –anche europea– che non ammette una VIA ex post)”.
Anche nella sentenza Cons. Stato, sez. III, 05.03.2013, n. 1324 si è affermato il necessario carattere preventivo della VIA, in una decisione che però non riguardava un caso di VIA cosiddetta postuma, ma l’annullamento di un’autorizzazione per l’omesso svolgimento della procedura di VIA.
4
Il problema riguarda quindi l’esperibilità della Valutazione di Impatto Ambientale ad impianto già realizzato nel caso di annullamento dell’autorizzazione per mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a VIA.
4.1 L’art. 191 TFUE definisce i principi della politica dell’Unione Europea in materia ambientale e in particolare, al punto 2, afferma che “La politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione". Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga".
L’art. 2 della direttiva 2011/92/UE (e, in precedenza, l’art. 2 della direttiva 85/337/CEE) stabilisce che gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell’autorizzazione, per i progetti per i quali si prevede un significativo impatto ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, sia prevista un’autorizzazione e una valutazione del loro impatto.
4.2 Pur in presenza di una chiara enunciazione del carattere preventivo della VIA, la giurisprudenza della Corte di Giustizia citata in precedenza sembra non escludere del tutto la possibilità di rimediare al mancato esperimento dalla procedura. E’ però ben noto come, in un’altra sentenza, la Corte di Giustizia si sia espressa per la contrarietà al diritto comunitario di una norma generale che permettesse la realizzazione della VIA a posteriori (Corte giust. 03.07.2008, causa C-215/06 Commissione contro Irlanda), ribadendo la natura preventiva della procedura di VIA (in particolare punto 51).
5 Con riguardo alla posizione del Collegio sul tema, si tratta di valutare se nel caso in esame ci si trovi di fronte a circostanze eccezionali che permettano l’esperimento a posteriori della procedura di VIA, (in presenza, si ripete, di autorizzazioni annullate a causa della mancata sottoposizione a a verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale in ragione di norme contrarie al diritto comunitario).
La posizione del Tribunale è che tale possibilità non appare in contrasto con il diritto comunitario, dovendo essere valutato in particolare quanto contenuto nella sentenza 07.01.2004 C-201/02, Wells. Ne consegue che, dopo l'annullamento dell’autorizzazione, deve essere consentita l’applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l'effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza. Va altresì valutato che la fattispecie all’esame del Tribunale è assimilabile all’annullamento dell’autorizzazione per illegittimità, per la quale anche la normativa interna (art. 29, c. 5, d.lgs 152/2006) prevede la possibilità di ripetere la VIA annullata.
Ciò appare coerente con quanto stabilito dalla già citata sentenza Corte giust., 03.07.2008, causa C-215/06 Wells, che nella parte finale (69) afferma “A tale proposito spetta al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere un'autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto ad una valutazione dell'impatto ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337”.
5.1 Anche la stessa, già citata, sentenza Corte giust., 03.07.2008, causa C-215/06, che afferma come tale possibilità dovrebbe essere subordinata alla condizione che essa non offra agli interessati l’occasione di aggirare le norme comunitarie o di disapplicarle, e che rimanga eccezionale, nella parte in cui richiama la già citata sentenza Wells, afferma che la valutazione dell’impatto ambientale può essere effettuata, ad esempio revocando o sospendendo un’autorizzazione già rilasciata al fine di effettuare una tale valutazione, nel rispetto dei limiti dell’autonomia procedurale degli Stati membri (59).
Tale posizione sembra assimilabile al caso in esame, dove le autorizzazioni contrarie al diritto comunitario sono state annullate dal giudice nazionale, portando alla riedizione dell’intero procedura, partendo dalla verifica di assoggettabilità alla VIA, l’esperimento di quest’ultima e, infine, eventuale adozione della successiva autorizzazione (che deve essere ancora rilasciata).
6 Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio ritiene necessaria la rimessione alla Corte di Giustizia UE della questione interpretativa alla base dell’odierno ricorso: “
Se, in riferimento alle previsioni di cui all’art. 191 del TFUE e all’art. 2 della direttiva 2011/92/UE, sia compatibile con il diritto comunitario l’esperimento di un procedimento di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (ed eventualmente a VIA) successivamente alla realizzazione dell’opera, qualora l’autorizzazione sia stata annullata dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale, in quanto tale verifica era stata esclusa in base a normativa interna in contrasto con il diritto comunitario”.
6.1 Considerato che il primo del ricorso introduttivo all’esame del Tribunale deduce appunto l’impossibilità di esperire la cosiddetta VIA postuma, per violazione della normativa comunitaria appena citata, in tutta evidenza la soluzione della questione interpretativa proposta è necessaria per la soluzione della controversia, ai sensi del capo I, par. 14, della nota informativa (2011/C 160/01), pubblicata nella G.U.C.E. C 160/1 del 28.05.2011.
6.2 La giurisprudenza nazionale citata nella presente ordinanza è reperibile al seguente indirizzo web.
6.3 Tutto ciò premesso, il Collegio, vista la “Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali ora vigente” (2011/C 160/01), pubblicata nella G.U.C.E. C 160/1 del 28.05.2011, propone alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il seguente quesito pregiudiziale.
6.4 “
Se, in riferimento alle previsioni di cui all’art. 191 del TFUE e all’art. 2 della direttiva 2011/92/UE, sia compatibile con il diritto comunitario l’esperimento di un procedimento di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (ed eventualmente a VIA) successivamente alla realizzazione dell’impianto, qualora l’autorizzazione sia stata annullata dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale, in quanto tale verifica era stata esclusa in base a normativa interna in contrasto con il diritto comunitario”.
6.5 Alla luce di quanto suesposto, quindi, il Collegio sospende il giudizio e rimette la predetta questione interpretativa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
6.6 Ai sensi dell’art. 80 del d.lgs. n. 104/2010, spetterà, perciò, alla parte più diligente proseguire il presente giudizio presentando apposita istanza di fissazione entro novanta giorni dalla comunicazione della decisione della Corte di Giustizia.

APPALTIRicorsi, 10 giorni per i vizi. In aggiunta ai 30 per le impugnazioni.
Ai fini dell'impugnativa di una aggiudicazione, se emergono vizi relativi a atti diversi da quelli comunicati dalla stazione appaltante, il termine per ricorrere al Tar decorre dalla conoscenza degli atti rimasti ignoti fino a quel momento, ma può essere incrementato di soli dieci giorni.

E' quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 21.03.2016 n. 1143 rispetto alla disciplina prevista dal codice dei contratti pubblici vigente (articoli 79 e 120).
La prima norma (art. 79) stabilisce l'onere di comunicare a tutti i partecipanti alla gara la cosiddetta «decisione di aggiudicazione», consentendo l'accesso ai candidati non aggiudicatari l'accesso agli atti del procedimento entro dieci giorni.
La seconda norma prevede che l'impugnazione deve avvenire nel termine abbreviato di trenta giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione in questione. La Corte di giustizia chiarì (causa C-161/13), che nel caso in cui emergano vizi riferibili ad atti diversi da quelli «comunicati», dal giorno in cui l'interessato abbia avuto piena ed effettiva conoscenza, proprio in esito all'accesso, degli atti e delle vicende fino ad allora rimasti non noti.
La conseguenza di questa pronuncia è stata che il giudice italiano ha concluso che, nel caso in cui sorga l'interesse ad impugnare atti (e a censurare condotte e vizi di legittimità) conosciuti in occasione dell'accesso, il termine dei trenta giorni «slitti in avanti» e quindi sia prorogato di un numero di giorni pari a quello che si è reso necessario per acquisire la piena conoscenza degli atti in questione.
Siccome, però, il termine per effettuare l'accesso è stato fissato dal codice in soli dieci giorni per esigenze di celerità, la sentenza precisa che il cosiddetto «termine breve» (30 gg.) per l'impugnazione degli atti e provvedimenti che non siano stati trasmessi unitamente alla comunicazione della decisione di aggiudicazione e che costituiscono oggetto dell'accesso, può essere incrementato, al massimo, di dieci giorni.
Ciò fermo restando che se la pubblica amministrazione rifiuta illegittimamente di consentire l'accesso, il termine non inizia a decorrere; gli atti non visionati non si consolidano ed il potere di impugnare, dell'interessato pregiudicato da tale condotta amministrativa, non si «consuma» (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).
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MASSIMA
1. L’appello è infondato.
Con il primo mezzo di gravame l’appellante società Di. lamenta violazione dell’art. 179 del D.lgs. n. 163 del 2006 ed eccesso di potere giurisdizionale per lesione del diritto di difesa, deducendo che erroneamente il Giudice di primo grado ha ritenuto che il ricorso fosse irricevibile per tardività.
La doglianza non merita accoglimento.
1.1. Il D.Lgs. n.163 del 2006 (codice dei contratti pubblici) stabilisce:
- all’art. 79, che l’Amministrazione deve comunicare a tutti i partecipanti alla gara la c.d. ‘decisione di aggiudicazione’; e che (comma 5-quater) ai candidati non aggiudicatari va consentito l’accesso agli atti del procedimento entro dieci giorni dalla predetta comunicazione;
- ed all’art. 120 (quinto comma), che le impugnative avverso gli atti delle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture devono essere proposte nel termine abbreviato di trenta giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione in questione.
Ora,
secondo l’orientamento di una parte della giurisprudenza, dal combinato disposto delle due norme citate (art. 79 ed art. 120) non risultava del tutto chiaro se il termine per l’impugnazione dovesse essere fatto decorrere in ogni caso dalla data di avvenuta comunicazione dell’aggiudicazione; ovvero dalla data di avvenuta conoscenza degli altri atti (relativi al procedimento di aggiudicazione) a seguito dell’accesso documentale (C.S., III, sentenze n. 2407 del 24.04.2012 e n. 1428 del 14.03.2012).
La vicenda che ha condotto alla soluzione della questione è nota (cfr.: C.S., III, ord. n. 790 dell’11.02.2013 di rimessione all’Ad.Pl.; C.S. Ad.Pl., ord. n. 14 del 20.05.2013 e Corte di Giustizia CE, Sez. V, 08.05.2014, in causa C-161/13, nonché Corte di Giustizia CE, III Sezione, 28.01.2010 in causa C-406/08); e per essa non resta che rinviare alla ricostruzione effettuata dalla sentenza n. 4432 del 2014 di questa Sezione.
In questa sede
è sufficiente sottolineare che la Corte di Giustizia ha infine chiarito al riguardo -con decisione della V Sezione, 08.05.2014, in causa C-161/13- che l’art. 120 cit. dev’essere interpretato nel senso che il termine di trenta giorni per l’impugnativa del provvedimento di aggiudicazione non decorre sempre e comunque dal momento della comunicazione di cui all’articolo 79 cit.; ma, nel caso in cui emergano vizi riferibili ad atti diversi da quelli ‘comunicati’, dal giorno in cui l’interessato abbia avuto piena ed effettiva conoscenza, proprio in esito all’accesso, degli atti e delle vicende fino ad allora rimasti non noti.
Da ciò la giurisprudenza (C.S., VI, ord. 11.02.2013, n. 790; C.S., III, 28.08.2014 n. 4432) ha tratto la conclusione che nel caso in cui sorga l’interesse ad impugnare atti (e/o a censurare condotte e vizi di legittimità) conosciuti in occasione dell’accesso, il termine decadenziale breve (di trenta giorni) “slitta in avanti” (rectius: dev’essere prorogato; va incrementato) di un numero di giorni pari a quello che si è reso necessario per acquisire la piena conoscenza degli atti (delle condotte e dei profili di illegittimità) in questione.
E poiché, come si è visto, il termine per effettuare l’accesso è stato fissato dal Legislatore in soli dieci giorni (e ciò in ragione delle esigenze di celerità che caratterizzano il procedimento in materia di affidamento di lavori, forniture e servizi pubblici), la giurisprudenza ha affermato (cfr. C.S., III, 28.08.2014 n. 4432) che nelle pubbliche gare d’appalto il c.d. ‘termine breve’ per l’impugnazione degli atti e/o provvedimenti che non siano stati trasmessi unitamente alla comunicazione della decisione di aggiudicazione e che costituiscono oggetto dell’accesso (id est: degli atti non immediatamente conosciuti in occasione della comunicazione dell’intervenuta aggiudicazione) può essere incrementato, al massimo, di dieci giorni (fermo restando, beninteso, che se la P.A. rifiuta illegittimamente di consentire l’accesso, il termine non inizia a decorrere; gli atti non visionati non si consolidano ed il potere di impugnare, dell’interessato pregiudicato da tale condotta amministrativa, non si ‘consuma’).
Ora, nella fattispecie dedotta in giudizio la società Di. è stata informata dell’avvenuta aggiudicazione in data 22.12.2014, ed in tale occasione Le è stata altresì comunicata la immediata disponibilità dell’Amministrazione a consentire l’accesso alla documentazione inerente il procedimento amministrativo.
E poiché per fare ciò la Di. aveva a disposizione -come stabilito dall’art. 76 cit.- un periodo di dieci giorni, è evidente che il termine decadenziale di trenta giorni poteva ‘slittare’, al più, fino al 01.02.2015.
Ma il ricorso è stato notificato in data 04.02.2015, sicché la sua tardività risulta incontrovertibilmente evidente.
1.2. A nulla varrebbe rilevare che la comunicazione del 22.12.2014 riguardava l’aggiudicazione ‘provvisoria’ e non quella ‘definitiva’.
1.2.1. Ciò che rileva, infatti, è che con tale atto l’Amministrazione ha fissato nel 22.12.2014 la data iniziale per l’effettuazione, a domanda, dell’accesso; e dunque (seppur indirettamente) il ‘dies a quo’ per il computo del termine (di dieci giorni) entro cui (poter) utilmente condurre tale attività conoscitiva.
Sicché è evidente che proprio da tale data andavano (e vanno) computati i dieci giorni ‘in più’ (rispetto agli ‘ordinari’ trenta giorni) per proporre l’impugnazione.
D’altra parte, nello stabilire che l’accesso va effettuato entro dieci giorni dalla ‘comunicazione’ di cui all’art. 79 cit. (c.d. ‘comunicazione di aggiudicazione’), il comma 5-quater del predetto articolo non si riferisce esclusivamente e specificamente alla comunicazione dell’aggiudicazione ‘definitiva’, ma a qualsiasi comunicazione, e dunque -in ipotesi- anche alla comunicazione avente ad oggetto l’intervenuta ‘aggiudicazione provvisoria’.
E poiché l’Amministrazione si è determinata nel senso di comunicare alle ditte escluse l’intervenuta aggiudicazione provvisoria, informandole contestualmente della circostanza che la documentazione relativa al procedimento era immediatamente ‘accessibile’ e disponibile (id est: era già, fin dal momento di detta comunicazione, disponibile), non appare seriamente revocabile in dubbio che il ‘dies a quo’ per il computo del termine (di dieci giorni) entro cui effettuare l’accesso documentale era (e non poteva che essere) proprio quello della ricezione della comunicazione in questione.
Sicché la tardività dell’accesso e, in conseguenza, del ricorso avverso gli atti impugnati (conoscibili fin dal 23.12.2014 ed “accessibili” per i successivi dieci giorni) è confermata sotto ogni profilo.
1.3. Non resta pertanto che concludere per la correttezza e condivisibilità della statuizione con cui il Giudice di primo grado ha affermato che il ricorso è irricevibile.

AMBIENTE-ECOLOGIA: In materia di immissioni acustiche, affinché la fattispecie assurga al livello di fatto penalmente rilevante (art. 659, comma 1, c.p.) e non rimanga confinata entro i limiti di interesse esclusivamente civilistico delle immissioni sonore disciplinate, nell'ambito dei conflitti di vicinato, dall'art. 844 cod. civ., è indefettibilmente necessario che la condotta sia, ancorché solo astrattamente, idonea ad arrecare disturbo non a singoli, ancorché diversi, soggetti, ma ad un numero indeterminato di persone.
Siffatta verifica è il frutto di un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete.

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Or.Ma. e To.Ma. hanno presentato ricorso a questa Corte di cassazione per l'annullamento della sentenza con la quale il Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Casarano -dichiarata la loro penale responsabilità in ordine al reato di cui agli artt. 110 e 659, comma 1, cod. pen., per avere, in concorso fra loro e nelle rispettive qualità di direttore responsabile e di amministratore unico delle società che gestisce una struttura alberghiera ubicata in Torre San Giovanni di Ugento, cagionato, con immissioni acustiche, molestie alle occupazione ed al riposo delle persone- li ha condannati, concesse le attenuanti generiche e ritenuta la recidiva per il Torricella, alla pena di giustizia, subordinando la concessione della sospensione condizionale della pena all'avvenuto risarcimento del danno patito dalla costituita parte civile entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
Ad avviso dell'Or. la sentenza impugnata sarebbe viziata, sotto il profilo della violazione di legge, per averlo il Tribunale ritenuto responsabile delle molestie, sebbene egli non svolgesse nell'ambito della attività alberghiera alcun compito connesso all"animazione", settore al quale era preposto un responsabile.
Il ricorrente ha, altresì, lamentato la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza, poiché nella stessa è affermata la sua penale responsabilità, sebbene le emergenze istruttorie segnalino per una verso la assenza di diffusività delle denunziate molestie, in quanto le stesse sono state lamentate da una sola persona, e per altro verso la contenuta entità delle immissioni non idonee a cagionare le lamentate molestie, così come testimoniato dagli appartenenti all'Arma dei Carabinieri intervenuti suoi luoghi e successivamente sentiti in dibattimento.
Il ricorrente lamenta anche il fatto che il giudicante, il quale ha irrogato una sanzione pecuniaria di non elevato importo, abbia ritenuto di dovere concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena, pregiudicando il condannato in relazione ad altre eventuali ulteriori fruizioni del beneficio.
E', infine, censurata la sentenza nella parte in cui il ricorrente è stato condannato al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, senza che siano stati chiariti i criteri di determinazione della somma liquidata.
Quanto al To., questi ha prioritariamente censurato la sentenza nella parte in cui, pur avendo il giudicante sostenuto che non erano emersi elementi quanto alla responsabilità in ordine alla violazione dell'art. 659, comma 2, cod. pen., in dispositivo non ha pronunziato formula ampiamente assolutoria relativamente a tale fattispecie di reato.
Ha, poi, dedotto, con altro motivo di ricorso, la violazione di legge per avere il Tribunale ritenuto sussistere il reato di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., sebbene non sia stata provata la diffusività della dedotte molestie. Il ricorrente ha, ancora, lamentato il fatto che sia stata affermata la sua penale responsabilità, sebbene egli, nella sua qualità di amministratore unico della società che gestisce l'albergo, non abbia dato alcun apporto causale alla commissione del reato.
Infine, anche il To. lamenta la quantificazione dell'ammontare del risarcimento del danno liquidato in favore della costituita parte civile in assenza di qualsivoglia prova di esso, nonché la subordinazione della sospensione condizionale della pena, peraltro non richiesta, all'avvenuto pagamento in favore della detta parte civile della somma liquidata a titolo risarcitorio.
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Con riferimento alla imputazione concernente la violazione del comma primo dell'art. 659 cod. pen., rileva la Corte, trattandosi di una tipica fattispecie di reato di pericolo presunto, che può dirsi integrata l'ipotesi contravvenzionale de qua anche soltanto sulla base della mera idoneità della condotta ad arrecare disturbo (Corte di cassazione, Sezione I penale, 02.12.2011, n. 44905), non essendo necessario che la molestia in questione si sia effettivamente realizzata (Corte di cassazione, Sezione I penale, 07.01.2008, n. 246).
Va però ribadito il costante orientamento secondo il quale,
affinché la fattispecie assurga al livello di fatto penalmente rilevante e non rimanga confinata entro i limiti di interesse esclusivamente civilistico delle immissioni sonore disciplinate, nell'ambito dei conflitti di vicinato, dall'art. 844 cod. civ., è indefettibilmente necessario che la condotta sia, ancorché solo astrattamente, idonea ad arrecare disturbo non a singoli, ancorché diversi, soggetti, ma tale idoneità deve essere potenzialmente riferita ad un numero indeterminato di persone (Corte di cassazione, Sezione I penale, 28.02.2012, n. 7748).
Ciò posto, considerato che l'accertamento di detta idoneità, costituendo essa un elemento della materialità del reato,
è strettamente necessario ai fini della verifica della sussistenza della fattispecie penalmente rilevante, e pur tenuto conto del rilievo che, secondo un condivisibile orientamento ancora di recente ribadito da questa stessa Sezione, una siffatta verifica è il frutto di un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete (Corte di cassazione, Sezione III penale, 16.03.2015, n. 11031), va precisato che esso deve, comunque, basarsi su dati obbiettivamente rilevati -ancorché non necessariamente con strumentazioni tecniche ma anche sulla base delle coerenti risultanze sensoriali dei testi escussi- del cui apprezzamento il giudicante deve dare conto, tanto più ove si tratti di dati non strumentali, nella motivazione del suo provvedimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.03.2016 n. 10478).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIn relazione al disposto dell’art. 8 del DPR 160/2010, la variante semplificata resta subordinata dal comune procedente ad una concreta verifica di inesistenza o di insufficienza di aree destinate all’insediamento di impianti produttivi.
Anche di recente il Consiglio di Stato ha ribadito il carattere eccezionale della procedura, “la quale non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità “ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico generale: pertanto, perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di queste, laddove per “insufficienza” deve intendersi, in costanza degli standard previsti, una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da realizzare”.

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Nel merito il ricorso è fondato, in relazione all’assorbente censura sul grave difetto motivazionale che ha caratterizzato l’intero corso della procedura di variante impugnata.
Va in primo luogo puntualizzato che, a fronte della presentazione in data 16.1.2013 del progetto da parte della società contro interessata Va.Im., volto “al recupero funzionale ed alla ristrutturazione edilizia” del fabbricato da adibire a “farmacia, studi medici e residenziale in variante al PRG ed al piano particolareggiato”, il dirigente dell’Area Servizi alla Città ed al Territorio del comune di Giulianova aveva espresso in data 08.05.2013 parere negativo per alcuni profili di contrasto con la strumentazione vigente, generale ed attuativa.
Ciò nonostante, senza rendere alcun specifico richiamo a tale parere negativo, il Responsabile del SUAP ha disposto la convocazione della conferenza di servizi ex art. 8 del DPR 160/2010, sulla scorta di motivazione generica basata sul fatto che “l’intervento di cui sopra consentirà la riqualificazione del tessuto urbano dell’area in oggetto”.
Vale la pena di evidenziare che gli esiti della conferenza –terminata nell’unica seduta del 03.06.2013- sono riportati nel sintetico verbale in pari data, con cui si esprime parere favorevole alla variante urbanistica “sotto il profilo urbanistico ed edilizio”. Sulla scorta del parere favorevole acquisito dalla Provincia di Teramo e dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in data 02.09.2013 dal comune di Giulianova, il consiglio comunale ha poi dato séguito all’intervento rilevando che “l’attuazione del progetto come proposto genera a favore di questo ente una quota di plusvalenza pari ad euro 100.416,00”, così approvando ai sensi dell’art. 8 del DPR 160/2010 il progetto per il recupero funzionale e la ristrutturazione edilizia del fabbricato “polifunzionale” in via Gramsci.
Trattasi di istruttoria e di motivazione del tutto inadeguata, proprio in relazione al disposto dell’art. 8 del DPR 160/2010, secondo cui la variante semplificata resta subordinata dal comune procedente ad una concreta verifica di inesistenza o di insufficienza di aree destinate all’insediamento di impianti produttivi.
Anche di recente il Consiglio di Stato (da ultimo VI sez., sentenza 08.01.2016 n. 27) ha ribadito il carattere eccezionale della procedura, “la quale non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità “ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico generale: pertanto, perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di queste, laddove per “insufficienza” deve intendersi, in costanza degli standard previsti, una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da realizzare (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.07.2011, nr. 4308; id., 25.06.2007, nr. 3593; id., 03.03.2006, nr. 1038)”.
Nel caso di specie, nessun cenno istruttorio è stato operato in ordine alla verifica in concreto sull’esistenza o meno, in ambito civico, di spazi destinati ad insediamenti produttivi (il ricorrente si è peraltro anche soffermato sul punto, specificando –senza avversaria confutazione- gli ambiti territoriali che a suo dire postulerebbero ampie disponibilità dello strumento urbanistico in tal senso).
La stessa difesa del comune si è appellata al fatto che, soprattutto in presenza di strutture già esistenti e bisognose di ampliamento, gli spazi da reperire sarebbero quelli all’interno dei luoghi ove preesiste l’insediamento, risultando inutile riscontrare l’esistenza di spazi in altra parte del territorio difficilmente utilizzabili, con improbabili (se non impossibili) traslochi di tutta l’attività commerciale o professionale in atto.
Ora, in disparte il fatto che qualsiasi margine di adattabilità della verifica al progetto presentato non può mai prescindere dallo strumento vigente, il quale non può essere oggetto di modifiche per adeguarlo alle esigenze del proponente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, nr. 3593/2007), va anche detto che nella specie non si tratta nemmeno di un insediamento preesistente. L’immobile in questione era dismesso dopo un risalente utilizzo ad ufficio fiscale, per cui l’attività economica programmata (farmacia e studi medici), che giustifica gli ampliamenti della vecchia struttura, risulta di nuova istituzione.
Resta pertanto inconferente il richiamo alle difficoltà di trasloco dell’attività in corso verso siti urbanisticamente dedicati (di cui il Comune non si è interessato nemmeno di controllarne estensione e/o vicinanza), dovendosi piuttosto rilevare la non appropriatezza, logica prima ancora che giuridica, di un sistema che dovesse consentire al proprietario di turno di qualsiasi immobile dismesso, ovvero finora adibito a tutt’altro utilizzo, di poter approntare in loco “a piacimento” un rilevante insediamento economico-produttivo, pur in assenza di idoneità urbanistica dell’area e pur in presenza di zone alternative, altrove localizzate nello stesso Comune.
Né può condividersi il tentativo delle parti resistenti di riportare l’iniziativa in questione ad un ampliamento della farmacia già presente in zona. In realtà tale esercizio –e l’immobile nel quale viene svolta l’attività- nulla ha direttamente a che vedere con l’iniziativa edilizio/ urbanistica dell’immobile da ristrutturare e da ampliare. Che poi il gestore della farmacia abbia deciso (come pare) di spostarsi presso la nuova struttura polifunzionale poco cambia al riguardo, trattandosi di una semplice adesione logistica alla struttura polifunzionale, magari per intercettare più agevolmente la clientela proveniente dagli studi medici.
Nel caso di specie, si è visto poi come ad inizio istruttoria sia stato raccolto un parere negativo reso dal competente Ufficio del Comune, che aveva registrato un contrasto del progetto con i vigenti statuti urbanistici generali ed attuativi. Almeno tale circostanza avrebbe dovuto sensibilizzare gli organi procedenti verso una verifica ancor più rigorosa, non solo sull’esistenza o meno di aree idonee in territorio civico, ma finanche sull’impatto dell’insediamento nei riguardi dell’equilibrio urbanistico del Comune; ma di contro, nessuna specifica argomentazione del SUAP, della conferenza e del consiglio comunale è intervenuta al riguardo, neppure per chiarire (almeno) le ragioni in base alle quali tale parere poteva essere disatteso, essendosi limitato l’Organo consiliare ad evidenziare solo gli asseriti profitti economici dell’ente che sarebbero scaturiti con nuovo insediamento.
In buona sostanza è mancato in radice qualsiasi approfondimento istruttorio e motivazionale. Di tanto si è avveduto lo stesso patrono del comune che, a proposito della motivazione evanescente esternata dal consiglio comunale, ha inteso difendersi affermando che nella specie si sarebbe trattato di una semplice adesione alla proposta della conferenza dei servizi, così che vi sarebbe stato una sorta di rinvio ob relationem alle ragioni che avrebbero indotto la conferenza stessa al parere positivo sul progetto. Detta tesi manifesta però tutta la sua debolezza, di fronte al fatto che, come in precedenza evidenziato, anche nei lavori (e nel “verbalino”) della conferenza nessuna motivazione sostanziale risulta rintracciabile.
Né ovviamente le sopravvenute variazioni riduttive del progetto possono aver in qualche modo alleviato i profili vizianti sopra evidenziati, atteso che risulta del tutto indifferente ai fini qui in rilievo il minore ingombro esterno del fabbricato. Va piuttosto affermata in via consequenziale l’illegittimità derivata anche degli atti ampliativi (permesso di costruire ed autorizzazione unica) rilasciati dal comune sul progetto modificato, e ritualmente impugnati con motivi aggiunti.
Del tutto generica risulta infine la domanda risarcitoria avanzata con i motivi aggiunti, domanda di cui va pertanto disposta la reiezione.
In conclusione, il ricorso ed i motivi aggiunti trovano accoglimento, per gli assorbenti profili sopra evidenziati, e per l’effetto si annullano gli atti impugnati (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 10.03.2016 n. 132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comune non blocca l'antenna.
Il Comune non può bloccare i lavori per la mega-antenna per cellulari perché le stazioni radio base sono assimilate dalla legge a opere di urbanizzazione primaria: non devono dunque rispettare le norme sulle distanze per i comuni manufatti edilizi. E in ogni caso quando l'amministrazione locale nega il titolo edilizio richiesto per incompatibilità con il regolamento deve motivare il rigetto indicando la norma violata.

È quanto emerge dalla sentenza 03.03.2016 n. 1146, del TAR Campania-Napoli, Sez. VII.
Sono stati, quindi, frettolosi i tecnici dell'ente che hanno giudicato l'impianto per la telefonia mobile non conforme al regolamento edilizio. Anzitutto la stazione radio base della compagnia deve essere considerata un impianto di pubblica utilità. L'unica struttura a restare fuori terra, inoltre, sarebbe l'antenna vera e propria, dal momento che tutte le altre opere di valore edilizio e urbanistico sono interrate.
A riconoscerlo è lo stesso provvedimento di diniego adottato dall'ente quando dà atto che le armature del basamento sono al di sotto del piano campagna (articolo ItaliaOggi del 31.03.2016).
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MASSIMA
3.1 Nel merito le censure sono fondate in quanto le ragioni ostative addotte dall’amministrazione per rigettare l’istanza non risultano validamente legittime.
Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente deduce che all’impianto di telecomunicazione realizzato non si applicano le norme sulle distanze previste per le costruzioni in genere.
Il motivo è fondato.
Occorre precisare che
in base all’art. 86, co. 3, del d.lgs. n. 259 del 2003, gli impianti in questione sono assimilati alle opere di urbanizzazione primaria; nel caso di specie l’impianto fuori terra consisterebbe poi nella sola antenna in quante non risultano ulteriori opere edilizie che abbiano rilevante valore edilizio-urbanistico essendo quelle già compiute interrate (la circostanza dedotta nel ricorso e non specificamente contestata dal Comune viene confermata nel provvedimento impugnato ove si dà conto che le armature del basamento sono al di sotto del piano campagna).
Trattandosi dunque di impianto di pubblica utilità privo di annesse e significative opere edilizie il Collegio ritiene, in accordo con l’indirizzo prevalente nella giurisprudenza, che non sia applicabile la normativa sulle distanze previste per i comuni manufatti edilizi
(cfr. Tar Napoli sez. VII, 2461/2013 la realizzazione delle SRB non deve rispettare i limiti dalle strade previsti per le ordinarie costruzioni edilizie, trattandosi di opere assimilate alle infrastrutture di urbanizzazione primaria”).
3.2 Deve poi essere accolta la doglianza relativa alla supposta carenza del titolo di locatario relativamente alle presentazione delle istanze pregresse.
In disparte di ogni altra considerazione,
è pacifico che al momento della presentazione della denegata istanza di sanatoria la Telecom fosse locatrice del terreno interessato dall’impianto; ne consegue la piena legittimazione alla presentazione della relativa istanza ex art. 36 DPR 380/2001, il cui rigetto costituisce oggetto del presente processo.
3.3 Viene poi censurato il diniego nella parte in cui viene contestato dagli uffici comunali il contrasto con il regolamento comunale in materia di installazione di impianti di telecomunicazioni.
La doglianza è fondata.
La motivazione del diniego non riporta la disposizione violata né l’oggetto della predetta incompatibilità regolamentare. Sotto tale aspetto la motivazione dunque è assolutamente generica e inidonea a sostenere il rigetto della sanatoria.
3.4 La contestazione relativa poi alle modalità di presentazione della domanda (mancata compilazione sul modulo regionale) non ha alcun pregio in quanto
il legislatore non richiede a pena di nullità la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità in una forma determinata.
Infine,
non costituiscono valido motivo di rigetto, la mancata indicazione dei siti sensibili nelle vicinanze e l’omesso calcolo dell’oblazione in quanto si tratta di informazioni e dati già disponibili all’amministrazione e che, in ogni caso, possono essere oggetto di integrazione istruttoria all’interno del procedimento.
3.5 Non può infine avere ingresso nel thema decidendum la deduzione avanzata dai controinteressati secondo cui la Telecom avrebbe ottenuto solo dopo la realizzazione delle opere la deroga regionale (decreto n. 4 del 13.06.2014) alla distanza della Ferrovia (e dunque non vi sarebbe la doppia conformità urbanistica ex art. 36 DPR 380/2001).
Tale rilievo è infatti assente nel provvedimento impugnato; si tratterebbe -a prescindere dunque dall’ulteriore e logicamente successiva questione se la sanatoria operi con efficacia ex tunc- di inammissibile integrazione postuma della motivazione del provvedimento in sede giudiziale (cfr. Cons. Stato n. 3488/2015), peraltro proveniente non dalla parte pubblica, ma da una parte privata, totalmente priva di potestà pubblicistica in materia.
3.6 Ugualmente inammissibili -in quanto rientranti nel medesimo divieto di integrazione postuma- sono le deduzioni della difesa comunale, svolte in giudizio, relative alla vicinanza dell’impianto a siti sensibili; tale questione non rilevata dagli uffici comunali competenti, se fondata, potrà essere eventualmente sollevata dagli uffici comunali in sede di riedizione del potere.
4. In conclusione, per le ragioni esaminate, il ricorso viene accolto. Restano assorbite le ulteriori censure stante il carattere esaustivo di quelle analizzate.

EDILIZIA PRIVATAVa disattesa la censura laddove la ricorrente si duole della violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come già ripetutamente affermato dalla Sezione e dal giudice d'appello, dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal Comune, anche a cagione dell'assenza di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro, appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
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In primo luogo, va disattesa la censura articolata con il quarto motivo con il quale la ricorrente si duole della violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come già ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., tra le tante, sentenze n. 1847 del 30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d'appello (cfr. Cons. Stato, sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277), dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal Comune di Pozzuoli, anche a cagione dell'assenza -come di seguito meglio evidenziato- di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro, appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In secondo luogo, deve osservarsi che con il provvedimento impugnato il Comune di Pozzuoli ha contestato alla ricorrente di aver eseguito in assenza di alcun titolo in area paesaggisticamente vincolata una palazzina di due piani della superficie di 100 mq. con antistante tettoia di 30 mq. oltre a un altro manufatto in muratura della superficie di 20 mq. e ne ha ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
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Risulta legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 DPR 380/2001) la quale sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
In altri termini, non è richiesto un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
Resta poi fermo (cfr. censura con la quale parte ricorrente lamenta che l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3 anni dalla realizzazione dell’intervento) che non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”: e ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui la presenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa.
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Con il primo motivo la ricorrente lamenta che per l’intervento edilizio realizzato non sarebbe stato necessario il permesso di costruire bensì la sola DIA trattandosi di un intervento di risanamento conservativo e/o ristrutturazione edilizia di un preesistente vetusto comodo rurale con la conseguenza che il Comune non avrebbe potuto adottare la misura rispristinatoria.
Segnatamente, si sarebbe trattato di un intervento di parziale demolizione e ricostruzione del preesistente manufatto senza determinare alcun aumento dell’originario volume.
Il motivo non può essere accolto.
Parte ricorrente non ha fornito alcun elemento probatorio dal quale possa trarsi la conclusione della affermata legittima preesistenza dei manufatti in questione (ossia del fatto che essi risalgano al periodo nel quale per realizzare nuove opere non era necessario munirsi preventivamente del titolo edilizio e di quello paesaggistico).
In argomento la giurisprudenza ha affermato che l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Il Comune di Pozzuoli avendo, dunque, rilevato l’esistenza di un’intera palazzina di due piani con annessa tettoia oltre a un manufatto in muratura di 20 mq. ne ha legittimante ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. n. 380. Si tratta, infatti, di opere soggette a permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 oltre che all’autorizzazione paesaggistica, stante l’idoneità, per caratteristiche e dimensioni, a concretare una significativa trasformazione dello stato dei luoghi in zona paesaggisticamente vincolata.
Da quanto precede deriva che l’intervento realizzato non può essere, come vorrebbe la ricorrente, derubricato da intervento di nuova costruzione a intervento di risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia con conseguente mitigazione del trattamento sanzionatorio che avrebbe dovuto esaurirsi, al più, nell'applicazione delle misure di cui all'articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001.
Viceversa, risulta legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 del medesimo testo unico) la quale sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già evidenziate emergenze, ben lumeggiate nel provvedimento impugnato, un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria. Resta poi fermo (cfr. censura con la quale parte ricorrente lamenta che l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3 anni dalla realizzazione dell’intervento) che non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr. Cons. Stato sezione quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013, n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del 07.06.2012): e ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui la presenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquisterà la sua efficacia.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione.
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In aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo Tribunale, il silenzio dell'Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un'ipotesi di silenzio-significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
Pertanto, il silenzio-diniego formatosi a seguito del decorso del termine di 60 giorni può essere impugnato nel prescritto termine decadenziale, senza però la possibilità di dedurre vizi formali propri degli atti, quali difetti di procedura o mancanza di motivazione, non sussistendo l'obbligo di emanare un atto scritto, ripetitivo degli effetti di reiezione della istanza, disposti dal sopra richiamato art. 36.
Il diritto di difesa dell'interessato, tuttavia, non viene ad essere vulnerato dall'anzidetta limitazione all'attività assertiva, ben potendo egli dedurre (e validamente provare) che l'istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento per la sussistenza della prescritta doppia conformità urbanistica delle opere abusivamente realizzate: operazione del tutto scevra da valutazioni discrezionali e riconducibile a mero accertamento comparativo.

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Infondata è poi, per come prospettata, la censura secondo cui l'ordine demolitorio perderebbe tout-court efficacia per effetto della successiva presentazione, in data 19.05.2011, dell'istanza di accertamento di conformità, tenuto conto che "in tema di opere abusive, non può incidere sulla legittimità del provvedimento di demolizione il mancato esame di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 presentata successivamente i cui effetti l'amministrazione dovrà autonomamente valutare" (così, C.d.S., Sez. IV, 19.02.2008, n. 849).
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquisterà la sua efficacia.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione (cfr. TAR Campania, VI Sezione, 24.09.2009 n. 5071).
A maggior ragione inconferente, attesa l'autonomia dei relativi procedimenti, deve ritenersi la dedotta pendenza della domanda di compatibilità paesaggistica ex artt. 167 e 181 e del d.lgs. n. 42 del 2004, inidonea a refluire sulla legittimità della sanzione qui avversata, comminata ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 27 del testo unico sull'edilizia.
Le considerazioni fin qui svolte esplicano una diretta incidenza anche in relazione agli ulteriori motivi di censura articolati in via aggiuntiva con atto depositato in data 26.11.2011 e riferiti al provvedimento di reiezione implicita dell'istanza di accertamento di conformità inoltrata, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 36 e/o 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, in data 19.05.2011.
Ed, invero, la ricorrente ripropone qui il proprio costrutto, sopra già disatteso, secondo cui l'intervento eseguito, riconducibile alla tipologia del risanamento conservativo e/o ristrutturazione edilizia non valutabile in termini di volumi, non sarebbe soggetto a permesso di costruire. Proprio muovendo da siffatta premessa, assume, infatti, che il procedimento di sanatoria attivato con la citata istanza del 19.05.2011 dovrebbe essere ricondotto alla distinta fattispecie di cui all'articolo 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, che non contemplerebbe ipotesi di silenzio-significativo, di talché l'inerzia serbata dall'Amministrazione intimata andrebbe qualificata come silenzio inadempimento. Ove il Comune avesse, pertanto, inteso avvalersi del disposto di cui all'articolo 36 cit., tale atto legale implicito dovrebbe ritenersi, per ciò solo, illegittimo.
Sul punto, in disparte l'articolazione in forma ipotetica della domanda impugnatoria qui in rilievo, è sufficiente fare rinvio alle considerazioni già sopra svolte, da intendersi integralmente richiamate, in ordine alla insussistenza di conferenti argomenti (e soprattutto di pertinenti elementi probatori) a sostegno di tale assunto ed alla conseguente necessità di qualificare l'opera in addebito come nuova costruzione soggetta a permesso di costruire, con conseguente sussunzione del procedimento di sanatoria attivato dalla ricorrente sotto l'egida dell'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001.
In aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo Tribunale, occorre soggiungere che il silenzio dell'Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un'ipotesi di silenzio-significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta, 06.06.2008, n. 2691, 03.04.2006, n. 1710 e 14.02.2006 n. 598; sezione quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar Campania-Napoli, questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010, n. 17306, 15.07.2010, n. 16805, 25.05.2010, n. 8779, 17.03.2008, n. 1364 e 07.09.2007, n. 7958; sezione settima, 24.06.2008, n. 6118 e 07.05.2008, n. 3501; sezione ottava, 15.04.2010, n. 1981; Sezione staccata di Salerno, sezione seconda, 04.04.2008, n. 478; Tar Liguria, sezione prima, 24.06.2007, n. 1114; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 21.03.2006, n. 642; Tar Piemonte-Torino, sezione prima, 08.03.2006, n. 1173; Tar Sicilia-Catania, sezione prima, 17.10.2005, n. 1723).
Natura provvedimentale che non è smentita dalla qualificazione operata dall'art. 43 della L.R. Campania n. 16 del 2004 (peraltro successivamente abrogato dall'art. 4, comma 1, lettera n), della L.R. 05.01.2011, n. 1, a decorrere dal 150° giorno successivo a quello della sua pubblicazione) in ordine al silenzio serbato dalle amministrazioni comunali (sulle ripetute domande di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001) che "non può riverberare sulla disciplina processuale, di esclusiva competenza statale, posta per la tutela giurisdizionale contro il silenzio della pubblica amministrazione", fermo che "la previsione di cui alla norma regionale si limita, di fatto, a prevedere e disciplinare un rimedio alternativo, meramente amministrativo (attivabile d'ufficio o a cura di parte), avverso la mancata pronuncia delle amministrazioni comunali sulle richieste di accertamento di conformità, senza con ciò interferire sulla qualificazione giuridica del silenzio impugnabile in sede giurisdizionale e sul relativo rito azionabile" (cfr., in tali espliciti sensi, sempre questa Sezione n. 8779 del 25.05.2010 e, per implicito, Cons. Stato n. 598 del 2006 cit.).
Pertanto, il silenzio-diniego formatosi a seguito del decorso del termine di 60 giorni può essere impugnato nel prescritto termine decadenziale, senza però la possibilità di dedurre vizi formali propri degli atti, quali difetti di procedura o mancanza di motivazione, non sussistendo l'obbligo di emanare un atto scritto, ripetitivo degli effetti di reiezione della istanza, disposti dal sopra richiamato art. 36.
Il diritto di difesa dell'interessato, tuttavia, non viene ad essere vulnerato dall'anzidetta limitazione all'attività assertiva, ben potendo egli dedurre (e validamente provare) che l'istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento per la sussistenza della prescritta doppia conformità urbanistica delle opere abusivamente realizzate: operazione del tutto scevra da valutazioni discrezionali e riconducibile a mero accertamento comparativo.
In ossequio alle divisate coordinate di riferimento il ricorso per motivi aggiunti non può, dunque, essere accolto siccome imperniato sul presunto obbligo di provvedere e sul difetto di motivazione del silenzio rigetto; inoltre, sotto diverso profilo, non può essere condivisa l’affermazione della conformità dell'opera realizzata alle prescrizioni dello strumento urbanistico e del P.T.P. vigenti anche in ragione del fatto -più volte evidenziato- che viene qui in rilievo l'esecuzione di abusivi interventi di nuova costruzione in zona vincolata e non già di un intervento di risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia (al riguardo, è sufficiente rammentare che le disposizioni del codice dei beni culturali –d.lgs. n. 42/2004 cfr. artt. 146 e 167– precludono il rilascio di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria quando siano stati realizzati nuovi volumi).
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni il ricorso, per come integrato dai motivi aggiunti, va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Deroghe all'operatività del vincolo legale.
L'esclusione dell'operatività del vincolo paesaggistico per le aree rientranti nella previsione dell'art. 142, comma secondo, lett. c), del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, riguarda esclusivamente quelle aree che, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, alla data del 06.09.1985 ricadevano nei centri edificati perimetrati ai sensi dell'art. 18 della L. 22.10.1971, n. 865 (cosiddetti "territori costruiti"), con conseguente divieto per le amministrazioni comunali di ampliare detta disciplina derogatoria ricomprendendovi anche zone non edificate (nella specie la Corte ha ritenuto integrato il reato paesaggistico, nonostante il rilascio da parte del comune di permessi di costruire in assenza dell'autorizzazione paesaggistica, necessaria trattandosi di territorio non costruito).
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Il ricorso è fondato.
Relativamente al reato di cui al capo b) l'assoluzione si fonda sulla premessa che la normativa del P.U.T.T. (Piano Urbanistico Tematico Territoriale) non fosse applicabile trattandosi di "territorio costruito", come emergeva dalla stessa relazione del consulente tecnico del pubblico ministero.
La decisione, ancorché apparentemente avallata dalla consulenza del pubblico ministero, è frutto di un'errata interpretazione della norma e conseguentemente della nozione di "territorio costruito" risultante dalla legge e dallo stesso comma 5 dell'art. 103 delle norme di attuazione del Piano Urbanistico Tematico, il quale comma richiama sostanzialmente il contenuto del D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146. Quest'ultima norma a sua volta riproduce la L. n. 431 del 1985, art. 1 ed anticipa il contenuto del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142.
Per comprendere i termini della questione è pertanto opportuno analizzare la normativa applicabile alla fattispecie. Il D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146, comma 2, vigente all'epoca della lottizzazione, stabiliva che: "Le disposizioni previste dal comma 1 non si applicano alle aree che alla data del 06.09.1985:
a) sono delimitate negli strumenti urbanistici come zone A) e B);
b) limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione, sono delimitate negli strumenti urbanistici, a norma del D.M. 02.04.1968, n. 1444, come zone diverse da quelle indicate alla lettera A) e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadono nei centri edificati perimetrati a norma della L. 22.10.1971, n. 865, art. 18
".
Il legislatore del 1999, con la norma citata, dopo avere indicato le zone vincolate, confermando la previgente previsione di analogo tenore contenuta nella L. n. 485 del 1981, al comma 2 ha contemplato alcune eccezioni, escludendo l'operatività del vincolo legale per tutte le aree che alla data del 06.09.1985 (di entrata in vigore della "legge Galasso", pubblicata nella G.U. del 22.08.1985) si trovassero in determinate condizioni.
La deroga si riferiva a tre ipotesi:
- la prima riguardava le zone delimitate dagli strumenti urbanistici come zone A e B;
- la seconda si riferiva alle porzioni di territorio ricomprese nei programmi pluriennali di attuazione vigenti a tale data, individuate negli strumenti urbanistici, ai sensi del D.M. 02.04.1968, n. 1444, come zone diverse dalle prime due;
- la terza riguardava i comuni sprovvisti di tali strumenti e concerneva le aree ricadenti nei centri edificati, perimetrati ai sensi della L. 22.10.1971, n. 865, art. 18.
Al riguardo va ricordato brevemente che la L. n. 765 del 1967, introducendo la L. urbanistica n. 1150 del 1942, art. 41-bis, aveva stabilito che "tutti i comuni, nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, dovessero osservare limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi" (c.d. standards urbanistici).
Tali limiti e rapporti sarebbero stati definiti per zone territoriali omogenee, con un decreto del Ministro per i lavori pubblici, poi effettivamente emanato nel 1968, con il n. 1444. Il decreto in parola, all'art. 2, delinea sotto un profilo funzionale sei tipologie di zone omogenee, ognuna individuata con una lettera (da A a F) e caratterizzata da una distinta destinazione urbanistica e potenzialità edificatoria. Ciò consentiva e consente ai comuni di dare piena applicazione a quanto previsto dall'art. 7 della legge urbanistica all'epoca vigente, che prescriveva che il piano regolatore generale suddividesse in zone l'intero territorio comunale, ognuna con la propria connotazione tipologica e funzionale, individuando, tra le altre, quelle contraddistinte da particolari caratteristiche storielle, paesistiche ed ambientali, per le quali avrebbe dovuto anche individuare i relativi vincoli.
Ciò precisato, va ricordato che le zone A) vengono definite dal D.M. del 1968 come "le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi"; le zone B) sono invece quelle porzioni di territorio "totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq".
In questo ambito, pertanto, l'art. 146 intendeva escludere in assoluto l'operatività della tutela legale per tutte quelle zone già completamente o fortemente edificate ed urbanizzate (zone B), rispetto alle quali le eventuali valenze paesaggistiche risultavano sostanzialmente già cristallizzate; nonché per quelle zone in relazione alle quali gli strumenti urbanistici avessero già autonomamente proceduto ad una ricognizione degli elementi di rilievo storico, paesistico ed ambientale ed alla individuazione del relativo regime vincolistico (zone A).
Più articolata era ed è la seconda ipotesi di esclusione, che prende in considerazione le quattro rimanenti zone omogenee (C, D, E ed F), ove non si riscontrano i caratteri delle prime due, poiché ancora in larga parte inedificate o destinate ad insediamenti abitativi e commerciali, oppure industriali o latamente produttivi, ovvero per i quali sia previsto un utilizzo agricolo o, ancora, la realizzazione di impianti ed attrezzature di interesse generale.
Con riferimento a queste zone il legislatore dell'epoca (la normativa non è cambiata perché l'art. 142 codice urbani attualmente vigente riproduce sostanzialmente il contenuto dell'art. 146 ora in esame) ha sancito dunque l'inapplicabilità della tutela legale solo per quelle porzioni di territorio aventi una destinazione urbanistica diversa dalle zone A) e B) che alla data di entrata in vigore della "Galasso" risultassero incluse in programmi pluriennali di attuazione (PP.PP.AA.). Questi ultimi rappresentano uno strumento di programmazione economico-temporale introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 13 della cosiddetta "legge Bucalossi" o "legge suoli" (L. n. 10 del 1977).
La norma anzidetta aveva disposto che l'attuazione degli strumenti urbanistici generali dovesse avvenire sulla base di piani pluriennali, aventi validità temporale variabile dai tre ai cinque anni, la cui funzione era quella di delimitare le aree e le zone -incluse o meno in piani particolareggiati o in piani convenzionati di lottizzazione- nei quali dovevano realizzarsi, anche a mezzo di comparti, le previsioni di detti strumenti e le relative urbanizzazioni. La funzione di questi programmi era pertanto quella di individuare, anche cronologicamente, le fasi di attuazione del piano regolatore generale, evitando uno sviluppo urbano a "macchia d'olio" che, lasciato alla sola iniziativa dei privati avrebbe reso più disorganica ed onerosa la realizzazione dei nuovi insediamenti e delle relative opere urbanizzative.
La loro funzione era anche quella di imporre la realizzazione delle previsioni di P.R.G. ("...debbono realizzarsi.."), tanto che lo stesso art. 13 consentiva al Comune di espropriare le aree incluse nei P.PA. qualora nei tempi dagli stessi indicati gli aventi titolo non avessero presentato istanza di concessione edilizia.
Proprio per tale ragione, sia la "legge Galasso", che il D.Lgs. n. 490 del 1999, che il nuovo codice Urbani hanno inteso salvaguardare l'attività programmatoria già posta in essere dai Comuni alla data del 06.09.1985, senza condizionare con la nuova forma di tutela legale interventi pianificatori già stabiliti in specifici ambiti territoriali.
La terza ipotesi di esclusione della tutela legale contemplata dall'art. 146, comma 2, faceva invece riferimento a quelle parti di territorio che, sempre alla data di entrata in vigore della "Galasso", nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, generali o particolareggiati, ricadessero nei "centri edificati", così come perimetrali in applicazione della L. n. 865 del 1971, art. 18. Quest'ultima disposizione aveva imposto alle amministrazioni comunali non dotate di strumenti urbanistici di individuare le aree edificate o urbanizzate, mediante "delimitazione dei centri edificati con deliberazione adottata dal consiglio comunale".
La stessa norma chiariva che "il centro edificato è delimitato, per ciascun centro o nucleo abitato, dal perimetro continuo che comprende tutte le aree edificate con continuità ed i lotti interclusi. Non possono essere compresi nel perimetro dei centri edificati gli insediamenti sparsi e le aree esterne, anche se interessate dal processo di urbanizzazione".
Ne discende che, anche in questo caso, la norma non ha inteso applicare la tutela legale con riferimento ad aree il cui assetto urbanistico fosse sostanzialmente già definito, similmente a quanto già disposto per le zone B), nell'ipotesi prima analizzata. Dal tenore letterale della norma dianzi richiamata, vigente all'epoca del fatto, appare palese che l'esclusione si riferiva alle zone già antropizzate.
La perimetrazione consiliare, nei casi in cui era consentita ossia per i comuni sprovvisti di pianificazione territoriale, doveva essere effettuata in base alla L. n. 865 del 1971, art. 18, e riguardare centri già edificati alla data di entrata in vigore della legge "Galasso". In altre parole la deliberazione consiliare poteva individuare aree già edificatela non poteva considerare, al fine di escludere le autorizzazioni previste dalla legge, "territorio costruito" zone dell'ambito comunale non edificate.
La deroga si giustificava per le zone già costruite o in procinto di esserlo in base a programmi validi all'epoca della Legge Galasso, ma non per le zone non ancora edificate. Per queste ultime non v'era l'esigenza di sottrarle alla normativa paesaggistica proprio perché non ancora edificate. Se il piano non era attuato cadeva la ragione della deroga ed il vincolo si riespandeva, in quanto l'operatività della deroga posta dalla L. n. 431 del 1985, art. 1, comma 2, e poi dal D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146, presupponeva l'attualità del piano. Tale effetto non poteva essere eluso con una proroga o una rinnovazione (cfr. su questi temi Cass. n. 11716 del 2001; n. 1151 del 2000).
La disciplina normativa dianzi richiamata è stata sostanzialmente riprodotta nelle norme attuative del Piano Urbanistico Tematico Paesaggistico della Regione Puglia.
Invero, il comma 5 dell'art. 1.03 delle norme tecniche di attuazione di tale piano dispone testualmente: che le norme contenute nel Piano non "Trovano applicazione all'interno dei territori costruiti che vengono, anche in applicazione della L. n. 431 del 1985, art. 1 così definiti:
1) Aree tipizzate dagli strumenti urbanistici vigenti come zone omogenee "A" e "B";
2) Aree tipizzate negli strumenti urbanistici come zone omogenee "C" o come zone turistiche, direzionali, artigianali, industriali, miste se, alla data del 06.06.1990 incluse in uno strumento urbanistico esecutivo (Piano Particolareggiato o piano di lottizzazione) regolarmente presentato e, inoltre le aree incluse, anche se in percentuale in Programmi Pluriennali di Attuazione approvati alla stessa data;
3) aree che, ancorché non tipizzate come zone omogenee "B" dagli strumenti urbanistici vigenti: o ne abbiano di fatto le caratteristiche (ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968 vengono riconosciute come regolarmente edificate (o con edificato già sanato ai sensi della L. n. 431 del 1985) e vengono perimetrale su cartografia catastale con specifica deliberazione del Consiglio Comunale; o siano intercluse all'interno del perimetro definito dalla presenza di maglie regolarmente edificatele vengono perimetrate su cartografia catastale con specifica deliberazione del Consiglio comunale
".
Come appare palese le norme tecniche di attuazione del PUTT riproducono sostanzialmente le tre ipotesi di deroga previste dalla legge nazionale, la quale peraltro non poteva essere derogata da norme tecniche regionali. Quindi, anche in base alla normativa contenuta nel Piano, la deliberazione Comunale poteva perimetrare le zone già costruite alla data del 06.06.1990, ma non considerare edificate zone che non lo erano al fine di sottrarle all'applicazione delle norme di attuazione del Piano.
Richiamata la normativa applicabile alla fattispecie, si osserva, da un lato, che trattasi di suolo agricolo non edificato, sito in prossimità di un bosco e non nel perimetro urbano continuo come delineato dalla L. n. 865 del 1971, art. 18, prima richiamata e dall'altro, che la perimetrazione richiamata dal tribunale sarebbe stata effettuata con deliberazione del 01.06.del 2005, integrativa di una precedente deliberazione del 2003 e, quindi, in epoca successiva al mese di giugno del 1990, termine ultimo fissato nel piano per la programmazione edificatoria esclusa dal rispetto della normativa paesaggistica.
Il difensore dei ricorrenti nella memoria difensiva, dopo avere premesso che l'area in questione sarebbe stata "pacificamente" inclusa nel "territorio costruito" con la deliberazione anzidetta, sostiene che il pubblico ministero non censura la sentenza che ha preso atto dell'esistenza della deliberazione, ma la legittimità stessa della deliberazione. Il che secondo il difensore sarebbe inammissibile.
Il rilievo non è esatto. Invero, il pubblico ministero sostiene che con la deliberazione comunale prima richiamata il Consiglio Comunale aveva si considerato la zona in questione esclusa dall'obbligo dell'autorizzazione, ma non perché perimetrata in base al punto 3 del comma 5 dell'articolo 1.03 delle norme tecniche di attuazione del Piano Urbanistico Territoriale Tematico e Paesaggistico, ma perché si era ritenuto,peraltro per errore, che essa fosse già inclusa in un piano pluriennale, ossia perché si era ritenuto che fosse operativa la deroga di cui al punto due della legge e delle norme tecniche,senza peraltro considerare che tale deroga era comunque divenuta inefficace perché il piano pluriennale non era stato attuato.
Il Comune, secondo il ricorrente, aveva confuso le varie deroghe previste dal D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146 e dal comma 5 della norma di attuazione dianzi richiamata. Per la deroga di cui al punto 2, come sopra precisato, non occorreva alcuna deliberazione comunale perché essa discendeva direttamente dalla legge a seguito dell'inclusione della zona in un piano già approvato alla data di entrata in vigore della legge Galasso, secondo l'articolo 146 del D.Lgs. n. 490 del 1999, o alla data del 06.06.1990, secondo le norme tecniche del PUTT.
La deliberazione in questione aveva quindi natura meramente ricognitiva.
In definitiva, secondo il ricorrente, la zona in questione non era stata inserita in alcun piano pluriennale e comunque, quand'anche fosse stata inserita, la deroga non era più operativa perché il piano era scaduto e l'effetto caducatorio non poteva essere eluso con una proroga o con una rinnovazione. Al di fuori della previsione del piano l'unica zona considerata costruita dal Consiglio Comunale, secondo il pubblico ministero ricorrente, sarebbe quella a Sud del cimitero.
Il tribunale aveva erroneamente interpretato sia la deliberazione del Consiglio Comunale che la deposizione dell'architetto Capitanio, il quale aveva elaborato il piano. Concludendo, secondo il ricorrente, la zona in questione non sarebbe stata considerata costruita dal Consiglio Comunale con una deliberazione adottata ai sensi del punto tre del comma 5 delle norme tecniche di attuazione del PUTT già richiamate, ma sarebbe stata considerata costruita solo perché ritenuta, peraltro erroneamente, inclusa in un piano pluriennale che era comunque scaduto e quindi inefficace.
Questa è la tesi esposta nel ricorso che, come emerge implicitamente dalla stessa memoria difensiva, era stata già prospettata nel corso del giudizio, ma non è stata esaminata dal tribunale, il quale si è limitato ad affermare che la zona era stata inclusa tra quelle costruite con la dianzi menzionata deliberazione comunale senza porsi il problema della legittimità stessa di tale inclusione e senza confutare la diversa interpretazione della deliberazione offerta dalla pubblica accusa.
La fondatezza della tesi esposta dal pubblico ministero è invece accredita non solo dalla relazione dell'architetto Capitanio redatta ad illustrazione del Piano ed allegata al ricorso, ma anche dalla ratio della deroga. Da tale relazione e segnatamente dai punti 15 e 16 emerge che l'Assessore ing. Francesco Selicato aveva chiesto all'architetto Domenico Capitanio di chiarire i criteri in base ai quali ricomprendere in apposite perimetrazioni i "territori costruiti".
Il Capitanio ha risposto precisando che "analizzando le aree con criteri urbanistici, nessuna parte del territorio comunale poteva essere considerata" costruita ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968, salvo la zona ubicata a sud del cimitero". Quindi per l'architetto Capitanio, che ha redatto il piano poteva considerarsi costruita solo la zona a Sud del cimitero e non pure quella in questione. L'affermazione del Capitanio è conforme alla ratio della deroga prevista dal punto 3 del D.Lgs. n. 499 del 1990, art. 146 e delle norme tecniche di attuazione del PUTT più volte richiamate, giacché si potevano considerare "costruite" solo le zone già edificate.
Invero, la perimetrazione non era richiesta per delimitare l'intero territorio comunale, ma per definire peraltro nei comuni sprovvisti di piano regolatore, gli ambiti già trasformati di fatto dall'edificazione al fine di individuare in modo netto le zone antropizzate, ormai prive di peculiarità paesaggistiche e pertanto non meritevoli di assoggettamento alla normativa vincolistica, e le aree agricole. Ai fini della deroga la nozione di "territorio costruito" era data dalla legge e non poteva essere dilatata dal comune per comprendere zone inedificate al fine di sottrarle alla normativa sui vincoli.
In base alle considerazioni sopra esposte
è palese la configurabilità del reato perché si è costruito sulla base di permessi inefficaci, in quanto privi della preventiva autorizzazione paesaggistica che nella fattispecie era necessaria trattandosi di territorio non costruito.
Alla stessa conclusione si perverrebbe quand'anche si aderisse alla tesi dei prevenuti, recepita dal tribunale, ossia se si considerasse quella in questione "zona costruita" in base alla deliberazione più volte menzionata, trattandosi di deliberazione chiaramente illegittima perché in contrasto con le disposizioni normative prima citate, giacché la perimetrazione poteva riguardare solo zone già costruite all'entrata in vigore della legge Galasso, secondo il D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146, o alla data del 06.06.1990, secondo le norme tecniche di attuazione del PUTT.
In tale ipotesi non si pone il problema della disapplicazione dell'atto amministrativo, giacché, secondo l'orientamento assunto da questa Corte, a partire dall'intervento delle Sezioni unite del 12.11.1993, ricorrente Borgia, ormai consolidato,
il giudice penale è tenuto ad accertare la conformità tra l'ipotesi fattuale (opera eseguita o eseguendo) e la fattispecie legale identificata dalle disposizioni legislative statali e regionali vigenti nella materia edilizia (Cass. Sez. 3 18.12.2002, Tanni; Cass. 21.03.2006 n. 21497; Cass. n. 26144 del 2008). Secondo tale orientamento, nei casi in cui l'atto amministrativo costituisca elemento della fattispecie penale, la sua valutazione da parte del giudice penale non può prescindere dal rispetto dei principi di tassatività e tipicità della norma penale.
Il giudice penale è tenuto ad esaminare l'atto con poteri e finalità sue proprie, senza sindacare l'opportunità e il merito amministrativo né la legittimità, ma procedendo a valutare semplicemente, nei termini richiesti dalla stessa fattispecie incriminatrice, la conformità dell'atto al tipo previsto dalla disposizione penale.
Il richiamo al concetto di disapplicazione e agli artt. 4 e 5, l. cont. amm., non ha, dunque, ragione di essere perché totalmente estraneo alle valutazioni di competenza proprie del giudice penale, il quale, nel valutare la validità dell'atto amministrativo, dove richiesto dalla norma penale, non fa altro che indagare sulla sussistenza o meno di un elemento normativo della fattispecie tenendo presente il bene giuridico tutelato; attività, questa, tipica del giudizio penale, che non può essere dunque delegata ad altro giudice.
La conformità all'ordinamento extrapenale dell'elemento normativo, e quindi l'indagine circa la sua validità, rileva in quanto e nella misura in cui ciò sia richiesto dal significato impresso alla fattispecie e ad ogni suo elemento dall'interesse penalmente protetto, con l'effetto che la rilevanza penale dell'atto amministrativo (o civile) viene limitata al substrato di fatto necessario e sufficiente, in combinazione con gli altri elementi che connotano la fattispecie criminosa, per l'offesa del bene tutelato o, se si tratta di elemento costitutivo di segno negativo, per l'esclusione della stessa.
La necessità di controllare la conformità dell'opera alla legge ed agli strumenti urbanistici si desume dalla L. n. 47 del 1985, art. 6, comma 1, riprodotto nella L. n. 47 del 1985, art. 29.
L'art. 6 ha introdotto il dovere, per chi si appresta ad eseguire un'opera, di osservare, non solo quanto prescritto dalla concessione, ma anche quanto prescritto dalla normativa urbanistica e di piano. Detta norma ha posto delle specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato anche il contenuto. Di conseguenza il titolare del permesso di costruire, il committente e l'esecutore non possono considerarsi esenti da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito il titolo abilitativo se questo è stato rilasciato in contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici.

Tuttavia non ogni vizio dell'atto amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a conferire al comportamento incriminato significato "lesivo" del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di scardinare il principio di tassatività.
Quindi, anche a voler prescindere dalla considerazione della originaria volontà del legislatore del 1865, il quale sicuramente non si poneva un problema di costruzione delle norme penali incriminatrici, appare ormai del tutto ingiustificato e superfluo il ricorso, in materia di autorizzazioni amministrative illegittime, agli artt. 4 e 5, L. cont. amm., in quanto l'esame dell'atto amministrativo che sia elemento della singola fattispecie incriminatice effettuato alla luce del bene giuridico tutelato non è altro che l'espressione della piena ed autonoma cognizione del giudice penale, che non può essere attribuita ad altro giudice o ad organo della pubblica amministrazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2010 n. 27261 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

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