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AGGIORNAMENTO AL 26.04.2016 |
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IN EVIDENZA |
APPALTI:
Nuovo codice dei contratti pubblici - Comunicato
congiunto del Ministro delle Infrastrutture e dei
Trasporti, Graziano Delrio e del Presidente
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffele
Cantone.
A seguito dell’entrata in vigore del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50,
recante il nuovo Codice dei contratti pubblici,
pubblicato nella G.U. Serie Generale n. 91 del
19.04.2016 - Supplemento Ordinario n. 10, si rende
opportuno precisare quanto segue:
1. Ricadono nel previgente assetto normativo, di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, le procedure di
scelta del contraente ed i contratti per i quali i
relativi bandi o avvisi siano stati pubblicati in
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (GURI)
ovvero in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (GUCE)
ovvero nell’albo pretorio del Comune ove si svolgono
i lavori, entro la data del 18.04.2016.
In caso di contratti senza pubblicazione di bandi o
avvisi, restano egualmente disciplinate dal decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, le procedure di
scelta del contraente in relazione alle quali, alla
medesima data del 18.04.2016, siano stati inviati
gli inviti a presentare offerta.
2. La nuova disciplina in materia di contratti pubblici, dettata
dal decreto legislativo 18.04.2016 n. 50, come
previsto dall’art. 216 dello stesso, si applica alle
procedure ed ai contratti per i quali i bandi e gli
avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati a decorrere dal
19.04.2016, data di entrata in vigore del nuovo
Codice dei contratti pubblici.
Tale disciplina trova altresì applicazione, nei casi
di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi,
alle procedure di selezione in relazione alle quali
i relativi inviti a presentare offerta siano inviati
a decorrere dalla data del 19.04.2016.
3. Gli atti di gara già adottati dalle amministrazioni, non
rientranti nelle ipotesi indicate al punto 1.,
dovranno essere riformulati in conformità al nuovo
assetto normativo recato dal decreto legislativo n.
50 del 2016 (comunicato
22.04.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
P.a. trasparente, obblighi retroattivi.
È retroattiva la disciplina riguardante gli obblighi
di pubblicità trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni introdotta dal decreto legislativo
n. 33 del 2013.
Lo ha affermato il TAR Campania-Napoli -Sez. VI- in
una recente sentenza di aprile (sentenza
13.04.2016 n. 1793).
I giudici partenopei hanno sottolineato che il
cosiddetto accesso civico riguarda anche gli atti
anteriori all'entrata in vigore del decreto, in
quanto altrimenti, l'effettiva operatività delle sue
disposizioni risulterebbe del tutto spuntata.
Il collegio giudicante ha quindi chiarito che il
principio giuridico da osservare è che gli atti che
«dispieghino ancora i propri effetti» siano
da pubblicare secondo le modalità e la durata
previste dalle prescrizioni dell'art. 8, comma 3,
del predetto decreto legislativo. In pratica si
parla di cinque anni, e comunque fino a che gli atti
pubblicati producano i loro effetti. Il Tar precisa
inoltre che gli obblighi di pubblicazione ivi
previsti non richiedono alcun decreto applicativo.
I giudici amministrativi infine hanno accostato la
tematica degli obblighi della p.a. trasparente con
il profilo dell'accesso tradizionale di cui alla
legge 241/1990, che «continua ad operare con i
propri diversi presupposti e disciplina, ma la
circostanza che un soggetto possa essere titolare di
una posizione differenziata tale da essere tutelata
con tale tipologia di accesso, non impedisce certo
al medesimo soggetto di avvalersi dell'accesso
civico, qualora ne ricorrano i presupposti»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Una
richiesta (di accesso agli atti) fatta in condizioni
di ignoranza non può qualificarsi come “impossibile”
laddove essa sia comunque ancorata a dati normativi
certi ed inequivocabili che a monte contemplano la
presenza del documento richiesto.
Non può dunque sostenersi, in quanto inesigibile a
carico dell’istante, un onere di specificazione
degli estremi di protocollo e data degli atti di cui
aveva richiesto l'ostensione.
---------------
Come noto, la domanda di accesso deve avere un
contenuto determinato o quanto meno determinabile;
in presenza di una richiesta, come nella specie,
sufficientemente circostanziata e temporalmente
circoscritta spetta all’amministrazione destinataria
dell'accesso l’onere di indicare, sotto la propria
responsabilità, quali sono gli atti inesistenti, che
proprio in quanto tali essa non è in grado di
esibire.
Invero, nell'ipotesi in cui, in sede di ricorso
avverso il diniego di accesso ai documenti
amministrativi, il ricorrente fornisca argomenti e
indizi circa l'esistenza degli atti a cui chiede di
accedere e l'Amministrazione non fornisca la prova a
sostegno del proprio assunto dell'inesistenza dei
documenti richiesti, correttamente il giudice
amministrativo ordina l'accesso, residuando quindi
un problema di esecuzione del giudicato, se del caso
mediante commissario ad acta, relativamente alla
ricerca materiale dei documenti, fermo restando che
il giudicato che ordina l'accesso sarà evidentemente
eseguibile nei limiti in cui i documenti realmente
esistono. In tal modo si bilanciano le limitate
possibilità di conoscenza dei fatti da parte del
privato con i poteri istruttori concessi al giudice
amministrativo.
In altre parole, il documento obiettivamente
esistente agli atti dell'amministrazione va comunque
esibito, pacificamente desumendosi dall'istituto
dell’accesso agli atti che essi sono ostensibili
solo laddove esistenti non essendo ovviamente
predicabile l'esibizione di atti che non risultano
formati.
---------------
Quanto all’istanza di accesso c.d. “civico” va
premesso, in linea generale, che, con il d.lgs.
33/2013, il legislatore italiano ha modificato la
prospettiva del diritto di accesso. All’accesso
procedimentale classico di cui gli artt. 22 e ss l.
241/1990, necessariamente collegato alle specifiche
esigenze del richiedente (need to know), si è
aggiunto il cd. accesso civico che garantisce
all’intera collettività il diritto di conoscere gli
atti adottati dalla pubblica amministrazione in
funzione di controllo generalizzato da parte
dell’opinione pubblica e di piena realizzazione del
principio trasparenza (right to know).
In questa prospettiva vanno lette le affermazioni di
principio riportate ai primi articoli del decreto
legislativo 33/2013 secondo cui la trasparenza:
- è intesa come
«accessibilità
totale delle informazioni concernenti
l'organizzazione e l'attività delle pubbliche
amministrazioni, allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche» (art. 1, co. 1);
- «concorre ad attuare il principio democratico e i
principi costituzionali di eguaglianza, di
imparzialità, buon andamento, responsabilità,
efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse
pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla
nazione»;
- è «condizione di garanzia delle libertà
individuali e collettive, nonché dei diritti civili,
politici e sociali, integra il diritto ad una buona
amministrazione e concorre alla realizzazione di una
amministrazione aperta, al servizio del cittadino»
(art. 1, co. 2).
Tutti gli obblighi contemplati dal decreto vengono
intesi quali «livello essenziale delle prestazioni
erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di
trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione
e della cattiva amministrazione, a norma
dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione e costituiscono altresì esercizio della
funzione di coordinamento informativo statistico e
informatico dei dati dell'amministrazione statale,
regionale e locale, di cui all'articolo 117, secondo
comma, lettera r), della Costituzione» (art. 1, co.
3).
Quanto precede dimostra la necessità di interpretare
le norme del decreto in modo funzionale a che venga
effettivamente perseguita la finalità di rendere
pienamente trasparente l’azione dei pubblici poteri,
affinché vi sia piena attuazione del principio
democratico e dei principi costituzionali.
Circa l’applicabilità delle disposizioni del
decreto, entrato in vigore dal 20.04.2013, agli atti
anteriori all’entrata in vigore del decreto, occorre
osservare che, se il decreto fosse applicabile ai
soli atti formatisi dopo la sua entrata in vigore,
l’effettiva operatività delle sue disposizioni
risulterebbe procrastinata anche in misura assai
rilevante e ne resterebbe fortemente incisa, tra le
altre, proprio la materia della pianificazione del
territorio oggetto del presente giudizio.
Il principio da affermare è, all’opposto, che gli
atti che dispieghino ancora i propri effetti siano
da pubblicare, nelle modalità previste, secondo
quanto disposto dall’art. 8, co. 3, del d.lgs.
33/2013 che, appunto, prevede l’obbligo di
pubblicare gli atti contenenti i dati previsti dal
decreto medesimo «per un periodo di 5 anni,
decorrenti dal 1° gennaio dell'anno successivo a
quello da cui decorre l'obbligo di pubblicazione, e
comunque fino a che gli atti pubblicati producono i
loro effetti».
In tal senso, depone anche la
circolare 19.07.2013 n. 2/2013
del dipartimento della funzione pubblica (al par.
1.3, primo capoverso), con cui si è inteso fornire
alle amministrazioni le prime indicazioni operative
circa gli obblighi di pubblicazioni previsti dal
decreto; essa chiarisce, infatti, che essi divengono
efficaci alla data di entrata in vigore del decreto
senza che sia necessario attendere alcun decreto
applicativo, così ribadendo, ulteriormente, la
necessità che la disciplina divenga immediatamente
effettiva.
A sua volta, l’art. 8, comma 3, prevede che i dati,
le informazioni e i documenti oggetto di
pubblicazione obbligatoria sono pubblicati per un
periodo di 5 anni, decorrenti dall’1 gennaio
successivo a quello da cui decorre l’obbligo di
pubblicazione e che alla scadenza del termine
quinquennale i documenti, le informazioni e i dati
sono comunque conservati e resi disponibili
all’interno del sito archivio e segnalate
nell’ambito della sezione amministrazione
trasparente.
In ogni caso, l’accesso tradizionale di cui alla L.
241/1990 continua ad operare con i propri diversi
presupposti e disciplina, ma la circostanza che un
soggetto possa essere titolare di una posizione
differenziata tale da essere tutelata con tale
tipologia di accesso, non impedisce certo al
medesimo soggetto di avvalersi dell’accesso civico,
qualora ne ricorrano i presupposti. Per gli atti
compresi negli obblighi di pubblicazione di cui al
D.lgs. 33/2013, quindi, potranno operare
cumulativamente tanto il diritto di accesso
‘classico’ ex L. 241/1990 quanto il diritto di
accesso civico ex D.lgs. 33/2013, mentre, per gli
atti non rientranti in tali obblighi di
pubblicazione, opererà, evidentemente, il solo
diritto di accesso procedimentale ‘classico’ di cui
alla L. 241/1990.
A ragionare diversamente, si giungerebbe al
risultato che il cittadino privo di interesse
specifico potrebbe far ricorso all’accesso civico di
cui al D.lgs. 33/2013, mentre il soggetto portatore
di un interesse specifico dovrebbe dimostrare i più
stringenti presupposti sottesi all’interesse
procedimentale di tipo tradizionale (art. 22 L.
241/1990). Gli atti contemplati dal d.lgs. 33/2013,
quindi, ben possono essere richiesti facendo un
sintetico riferimento alle norme che ne prevedono la
pubblicazione.
---------------
...
per l'annullamento ex art. 116 c.p.a. del
provvedimento di diniego formatosi a seguito del
silenzio serbato sull'istanza volta a richiedere
l'ostensione dei documenti di seguito precisati;
nonché:
- per l’accertamento ex art. 117 c.p.a.
dell’illegittimità del silenzio serbato
dall’amministrazione comunale sull’istanza trasmessa
a mezzo pec in data 01.09.2015 per l’indennizzo e/o
il risarcimento dell’importo quantificato in €
21.505,90 per il pregiudizio sofferto in ragione
dell’ingiustificato peso protrattosi per anni in
assenza di esecuzione del p.i.p.;
- per l’accertamento della fondatezza, ai sensi
dell’art. 31, comma 3 c.p.a., delle pretese azionate
e dell’ingiustificato peso subito dal diritto di
proprietà in assenza di una pronta e tempestiva
esecuzione del piano;
...
3. Nel merito non può porsi in dubbio la sussistenza
in capo alla ricorrente di una situazione soggettiva
di interesse qualificato alla conoscenza degli atti
oggetto di ostensione, quale proprietaria incisa
dall’attività di pianificazione urbanistica messa in
atto dal Comune ed interessata in tale veste alla
conoscenza dei provvedimenti eventualmente posti in
essere dall’amministrazione comunale onde dare
attuazione alla destinazione impressa alle aree di
sua pertinenza.
Va ritenuta l’illegittimità del silenzio serbato
dall’amministrazione intimata sulla richiesta di
ostensione documentale in argomento.
Innanzitutto, la domanda inoltrata da parte
ricorrente risulta sufficientemente circostanziata
laddove è rivolta ad ottenere il rilascio di copia
degli atti relativi allo stato di attuazione del pip
con l’indicazione precisa delle particelle di sua
pertinenza e della relativa estensione iscritte
precisamente in catasto al fg. 4, p.11 di are 21,23
zona D1, ed al fg. 4 p.265 di are 9.06 zona D1.
Né può configurarsi alcuna genericità rispetto alla
richiesta di ostensione dei provvedimenti attuativi,
e degli eventuali decreti di esproprio ove adottati
dato che è ben comprensibile relativamente
all’oggetto della domanda di accesso, che lo scopo
della richiesta possa presupporre in colui che la
produce un situazione di ignoranza, nel senso che è
plausibile che il richiedente possa non sapere con
certezza se il documento esista o meno. D’altra
parte una richiesta fatta in condizioni di ignoranza
non può qualificarsi come “impossibile”
laddove essa sia comunque ancorata a dati normativi
certi ed inequivocabili che a monte contemplano la
presenza del documento richiesto ossia nella specie
la programmazione urbanistica a monte rinveniente
dalla specifica destinazione delle aree di
pertinenza della ricorrente a “zona D1
insediamenti per attività produttive” (cfr Cons.
St. sez. IV, 09.02.2012 n. 690).
Non può dunque sostenersi, in quanto inesigibile a
carico dell’istante, un onere di specificazione
degli estremi di protocollo e data degli atti di cui
aveva richiesto l'ostensione.
E’ fuor di dubbio che dalle istanze in atti sono
certamente ricavabili elementi idonei a individuare
i documenti di interesse in modo sufficientemente
preciso e circoscritto, senza con ciò richiedersi
all’amministrazione una complessa attività di
ricerca ed elaborazione degli stessi.
L'oggetto dell'accesso, quindi, non è costituito da
un numero indeterminato di documenti, ma è riferito
ad atti soggettivamente ed oggettivamente
individuati rispetto alle particelle identificate
come di pertinenza della ricorrente e per di più
formati in un arco temporale specificato ossia
nell’ambito del periodo di attuazione del piano per
gli insediamenti produttivi.
Come noto, la domanda di accesso deve avere un
contenuto determinato o quanto meno determinabile;
in presenza di una richiesta, come nella specie,
sufficientemente circostanziata e temporalmente
circoscritta spetta all’amministrazione destinataria
dell'accesso l’onere di indicare, sotto la propria
responsabilità, quali sono gli atti inesistenti, che
proprio in quanto tali essa non è in grado di
esibire.
Invero, nell'ipotesi in cui, in sede di ricorso
avverso il diniego di accesso ai documenti
amministrativi, il ricorrente fornisca argomenti e
indizi circa l'esistenza degli atti a cui chiede di
accedere e l'Amministrazione non fornisca la prova a
sostegno del proprio assunto dell'inesistenza dei
documenti richiesti, correttamente il giudice
amministrativo ordina l'accesso, residuando quindi
un problema di esecuzione del giudicato, se del caso
mediante commissario ad acta, relativamente
alla ricerca materiale dei documenti, fermo restando
che il giudicato che ordina l'accesso sarà
evidentemente eseguibile nei limiti in cui i
documenti realmente esistono. In tal modo si
bilanciano le limitate possibilità di conoscenza dei
fatti da parte del privato con i poteri istruttori
concessi al giudice amministrativo (Cons. Stato,
sez. V, 25.06.2010, n. 4068).
In altre parole, il documento obiettivamente
esistente agli atti dell'amministrazione va comunque
esibito, pacificamente desumendosi dall'istituto
dell’accesso agli atti che essi sono ostensibili
solo laddove esistenti non essendo ovviamente
predicabile l'esibizione di atti che non risultano
formati.
4. Quanto all’istanza di accesso c.d. “civico”
va premesso, in linea generale, che, con il d.lgs.
33/2013, il legislatore italiano ha modificato la
prospettiva del diritto di accesso. All’accesso
procedimentale classico di cui gli artt. 22 e ss l.
241/1990, necessariamente collegato alle specifiche
esigenze del richiedente (need to know), si è
aggiunto il cd. accesso civico -mutuato anche
dall’esempio degli ordinamenti anglosassoni (si veda
il Freedom of Information Act, cd. FOIA
statunitense) e da specifici settori
dell’ordinamento (per la materia ambientale, v. la
Convenzione di Aarhus, recepita con L. 195/2005)-
che garantisce all’intera collettività il diritto di
conoscere gli atti adottati dalla pubblica
amministrazione in funzione di controllo
generalizzato da parte dell’opinione pubblica e di
piena realizzazione del principio trasparenza (right
to know).
In questa prospettiva vanno lette le affermazioni di
principio riportate ai primi articoli del decreto
legislativo 33/2013 secondo cui la trasparenza:
- è intesa come
«accessibilità
totale delle informazioni concernenti
l'organizzazione e l'attività delle pubbliche
amministrazioni, allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche» (art. 1, co. 1);
- «concorre ad attuare il principio democratico e
i principi costituzionali di eguaglianza, di
imparzialità, buon andamento, responsabilità,
efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse
pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla
nazione»;
- è «condizione di garanzia delle libertà
individuali e collettive, nonché dei diritti civili,
politici e sociali, integra il diritto ad una buona
amministrazione e concorre alla realizzazione di una
amministrazione aperta, al servizio del cittadino»
(art. 1, co. 2).
Tutti gli obblighi contemplati dal decreto vengono
intesi quali «livello essenziale delle
prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche
a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della
corruzione e della cattiva amministrazione, a norma
dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione e costituiscono altresì esercizio della
funzione di coordinamento informativo statistico e
informatico dei dati dell'amministrazione statale,
regionale e locale, di cui all'articolo 117, secondo
comma, lettera r), della Costituzione» (art. 1,
co. 3).
Quanto precede dimostra la necessità di interpretare
le norme del decreto in modo funzionale a che venga
effettivamente perseguita la finalità di rendere
pienamente trasparente l’azione dei pubblici poteri,
affinché vi sia piena attuazione del principio
democratico e dei principi costituzionali.
Circa l’applicabilità delle disposizioni del
decreto, entrato in vigore dal 20.04.2013, agli atti
anteriori all’entrata in vigore del decreto, occorre
osservare che, se il decreto fosse applicabile ai
soli atti formatisi dopo la sua entrata in vigore,
l’effettiva operatività delle sue disposizioni
risulterebbe procrastinata anche in misura assai
rilevante e ne resterebbe fortemente incisa, tra le
altre, proprio la materia della pianificazione del
territorio oggetto del presente giudizio.
Il principio da affermare è, all’opposto, che gli
atti che dispieghino ancora i propri effetti siano
da pubblicare, nelle modalità previste, secondo
quanto disposto dall’art. 8, co. 3, del d.lgs.
33/2013 che, appunto, prevede l’obbligo di
pubblicare gli atti contenenti i dati previsti dal
decreto medesimo «per un periodo di 5 anni,
decorrenti dal 1° gennaio dell'anno successivo a
quello da cui decorre l'obbligo di pubblicazione, e
comunque fino a che gli atti pubblicati producono i
loro effetti».
In tal senso, depone anche la
circolare 19.07.2013 n. 2/2013
del dipartimento della funzione pubblica (al par.
1.3, primo capoverso), con cui si è inteso fornire
alle amministrazioni le prime indicazioni operative
circa gli obblighi di pubblicazioni previsti dal
decreto; essa chiarisce, infatti, che essi divengono
efficaci alla data di entrata in vigore del decreto
senza che sia necessario attendere alcun decreto
applicativo, così ribadendo, ulteriormente, la
necessità che la disciplina divenga immediatamente
effettiva.
A sua volta, l’art. 8, comma 3, prevede che i dati,
le informazioni e i documenti oggetto di
pubblicazione obbligatoria sono pubblicati per un
periodo di 5 anni, decorrenti dall’1 gennaio
successivo a quello da cui decorre l’obbligo di
pubblicazione e che alla scadenza del termine
quinquennale i documenti, le informazioni e i dati
sono comunque conservati e resi disponibili
all’interno del sito archivio e segnalate
nell’ambito della sezione amministrazione
trasparente.
4. In ogni caso, l’accesso tradizionale di cui alla
L. 241/1990 continua ad operare con i propri diversi
presupposti e disciplina, ma la circostanza che un
soggetto possa essere titolare di una posizione
differenziata tale da essere tutelata con tale
tipologia di accesso, non impedisce certo al
medesimo soggetto di avvalersi dell’accesso civico,
qualora ne ricorrano i presupposti. Per gli atti
compresi negli obblighi di pubblicazione di cui al
D.lgs. 33/2013, quindi, potranno operare
cumulativamente tanto il diritto di accesso ‘classico’
ex L. 241/1990 quanto il diritto di accesso civico
ex D.lgs. 33/2013, mentre, per gli atti non
rientranti in tali obblighi di pubblicazione,
opererà, evidentemente, il solo diritto di accesso
procedimentale ‘classico’ di cui alla L.
241/1990.
A ragionare diversamente, si giungerebbe al
risultato che il cittadino privo di interesse
specifico potrebbe far ricorso all’accesso civico di
cui al D.lgs. 33/2013, mentre il soggetto portatore
di un interesse specifico dovrebbe dimostrare i più
stringenti presupposti sottesi all’interesse
procedimentale di tipo tradizionale (art. 22 L.
241/1990). Gli atti contemplati dal d.lgs. 33/2013,
quindi, ben possono essere richiesti facendo un
sintetico riferimento alle norme che ne prevedono la
pubblicazione.
Ciò posto, gli atti e documenti oggetto delle
istanze della ricorrente rientrano nel novero degli
atti e documenti indicati dall’art. 39 del d.lgs. n.
33 del 14.3.2014 che chiunque può chiedere siano
pubblicati, secondo le modalità dettate dall’art. 8
dello citato decreto. Ove il Comune avesse
provveduto alla pubblicazione avrebbe dovuto darne
avviso all’istante, come prescritto dall’art. 5
d.lgs. n. 33/2014 a tenore del quale: “Se il
documento, l'informazione o il dato richiesti
risultano già pubblicati nel rispetto della
normativa vigente, l'amministrazione indica al
richiedente il relativo collegamento ipertestuale”.
Ciò nella specie non è avvenuto risultando impugnato
il silenzio serbato dall’amministrazione
sull’istanza, né essendosi comunque costituito il
Comune benché intimato.
Tanto premesso, in ragione della fondatezza del
ricorso nei termini appena precisati, deve essere
ordinato all’amministrazione di pubblicare i
documenti relativi al piano degli insediamenti
produttivi di cui all’art. 39 del d.lgs. 33/2013 con
le modalità ivi descritte.
...
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sul
ricorso, come in epigrafe proposto, così provvede:
- dichiara inammissibile per difetto di
giurisdizione la richiesta di pronuncia in ordine
alla domanda di liquidazione di una somma a titolo
di indennizzo e/o risarcimento del danno con onere
di riassunzione nei termini di cui in motivazione;
- dichiara l'obbligo dell'intimata
amministrazione di consentire al ricorrente di
prendere visione ed estrarre copia, previo rimborso
del costo di riproduzione e dei diritti di ricerca e
visura, degli atti, provvedimenti, delibere,
determinazioni, ed eventuali decreti di esproprio
inerenti lo stato di realizzazione del piano per gli
insediamenti produttivi limitatamente alle aree
identificate nell’istanza di accesso come di
pertinenza dell’istante, nel termine di giorni
trenta decorrente dalla comunicazione o, se a questa
anteriore, dalla notificazione della presente
decisione;
- ordina all’amministrazione
intimata di pubblicare sul proprio sito web nella
sezione dedicata entro trenta giorni dalla
comunicazione della presente sentenza gli atti di
cui all’art. 39 del d.lgs. 33/2013 relativi al piano
per gli insediamenti produttivi, nei termini di cui
in motivazione;
- respinge il ricorso per la richiesta di accesso
del certificato di destinazione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 13.04.2016 n. 1793
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
Nuovo codice dei contratti pubblici - Decreto Legislativo
18.04.2016 n. 50 - Novità di maggior interesse (aprile
2016 - Grimaldi Studio Legale).
---------------
SOMMARIO: Premessa - Ambito di applicazione - AVCpass al Ministero delle Infrastrutture: qualifiche
operatori - Avvalimento - Building Information Modeling (“BIM”)
- Cabina di regia - Cause di esclusione - Centrali di
committenza - Certificazione delle stazioni appaltanti -
Conflitto di interesse - Concorsi di progettazione -
Contraente generale - Criteri di aggiudicazione - Criteri
premiali - Definizione delle controversie - Dibattito
pubblico - Documento di gara unico europeo - Gare
elettroniche - Lavori, servizi e forniture concessionari -
Incentivo del 2% ai dipendenti P.A. - Legge obiettivo -
Linee guida per le gare elettroniche - Lotti - Minor prezzo
(per i lavori) - Pagamenti diretti dei subappaltatori nei
contratti di concessione - Partenariati per l’innovazione -
Programmazione - Rating di impresa - Ricorsi giurisdizionali
- Rischio operativo (e contratti di concessione) -
Responsabile unico del procedimento (“RUP”) - Sanzioni per
chi non denuncia - Società organismi di attestazioni (“SOA”)
- Soccorso istruttorio - Soglie di rilevanza comunitaria -
Sotto soglia - Subappalto (e contratti di appalto) -
Disposizioni Transitorie e di coordinamento. |
APPALTI:
G. Matteo,
Il nuovo codice degli
appalti pubblici e dei contratti di concessione: prime note
(20.04.2016 - tratto da www.quotidianogiuridico.it). |
APPALTI:
Appalti, in Gazzetta e già in vigore il nuovo Codice (D.Lgs
n. 50/2016).
Soglia di 1 milione di euro per il massimo ribasso,
limitazione al 30% del subappalto, esclusione automatica
delle offerte anomale
(20.04.2016 - link a www.casaeclima.com). |
APPALTI:
G. P. Cirillo,
Il contratto di
avvalimento nel nuovo codice dei contratti pubblici: il
persistente problema della sua natura giuridica (08.04.2016
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
VARI:
Oggetto: Chiarimenti definizione apparecchio televisivo -
Canone abbonamento RAI
(Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 20.04.2016 n. 28019 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comunicazione relativa alle nuove norme in
materia sismica (Regione Lombardia,
nota 18.04.2016 n. 3833 di prot.) |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 20.04.2016,
"Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento
regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi
dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 15.04.2016, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 15.04.2016 n. 58). |
SINDACATI & ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedi parentali fino al sesto anno.
Aran. Le indicazioni per gli enti
territoriali.
I dipendenti degli enti locali e delle
regioni possono fruire dei congedi parentali per 30 giorni
interamente retribuiti fino al compimento del sesto anno di
vita dei propri figli.
È quanto chiarisce l’Aran.
Alla base di questa risposta la specifica attenzione che i
contratti collettivi nazionali di lavoro del personale del
comparto regioni ed enti locali riservano alla tutela della
famiglia. In questa direzione vanno le disposizioni che
consentono ai dipendenti di poter ricevere un trattamento
economico migliore di quanto previsto dal legislatore per i
primi 30 giorni di congedo parentale.
Va ricordato che la norma di legge prevede in questo caso un
compenso pari al 30% del trattamento economico in godimento,
e va sottolineata la disposizione per cui durante i periodi
di congedo di maternità le dipendenti titolari di posizione
organizzativa hanno diritto alla percezione della indennità
di posizione.
La materia dei congedi parentali è disciplinata
dall’articolo 17 del contratto nazionale del 14.09.2000, le
cosiddette “code contrattuali”. Al comma 5 dispone il
diritto a percepire l’intero trattamento economico durante i
primi 30 giorni di assenza per congedo parentale. Questo
istituto ha preso il posto della vecchia astensione
facoltativa, con significativi ampliamenti della possibilità
di usufruire di questi permessi per i padri. Esso è inoltre
fruibile anche per periodi separati.
La norma contrattuale fa riferimento alle disposizioni
dettate dalla legge 1204/1971 per individuare la platea dei
beneficiari e le relative condizioni. Il che deve essere
inteso in senso dinamico, perché si tratta di una
disposizione che si estende alle modifiche intervenute
successivamente. Questa disposizione è stata sostituita
dalle previsioni dettate dal Dlgs 151/2001. Queste
previsioni che sono state successivamente modificate dal
Dlgs 80/2015.
Con riferimento al caso specifico, inizialmente il
riferimento legislativo fissava il tetto di età del bambino
per la fruizione di questo beneficio in tre anni; con la
modifica dello scorso anno questo tetto è stato portato a
sei anni. E, di conseguenza, i dipendenti degli enti locali
e delle regioni hanno diritto a ricevere l’intero
trattamento economico in godimento per i primi 30 giorni di
congedo parentale fruiti entro tale data (articolo Il Sole 24 Ore del
25.04.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Codice, 540 milioni di gare in fumo. Anac-Mit: da
rifare tutti i bandi pubblicati dopo il 19 aprile con le
vecchie regole.
Appalti. La riforma mette in fuorigioco decine di
amministrazioni - A Roma torna al via il Ponte dei Congressi
da 123 milioni.
L’Anac e il
Mit alzano la bandierina. E mettono in fuorigioco bandi di
gara per mezzo miliardo. Anzi, per l’esattezza: 543,4
milioni di euro.
È questo, in sintesi estrema, l’effetto del
comunicato
22.04.2016 con il quale il presidente
dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone e il ministro
delle Infrastrutture, Graziano Delrio ieri pomeriggio hanno
deciso di mettere un punto al caos che è seguito alla
pubblicazione del nuovo Codice appalti.
Il Dlgs n. 50 del 2016 è andato in Gazzetta ufficiale nella
tarda serata di martedì, entrando in vigore nel giorno
stesso della sua pubblicazione, il 19 aprile, per restare
nei tempi indicati dalle direttive europee. Già da mercoledì
mattina, allora, ha preso forma il rebus dei bandi di gara
pubblicati a ridosso di quella data. Alcune procedure,
infatti, sono esplicitamente vietate dalla riforma: succede
per l’appalto integrato (l’affidamento contemporaneo di
progettazione ed esecuzione) e per il massimo ribasso sopra
il milione di euro. Così, per qualche giorno il destino
delle stazioni appaltanti che hanno provato ad avviare
procedure poi diventate illegittime è rimasto sospeso. Anche
perché le norme relative alla tagliola per le nuove gare si
prestavano a interpretazioni contrastanti.
Adesso l’Anac e il Mit mettono fine alle discussioni e, in
un comunicato datato 22 aprile, spiegano che «ricadono nel
previgente assetto normativo» le procedure pubblicate in
Gazzetta ufficiale italiana o europea entro il 18 aprile.
Oltre quella data, a partire dal 19 aprile, scatta il nuovo
codice. Con un effetto a dir poco paradossale: i bandi
pubblicati martedì mattina sono stati messi in fuorigioco da
un Dlgs che è stato ufficializzato per la prima volta solo
martedì sera. Insomma, un effetto retroattivo di qualche
ora. Il comunicato indica anche la soluzione per chi ha
superato il confine del 18 aprile: gli atti già adottati
dalle amministrazioni, ma pubblicati dal 19 in poi,
«dovranno essere riformulati in conformità al nuovo assetto
normativo». E non si tratta di un processo semplice: nei
casi peggiori potrebbero volerci mesi.
Scorrendo la Guce, dove vengono pubblicati i bandi per
lavori sopra i 5,2 milioni di euro, è possibile fare i conti
dell’effetto di questa entrata in vigore repentina: le
procedure da rifare hanno il valore record di 543,4 milioni
. Solo il 20 aprile erano irregolari appalti per 427
milioni.
Sintomatico di un effetto-sorpresa che si poteva sorvegliare
meglio è che tra le amministrazioni messe in fuori gioco
dall’entrata in vigore “alla chetichella” del codice non ci
sono solo piccole amministrazioni fuori dai circuiti
dell’informazione. Anzi. A pubblicare due tra gli appalti di
maggiore importo, che ora dovranno essere ritirati, è stato
il Provveditorato delle opere pubbliche per il Lazio, un
ufficio “decentrato”, ma di diretta emanazione del ministero
delle Infrastrutture,che ha gestito tutta la partita del
nuovo codice.
L’appalto di maggior valore riguarda tra
l’altro una delle opere più attese a Roma. Si tratta del
Ponte dei Congressi, un intervento da 123 milioni, di cui si
parla da 25 anni e che i romani attendono per “stappare” il
nodo viario che blocca tre quartieri (Eur, Magliana e Portuense), oltre a fermare il traffico di chi entra nella
Capitale dall’aeroporto di Fiumicino. L’idea era di affidare
al costruttore non solo il cantiere, ma anche il progetto
esecutivo del ponte. Un’ipotesi che il nuovo codice cancella
con effetto dal 19 aprile. Mentre l’avviso del
Provveditorato è finito sulla Gazzetta europea del giorno
successivo. Dunque addio gara. Prima di affidare i lavori
bisognerà portare a termine il progetto.
Torna ai blocchi di partenza anche la gara da 159 milioni
bandita dal consorzio di imprese che ha in carico
l’esecuzione dei lavori dell'altra velocità ferroviaria sul
Terzo valico (Cociv). La corsa a pubblicare il maxibando al
massimo ribasso (quindi tenendo conto solo del prezzo) si è
scontrata con l’entrata in vigore del codice che concede
questa possibilità solo per i piccoli lavori, di importo
inferiore al milione. Il Consorzio ha già annunciato che
ritirerà il bando.
Chi invece è finora andato avanti a testa
bassa è la stazione appaltante unica della Regione Calabria.
Il 20 aprile ha pubblicato il bando per la realizzazione di
un impianto rifiuti a Catanzaro sulla base di un semplice
progetto preliminare, dal costo di 58,9 milioni. Ieri in
Gazzetta è arrivata la rettifica. Non riguardava il ritiro
del bando, ma la revisione al rialzo del costo: la base
d’asta sale da 59 a 67 milioni. Anac e Mit permettendo (articolo Il Sole 24 Ore del
23.04.2016). |
APPALTI SERVIZI:
La pulizia delle scuole segue il codice appalti.
L'Anac ha segnalato l'effetto distorsivo delle proroghe.
Le proroghe degli appalti di servizi di pulizia nelle scuole
determinano effetti distorsivi della concorrenza,
compromettono la spending review e violano il principio di
economicità; parlamento e governo valutino un intervento su
questa prassi, ancorché il nuovo codice dei contratti
pubblici abbia affermato il principio del divieto di
procedure in deroga.
È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione
con l'atto
di segnalazione al Governo e al Parlamento 02.03.2016 n. 376
diffusa venerdì scorso che prende in considerazione il tema
delle proroghe nell'affidamento dei servizi di pulizia,
servizi ausiliari e gli interventi di mantenimento del
decoro e delle funzionalità delle scuole, frequentemente
adottate per assicurare la continuità
dell'approvvigionamento dei servizi alle amministrazioni
pubbliche.
La disciplina di tali proroghe è rinvenibile nel decreto
legge 58/2014 che prorogava fino al 31.08.2014, l'acquisto
diretto di tale servizi da parte delle scuole ubicate nelle
regioni in cui non era ancora attiva la convenzione-quadro
Consip; tale termine è stato prorogato con diversi decreti
legge per arrivare fino al 31.07.2016.
L'Autorità presieduta da Raffaele Cantone ha segnalato al
parlamento e al governo come le continue proroghe possono
avere «un notevole effetto distorsivo sul mercato dei
contratti pubblici». Pur comprendendo che la ratio
del legislatore era stata quella di perseguire l'interesse
sociale alla tutela dei livelli occupazionali di una
specifica categoria di lavoratori impiegati, prevalentemente
in aree economiche disagiate, l'Anac evidenzia che tale
fenomeno, di fatto, ha sottratto al libero confronto
concorrenziale commesse pubbliche, anche di rilevanza
comunitaria, per un ampio arco temporale, su tutto il
territorio nazionale.
In questo campo, peraltro, nota l'Anac, anche l'Antitrust ha
rilevato fenomeni distorsivi della concorrenza posti in
essere da alcuni concorrenti in posizione dominante che
avevano partecipato a gare Consip di rilievo comunitario.
Viene quindi messo in risalto l'effetto restrittivo
conseguente alla disciplina normativa più volte prorogata
che pone alcuni fornitori di servizi in una «situazione
privilegiata rispetto ai propri concorrenti, peraltro in un
contesto di posizioni già consolidate in partenza, in
contrasto con il principio di concorrenza teso a garantire
l'apertura del mercato a una concorrenza effettiva».
A tali effetti si aggiungono quelli negativi dal punto di
vista dell'economicità delle commesse pubbliche con
compromissione anche delle azioni tese ad una efficace
spending review. Le stazioni appaltanti devono infatti
improntare la propria azione al principio di economicità e
quindi a un uso accorto delle proprie risorse, con il minor
impiego delle risorse economiche e quindi al minor costo per
la collettività.
Da qui la richiesta che la gestione dei servizi sia
ricondotta nell'alveo delle ordinarie procedure di
affidamento previste dal codice dei contratti pubblici e che
non si ricorra, per il futuro, all'utilizzo di sistemi
derogatori, come le proroghe per legge, comunque inidonei a
risolvere rilevanti problematiche sociali
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2016). |
CORTE DEI CONTI |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti: RUP e direttore dei lavori rispondono della cattiva
gestione del contratto.
Il Direttore dei lavori e il
Responsabile del procedimento che con la loro esclusiva
“condotta tecnica” inducono l’organo di amministrazione
politica a promuovere la risoluzione del contratto per fatti
ascritti, ma a torto, alla responsabilità della ditta
appaltatrice, rispondono dei maggiori oneri a carico del
bilancio comunale (esito del lodo).
Questo il principio affermato dalla Corte dei Conti, Sez.
centrale d'appello, nella
sentenza 12.04.2016 n. 144.
Nel caso di specie la stazione appaltante aveva affidato
l’appalto dei lavori necessari per la sistemazione esterna
del centro sportivo.
Sulla base delle contestazioni espresse dal direttore dei
lavori, confermate dal RUP, in ordine alla ritenuta
sussistenza di gravi inadempimenti imputabili all’impresa
esecutrice dei lavori (errori di valutazione progettuale e
grave ritardo rispetto al termine previsto per la consegna
dell’opera), la Giunta aveva disposto la risoluzione
negoziale e l’applicazione della penale per ritardo.
Il procedimento arbitrale promosso dalla ditta appaltatrice,
viceversa, aveva evidenziato la sussistenza di vizi
comportamentali della stazione appaltante nello svolgimento
dell’attività di progettazione esecutiva, di direzione dei
lavori e di vigilanza sulla esecuzione dell’opera e sulla
organizzazione del cantiere.
Nello specifico, la C.T.U. arbitrale, in accoglimento della
domanda della ditta appaltatrice, aveva ritenuto illegittima
la risoluzione del contratto di appalto e l’applicazione
della penale per ritardo, accertando la responsabilità
esclusiva della stazione appaltante in quanto il ritardo
nella realizzazione dell’opera era riconducibile al difetto
originario di una adeguata progettazione esecutiva.
I giudici contabili hanno confermato la responsabilità del
Direttore dei Lavori e del Responsabile Unico del
procedimento.
La stazione appaltante espleta il controllo sulla corretta
esecuzione dei lavori tramite il direttore dei lavori.
In altri termini, il direttore dei lavori è la persona di
fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le
opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal
personale di cui questi si avvalga (Cass. civ. Sez. 2,
29.08.2013, n. 19895), dovendo poter garantire alla Stazione
appaltante una capacità di supervisione e di controllo sulla
intera corretta esecuzione dell’intervento (Corte di Cass.
Sez. 3^ civile, 13.04.2015, n. 7370).
In tal senso è necessario che il direttore dei lavori
provveda alla redazione e tenuta della contabilità, vale a
dire di quel complesso di attività e documenti che
consentono al committente di verificare costantemente
l’andamento delle attività e di converso, all’appaltatore,
di avere la certezza del pagamento delle prestazioni rese.
Tali attività sono fondamentali per il regolare ed
equilibrato svolgimento dell’intervento.
Allo stesso modo, nella conduzione dell’appalto, rispetto al
direttore dei lavori, è preminente la figura del Rup, le cui
competenze e attività si estendono in modo assolutamente
significativo anche a tutte le fasi che precedono
l’esecuzione dei lavori, ovvero le fasi della
programmazione, della progettazione e della gara d’appalto e
che ha, tra gli altri compiti, una funzione di alta
vigilanza sul corretto avanzamento della prestazione
dell’appaltatore.
La sentenza in commento ha evidenziato come il Responsabile
del procedimento e il Direttore dei lavori siano tenuti a
svolgere tali compiti con la massima accuratezza e
diligenza, al fine di assicurare alla stazione appaltante il
conseguimento del risultato atteso (commento tratto da
www.self-entilocali.it).
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MASSIMA
Un tanto premesso, mette conto chiarire,
per l’incidenza sull’attendibilità degli argomenti di prova,
che poiché il danno origina dagli esiti del lodo
arbitrale, conseguente al procedimento attivato dalla ditta
esecutrice, la circostanza che a quest’ultimo non ebbero a
partecipare direttamente gli odierni appellati, non può
dirsi dirimente per escludere
(come fatto intendere nelle difese degli stessi)
che il Giudice contabile possa liberamente trarre da
tale diverso procedimento elementi, quali prove
testimoniali, consulenze e altro, utili a formare il proprio
convincimento, a
mente dell’art. 116 c.p.c., all’esito,
chiaramente, del contraddittorio processuale, ove il
suddetto materiale indiziario può essere superato con prove
contrarie di qualsiasi tipo fornite da controparti
(cfr. Corte dei conti, Sez. 2^, n. 52, del 07.02.2014, id.
Corte di Cass., Sez. 3^ civ. n. 10898, del 25.07.2002).
Difatti, nel processo contabile il necessario
contraddittorio sulle prove raccolte dal P.M. prima
dell’instaurarsi del giudizio, è in definitiva differito
alla fase dibattimentale, ove tali prove possono essere
liberamente contestate, come avvenuto, in specie, ad opera
dei prevenuti, che possono a loro volta produrre prove a
discarico o anche chiederne l’acquisizione.
Cosicché, il Giudice erariale può valutare
autonomamente i fatti accertati in sede di procedimento
arbitrale in cui era presente l’Amministrazione appaltante,
dalla quale dipendevano gli odierni professionisti,
investiti (unitamente ad altri soggetti oggi non evocati o
non convenibili) delle funzioni di progettazione, di
direzione dell’opera e dell’alta vigilanza sullo svolgimento
dell’intervento.
Ora, il Collegio non ignora che l’arbitrato, previsto in
specie dalle disposizioni di cui agli artt. 6 del contratto
di appalto (“…eventuali controversie tra il comune di
Castelnuovo Rangone e l’Appaltatore, ai sensi degli artt.
150 e 151 del d.P.R. n. 554 del 1999, saranno devolute alla
decisione di apposito Collegio istituito presso la Camera
arbitrale”), 34, del Capitolato Generale di appalto, ("…Il
giudizio arbitrale si svolge secondo le regole di procedura
contenute nel Decreto del Ministero dei lavori
pubblici…previsto dall’art. 32 della legge”) e dal D.M.
02.12.2000, n. 398 (applicabile in ragione del tempo), nasce
da un atto di natura contrattuale di due soggetti agenti
iure privatorum, che affidano ad un arbitro, a sua volta
privato, la risoluzione di una controversia insorta tra
loro. Per cui opererebbe l’art. 1372 c.c., che limita gli
effetti del contratto alle parti che lo hanno stipulato, non
potendo esso, in alcun modo, vincolare i terzi estranei: “res
inter alios acta tertio neque nocet neque prodest”.
Pur tuttavia, un tale risultato non può ritenersi
applicabile nell’ipotesi di causa, atteso che la
responsabilità erariale, informata al principio acquisitivo
di tipo sindacatorio, può basarsi autonomamente su elementi
indiziari, o probatori, ancorché atipici, più vari, e, tra
questi, può certamente ritenersi un elemento probatorio
qualificato ed attendibile, quello derivante da una
decisione di un arbitro, tecnicamente e giuridicamente
motivata.
Inoltre, la posizione del Direttore dei Lavori e del
Responsabile Unico del Procedimento nell’ambito del giudizio
arbitrale, al quale non hanno direttamente partecipato, non
era certamente di terzi con interessi contrapposti a quelli
dell’Amministrazione, committente dei lavori, giacché essi
svolgevano compiti, funzioni di vigilanza e controllo
sull’andamento dei lavori commissionati e accertamenti
continui sull’esatto adempimento dei patti contrattuali in
quanto organici all’Ente territoriale, ossia al comune di
Castelnuovo Rangone, che è stato condannato in sede
arbitrale, avendo un interesse processuale del tutto
sovrapponibile a quello dei primi (cfr. Corte dei conti,
SS.RR. 817/A, del 04.01.1993).
Di tal ché, i risultati della procedura arbitrale (e non
solo) a base del libello, peraltro confermati (con le
precisazioni a seguire) dalla relazione di Collaudo
tecnico–amministrativo, rappresentano idonee fonti di prova,
con valore indiziario, che “…non vincolano il giudice
contabile…” (come affermato dai primi Giudici), ma nel
senso che concorrono, unitamente a tutti gli altri elementi,
alla formazione della prova e al libero convincimento del
giudicante (cfr., con riguardo all’analoga prudente
valutazione delle prove raccolte nel procedimento penale,
anche al cospetto di preclusioni previste a garanzia
dell’imputato in quella sede, Corte dei conti, Sez. 3^,
12.12.2011, n. 849).
Quanto poi alla circostanza che avrebbe visto, secondo la
gravata sentenza, l’atto introduttivo contraddirsi riguardo
alla imputazione agli appellati della responsabilità per
carenze di progettazione, salvo poi estromettere dal
giudizio gli altri co-progettisti, ovvero relativamente alla
riconducibilità della disposta risoluzione negoziale ad un
atto proprio della Giunta, salvo poi attribuirne la
esclusiva responsabilità al Direttore dei lavori e al
Responsabile Unico del procedimento, rileva il Collegio che
il Procuratore regionale, nell’atto introduttivo, ha
contestato ai prevenuti, in termini da ritenersi assorbenti
quanto alle condotte incriminate, che la loro errata
rappresentazione dei fatti e delle condotte contrattuali è
stata causa della risoluzione negoziale e del successivo
lodo, conclusosi con l’accoglimento parziale della domanda
dell’impresa, recante oneri per spese ritenute prive di
utilità per il bilancio comunale.
Cosicché, l’evocazione nel processo del progettista –D.L. e
del progettista– R.U.P., non è avvenuta, pur dando ad essa
il giusto rilievo nell’economia del giudizio, per la mera
inadeguatezza del progetto esecutivo, che, di per sé, come
accertato dal C.T.U. (giudizio non condiviso dal Collegio
arbitrale a maggioranza però dei suoi componenti) e
confermato dal Collaudatore, non ha reso ineseguibile
l’intervento, incidendo, tuttavia, una tale carenza sui
tempi della sua realizzazione e sulla organizzazione del
cantiere, bensì per avere gli stessi indotto la Giunta
municipale a promuovere la risoluzione del negozio di
appalto per fatti ascritti, ma a torto, alla responsabilità
della ditta appaltatrice.
Di fatti, la deliberazione di G.C. n. 35,
del 25.03.2006, foriera di oneri all’esito del successivo
lodo arbitrale, è stata adottata sul fondamento delle
contestazioni espresse dal Direttore dei lavori, Arch. Fe.,
e della relazione, validativa delle stesse, del Responsabile
Unico del Procedimento, Geom. Am., quindi con pieno
affidamento degli amministratori nell’operato dei propri
tecnici di fiducia, in ordine alla ritenuta ricorrenza dei
gravi inadempimenti addebitati alla ditta S. s.r.l.
Il Direttore dei Lavori, infatti, è
una figura professionale che svolge, su scelta e per conto
del committente, un’opera di controllo e verifica della
regolarità e del buon andamento dell’intervento. E’ al tempo
stesso, sia ausiliario dell’appaltatore, da poiché ha la
direzione dell’esecuzione del lavoro che l’impresa deve
fornire ed ha il compito di sorvegliare, di controllare e di
impartire le istruzioni ai dipendenti dell’impresa impiegati
ad operare, e sia di ausiliario della Stazione appaltante,
per la quale ha la direzione dispositiva dell’opera da
compiere, del risultato da raggiungere. Di tal ché, una
volta nominato diviene, da un lato, il fiduciario
della Stazione appaltante per gli aspetti di carattere
tecnico e, dall’altro, il garante, nei confronti di
essa, dell’osservanza e del rispetto dei contenuti dei
titoli (id est della progettazione nella compiutezza
delle tavole di dettaglio) abilitativi all’esecuzione dei
lavori, prestando così un’opera professionale in esecuzione
di un’obbligazione di mezzi e non di risultati.
Tuttavia, venendo chiamato a svolgere la
propria attività in situazioni involgenti l’impiego di
particolari e peculiari competenze tecniche, deve utilizzare
le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare,
relativamente all’opera in corso di realizzazione, il
risultato che la Stazione appaltante si aspetta di
conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato
non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma
alla stregua della “diligentia quam in concreto”
(si veda, a tal riguardo, Corte di Cass., Sez. II, sentt. n.
16361/2007 e n. 10728/2008).
Ragion per cui, l’art. 124, del d.P.R.
21.12.1999, n. 554
(vigente per l’epoca) era a prevedere che
il D.L. “…cura che i lavori cui è preposto siano eseguiti
a regola d’arte ed in conformità al progetto e al contratto”,
interloquisce “…in via esclusiva con l’appaltatore in
merito agli aspetti tecnici ed economici del contratto”,
ha la responsabilità dell’accettazione dei materiali e del
controllo quantitativo e qualitativo degli accertamenti
ufficiali delle caratteristiche meccaniche di questi, “…verifica
periodicamente il possesso e la regolarità da parte
dell’appaltatore della documentazione prevista dalle leggi
vigenti in materia di obblighi nei confronti dei dipendenti”,
cura “…la costante verifica di validità del programma di
manutenzione…modificandone ed aggiornandone i contenuti a
lavori ultimati”.
Da ultimo, alla redazione e tenuta della
contabilità, vale a dire di quel complesso di attività e
documenti che consentono al committente di verificare
costantemente l’andamento delle attività e di converso,
all’appaltatore, di avere la certezza del pagamento delle
prestazioni rese, è tenuto il Direttore dei Lavori. Pare, a
tal riguardo, del tutto superfluo ricordare quanto sia di
rilievo l’accertamento e la registrazione dei lavori e come
la loro contabilizzazione sia fondamentale per il regolare
ed equilibrato svolgimento dell’intervento, aspetto, questo,
di gran lunga deficitario nell’ipotesi di causa.
In breve, il riscontro, la misurazione, l’accertamento dei
lavori eseguiti non possono mai essere tralasciati o
relegati ad attività secondaria: un tale atteggiamento non
solo è contrario a disposizioni di legge ma potrebbe
rivelarsi foriero (come occorso) di problematiche di non
facile risoluzione tanto per la committente quanto per
l’appaltatore. In conclusione, il direttore dei lavori è la
persona di fiducia del committente, incaricata di
sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite
dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga
(cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29.08.2013, n. 19895),
dovendo poter garantire alla Stazione appaltante una
capacità di supervisione e di controllo sulla intera
corretta esecuzione dell’intervento
(cfr. Corte di Cass. Sez. 3 civile, 13.04.2015, n. 7370).
Non diversamente per la figura del
Responsabile Unico del Procedimento, per le fasi della
progettazione, dell’affidamento e dell’esecuzione, al centro
del procedimento decisionale di affidamento del pubblico
appalto, le cui funzioni sono da coordinare con i compiti,
le funzioni e le responsabilità del direttore dei lavori. In
breve. Il RUP ha, tra gli altri compiti, una funzione di
alta vigilanza sul corretto avanzamento della prestazione
dell’appaltatore.
Orbene, i suddetti tecnici, nell’ambito
dell’incarico fiduciario ad essi attribuito, sono stati
causa (non altri) della risoluzione del contratto di appalto
ad opera della Giunta comunale, che ha operato facendo pieno
affidamento sulla rappresentazione dei fatti e delle
condotte contrattuali da essi provenienti. E tali
conclusioni rinvengono compiutezza probatoria nelle
evenienze documentali agli atti.
Infatti, in fase esecutiva dell’appalto, il Direttore dei
lavori, Arch. Fe., con lettera dell’11.02.2006, rilevata
l’impossibilità di pervenire alla reale conclusione
dell’opera, contestava alla ditta appaltatrice, a mente
dell’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999, “Gravi
inadempimenti, Errori di valutazione progettuale e Gravi
ritardi nella consegna dei lavori”, pari a 311 giorni
rispetto al termine previsto per la consegna definitiva
(19.02.2005).
In detta corrispondenza si poneva in evidenza che molte
lavorazioni risultavano non rispettare il capitolato
speciale di appalto, l’elenco prezzi unitari e le
prescrizioni impartite dalla Direzione Lavori. La parziale
e/o totale errata esecuzione di lavorazioni ha determinato
una serie di azioni coercitive della stazione appaltante e
della d.l. per la sistemazione, ripristino e/o rifacimento
di parte dei lavori, “…anche con inevitabili varianti
parziali al progetto originario, quando risultava
impossibile il ripristino delle condizioni iniziali dello
stesso se non previa intera o parziale demolizione della
lavorazione contestata”.
Da ultimo, nella relazione, previa elencazione delle
mancanze riscontrate nella condotta della ditta esecutrice,
il Direttore dei Lavori operava la contabilità degli stessi
alla data dell’11.02.2006: nel senso che per il
completamento dell’opera necessitava, approssimativamente,
la cifra di € 10.500,00, il conto complessivo
dell’intervento era pari ad € 509.105,73, gli acconti a tale
data liquidati erano pari ad € 405.739,25, con un residuo
credito per l’Impresa di € 103.366,48, somma che a ragione
delle detrazioni per lavori difformi dal progetto e non a
regola d’arte, valutati in € 85.350,00, e per l’applicazione
della penale per ritardo nella consegna, nella misura
massima di € 50.368,60, si trasformava in un credito per la
stazione appaltante, causa dell’attivazione della procedura
arbitrale da parte della ditta appaltatrice, che così si
vedeva negare il dovuto per i lavori già eseguiti.
Per ciò, ad avviso dell’Arch. Fe. non sussistevano le
condizioni contrattuali per l’emissione dell’ultimo S.A.L.
richiesto dall’Impresa, bensì i presupposti per la
contestazione del grave inadempimento e del mancato rispetto
del cronoprogramma dei lavori, con conseguente grave ritardo
ed applicazione delle penali. Il Responsabile Unico del
Procedimento, Geom. Am., da parte sua nella relazione in
data 25.03.2006, dopo “…aver approfondito le
argomentazioni esposte dal D.L., tenuto conto anche di
ulteriori precisazioni fornite spontaneamente dalla D.L.
(nota prot. N. 3338 del 24.03.2006)...”, esponeva le
proprie osservazioni e conclusioni, secondo le quali: <<…si
è direttamente riscontrato con presenza sul luogo dei
lavori: la parziale mancanza di organizzazione logistica del
cantiere, la scarsa dotazione di attrezzature, anche in
merito alla messa in sicurezza del cantiere, la frammentaria
e quasi inesistente direzione tecnica del cantiere, la
mancanza di coordinamento delle maestranze che
settimanalmente o ogni 15 giorni si spostavano da Napoli a
Castelnuovo Rangone, ritardi nell’esecuzione delle opere,
errori di valutazione progettuali, ricerca esasperata di
soluzioni tecniche ed operative finalizzate al contenimento
dei costi, consegna all’impresa ed ai subappaltatori di
svariate copie degli elaborati progettuali esecutivi
dell’intervento in particolare in fase di gara, alla firma
del contratto, alla consegna dei lavori e da ultimo il
02.02.2005 (pag. 10 del libretto dei lavori)…>>.
Di tal ché, “…viste le notevoli difficoltà riscontrate
nella conduzione dei lavori da parte dell’Impresa
appaltatrice…che hanno comportato un consistente e grave
rallentamento degli stessi, tali da non poter assicurare il
completamento…nel rispetto del previsto termine di
ultimazione, oltre alle irregolarità e agli inadempimenti,
riscontrate nell’esecuzione dei lavori…”, esaminate le
deduzioni difensive dell’impresa, il RUP decideva di
proporre “…motivatamente e giustificatamente…” alla
Stazione appaltante di “…approvare, a seguito di grave
inadempimento, grave irregolarità e grave ritardo
dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 119 d.P.R. n. 554 del
1999, la risoluzione del contratto di appalto per i lavori
di realizzazione dell’intervento…con l’impresa S. s.r.l.;
nonché di procedere urgentemente ad ogni adempimento e
all’adozione di tutti gli atti necessari
conseguenti…compresa l’approvazione di perizia esecutiva dei
lavori rimasti da eseguire comprensiva, se occorre, di
elenco nuovi prezzi o di quelli per manutenzione o riforma
dei lavori già eseguiti, ai fini della nuova aggiudicazione
per il completamento dei lavori in oggetto”.
Per ciò, non è chi non creda che la Giunta solo facendo
affidamento sulle valutazioni dei propri tecnici di fiducia,
in ordine alle “…notevoli difficoltà riscontrate nella
conduzione dei lavori da parte dell’Impresa, come risulta
dalle note e verbali sopra richiamati…”, che hanno
comportato un consistente e grave rallentamento dei lavori,
difficoltà tali da non poter assicurare il completamento
degli stessi nel rispetto del termine previsto, con
deliberazione n. 35, del 25.03.2006, ha disposto la
risoluzione del contratto, prendendo altresì atto della
quantificazione delle penali già predisposta dalla direzione
dei lavori.
In ragione di tanto, il Collegio, diversamente da quanto
opinato nella sentenza della Corte territoriale, non ritiene
contraddittorio il libello introduttivo, avendo,
coerentemente con la operata ricostruzione della vicenda,
evocato in giudizio il Progettista – Direttore dei Lavori e
il Progettista – Responsabile Unico del procedimento, che
con la loro esclusiva “condotta tecnica” hanno
convinto l’Organo di amministrazione politica, privo,
all’evidenza, di identiche cognizioni tecniche, a risolvere
il contratto, dal quale è poi derivato il lodo arbitrale e
gli oneri per spese accollati al Comune.
Identicamente, non può dirsi ricorrente alcun fondato nesso
di causalità, correlato all’odierno pregiudizio, imputabile
ai co-progettisti Geom. Sa.Lu. e Be.Si., all’epoca ambedue
in rapporto di Collaborazione coordinata e continuativa con
l’Ente committente, poiché rimasti del tutto estranei al
procedimento deliberativo definito dalla Giunta con la
risoluzione del contratto per grave inadempimento
dell’impresa.
Tra l’altro, il primo dei due professionisti, quand’anche
collaborante con l’Ufficio tecnico comunale, risultava non
aver preso parte neanche alla progettazione dell’intervento
per cui è causa: “Il mio nome compare sui frontespizi
delle tavole di progetto ma non ho svolto alcun ruolo nella
progettazione” (sic!), dichiarazione resa in sede di
audizione il 29.03.2012, confermata dal R.U.P. Geom. Am..
Analogamente deve concludersi con riguardo agli altri
progettisti, avendo riguardo ai calcoli strutturali e alla
progettazione esecutiva strutturale, affidati all’Ing.
Lu.Ro., alla progettazione esecutiva degli impianti
elettrico e termo idrico sanitario, eseguita,
rispettivamente, dai tecnici Ta.An. (per la consulenza alla
parte elettrica) e Cr.Da. (impianti termo–idrico-sanitario),
affidati a professionisti non organici all’Ente committente
per i quali difetterebbe, tra l’altro, la giurisdizione
contabile.
Il tutto non senza aggiungere che la chiamata in causa di
altri soggetti è sempre subordinata alla preliminare
valutazione della sussistenza di un’ipotesi di
litisconsorzio necessario e tale ipotesi, come confermato
dal consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. ex
multis Sez. 1° d’appello, sent. n. 137/2009/A, del
05.03.2009, Sez. Lazio, sent. n. 93, del 24.08.1998),
ricorre quando la condotta addebitabile a ciascuno sia
definibile come illecita solo in stretto collegamento con la
valutazione della condotta degli altri, ipotesi non
ricorrente in fattispecie.
Infatti, nel caso odierno la condotta di ulteriori
concorrenti non avrebbe impedito ad una eventuale decisione
di primo grado, di spiegare i suoi effetti nei confronti
delle sole parti presenti, giacché un’eventuale situazione
sostanziale plurisoggettiva non richiede necessariamente di
essere decisa unitariamente nei confronti di tutti, anche in
ragione della parziarietà della responsabilità erariale
(argomenta a contrario da Cass. sent. 07.03.2006, n. 4890, e
10.03.2008, n. 6381).
In sostanza, la sentenza pronunciata nei soli confronti
delle parti presenti non sarebbe stata inutiliter data,
mentre un eventuale ordine d’intervento, proveniente dal
Giudice per motivi di opportunità, non farebbe altro che
trasformare una fattispecie di litisconsorzio facoltativo in
una di litisconsorzio necessario per ragioni di ordine
processuale al fine di evitare che il Giudice venga chiamato
a decidere più volte su liti uguali. Deve, quindi, ribadirsi
che la posizione dei convenuti non sarebbe stata affatto
influenzata dalla partecipazione in giudizio di terzi di cui
si affermava l’esclusiva o concorrente responsabilità, ben
potendo il Giudice valutare incidentalmente il contributo
causale, qualora sussistente, al danno apportato da costoro,
escludendo o decurtando, corrispondentemente, l’addebito a
carico dei soggetti convenuti in giudizio.
Un tanto chiarito, il Collegio rileva che l’atto
introduttivo, diversamente da quanto ritenuto nella gravata
sentenza, non risulta affatto appiattirsi sulle risultanze
del procedimento arbitrale, per avere, con logico e
verificabile argomentare, dedotto dagli esiti del Collaudo
Tecnico–Amministrativo, redatto da professionista esterno
all’Ente, per il quale, alla luce degli atti, deve ritenersi
insussistente qualsivoglia conflitto di interessi vuoi nei
confronti della Stazione appaltante vuoi nei confronti degli
appellati, evidenze idonee a dimostrare che le carenze
progettuali (a monte), la mancata adozione (nel corso
dell’intervento) di misure correttive e integrative del
progetto, le modifiche apportate di volta in volta allo
stesso, con mere indicazioni sul giornale dei lavori e senza
alcuna formalizzazione anche in specifiche perizie di
variante (ove previste), sono state causa del mancato
rispetto del cronoprogramma.
Di fatti, la finalità del collaudo è quella
di verificare che i lavori siano stati eseguiti a regola
d’arte, secondo le previste pattuizioni, e di liquidare il
credito residuo all’appaltatore. In particolare, il collaudo
tende a verificare e certificare (in un apposito atto) che
l’opera o il lavoro sono stati eseguiti a regola d’arte e
secondo le prescrizioni tecniche prestabilite, in conformità
al contratto, alle sue eventuali varianti ed ai conseguenti
atti di sottomissione o aggiuntivi debitamente approvati. Il
collaudo ha altresì lo scopo di verificare che i dati
risultanti dalla contabilità e dai documenti giustificativi
corrispondano tra loro e con le risultanze di fatto, non
solo per dimensioni, forma e quantità, ma anche per qualità
dei materiali, dei componenti e delle provviste utilizzati.
Esso include ancora tutte le verifiche
tecniche previste dalle leggi di settore e comprende,
infine, anche l’esame delle riserve dell’appaltatore, sulle
quali non sia intervenuta una risoluzione definitiva in via
amministrativa e se iscritte nel registro di contabilità e
nel conto finale nei termini e nei modi stabiliti dal
regolamento, finendo così per individuare il credito finale
dell’appaltatore.
In ragione di tanto la giurisprudenza
contabile ha chiarito che il collaudo “...comporta:
l’accertamento della rispondenza delle opere eseguite alle
prescrizioni del progetto e del contratto e delle eventuali
perizie di variante approvate; la verifica tecnico–contabile
delle misure delle opere e dei prezzi applicati; l’esame
delle eventuali riserve presentate dall’appaltatore;
soprattutto l’emissione del certificato di collaudo consente
di svincolare le ritenute contrattuali a garanzia
dell’Amministrazione appaltante”
(così Corte dei conti, Sez. 2^ Centr. di App., 21.05.2012,
n. 299).
Orbene, la risoluzione contrattuale, disposta dalla Stazione
appaltante, poi rivelatasi illegittima e portatrice di oneri
a carico del bilancio comunale (esito del lodo), scaturiva
da “Gravi inadempimenti, Errori di valutazione
progettuale, Grave ritardo nella consegna dell’opera”
(contestazione dell’11.02.2006 ad opera dell’Arch. Fe.), “Errate
lavorazioni ed irregolarità” (Geom. Am., relazione del
25.03.2006), che hanno indotto l’Ente committente a non
pagare il S.A.L. finale afferente le lavorazioni effettuate
e quelle non previste in progetto, relative, tra le altre,
ad assistenze murarie per impianto elettrico e
idro-termo-sanitario, e per l’impianto fognario, pagamento
che ove assentito avrebbe di certo ridotto la necessità di
ricorrere alla procedura arbitrale.
Nel certificato di collaudo tecnico–amministrativo, redatto
il 07.10.2009, da professionista esterno (Ing. Violetta
Sergio), si certifica che “…i motivi, sulla base di
quanto ricostruibile dai documenti forniti allo scrivente,
che hanno impedito il rispetto del cronoprogramma sono
riassunti in: 1) Carenza di progettazione esecutiva e
definizione dei dettagli costruttivi in fase di cantiere; 2)
Inserimento di varianti alle lavorazioni previste senza
redazione di apposita perizia e senza il concordamento degli
eventuali tempi suppletivi; 3) Lavori aggiuntivi richiesti
non compresi in contratto, vedi fognature, senza perizia e
senza individuazione dei maggiori tempi di esecuzione delle
lavorazioni” (sottolineato Nostro).
Da ultimo, “…la mancata registrazione sul giornale dei
lavori dei mezzi e delle maestranze presenti in cantiere, di
fatto…” ha impedito di “…valutare la scarsa
organizzazione messa in campo dall’impresa, senz’altro vera
ma non dimostrabile documentalmente”, il che ha reso non
applicabile la penale irrogata dall’Ente per ritardata
esecuzione delle opere. Ora, a mente dell’art. 16 della
legge 11.02.1994, n. 109, il progetto esecutivo, redatto in
conformità al progetto definitivo, “…determina in ogni
dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo
previsto e deve essere sviluppato a un livello di
definizione tale da consentire che ogni elemento sia
identificabile quanto alla forma, alla tipologia, alla
qualità, alla dimensione e al prezzo”.
L’art. 35 e segg. del d.P.R. 21.12.1999, n. 554, ha poi
previsto che i documenti componenti il
progetto esecutivo, che “…costituisce la
ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni e, pertanto,
definisce compiutamente ed in ogni particolare
architettonico, strutturale ed impiantistico l’intervento da
realizzare…”, devono riguardare: “a) la relazione
generale; b) le relazioni specialistiche; c) gli elaborati
grafici comprensivi anche di quelli delle strutture, degli
impianti e di ripristino e di miglioramento ambientale; d) i
calcoli esecutivi delle strutture e degli impianti; e) i
piani di manutenzione dell’opera e delle sue parti; f) i
piani di sicurezza e di coordinamento; g) il computo metrico
estimativo definitivo e quadro economico; h) il
cronoprogramma; i) l’elenco dei prezzi unitari e eventuali
analisi; l) il quadro dell’incidenza percentuale della
quantità di manodopera per le diverse categorie di cui si
compone l’opera o il lavoro; m) lo schema di contratto e
capitolato speciale di appalto”.
Il progetto risulta per ciò costituito
dall’insieme delle relazioni, dei calcoli esecutivi delle
strutture e degli impianti e degli elaborati grafici nelle
scale adeguate, compresi gli eventuali particolari
costruttivi, dal capitolato speciale di appalto, dal computo
metrico estimativo ed infine dall’elenco dei prezzi unitari.
Gli elaborati grafici devono, poi, essere redatti, salvo
diversa motivata determinazione del R.U.P. nelle scale
ammesse o prescritte, in modo tale da consentire
all’esecutore una sicura interpretazione ed esecuzione dei
lavori in ogni elemento. La progettazione esecutiva delle
strutture e degli impianti deve essere effettuata unitamente
alla progettazione esecutiva delle opere civili, allo scopo
di dimostrare la piena compatibilità tra progetto
architettonico strutturale e impiantistico e prevedere in
maniera esatta di ottimizzare le fasi di realizzazione.
Inoltre, il progetto esecutivo deve essere
corredato da un apposito piano di manutenzione dell’opera e
delle sue parti, nonché dal cronoprogramma delle
lavorazioni, teso a rappresentare graficamente la
pianificazione delle lavorazioni gestibili autonomamente,
nei suoi principali aspetti dal punto di vista della
sequenza logica, dei tempi e dei costi.
In ragione di tali specifici, dettagliati e compiuti
adempimenti, il progetto esecutivo di
un’opera pubblica,
in particolare per l’ipotesi a giudizio in cui all’impresa
era chiesta una mera attività di interpretazione finalizzata
alla spedita esecuzione dei lavori, è
considerato dalla giurisprudenza come quello immediatamente
cantierabile, giacché concernente un’opera che non necessita
di ulteriori specificazioni per essere realizzata, dopodiché
contenente (o meglio dovendo contenere) la puntuale e
dettagliata descrizione e rappresentazione dell’opera
stessa: ciò è determinante per individuare esattamente
l’oggetto dell’appalto. Cosicché, nei casi in cui sorgano
dei dubbi esecutivi, è a questo progetto (nella sua
compiutezza di allegati ed elaborati) che occorre fare
esclusivo o prevalente riferimento
(in tal senso, Corte di Cass., 18.09.2009, n. 20140, id.
Cons. di Stato, sez. VI, 09.11.2011, n. 5923).
Di tal ché, incorrerà nella violazione
dell’obbligo progettuale il Committente che, per il tramite
dei propri tecnici di fiducia, non adempia all’obbligo di
predisporre un progetto esecutivo completo in tutti i suoi
elementi, indicando anche l’esatta ubicazione dei sotto
servizi interferenti (come ad es. l’impianto fognario) e
quanto altro necessario per l’immediata risoluzione delle
interferenze che potrebbero sopraggiungere.
Orbene, dagli atti di causa emerge la non completezza della
progettazione esecutiva, con necessaria definizione di
taluni dettagli costruttivi in fase di cantiere, circostanza
che non ha reso ineseguibile l’opera, ma ne ha impedito il
rispetto del cronoprogramma, con consegna tardiva dei
lavori.
In primo luogo, il Collegio è a rilevare
che la delibera di approvazione del progetto dell’08.04.2004
non elenca i documenti facenti parte del progetto esecutivo:
di tutta evidenza che una tale modalità non può farsi
ricadere sull’organo di governo e di indirizzo politico
dell’Ente, bensì sul Responsabile Unico del Procedimento,
per le proprie responsabilità di coordinamento e di
supervisione correlate all’intera fase di progettazione.
Gli incarichi di affidamento del progetto strutturale
(all’Ing. Lu.), dell’impianto idro–termo-sanitario (al P.I.
Cr.) e dell’impianto elettrico (al P.I. Ta.) risultano
(formalmente) affidati in data successiva all’approvazione
del progetto esecutivo (anche se gli stessi potrebbero aver
svolto l’incarico prima della relativa formalizzazione); il
piano della sicurezza, avente come coordinatore il Geom.
Gu.Pa., portava ad es. la data del 09.06.2004, successivo
alla presentazione delle offerte, con violazione della
corretta procedura dianzi descritta.
I lavori risultano affidati il 25.06.2004, prima
dell’aggiudicazione definitiva del 20.07.2004, con obbligo
dell’Impresa di “…intraprendere immediatamente gli stessi”
(così il P.V. di consegna); il progetto esecutivo, come
accertato in sede di collaudo, mancava:
1) della Relazione generale illustrativa delle opere (ex
art. 36 del d.P.R. n. 554/1999), tesa “…a descrivere in
dettaglio, anche attraverso specifici riferimenti agli
elaborati grafici e alle prescrizioni del capitolato
speciale di appalto, i criteri utilizzati per le scelte
progettuali esecutive, per i particolari costruttivi e per
il conseguimento e la verifica dei prescritti livelli di
sicurezza e qualitativi”: una tale relazione, del tutto
mancante, non può rinvenire valida alternativa nella “Descrizione
generale dell’opera” (invocata dai prevenuti) allegata
alla relazione di collaudo strutturale predisposta dall’Ing.
Ro.Ru. in aprile 2004;
2) I particolari costruttivi dei componenti architettonici e
di risoluzione degli aspetti di dettaglio: il richiamo fatto
dagli appellati alle Tavole n. 3 “Sezioni”, scala
1:50, 4 “Prospetti est e ovest”, scala 1:50 e 4-bis “Prospetti
nord e sud Tribuna, prospetti nord e sud Servizi”, non
possono ritenersi probanti per mancanza sulle stesse delle
sigle dei progettisti e del timbro della Stazione
appaltante;
3) di maggiori dettagli in merito ai collegamenti
strutturali;
4) della Relazione di calcolo strutturale e disegni
esecutivi delle scale metalliche;
5) del Progetto completo della rete fognaria e dello
smaltimento delle acque meteoriche;
6) del Piano di manutenzione dell’opera;
7) del quadro di incidenza percentuale della quantità di
mano d’opera per le diverse categorie di cui si compone il
lavoro;
8) le scale di rappresentazione degli elaborati non
consentivano una immediata lettura degli aspetti costruttivi
di dettaglio, rallentando l’esecuzione dei lavori.
In specie, come posto in evidenza in sede di CTU e di
Collaudo, riguardo al progetto architettonico, agli impianti
elettrici e agli impianti idro-termo-sanitari, tutte le
planimetrie sono redatte in scala 1:100, la medesima scala è
utilizzata per i prospetti e sezioni dell’architettonico
quando normalmente in un progetto esecutivo questo tipo di
elaborati grafici sono in scala doppia (1:50).
Il Capitolato poi non prevedeva, a carico della impresa
esecutrice, la redazione degli elaborati di dettaglio e
l’emissione di elaborati costruttivi; ragione per cui
l’eseguibilità delle opere non era possibile se non “…con
la costante e continua presenza della D.L. e la fornitura,
in corso d’opera, degli elaborati grafici dei particolari
non rilevabili sul progetto esecutivo”.
Aspetti, questi, che non possono definirsi, come sostenuto
dagli appellati, “generiche affermazioni”, così come
l’enunciazione che gli elaborati e gli atti completi del
progetto esecutivo siano stati consegnati alla ditta
esecutrice, non potrebbe servire ad attestarne
obiettivamente la loro completezza, e ciò in ragione della
non diligente loro elencazione e certificazione all’atto
della consegna stessa.
Relativamente, invece, al rilievo dello stato di fatto con
individuazione univoca delle quote di riferimento (di cui
lamenta la mancanza il Collaudatore) e della Relazione
geologica e geotecnica (non riscontrata agli atti dal C.T.U.
in sede di procedimento arbitrale), rileva il Collegio, come
correttamente osservato dagli appellati, che essi erano
allegati al progetto esecutivo.
Infatti, alla Tavola 5/2 “Particolari costruttivi”,
scale varie (allegato n. 10 del fascicolo di primo grado
delle parti private), è presente il particolare n. 11
rappresentativo dello stato di fatto antecedente la
ristrutturazione con riporto delle altezze rispetto al piano
di campagna (piano di calpestio); la relazione geologica di
marzo 1994, a firma del dott. Pr.Cl., inizialmente non
trasmessa al Collaudatore, benché antecedente di dieci anni,
è presente agli atti (doc. 12 del fasc. di parte) ed è stata
disaminata dallo stesso in sede di certificato di collaudo
statico del 30.03.2009. La relazione di collaudo
tecnico–amministrativo era ancora a certificare che nel
corso dei lavori non sono state emesse perizie di variante.
Pur tuttavia le varianti al progetto
originario sono state numerose e le modifiche e stralci di
lavorazioni non sono mai state formalizzate con ordini di
servizio e/o perizie; sono stati, altresì, eseguiti dei
lavori non previsti contrattualmente, senza la redazione di
alcun verbale di concordamento di nuovi prezzi; non è stato
redatto il conto finale a seguito della risoluzione del
contratto (la contabilità finale e analitica verrà prodotta
dal D.L. dopo tre anni), non sono state formalizzate
proroghe o termini suppletivi per le opere variate, per i
lavori non previsti contrattualmente, per il superamento
dell’importo contrattuale, che obbligava a redigere comunque
una perizia tecnica e suppletiva, ove disponibili le somme,
per i nuovi lavori ordinati.
Di fatto, il Collaudatore era a riportare, con formalità
sintetica, le seguenti modifiche apportate in corso d’opera
dal Direttore dei lavori “…con semplice indicazioni delle
stesse sul …giornale dei lavori: Cordolo aggiuntivo in
fondazione, modifiche dimensionali dei pilastri della
tribuna e modifica della relativa armatura, inserimento di
due pilastri aggiuntivi nel fabbricato gazebo, in
sostituzione di due spallette in muratura, variazione
armature di alcune travi in c.a., modifica quote
finestrature spogliatoi, riduzione dei gradoni della tribuna
e loro variazione dimensionale, finitura del pavimento
tribuna, modifiche all’impianto elettrico, realizzazione in
copertura gazebo di un torrino in mattoni, apertura di nuova
porta”.
Quanto alle opere di fognatura, vale a dire alla
rappresentazione grafica del distributivo interno delle
tubazioni di scarico e delle grondaie e dei pluviali,
completamente omesse nel progetto (anche autonomo, come
indicato dagli appellati, ma che necessariamente doveva
essere presente e da correlare all’opera nella sua
unitarietà ab origine), sono state commissionate solo
nel luglio 2005 e avrebbero, quindi, necessitato di apposita
perizia di variante con il relativo concordamento sia dei
nuovi prezzi che dei nuovi tempi contrattuali, atteso che
una tale carenza avrebbe pregiudicato, in tutto o in parte,
l’utilizzazione dell’opera.
Il che, senza dilungarsi ulteriormente,
dimostra che il progetto esecutivo era originariamente
carente e bisognevole di continue integrazioni in itinere,
peraltro neanche correttamente formalizzate, con previsione
di nuovi tempi contrattuali, che avrebbero di certo
legittimato i maggiori tempi impiegati dalla ditta per
l’esecuzione dell’opera, poi infondatamente contestati alla
stessa da parte dell’Ente committente.
Anche i difetti per le parti di progetto non redatte dagli
appellati, e relative alla parte elettrica e a quella
concernente gli impianti termo-idrico-sanitari, sono stati
motivo del mancato rispetto de cronoprogramma da parte della
ditta appaltatrice, difetti che avrebbero dovuto essere
prontamente rilevati dal D.L. e dal RUP ancor prima
dell’affidamento dei lavori.
E’ per ciò evidente che la condotta della
Stazione appaltante, per il tramite dei propri tecnici di
fiducia, sia stata gravemente inadempiente, avuto riguardo
all’interesse della ditta esecutrice, giacché la mancata
predisposizione di elaborati progettuali dettagliati ed
esaustivi, quale manifestazione del dovere di collaborazione
e cooperazione, non ha posto la ditta nelle condizioni di
eseguire l’opera nei tempi contrattuali previsti, rendendo
per ciò non possibile l’effettuazione delle prestazioni nei
modi e nei tempi programmati.
Pur tuttavia, il Collegio non può non
rilevare, siccome posto in evidenza nella C.T.U. arbitrale,
nella relazione di Collaudo e nella memoria di costituzione
degli appellati, che l’opera pur con le carenze dianzi
esposte è stata ritenuta eseguibile, chiaramente con un
impegno dell’impresa maggiore rispetto ai tempi previsti,
maggior tempo necessario per la definizione grafica di tutti
quegli elementi e particolari non rilevabili dagli
elaborati. Di tal ché, non emergeva un grave inadempimento
della ditta tale da autorizzare la risoluzione del
contratto, mentre era chiara la contraddittorietà della
condotta serbata dal comune, per il tramite dei propri
tecnici, che hanno ordinato lavori anche dopo la scadenza
contrattuale del 19.02.2005.
Da un lato, infatti, con l’ordine di servizio n. 1,
del 22.02.2005, la D.L. rilevato che “…i lavori vengono
condotti senza il rispetto del programma…e con gravi
ritardi…con una scarsa organizzazione del cantiere…”,
ordinava di organizzare il cantiere “…non più tardi del
giorno 24.02.2005…per la realizzazione delle coperture e dei
relativi manti, dell’impianto termo-sanitario, dell’impianto
elettrico, gradoni e sistemazioni esterne, rispettando il
termine concordato del 25.03.2005 per la fine lavori”;
con l’ordine di servizio n. 2, del 01.04.2005, lo stesso
Arch. Fe., ribadendo il ritardo nell’esecuzione dei lavori,
ordinava all’impresa “…non più tardi del giorno
04.04.2005 di organizzare il cantiere con squadre operative
ed autonome composte da almeno da 2 a 4 persone…”,
precisando che “…i lavori erano già in ritardo…”.
Dall’altro, tuttavia, risulta definitivamente
accertato che, scaduto il termine contrattuale in data
25.03.2005, la D.L., successivamente ai due ordini di
servizio dianzi richiamati, ha disposto e concordato con
l’appaltatrice una serie di lavorazioni di cui è traccia
nella CTU arbitrale. Di tal ché, dagli atti emergeva che la
Stazione appaltante per tutta la durata del rapporto
contrattuale e, comunque, almeno fino al termine di luglio
2005, aveva optato per l’esecuzione tardiva dei lavori e non
per la risoluzione contrattuale, sostanziandosi così tale
condotta in una tolleranza del ritardo nell’ultimazione dei
lavori, “…tanto da impiegare la prolungata permanenza in
cantiere dell’impresa per l’esecuzione non solo di
lavorazioni di ripristino e rifinitura, ma anche di opere
non contrattualmente previste”.
Se a ciò si aggiunge che alla data di risoluzione
contrattuale, il D.L. ha riconosciuto il superamento
dell’importo dell’appalto e ha stimato, nella relativa
parziale contabilità, lavori di completamento per €
10.500,00, a fronte di lavori eseguiti per € 509.105,73,
appare francamente difficile poter configurare quella
gravità dell’inadempimento tale da giustificare la
risoluzione del contratto.
In conclusione, è stata solo la grave
negligenza ed avventatezza degli odierni prevenuti, ognuno
nel ruolo ad essi affidato dall’Ente, a consentire che gravi
carenze progettuali si traducessero in violazioni del
cronoprogramma nella consegna dell’opera.
Una più accurata attenzione degli stessi
nel corso dell’intervento e nella formalizzazione delle
richieste, una maggiore diligenza nell’annotazione sul
giornale dei lavori dei mezzi e delle maestranze presenti in
cantiere, avrebbe permesso di dimostrare documentalmente
anche la grave (concorrente) negligenza dell’appaltatore,
sotto forma di deficienza organizzativa del cantiere. Così,
invece, non è stato e sulla Stazione appaltante, a ragione
delle condotte tenute dai propri tecnici, sono ricadute le
conseguenze per spese non utili, che, almeno in parte,
potevano evitarsi facendo prudenziale uso delle proprie
professionalità.
Il Collegio, infatti, ritiene disutile per l’Ente
committente non l’intero importo contestato dal Requirente,
bensì le somme per interessi, pari ad € 18.312,57, alle
quali poteva ovviarsi pagando alla Ditta esecutrice le somme
dovute per i lavori già eseguiti (come certificate nella
contabilità del D.L. e nella C.T.U.), e l’importo di €
33.048,00, per spese di consulenza legale, onere che l’Ente
poteva ragionevolmente evitare sollecitando un
approfondimento dei fatti della vicenda arbitrale da parte
del proprio Ufficio tecnico del tempo. Di tal ché, il danno,
causalmente riconducibile all’avventatezza comportamentale
dei predetti appellati, è pari ad € 51.360,57.
In ragione poi della circostanza che parte della
documentazione ritenuta mancante era presente, dei
precedenti di carriera degli incolpati, delle loro
condizioni economiche, evidenziate nelle comparse di
costituzione e risposta, del fatto che comunque la pretesa
patrimoniale avanzata dall’impresa non è stata riconosciuta
per l’intero, la Corte, in applicazione del potere di
riduzione, ravvisa di dovere imputare all’Arch. Fe.Gi. e al
Geom. Am.Lu. l’importo di € 15.000,00 (euro
quindicimila/,00) cadauno, comprensivo di rivalutazione
monetaria, da ristorare in favore del comune di Castelnuovo
Rangone (MO), oltre interessi di legge dal 29.03.2013 (di
deposito della sentenza di prime cure) e sino all’effettivo
soddisfo.
In questi termini l’appello merita accoglimento e la
sentenza n. 42/2013, della Sezione giurisdizionale per
l’Emilia Romagna è da riformare.
Alla soccombenza seguono le spese del doppio grado del
giudizio da liquidarsi come da dispositivo. |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Oneri, decide il consiglio. Contributi urbanistici,
assemblea competente. Non conta la
natura effettiva (patrimoniale o tributaria) della
prestazione.
È il consiglio comunale o la giunta l'organo competente alla
determinazione/adeguamento degli oneri di urbanizzazione?
L'art. 42 del decreto legislativo n. 267/2000 stabilisce che
il consiglio è l'organo di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, a cui sono attribuite una serie di
competenze elencate in dettaglio nella stessa disposizione
normativa.
In particolare, la lettera b) prevede in linea generale la
competenza del consiglio in materia di programmi, bilanci,
piani territoriali e urbanistici ecc., mentre la lett. f)
assegna a tale organo competenze in materia di istituzione e
ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione
delle relative aliquote e la disciplina generale delle
tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi.
La giunta comunale, a cui sono assegnate funzioni di tipo
esecutivo-attuativo, in base al successivo art. 48, comma 2,
compie tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107,
commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non
siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano
nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del
sindaco o degli organi di decentramento; collabora con il
sindaco nell'attuazione degli indirizzi generali del
consiglio; riferisce annualmente al consiglio sulla propria
attività e svolge attività propositive e di impulso nei
confronti dello stesso.
In merito alla fattispecie in esame, il dpr 06.06.2001, n.
380, all'art. 16, comma 4, prevede espressamente che
l'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio
comunale in base alle tabelle parametriche che la regione
definisce per classi di comuni in relazione a una serie di
parametri ivi indicati.
Il comma 5 del citato art. 16 stabilisce, altresì, che nel
caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da
parte della regione e fino alla definizione delle tabelle
stesse, i comuni provvedono, in via provvisoria, sempre con
deliberazione del consiglio comunale secondo i parametri di
cui al comma 4, fermo restando quanto previsto dal comma
4-bis. Appare pacifico, dunque, che la competenza a
determinare gli oneri di urbanizzazione ricada
esclusivamente sul consiglio comunale.
Riguardo agli aggiornamenti degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, il comma 6 del medesimo art. 16 del
dpr 06.06.2001, n. 380, si limita a stabilire che i «comuni»
provvedono ogni cinque anni, in conformità alle relative
disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e
prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria,
secondaria e generale. Il Consiglio di Stato con sentenza n.
7140/05 del 15.12.2005 ha affermato che «il contributo
per il rilascio del permesso di costruire imposto dall'art.
16 del dpr 06.06.2001, n. 380 e commisurato agli oneri di
urbanizzazione, ha carattere generale perché prescinde
totalmente dall'esistenza o meno delle singole opere di
urbanizzazione e ha natura di prestazione patrimoniale
imposta». Lo stesso Consesso ha citato altresì, per la
natura tributaria di tale prestazione, la decisione del
Consiglio di giustizia amministrativa per la regione
Siciliana 05.05.1999, n. 203.
Pertanto, benché la giurisprudenza non risulti sempre
univoca nell'individuare l'organo a cui compete l'adozione
della deliberazione di adeguamento degli oneri urbanistici,
indipendentemente dalla effettiva natura della prestazione
(patrimoniale o tributaria) la competenza non può non essere
ricondotta al consiglio comunale. Infatti, l'articolo 42 del
Tuel affida al consiglio la competenza in ordine a tributi e
tariffe ed esercita l'ipotetica discrezionalità, laddove
venga riconosciuta dalla legge, che non può essere demandata
a un organo esecutivo quale la giunta.
Nel caso specifico, la competenza all'aggiornamento degli
oneri di urbanizzazione dovrebbe, comunque, essere
ricondotta al consiglio anche per coerenza sistematica alle
varie disposizioni contenute nell'articolo 16 del dpr n.
380/2001 che al comma 4 e al comma 5 affidano al consiglio
comunale il compito di determinarne l'incidenza
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2016). |
ENTI LOCALI:
La concessione di contributi economici agli enti no profit.
DOMANDA:
L’Amministrazione Comunale da diversi anni sostiene, anche
finanziariamente, le iniziative di rilevanza sociale,
culturale, educativa, socio-sanitaria, promosse da
Associazioni e altri soggetti del terzo settore e volte a
migliorare la qualità della vita e a sviluppare il benessere
sociale. Ciò in applicazione del principio costituzionale di
sussidiarietà che stimola l’attivazione di risorse
progettuali anche di natura privatistica per il
perseguimento di obiettivi di interesse pubblico.
A tal fine si provvede alla concessione di contributi
economici, di entità ridotta a organismi no profit,
che propongono progetti sociali significativi, spesso di
carattere innovativo, mettendo a disposizione proprie
risorse economiche, umane e strumentali; trattasi di
progetti che il Comune non potrebbe realizzare senza
l’apporto concreto del terzo settore.
La concessione dei contributi avviene in linea con gli
indirizzi contenuti nel DUP allegato al Bilancio di
previsione comunale di riferimento e alle condizioni e nei
termini stabiliti dall’apposito Regolamento Comunale per la
concessione di contributi alle libere forme associative
approvato ai sensi della Legge 241/1990.
Tanto precisato, alla luce delle recenti determinazioni
dell’ANAC si ravvisa l’opportunità di chiedere un parere
circa la possibilità di continuare a finanziare senza
indizione di procedure selettive pubbliche e con contributi
generalmente di modesta entità (di norma inferiore a €
1.000,00 e comunque entro il limite di € 10.000,00),
progetti innovativi di rilevante interesse pubblico promossi
da organismi no profit che mettono a disposizione
proprie risorse nell’ottica della sussidiarietà.
Ciò in quanto la concessione dei contributi viene
regolarmente effettuata nella piena osservanza delle vigenti
disposizioni legislative regolamentari.
RISPOSTA:
In merito alla tematica prospettata occorre partire dalla
determinazione 20.01.2016 n. 32 dell'Anac, pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale del 06.02.2016, n. 30, contenente le
linee guida per l'affidamento di servizi a enti del terzo
settore e alle cooperative sociali, nel rispetto della
normativa comunitaria e nazionale in materia di contratti
pubblici e di prevenzione della corruzione.
Ai sensi dell'articolo 1, comma 16, della legge 190/2012 la
«concessione
ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili
finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati» è
considerata un processo amministrativo ad alto rischio di
corruzione. La norma si scontra con la prassi di assegnare
contributi e sovvenzioni «ad personam», da parte
degli organi di governo, senza una procedura realmente
selettiva.
Sul punto, la delibera 32/2016 dell'Anac è chiara: «L'attribuzione
di vantaggi economici, sebbene non regolata dal Codice dei
contratti, è sottoposta comunque a regole di trasparenza e
imparzialità; pertanto deve essere preceduta da adeguate
forme di pubblicità e avvenire in esito a procedure
competitive». Le amministrazioni devono procedere in
osservanza delle indicazioni fornite dall’art. 12 della l.
07.08.1990 n. 241, che subordina la concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e
l’attribuzione di vantaggi economici di qualsiasi genere a
persone, enti pubblici e privati alla predeterminazione dei
criteri e delle modalità di erogazione dei benefici.
Inoltre, l'Anac suggerisce gli strumenti organizzativi,
indicando che le amministrazioni debbono individuare
preventivamente gli ambiti di intervento; gli obiettivi da
perseguire; le categorie dei beneficiari; la natura e la
misura dei contributi da erogare; il procedimento da seguire
(con l'indicazione di modalità e termini per presentare le
istanze); i criteri di valutazione delle richieste per la
scelta dei beneficiari, redatti in modo tale da rispettare i
principi di libera concorrenza e parità di trattamento;
infine, le azioni per controllare che i contributi siano
effettivamente impiegati per le finalità previste.
Ai fini dell'erogazione di contributi occorre -secondo le
linee guida- porre in essere procedure «para concorsuali»,
in tutto assimilabili a quelle di gara, regolate dal codice
dei contratti. La delibera inoltre, richiamando la
determinazione dell'ex Avcp 07.07.2011, n. 4, sulla
disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari di cui
alla legge 136/2010, afferma che tale disciplina debba
applicarsi non solo agli appalti di servizi, ma anche alle
sovvenzione in favore dei soggetti del terzo settore.
Le amministrazioni, dunque, alla luce della delibera Anac
32/2016 debbono rivedere tutto il sistema di regolazione
dell'erogazione dei contributi ai soggetti del terzo
settore, ivi comprese anche le discipline sugli organi
competenti a gestire le procedure selettive e ad adottare i
provvedimenti finali - attività gestionale, di competenza
non più degli organi di governo, ma dei dirigenti o
responsabili di servizi.
Non prevedendo le indicazioni Anac limiti di valore per
l'applicazione dei principi di concorrenza, si ritiene che
sarebbe più prudente, per l'amministrazione, procedere alla
concessione dei contributi non solo nei termini stabiliti
dall’apposito Regolamento Comunale approvato ai sensi della
Legge 241/1990, ma anche garantendo un adeguato livello di
pubblicità che consenta l’apertura dell'erogazione dei
contributi alla concorrenza, nonché il controllo
sull’imparzialità delle relative procedure.
La stessa, inoltre, è tenuta alla corretta applicazione
della normativa in materia di prevenzione della corruzione
di cui alla l. 190/2012, con particolare riferimento agli
obblighi di pubblicazione previsti agli artt. 15, 16 e 32 in
relazione ai provvedimenti di erogazione di sovvenzioni,
sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque
genere a persone ed enti pubblici e privati (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Obbligo di astensione degli amministratori comunali.
Deliberazione di adozione di una variante allo strumento
urbanistico.
Nel caso di consigliere comunale
nominato dal sindaco, in rappresentanza dell'Ente locale,
quale componente del consiglio di amministrazione di una
fondazione privata, si ritiene che non venga in rilievo
l'obbligo di astensione di cui all'articolo 78 TUEL in
relazione ad una delibera di approvazione di una variante
allo strumento urbanistico afferente un complesso
immobiliare di proprietà dell'ente privato, atteso che
l'amministratore locale è comunque portatore degli interessi
del Comune.
Il Comune chiede un parere in merito alla sussistenza
dell'obbligo di astensione di due consiglieri comunali, in
relazione ad una delibera di approvazione di una variante
allo strumento urbanistico generale afferente, tra l'altro,
un complesso immobiliare di proprietà di una fondazione
privata del cui consiglio di amministrazione fanno parte gli
indicati amministratori.
Lo statuto della fondazione prevede che il sindaco nomini i
componenti del consiglio di amministrazione, tra i quali un
rappresentante del Comune stesso. Pertanto, l'Ente mette in
evidenza il fatto che uno dei due amministratori,
diversamente dall'altro, ricopre la carica in seno alla
fondazione in qualità di rappresentante del Comune presso
cui esercita il proprio mandato elettivo.
L'articolo 78, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 stabilisce che gli amministratori locali 'devono
astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di
astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta
fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado.'
L'obbligo di astensione trova il suo fondamento nel
principio costituzionale di imparzialità e trasparenza
dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La giurisprudenza sul tema dell'obbligo di astensione per
conflitto di interessi da parte dei soggetti appartenenti ad
organi collegiali ha chiarito come lo stesso ricorra per il
solo fatto che essi siano portatori di interessi personali
che possano trovarsi in posizione di conflittualità, ovvero
anche solo di divergenza, rispetto a quello generale,
affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte.
[1]
Con riferimento specifico all'approvazione dei provvedimenti
normativi o di carattere generale, la norma ha disciplinato
l'obbligo di astensione in modo tale che la sua violazione
possa verificarsi solo in presenza di un interesse
immediato, diretto e specifico dell'amministratore (o dei
suoi parenti o affini) e non di un interesse genericamente
non definito.
La giurisprudenza ha, comunque, affermato che: 'L'obbligo
di astensione che incombe sugli amministratori comunali in
sede di adozione (e di approvazione) di atti di
pianificazione urbanistica sorge per il solo fatto che,
considerando lo strumento stesso l'area alla quale
l'amministratore è interessato, si determini il conflitto di
interessi, a nulla rilevando il fine specifico di realizzare
l'interesse privato e/o il concreto pregiudizio
dell'amministrazione pubblica'. [2]
Il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento, nel
richiamare la suindicata giurisprudenza, ha altresì
affermato come la stessa sia concorde nel ritenere che il
dovere di astensione sussista in tutti i casi in cui gli
amministratori versino in situazioni, anche potenzialmente,
idonee a porre in pericolo la loro assoluta imparzialità e
serenità di giudizio. [3]
Con particolare riferimento alla fattispecie in esame preme
appurare se l'obbligo di astensione sussista nell'ipotesi in
cui l'interesse dell'amministratore comunale non sia
strettamente personale e privato, in quanto persona fisica,
ma lo riguardi in quanto proprio della persona giuridica
dallo stesso amministrata. Per dare risposta a tale quesito
si ritiene necessario scindere la posizione rivestita dai
due consiglieri comunali in seno al consiglio di
amministrazione della fondazione.
Quanto al soggetto che è stato nominato dal sindaco quale
rappresentante del Comune in seno al consiglio di
amministrazione della fondazione, si ritiene che non venga
in rilievo l'obbligo di astensione di cui all'articolo 78
TUEL. Lo stesso, infatti, ricopre tale carica proprio in
ragione del mandato di amministratore comunale ed è
portatore degli interessi dell'Ente nell'ambito dell'organo
amministrativo della fondazione. In altri termini, il
consigliere comunale non ha alcun interesse ad un risultato
della deliberazione in luogo di un altro, atteso che egli è
portatore di interessi pubblici, gli unici che rilevano
quando egli esercita il mandato elettivo e copre cariche
attinenti allo stesso. [4]
A diverse conclusioni pare doversi pervenire in relazione al
ruolo rivestito dall'altro amministratore comunale.
Dall'analisi della giurisprudenza più recente pare risultare
prevalente l'orientamento che ravvisa la sussistenza
dell'obbligo di astensione in capo agli amministratori
locali che rivestono la carica di rappresentanti legali di
enti interessati dalla delibera che il Comune deve assumere.
[5]
Anche l'Anci, in una fattispecie riguardante la concessione
in comodato da parte del Comune di un proprio immobile, ad
un'associazione sportiva, il cui vicepresidente è il figlio
del vicesindaco, ha affermato la necessità che quest'ultimo
non prenda parte agli atti deliberativi comunque connessi
direttamente o indirettamente con la concessione.
[6]
Per completezza espositiva non può, tuttavia, sottacersi
l'esistenza di un diverso orientamento secondo cui l'obbligo
di astensione non opera nei casi in cui l'amministratore
comunale risulta portatore di un interesse non proprio,
personale e privato, bensì dell'ente dallo stesso
rappresentato. Si tratta, giova precisarlo, di casi in cui
viene in rilievo l'obbligo di astensione dell'amministratore
locale che sia componente dell'organo di amministrazione di
un ente che persegue finalità di pubblico interesse.
[7]
---------------
[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del
13.06.2008, n. 2970.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del
26.05.2003, n. 2826. Di recente, si vedano TAR Puglia,
Lecce, sez. III, sentenza del 19.03.2014, n. 804 e Consiglio
di Stato, sez. IV, sentenza del 28.01.2011, n. 693.
[3] Ministero dell'Interno, pareri del 03.06.2008, del
22.04.2008 e del 31.10.2007.
[4] Così ANCI, parere del 03.01.2003. Negli stessi termini
si è espresso questo Ufficio nel parere del 24.09.2008 (prot.
n. 14458).
[5] Si veda TAR Veneto, sez. II, sentenza del 27.01.2015, n.
92 che ha ravvisato sussistere un obbligo di astensione in
capo al consigliere comunale che sia, altresì, Presidente di
un organismo di natura consortile a base territoriale
facente capo ad un gruppo di famiglie locali (Consorzio),
relativamente ad una delibera di approvazione di una
variante urbanistica che riguardava un'area di proprietà del
Consorzio stesso. Ancora, TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza
dell'08.07.2014, n. 850 che ha ritenuto essere illegittima,
per violazione dell'articolo 78 TUEL, una delibera con la
quale il consiglio comunale ha approvato il regolamento per
l'insediamento e l'esercizio di autorimesse di automezzi e
autoveicoli nel territorio comunale, nel caso in cui alla
relativa votazione abbia partecipato un Assessore che
rivesta la carica di rappresentante legale di una società
operante nel medesimo settore. Nello stesso senso, TAR
Abruzzo, l'Aquila, sez. I, sentenza del 19.03.2014, n. 261
la quale ha rilevato sussistere una diretta correlazione tra
l'oggetto della deliberazione consiliare (con cui si era
proceduti alla riclassificazione urbanistica di un'area
attribuendole una destinazione che non contemplava la
possibilità di interventi edilizi afferenti la realizzazione
di una struttura alberghiera) e l'attività gestita dalla
società di cui il consigliere è socio. Da ultimo, TAR
Sardegna, Cagliari, sez. II, sentenza del 27.05.2009, n. 785
che ha ritenuto essere illegittima la delibera consiliare di
approvazione del piano di utilizzo del litorale (P.U.L.)
adottata con la partecipazione al voto di un consigliere che
era, altresì, amministratore unico della cooperativa
titolare di una concessione demaniale in località in cui il
PUL prevedeva un unico punto di ristoro.
[6] ANCI, parere del 03.0.2013. Nello stesso senso si veda,
anche, il parere del 28.03.2013.
[7] In questo senso si riporta una pronuncia del giudice
amministrativo lombardo (TAR Lombardia, Brescia, sentenza
del 21.10.1997, n. 912) la quale afferma: 'L'interesse che
determina l'incompatibilità, e quindi l'obbligo di
astensione, in capo ad un consigliere comunale deve essere
personale e diretto, come tale ben differente da quello che
inerisce all'appartenenza del consigliere al consiglio di
amministrazione di una I.p.a.b., essendo quest'ultima
titolare di un munus publicum esclusivamente preordinato
alla cura degli interessi dell'Opera pia senza alcun
coinvolgimento personale e diretto della sua sfera
soggettiva'. In questo senso si veda, anche, Corte dei
Conti, reg. Molise, sez. giurisdiz., 07.03.2005, n. 10 la
quale ha ritenuto che: 'In ipotesi di erogazione di
contributi ad associazione il cui presidente sia legato da
rapporto di coniugio con il sindaco, quest'ultimo non è
obbligato all'astensione ai sensi dell'art. 78, comma 2,
d.lgs. 18.08.2000 n. 267, atteso che la contribuzione è
stata concessa non già alla di lui consorte, bensì ad un
soggetto giuridico da essa distinto ed autonomo, ed essendo
finalizzata non alla soddisfazione di interessi personali,
bensì al conseguimento di finalità di interesse pubblico'
(19.04.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Oneri per la gestione e le riparazioni di orologi
posizionati sui campanili delle chiese.
Non rinvenendosi alcuna disposizione che
ponga a carico del bilancio dell'ente locale le spese per la
gestione e le riparazioni di orologi posizionati sui
campanili delle chiese di proprietà della curia o delle
parrocchie, si ritiene che detti oneri gravino sul soggetto
proprietario del bene.
Il Comune chiede di conoscere se la gestione e le
riparazioni degli orologi posizionati sui campanili delle
chiese di proprietà della curia o delle parrocchie sia di
competenza comunale ed, in caso affermativo, in base a quale
disposizione normativa.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
Poiché non si è rinvenuta alcuna norma che ponga a carico
del bilancio dell'ente locale le spese per gli interventi
oggetto di quesito, la questione va risolta considerando che
gli oneri di gestione e di manutenzione gravano, di regola,
sul soggetto proprietario del bene [1],
così come accade nell'ipotesi in cui orologi posizionati
all'interno dei campanili (in quanto 'torri civiche')
siano di proprietà comunale.
Ciò posto si segnala, per completezza, che la Corte dei
conti - Sezione regionale di controllo per la Lombardia
[2],
esprimendosi in merito all'ammissibilità, o meno, per il
Comune di procedere ad attribuzioni patrimoniali
[3] a
terzi soggetti, presenti sul territorio comunale, «in una
fattispecie che esula dalla specifica previsione di legge»,
premesso che si tratta di valutazione di esclusiva
competenza dell'amministrazione locale, richiama l'ente «all'osservanza
del principio generale per cui l'attribuzione patrimoniale è
da considerarsi lecita solo se finalizzata allo svolgimento
di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la
collettività insediata sul territorio sul quale insiste il
Comune, anche, in via meramente esemplificativa, di
carattere artistico, culturale o economico», precisando
che «In ogni caso, l'eventuale attribuzione dovrà essere
conforme al principio di congruità della spesa mediante una
valutazione comparativa degli interessi complessivi
dell'ente locale» e che «In caso contrario,
l'attribuzione non troverebbe alcuna giustificazione».
---------------
[1] Un'indiretta conferma si rinviene nelle previsioni
contenute nell'art. 2 del decreto del Presidente della
Regione 19.08.2015, n. 0165/Pres. («Regolamento recante
criteri e modalità per la concessione dei contributi per
complessi seminariali diocesani, istituti di istruzione
religiosa, opere di culto e di ministero religioso previsti
dall'articolo 7-ter della legge regionale 07.03.1983, n.
20») -interventi nell'ambito dei quali risultano finanziati
lavori di restauro, manutenzione e completamento di
campanili- il quale dispone che «Possono beneficiare dei
contributi di cui al presente regolamento le parrocchie e
altri enti ecclesiastici cattolici o di altre confessioni
religiose riconosciute dallo Stato italiano, con le quali
sono state stipulate intese approvate con legge, nonché enti
pubblici e privati proprietari o titolari di altro diritto
che costituisca titolo ad eseguire gli interventi sugli
edifici di cui all'articolo 1.».
[2] V. pareri 31.05.2012, n. 262 e 11.09.2015, n. 279.
[3] Attinenti, in entrambi i casi esaminati, al patrimonio
immobiliare (12.04.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Parere in merito all'interpretazione dell'art. 338, comma
5, del R.D. 1265/1934 con riferimento alla realizzazione di
un'opera pubblica ad una distanza inferiore ai 50 metri dal
cimitero - Città metropolitana di Roma Capitale (Regione
Lazio,
parere 05.04.2016 n. 176096 di prot.). |
URBANISTICA:
Parere in merito alla divisione ereditaria di edifici
ricadenti in zona agricola come causa di esclusione della
lottizzazione abusiva – Comune di Cisterna di Latina
(Regione Lazio,
parere 05.04.2016 n. 176009 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito
all'interpretazione dell'art. 8, comma 3, del d.P.R.
160/2010 in tema di esclusione delle procedure afferenti le
strutture di vendita di cui agli artt. 8 e 9 del d.lgs.
114/1998 (Ministero dello Sviluppo Economico,
parere 21.03.2016 n. 78743 di prot.). |
NEWS |
APPALTI:
Solo i mini-acquisti possono evitare la
programmazione. Appalti. Le
conseguenze operative del nuovo Codice.
Le amministrazioni pubbliche devono
adottare il programma delle acquisizioni, che si compone del
programma biennale degli acquisti di beni e servizi e del
programma triennale dei lavori pubblici, da redigere in
coerenza con i documenti programmatori e con il bilancio.
L’articolo 21 del nuovo Codice degli appalti rende
obbligatoria la programmazione biennale degli acquisti di
beni e servizi di importo unitario pari o superiore a 40mila
euro, e il relativo aggiornamento annuale. Nell’ambito del
programma dei beni e servizi le amministrazioni sono tenute
a individuare i bisogni che possono essere soddisfatti con
capitali privati. Inoltre, entro il mese di ottobre gli enti
devono comunicare al tavolo dei soggetti aggregatori gli
acquisti di valore superiore a un milione di euro per i
quali si prevede l’inserimento nel programma biennale. Per i
beni e servizi informatici, le amministrazioni devono tener
conto del Piano triennale per l’informatica elaborato dall’Agid
(comma 513 della legge 208/2015).
La programmazione triennale dei lavori pubblici richiede
l’inserimento anche delle opere pubbliche incompiute, ai
fini del loro completamento o per l’individuazione di
soluzioni alternative quali il riutilizzo, anche
ridimensionato, la cessione a titolo di corrispettivo per la
realizzazione di altra opera pubblica, la vendita o la
demolizione.
Il programma triennale dei lavori pubblici e i relativi
aggiornamenti annuali contengono i lavori il cui valore
stimato sia pari o superiore a 100mila euro e indicano,
previa attribuzione del codice unico di progetto (articolo
11 della legge 3/2016), i lavori da avviare nella prima
annualità, per i quali devono essere riportate le fonti di
finanziamento stanziate in bilancio (compresi i beni
immobili che possono essere oggetto di cessione) o
disponibili in base a contributi o risorse dello Stato,
delle regioni a statuto ordinario o di altri enti pubblici.
Sono, altresì, indicati nel programma dei lavori pubblici i
beni immobili nella propria disponibilità concessi in
diritto di godimento, a titolo di contributo, la cui
utilizzazione sia strumentale e tecnicamente connessa
all’opera da affidare in concessione.
Il programma dei lavori comprende anche gli interventi
complessi e quelli suscettibili di essere realizzati
attraverso contratti di concessione o di partenariato
pubblico privato.
In base all’articolo 21, comma 8, del nuovo Codice, un
decreto del ministro delle Infrastrutture dovrà definire
entro 90 giorni le modalità di aggiornamento dei programmi e
degli elenchi annuali, i criteri per la definizione degli
ordini di priorità, per l’eventuale suddivisione in lotti
funzionali e le condizioni che consentano di modificare la
programmazione e di realizzare un intervento o procedere a
un acquisto non previsto nell’elenco annuale.
Nel periodo transitorio, fino all’entrata in vigore del
decreto, le amministrazioni fanno riferimento agli atti di
programmazione già adottati ed efficaci, all’interno dei
quali individuano un ordine di priorità degli interventi,
tenendo comunque conto delle opere non completate e già
avviate sulla base della programmazione triennale
precedente, dei progetti esecutivi già approvati e dei
lavori di manutenzione e recupero del patrimonio esistente,
nonché degli interventi suscettibili di essere realizzati
attraverso contratti di concessione o di partenariato
pubblico privato.
Le stesse modalità valgono per le nuove programmazioni che
si rendano necessarie prima dell’adozione del decreto (articolo Il Sole 24 Ore del
25.04.2016). |
APPALTI:
Per le commissioni giudicatrici nomine
trasparenti e a rotazione. Valutazione. Le regole
transitorie.
Le stazioni appaltanti devono regolamentare alcuni aspetti
organizzativi e procedurali prima di poter attuare il nuovo
Codice dei contratti pubblici, in attesa dei provvedimenti
attuativi.
L’articolo 216 del Dlgs 50/2016 individua un’ampia serie di
norme transitorie che, in alcuni casi, obbligano gli enti a
porre in essere una specifica disciplina, destinata a valere
fino al momento in cui il ministero delle infrastrutture o
l’Anac adotteranno decreti e linee-guida regolative.
Il primo e più importante adempimento è la definizione, da
parte di ogni amministrazione, di regole per la nomina della
commissione giudicatrice, in attesa della disciplina Anac
dell’albo degli esperti.
La composizione dell’organo di valutazione nelle gare con il
metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa deve
essere disciplinata secondo criteri di competenza (connessi
all’esperienza nel settore dell’appalto da valutare) e di
trasparenza e, per quanto possibile, tenendo conto del
principio di rotazione dei componenti (novità portata
dall’articolo 77). Le stazioni appaltanti che hanno nel
proprio regolamento dei contratti disposizioni compatibili
con questo sistema non hanno necessità di un ulteriore
intervento, mentre quelle che non ne dispongono devono
adottare norme regolamentari ad hoc.
Il secondo punto critico sul quale le amministrazioni devono
intervenire con una regolamentazione-ponte è all’articolo
216, comma 9, del Codice, nel quale si stabilisce che, fino
all’adozione delle linee-guida sulle indagini di mercato e
la formazione degli elenchi degli operatori economici da
invitare alle procedure negoziate sottosoglia, le
amministrazioni possono procedere alla selezione preliminare
con due modalità.
La prima è la pubblicazione di un avviso pubblico sul sito
della stazione appaltante (profilo del committente), che
deve restare online per almeno 15 giorni e deve contenere i
requisiti che gli operatori devono dimostrare nella loro
manifestazione d’interesse.
Più volte, in passato, l’Anac ha precisato che questa
soluzione comporta anche un altro obbligo (non dettato,
però, dalla norma), che si sostanzia nella definizione
nell’avviso dei criteri in base ai quali l’amministrazione
sceglierà il numero prescelto di soggetti da invitare. Le
amministrazioni possono continuare a utilizzare elenchi di
operatori economici già formati, ma solo a condizione che
siano stati predisposti nel rispetto di principi compatibili
con il codice.
Anche in tal caso è necessario fare riferimento a soluzioni
delineate in passato dall’autorità di vigilanza per poter
individuare i parametri di compatibilità. In tal senso, gli
elenchi di operatori da invitare devono essere costituiti
sulla base di un avviso pubblico, dovendosi quindi escludere
gli elenchi costituiti sulla base di rappresentazioni di
disponibilità spontanee da parte degli operatori.
In secondo luogo, gli elenchi devono essere sempre aperti a
iscrizioni di nuovi operatori e deve essere regolamentato il
metodo con cui sono individuati gli operatori da invitare.
Sia nel caso delle indagini di mercato sia in quello degli
elenchi, la selezione dei soggetti da invitare dovrà
avvenire nel rispetto del principio di rotazione, rafforzato
come regola di fondo dall’articolo 36 del Codice per
consentire un adeguato numero di chance agli operatori
economici (articolo Il Sole 24 Ore del
25.04.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma Madia, la mappa delle novità.
Dalla trasparenza al decreto taglia-tempi, in
arrivo i correttivi alle misure approvate a gennaio.
Addio al
silenzio-rifiuto sulla trasparenza, sanzioni differenziate
contro l’assenteismo, più concorrenza nelle società
partecipate, più apertura agli operatori per il Codice
dell’amministrazione digitale.
Testi sotto esame
La riforma della Pubblica amministrazione targata Marianna
Madia sta per passare dalla fase del cantiere a quella
dell’applicazione pratica, dopo che il primo dei decreti
attuativi ha superato mercoledì scorso il passaggio alla
Camera e al Senato ed è pronto per l’approvazione definitiva
in uno dei prossimi Consigli dei ministri.
Il decreto, che rappresenta uno dei manifesti della riforma
e punta a introdurre anche da noi la trasparenza del
freedom of Information Act di stampo anglosassone (Schema
di decreto legislativo recante “Revisione e semplificazione
delle disposizioni in materia di prevenzione della
corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge
06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n.
33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124,
in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche”), ritorna però a Palazzo Chigi parecchio
cambiato rispetto a quando ne era uscito tre mesi fa, e la
stessa evoluzione potrebbe caratterizzare molti degli altri
dieci provvedimenti che traducono in pratica la prima parte
della riforma.
I cambiamenti, va detto subito, sono in larga parte
migliorativi e nascono da una serie di esami che tra
Consiglio di Stato, tavoli di confronto con gli enti
territoriali e Parlamento sono stati tutt’altro che formali.
Tutte queste modifiche, alcune già in via di accoglimento e
altre in discussione, segnalano però che i testi usciti
dagli uffici dei ministeri si sono rivelati zoppicanti in
più punti.
Trasparenza difficile
Proprio il decreto sulla trasparenza, etichettato con
l’acronimo Foia per rivendicarne l’ispirazione ai modelli
internazionali più avanzati in fatto di Pa come «casa di
vetro», riassume perfettamente i termini del problema.
Per ottenere i dati anche senza essere direttamente
coinvolti nel procedimento come richiede il vecchio diritto
d’accesso, in base al testo approvato in prima lettura dal
governo i cittadini avrebbero dovuto indicare con precisione
l’elenco dei documenti in questione e pagare all’ufficio
pubblico il costo sostenuto per produrli.
L’ufficio, poi, avrebbe potuto scegliere semplicemente di
non rispondere, senza spiegare nemmeno il perché, e a quel
punto l’interessato avrebbe potuto solo rivolgersi al Tar,
rimettendo mano al portafoglio. Contro questo meccanismo
inglese nel nome ma italianissimo nei fatti si sono subito
ribellati gli esperti del settore e i tifosi della
trasparenza reale, in particolare le 30 associazioni riunite
nel cartello del Foia4Italy, ma anche l’Autorità
anticorruzione, i giudici amministrativi e le commissioni
parlamentari hanno suonato la stessa musica.
L’elenco dei correttivi è lungo, punta a cancellare il
silenzio-rifiuto, tagliare i costi a carico dei cittadini e
ridurre le eccezioni agli obblighi di trasparenza, e la
stessa ministra della Pa e della semplificazione, Marianna
Madia, ha chiarito subito di essere d’accordo e di proporre
le novità al Consiglio dei ministri.
I rischi dell’anti-assenteismo
Per il risultato finale non ci vorrà molto, mentre si
annuncia meno liscia la navigazione di un altro
provvedimento “da titolo”, quello che ha messo nel
mirino gli assenteisti della pubblica amministrazione
(Schema
di decreto legislativo recante modifiche all'articolo
55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul
licenziamento disciplinare -
Atto del Governo n. 292 sottoposto a parere parlamentare).
Giusto giovedì scorso, giorno dell’ennesimo caso di
certificati medici di gruppo esploso a Roma (questa volta ha
riguardato però una partecipata comunale, l’azienda dei
trasporti), la ministra Madia l’ha rilanciato, spiegando che
con il decreto in vigore per le “assenze di gruppo”
non ci sarà più spazio.
Anche su questo testo, però, le obiezioni piovute non sono
poche e si rincorrono tra il Consiglio di Stato e i dossier
preparati dai tecnici di Camera e Senato per i pareri
parlamentari. In particolare, non è piaciuta l’idea di
affibbiare la stessa sanzione, il licenziamento, sia al
dipendente assenteista sia al dirigente che non lo
controlla, con un evidente problema di proporzioni fra il
comportamento e la contromisura, e nemmeno quella di
calcolare il danno all’immagine, che in caso di condanna
l’assenteista deve risarcire, anche sulla base della «rilevanza
mediatica» del caso.
Più di un’incognita è legata però anche ai tempi stretti
imposti per contestare le assenze, anche perché la mancata
prontezza degli uffici potrebbe dare carte insperate al
dipendente infedele. Forse quello dei tempi è un problema
genetico del provvedimento, nato per rispondere a stretto
giro al caso Sanremo con una fretta che forse non ha aiutato
la precisione.
Il nodo del personale
Sempre in fatto di calendario, sul taglia-tempi alle
autorizzazioni per le imprese e le infrastrutture
strategiche, invece, a rivendicare le prime “vittorie”
possono essere le Regioni, ma la questione è più complessa
rispetto a una semplice replica dello scontro appena andato
in scena con il referendum.
Il Consiglio di Stato, è vero, ha di fatto spiegato che
anche per i progetti «di interesse nazionale» serve
l’intesa con le Regioni, altrimenti si va contro la
Costituzione (un po’ su tutte le materie, almeno finché
resta in vigore il Titolo V di oggi). L’obiettivo esplicito
dei giudici è quello di garantire davvero il taglio dei
tempi evocato dal decreto, che paradossalmente potrebbe
invece complicare la situazione introducendo meccanismi che
non funzionano.
Su questo piano pratico si muove l’altra incognita: il
decreto prevede di dimezzare i tempi delle autorizzazioni e
commissariare gli enti che ritardano, ma chiede di fatto al
personale di gestire questi commissariamenti nei ritagli di
tempo, senza incentivi economici né alleggerimenti dei
compiti ordinari. Così, spiegano in sintesi i giudici
amministrativi, non può funzionare.
Il rischio, altrimenti, è quello di innescare la stessa
dinamica che si è attivata per la Conferenza dei servizi,
dal 1990 a oggi riformata praticamente da tutti i governi
senza però ottenere un risultato definitivo, visto che anche
la delega Madia interviene sul punto, così come accade per
la Scia. In entrambi i casi, le chance di successo passano
non solo dalla correttezza del testo, ma dal suo “accompagnamento”
con la formazione del personale e un monitoraggio
strutturale sui problemi operativi che emergeranno.
L’alternativa è tornare fra pochi anni a sedersi attorno a
un tavolo per scrivere un’altra riforma.
Riforme continue
Proprio questo, infatti, è il rischio principale che si
corre quando si scrive una regola senza valutare fino in
fondo i suoi risvolti pratici.
Per il nuovo Codice dell’amministrazione digitale (Schema
di decreto legislativo recante “modifiche e integrazioni al
Codice dell’Amministrazione Digitale di cui al decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1
della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche”),
altro decreto attuativo della riforma Madia che tocca le
corde dell’innovazione, le modifiche rispetto al testo
passato sul tavolo del Consiglio dei ministri sono
praticamente obbligate, perché in questo caso il Consiglio
di Stato ha di fatto fermato la macchina del provvedimento
in attesa di novità dal governo. Il punto più critico è
quello che impone alle società di gestione delle Pec e delle
“identità digitali” requisiti di capitale pari a
quelli imposti alle banche di credito cooperativo (minimo 5
milioni di euro), con un passaggio non troppo lineare già
giudicato “sproporzionato” dal Tar del Lazio.
Sul punto, il ripensamento chiesto dai giudici serve a
evitare l’avvio di un contenzioso che rischia di bloccare
l’impianto del nuovo Codice, da correggere anche nella parte
in cui prevede la validità automatica dei documenti con
firma elettronica senza individuare gli strumenti in grado
di dare le garanzie necessarie.
---------------
Ora tocca a dipendenti e Corte conti. Il
secondo pacchetto. Provvedimenti in arrivo.
Mentre il
primo gruppo di decreti si affolla verso il Parlamento per i
passaggi finali, i tecnici del governo sono al lavoro sulla
seconda puntata della riforma, attesa prima dell’estate e
anch’essa articolata su un menù “promettente”. Tre
temi su tutti meritano una citazione: nuovo testo unico del
pubblico impiego, ruolo unico dei dirigenti e revisione
delle regole per la Corte dei conti.
Il peso delle questioni da affrontare si capisce meglio se
dai titoli si passa ai contenuti. Il testo unico del
pubblico impiego, in particolare, dovrà dire l’ultima parola
sull’applicabilità o meno ai dipendenti pubblici
dell’articolo 18 nella sua versione “storica”.
La miccia è stata riaccesa qualche mese fa dalla Cassazione,
che nella sentenza 24157/2015 ha sostenuto l’applicazione
nella Pa della riforma Fornero, che ha limitato il diritto
al reintegro nei licenziamenti economici. Il ragionamento
della suprema Corte, fondato sul richiamo automatico che il
testo unico del pubblico impiego contiene alle regole del
lavoro privato, riguarda ovviamente anche le modifiche
ulteriori arrivate con il Jobs act, ma il dibattito è aperto
anche nel governo: la ministra Marianna Madia ha spiegato
che i decreti ribadiranno la “specialità” del
pubblico impiego, il viceministro dell’Economia Enrico
Zanetti promuove l’idea contraria e il testo del decreto
attuativo indicherà qual è l’idea vincente all’interno del
governo.
Mentre i dirigenti pubblici vedono con allarme rischi di “precarizzazione”
nel meccanismo dei ruoli unici, la finanza pubblica attende
il cambio di regole per la Corte dei conti, chiamato a
risolvere un problema annoso: quando la Corte condanna
qualcuno per danno erariale, è la stessa Pa che deve
riscuotere, ma in due terzi dei casi non lo fa con tanti
saluti alle sorti dei bilanci (articolo Il Sole 24 Ore del
25.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Gare, preferite le eco-imprese. Fornitori scelti
su qualità ambientali e prevenzione reati.
Il nuovo Codice degli appalti ridefinisce le
caratteristiche per interagire con la p.a..
Prodotti ad alte prestazioni verdi, certificazione di
qualità ambientale e protocolli di prevenzione degli
eco-reati. Queste le caratteristiche che in base al nuovo
Codice appalti, entrato in vigore il 19.04.2016,
permetteranno alle imprese interessate a interagire con la
pubblica amministrazione di viaggiare su una corsia
preferenziale.
Il nuovo dlgs 18.04.2016 n. 50 riformula, infatti, la
disciplina nazionale di settore abrogando il dlgs 163/2006 e
traducendo sul piano interno i nuovi criteri ambientali di
aggiudicazione di appalti pubblici e contratti di
concessione previsti dalle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue
e 2014/25/Ue.
Sostenibilità energetica e ambientale.
In base al nuovo Codice (pubblicato sul S.o. n. 10 alla G.U.
19.04.2016 n. 91) costituirà onere delle stazioni appaltanti
contribuire al conseguimento degli obiettivi previsti dal «Piano
d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel
settore della pubblica amministrazione» (a oggi, quello
previsto dalla legge 296/2006).
E questo da un lato selezionando i fornitori di beni e
servizi sulla base dei criteri ambientali minimi stabiliti
dal MinAmbiente (sulla base dell'attuale dm 11.04.2008) come
dallo stesso nuovo Codice, dall'altro soddisfacendo il
proprio fabbisogno acquisendo eco-prodotti (almeno) nelle
percentuali minime stabilite per legge (che per le singole
categorie vanno, a oggi, dal 50 al 100%).
Criteri di aggiudicazione dell'appalto.
Costituiscono la vera rivoluzione della nuova disciplina
nazionale. Fatte salve le disposizioni relative a specifici
prodotti, l'aggiudicazione nei settori ordinari dovrà essere
effettuata mediante il nuovo criterio di matrice Ue dell'«offerta
economicamente più vantaggiosa», individuata sulla base
del «miglior rapporto qualità/prezzo» oppure
dell'elemento prezzo o costo, secondo criterio di
comparazione costo/efficacia quale il «costo del ciclo di
vita».
L'elemento relativo al costo potrà assumere la forma di
prezzo o costo fisso sulla base del quale gli operatori
economici competono solo in base ai criteri qualitativi. Il
metodo del «miglior rapporto qualità/prezzo» dovrà
essere fondato su criteri oggettivi, tra cui gli aspetti
ambientali (nel rispetto dei criteri verdi minimi sanciti
dai dm Ambiente). Tra i parametri ambientali troveranno
collocazione il contenimento dei consumi energetici e di
altre risorse, il possesso di certificazioni verdi, le
attestazioni in materia di sicurezza sul lavoro, la
compensazione dei gas serra. Il metodo del «miglior
rapporto qualità/prezzo» dovrà sempre essere adottato
per l'acquisizione dei servizi: sociali; di ristorazione
ospedaliera/assistenziale/scolastica; ad alta intensità
manodopera; di ingegneria/architettura superiori a 40 mila
euro.
Il criterio del «minor prezzo» avrà (a differenza
dell'uscente disciplina) carattere residuale, utilizzabile
solo: per lavori entro 1 milione di euro per i quali i
requisiti di qualità sono garantiti dall'obbligo di fondare
la gara su progetto esecutivo; per servizi/forniture
standardizzati o con condizioni stabilite dal mercato; per
servizi/forniture inferiori a soglie di rilevanza
comunitaria (ex articolo 35 del nuovo Codice) a elevata
ripetitività, a eccezione di quelli tecnologici o
innovativi.
Costi del ciclo di vita.
Punto nodale del criterio dell'«offerta economicamente
più vantaggiosa», i previsti e sopra accennati costi del
ciclo di vita dei prodotti dovranno ora essere
analiticamente computati, dovendo comprendere: quelli
sostenuti da p.a. e utilizzatori per acquisizione, utilizzo
(consumo di energie e altre risorse), manutenzione e
gestione a fine vita (tra cui raccolta e riciclaggio);
quelli imputati a «esternalità ambientali», tra cui i
costi per attenuare emissione di gas serra e altre sostanze
inquinanti e cambiamenti climatici, a condizione che il loro
valore monetario sia determinabile e verificabile, fondato
su un metodo di valutazione oggettivo e non discriminatorio
e, se disponibile, su un «metodo comune di calcolo»
Ue.
Certificazioni qualità.
Sulla scia dell'uscente dlgs 163/2006, a favorire gli
operatori economici sarà il possesso di sistemi di gestione
ambientale fondati su riconosciuti standard Ue e
internazionali. Ma, novità introdotta dal dlgs 50/2016, al
fine delle riduzioni delle garanzie finanziarie da prestare
all'atto della presentazione dell'offerta varrà (con uno
sconto del 30%) anche il possesso di «rating di legalità»
o attestazione del modello organizzativo ex dlgs 231/2001.
Campo di applicazione.
Ad ampio raggio la portata delle disposizioni verdi del
nuovo Codice appalti. Il dlgs 50/2016 ne dispone infatti
l'applicazione, ove compatibili con le norme particolari
dettate dallo stesso provvedimento, anche ad appalti
pubblici dei cd. «settori speciali» e a concessioni
di lavori e servizi.
In deroga, dunque, solo i contratti pubblici esclusi dalla
disciplina tutta del nuovo Codice, come quelli con importi
inferiori alle soglie di rilevanza comunitaria, le attività
esposte direttamente alla concorrenza, alcuni servizi
strategici.
Settori speciali e concessioni.
In particolare, agli appalti relativi ai settori speciali
(tra cui quelli gas, energia termica, elettricità, acqua,
sfruttamento aree geografiche) si applicheranno, per quanto
compatibili, (anche) le norme verdi previste per gli
«ordinari» in relazione a criteri di aggiudicazione (costi
del ciclo di vita compresi) e valore delle certificazioni di
qualità ambientale.
Nell'ambito delle concessioni, sempre per quanto
compatibili, si applicheranno invece anche le disposizioni
ex Parte I e II del nuovo dlgs 50/2016 relative a principi
generali, modalità, procedure di affidamento e criteri di
aggiudicazione, fondando dunque anche tali negozi sulla
scelta più vantaggiosa per l'ambiente
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
TRIBUTI:
Imu, chi sbaglia è rimborsato. Trasmissione
telematica ai comuni al via dal 28 aprile.
In una circolare delle Finanze, tempi e modalità
per recuperare gli erronei versamenti.
Avete sbagliato a pagare le imposte sulla casa o la tassa
rifiuti? Ora, dopo anni di incertezza, siete in grado di
sapere con precisione a chi rivolgervi per recuperare i
vostri soldi.
A fare luce su casistiche, tempi e modalità è il decreto del
24.02.2016, emanato di concerto da Mef e Viminale, e
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 87 del 14 aprile
scorso, cui ha fatto seguito la
circolare 14.04.2016 n. 1/DF. Ma restano comunque
valide le richieste già presentate dai contribuenti e
acquisite dai comuni, per le quali i rimborsi dovrebbe
arrivare entro fine settembre.
Per fare chiarezza, occorre ricordare che la materia è stata
inizialmente disciplinata dall'art. 1, commi da 722 a 727,
della legge 147/2013 per la sola Imu, mentre successivamente
tali norme sono state estese dall'art. 1, comma 4, del dl
16/2014 anche agli altri tributi locali.
Ai sensi dell'art. 1 del dm, è prevista una corsia
preferenziale per i rimborsi relativi a Imu e alla
(abrogata) maggiorazione Tares. Ciò, come sottolinea la
circolare, in considerazione del fatto che proprio per tali
tributi si è verificata la parte più consistente di erronei
versamenti, determinati soprattutto dalla contemporanea
presenza di due distinte obbligazioni da assolvere sia nei
confronti dello Stato sia nei confronti del comune (si veda
l'altro articolo in pagina). Ovviamente, si procederà
innanzitutto alla regolazione di quelle situazioni che si
riferiscono ad annualità più risalenti nel tempo.
La circolare esamina le diverse fattispecie, individuando
gli adempimenti a carico di p.a. e contribuenti. In linea
generale, prima di addentrarci nei dettagli, è bene
evidenziare che in tutti i casi le istanze vanno presentare
ai comuni, essendo questi ultimi gli unici soggetti
legittimati alla verifica dell'esatto assolvimento
dell'obbligo tributario. Inoltre, il rimborso, laddove
spettante, deve essere richiesto entro il termine di cinque
anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è
stato accertato il diritto alla restituzione.
Il primo caso è quello in cui si sia proceduto al versamento
a un ente diverso da quello competente. In passato, ciò
causava grossi problemi al malcapitato contribuente, che era
costretto a proporre istanza di rimborso al comune
incompetente e contestualmente a regolarizzare la propria
posizione, pagando anche sanzioni e interessi, nei confronti
dell'altro comune.
Adesso è sufficiente presentare una semplice comunicazione
ai due enti interessati con le indicazioni previste
dall'art. 2 del decreto (estremi del versamento, importo
versato, dati catastali dell'immobile, ente locale
destinatario delle somme ed ente che ha ricevuto
erroneamente i soldi). Sarà poi il comune che ha incassato
le somme a girarle a quello competente. In fase di prima
applicazione, i contribuenti che non hanno ancora presentato
la comunicazione dovranno provvedervi con le nuove modalità.
Può capitare anche di avere versato un importo superiore al
dovuto al comune o allo Stato. Anche in tal caso, il
contribuente deve presentare apposita istanza di rimborso
all'ente locale indicando, oltre ai dati già elencati in
precedenza, anche il proprio codice Iban. Se non si possiede
un Iban, il rimborso può avvenire con l'assegno circolare
emesso dalla Banca d'Italia o in contanti, presso la sede
più vicina della Banca d'Italia.
La stessa procedura vale anche nel caso in cui sia stata
versata allo Stato una somma dovuta al comune e
successivamente si sia regolarizzata la propria posizione
nei confronti del comune stesso, pagando quindi due volte.
Infine, laddove si sia versato l'importo corretto ma al
destinatario errato (allo Stato anziché al comune o
viceversa), non scatterà nessuno rimborso, ma il
contribuente dovrà segnalare l'errore inviando una
comunicazione sempre all'ente locale per consentire le
opportune regolazioni interne alla p.a..
I rimborsi, se dovuti, devono essere erogati entro 180
giorni dalla data di presentazione dell'istanza. Questa
regola generale deve, peraltro, essere coordinata, per i
rimborsi relativi a somme versate negli anni passati, con
l'esigenza di consentire ai comuni il caricamento dei
provvedimenti già perfezionati sul nuovo applicativo che
sarà reso disponibile sul portale del federalismo entro il
28 aprile.
Pertanto, i soldi dovrebbero arrivare materialmente entro il
prossimo 25 settembre, sempre che tutto fili liscio e che
gli uffici comunali riescano a far fronte all'ennesimo,
oneroso carico di lavoro.
Sugli importi da restituire sono comunque dovuti gli
interessi, che saranno calcolati applicando il tasso
d'interesse legale con decorrenza dal giorno successivo a
quello di effettivo versamento fino alla data di emissione
del mandato di pagamento.
---------------
Le casistiche più diffuse.
Indicazione del codice catastale sbagliato. Scorretta
identificazione del destinatario del versamento. Errore di
calcolo. Sono queste le più diffuse situazioni in cui
possono incappare i contribuenti.
Se non si è azzeccato il codice catastale, i soldi saranno
finiti a un comune diverso da quello giusto, che potrebbe
essersi tenuto i soldi. Attenzione, però: la normativa si
riferisce ai versamenti erronei effettuati direttamente dal
contribuente (anche mediante servizi di home banking) e non
al diverso caso dell'errata digitazione del codice catastale
nell'F24 da parte dell'operatore bancario o postale. In
questo caso, come precisato dalla risoluzione 2/DF/2012,
occorre procedere con una richiesta rivolta
all'intermediario per la correzione dell'errore. Molto
frequenti i casi di confusione su chi sia il beneficiario
del tributo, alimentata da anni di torsioni continue del
fisco locale.
Ricordiamo, per esempio, che, fino al 2012, metà dell'Imu
(al netto di quella dovute sulle abitazioni principali e i
fabbricati rurali strumentali) doveva essere versata allo
Stato, mentre dal 2013 la riserva statale si riferisce al
solo gettito derivante dagli immobili ad uso produttivo
classificati nel gruppo catastale D, calcolato ad aliquota
standard dello 0,76%. Discorso analogo vale per la
maggiorazione Tares per i servizi indivisibili, antesignana
della Tasi e applicata solo nel 2013: essa valeva 0,30 euro
a metro quadro, che andavano pagati insieme all'ultima rata
Tares, ma erano riservati allo Stato.
Infine, banalmente il contribuente può avere sbagliato a
fare i conti, versando più del dovuto (al soggetto giusto o
a quello sbagliato): facile che succeda dovendo districarsi
fra decine di migliaia di aliquote, detrazioni, esenzioni e
con una normativa che dura meno di un castello di sabbia
sulla battigia
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
APPALTI:
Per la solidarietà il Durc rimane a efficacia
limitata. Dal Parlamento. Il Governo non prevede interventi.
Non è previsto al momento alcun
intervento per ovviare al fatto che il documento unico di
regolarità contributiva (Durc) certifica la situazione solo
sulla base delle denunce presentate dal datore di lavoro.
Il problema è noto da tempo, tanto che il 18.06.2015 il
deputato Carlo Dell’Aringa ha presentato un’interrogazione (Interrogazione
a risposta in commissione 5-05855) per sapere se
e quali misure sarebbero state prese. La risposta è arrivata
il 21.04.2016 con l’intervento del sottosegretario al
Lavoro, Franca Biondelli, in commissione Lavoro della
Camera.
In base a quanto stabilito dall’articolo 29, comma 2, del
Dlgs 276/2003, in caso di appalto di opere o di servizi il
committente, entro il limite di due anni, è obbligato in
solido con l’appaltatore/subappaltatore a pagare le
retribuzioni ai lavoratori e a versare i relativi contributi
per quanto concerne il periodo di appalto e il relativo
importo.
Al fine di limitare l’evasione contributiva, è stato
previsto che il committente richieda il Durc dell’azienda
che effettua i lavori. Il documento unico di regolarità
contributiva verifica la situazione riguardante i pagamenti
fino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello
in cui il controllo viene effettuato.
Tuttavia, come viene spiegato nella risposta
all’interrogazione, «il Durc certifica la regolarità dei
versamenti previdenziali come risultanti dal riscontro tra
le denunce presentate dalle aziende e i versamenti dalle
medesime eseguite. Di conseguenza, se il datore di lavoro
occupa irregolarmente dei lavoratori, tale circostanza non
può risultare dal Durc, ma potrà essere accertata solo
all’esito di una specifica verifica ispettiva».
Insomma, se
«le imprese effettuano denunce contributive non veritiere,
ad esempio omettono di regolarizzare un dipendente o lo
regolarizzano in modo difforme da quanto dovuto, ciò non
incide sul rilascio del Durc». Quindi il documento non
tutela completamente il committente rispetto alle possibili
irregolarità dell’azienda che effettua i lavori e, a fronte
di una verifica ispettiva, può essere chiamata in causa.
La risposta fornita dal sottosegretario Biondelli, però, al
momento non lascia spazio a speranze. «Per ovviare a tale
inconveniente», cioè al fatto che il Durc viene rilasciato
anche se ci sono denunce contributive scorrette, «sarebbe
necessario che il rilascio di ogni Durc fosse preceduto da
un’apposita verifica ispettiva; il che, considerato il
numero di Durc chiesti e rilasciati, appare difficilmente
praticabile».
In effetti ogni anno vengono rilasciati oltre 5 milioni di
documenti. Secondo Dell’Aringa, comunque, un passo in più si
potrebbe fare prevedendo che il Durc sia inteso come
un’autodichiarazione che attesta la regolarità delle denunce
presentate per tutte le posizioni contributive. In tal caso,
a fronte di un’irregolarità individuata da un’ispezione, il
committente sarebbe sollevato dalla responsabilità solidale (articolo Il Sole 24 Ore del
23.04.2016). |
APPALTI:
Riforma appalti al via nel caos. Affidamenti
tecnici paralizzati. Nuove gare da rifare.
Nota Anac-ministero sull'entrata in vigore del
dlgs 50. E sulle progettazioni è stallo.
Riforma appalti, partenza nel caos. Gli atti di gara
adottati dalle amministrazioni in forza delle vecchie regole
dopo il 19.04.2016, data di entrata in vigore della riforma
(dlgs 50 del 2016), dovranno essere riaperti e riformulati
perché, per esempio, prevedono il massimo ribasso sopra un
milione di euro, che oggi non è più consentito.
Non solo. Per gli affidamenti di servizi tecnici si è in
presenza di un vero e proprio vuoto normativo. Il nuovo
codice, infatti, abolisce gran parte delle vecchie
disposizioni lasciandone però in vita alcune, quali quelle
sui requisiti delle società. L'effetto è che al momento è
impossibile aggiornare le progettazioni per portarle a
livello esecutivo.
Ma andiamo con ordine.
Vecchie e nuove regole.
Il chiarimento sull'applicazione delle norme del codice è
contenuto in un comunicato congiunto del ministero delle
infrastrutture e trasporti e dell'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) diffuso ieri concernente l'articolo
216 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (il nuovo
codice appalti pubblici).
Nel comunicato si specifica che le norme del decreto
delegato sono applicabili anche se la stazione appaltante ha
affidato contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, e
alle procedure i cui relativi inviti a presentare offerta
siano inviati a decorrere dal 19.04.2016.
Il vecchio codice De Lise vale invece per le procedure i cui
bandi o avvisi siano stati pubblicati entro il 18.04.2016.
Importante però una precisazione finale. Quella con la quale
si chiarisce che gli atti di gara già adottati dalle
amministrazioni dopo il 19 aprile con il codice De Lise del
2006, «dovranno essere riformulati in conformità al nuovo
assetto normativo».
Il riferimento, neanche tanto implicito, è ad alcuni bandi
di gara per appalti integrati usciti dopo il 19 e a gare
bandite con il massimo ribasso di importo superiore al
milione di euro, che sarebbero vietati dal 19 aprile.
Affidamenti inaffidabili.
In realtà non mancano anche altri problemi applicativi, in
particolare rispetto alla vigenza non tanto del codice
163/2006, quanto del regolamento attuativo (dpr 207/2010). È
il caso della disciplina dei servizi tecnici per la quale
l'articolo 217, comma 1, lettera u), stabilisce che dal 19
aprile cessano di avere efficacia le norme contenute nella
Parte III a esclusione degli articoli 254, 255 e 256 (sui
requisiti delle società).
Ciò significa avere abrogato dal 19 aprile tutte le norme
che regolano l'affidamento dei servizi tecnici contenute nel
dpr 207/2010, a eccezione di quelle sui requisiti delle
società, dei raggruppamenti e dei consorzi stabili di
società che varranno fino a quando non sarà emanato un
decreto ministeriale (entro 90 giorni). Un bel problema
visto che si devono aggiornare le progettazioni per portarle
al livello esecutivo.
Anticorruzione e scuola.
Intanto l'Autorità nazionale anticorruzione ha
definitivamente approvato, nell'adunanza del 13.04.2016, le
«Linee guida sull'applicazione alle istituzioni
scolastiche delle disposizioni di cui alla legge 06.11.2012,
n. 190 e al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33»,
poste in consultazione pubblica dal 22 febbraio
all'08.03.2016.
Le linee guida, ha reso noto ieri l'Authority presieduta da
Raffaele Cantone, tengono conto del lavoro condotto in un
tavolo tecnico tra Anac e ministero dell'istruzione.
Obiettivo delle linee guida è orientare le istituzioni
scolastiche nell'applicazione della normativa in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza, tenuto conto
delle caratteristiche organizzative e dimensionali del
settore dell'istruzione scolastica e delle singole
istituzioni, della specificità e peculiarità delle funzioni,
nonché della disciplina di settore che caratterizza queste
amministrazioni
(articolo ItaliaOggi del 23.04.2016). |
APPALTI:
Responsabilità solidale, il Durc non basta.
Il Durc (documento unico di regolarità contributiva) non
garantisce (quasi) nulla.
A rivelarlo, il sottosegretario al lavoro Franca Biondelli,
che nel rispondere alla Camera a un'interrogazione
(Interrogazione
a risposta in commissione 5-05855)
del suo ex collega Carlo Dell'Aringa (Pd), ha chiarito che
il Durc, essendo riferito ai soli pagamenti contributivi,
non certifica per intero la regolarità dell'azienda.
Procediamo per ordine.
Il decreto legislativo n. 276 del 2003 (art. 29, comma 2)
stabilisce che, in caso di appalto di opere o di servizi, il
committente è obbligato in solido con l'appaltatore e con
gli eventuali subappaltatori a corrispondere ai lavoratori i
trattamenti retributivi nonché i contributi previdenziali e
i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di
esecuzione del contratto di appalto. Una norma che dovrebbe
garantire l'effettività dei versamenti previdenziali e
assistenziali mediante l'estensione dell'obbligo di
corresponsione all'impresa committente.
Se risultano irregolarità, scatta la responsabilità
solidale: in altri termini con un effetto a catena l'ente
appaltante risponde per le multe dovute dagli appaltatori.
Qui nasce il Durc: per semplificare gli obblighi
dell'impresa committente, lo stato certifica la regolarità
contributiva di un'impresa nei confronti di Inps, Inail e,
nel caso di aziende che applicano il contratto collettivo
dell'edilizia, Cassa edile.
Ma a quanto pare non sono poche le aziende cui vengono
contestate irregolarità, nonostante un Durc positivo. Il
mistero lo spiega il sottosegretario Biondelli: «Il Durc
certifica la regolarità dei versamenti previdenziali come
risultanti dal riscontro tra le denunce presentate dalle
aziende e i versamenti dalle medesime eseguiti. Di
conseguenza, se il datore di lavoro occupa irregolarmente
dei lavoratori, tale circostanza non può risultare dal Durc
ma potrà essere accertata solo all'esito di una specifica
verifica ispettiva». Ma visto che lo Stato non fa le
ispezioni, il Durc inquadra solo una situazione incompleta.
Se le imprese effettuano denunce contributive non veritiere
(ad esempio, omettono di regolarizzare un dipendente o lo
regolarizzano in modo difforme da quanto dovuto), il Durc
non vale più niente. E l'ingenuo committente (che si era
fidato del documento) finisce nei guai, dovendo rispondere a
suon di quattrini delle omissioni e delle multe dovute
dell'azienda subappaltatrice
(articolo ItaliaOggi del 23.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Impianti «Tlc» senza rendita. I manufatti per le
reti di telecomunicazione non sono fabbricati.
Fisco e immobili/Il Forum con le Entrate. Restano tassabili
pale eoliche e stazioni di teleferiche e skilift.
Decisamente
chiarificatrice la precisazione fornita dall’agenzia delle
Entrate (si veda il Sole 24 Ore di ieri) sulle nuove
modalità di accertamento degli impianti per telefonia
mobile.
A partire dal 1° luglio, data di entrata in vigore del
decreto legislativo 33/2016 (che ha modificato l’articolo
86, comma 3, del Codice delle comunicazioni elettroniche di
cui al Dlgs 259/2003), gli elementi di reti di comunicazione
elettronica ad alta velocità e le altre infrastrutture di
reti pubbliche di comunicazione (tra cui, ad esempio,
tubature, piloni, cavidotti, pozzi di ispezione, pozzetti,
centraline, edifici o accessi a edifici, installazioni di
antenne, tralicci e pali) non costituiscono unità
immobiliari ai sensi dell’articolo 2 del decreto del
Ministro delle finanze 02.01.1998, n. 28, e non rilevano
ai fini della determinazione della rendita catastale.
Sembra
quindi evidente, salve diverse disposizioni di prassi più
esplicative, che per il futuro non sorgerà più l’obbligo di
dichiarare in catasto nuovi impianti della fattispecie e
qualora vengano (facoltativamente) dichiarati, nella rendita
non saranno ricomprese queste componenti. Tale facoltà
dovrebbe essere possibile anche nel caso degli immobili già
censiti per depurare la rendita attualmente iscritta in atti
dall’incidenza delle suddette componenti.
Periodo transitorio
Resta, comunque, sempre applicabile nel periodo transitorio
01.01.2016-30.06.2016, (cioè prima della entrata
in vigore della nuova disposizione), di potere presentare in
catasto una pratica Docfa per la richiesta di cui
all’articolo 1, comma 22, della legge di Stabilità 2016, che
prevede la possibilità, da parte degli intestatari catastali
di questi immobili di presentare atti di aggiornamento per
la rideterminazione della rendita catastale al fine di
escludere dalla stima “macchinari, congegni, attrezzature ed
altri impianti, funzionali allo specifico processo
produttivo”.
Pale eoliche
Meno convincente, anche per l’accostamento di tipologie di
“pali” notevolmente diverse tra loro, appare la precisazione
sulle strutture di sostegno degli aerogeneratori delle
centrali eoliche.
L’Agenzia evidenzia che più di semplici pali, si tratta di
vere e proprie torri, spesso accessibili al loro interno e
talvolta dotate di strutture di collegamento verticale. Tali
caratteri portano ad annoverare il palo di sostegno tra le
“costruzioni” e, come tali, quindi, da includere nella stima
diretta finalizzata alla determinazione della rendita
catastale della centrale eolica.
Conclude che vanno considerate, tra le componenti
immobiliari oggetto di stima catastale, il suolo, le torri
con le relative fondazioni, gli eventuali locali tecnici che
ospitano i sistemi di controllo e trasformazione e le
sistemazioni varie, quali recinzioni, viabilità, eccetera,
posti all’interno del perimetro dell’unità immobiliare.
Sembrerebbe invece più lineare, con il comune e ordinario
concetto di costruzione, considerare il “palo” o la “torre”
come un mero impianto, strumentale alla produzione svolta
nell’unità immobiliare, di alcuna utilità trasversale per
usi dell’unità diversi da quello di produzione di energia
elettrica da fonte eolica. Di conseguenza, sarebbe da escludere dalla stima in base all’articolo 1, comma 21,
della legge 208/2015 (Stabilità 2016). Ma la risposta
dell’Agenzia, per ora, non sembra ammettere questa
soluzione.
Impianti di risalita
L’Agenzia precisa poi che la categoria catastale in cui
debbono essere censiti gli impianti di risalita è la
categoria D/8 (come già specificato con la circolare del
Territorio n. 4/2007).
La circolare n. 2/E del 2016 ha innovato unicamente i
criteri di stima della rendita catastale di queste unità
immobiliari specificando che le funi, i carrelli, le
sospensioni, le cabine e i motori che azionano i sistemi di
trazione (anche se posti in sede fissa) non concorrono più
alla stima diretta della rendita catastale degli impianti di
risalita. Quindi, ora figurano tra i criteri per il calcolo
esclusivamente il suolo, le stazioni di valle e di monte e
gli impianti/costruzioni di tipo civile strutturalmente
connessi alle stazioni stesse.
Sono pertanto esclusi dalla stima catastale anche i piloni
intermedi, quando esistenti (articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2016). |
APPALTI:
Appalti, verifiche continue sulle retribuzioni.
nuovo codice. La stazione appaltante chiamata a intervenire
in caso di irregolarità nei pagamenti.
È il responsabile unico del
procedimento (Rup), come individuato dall’articolo 30 del
Dlgs 50/2016 (nuovo codice degli appalti) a intervenire nei
confronti delle imprese affidatarie e/o subappaltatrici che
non abbiano provveduto al puntuale pagamento delle
retribuzioni periodiche dovute ai rispettivi lavoratori
dipendenti.
La disposizione, contenuta nel comma 6 dell’articolo, è
diretta a individuare fisicamente, nell’ambito della
stazione appaltante, il soggetto che per legge è tenuto a
intervenire, operando mediante il “potere sostitutivo”, per
regolarizzare tempestivamente le posizioni retributive degli
esecutori dell’opera pubblica. La finalità insita in un
intervento celere e certo è posta, del resto, anche
nell’interesse della stessa amministrazione appaltante, che
potrà pertanto svolgere un’azione risolutiva in caso di
vertenze tra datori di lavoro e dipendenti.
Si tratta di situazioni conflittuali che non necessariamente
devono essere denunciate dai lavoratori interessati, ma che
possono essere individuate direttamente dal responsabile
unico del procedimento, ovvero, secondo quanto previsto
dall’articolo 101 del codice, tramite il direttore dei
lavori, del coordinatore per l’esecuzione dei lavori
(articolo 92 del testo unico sulla salute e sicurezza sul
lavoro), dei direttori operativi e, ove previsti, degli
ispettori di cantiere.
L’obiettivo del nuovo codice degli appalti appare chiaro:
prevedere una verifica più incisiva e continua della
regolarità nei pagamenti delle retribuzioni, in grado di
“prevenire” eventuali situazioni di criticità (seppure in
molti casi dovute proprio ai non puntuali pagamenti da parte
della stessa stazione appaltante) invece di lasciarla al
caso, ovvero all’intervento della stazione committente in
caso di eventuali sollecitazioni esterne, o alla scadenza
delle “canoniche” fasi relative all’esecuzione dell’opera,
del servizio o fornitura.
Del resto appare significativa la disposizione (articolo
101, comma 3, del decreto legislativo 50/2016) in base alla
quale vengono poste a carico del direttore dei lavori tutte
le attività e i compiti allo stesso espressamente demandati
dal codice, nonché quelle relative alla verifica periodica
del possesso e della regolarità da parte dell’esecutore e
del subappaltatore, della documentazione prevista dalle
leggi vigenti «in materia di obblighi nei confronti dei
dipendenti».
È evidente la facoltà che viene conferita al direttore dei
lavori di chiedere in visione alle imprese esecutrici
(affidatarie e subappaltatrici) le copie dei prospetti paga
che il datore di lavoro, in base all’articolo 1 della legge
4/1953, ha l’obbligo di consegnare a ciascun lavoratore
all’atto del pagamento della retribuzione.
È un controllo che potrà essere anche sistematico,
attraverso la nuova figura dell’ispettore di cantiere, che
esercita la propria attività di verifica in un turno di
lavoro.
La disposizione del codice degli appalti è senz’altro una
misura deflattiva e più immediata rispetto all’articolo 1676
del codice civile.
Quest’ultimo, infatti, chiama in causa in solido il
committente solo per quanto dovuto all’appaltatore e solo a
fronte dell’azione giudiziaria da parte dei lavoratori.
Inoltre, se l’esecutore dei lavori è già stato pagato dal
committente, ma poi non ha corrisposto le retribuzioni ai
dipendenti, la stazione appaltante non può essere chiamata a
rispondere in solido (articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI - INCARICHI PROGETTUALI:
Progetti e legali con gara. Illegittimi gli
affidamenti diretti fiduciari.
CODICE APPALTI/ Il dlgs 50 richiede sempre un confronto
selettivo.
Occorre sempre una gara anche informale per l'affidamento
dei servizi di progettazione e dei servizi legali.
Con l'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti (dlgs
n. 50/2016), il quale fissa una soglia fino a 40.000 euro a
base d'asta entro la quale è ammesso l'affidamento diretto,
in molti (a partire dagli ordini professionali) hanno tratto
la conclusione che rientrino in gioco gli affidamenti
fiduciari.
Se così fosse, il codice si porrebbe in contrasto clamoroso
con tutti i principi di salvaguardia della concorrenza e di
trasparenza mutuati direttamente dai Trattati Ue e regolati
in maniera molto chiara dalla Direttiva 2014/24/Ue, recepita
dal codice.
L'articolo 36, comma 2, lettera a), del codice, in effetti
prevede che gli affidamenti di importo inferiore a 40.000
euro sono da considerare «esclusi» in parte
dall'ambito di applicazione del codice e per essi è
possibile procedere «mediante affidamento diretto,
adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione
diretta».
In primo luogo, è da osservare che poiché l'affidamento
diretto deve essere «adeguatamente motivato»,
non è ammesso l'intuitu personae, istituto basato
solo sull'elemento della fiducia, connesso a valutazioni
tutte e solo personali e, come tale, impossibile da
motivare.
Ma, la norma citata non può essere letta senza coordinarla
con le restanti altre del codice. La prima da tenere in
considerazione è l'articolo 4, che detta i principi relativi
all'affidamento di contratti pubblici esclusi. Ai sensi di
questa disposizione «l'affidamento dei contratti pubblici
aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in
tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del
presente codice, avviene nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela
dell'ambiente ed efficienza energetica».
Tutti principi che impediscono di considerare legittimo
l'affidamento in via diretta fiduciaria e che richiedono
sempre un confronto selettivo, pubblico e trasparente, sulla
base di almeno un avviso di manifestazione di interesse o
l'invito ad alcuni professionisti a formulare un'offerta,
così da poter selezionare uno tra quelli chiamati in causa.
Il che fornisce gli elementi per la motivazione
dell'affidamento diretto.
I servizi legali sono espressamente previsti dall'articolo
17, lettera d), numeri da 1) a 5), tra i quali si contempla
in maniera esplicita tanto la «rappresentanza legale di
un cliente da parte di un avvocato» in giudizio, quanto
la «consulenza legale fornita in preparazione di» un
giudizio (anche arbitrale) o «qualora vi sia un indizio
concreto e una probabilità elevata che la questione su cui
verte la consulenza divenga oggetto del procedimento»
giurisdizionale.
Non c'è dubbio che si tratti, dunque, di appalti veri e
propri. Il fatto che siano «esclusi» dal campo di
applicazione del codice non significa, ovviamente, che ne
siano fuori. Si tratta di «appalti esclusi» come lo
sono, per esempio, i servizi sociali, nel senso che si
applicano solo i principi o singole specifiche norme del
codice. Ai servizi legali si applicano comunque solo le
disposizioni di principio indicate dall'articolo 4 del
codice, in modo ovviamente sempre più rigoroso man mano che
il valore del contratto con l'avvocato aumenti.
Lo stesso vale per gli incarichi di progettazione, che non
sono servizi esclusi, ma fanno parte di regimi di appalto
particolare, disciplinati dal Titolo VI del codice. Nella
soglia tra i 40.000 euro e 100.000 euro è espressamente
imposto di attivare quanto meno una procedura negoziata
previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque
operatori economici individuati sulla base di indagini di
mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel
rispetto di un criterio di rotazione degli inviti
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
CODICE APPALTI/ Nuove soglie. Moltiplicate
le tipologie di appalti.
Si moltiplicano le tipologie degli appalti, ai fini della
definizione delle procedure di affidamento e
dell'applicazione delle norme.
Che il nuovo codice dei contratti non abbia propriamente
semplificato procedure e quadro normativo, lo comprova la
complessissima ridefinizione delle soglie e tipologie di
appalti.
Gli appalti saranno innanzitutto distinti per soglie. Non vi
sarà più la bipartizione tra soglia comunitaria e nazionale,
perché le fasce saranno molte di più e maggiormente
complesse.
Una prima fascia è prevista per lavori, servizi tecnici,
forniture e servizi di importo fino a 39.999 euro. Entro
questo limite, sono possibili affidamenti diretti, nel
rispetto dei principi di concorrenzialità.
Vi è una seconda fascia nella quale è consentita la
procedura negoziata mediante inviti ad almeno cinque
imprese, selezionate con indagini di mercato o da elenchi di
operatori economici. Essa va da 40.000 a 149.999 euro per i
lavori; da 40.000 a 99.999 euro per i servizi tecnici di
progettazione; da 40.000 a 208.999 per servizi e forniture.
Una terza fascia richiede procedure selettive più aperte. Va
da 150.000 a 999.999 euro per i lavori, e qui si consente
una procedura negoziata estesa ad almeno dieci operatori
(con possibilità del criterio del massimo ribasso). Va da
100.000 a 208.999 euro per i servizi di progettazione, con
gara mediante procedura aperta o ristretta. Va da 209.000 a
749.999 euro, solo per servizi sociali e per servizi e
forniture elencati dall'allegato IX: entro questa fascia,
sarà possibile la procedura negoziata tra cinque operatori,
o anche utilizzare le procedure aperte o ristrette.
Vi è una quarta fascia, specifica solo per lavori, compresa
tra 1.000.000 e 5.224.999 euro, entro la quale agire
mediante procedure aperte o ristrette.
Vi è, infine, la soglia comunitaria, che parte da 5.255.000
euro per lavori, 209.000 euro per servizi tecnici e di
progettazione, 209.000 euro per forniture e servizi non
compresi nell'allegato IX, 750.000 euro per servizi sociali
e servizi e forniture contemplati nell'allegato IX
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2016). |
APPALTI SERVIZI: CODICE
APPALTI/ Servizi sociali, una semplificazione mancata.
Il regime dei servizi sociali nel nuovo codice dei contratti
pubblici rappresenta la plateale dimostrazione che il dlgs
50/2016 ha mancato in modo evidente l'obiettivo di
semplificare la normativa. Il nuovo sistema appare
estremamente complesso, pieno di rimandi e rinvii, tale da
porre notevoli difficoltà interpretative ed operative.
Si può tentare di intuire quale sia il quadro riferito ai
servizi sociali, seguendo un intricato filo rosso che unisce
alcune disposizioni del codice.
La prima da tenere in considerazione è l'articolo 35, comma
1, lettera d), per effetto del quale sono da considerare
sotto la soglia di rilievo comunitaria gli appalti di
servizi sociali di importo fino a 749.999 euro.
Per questi appalti sotto soglia, allora, ai sensi
dell'articolo 36, comma 2, lettera b), gli affidamenti
possono essere effettuati in due modalità. La prima consiste
nell'applicare le regole ordinarie per gli appalti,
comprensive di tutte le cautele procedurali. La seconda, è
la facoltà di attivare una procedura negoziata preceduta da
un'indagine di mercato, posta a individuare almeno cinque
operatori economici da invitare successivamente a presentare
l'offerta o, in alternativa, l'attivazione di una procedura
negoziata tra operatori economici inclusi in specifici
elenchi, assicurando il principio di rotazione.
Nel caso degli appalti sotto soglia, le scarne procedure
negoziate ammesse dall'articolo 36, comma 2, lettera b),
debbono comunque obbedire ai principi generali fissati
dall'articolo 30 del codice: economicità, efficacia,
tempestività, correttezza, libera concorrenza, non
discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché
pubblicità. Da ricordare che sempre l'articolo 30 dispone: «Il
principio di economicità può essere subordinato, nei limiti
in cui è espressamente consentito dalle norme vigenti e dal
presente codice, ai criteri, previsti nel bando, ispirati a
esigenze sociali», previsione particolarmente utile
esattamente nell'ambito dei servizi sociali.
Laddove l'importo del contratto sia pari o superiore a
750.000 euro, si tratta di appalti in regime «particolare».
La norma da tenere in considerazione è, in termini generali,
l'articolo 114, che si applica ai contratti contemplati nel
Capo I del Titolo VI del codice, i quali sono soggetti
direttamente alle norme contenute negli articoli da 1 a 58
ad esclusione di quelle concernenti le concessioni.
Gli appalti di servizi sociali sopra soglia sono
specificamente presi in considerazione nella Sezione IV del
Capo I del Titolo VI e, in particolare, all'articolo 140, a
mente del quale si applicano ai servizi sociali (oltre agli
articoli da 1 a 58, come visto sopra) le disposizioni di cui
agli articoli 142 e 143. Il primo, prevede una
semplificazione delle pubblicazioni; il secondo, ammette la
possibilità di riservare gli appalti delle categorie di
servizi specificamente ivi indicate a organizzazioni che
hanno ha come obiettivo statutario il perseguimento di una
missione di servizio pubblico legata alla prestazione dei
servizi, operino senza distribuire utili e prevedano un
azionariato o una partecipazione attiva dei dipendenti.
L'intreccio molto complesso di norme visto sin qui si
completa con la disciplina particolare relativa alle
cooperative sociali di tipo B, regolata dalla legge
381/1991. Non pare che il dlgs 50/2016 abbia sortito
l'effetto di abolire le previsioni di questa legge, che
consente l'assegnazione di servizi sociali diversi da quelli
socio sanitari ed educativi alle cooperative sociali, purché
sotto soglia.
L'articolo 5, comma 1, della legge 381/1991, come
recentemente novellato dall'articolo 1, comma 610, della
legge 190/2014, dispone che le convenzioni con le
cooperative sociali di tipo B siano stipulate previo
svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare
il rispetto dei princìpi di trasparenza, di non
discriminazione e di efficienza: si tratta di principi non
in contrasto con quelli generali, enunciati dall'articolo 30
del dlgs 50/2016, così come il sistema di selezione può
certamente essere compreso nella disciplina disposta
dall'articolo 36, comma 2, lettera b).
Si tratta di capire se la soglia entro la quale procedere
combinando le previsioni del codice dei contratti con la
legge 381/1991 sia quella generale di 209.000 euro, o quella
specifica di 750.000 per servizi sociali. La soluzione più
convincente apparirebbe quest'ultima.
Il vero problema, comunque, sarà l'aggregazione degli enti.
Infatti, solo per appalti di importo inferiore ai 40.000
euro ciascuno potrà procedere autonomamente. Per importi tra
i 40.001 e 750.000 euro, potranno procedere autonomamente
solo i comuni in possesso della qualificazione prevista
dall'articolo 38. In teoria, dovrebbero utilizzare gli
strumenti di negoziazione elettronica messi a disposizione
dai soggetti aggregatori, ma difficilmente i servizi sociali
si prestano alla standardizzazione necessaria allo scopo,
visto l'elevatissimo grado di personalizzazione di questi
appalti. L'alternativa concreta appare la funzione di
soggetto aggiudicatore da parte delle centrali di
committenza, oppure avvalersi delle procedure di affidamento
ordinarie, non semplificate
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2016). |
APPALTI:
Niente gare fino a un mln di euro. Lavori in
house vietati ai concessionari autostradali.
Nella riforma del codice dei contratti pubblicata
in G.U. le imprese possono iscrivere riserve.
Stabilizzata l'anticipazione prezzi del 20% per le imprese;
libertà di iscrizione di riserve senza il tetto del 15%;
facoltà di applicazione dell'esclusione automatica delle
offerte anomale; soppressione della gestione diretta per i
concessionari autostradali; procedura negoziata fino a un
milione di euro per i lavori.
Sono queste alcune delle ultime novità introdotte nel
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, alcune anche molto
delicate come nel caso della disciplina dei concessionari
autostradali (per i quali è stata tolta all'ultimo la norma
che ammetteva la gestione diretta di lavori, forniture e
servizi, peraltro già concordata con il ministero delle
infrastrutture e sindacati).
In diversi casi il testo finale, con modifiche last
minute, si è discostato dalle indicazioni contenute nei
pareri parlamentari: l'obbligo di applicare il decreto
parametri (143/2013) per definire la base d'asta nelle
procedure di servizi di ingegneria è diventato una facoltà;
non è stata seguita la linea proconcorrenziale negli
affidamenti sotto la soglia europea (contenuta nei pareri) e
si è lasciata la possibilità di affidare gli appalti di
lavori da 150 mila euro fino a 1 milione con procedura
negoziata senza bando e invito ad almeno dieci imprese;
l'anticipazione del prezzo contrattuale del 20% diventa
misura stabile (fino ad oggi era sempre prevista a tempo e
rinnovata con decreto legge ogni anno).
La novità più rilevante riguarda invece la possibilità per
le imprese di iscrivere riserve: nella versione uscita dal
consiglio dei ministri che approvò in via preliminare lo
schema di decreto era causa di risoluzione del contratto
l'iscrizione di riserve per un importo superiore al 15% del
totale dei lavori. Nel testo in Gazzetta Ufficiale questa
norma è scomparsa.
Molta attenzione va comunque prestata alla disciplina della
fase di aggiudicazione dei contratti che, semplificando,
prevede l'utilizzo quasi esclusivo del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa (Oepv) sotto il profilo
qualità-prezzo: per i lavori quando il contratto supera il
milione di euro, per le forniture e i servizi con
caratteristiche di elevata ripetitività di importo sotto
soglia Ue, ma con l'eccezione dei servizi di ingegneria per
i quali è obbligatoria l'offerta economicamente più
vantaggiosa sopra i 40 mila euro.
Due i problemi principali che si possono intravedere: se non
si affida sulla base del solo prezzo e se la regola è quella
di affidare i lavori con l'Oepv (in cui si mixano criteri
qualitativi e quantitativi) sulla base di un progetto
esecutivo (peraltro anche validato in sede di verifica del
progetto), quali potranno essere gli elementi qualitativi
oggetto di offerta e quali potranno essere le parti del
progetto esecutivo da variare in sede di offerta? È
probabile che con le varianti richieste in sede di offerta
si tenterà di aggirare il vincolo della «stabilità e
certezza» del progetto esecutivo.
Ma soprattutto c'è un serio problema di gestione delle gare:
sopra la soglia del milione di euro per i lavori il numero
delle offerte presentate potrebbe superare le diverse decine
e arrivare anche oltre 100: in questi casi le stazioni
appaltanti dovranno necessariamente trovare sistemi di
selezione degli offerenti per cui la strada principe sarà
quella della procedura ristretta, con short list
definite in base a criteri che dovranno essere oggettivi e
sindacabili dal giudice.
Stesso discorso, pena l'impossibilità di gestire offerte da
valutare con l'offerta economicamente più vantaggiosa, anche
per le gare di progettazione e per quelle di forniture e
altri servizi.
Prevista, infine, l'esclusione automatica per il prezzo più
basso come facoltà per i contratti di lavori, forniture e
servizi di importo inferiore alla soglia europea (5,2
milioni per i lavori e 209 mila per forniture e servizi) ma
con almeno dieci offerte ritenute ammissibili
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Pa,
la trasparenza evita il silenzio-rifiuto e «taglia» i costi.
Chiesti chiarimenti sulle misure anti-assenteismo.
Riforma Madia. Dal Parlamento sì condizionato al decreto
Foia.
Nel passaggio in Parlamento il decreto
sulla trasparenza della Pubblica amministrazione fa tesoro
delle obiezioni sollevate da Anac e Consiglio di Stato; e
con le modifiche di cui la stessa ministra per la Pa e la
semplificazione Marianna Madia ha già annunciato
l’accoglimento si candida a diventare davvero la traduzione
italiana del Foia (Freedom of Information Act), faro
anglosassone della trasparenza pubblica.
Ieri le commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato
hanno dato il parere positivo al decreto attuativo della
riforma della Pa
con una serie di «condizioni» che chiedono
modifiche al testo presentato dal Governo. L’elenco riprende
puntualmente i punti chiave del dibattito che ha
accompagnato il provvedimento fin dalla sua presentazione, e
punta a semplificare le istanze dei cittadini, cancellare il
silenzio-rifiuto e tagliare i costi a carico di chi presenta
la richiesta.
Obiettivo dichiarato del decreto (Schema
di decreto legislativo recante “Revisione e semplificazione
delle disposizioni in materia di prevenzione della
corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge
06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n.
33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124,
in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche”) è passare dal nostro
tradizionale diritto di accesso, che permette di chiedere
atti alla Pa a chi ha «un interesse diretto, concreto e
attuale», all’apertura totale delle informazioni pubbliche,
con le sole eccezioni motivate dalla tutela di dati
sensibili per esempio sul piano della privacy o
dell’interesse nazionale. Con un contrasto stridente
rispetto a questa “rivoluzione” dichiarata, però, il testo
scritto a Palazzo Vidoni ha ripescato il vecchio
silenzio-rifiuto, in base al quale dopo 30 giorni senza
risposta la richiesta «si intende respinta».
Camera e Senato
chiedono di cancellare questo ritorno al passato, e di
imporre l’obbligo di motivazione alla Pa che non intende
rispondere. Da alleggerire, poi, è l’elenco di eccezioni
alla trasparenza prospettato dal decreto: il «no», secondo
le richieste dei parlamentari, andrebbe pronunciato solo in
caso di «pregiudizio concreto agli interessi» da tutelare,
sul piano pubblico (sicurezza nazionale, stabilità monetaria
e finanziaria e così via) o privato (privacy e interessi
economici).
Il decreto originale, poi, rischia di presentare un conto
salato ai cittadini, con la previsione che il rilascio dei
documenti sia «subordinato al rimborso dei costi» da parte
di chi ha fatto la richiesta e con il ricorso al Tar come
unica strada per opporsi invece al silenzio della Pa.
Per
tagliare la spesa, il Parlamento chiede di puntare sulle
richieste telematiche (come suggerito dal Consiglio di
Stato) obbligando negli altri casi la Pa a dettagliare i
costi sostenuti per supporti alternativi. Alla Camera e al
Senato, insomma, hanno trovato ascolto le critiche sollevate
in queste settimane da Foia4Italy, la rete delle
associazioni che si batte per l’introduzione anche da noi
della trasparenza modello anglosassone: «Il Parlamento -chiosa Federico Anghelé, di «Riparte il futuro»- ci dà
ragione su tutta la linea».
Sempre dal Parlamento, ma questa volta dai tecnici di Camera
e Senato, arrivano richieste di chiarimenti sul decreto
anti-assenteismo (Schema
di decreto legislativo recante modifiche all'articolo
55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul
licenziamento disciplinare -
Atto del Governo n. 292 sottoposto a parere parlamentare), altro tassello chiave della riforma Madia.
Anche in questo caso i punti in discussione sono analoghi a
quelli sollevati dai giudici: nel dossier si suggerisce di
ripensare la sanzione del licenziamento per il dirigente che
non vigila, e che sarebbe sottoposto allo stesso trattamento
di chi timbra il cartellino e se ne va, e di escludere la
possibilità che il danno all’immagine sia quantificato in
base alla rilevanza mediatica del caso (articolo Il Sole 24 Ore del
21.04.2016). |
APPALTI:
Appalti, il codice in Gazzetta. Boom di gare ad
appalto integrato e massimo ribasso prima dei divieti.
Contratti pubblici. In vigore la riforma (Dlgs 50/2016),
bandi da adeguare già da oggi: rischio rallentamenti.
Porta il numero 50 e
la data del 18.04.2016 il nuovo Codice degli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture. Dopo l'approvazione
finale da parte del governo venerdì scorso, completate a
tempo di record le ultime verifiche (la "bollinatura" della
Ragioneria lunedì e la firma del Capo dello Stato ieri), il
decreto legislativo di riforma è stato pubblicato nella
serata di ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 91.
Decolla, così, la riforma che semplifica in modo strutturale
il sistema, rende centrale il ruolo dell'Anac e introduce
alcune novità strategiche, come la qualificazione delle
stazioni appaltanti e il rating delle imprese. Ora però il
rischio concreto è che, con il nuovo provvedimento, prenda
forma un'impasse del sistema degli appalti pubblici, almeno
per i prossimi mesi.
Il motivo è nascosto nella velenosa coda del decreto: «Il
presente codice entra in vigore nel giorno stesso della sua
pubblicazione in Gazzetta ufficiale». Quindi, il testo già
da ieri ha forza di legge. Il Governo ha, cioè, scelto di
non prevedere neppure la consueta fase di vacatio legis di
15 giorni, né tantomeno una fase transitoria più lunga, per
consentire agli operatori di mettersi al passo con i nuovi
adempimenti.
Ora però si parte a razzo: già da questa mattina Pa e
imprese devono usare le nuove regole, e i bandi pubblicati
da oggi devono essere costruiti con il nuovo Codice.
Preparare nuove gare, però, richiede già normalmente
settimane di lavoro. La fase di adattamento alle nuove norme
richiederà certamente una gestazione ancora più lunga. A
questo, poi, vanno aggiunti gli elementi di incertezza che
derivano dal fatto che il Dlgs 50/2016 rinvia molte
importanti novità a più di quaranta provvedimenti attuativi,
da approvare nei prossimi mesi. Il rischio blocco pare,
insomma, concreto.
Uno dei cambiamenti più rilevanti subito in vigore è il
divieto di appalto integrato nei lavori pubblici
(progettazione + lavori). Nel vecchio Codice le stazioni
appaltanti erano libere, e un certo "abuso" dell'appalto
integrato ha portato contenziosi nella fase di progettazione
post-gara. La legge delega ha chiesto perciò di limitarlo ai
soli casi di rilevante contenuto tecnologico dell'opera, e
il testo finale ha fatto ancora di più: le gare di lavori si
devono fare sempre su progetto esecutivo.
Un divieto assoluto di appalto integrato che sta
disorientando le stazioni appaltanti, tant'è che negli
ultimi giorni si è assistito a una corsa a pubblicare
appalti integrati, prima della riforma. Solo negli ultimi
tre giorni utili (15, 18 e 19 aprile), sono stati pubblicati
15 bandi soprasoglia ad appalto integrato, per un importo di
235 milioni di euro. Quasi certa, ora, una fase di stallo,
per "digerire" la novità e portare i progetti alla fase di
esecutivo.
Corsa ai bandi anche sul massimo ribasso, criterio di
aggiudicazione prima libero, e che da oggi diventa possibile
solo fino a un milione di euro (al di sopra sarà
obbligatoria la valutazione prezzo-qualità). Nelle ultime
settimane l'Anas ha pubblicato 33 gare per accordi quadro di
manutenzione straordinaria, tra cui 21 per la Salerno-Reggio
Calabria, per un valore totale di 256 milioni di euro. Anche
qui c'è da aspettarsi ora una fase di adattamento,
soprattutto per fissare nuovi criteri di valutazione
qualitativa delle offerte in lavori "di routine" (articolo Il Sole 24 Ore del
20.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Revisione per il silenzio-rifiuto. Riforma della
Pa. Oggi i pareri di Camera e Senato sul provvedimento sulla
trasparenza - Madia: correggeremo il testo.
È destinato a cambiare il meccanismo
del silenzio-rifiuto scritto nella versione originaria del
decreto trasparenza, il provvedimento attuativo della
riforma della Pa.
Oggi le commissioni di Camera e Senato daranno il proprio
parere sul decreto, e la modifica del silenzio-rifiuto
dovrebbe essere in cima alle richieste parlamentari: la
stessa ministra per la Pa e la semplificazione Marianna
Madia, del resto, spiega di considerare «pienamente
condivisibili» le osservazioni in arrivo dal Parlamento,
impegnandosi a sostenerle in Consiglio dei ministri
«affinché l’Italia possa avere la migliore legislazione
possibile».
Pilastro anche comunicativo del capitolo che la riforma
della Pa dedica alla trasparenza (Schema
di decreto legislativo recante “Revisione e semplificazione
delle disposizioni in materia di prevenzione della
corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge
06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n.
33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124,
in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche”), il Foia uscito dagli
uffici di Palazzo Vidoni aveva incontrato le obiezioni sia
del Consiglio di Stato sia dell’Anac. Il passaggio più
critico, appunto, è quello del silenzio-rifiuto con cui il
decreto, dopo aver aperto a tutti la possibilità di chiedere
atti alla Pa, spiega che dopo 30 giorni la richiesta «si
intende respinta»: il tutto senza obbligo di motivazione e
senza sanzioni per i dirigenti della struttura che rimane
muta. Un «paradosso», hanno spiegato i giudici
amministrativi, con cui «un provvedimento sulla trasparenza
nega ai cittadini di conoscere in maniera trasparente» le
ragioni del rifiuto alla richiesta.
Consiglio di Stato e Anac, poi, hanno storto il naso anche
sulla questione dei costi, sollevata dalla parte in cui il
decreto mette a carico dei cittadini che fanno richiesta il
rimborso degli oneri sostenuti dalla Pa per rispondere.
L’Autorità guidata da Raffaele Cantone ha suggerito di
guardare al modello anglosassone, che pone una franchigia
sui costi ordinari chiedendo solo un contributo per quelli
superiori a una certa soglia, e ha proposto di intervenire
in prima persona sul controllo dei comportamenti degli
uffici pubblici, per evitare l’unica alternativa del ricorso
al Tar (con altri costi per i cittadini): il Consiglio di
Stato, dal canto suo, ha chiesto di prevedere come regola
generale la richiesta telematica, che tagliando i costi per
la Pa elimina anche il problema dei rimborsi.
In Parlamento, intanto, è arrivato anche il decreto
anti-assenteismo (Schema
di decreto legislativo recante modifiche all'articolo
55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul
licenziamento disciplinare -
Atto del Governo n. 292 sottoposto a parere parlamentare), per un esame che non si annuncia scontato.
Gli aspetti più delicati, come mostra anche il parere del
Consiglio di Stato, sono il taglio dei tempi per le
contestazioni disciplinari, che rischiano di rivelarsi
troppo difficili da gestire nelle amministrazioni, e il
licenziamento per i dirigenti che non vigilano: anche in
questo caso, si tratta di due dei temi più dibattuti quando
è stato scritto il decreto (articolo Il Sole 24 Ore del
20.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI
LOCALI:
Fallimento differenziato per le società in house.
Una struttura ad hoc, con poteri vincolanti, per il
controllo e il monitoraggio delle partecipate. Fallimento
differenziato per le società in house che, in ragione della
loro specificità, vanno distinte dalle altre società a
partecipazione pubblica. Coinvolgimento dell'Antitrust, a
fianco della Corte dei conti, nella vigilanza sui
procedimenti di razionalizzazione periodica e revisione
straordinaria delle partecipazioni. Maggiori chiarimenti sul
destino delle società strumentali che, va precisato,
continuano ad essere ammesse, a cominciare da quelle
regionali, onde evitare entrate a gamba tesa nelle
competenze dei governatori.
Il parere del Consiglio di stato sullo schema di decreto
Madia di riforma delle partecipate è positivo
(Consiglio di Stato,
Commissione speciale,
parere 21.04.2016 n. 968 - Schema di decreto
legislativo recante Testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica, in attuazione dell’articolo 2 della
legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”),
ma sono molti i rilievi di cui i tecnici del governo
dovranno tenere conto nel predisporre il testo da inviare
alle camere.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, il dlgs attuativo della
legge delega di riforma della p.a. (legge 124/2015) «va
nella direzione giusta di semplificare il frammentario
quadro normativo esistente e di eliminare le moltissime
società inutili, mantenendo solo quelle che svolgono
un'utile attività di servizio pubblico».
Tuttavia, è lungo l'elenco di correzioni richieste dal
supremo organo di giustizia amministrativa. A cominciare
proprio dall'assenza di un sistema di controllo e
monitoraggio in grado di assicurare efficacia nella fase di
attuazione della riforma. Servono dunque strumenti più
incisivi con l'individuazione di una struttura ad hoc,
preposta in modo specifico allo svolgimento delle verifiche.
E ancora, viene chiesto di eliminare dal testo la
possibilità per le amministrazioni di acquisire, per fini di
investimento, partecipazioni in società tramite il
conferimento di beni immobili, allo scopo di evitare
l'elusione della nuova disciplina che vieta alle società a
partecipazione pubblico, lo svolgimento di attività di
impresa. Sul sistema di responsabilità, palazzo Spada
auspica che venga definito con più precisione il riparto di
giurisdizione tra Cassazione e Corte conti sulla
responsabilità degli enti.
In particolare, secondo il Consiglio di stato, dovrebbe
essere chiarito che «soltanto il danno diretto al
patrimonio dell'amministrazione pubblica, e non anche quello
indiretto, può giustificare l'attribuzione della
giurisdizione della Corte dei conti»
(articolo ItaliaOggi del 23.04.2016). |
ENTI LOCALI:
Pa, nuovo ok alla riforma delle partecipate.
Consiglio di Stato. Dai giudici parere
favorevole ma «allarme» su attuazione ed eccezioni.
Pochi giorni dopo il via libera da parte
di Regioni ed enti locali per il testo unico sulle
partecipate arriva anche il via libera del Consiglio di
Stato.
Come accaduto alla
maggioranza degli altri provvedimenti attuativi della
riforma Madia già passati sul tavolo dei giudici
amministrativi, il parere (Consiglio di Stato, Commissione
speciale,
parere 21.04.2016 n. 968 - Schema di decreto
legislativo recante Testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica, in attuazione dell’articolo 2 della
legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”) è ricco di osservazioni sulle
parti ritenute zoppicanti o a rischio costituzionalità.
Le maggiori «criticità rilevanti» vengono individuate nel
fatto che manca un sistema certo per il monitoraggio degli
effetti della riforma. Nel decreto, certo, una struttura per
il controllo sulla riforma è prevista, ed è stata collocata
al ministero dell’Economia dopo una lunga discussione
interna al governo, ma per il momento rimane nel vago sia
nella sua individuazione sia nei criteri e nei poteri che
devono guidare la sua attività. Senza precisare questi
aspetti, sostengono i giudici, è impossibile centrare
davvero gli obiettivi di privatizzazione e liberalizzazione
che ispirano la riforma.
Per le stesse ragioni vanno corrette le deroghe che
escludono una serie di realtà dall’applicazione delle nuove
regole. Il testo approvato in prima lettura a Palazzo Chigi
lascia espressamente inalterate le discipline di settore
scritte «in leggi o regolamenti governativi o ministeriali»,
ma il Consiglio di Stato chiede di limitare la geografia
delle esclusioni: a sopravvivere devono essere solo le
regole previste dalla legge primaria, e le deroghe devono
essere a tempo. Anche per le società statali escluse a
priori dalla riforma, ed elencate in un allegato al decreto,
il governo è chiamato a «chiarire le ragioni»
dell’esclusione: in gioco ci sono nomi importanti nel
panorama delle aziende di Stato come Anas, Invitalia, Sogin,
Invimit, ma anche realtà più piccole come Eur Spa, Arexpo,
oltre a Coni servizi.
Al parere non sfugge poi la questione cruciale del ruolo
della Corte dei conti. Sul punto il testo ha ballato
parecchio, e la versione finale prevede la possibilità del
danno erariale per tutti i casi in cui la cattiva gestione
colpisce conti o patrimonio dell’ente socio. Il tema è
delicato, e i giudici chiedono di fare chiarezza: la Corte
dei conti, secondo il parere, dovrebbe intervenire solo sui
danni «diretti» all’ente, recuperando quindi la formula
prevista nelle prime versioni del testo, e il governo
dovrebbe dire una parola definitiva sulla possibilità per la
Corte dei conti di contestare il danno erariale in tutte le
società in house.
Sul piano della concorrenza, poi, i giudici suggeriscono un
sistema di vincoli graduati, che premi chi si è sottoposto a
gara e stringa invece sui titolari di affidamenti diretti:
un’indicazione, questa, arrivata anche dalle amministrazioni
locali, che chiedono anche di abbassare da un milione a
500mila euro la soglia di fatturato sotto la quale scatta
l’obbligo di alienazione (articolo Il Sole 24 Ore del
23.04.2016). |
ENTI LOCALI:
I punti principali del parere del Consiglio di Stato sullo
schema di decreto recante
«Schema
di decreto legislativo recante Testo unico in materia di
società a partecipazione pubblica, in attuazione
dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124, recante
“Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche”)»
(Consiglio di Stato,
Commissione speciale,
parere 21.04.2016 n. 968).
1. Le finalità
Il Consiglio di Stato, con il parere resto sullo schema di
decreto recante “Testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica”, ha messo in rilievo come la
finalità dell’intervento legislativo di riforma del sistema
delle società a partecipazione pubblica sia stata quella di
semplificare e razionalizzare le regole vigenti in materia,
attraverso il riordino delle disposizioni nazionali e la
creazione di una disciplina generale organica. Il quadro
normativo attuale è, infatti, il risultato di una serie di
interventi frammentari adottati in contesti storici diversi
per perseguire finalità di volta in volta imposte da
esigenze contingenti.
2. Il contesto europeo e costituzionale
Il Consiglio di Stato ha ricostruito il contesto europeo e
costituzionale in cui si colloca l’intervento di riforma, al
fine di proporre modifiche al testo conformi ai principi di
concorrenza e alle regole che presiedono al riparto delle
funzioni legislative tra Stato e Regioni.
3. I modelli di società
Nel parere sono stati individuati i modelli di società
esistenti prima della riforma, distinguendosi società che si
collocano in una prospettiva di regolazione prevalentemente
privatistica e società che si collocano in una prospettiva
di regolazione prevalentemente pubblicistica. Il primo
modello generale ricomprende le società a partecipazione
pubblica. Il secondo modello ricompre le società in house,
le società strumentali e l’organismo di diritto pubblico in
forma societaria.
4. Oggetto del decreto
Lo schema di decreto ha previsto, quale regola generale,
l’applicazione delle norme del codice civile e delle “leggi
speciali” ove non derogate dal decreto stesso. Il
Consiglio di Stato ha segnalato l’opportunità di sostituire
l’espressione “leggi speciali”, che potrebbe
comportare dubbi in fase applicativa, con “norme generali
di diritto privato” e “norme generali di diritto
amministrativo”, quale la legge n. 241 del 1990 e il
Codice dei contratti pubblici.
5. Il sistema delle esclusioni
Nello schema di decreto sono contemplate le seguenti forme
di esclusione: la prima, attuata mediante rinvio a
disposizioni di legge o regolamento (comma 4, lettera a); la
seconda, attuata mediante l’adozione di un decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri (comma 6); la terza,
attuata mediante l’elencazione delle singole società
pubbliche sottratte al rispetto dell’art. 4 del testo unico.
Il Consiglio di Stato, in relazione alla prima forma di
esclusione legislativa, ha posto in rilievo che sarebbe
necessario:
- limitare la deroga soltanto alle disposizioni contenute in
«leggi» e non anche in fonti di rango inferiore;
- chiarire quale sia la disciplina ad esse applicabile;
- effettuare una ricognizione puntuale di tali società,
almeno di quelle a partecipazione pubblica statale e della
relativa parte di disciplina;
- indicare un termine massimo di durata di tale regime
derogatorio.
In relazione alla seconda forma di esclusione, il Consiglio
di Stato ha sostenuto la necessità di una precisa
individuazione dei criteri, da inserire nel decreto, che
devono guidare l’esercizio del potere del Presidente del
Consiglio dei ministri, ritenendo, comunque, non possibile
l’esclusione totale dall’applicazione dello schema di
decreto.
Nel parere si afferma che utili indici sintomatici
dell’idoneità delle società a partecipazione pubblica ad
essere escluse, in parte, dall’applicazione del decreto
potrebbero essere, tra gli altri, la virtuosità finanziaria,
lo svolgimento di attività d’impresa per il perseguimento di
rilevanti interessi pubblici, l’aver conseguito affidamenti
in base a procedure competitive.
In relazione alla terza forma di esclusione, il Consiglio di
Stato ha evidenziato come sia necessario chiarire quali
siano le ragioni che hanno condotto all’individuazione delle
società indicate nell’Allegato A al decreto stesso,
precisando che per esse deve comunque operare il “vincolo
di scopo” (si v. punto 5).
6. Modelli societari
Il Consiglio di Stato ha rilevato come la mancanza di una
più precisa indicazione dei modelli societari non sia
coerente con i criteri della legge delega e rischi di non
consentire il raggiungimento delle finalità di
semplificazione del quadro complessivo di disciplina.
Nel parere si sottolinea come dovrebbe essere definita,
nell’ambito di un primo modello generale, una distinzione
più netta tra “società a controllo pubblico”, “società
a partecipazione pubblica”, “società quotate”,
con deroghe al codice civile che assumono connotati di
intensità gradualmente più ridotta.
Nell’ambito di un secondo modello generale dovrebbero
confluire le “società strumentali” e le “società
in house”, con deroghe al codice civile che assumono
connoti di intensità maggiore. In particolare, l’autonomia
del modello dell’in house deriva, oltre che dalla
valorizzazione dei suddetti criteri della legge delega,
dalla previsione, imposta dal diritto europeo, di un assetto
organizzativo che non risulta compatibile con quello
predefinito dal codice civile.
5. Le finalità perseguite
Lo schema di decreto definisce il nuovo perimetro entro cui
le società pubbliche possono operare. Il Consiglio di Stato
ha messo in rilievo come sia stato previsto accanto ad un “vincolo
di scopo”, costituito dal perseguimento delle finalità
istituzionali della pubblica amministrazione, un “vincolo
di attività”, segnalando la necessità di:
- indicare che le società a partecipazione pubblica possono
svolgere, accanto alle attività di “servizio di interesse
generale”, anche attività di “servizio di interesse
economico generale”;
- chiarire che continuano ad essere ammesse le società
strumentali, al fine di evitare un possibile dubbio di
costituzionalità in relazione alle “società strumentali
regionali”, la cui disciplina rientra nella competenza
legislativa regionale in materia di organizzazione
amministrativa;
- indicare se il “vincolo di attività” operi anche
per l’attività che la società in house svolge non a favore
delle amministrazioni;
- eliminare dal testo la possibilità per le amministrazioni
di acquisire, per fini di investimento, partecipazioni in
società tramite il conferimento di beni immobili, allo scopo
di evitare l’elusione della nuova disciplina che vieta alle
società a partecipazione pubblico, lo svolgimento di
attività di impresa.
Le limitazioni introdotte rende evidente che il complessivo
disegno riformatore si prefigge lo scopo assicurare nuove
forme di privatizzazione sostanziale con impulso positivo ai
processi di liberalizzazione delle attività economiche.
6. Costituzione delle società a
partecipazione pubblica
La decisione dell’amministrazione, si è rilevato nel parere,
finalizzata ad esternare le ragioni della costituzione di
una società di capitali e la manifestazione di volontà
diretta alla formale costituzione dell’ente devono essere
contenuti in atti separati, essendone differente la natura e
il conseguente regime
7. Principio di separazione tra attività
protette da diritti speciali o esclusivi e altre attività
Nel parere si è messo in rilievo l’opportunità di precisare
l’ambito in cui l’attribuzione alle società a controllo
pubblico di un «diritto speciale o esclusivo» possa
fare sorgere un dovere di attuazione del principio di
separazione tra attività che godono di particolari privilegi
e altre attività, al fine di limitare tale ambito soltanto
alle fattispecie in cui il riconoscimento di tali diritti si
risolva in un effettivo possibile vantaggio competitivo.
8. Gestione delle partecipazioni pubbliche
La previsione di una disciplina di dettaglio in ordine alle
modalità organizzative interne delle società a
partecipazione pubblica regionale potrebbe porre, si
sottolinea nel parere, un problema di compatibilità
costituzionale con le regole di riparto delle competenze,
che assegnano alla funzione legislativa delle Regioni la
competenza in materia di organizzazione amministrativa
riferita agli apparati delle Regioni.
9. Organi amministrativi e di controllo
delle società a controllo pubblico
Il Consiglio di Stato ha sollevato dubbi di conformità al
principio costituzionale di ragionevolezza della norma che
vieta a tutti i dipendenti pubblici di essere amministratori
delle società in controllo pubblico, suggerendo di limitare
il divieto soltanto ai “dipendenti delle amministrazioni
titolari delle partecipazioni pubbliche”.
10. Sistema di responsabilità
Nel parere si indica la necessità di definire con maggiore
precisione il sistema di riparto di giurisdizione tra Corte
dei Cassazione e Corte dei conti in materia di
responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti
degli organi delle società partecipate.
In particolare, dovrebbe essere chiarito che, in relazione
alle società a partecipazione pubblica, soltanto il danno “diretto”
e non anche quello “indiretto” al patrimonio della
amministrazione pubblica può giustificare l’attribuzione
della giurisdizione della Corte dei conti. In relazione alle
società in house il Consiglio di Stato ha rimesso al Governo
la decisione in ordine all’opportunità di chiarire se per
tale tipologia di società si giustifichi sempre la
giurisdizione della Corte dei conti.
11. Crisi di impresa
Nel parere si rimette al Governo la decisione in ordine alla
possibilità di introdurre per le società in house o
strumentali, in ragione delle loro peculiarità relative
all’assetto organizzativo, un sistema di gestione della
crisi di impresa diverso dall’applicazione integrale delle
disciplina del fallimento prevista per le altre società a
partecipazione pubblica.
12. Monitoraggio, indirizzo e coordinamento
sulle società a partecipazione pubblica
Il parere prospetta rilevanti criticità in ordine alla
mancanza di un sistema di controllo e monitoraggio in grado
di assicurare una fase efficace di attuazione delle norme
contenute nello schema di decreto. In particolare, la
formulazione proposta non individua una struttura competente
preposta specificamente allo svolgimento di questa
importante attività né indica poteri vincolanti che si
dimostrino appropriati e forti rispetto alle finalità
perseguite dalla riforma.
L’esigenza di contemplare un modello di attuazione
rispondente ai criteri che il Consiglio di Stato ha indicato
è stata ritenuta meritevole di particolare attenzione anche
dal Country report 26.02.2016. SWD, 81, final.
13. Società in house
In relazione alla disciplina delle società in house il
Consiglio di Stato fa presente che sarebbe opportuno
chiarire che:
- la partecipazione dei privati deve essere “prescritta”
da specifiche disposizioni di legge, che indichino le
ragioni che giustificano la partecipazione di privati stessi
nella compagine societaria:
- le modalità predeterminate attraverso le quali si svolge
il controllo analogo potrebbero, per la mancanza di
prescrizioni effettivamente cogenti, non assicurare una
gestione da parte delle amministrazioni pubbliche
rispondente al modello prefigurato dal legislatore europeo;
- l’attività dedicata a favore delle amministrazioni deve
essere “oltre l’ottanta per cento” e non, come
previsto dallo schema del decreto, di “almeno l’ottanta
per cento”;
- l’attività extra moenia dovrebbe, da un lato,
potersi svolgere senza necessità di dovere conseguire
economie di scala o altri recuperi di efficienza,
dall’altro, senza possibilità, ammessa dallo schema di
decreto, di “sanatoria” qualora la stessa superi la
soglia consentita.
14. Razionalizzazione periodica e revisione
straordinaria delle partecipazioni pubbliche
In relazione alle suindicate fasi nel parere, da un lato, si
indica l’opportunità di coinvolgere oltre la Corte dei Conti
anche, in funzione di vigilanza, l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato, dall’altro, si prescrive di
limitare l’apparato sanzionatorio previsto per la mancata
attuazione dei principi che sovraintendono a queste fasi
alle società a partecipazione pubblica locale, in quanto la
prevista generalizzazione delle sanzioni non ha copertura
nella legge di delega.
15. Gestione del personale
Il Consiglio di Stato ha rilevato come sia necessario
chiarire quale sia l’ambito applicativo delle regole
pubbliche che devono essere rispettate nella selezione del
personale, con particolare riferimento alla posizione delle
società in house e delle società strumentali.
Per quanto attiene, invece, alla fase transitoria del “personale
eccedente” all’esito delle procedure di revisione delle
società a partecipazione pubbliche esistenti, inserito
nell’elenco gestito dal Dipartimento della funzione pubblica
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel parere
si segnala che:
- dovrebbe essere ridotto, per evitare possibili frizioni
con il principio del concorso pubblico, il periodo temporale
fissato dal decreto che obbliga le società a controllo
pubblico ad attingere, per le nuove assunzioni, dal suddetto
elenco;
- sarebbe necessario ammettere l’avvio delle procedure
concorsuali nei casi in cui sia indispensabile personale che
abbia competenze specifiche senza necessità che esso abbia
un profilo «infungibile»;
- l’avvio delle predette procedure non dovrebbe essere
sottoposto ad un vero e proprio atto di autorizzazione da
parte della Presidenza del Consiglio o del Ministero
dell’economia e delle finanze, ma dovrebbe essere demandato
alle singole società con imposizione di un dovere di
interloquire con le amministrazioni sopra indicate (tratto
da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
generale, per principi consolidati –che costituiscono
altresì principi fondanti in tema di governo del territorio-
gli art. 16, 17 e 28 l. n. 1150 del 1942 prevedono un
termine non superiore a dieci anni entro il quale le opere
contenute nei piani particolareggiati, cui si assimilano le
lottizzazioni convenzionate, devono essere eseguite;
pertanto, le attività dirette alla realizzazione dello
strumento urbanistico, convenzionale o autoritativo, non
possono essere attuate oltre un certo termine, scaduto il
quale l'autorità competente in materia urbanistica
riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, anche con una nuova
convenzione di lottizzazione.
Analogamente, e parallelamente, il privato ha dieci anni di
tempo per l'esecuzione delle opere previste in convenzione,
con la conseguenza che soltanto dalla data di scadenza della
convenzione medesima è possibile verificare se le opere
siano state o meno eseguite.
Ed invero, premesso che la convenzione di lottizzazione,
anche se istituto di complessa ricostruzione a causa dei
profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo
strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre
un incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio
dell'autonomia negoziale retta dal codice civile; nel caso
di specie la richiesta di proroga inoltrata al Comune dalla
società odierna ricorrente costituiva una proposta di
modifica delle condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto
essere accettata da controparte secondo i comuni principi
civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata
della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a
regole di impronta pubblicistica, costituendo materia
rimessa all'accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò
si ricava dal fatto che sul punto il legislatore si è
limitato a fissare il termine massimo di durata (stabilito
in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3, della legge
17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in convenzione deve
comunque essere indicata la durata della convenzione, la cui
concreta definizione è però rimessa alle parti.
Pertanto, per una modifica dell'accordo si applica la
normativa codicistica ai sensi dell'art. 11, comma 3, della
legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi nella
specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca del
consenso del privato su un certo assetto di interessi ed
attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne
consegue che la sua modifica necessita della manifestazione
di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro
formazione.
---------------
In termini generali va ricordato che la previsione di
precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e
di termini per l'avvio e il completamento dei lavori
risponde a rilevanti esigenze di interesse pubblico, ossia
alla necessità per la collettività di poter contare sulla
realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e
definito.
La previsione di un differimento ex lege di tale termine
presenta pertanto un evidente carattere eccezionale e
derogatorio rispetto al sistema.
L'interpretazione restrittiva del comma 3-bis dell'art. 30,
d.l. n. 69 del 2013 è imposta, quindi, innanzitutto dal
principio generale sancito dall'art. 14 delle disposizioni
sulla legge in generale con riferimento a tutte le norme
eccezionali, oltre che dalle finalità connesse.
---------------
... per l'accertamento dell’inadempimento del
controinteressato agli obblighi derivanti da convenzione
urbanistica - richiesta risarcimento danni.
...
Peraltro, il ricorso è prima facie infondato nel merito.
Assume rilievo dirimente ai fini di causa il dato,
incontestato fra le parti e pacificamente emergente dagli
atti di causa, che la convenzione sia tutt’ora pienamente
efficace.
In generale, per principi consolidati –che costituiscono
altresì principi fondanti in tema di governo del territorio- gli art. 16, 17 e 28 l. n. 1150 del 1942 prevedono un
termine non superiore a dieci anni entro il quale le opere
contenute nei piani particolareggiati, cui si assimilano le
lottizzazioni convenzionate, devono essere eseguite;
pertanto, le attività dirette alla realizzazione dello
strumento urbanistico, convenzionale o autoritativo, non
possono essere attuate oltre un certo termine, scaduto il
quale l'autorità competente in materia urbanistica
riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, anche con una nuova
convenzione di lottizzazione (cfr. ex multis CdS 851/2007).
Analogamente, e parallelamente, il privato ha dieci anni di
tempo per l'esecuzione delle opere previste in convenzione,
con la conseguenza che soltanto dalla data di scadenza della
convenzione medesima è possibile verificare se le opere
siano state o meno eseguite (cfr. ad es. Tar Lombardia n.
2428/2013).
Ed invero, premesso che la convenzione di lottizzazione,
anche se istituto di complessa ricostruzione a causa dei
profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo
strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre
un incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio
dell'autonomia negoziale retta dal codice civile (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 26.09.2013, nr. 4810); nel caso di
specie la richiesta di proroga inoltrata al Comune dalla
società odierna ricorrente costituiva una proposta di
modifica delle condizioni contrattuali, che avrebbe dovuto
essere accettata da controparte secondo i comuni principi
civilistici.
Infatti, alla stregua della vigente normativa la durata
della convenzione di lottizzazione non risulta soggetta a
regole di impronta pubblicistica, costituendo materia
rimessa all'accordo tra lottizzante e Amministrazione: ciò
si ricava dal fatto che sul punto il legislatore -che pure
ha analiticamente regolato il contenuto delle convenzioni de quibus- si è limitato a fissare il termine massimo di
durata (stabilito in dieci anni ex art. 28, comma 5, nr. 3,
della legge 17.08.1942, nr. 1150) e a ribadire che in
convenzione deve comunque essere indicata la durata della
convenzione, la cui concreta definizione è però rimessa alle
parti.
Pertanto, per una modifica dell'accordo si applica la
normativa codicistica ai sensi dell'art. 11, comma 3, della
legge 07.08.1990, nr. 241: in particolare, trattandosi
nella specie di atto negoziale, che presuppone la ricerca
del consenso del privato su un certo assetto di interessi ed
attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne
consegue che la sua modifica necessita della manifestazione
di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla loro
formazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, nr.
693).
Nel caso di specie, se per un verso nessun accordo
modificativo in termini riduttivi del termine risulta essere
stato concluso, cosicché lo stesso va applicato in termine
decennali (con scadenza all’01.12.2016, e ciò sarebbe già
dirimente a fini di causa), per un altro verso va altresì
ricordato come sia sopraggiunto un dato normativo in grado
di estendere ulteriormente, ex lege, tale termine. A
quest’ultimo proposito, va infatti richiamato il principio
dettato ex art. 30, comma 3-bis, d.l. 69/2013, a mente del
quale “Il termine di validità nonché i termini di inizio e
fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione
di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150,
ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla
legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012,
sono prorogati di tre anni”.
In termini generali va ricordato che la previsione di
precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e
di termini per l'avvio e il completamento dei lavori
risponde a rilevanti esigenze di interesse pubblico, ossia
alla necessità per la collettività di poter contare sulla
realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e
definito; e tale indicazione va ribadita anche agli
specifici fini della presente causa, caratterizzata in ogni
caso dalla mancanza del presupposto della scadenza di tale
termine (originariamente scadente infatti il 01.12.2016).
La
previsione di un differimento ex lege di tale termine
presenta pertanto un evidente carattere eccezionale e
derogatorio rispetto al sistema. L'interpretazione
restrittiva del comma 3-bis dell'art. 30, d.l. n. 69 del
2013 è imposta, quindi, innanzitutto dal principio generale
sancito dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in
generale con riferimento a tutte le norme eccezionali, oltre
che dalle finalità connesse (cfr. sul punto ad es. Tar
Lombardia n. 78/2016).
Peraltro nel caso de quo, anche
applicando tali canoni ermeneutici restrittivi la proroga
legislativa appare applicabile, trattandosi di convenzione
stipulata anteriormente al 31.12.2012 e tutt’ora in corso di
efficacia
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 20.04.2016 n. 137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In materia di "soccorso istruttorio".
L’art. 38, comma 2-bis, del codice dei
contratti pubblici, come novellato dall’art. 39 della L.
11.08.2014 n. 114 (recante conversione in legge, con
modificazioni, del DL. 24.06.2014 n. 90) prevede:
- che in caso di mancanza, incompletezza o altra
irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni
che il concorrente sia tenuto a produrre per dimostrare il
possesso dei requisiti generali (e di moralità) necessari
per partecipare alla gara d’appalto, la Stazione appaltante
“assegna (…) un termine, non superiore a dieci giorni,
perché siano rese, integrate o regolarizzate le
dichiarazioni necessarie (…)”;
- e che l’esclusione del concorrente dalla gara può essere
disposta solamente nel caso in cui lo stesso non provveda
alla regolarizzazione entro il termine assegnatogli.
Ciò significa:
- che la regolarizzazione è ammessa anche nel caso in cui la
ditta partecipante alla gara abbia del tutto omesso di
produrre una delle dichiarazioni relative al possesso dei
‘requisiti di ordine generale’ (o ‘requisiti generali’);
- e che nel caso in cui la ditta concorrente sia in possesso
dei predetti ‘requisiti generali’ (e dei requisiti morali)
ma abbia omesso di dichiararlo (o abbia effettuato una
dichiarazione lacunosa o poco chiara), può regolarizzare la
sua posizione (e colmare così tale lacuna documentale)
producendo, entro il termine assegnato dal Seggio di Gara,
la prescritta dichiarazione (o una più completa ed esaustiva
dichiarazione).
Tale norma, dunque:
- ha determinato il superamento del precedente sistema di
principi in tema di ‘soccorso istruttorio’ (enunciati in Ad.
Pl. 25.02.2014 n. 9); sistema che escludeva la possibilità
di ricorrere alla “regolarizzazione documentale” nei casi di
omessa produzione di un documento (prescritto a pena di
esclusione), e che limitava la possibilità di utilizzo
dell’istituto in questione ai soli casi di avvenuta
produzione di documenti contenenti errori, lacune o
ambiguità;
- e si è posta sulla scia dell’orientamento
giurisprudenziale “sostanzialistico” -via via affermatosi
(in aderenza al disposto dell’art. 45 della Direttiva n.
2004/18/CE, e sulla scorta di C.S., Ad. Pl. 16.10.2013 n.
23)- secondo cui solamente la reale mancanza di un requisito
generale legittima la esclusione dalla gara; infine
culminato nell’affermazione secondo cui non appare giusto né
equo che un soggetto che possa dimostrare, eventualmente
anche mediante strumenti procedimentali di c.d. “soccorso
istruttorio”, di avere tutti i prescritti requisiti morali
(oltre agli altri richiesti dal bando) sia escluso da una
procedura concorsuale.
Tale orientamento è stato valorizzato ed ha ricevuto il
definitivo avallo dalla pronunzia n. 16 del 30.07.2014
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che afferma
che l’intero impianto della ‘novella’ in esame:
- va interpretato come indice “della volontà del Legislatore
di evitare (… omissis …) esclusioni dalla procedura per mere
carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta
delle dichiarazioni); … (omissis …) e di autorizzare la
sanzione espulsiva quale conseguenza della sola
inosservanza, da parte dell’impresa concorrente,
dell’obbligo di integrazione documentale (entro il termine
perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione
appaltante)”;
- ed “indica la volontà univoca del legislatore di
valorizzare il potere di soccorso istruttorio al duplice
fine di evitare esclusioni formalistiche e di consentire le
più complete ed esaustive acquisizioni istruttorie”.
---------------
1. L’appello proposto dall’a.t.i. STRADE 2010–PERNICE
IMPIANTI, è infondato.
Con unico articolato motivo di gravame l’appellante si duole
dell’ingiustizia dell’impugnata sentenza, lamentando
violazione falsa applicazione del combinato disposto degli
artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del codice dei
contratti pubblici ed eccesso di potere giurisdizionale per
difetto d’istruttoria ed insufficiente motivazione,
deducendo che il Giudice di primo grado:
- ha erroneamente ritenuto che il Seggio di gara avrebbe
dovuto avviare il c.d. “soccorso istruttorio” e consentire
all’a.t.i. ITAL SYSTEM-DIVA di regolarizzare la propria
documentazione (producendo la dichiarazione di adesione al
Protocollo di Legalità mancante in atti);
- e parimenti erroneamente ritenuto che a seguito della
novella normativa in materia di “soccorso istruttorio”
(introdotta con la L. n. 114 del 2014), la ‘regolarizzazione’
sia ammissibile (e vada dunque ammessa) anche a fronte della
mancata produzione di un documento essenziale.
La doglianza non merita accoglimento.
Il Giudice di primo grado ha correttamente interpretato ed
applicato l’art. 38, comma 2-bis, del codice dei contratti
pubblici, come novellato dall’art. 39 della L. 11.08.2014
n. 114 (recante conversione in legge, con modificazioni, del DL. 24.06.2014 n. 90).
La citata norma prevede:
- che in caso di mancanza, incompletezza o altra
irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni
che il concorrente sia tenuto a produrre per dimostrare il
possesso dei requisiti generali (e di moralità) necessari
per partecipare alla gara d’appalto, la Stazione appaltante
“assegna (…) un termine, non superiore a dieci giorni,
perché siano rese, integrate o regolarizzate le
dichiarazioni necessarie (…)”;
- e che l’esclusione del concorrente dalla gara può essere
disposta solamente nel caso in cui lo stesso non provveda
alla regolarizzazione entro il termine assegnatogli.
Ciò significa:
- che la regolarizzazione è ammessa anche nel caso in cui la
ditta partecipante alla gara abbia del tutto omesso di
produrre una delle dichiarazioni relative al possesso dei
‘requisiti di ordine generale’ (o ‘requisiti generali’);
- e che nel caso in cui la ditta concorrente sia in possesso
dei predetti ‘requisiti generali’ (e dei requisiti morali)
ma abbia omesso di dichiararlo (o abbia effettuato una
dichiarazione lacunosa o poco chiara), può regolarizzare la
sua posizione (e colmare così tale lacuna documentale)
producendo, entro il termine assegnato dal Seggio di Gara,
la prescritta dichiarazione (o una più completa ed esaustiva
dichiarazione).
Tale norma, dunque:
- ha determinato il superamento del precedente sistema di
principi in tema di ‘soccorso istruttorio’ (enunciati in
Ad. Pl. 25.02.2014 n. 9); sistema che escludeva la possibilità
di ricorrere alla “regolarizzazione documentale” nei casi di
omessa produzione di un documento (prescritto a pena di
esclusione), e che limitava la possibilità di utilizzo
dell’istituto in questione ai soli casi di avvenuta
produzione di documenti contenenti errori, lacune o
ambiguità;
- e si è posta sulla scia dell’orientamento
giurisprudenziale “sostanzialistico” -via via affermatosi
(in aderenza al disposto dell’art. 45 della Direttiva
n. 2004/18/CE, e sulla scorta di C.S., Ad. Pl. 16.10.2013
n. 23)- secondo cui solamente la reale mancanza di un
requisito generale legittima la esclusione dalla gara (C.S., III,
06.02.2014 n. 583); infine culminato nell’affermazione
secondo cui non appare giusto né equo che un soggetto che
possa dimostrare, eventualmente anche mediante strumenti
procedimentali di c.d. “soccorso istruttorio”, di avere
tutti i prescritti requisiti morali (oltre agli altri
richiesti dal bando) sia escluso da una procedura
concorsuale (C.S., III, 21.05.2015 nn. 5038 e 5041).
Tale orientamento è stato valorizzato ed ha ricevuto il
definitivo avallo dalla pronunzia n. 16 del 30.07.2014
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che afferma
che l’intero impianto della ‘novella’ in esame:
- va interpretato come indice “della volontà del Legislatore
di evitare (… omissis …) esclusioni dalla procedura per mere
carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta
delle dichiarazioni); … (omissis …) e di autorizzare la
sanzione espulsiva quale conseguenza della sola
inosservanza, da parte dell’impresa concorrente,
dell’obbligo di integrazione documentale (entro il termine
perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione
appaltante)” (C.S., Ad.Pl., 30.07.2014 n. 16);
- ed “indica la volontà univoca del legislatore di
valorizzare il potere di soccorso istruttorio al duplice
fine di evitare esclusioni formalistiche e di consentire le
più complete ed esaustive acquisizioni istruttorie” (C.S., Ad.Pl., ult. sent. cit.)
(C.G.A.R.S.,
sentenza 20.04.2016 n. 116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ausiliaria insostituibile?
Il Cds rinvia alla corte di giustizia Ue.
Rinviata alla Corte di giustizia europea la questione di
legittimità comunitaria del codice dei contratti pubblici
che, in caso di avvalimento, non consente la sostituzione
dell'impresa ausiliaria a seguito della perdita dei
requisiti dell'impresa ausiliaria.
È quanto ha disposto l'ordinanza
15.04.2016 n. 1522 con la quale il Consiglio di
Stato -Sez. IV- ha rimesso alla Corte di giustizia una
questione pregiudiziale inerente l'esclusione di un
concorrente a causa della perdita, in corso di gara, dei
requisiti di qualificazione della ausiliaria indicata.
In questo caso la normativa nazionale italiana (art. 49 del
decreto 163/2006) attuativa della direttiva 2004/18/Ce,
mentre ammette, in applicazione dell'art. 47 secondo comma e
48 terzo comma della direttiva 2004/18/Ce (ora sostituiti
dalla disciplina dell'art. 63 della direttiva 2014/24/Ue)
che il concorrente possa avvalersi dei requisiti e
attestazioni di altra impresa cosiddetta ausiliaria, non
consente espressamente, e a differenza di quanto previsto,
sia pure per la fase di esecuzione dall'art. 38 commi 17 e
18 dello stesso dlgs 163/2006, che in caso di perdita o
riduzione dei requisiti di partecipazione in capo
all'impresa ausiliaria indicata essa possa essere sostituita
con altra impresa.
La disciplina normativa comunitaria assegna, invece,
rilievo, in chiave sostanziale, alla prova che l'impresa di
cui il concorrente si avvale abbia i requisiti di capacità
economica e finanziaria e tecnica, e l'art. 69 stabilisce,
nel caso in cui il soggetto indicato «non soddisfa un
pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono
motivi obbligatori di esclusione», che l'amministrazione
aggiudicatrice imponga al concorrente di sostituire tale
soggetto privo del requisito.
Per il consiglio di stato esiste quindi il dubbio se la
normativa nazionale sia compatibile con la normativa
comunitaria, nella parte in cui esclude (o possa essere
interpretata nel senso che esclude) la possibilità per il
concorrente di indicare altra impresa in luogo di quella
originariamente assunta quale «impresa ausiliaria»,
che abbia perduto o abbia visto ridurre i requisiti di
partecipazione, e quindi comporti l'esclusione
dell'operatore economico dalla gara per fatto non a lui
riconducibile né oggettivamente né soggettivamente (articolo ItaliaOggi del 22.04.2016).
---------------
MASSIMA
La normativa nazionale rilevante.
12.) L’art. 40 del d.lgs. 12.04.2006 n.163 (“Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”),
intitolato “Qualificazione per eseguire lavori pubblici”
dispone, per quanto qui rileva, che: “1. I soggetti
esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici devono
essere qualificati e improntare la loro attività ai principi
della qualità, della professionalità e della correttezza.
Allo stesso fine i prodotti, i processi, i servizi e i
sistemi di qualità aziendali impiegati dai medesimi soggetti
sono sottoposti a certificazione, ai sensi della normativa
vigente.
2. Con il regolamento previsto dall'articolo 5, viene
disciplinato il sistema di qualificazione, unico per tutti
gli esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici, di
importo superiore a 150.000 euro, articolato in rapporto
alle tipologie e all'importo dei lavori stessi. Con il
regolamento di cui all'articolo 5 possono essere altresì
periodicamente revisionate le categorie di qualificazione
con la possibilità di prevedere eventuali nuove categorie.”
L’art. 49 dello stesso d.lgs. n. 163/2006, intitolato “Avvalimento”
a sua volta, stabilisce, per quanto qui interessa, che: "Il
concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi
dell'articolo 34, in relazione ad una specifica gara di
lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta
relativa al possesso dei requisiti di carattere economico,
finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione
della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un
altro soggetto o dell'attestazione SOA di altro soggetto”.
La normativa comunitaria rilevante.
13.) L’art. 47 della Direttiva 2004/18/CE al secondo alinea,
intitolato “Capacità economica e finanziaria” prevede
che: “Un operatore economico può, se del caso e per un
determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di
altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei
suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare
alla amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi
necessari, ad esempio mediante presentazione dell'impegno a
tal fine di questi soggetti”.
L’art. 48 successivo, intitolato “Capacità tecniche e
professionali”, a sua volta, al terzo alinea stabilisce
che: “Un operatore economico può, se del caso e per un
determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di
altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei
suoi legami con questi ultimi. Deve, in tal caso, provare
all'amministrazione aggiudicatrice che per l'esecuzione
dell'appalto disporrà delle risorse necessarie ad esempio
presentando l'impegno di tale soggetto di mettere a
disposizione dell'operatore economico le risorse necessarie”.
L’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE del 26.02.2014,
intitolato “Affidamento sulle capacità di altri soggetti”,
prevede per quanto qui rileva che (corsivi dell’estensore):
"1. Per quanto riguarda i criteri relativi alla capacità
economica e finanziaria stabiliti a norma dell'articolo 58,
paragrafo 3, e i criteri relativi alle capacità tecniche e
professionali stabiliti a norma dell'articolo 58, paragrafo
4, un operatore economico può, se del caso e per un
determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di
altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei
suoi legami con questi ultimi.
Per quanto riguarda i criteri relativi all'indicazione dei
titoli di studio e professionali di cui all'allegato XII,
parte II, lettera f), o alle esperienze professionali
pertinenti, gli operatori economici possono tuttavia fare
affidamento sulle capacità di altri soggetti solo se questi
ultimi eseguono i lavori o i servizi per cui tali capacità
sono richieste. Se un operatore economico vuole fare
affidamento sulle capacità di altri soggetti, dimostra
all'amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi
necessari, ad esempio mediante presentazione dell'impegno
assunto da detti soggetti a tal fine.
L'amministrazione aggiudicatrice verifica, conformemente
agli articoli 59, 60 e 61, se i soggetti sulla cui capacità
l'operatore economico intende fare affidamento soddisfano i
pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di
esclusione ai sensi dell'articolo 57. L'amministrazione
aggiudicatrice impone che l'operatore economico sostituisca
un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di
selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di
esclusione. L'amministrazione aggiudicatrice può imporre o
essere obbligata dallo Stato membro a imporre che
l'operatore economico sostituisca un soggetto per il quale
sussistono motivi non obbligatori di esclusione.
Se un operatore economico si affida alle capacità di altri
soggetti per quanto riguarda i criteri relativi alla
capacità economica e finanziaria, l'amministrazione
aggiudicatrice può esigere che l'operatore economico e i
soggetti di cui sopra siano solidalmente responsabili
dell'esecuzione del contratto”.
L’art. 91 della Direttiva 2014/24/UE, nello stabilire che la
“La direttiva 2004/18/CE è abrogata a decorrere dal
18.04.2016”, precisa che “I riferimenti alla
direttiva abrogata si intendono fatti alla presente
direttiva e si leggono secondo la tavola di concordanza di
cui all'allegato XV”.
La tavola di concordanza di cui all’allegato XV nella parte
che interessa è così formulata: Articolo 63, paragrafo 1
Articolo 47, paragrafi 2 e 3; articolo 48, paragrafi 3 e 4
Articolo 63, paragrafo 2 —
I possibili profili di contrasto tra la normativa
nazionale e la normativa comunitaria.
14.) La normativa nazionale italiana, attuativa della
direttiva 2004/18/CE, e segnatamente l’art. 49 del d.lgs. n.
163/2006, mentre ammette, in attuazione dell’art. 47 secondo
alinea e 48 terza alinea della Direttiva 2004/18/CE (ora
sostituiti dalla disciplina dell’art. 63 della Direttiva
2014/24/UE) che il concorrente possa avvalersi dei requisiti
e attestazioni di altra impresa c.d. ausiliaria, non
consente espressamente, e a differenza di quanto previsto,
sia pure per la fase di esecuzione dall’art. 38, commi 17 e
18, dello stesso d.lgs. n. 163/2006, che in caso di perdita
o riduzione dei requisiti di partecipazione in capo
all’impresa ausiliaria indicata essa possa essere sostituita
con altra impresa.
La disciplina normativa comunitaria assegna, dunque,
rilievo, in chiave sostanziale, alla prova che l’impresa di
cui il concorrente si avvale abbia i requisiti di capacità
economica e finanziaria e tecnica, e l’art. 69 innanzi
citato stabilisce, nel caso in cui il soggetto indicato “non
soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale
sussistono motivi obbligatori di esclusione”, che
l’amministrazione aggiudicatrice impone all’operatore
economico, ossia a soggetto che concorre alla gara, di
sostituire tale soggetto.
Si pone, quindi, ad avviso del Collegio, il dubbio se la
normativa nazionale, nella parte in cui esclude, o possa
essere interpretata nel senso che esclude, la possibilità
per l’operatore economico, ossia per il soggetto che
concorre alla gara, di indicare altra impresa in luogo di
quella originariamente assunta quale “impresa ausiliaria”,
che abbia perduto o abbia visto ridurre i requisiti di
partecipazione, e quindi comporti l’esclusione
dell’operatore economico dalla gara per fatto non a lui
riconducibile né oggettivamente né soggettivamente, sia
compatibile con la normativa comunitaria.
In tal senso il Collegio ritiene di dover pertanto
sottoporre alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la
seguente questione pregiudiziale: “Se
gli artt. 47 secondo alinea e 48 terzo alinea della
Direttiva 2004/18/CE, come sostituiti dall’art. 63 della
Direttiva 2014/24/UE ostino ad una disciplina normativa
nazionale che esclude, o possa essere interpretata nel senso
che esclude, la possibilità per l’operatore economico, ossia
per il soggetto che concorre alla gara, di indicare altra
impresa in luogo di quella originariamente assunta quale
“impresa ausiliaria”, che abbia perduto o abbia visto
ridurre i requisiti di partecipazione, e quindi comporti
l’esclusione dell’operatore economico dalla gara per fatto
non a lui riconducibile né oggettivamente né soggettivamente”.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta) visti l’articolo 267 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea, l’articolo 79 del codice del processo
amministrativo e l’art. 295 del codice di procedura civile,
chiede alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di
pronunciarsi in via pregiudiziale sulla questione di
interpretazione del diritto dell’Unione europea specificata
in motivazione.
Ordina la sospensione del processo relativo all'appello n.r.
6073/2015 e la trasmissione di copia della presente
ordinanza alla Cancelleria della Corte di Giustizia
dell'Unione Europea. |
EDILIZIA PRIVATA: La
crisi edilizia non giustifica la proroga dei termini del
permesso di costruire.
La crisi economica, che ha afflitto il
settore dell'edilizia, non è un motivo che può consentire la
proroga sic et simpliciter dei termini di inizio e/o fine
lavori del PDC.
Invero, in base all'art. 15 del DPR 06.06.2001 n. 380, i
termini de quibus possono esser prorogati con provvedimento
motivato solo per fatti sopravvenuti estranei alla volontà
del titolare del PDC, o in considerazione della mole
dell'opera da realizzare o di particolari sue
caratteristiche tecnico-costruttive.
La crisi congiunturale dell'edilizia non è pertanto una
valida ragione opponibile all’inutile decorso dei termini
predetti, né per giustificare l'inerzia del titolare del PDC,
perché fa riferimento a considerazioni generiche non
rilevanti rispetto all'obbligo di osservare i tempi d’inizio
e completamento dei lavori.
Inoltre, è jus receptum, che la decadenza costituisce
l’effetto automatico dell’inutile decorso del termine entro
cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere.
Pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì
dichiarativa con efficacia ex tunc d’un effetto verificatosi
ex se e direttamente.
In tal modo va letto l’art. 15, c. 2, II per. del DPR
380/2001, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti
termini, «…il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga…».
---------------
... per la riforma della
sentenza 14.11.2014 n. 449 del TAR
Abruzzo–Pescara, resa tra le parti e relativa
all’approvazione del nuovo PRG di Lanciano ed alla
classificazione di terreni come agricoli (decadenza dei
permessi di costruire e demolizione di opere edilizie);
...
1. – Il Comune di Lanciano impugna la sentenza con cui il
del TAR Pescara ha accolto il ricorso di una impresa edile,
inerente alla decadenza di essa dai suoi titoli edilizi
(quello originario del 2005 per sei villette; quello in
variante del 2007 per la realizzazione di altre otto) per
effetto o a seguito del nuovo PRG, in virtù del quale le sue
aree d’intervento in parte son state inserite in zona
agricola e sottoposte a vincolo idrogeologico in base alle
disposizione del vigente PAI locale.
2. – Va anzitutto esaminato l’appello incidentale proposto
dalla predetta impresa, in quanto il suo eventuale
accoglimento determinerebbe l’improcedibilità di quello del
Comune.
Quanto al primo motivo incidentale, relativo all’omessa
valutazione, da parte del TAR, della data in cui s’è
verificata la decadenza dei due PDC, predica l’appellante
incidentale che vi sia un differente termine d’inizio e fine
lavori per ciascun titolo edilizio.
Ora, si può discettare se il titolo in variante del 2007
rechi, o no una mera aggiunta di opere del tutto nuove e
diverse rispetto al PDC del 2005 e se vi sia una perfetta
autonomia del secondo dal primo, onde a ciascuno di essi si
applicherebbero i rispettivi termini d’inizio e fine lavori
e per le sole opere colà previste.
Ciò che qui rileva, ai fini della decadenza d’entrambi i PDC,
è che essa non può che operare in via automatica, se non si
verifichi la conclusione dei relativi lavori «… entro il
termine di tre anni dalla data di inizio…» di essi.
A ben vedere, il PDC n. 104/2007 ha disposto sì detta
variante, ma con la conferma delle «… condizioni tutte
prescritte nell’originaria concessione compreso il termine
per l’ultimazione dei lavori…», sicché il dies ad
quem, al momento della disposta decadenza, s’era
consumato non per scelta della P.A., bensì per la
sostanziale incapacità dell’appellante incidentale di
terminare già le sole prime tre villette.
Al riguardo, basta rammentare ciò che disse quest’ultima nel
suo atto per motivi aggiunti in primo grado (pag. 3), quando
fece presente l’inizio dei lavori del PDC originario in data
04.06.2006, ossia ben prima della variante predetta. Né
serve richiamare quindi la giurisprudenza sui criteri
d’interpretazione del provvedimento amministrativo con
clausole contraddittorie, giacché, negli stessi motivi
aggiunti (pag. 4) e alla data del 29.11.2011 «… le
strutture realizzate sono solo tre su otto di cui una sola
porzione ultima (particella 4552) e altre tre da ultimare e
verranno presumibilmente definite nei prossimi 3-5 anni a
causa della crisi economica ed edilizia in atto…».
Sicché, pure ad accedere alla tesi dell’impresa e
tralasciando il termine del PDC del 2005, il termine di
complessivi quattro anni indicati nel PDC del 18.05.2008
alla data del 29.11.2011 era trascorso senza che le opere
della “variante” fossero state ultimate.
Non va sottaciuto certo, a fronte della risposta che
l’appellante incidentale diede al Comune ed alla SCIA del
03.02.2012 per l’ultimazione delle opere a quel tempo ancora
incompiute, il chiaro principio affermato dalla Sezione
(cfr. Cons. St., IV, 06.10.2014 n. 4975) e secondo il quale
la crisi economica, che ha afflitto il settore
dell'edilizia, non è un motivo che può consentire la proroga
sic et simpliciter del PDC.
Invero, in base all'art. 15 del DPR 06.06.2001 n. 380, i
termini de quibus possono esser prorogati con provvedimento
motivato solo per fatti sopravvenuti estranei alla volontà
del titolare del PDC, o in considerazione della mole
dell'opera da realizzare o di particolari sue
caratteristiche tecnico-costruttive.
La crisi congiunturale dell'edilizia non è pertanto una
valida ragione opponibile all’inutile decorso dei termini
predetti, né per giustificare l'inerzia del titolare del PDC,
perché fa riferimento a considerazioni generiche non
rilevanti rispetto all'obbligo di osservare i tempi d’inizio
e completamento dei lavori.
Inoltre, è jus receptum (cfr., per tutti, Cons. St.,
IV, 07.09.2011 n. 5028; id., 11.04.2014 n. 1747; ma cfr.
pure id., III, 04.04.2013 n. 1870), che la decadenza
costituisce l’effetto automatico dell’inutile decorso del
termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e
concludere. Pertanto, essa ha natura non già costitutiva,
bensì dichiarativa con efficacia ex tunc d’un effetto
verificatosi ex se e direttamente (giurisprudenza
prevalente: cfr. Cons. St., IV, 04.03.2014 n. 1013).
In tal modo va letto l’art. 15, c. 2, II per. del DPR
380/2001, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti
termini, «…il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga…».
Restano così assorbite tutte le questioni su tal natura
dichiarativa, nonché sulla necessità dell’avviso d’avvio del
procedimento di decadenza —del tutto superfluo nel caso in
esame—, sulle quali il Collegio non può che condividere
quanto statuito dal TAR.
Anzi, come fa presente il Comune di Lanciano, nella specie,
più che il c. 2, s’applica il successivo c. 4, per cui «…
il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti
previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già
iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio…».
Poiché nel caso in esame tutti tali termini erano già
decorsi almeno al 29.11.2011, l’appellante incidentale
nemmeno può godere delle proroghe ex art. 30, c. 3, del DL
21.06.2013 n. 69 e di quelle successivamente intervenute.
Scolorano dunque le questioni sulla compatibilità, o non
delle opere con le prescrizioni del PAI, all’interno della
cui zona di rischio molto elevato ricade una parte
dell’intervento costruttivo dell’appellante incidentale.
Infatti, di completato ed in parte, in via di definizione,
delle tre villette, ce n’è solo una, la quale, quand’anche
non ricadesse del tutto in area PAI P3, comunque sarebbe in
area agricola, donde in ogni caso la rigorosa soggezione di
essa alla valutazione ai sensi non solo dell’art. 14 delle
NTA del nuovo PRG (il quale però subordina la legittimità
dei PDC anteriormente rilasciati per la SOLA loro durata),
ma pure e soprattutto del già citato art. 15, c. 4.
Da ciò discende, una volta appurata siffatta soggezione e
sussistendo dubbi sulla possibilità del loro completamento,
la non necessità, anzi l’inutilità d’acquisire, a cura del
Comune stesso, il parere della competente Autorità di bacino
sugli edifici stessi e sui lavori ancora da definire
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.04.2016 n. 1520 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti: illegittima la rinnovazione delle operazioni di
gara ad offerte aperte.
Se la commissione di gara,
illegittimamente nominata prima della scadenza termine di
presentazione delle offerte, ha interamente concluso i
propri lavori, procedendo all’apertura delle buste
contenenti le offerte economiche, non è possibile procedere
ad una nuova valutazione delle offerte da parte della
commissione rinominata in una diversa composizione.
In tal caso, il procedimento di gara deve intendersi
interamente annullato ed insuscettibile di una parziale
rinnovazione.
Questo il principio espresso dal TAR Piemonte, Sez. I, con
la
sentenza 15.04.2016 n. 503.
Nel caso si specie la stazione appaltante aveva annullato in
autotutela la nomina della commissione originaria e gli atti
della procedura da questa compiuti perché i membri della
commissione erano stati nominati prima della scadenza del
termine per la presentazione delle offerte, mantenendo ferme
la documentazione amministrativa e le offerte già
presentate, successivamente rivalutate da una nuova
commissione.
Sul punto è sufficiente richiamare il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, nelle gare da aggiudicarsi
con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
la conoscenza dell’entità dell’offerta economica prima della
valutazione dell’offerta tecnica mette in pericolo la
garanzia dell’imparzialità dell’operato dell’organo
valutativo.
Il principio di segretezza dell’offerta economica si pone
infatti a presidio dell’attuazione della regola
costituzionale di imparzialità e buon andamento dell’azione
amministrativa, sub specie della trasparenza e della par
condicio tra i concorrenti.
Di conseguenza, non è possibile procedere alla rinnovazione
delle operazioni di gara se le offerte economiche sono già
state aperte e conosciute (commento tratto da
www.self-entilocali.it).
---------------
MASSIMA
- che, nel merito, il ricorso è fondato;
- che la rinnovazione della procedura a
partire dalla nomina dei commissari di gara, mantenendo però
ferme le offerte già presentate e valutate dal precedente
seggio, ha determinato l’evidente violazione dei principi di
segretezza delle offerte e di par condicio tra le imprese
concorrenti, in quanto la nuova commissione di gara si è
trovata a giudicare su offerte già note, specialmente nella
componente del prezzo;
- che, come precisato dalla dominante giurisprudenza
amministrativa, nei casi in cui la
procedura di gara pubblica (come nell’ipotesi di
aggiudicazione dell'appalto con il sistema dell'offerta
economicamente più vantaggiosa) è caratterizzata da una
netta separazione tra la fase della valutazione dell'offerta
tecnica e quella dell'offerta economica, il principio della
segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa
la valutazione delle offerte tecniche, le offerte economiche
devono restare segrete, dovendo essere interdetta al seggio
di gara la conoscenza degli elementi economici e, in
particolare, delle percentuali di ribasso, proprio per
evitare ogni influenza sulla valutazione dell'offerta
tecnica; il principio di segretezza dell'offerta economica
si pone infatti a presidio dell'attuazione della regola
costituzionale di imparzialità e buon andamento dell'azione
amministrativa, sub specie della trasparenza e della par
condicio tra i concorrenti, dovendosi così necessariamente
garantire la libera valutazione dell'offerta tecnica; ed
invero, la sola possibilità di conoscere gli elementi
attinenti l'offerta economica consente di modulare il
giudizio sull'offerta tecnica sì da poterne sortire un
effetto potenzialmente premiante nei confronti di una delle
offerte complessivamente considerate e tale possibilità,
anche solo eventuale, va ad inficiare la regolarità della
procedura (così di
recente, tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 824
del 2016; cfr. anche, nello stesso senso, TAR Sicilia,
Catania, sez. II, sent. n. 1396 del 2015; TAR
Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, sent. n. 394 del 2015; TAR
Lazio, Latina, sez. I, sent. n. 142 del 2015; Cons. Stato,
sez. III, sent. n. 5057 del 2014);
- che a conclusioni diverse non può condurre la pur invocata
sentenza n. 30 del 2012 dell’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato, relativa alla diversa fattispecie in cui
un’offerta sia stata illegittimamente pretermessa e venga
riammessa in gara a seguito del giudicato di annullamento
dell’esclusione, situazione in cui –come precisato dalla
stessa Adunanza plenaria– la conseguente valutazione
dell’offerta pretermessa avviene in un momento in cui i
giudizi sulle offerte concorrenti sono ormai del tutto
definiti;
- che, pertanto, con assorbimento delle ulteriori censure,
va disposto l’annullamento di tutti gli atti impugnati, ai
fini della riedizione della gara, mentre –con riguardo alla
pur domandata pronuncia di declaratoria di inefficacia del
contratto– non consta che sia stato stipulato il contratto
di appalto tra l’amministrazione e l’impresa
controinteressata;
- che le spese del giudizio devono tuttavia essere
compensate tra le parti, avuto riguardo alla natura del
vizio caducante la procedura, salva però –ai sensi dell’art.
13, comma 6-bis.1, del d.P.R. n. 115 del 2002– la condanna
dell’Istituto resistente alla restituzione del contributo
unificato versato dalla ricorrente per la presente causa; |
APPALTI: L’art.
38, comma 1, lett. m-quater) del d.lgs. n. 163/2006 prevede
l’esclusione dei concorrenti che si trovino, “rispetto ad un
altro partecipante alla medesima procedura di affidamento,
in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del
codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto,
se la situazione di controllo o la relazione comporti che le
offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
Il comma 2 dell’articolo precisa che tale esclusione possa
avvenire soltanto “sulla base di univoci elementi”.
Ciò posto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto ampio
modo di sottolineare l'estremo rigore che deve ispirare
l'esame circa l’esistenza in concreto dei presupposti
applicativi della previsione appena vista, la quale
presuppone la rilevazione di elementi oggettivi e
concordanti tali da ingenerare un effettivo pericolo, sotto
il profilo in rilievo, per il rispetto dei principi di
segretezza, serietà delle offerte e par condicio tra i
concorrenti.
La stessa giurisprudenza ha altresì individuato, nel tempo,
diversi elementi indiziari da cui poter desumere la
sussistenza di un collegamento sostanziale rilevante ai fini
della causa di esclusione in questione, quali:
- intrecci societari, derivanti dall'identità dei soci o
degli amministratori ovvero da stretti rapporti parentali
esistenti fra i membri degli organi amministrativi delle
imprese;
- identità delle sedi legali;
- identità delle utenze telefoniche;
- provenienza dallo stesso ufficio postale del plico
contenente l'offerta;
- costituzione delle cauzioni provvisorie con polizze
fideiussorie rilasciate dalla medesima compagnia di
assicurazioni o agenzia, nonché nella stessa data.
La giurisprudenza ha precisato, infine, che l'esclusione
dalla gara può essere disposta, sotto l’aspetto in discorso,
solo a fronte di una pluralità di indizi gravi, precisi e
concordanti.
---------------
5d L’art. 38, comma 1, lett. m-quater) del d.lgs. n.
163/2006 prevede l’esclusione dei concorrenti che si
trovino, “rispetto ad un altro partecipante alla medesima
procedura di affidamento, in una situazione di controllo di
cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi
relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o
la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un
unico centro decisionale”. Il comma 2 dell’articolo
precisa che tale esclusione possa avvenire soltanto “sulla
base di univoci elementi”.
Ciò posto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto ampio
modo di sottolineare l'estremo rigore che deve ispirare
l'esame circa l’esistenza in concreto dei presupposti
applicativi della previsione appena vista, la quale
presuppone la rilevazione di elementi oggettivi e
concordanti tali da ingenerare un effettivo pericolo, sotto
il profilo in rilievo, per il rispetto dei principi di
segretezza, serietà delle offerte e par condicio tra i
concorrenti (C.d.S., VI, 02.02.2015, n. 462; V, 20.08.2013,
n. 4198).
La stessa giurisprudenza ha altresì individuato, nel tempo,
diversi elementi indiziari da cui poter desumere la
sussistenza di un collegamento sostanziale rilevante ai fini
della causa di esclusione in questione, quali "intrecci
societari, derivanti dall'identità dei soci o degli
amministratori ovvero da stretti rapporti parentali
esistenti fra i membri degli organi amministrativi delle
imprese; identità delle sedi legali; identità delle utenze
telefoniche; provenienza dallo stesso ufficio postale del
plico contenente l'offerta; costituzione delle cauzioni
provvisorie con polizze fideiussorie rilasciate dalla
medesima compagnia di assicurazioni o agenzia, nonché nella
stessa data"; la giurisprudenza ha precisato, infine,
che l'esclusione dalla gara può essere disposta, sotto
l’aspetto in discorso, solo a fronte di una pluralità di
indizi gravi, precisi e concordanti (in termini, C.d.S., III,
23.12.2014, n. 6379; cfr. anche V, 08.04.2014, n. 1668)
(C.G.A.R.S.,
sentenza 15.04.2016 n. 101 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Cliente è chi fa procura. Tra gli effetti,
l'obbligo di pagare il legale. La
Cassazione pone una parola chiarificatrice sulla
qualificazione.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione con una
sentenza 14.04.2016 n. 7382 ha posto una parola
chiarificatrice circa la qualificazione del cliente nei
rapporti con un avvocato: cliente, cioè colui che sarà
tenuto al pagamento del compenso professionale, dovrà essere
considerato chi ha materialmente rilasciato la procura alle
liti.
I giudici di piazza Cavour nella sentenza in commento hanno
altresì evidenziato come un ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale abbia chiarito che l'accertamento di quale
sia la situazione ricorrente di volta in volta nel caso
concreto -cioè se la procura al legale che chieda il
pagamento del compenso sia stata conferita dal legale che
abbia ricevuto la procura alle liti dal cliente (ex art.
2232 c.c.) oppure (come nel nostro caso) direttamente dallo
stesso cliente finale- sia una questione di fatto che,
essendo rimessa alla valutazione del giudice di merito, si
sottrae al vaglio di legittimità della Cassazione.
Il caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini vedeva un
avvocato, Tizio, che proponeva diversi decreti ingiuntivi
per il pagamento di alcuni compensi nei confronti di alcuni
clienti, alcuni dei quali pienamente accordati, altri
ridotti e la Corte d'appello aveva rigettato i motivi di
gravame con i quali alcuni dei destinatari dei decreti
avevano dedotto l'insussistenza di un rapporto professionale
tra loro e l'avvocato Tizio, ma solo con l'avvocato Caio al
quale avevano corrisposto il compenso.
Secondo i giudici della Corte d'appello era, comunque,
dimostrato con il rilascio della procura alle liti il
conferimento di specifici mandati professionali anche a
Tizio, che li aveva espletati in aggiunta al mandato
conferito all'altro avvocato.
I giudici di merito avevano accertato che la procura
all'avvocato Tizio era stata conferita direttamente dai
ricorrenti e avevano precisato che l'opera da lui svolta non
rientrava tra le attività costituenti oggetto della
collaborazione professionale in esclusiva con Caio e che il
primo non faceva parte dello studio del secondo.
L'affermazione secondo la quale non ci sarebbero stati
contatti diretti tra i ricorrenti e l'avv. Tizio non
scalfisce, secondo i giudici della Cassazione, la portata
del suddetto accertamento, dal quale i giudici di merito
hanno tratto la conclusione del conferimento al medesimo
avv. G. del mandato di patrocinio professionale.
Questa conclusione, secondo la Suprema corte, è conforme a
diritto, poiché «se è vero che per la conclusione del
contratto di patrocinio con il cliente non occorre il
rilascio della procura ad litem, che è necessaria solo per
il compimento dell'attività processuale (v., da ultimo,
Cass. n. 13927/2015), e se è anche vero (...) che obbligato
al pagamento del compenso potrebbe essere chi non ha dato la
procura, è però anche vero che, in mancanza di una prova del
conferimento dell'incarico professionale da parte di altro
soggetto, si deve «presumere che il cliente è colui che ha
rilasciato la procura» e, quindi, è tenuto al pagamento (v.
Cass. n. 13401/2015, n. 26060/2013, n. 4959/2012)»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Con
riguardo alla richiesta di ostensione del certificato di
destinazione urbanistica, il predetto atto rientra nella
categoria degli atti di certificazione, redatti da pubblico
ufficiale, aventi carattere dichiarativo o certificativo del
contenuto di atti pubblici preesistenti e non può essere
sussunto nella categoria del "documento amministrativo",
così come definito dall'art. 22 lett. "d" della l. n.
241/1990 e s.m.i., in materia di accesso agli atti ("ogni
rappresentazione grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale"), costituendo l'esercizio
di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base
degli atti di strumentazione urbanistica.
Ne consegue che, il rilascio dei certificati di destinazione
urbanistica non può avvenire nelle forme del diritto di
accesso, ma secondo le specifiche fonti normative,
legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano
tali tipi di atti amministrativi.
---------------
5. A diverse conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla
richiesta di ostensione del certificato di destinazione
urbanistica, tenuto conto che il predetto atto rientra nella
categoria degli atti di certificazione, redatti da pubblico
ufficiale, aventi carattere dichiarativo o certificativo del
contenuto di atti pubblici preesistenti e non può essere
sussunto nella categoria del "documento amministrativo",
così come definito dall'art. 22 lett. "d" della l. n.
241/1990 e s.m.i., in materia di accesso agli atti ("ogni
rappresentazione grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale"), costituendo
l'esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa
sulla base degli atti di strumentazione urbanistica (cfr. in
tal senso TAR Puglia Lecce, sez. II, 17.09.2009, n. 2121).
Ne consegue che, il rilascio dei certificati di destinazione
urbanistica non può avvenire nelle forme del diritto di
accesso, ma secondo le specifiche fonti normative,
legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano
tali tipi di atti amministrativi.
La relativa domanda va pertanto respinta (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 13.04.2016 n. 1793
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Va
dichiarato il difetto di giurisdizione sulla richiesta di
condanna dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo
o al risarcimento del danno per il mancato godimento del
bene conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili
attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la
compromissione delle facoltà di godimento del proprietario,
laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti
impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto
espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito,
in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale
devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art.
39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)".
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o
del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla
legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di
carattere patrimoniale devolute alla cognizione della
giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il
difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la
possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente
giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal
passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e
per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del
processo amministrativo.
---------------
... per l'annullamento ex art. 116 c.p.a. del provvedimento
di diniego formatosi a seguito del silenzio serbato
sull'istanza volta a richiedere l'ostensione dei documenti
di seguito precisati;
nonché:
- per l’accertamento ex art. 117 c.p.a. dell’illegittimità
del silenzio serbato dall’amministrazione comunale
sull’istanza trasmessa a mezzo pec in data 01.09.2015 per
l’indennizzo e/o il risarcimento dell’importo quantificato
in € 21.505,90 per il pregiudizio sofferto in ragione
dell’ingiustificato peso protrattosi per anni in assenza di
esecuzione del p.i.p.;
- per l’accertamento della fondatezza, ai sensi dell’art.
31, comma 3 c.p.a., delle pretese azionate e
dell’ingiustificato peso subito dal diritto di proprietà in
assenza di una pronta e tempestiva esecuzione del piano;
...
2. Preliminarmente, come da rilievo d’ufficio ai sensi
dell’art. 73, comma 3 c.p.a., va dichiarato il difetto di
giurisdizione sulla richiesta di condanna
dell’amministrazione al pagamento di un indennizzo o al
risarcimento del danno per il mancato godimento del bene
conseguito al vincolo espropriativo rimasto ineseguito.
Ed infatti, secondo condivisa giurisprudenza, "i profili
attinenti alla spettanza o meno di un indennizzo per la
compromissione delle facoltà di godimento del proprietario,
laddove non si contesti la legittimità dei provvedimenti
impositivi o reiterativi di vincoli di contenuto
espropriativo, esulano dalla cognizione del giudice adito,
in quanto riguardano questioni di carattere patrimoniale
devolute alla cognizione della giurisdizione civile (art.
39, I, D.P.R. n. 327 del 2001, T.U. Espropriazione per p.u.)"
(Cons. di St., sez. IV, 14.04.2015, n. 1887).
I profili attinenti la spettanza o meno di un indennizzo o
del risarcimento del danno non attengono, infatti, alla
legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di
carattere patrimoniale devolute alla cognizione della
giurisdizione civile.
Sulla base di quanto esposto, va, quindi, dichiarato il
difetto di giurisdizione del giudice adito, salva la
possibilità di riassumere il ricorso innanzi al competente
giudice ordinario nel termine perentorio di tre mesi dal
passaggio in giudicato della presente decisione, ai sensi e
per gli effetti dell'articolo 11, comma 2, del codice del
processo amministrativo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 13.04.2016 n. 1793
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanatoria è caratterizzata, invero, dalla materiale
esistenza dell'opera ammessa, per l’appunto, a sanatoria.
Non è ammissibile il rilascio di una concessione in
sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie,
anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il
manufatto nell'alveo della legalità … tanto, infatti,
contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali
dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica.
E' "principio generale” che la Pubblica amministrazione
“deve verificare prima del rilascio del titolo in sanatoria
la compatibilità dello stesso con le norme vigenti”,
“assentendo la domanda in caso positivo e negandola nella
diversa ipotesi”, e che non è pertanto ipotizzabile
convenire con una domanda di sanatoria apponendo delle
condizioni, cosa che evidentemente significherebbe
l'accertamento di una solo parziale conformità del progetto
al piano regolatore e alla normativa edilizia comunale.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Dirigente il
Servizio sportello imprese e cittadini del Comune di Trento
di data 18.08.2015, prot. n. 155623/2015, con il quale è
stata respinta la richiesta di concessione edilizia in
sanatoria per opere abusive in p.ed. 1149, p.m. 10, sub 42,
in C.C. Cognola, via degli ...;
...
In punto di diritto, poi, il Collegio rammenta che la
giurisprudenza amministrativa, qui condivisa, afferma che:
- la sanatoria è caratterizzata, invero, dalla materiale
esistenza dell'opera ammessa, per l’appunto, a sanatoria
(cfr. C.d.S., Ad.Pl., 08.01.1986, n. 1);
- “non è ammissibile il rilascio di una concessione in
sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie,
anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il
manufatto nell'alveo della legalità … tanto, infatti,
contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali
dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica” (cfr. C.d.S.,
sez. IV, 08.09.2015, n. 4176, che testualmente dissente da
pronunce di primo grado, citate, che avevano affermato che
la “concessione edilizia in sanatoria può introdurre o
recepire prescrizioni tese ad imporre correttivi
sull'esistente, qualora si tratti di integrazioni minime, di
esigua entità” -quali, peraltro, non sarebbero quelle
oggetto della vicenda di causa);
- è “principio generale” che la Pubblica
amministrazione “deve verificare prima del rilascio del
titolo in sanatoria la compatibilità dello stesso con le
norme vigenti”, “assentendo la domanda in caso
positivo e negandola nella diversa ipotesi”, e che non è
pertanto ipotizzabile convenire con una domanda di sanatoria
apponendo delle condizioni, cosa che evidentemente
significherebbe l'accertamento di una solo parziale
conformità del progetto al piano regolatore e alla normativa
edilizia comunale (cfr. TAR Liguria, sez. I, 15.01.2016, n.
45; TAR Veneto, sez. I, 20.11.2015, n. 1239; TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 04.06.2014, n. 3066)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 13.04.2016 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'esclusione di un'impresa per grave errore
nell'esercizio dell'attività professionale di cui alla lett.
f) del c. 1 dell'art. 38, d.lgs. n. 163/2006.
La ratio dell'art. 38 della lett. f), c. 1, del
d.lgs. n. 163/2006 è quella di consentire alla stazione
appaltante di valutare la rilevanza del comportamento tenuto
dall'impresa partecipante nell'esercizio della attività
professionale, ai fini del buon esito dell'appalto da
affidare. Ne consegue che la esclusione per le ipotesi del
grave errore nell'esercizio dell'attività professionale di
cui alla lett. f) del c. 1 del citato art. 38, non assume
carattere sanzionatorio, inserendosi in un giudizio
prognostico della corretta esecuzione dell'appalto.
La fattispecie della dichiarazione "non veritiera" in
quanto priva della doverosa menzione di eventi la cui
valenza ostativa alla instaurazione di un rapporto
contrattuale è riservata alla stazione appaltante rimane
fuori dalla sanatoria introdotta dall'art. 38, c. 1-ter, del
d.lgs. n. 163/2006, in quanto non v'è la mancanza o la
carenza, bensì la diversa fattispecie di dichiarazione non
veritiera, con le conseguenze previste dal codice dei
contratti pubblici per l'ipotesi di falsa dichiarazione che
resta confermata anche in vigenza della novella introdotta
dal d.l. n. 90/2014 (anche l'ANAC, con la determinazione
08.01.2015 n. 1, nell'interpretare le novità introdotte dal
d.l. n. 90/2014 ha affermato che il soccorso istruttorio non
può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per
l'acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione
di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di
presentazione dell'offerta) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.04.2016 n. 1412 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Volumi tecnici.
Sono volumi tecnici quelli strettamente
necessari a contenere ed a consentire la sistemazione di
quelle parti degli impianti tecnici, aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
(quali: serbatoi idrici, extracorsa degli ascensori, vani di
espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di
ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda
età), che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità
degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo
dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme
urbanistiche.
---------------
I volumi tecnici non rientrano nel conteggio dell'indice
edificatorio, in quanto non sono generatori del cd. "carico
urbanistico" e la loro realizzazione è finalizzata a
migliorare la funzionalità e la salubrità delle costruzioni.
Restano esclusi, invece, dalla nozione e sono computabili
nel volume i vani che assolvono funzioni complementari
all'abitazione (quali quelli di sgombero, le soffitte e gli
stenditoi chiusi).
Ritiene questo Collegio che, per
l'identificazione della nozione di "volume tecnico",
assumono valore tre ordini dì parametri, il primo,
positivo, dì tipo funzionale, relativo al rapporto di
strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della
costruzione alla quale si connette; il secondo ed il
terzo, negativi, ricollegati da un lato
all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel
senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate
all'interno della parte abitativa) e dall'altro lato ad un
rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti.
Ne deriva che la nozione in esame può essere applicata solo
alle opere edilizie completamente prive di una propria
autonomia funzionale, anche potenziale; ed è invece esclusa
rispetto a locali, in specie laddove di ingombro rilevante,
oggettivamente incidenti in modo significativo sui luoghi
esterni.
---------------
1. Con sentenza del 13.05.2013, il Tribunale di Orvieto,
pronunciando nei confronti di Mo.Ro. e Mo.Fr., imputati dei
reati di cui agli artt. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 e
di cui agli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42/2004 per aver
realizzato una grossa panca di legno, posta al di fuori del
loro esercizio commerciale del tipo macelleria, ancorata al
terreno tramite bulloni, per mettervi dentro parte
dell'impianto di refrigerazione necessario al funzionamento
delle celle frigorifere destinate a conservare carne, in
assenza di permesso di costruire in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico (in Orvieto il 08.02.2011) e senza
autorizzazione paesaggistica, li dichiarava responsabili dei
reati ascrittigli e li condannava alla pena di euro
10.000,00 di ammenda ciascuno, con concessione di entrambi i
benefici.
Con sentenza del 20.01.2015, la Corte di appello di Perugia,
a seguito di appello proposto dagli imputati e dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Orvieto,
riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Orvieto
e rideterminava la pena nei confronti dei due imputati per i
due reati unificati ex art. 81 cod. pen., con le attenuanti
generiche, in giorni dieci di arresto ed euro 36.000,00 di
ammenda ciascuno, oltre al pagamento delle spese del grado,
ordinando la demolizione del manufatto abusivo e confermando
nel resto.
...
1 Il ricorso è fondato.
2. Va premesso che, secondo la consolidata interpretazione
giurisprudenziale, sono volumi tecnici
quelli strettamente necessari a contenere ed a consentire la
sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi
un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione (quali: serbatoi idrici, extracorsa degli
ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne
fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della
linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche
di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione
entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti
dalle norme urbanistiche
(sez. 3 sez. 17.11.2010, dep. 25.02.2011, sez. 3 03.10.2008,
n. 37575, Ronconi; 21.05.2008, n. 20267, Valguarnera; nonché
C. Stato, sez. 5, 31.01.2006, n. 354).
I volumi tecnici non rientrano nel
conteggio dell'indice edificatorio, in quanto non sono
generatori del cd. "carico urbanistico" e la loro
realizzazione è finalizzata a migliorare la funzionalità e
la salubrità delle costruzioni.
Restano esclusi, invece, dalla nozione e sono computabili
nel volume i vani che assolvono funzioni complementari
all'abitazione (quali quelli di sgombero, le soffitte e gli
stenditoi chiusi).
Ritiene questo Collegio -condividendo un consolidato
orientamento della giurisprudenza amministrativa (Tar
Campania, Salerno, sez. 2, 13.07.2009, n. 3987; Tar Puglia,
Lecce, sez. 1, 22.11.2007, n. 3963; Tar Liguria, Genova,
sez. I, 30.01.2007, n. 10)- che, per
l'identificazione della nozione di "volume tecnico",
assumono valore tre ordini dì parametri, il primo,
positivo, dì tipo funzionale, relativo al rapporto di
strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della
costruzione alla quale si connette; il secondo ed il
terzo, negativi, ricollegati da un lato
all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel
senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate
all'interno della parte abitativa) e dall'altro lato ad un
rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti.
Ne deriva che la nozione in esame può essere applicata solo
alle opere edilizie completamente prive di una propria
autonomia funzionale, anche potenziale; ed è invece esclusa
rispetto a locali, in specie laddove di ingombro rilevante,
oggettivamente incidenti in modo significativo sui luoghi
esterni.
Tutte le valutazioni connesse ai principi dianzi affermati
non hanno costituito oggetto di specifica e motivata
valutazione della sentenza impugnata.
Nella specie, Il Tribunale, nonostante specifico motivo di
appello, nell'escludere la natura di volume tecnico, ha solo
enunciato i tre ordini di parametri giurisprudenziali per
l'identificazione della nozione di volume tecnico ma non ha
specificamente argomentato in ordine alla loro esclusione in
relazione alla peculiarità del caso concreto con riferimento
agli elementi evidenziati dalla difesa a fondamento dei
motivi di appello.
Tale omissione motivazionale vizia parzialmente l'atto
decisorio.
Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere
annullata con rinvio alla Corte di appello di Firenze per
nuovo esame sul punto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.04.2016 n. 14281 -
tratta da www.lexambiente.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Diritti di rogito senza paletti. Spettano ai
segretari dei comuni privi di dirigenza.
La Consulta si discosta dalla tesi sostenuta
dalla sezione autonomie della Corte conti.
Sui diritti di rogito dei segretari comunali e provinciali
la Consulta smentisce la Corte dei conti. Secondo i giudici
delle leggi, infatti, l'emolumento spetta a tutti coloro che
operano in comuni privi di dirigenza, indipendentemente
dalla fascia professionale. Bocciata, quindi, la tesi della
sezione delle autonomie, secondo cui i diritti di rogito
competono ai soli segretari di fascia C.
La questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl
90/2014: esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli
enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale,
e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la
qualifica dirigenziale», in misura comunque non
superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Tale norma (dalla formulazione infelice) ha dato luogo a due
interpretazioni diverse: da un lato, si è affermato che
l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di
comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C e non a
quelli che godono di equiparazione alla dirigenza, sia essa
assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B, sia essa un
effetto del galleggiamento in ipotesi di titolarità di enti
locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale; in
senso contrario, si è argomentato che nei comuni privi di
personale con qualifica dirigenziale i diritti spettano a
prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato
il segretario.
La sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 21/2015,
ha condiviso la prima lettura, evidenziando che essa, oltre
a essere maggiormente coerente con il quadro normativo e
contrattuale della materia è l'unica in grado di garantire
gli effetti, soprattutto finanziari, avuti in considerazione
dal legislatore.
Di diverso avviso la Corte Costituzionale, che nella recente
sentenza 07.04.2016 n. 75 sposa, sia pure in via
incidentale, la seconda tesi. Nel dichiarare non fondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate
dall'avvocatura statale rispetto all'art. 11 della legge
della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol n.
11/2014, essa ha affermato che l'art. 10, comma 2-bis, si
applica a tutti i segretari dei comuni senza dirigenti.
Ora si tratterà di vedere se, sulla scorta di tale monito,
la magistratura contabile tornerà sui suoi passi
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Climatizzatori, l'Arpa deve comunicare i dati sul
rumore.
Fuori i decibel dell'impianto «fracassone», nero su bianco.
Il singolo condomino ha diritto di conoscere dall'Agenzia
regionale che tutela l'ecosistema a quanto ammontano le
immissioni sonore prodotte dell'impianto di condizionamento
dell'aria attivo nello stabile: si tratta infatti di una
vera e propria informazione ambientale, in base alla
direttiva Ue recepita in Italia con il decreto legislativo
195/2005, che ha una portata più ampia rispetto alla mera
normativa sulla trasparenza di cui agli articoli 22 e
seguenti della legge 241/1990.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.04.2016 n. 4018, pubblicata dalla
Sez. I-ter del TAR Lazio-Roma.
Interesse qualificato.
L'impianto rumoroso è al servizio di alcuni negozi. E ora
l'Agenzia di protezione ambientale ha trenta giorni di tempo
per fornire al condomino i dati che ha rilevato sul
frastuono prodotto dal climatizzatore. La norma ex articolo
3, comma 1, del decreto legislativo 195/2005 parla chiaro: «L'autorità
pubblica rende disponibile l'informazione ambientale
detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi
debba dichiarare il proprio interesse».
Nel nostro caso non c'è dubbio che il condomino sia invece
portatore di un interesse qualificato: anzitutto perché che
vive nello stabile e poi perché le rilevazioni Arpa sono
state compiute proprio dall'appartamento di sua proprietà
esclusiva.
Né la richiesta può ritenersi irragionevole: si tratta di
informazioni di competenza sulle misure che deve adottare
l'Agenzia. Che dunque paga le spese di lite
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento del silenzio-diniego sulla
richiesta di accesso ai documenti amministrativi.
...
Con il presente ricorso, proposto ai sensi dell'art. 116
c.p.a., la ricorrente contesta il silenzio serbato dall'ARPA
Lazio sulla propria istanza di accesso a documenti rilevanti
in tema di accertamento delle immissioni sonore provocate
dall’impianto di condizionamento all’interno del condominio
di via ... n. 26.
In primo luogo occorrere premettere che,
secondo il disposto dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n.
195/2005, “l'autorità pubblica rende disponibile...
l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia
richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio
interesse”.
Da ciò deriva che l'accesso alle informazioni ambientali ha
una portata ben più ampia rispetto a quello ai sensi degli
artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.
Deve poi aggiungersi che la ricorrente è residente
all’interno dello stesso condominio e gli accertamenti
risultano eseguiti proprio nella abitazione ove abita la
ricorrente.
È evidente, dunque, che si tratta di "informazioni
ambientali" e che la odierna ricorrente risulti
portatrice di un interesse giuridicamente qualificato
all’ottenimento della richiesta documentazione.
Va inoltre considerato che l'oggetto della richiesta di
accesso è puntualmente indicato, per cui allo stesso non
osta l'impedimento di cui all'art. 5, comma 1, lett. c), del
d.lgs. n. 195/2005, rappresentato dalla sua eccessiva
genericità.
Né può ritenersi che tale istanza sia irragionevole rispetto
alle finalità di cui all'art. 1: si tratta di atti recanti
informazioni ambientali relative all'adozione di misure, di
competenza dell'interpellata ARPA Lazio.
Infine non si rinviene alcuna delle ragioni di riservatezza
individuate all’art. 5 D.Lgs. 195/2005.
Ne deriva che il ricorso è fondato e deve essere accolto,
con obbligo di ostensione, mediante visione ed estrazione di
copia, dei suindicati documenti, oggetto dell'istanza di
accesso, in capo ad ARPA Lazio, entro il termine di 30
giorni, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa
o, se anteriore, dalla notificazione della presente
sentenza. |
APPALTI:
Soccorso istruttorio soltanto se serve.
Il potere di soccorso istruttorio può (e, a certe
condizioni, deve) essere attivato solo a fronte della
necessità di acquisire integrazioni documentali o
chiarimenti di dichiarazioni ambigue, anche se, ovviamente,
solo nelle ipotesi in cui non risulti violata una
prescrizione.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza 01.04.2016 n. 1318.
Secondo i giudici del Consiglio di stato la violazione di
una prescrizione poiché determina una inosservanza che
vincola l'amministrazione all'esclusione del concorrente
inadempiente, non potrà mai essere esercitato per acquisire
puntualizzazioni o specificazioni tecniche (e non
regolarizzazioni documentali) circa i contenuti e la
funzionalità del progetto tecnico, soprattutto quando lo
stesso risulta, di per sé, completo, nelle soluzioni
proposte, anche se carente nella sua capacità funzionale e
operativa.
Tale ultima ipotesi, hanno sottolineato i supremi giudici
amministrativi, «esula dall'ambito oggettivo di
operatività dell'istituto del soccorso istruttorio, da
intendersi, infatti, circoscritto alle sole integrazioni
propriamente documentali, come si ricava dall'univoco dato
testuale ricavabile dalla lettura dell'art. 46, comma 1,
dlgs, n. 163 del 2006, e la cui latitudine applicativa non
può essere estesa fino a comprendere anche i contenuti
propriamente tecnici dell'offerta».
Non potrà, inoltre, giudicarsi illegittima l'omessa
attivazione dei poteri di soccorso istruttorio in relazione
a tutti i sub-criteri nella misura in cui la pertinente
potestà dovrà essere intesa come consentita solo a fronte di
carenze documentali (che, ovviamente, non implicano, di per
sé, l'esclusione dalla gara) o di esigenze di chiarimenti in
ordine ad attestazioni equivoche (come, tra l'altro,
chiarito dall'Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 9 e 16
del 2014), ma tassativamente preclusa se preordinata ad
ammettere precisazioni o integrazioni dei contenuti
dell'offerta tecnica, che andrebbero ad integrare, come
tali, inammissibili mutamenti postumi della stessa (in
violazione del principio di immodificabilità dell'offerta,
affermato, tra le tante, da Cons. st., sez. III, 26.05.2014,
n. 2690)
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
---------------
MASSIMA
5.- Né, peraltro, può giudicarsi illegittima l’omessa
attivazione dei poteri di soccorso istruttorio in relazione
a tutti i sub-criteri sopra esaminati (dedotta con il terzo
motivo di appello), nella misura in cui la
pertinente potestà dev’essere intesa come consentita solo a
fronte di carenze documentali
(che non implicano, di per sé, l’esclusione dalla gara)
o di esigenze di chiarimenti in ordine ad
attestazioni equivoche
(come, tra l’altro, chiarito dall’Adunanza Plenaria con le
sentenze n. 9 e 16 del 2014), ma
rigorosamente preclusa se preordinata ad ammettere
precisazioni o integrazioni dei contenuti dell’offerta
tecnica, che integrerebbero, come tali, inammissibili
mutamenti postumi della stessa
(in violazione del principio di immodificabilità
dell’offerta, affermato, tra le tante, da Cons. St., sez.
III, 26.05.2014, n. 2690).
In altri termini, il potere di soccorso
istruttorio può (e, a certe condizioni, deve) essere
attivato solo a fronte della necessità di acquisire
integrazioni documentali o chiarimenti di dichiarazioni
ambigue, anche se, ovviamente, solo nelle ipotesi in cui non
risulti violata una prescrizione la cui inosservanza vincola
l’amministrazione all’esclusione del concorrente
inadempiente (ovviamente per le procedure, quale quella in
esame, soggette al regime normativo previgente
all’introduzione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs., n.163
del 2006), ma non può mai essere esercitato per acquisire
puntualizzazioni o specificazioni tecniche (e non
regolarizzazioni documentali) circa i contenuti e la
funzionalità del progetto tecnico, soprattutto quando, come
nel caso di specie, lo stesso risulta, di per sé, completo,
nelle soluzioni proposte, anche se carente nella sua
capacità funzionale e operativa.
Tale ultima ipotesi,
a ben vedere, esula dall’ambito oggettivo
di operatività dell’istituto del soccorso istruttorio, da
intendersi, infatti, circoscritto alle sole integrazioni
propriamente documentali, come si ricava dall’univoco dato
testuale ricavabile dalla lettura dell’art. 46, comma 1,
d.lgs., n. 163 del 2006, e la cui latitudine applicativa non
può essere estesa fino a comprendere anche i contenuti
propriamente tecnici dell’offerta. |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Spiare una casella mail è reato di accesso
abusivo. La posta è parte di un sistema informatico più
esteso.
Codice penale. L’esistenza di una password testimonia a
favore della riservatezza.
Va sanzionato per accesso abusivo a
sistema informatico chi si intromette nella mail altrui per
prendere visione dei messaggi in questa contenuti. La
casella di posta elettronica rappresenta infatti un «sistema
informatico» protetto dall’articolo 615 ter del Codice
penale.
A questa conclusione
approda la Corte di Cassazione,
Sez. V penale, con la
sentenza 31.03.2016 n. 13057.
La pronuncia ha così confermato la condanna di 6 mesi
inflitta al responsabile di un Ufficio di Polizia
provinciale che, approfittando della sua qualità e
dell’assenza di un assistente nello stesso ufficio, si era
introdotto in due occasioni nella casella di posta
elettronica di quest’ultimo, e, dopo avare preso visione di
numerosi documenti, ne aveva scaricati due.
Tra i motivi di ricorso, la difesa aveva contestato che ci
fosse stato un accesso a un «sistema informatico», per
l’inesistenza di un sistema coincidente con la posta
elettronica. Infatti, secondo la linea difensiva, il
«sistema informatico» rilevante sulla base dell’articolo 615-ter del Codice penale era quello dell’ufficio, al quale era
possibile accedere con password non personalizzate, mentre
la casella personale di posta rappresentava un’”entità”
estranea alla nozione prevista dal Codice penale.
Un a posizione però del tutto confutata dalla Cassazione.
Che mette invece in evidenza come la casella mail
rappresenta «inequivocabilmente» un «sistema informatico»
rilevante per l’articolo 615-ter del Codice penale . La
Corte ricorda che nell’introdurre questa nozione nel nostro
ordinamento, il legislatore ha fatto evidentemente
riferimento a concetti già diffusi ed elaborati nel mondo
dell’economia, della tecnica e della comunicazione, «essendo
stato mosso dalla necessità di tutelare nuove forme di
aggressione alla sfera personale, rese possibili dalla
sviluppo della scienza».
Pertanto, sottolinea ancora la sentenza, il sistema
informatico inteso dal legislatore non può essere costituito
che dal «complesso organico di elementi fisici (hardware) ed
astratti (software) che compongono un apparato di
elaborazione dati». In questo senso si esprime anche la
Convenzione di Budapest che pure era stata richiamata a
sostegno della tesi difensiva. E allora la casella di posta
non è altro che uno spazio di memoria di un sistema
informatico destinato alla memorizzazione di messaggi o
informazioni di altra natura (video, messaggi) di un
soggetto identificato da un account registrato presso un
provider. E l’accesso a questo spazio di memoria rappresenta
senz’altro un acceso a sistema informatico di cui la casella
è un semplice elemento.
Così, se in un sistema informatico pubblico sono attivate
caselle di posta elettronica protette da password
personalizzate, allora quelle caselle costituiscono il
domicilio informatico proprio del dipendente stesso.
L’accesso abusivo a queste caselle concretizza così il reato
disciplinato dall’articolo 615-ter del Codice penale, «giacché
l’apposizione dello sbarramento, avvenuto con il consenso
del titolare del sistema, dimostra che a quella casella è
collegato uno ius excludendi di cui anche i superiori devono
tenere conto» (articolo Il Sole 24 Ore del
20.04.2016). |
VARI:
L'equo indennizzo è cedibile. Si tratta di un
ristoro frutto di lentezze della giustizia. La
qualificazione come credito è al centro di una sentenza del
Tar di Trento.
Poiché l'equo indennizzo è un danno non patrimoniale causato
dalle lentezze della giustizia, può essere a buon diritto
inserito tra i crediti cedibili.
È quanto affermato dai giudici del TRGA Trentino Alto
Adige-Trento con la
sentenza 30.03.2016 n. 178.
Per quanto riguarda la cessione di crediti vantati nei
confronti della pubblica amministrazione, l'art. 69, commi
primo e terzo, della legge di contabilità dello stato (rd
18.11.1923, n. 2440) stabilisce che la cessione deve
risultare da atto pubblico o da scrittura autenticata da
notaio, e che deve essere notificata all'amministrazione
centrale, ovvero all'ente ovvero ufficio o funzionario cui
spetta ordinare il pagamento.
I giudici amministrativi trentini si sono soffermati nella
sentenza in commento sull'istituto della cessione del
credito evidenziando come, in ossequio al principio generale
dell'ordinamento giuridico della libera cedibilità del
credito, posto agli artt. 1260 e ss. del c.c., la cessione
del credito «è un negozio causale per cui, se non
disposta a titolo oneroso, deve ritenersi a causa presunta,
fino a prova della relativa inesistenza o illiceità, potendo
avere a oggetto anche una ragione di credito o un diritto
futuro, purché determinato o determinabile, nel qual caso
l'effetto traslativo si produce al momento della relativa
venuta a esistenza in capo al cedente».
Inoltre un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale
(si veda: Cass. civ., sez. III, 02.10.2013, n. 22601) ha
sottolineato come il diritto di credito al risarcimento del
danno non patrimoniale costituisca oggetto di cessione, a
titolo oneroso o gratuito, ai sensi e nei limiti dell'art.
1260 c.c. e inoltre per perfezionare la cessione del credito
si rende quanto mai necessario l'accordo tra il cedente e il
cessionario (Cass. civ., 13.11.1973, n. 3004), accordo che
andrà a determinare la successione di quest'ultimo al primo
nel medesimo rapporto obbligatorio, con effetti traslativi
immediati non solo tra di essi ma anche nei confronti del
debitore ceduto, nei cui confronti la cessione diviene
efficace all'esito della relativa notificazione o
accettazione (art. 1264 c.c., Cass. civ., 20.10.2004, n.
20548).
Quindi l'accettazione della cessione avrà natura non
costitutiva bensì ricognitiva ed il debitore ceduto potrà
far valere l'eccezione di invalidità e di estinzione del
rapporto obbligatorio, mentre esclude l'efficacia
liberatoria del pagamento fatto al creditore originario
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016).
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MASSIMA
9.3. Sull’istituto “cessione del credito” si
ricorda, in linea generale, che, in
ossequio al principio generale dell’ordinamento giuridico
della libera cedibilità del credito, posto agli artt. 1260 e
ss. del c.c., la cessione del credito è un negozio causale
per cui, se non disposta a titolo oneroso, deve ritenersi a
causa presunta, fino a prova della relativa inesistenza o
illiceità, potendo avere ad oggetto anche una ragione di
credito o un diritto futuro, purché determinato o
determinabile, nel qual caso l'effetto traslativo si produce
al momento della relativa venuta a esistenza in capo al
cedente.
A seguito della puntuale ricostruzione delle regole e dei
principi che governano l’istituto della cessione del
credito, la Corte di Cassazione ha affermato che “ben
può allora il diritto (o la ragione) di credito al
risarcimento del danno non patrimoniale costituire oggetto
di cessione, a titolo oneroso o gratuito, ai sensi e nei
limiti dell'art. 1260 c.c.”
(Cass.Civ., sez. III, 02.10.2013, n. 22601).
Ai fini del perfezionamento della cessione
del credito è necessario l'accordo tra il cedente e il
cessionario (Cass.
Civ., 13.11.1973, n. 3004), che determina
la successione di quest'ultimo al primo nel medesimo
rapporto obbligatorio, con effetti traslativi immediati non
solo tra di essi ma anche nei confronti del debitore ceduto,
nei cui confronti la cessione diviene efficace all'esito
della relativa notificazione o accettazione
(art. 1264 c.c. - Cass. Civ., 20.10.2004, n. 20548).
L'accettazione della cessione ha natura non
costitutiva bensì ricognitiva e, a tale stregua, al debitore
ceduto non è precluso far valere l'eccezione di invalidità e
di estinzione del rapporto obbligatorio, mentre esclude
l'efficacia liberatoria del pagamento fatto al creditore
originario.
Nondimeno, in deroga al principio civilistico della
cedibilità del credito anche senza il consenso del debitore,
per la cessione di crediti vantati nei confronti
della Pubblica amministrazione, l’art. 69, commi primo e
terzo, della legge di contabilità dello Stato (R.D.
18.11.1923, n. 2440) stabilisce che la cessione deve
risultare da atto pubblico o da scrittura autenticata da
notaio, e che deve essere notificata all’Amministrazione
centrale, ovvero all’ente ovvero ufficio o funzionario cui
spetta ordinare il pagamento.
9.4. Ebbene, dall’esame della disciplina riportata emerge
che anche il diritto di credito al
risarcimento del danno non patrimoniale da mancato rispetto
del termine ragionevole di durata di un processo può essere
ceduto, ai sensi e nei limiti dell'art. 1260 c.c. ma nel
rispetto delle forme di cui all’art. 69, commi primo e
terzo, del R.D. 18.11.1923, n. 2440. |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
La prova dell'arrivo della raccomandata fa
presumere l'invio e la conoscenza dell'atto, mentre l'onere
di provare eventualmente che il plico non conteneva l'atto
spetta non già al mittente
bensì al destinatario.
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Merita dunque di
essere confermato il principio per cui, in
tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del
D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26 (così come, più in
generale, in caso di spedizione di plico a mezzo
raccomandata), la prova del perfezionamento del
procedimento di notificazione è assolta dal notificante
mediante la produzione dell'avviso di ricevimento, poiché,
una volta pervenuta all'indirizzo del destinatario, la
cartella esattoriale deve ritenersi a lui ritualmente
consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e
concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui
all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria
regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il
destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza
colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel
caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non
conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un
atto diverso da quello che si assume spedito).
---------------
MASSIMA
13. Il quinto, il sesto ed il settimo motivo, che in
quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente,
sono invece fondati.
13.1. In sintesi, con essi si chiede a questa Corte di
affermare il principio per cui il soggetto che proceda alla
notifica di cartella esattoriale, con la procedura di cui
all'art. 26, D.P.R. n. 602/1973, può limitarsi a consegnare
il plico chiuso all'agente postale, per la sua spedizione,
essendo assistiti da fede privilegiata ex art. 2700 cod.
civ. tanto l'accettazione quanto l'avviso di ricevimento
della raccomandata, e gravando invece sul destinatario
l'onere di superare la presunzione di conoscenza del
contenuto della raccomandata, di cui all'art. 1335 cod. civ..
13.2. Sul tema si registra, invero, una certa divaricazione
della giurisprudenza di legittimità, rispetto alla quale
questo Collegio intende però aderire all'orientamento che
risulta prevalente, in base al quale, ove
il Concessionario si avvalga della facoltà, prevista dal
D.P.R. 29.09.1913, n. 602, art. 26, di provvedere alla
notifica della cartella esattoriale mediante raccomandata
con avviso di ricevimento, ai fini del perfezionamento della
notificazione è sufficiente
-anche alla luce della disciplina dettata dal D.M.
09.04.2001, artt. 32 e 39- che la
spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al
domicilio del destinatario, senz'altro adempimento a carico
dell'ufficiale postale se non quello di curare che la
persona da lui individuata come legittimata alla ricezione
apponga la sua firma sul registro di consegna della
corrispondenza, oltre che sull'avviso di ricevimento da
restituire al mittente; ciò sarebbe confermato
implicitamente anche dal penultimo comma del citato art. 26,
secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per
cinque anni la matrice o la copia della cartella con la
relazione dell'avvenuta notificazione o con l'avviso di
ricevimento, in ragione della forma di notificazione
prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente
o dell'amministrazione
(Cass. sez. III, sentenza n. 9246 del 07.05.2015; Cass. sez.
V, sentenza n. 4567 del 06.03.2015; conf., tra le più
recenti, Cass. n. 16949/2014, n. 6395/2014, n. 11708/2011;
n. 14327/2009).
13.3. Ai predetti fini non si ritiene
invece necessario che l'agente della riscossione dia la
prova anche del contenuto del plico spedito con lettera
raccomandata, dal momento che l'atto pervenuto all'indirizzo
del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a
quest'ultimo in forza della presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 cod. civ., superabile solo se lo stesso
destinatario dia prova di essersi incolpevolmente trovato
nell'impossibilità di prenderne cognizione
(Cass. n. 15315/2014, n. 9111/2012, n. 20027/2011).
In altri termini, la prova dell'arrivo
della raccomandata fa presumere l'invio e la conoscenza
dell'atto, mentre l'onere di provare eventualmente che il
plico non conteneva l'atto spetta non già al mittente
(in tal senso, Cass. ord. n. 9533/2015, sent. n. 2625/2015,
n. 18252/2013, n. 24031/2006, n. 3562/2005),
bensì al destinatario
(in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass. sez. I,
22.05.2015, n. 10630; conf. Cass. n. 24322/2014, n.
15315/2014, n. 23920/2013, n. 16155/2010, n. 17417/2007, n.
20144/2005, n. 15802/2005, n. 22133/2004, n. 771/2004, n.
11528/2003, n. 12135/2003, n. 12078/2003, n. 10536/2003, n.
4878/1992, 4083/1978; cfr. Cass. ord. n. 20786/2014, per la
quale tale presunzione non opererebbe -con inversione
dell'onere della prova- ove il mittente affermasse di avere
inserito più di un atto nello stesso plico ed il
destinatario contestasse tale circostanza).
13.4. In effetti, l'orientamento prevalente
risulta più rispettoso del principio generale di c.d.
vicinanza della prova, poiché la sfera di conoscibilità del
mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva
alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera
di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella
fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed
essendone perciò onerato), in ipotesi anche avvalendosi di
testimoni, che al momento dell'apertura il plico era in
realtà privo di contenuto.
13.5. Merita dunque di essere confermato il principio per
cui, in tema di notifica della cartella
esattoriale ai sensi del D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 26
(così come, più in generale, in caso di spedizione di
plico a mezzo raccomandata), la prova del
perfezionamento del procedimento di notificazione è assolta
dal notificante mediante la produzione dell'avviso di
ricevimento, poiché, una volta pervenuta all'indirizzo del
destinatario, la cartella esattoriale deve ritenersi a lui
ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza
di cui all'art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e
concludenti circostanze (integranti i requisiti di cui
all'art. 2729 cod. civ.) della spedizione e dell'ordinaria
regolarità del servizio postale, e superabile solo ove il
destinatario medesimo dimostri di essersi trovato, senza
colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione, come nel
caso in cui sia fornita la prova che il plico in realtà non
conteneva alcun atto al suo interno (ovvero conteneva un
atto diverso da quello che si assume spedito)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 18.03.2016 n. 5397).
---------------
Si legga, al riguardo, un commento:
Raccomandata: come si prova il contenuto della lettera?
(25.04.2016 - link a www.laleggepertutti.it). |
APPALTI SERVIZI:
La riserva di partecipazione in favore delle
cooperative sociali può essere legittimamente imposta solo
per gli appalti inerenti la fornitura di beni e servizi
strumentali della P.A..
La riserva di partecipazione in favore delle cooperative che
svolgono le attività di cui all'art. 1, c. 1, lett. b),
della l. n. 381/1991 posta dall'art. 5 della medesima legge,
può essere legittimamente imposta solo per la fornitura di
beni e servizi strumentali della P.A., cioè a dire erogati a
favore della pubblica amministrazione e riferibili ad
esigenze strumentali della stessa, e al contrario tale
limite non può trovare applicazione in tutti i casi -come
nel caso di specie, riguardante la gestione del canile
comunale- in cui si tratti di servizi pubblici locali,
destinati a soddisfare la generica collettività (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 03.03.2016 n. 306 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vicinato, comune super partes. Il permesso di
costruire non tocca conflitti tra confinanti.
Sentenza del Tar Puglia: questioni civilistiche
da far valere di fronte ai giudici ordinari.
Al comune non interessano i rapporti fra confinanti o
condomini: quando concede i titoli edilizi, lo fa «salvi i
diritti di terzi». Ecco allora che il vicino non può far
annullare il permesso di costruire concesso al rivale solo
perché il nuovo manufatto può impedirgli di esercitare il
diritto alla veduta: le questioni civilistiche come
l'osservanza delle distanze tra fabbricati, infatti, devono
essere fatte valere di fronte al giudice ordinario.
È quanto emerge dalla
sentenza 11.02.2016 n. 162,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Titolo e godimento.
Niente da fare per il confinante: non riesce a bloccare i
lavori alla palazzina nel centro storico. E ciò perché
prospetta lesioni che riguardano più il diritto di distanza
dalla veduta che il rilascio del titolo edilizio in sé.
Quando il comune è chiamato ad autorizzare l'opera, infatti,
può limitarsi a verificare che il richiedente sia titolare
di un adeguato titolo di godimento sull'immobile: deve
insomma badare alla sola legittimazione, senza verificare il
rispetto dei limiti privatistici; a meno che questi limiti
non sono immediatamente conoscibili o non contestati e
dunque il controllo dell'amministrazione si riduce a una
mera presa d'atto.
Le lesioni di diritti soggettivi come quelli alla luce e
veduta o la presenza di diritti contrari richiedono invece
un'approfondita indagine e rientrano nelle controversie fra
i privati: si tratta quindi di questioni che devono essere
introdotte nelle sedi opportune perché esulano dalla
legittimità dell'autorizzazione all'edificazione, anche in
sanatoria, che è di competenza del comune.
Consenso irrilevante.
È altrettanto inutile l'iniziativa di uno dei condomini che
si rivolge al comune per ottenere misure repressive contro
l'opera edilizia promossa dall'altro sulla base della Scia,
la segnalazione di inizio attività. E ciò anche se
l'assemblea ha bocciato la proposta avanzata dal singolo
proprietario esclusivo di trasformare le finestre in
balconi, approfittando dei lavori alla facciata
dell'edificio.
L'amministrazione non può infatti subordinare il rilascio
del titolo abilitativo al consenso del confinante quando si
tratta di una questione di diritti reali, e dunque
civilistica, che resta estranea alla competenza dell'ente
locale. Lo stabilisce la sentenza 1409/15, pubblicata dalla
sede di Salerno del Tar Campania, prima sezione.
Clausola di salvaguardia.
È vero: dalla documentazione che il proprietario presenta
all'amministrazione locale non emerge che l'assemblea
condominiale ha già bocciato la proposta di far diventare
veri e propri balconi le finestre dell'edificio, che
addirittura risale a prima della seconda guerra mondiale.
Ma in realtà, osservano i giudici amministrativi, a essere
sbagliata è la prassi dei comuni che subordinano l'emissione
del titolo che autorizza l'opera edilizia al consenso dei
titolari di diritti reali confinanti oppure di diritti reali
di comunione, tra i quali il condominio: è infatti
l'articolo 11, comma 3, del testo unico per l'edilizia a
disporre la clausola di salvaguardia generale che fa salvi i
diritti dei terzi. Al vicino, dunque, non resta che le spese
di giudizio davanti al Tar e rivolgersi al giudice civile.
Nessuno sconto.
Le cose cambiano nelle aree soggette a vincolo per le
bellezze naturali. Il dehors del ristorante da piazzare
sotto il naso del proprietario del primo piano non può
ottenere l'autorizzazione paesaggistica dal comune con una
procedura semplificata: è escluso, infatti, che lo spazio
esterno del locale pubblico possa essere considerato un
«arredo urbano» e dunque beneficiare della corsia
preferenziale riconosciuta agli interventi edilizi minori
dal dpr 139/10. Lo afferma la sentenza 56/2016, pubblicata
dalla prima sezione del Tar Liguria.
Dehors e arredi.
Altro che «lieve entità». È accolto il ricorso del vicino
che teme ancora più fastidi dai clienti dell'osteria nel
centro storico sottoposto al vincolo della Soprintendenza.
Annullato il provvedimento dell'amministrazione che concede
il placet con l'iter più breve al dehors dell'esercizio
pubblico: lo spazio esterno riservato agli avventori del
locale non rientra in alcune delle categorie indicate dal
regolamento.
Interesse specifico.
È vero, la nozione di «arredo urbano» non risulta
disciplinata da alcun provvedimento normativo. Ma deve
ritenersi si tratti di strutture che servono a consentire un
miglior uso dei centri abitati, quanto ad accessibilità e
vivibilità; vi rientrano segnaletica, illuminazione,
installazioni pubblicitarie, panchine, cestini: si tratta
tuttavia di manufatti a destinazione pubblica, mentre il
dehors soddisfa un'esigenza commerciale del ristorante.
Infine: il vicino è portatore di un interesse specifico,
mentre la Soprintendenza non gli ha notificato del
procedimento volto al rilascio dell'autorizzazione di cui
all'articolo 21 del decreto legislativo 42/2004. Al comune e
al ristorante controinteressato non resta che pagare le
spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 11, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, “Il
rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione
dei diritti dei terzi”; sicché, nella prassi, i titoli
edilizi vengono rilasciati “salvi i diritti di terzi” e,
secondo la consolidata giurisprudenza, non sussiste un
obbligo generalizzato per la P.A. di verificare che non
sussistano limiti di natura civilistica per la realizzazione
di un'opera edilizia.
---------------
Ai fini del rilascio del permesso di costruire
l'amministrazione è onerata del solo accertamento della
sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del
richiedente alla disponibilità dell'area oggetto
dell'intervento edilizio e, nel verificare l'esistenza in
capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento
sull'immobile, non si assume il compito di risolvere
eventuali conflitti di interesse tra le parti private in
ordine all'assetto proprietario, ma accerta soltanto il
requisito della legittimazione soggettiva di colui che
richiede il permesso.
In sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio il
Comune ha l'obbligo di verificare il rispetto da parte
dell'istante dei limiti privatistici solo a condizione che
tali limiti siano effettivamente conosciuti, o
immediatamente conoscibili, o non contestati, di modo che il
controllo da parte dell'ente locale si traduca in una
semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di
procedere ad un'accurata e approfondita disanima dei
rapporti civilistici.
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la
necessità di procedere a un'accurata ed approfondita
disanima dei rapporti tra i vicini o i condomini, rientrando
la presenza di eventuali diritti ostativi o la supposta
pretesa di lesioni di diritti soggettivi, quali quelli di
luce e veduta, nell’ambito delle controversie tra privati,
che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune
sedi, e non all’aspetto della legittimità degli atti
autorizzatori dell’esercizio dello ius edificandi anche in
sede di sanatoria.
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Riguardo alla pretesa violazione del regime delle distanze
(oggetto di doglianza nei motivi sub A e D di cui innanzi),
va preliminarmente ricordato che, ai sensi dell’art. 11,
comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, “Il rilascio del
permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti
dei terzi”; sicché, nella prassi, i titoli edilizi
vengono rilasciati “salvi i diritti di terzi” e,
secondo la consolidata giurisprudenza, non sussiste un
obbligo generalizzato per la P.A. di verificare che non
sussistano limiti di natura civilistica per la realizzazione
di un'opera edilizia.
Nel caso di specie, parte delle lesioni prospettate dai
ricorrenti parrebbero configurarsi -non tanto e non solo- in
relazione al rilascio del titolo edilizio, ma piuttosto in
relazione all’asserita sussistenza di un diritto di veduta e
di un diritto di distanza dalla veduta, come tali tutelabili
innanzi al G.O..
Sul punto va osservato in diritto che “ai fini del
rilascio del permesso di costruire l'amministrazione è
onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo
astrattamente idoneo da parte del richiedente alla
disponibilità dell'area oggetto dell'intervento edilizio e,
nel verificare l'esistenza in capo al richiedente di un
idoneo titolo di godimento sull'immobile, non si assume il
compito di risolvere eventuali conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto proprietario, ma accerta
soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di
colui che richiede il permesso (Cons. Stato Sez. IV,
06.03.2012, n. 1270).
In sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio il
Comune ha l'obbligo di verificare il rispetto da parte
dell'istante dei limiti privatistici solo a condizione che
tali limiti siano effettivamente conosciuti, o
immediatamente conoscibili, o non contestati, di modo che il
controllo da parte dell'ente locale si traduca in una
semplice presa d'atto dei limiti medesimi senza necessità di
procedere ad un'accurata e approfondita disanima dei
rapporti civilistici” (Cons. Stato Sez. VI, 28.09.2012,
n. 5128; Cons. Stato Sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; Sez. VI,
04.09.2012, n. 4676; Cons. Stato Sez. IV, 04.05.2010, n.
2546).
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la
necessità di procedere a un'accurata ed approfondita
disanima dei rapporti tra i vicini o i condomini, rientrando
la presenza di eventuali diritti ostativi o la supposta
pretesa di lesioni di diritti soggettivi, quali quelli di
luce e veduta, nell’ambito delle controversie tra privati,
che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune
sedi, e non all’aspetto della legittimità degli atti
autorizzatori dell’esercizio dello ius edificandi
anche in sede di sanatoria (con riferimento ai condomini:
Cons. Stato Sez. IV, 26.07.2012, n. 4255) - così, da ultimo,
Tar Campania, Napoli, sez. 8, sent. 19/05/15 n. 2763.
Quanto innanzi esposto non si pone in posizione di
discontinuità rispetto alle pronunzie della Sezione (v.
sentenze nn. 1572/2015 e 113/2016) su ricorsi che pure
riguardano la tutela di “beni della vita” nascenti
dal diritto di proprietà su immobili: trattasi di giudizi
che non hanno come oggetto immediato quei beni, bensì la
legittimità di provvedimenti amministrativi in rapporto alla
normativa e agli atti di pianificazione urbanistica, in
ossequio al principio per il quale la lesione di tali beni
può avere tutela, davanti al G.A., solo ove coincidente con
la lesione di valori tutelati, nell’interesse pubblico,
dalla normativa urbanistico-edilizia
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 11.02.2016 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Straordinari pagati solo se
autorizzati. Lo ribadisce una
decisione del Consiglio di stato.
Nella disciplina generale vigente per il rapporto di lavoro
presso le pubbliche amministrazioni, per ragioni di buon
andamento e di controllo della spesa per il personale
contrattualizzato, occorre tenere presente l'imperativo
principio che il lavoro straordinario può essere retribuito
solo se previamente autorizzato nelle forme prescritte dalla
normativa di settore delle singole amministrazioni.
È quanto ribadito dal Consiglio di Stato -Sez. III- con la
sentenza 10.02.2016 n. 591.
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi
prendeva le mosse da alcune istanze con le quali un
funzionario di P.s. chiedeva all'amministrazione il
conteggio e il pagamento delle ore di lavoro straordinario
da quando era transitato nei ruoli della Azienda sanitaria
locale.
Lo stesso al riguardo precisava che, avendo in quel periodo
prestato servizio presso vari commissariati e poi presso la
squadra mobile le prestazioni di lavoro in questione
risultavano da prospetti analitici mensili, sottoscritti
dall'interessato e dal dirigente dell'ufficio di
appartenenza e poi regolarmente trasmessi all'ufficio
contabilità della questura per il seguito di competenza.
In riscontro alle suddette richieste con nota il questore
comunicava all'interessato di aver trasmesso al ministero
dell'interno il conteggio degli emolumenti dovuti per le ore
di straordinario, dovendosi ritenere prescritto ogni credito
relativo prestazioni rese in periodi precedenti.
Dopo alcuni solleciti da parte dell'interessato il
dipartimento di P.s., servizio Tep con nota si limitava a
confermare e richiamava una precedente nota in cui aveva
rappresentato l'avviso che non sussistevano i presupposti
per accogliere la richiesta.
Pertanto, non avendo ottenuto la corresponsione degli
emolumenti richiesti, con ricorso proposto innanzi al Tar
l'interessato chiedeva il riconoscimento del diritto ai
compensi per prestazioni di lavoro straordinario rese fino
al suo transito al ruolo della Azienda sanitaria locale,
oltre alla rivalutazione e agli interessi legali dalla
maturazione del credito al soddisfo effettivo, nonché la
conseguente condanna del ministero al pagamento.
Con sentenza il Tar ha respinto il ricorso (spese
compensate), affermando che le prestazioni straordinarie
oggetto della controversia, ulteriori rispetto a quelle già
riconosciute e regolarmente retribuite, non risultavano
formalmente autorizzate dal ministero; né, tantomeno, poteva
ravvisarsi un'autorizzazione «in sanatoria» nei
prospetti compilati dallo stesso interessato e controfirmati
dal suo superiore gerarchico (il dirigente della squadra
mobile). Avverso la sentenza l'interessato ha proposto
appello
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
CONDOMINIO - VARI:
Il gattaro deve ripulire il terrazzo.
Gli animali domestici che fanno litigare i condomini danno
filo da torcere anche ai comuni. Non saranno
quarantaquattro, ma i gatti del confinante sporcano e fanno
rumore: si tratta di una vera colonia felina che l'amante
degli animali sfama ogni giorno sul terrazzo di casa sua.
Che dopo, però, è un vero e proprio campo di battaglia,
disseminato di piatti di plastica sporchi e altri rifiuti.
Il vicino non ce la fa più e chiama la Municipale: scatta
l'ispezione Asl. Allora il sindaco del comune impone al «gattaro»
di ripulire il terrazzo e far vaccinare e sterilizzare gli
animali. E l'ordinanza è legittima perché l'interessato, pur
non proprietario dei gatti, ne risulta comunque «tenutario»
sulla base della legge 201/2010 sulla tutela degli animali
di compagnia.
Lo stabilisce la
sentenza 12.01.2016 n. 3, pubblicata dal TAR
Sicilia-Catania, III Sez..
Finalità e qualità.
Il gattaro deve ridurre entro il limite di legge il numero
di animali della colonia nel suo terrazzo. Ciò che conta è
il potere di fatto esercitato sui gatti, determinato dalla
volontà dell'uomo di occuparsi degli animali, tanto da dar
loro da mangiare nella sua proprietà, per quanto a
intervalli non regolari.
Non rileva allora la finalità, tanto meno di lucro, del
rapporto con la colonia felina. Fondamentale invece è la
qualità dell'interessato, definito nell'ordinanza sindacale
«tenutario», conformemente alle norme della
Convenzione del Consiglio d'Europa recepita con la legge
201/2010, dove è presente più volte la locuzione «ogni
animale tenuto o destinato a essere tenuto dall'uomo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.04.2016). |
LAVORI PUBBLICI: LA MANIFESTAZIONE DELLA VOLONTÀ DI RECESSO
DELL’APPALTATORE VERSO L’AMMINISTRAZIONE È IL
PRESUPPOSTO PER LA RICHIESTA DI RISARCIMENTO.
Il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno
può venire in considerazione solo se l’appaltatore abbia
preventivamente esercitato la facoltà di recesso, dovendosi
altrimenti presumere che egli abbia considerato
ancora eseguibile il contratto, senza oneri aggiuntivi a
carico della stazione appaltante.
Con la sentenza in rassegna la Suprema Corte torna a
occuparsi
delle ipotesi nelle quali, alla sottoscrizione del
contratto,
non segua da parte dell’Amministrazione appaltante a consegna del cantiere, per l’esecuzione delle opere
affidate
in contratto.
In quest’ipotesi, il rimedio offerto all’operatore economico
non è quello, generale, della risoluzione per inadempimento
ex artt. 1453 e 1454 c.c. operando di contro, e in via
esclusiva, la disciplina legislativa e regolamentare
prevista,
volta per volta, dalle norme specifiche in materia di opere
pubbliche ritraibili, in materia, dai d.P.R. nn. 1063/1962,
554/1999 e 207/2010, nel tempo succedutisi.
Il caso esaminato dal Supremo Collegio riguardava un appalto
di lavori edili di consolidamento del Palazzo comunale,
mai avviati dalla ditta appaltatrice a causa della mancata
consegna dell’area sulla quale eseguire le lavorazioni, in
ragione del fatto che esso era occupato, per altre
lavorazioni,
da differente impresa sempre incaricata dalla medesima
Amministrazione comunale appaltante.
In ragione di ciò, l’appaltatore aveva dato corso ad un
giudizio
civile, chiedendo al Tribunale ordinario la risoluzione
del contratto per inadempimento e ottenendola unitamente
alla condanna del Comune convenuto al pagamento di un
importo per i danni subiti in dipendenza del dedotto
inadempimento.
La sentenza era gravata dall’Amministrazione, deducendosi
l’inapplicabilità delle norme civilistiche sulla risoluzione
contrattuale, a favore della disciplina speciale in materia
addotta dal capitolato generale per le opere pubbliche (art.
10, d.P.R. n. 1063/1962, poi trasfuse in disposizioni di
tenore
pressoché analogo contenute nel d.P.R. n. 554/1999 ed
oggi nel d.P.R. n. 207/2010) che attribuisce
all’appaltatore,
in questi casi, la sola facoltà di chiedere il recesso dal
contratto,
con potere di decisione in capo alla P.A.: dal che,
l’impossibilità di disporre quella liquidazione del danno
riconosciuta
erroneamente dal Tribunale.
La Corte di merito accoglieva l’appello, proposto in questi
termini.
La decisione di secondo grado è oggetto di ricorso per
Cassazione dall’impresa, al quale il Comune resiste
proponendo
altresì ricorso incidentale.
I Giudici di Legittimità respingono il ricorso principale e,
anzi,
accolgono il primo motivo dell’incidentale recante doglianza
per violazione e falsa applicazione dell’ art. 10,
comma 8, d.P.R. n. 1063/1962 e degli artt. 1206, 1453,
1454 e 1455 c.c..
Osserva in proposito il Supremo Giudice
che l’omessa consegna dei lavori da parte della Stazione
appaltante -se pur costituisce fonte di responsabilità
contrattuale- non consente però l’applicazione delle norme del
codice civile sussistendo (in applicazione del principio di
specialità, quale metodo risolutivo d’un conflitto apparente
di norme coesistenti) prevalenza delle previsioni di
contrattualistica
pubblica.
In ragione di questo, l’appaltatore non ha possibilità di
mettere in mora l’Amministrazione ex art. 1454 c.c.; né di
chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento ex
art. 1453 c.c.; né di avanzare pretese risarcitorie ma potrà
soltanto formulare istanza di recesso, rimessa al potere
discrezionale
della P.A.
In caso di adesione a tal proposta da parte dell’Ente
appaltante,
all’appaltatore spetteranno le sole spese sostenute,
mentre nel diverso caso in cui l’Amministrazione opti per il
mantenimento del vincolo, l’impresa avrà diritto ai maggiori
oneri patiti per la prolungata consegna del cantiere, o per
altre conseguenze patrimoniali subite -ad esempio in
ipotesi
di consegna parziale- previa iscrizione di puntuali e
tempestive riserve.
In difetto di presentazione di
quest’istanza
il contratto è da considerare ancora eseguibile, senza
ulteriori oneri in capo alla stazione appaltante
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
29.10.2015 n. 22112 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
L'esame del primo motivo del ricorso incidentale del
Comune di Cagliari precede logicamente l'esame di quello
principale.
Esso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt.
10, ottavo comma, d.P.R. n. 1063 del 1962 (richiamato dal
capitolato speciale d'appalto), 1206, 1453, 1454 e 1455
c.c., per avere la Corte d'appello applicato la normativa di
diritto privato, ignorando la norma speciale e derogatoria
di cui all'art. 10 del capitolato generale di appalto, il
cui ottavo coma, applicabile nei casi di consegna inidonea e
tardiva, prevede unicamente la facoltà dell'appaltatore di
chiedere di recedere dal contratto e stabilisce in modo
puntuale anche l'entità dei compensi dovutigli in caso di
rigetto dell'istanza di recesso.
Il suddetto motivo è fondato.
Negli appalti pubblici la "consegna dei
lavori" all'appaltatore, che è un momento essenziale ai
fini della realizzazione dell'opera, si configura come un
obbligo della P.A. il cui inadempimento
(ancorché diversamente disciplinato rispetto alle norme del
codice civile) è fonte di responsabilità
contrattuale, in quanto il dovere di collaborazione
dell'Amministrazione non perde la sua natura contrattuale
solo perché derivante dalla legge, la quale, al contrario, è
una delle fonti di integrazione del contratto (art. 1374
c.c.).
Tale inadempimento, tuttavia, non
conferisce all'appaltatore il diritto di risolvere il
rapporto a norma degli art. 1453 e 1454 c.c., né di avanzare
pretese risarcitorie, ma gli attribuisce la sola "facoltà"
di presentare istanza di recesso dal contratto, per il
mancato accoglimento della quale sorge un diritto al
compenso per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo, oltre
ad un congruo prolungamento del termine originariamente
convenuto (v.
artt. 10, co. 8, d.P.R. n. 1963 del 1962; 129, co. 8, d.P.R.
n. 554 del 1999 e, attualmente, 153, co. 8, e 157, co. 1,
d.P.R. n. 207 del 2010).
Il riconoscimento di un diritto al
risarcimento del danno può venire in considerazione solo se
l'appaltatore abbia preventivamente esercitato la facoltà di
recesso, dovendosi altrimenti presumere che egli abbia
considerato ancora eseguibile il contratto, senza ulteriori
oneri a carico della stazione appaltante, non rilevando,
quando non sia stato esercitato il recesso, la costituzione
in mora del committente e l'iscrizione di riserva a verbale
(v. Cass. n. 4780/2012, n. 7069 e 21484/2004, n.
11329/1997).
Questa Corte ha precisato che si deve
escludere una differenza di disciplina tra la mancata
consegna (o il ritardo nella consegna di tutti i lavori)
e la consegna parziale, in quanto in entrambi i casi
trova applicazione il citato art. 10, co. 8, del d.P.R. del
1962, secondo cui l'appaltatore può scegliere se chiedere il
recesso dal contratto, acquisendo il diritto al rimborso dei
maggiori oneri ove la sua istanza venga rigettata, ovvero
proseguire nel rapporto con la sola esclusione della sua,
responsabilità per l'eventuale conseguente ritardo nel
completamento dell'opera
(v. Cass. n. 2983/2013, n. 6198/2005).
A questi principi la Corte d'appello non si è conformata,
avendo dichiarato risolto il contratto per inadempimento del
Comune e condannato quest'ultimo al risarcimento del danno,
senza verificare se l'appaltatore avesse chiesto di recedere
dal contratto, attivando il meccanismo previsto dalla legge
in caso di tardiva, mancata o incompleta consegna dei
lavori. |
LAVORI PUBBLICI:
CONSEGUENZE DI UNA CONSEGNA TOTALE O PARZIALE
DEL CANTIERE DA PARTE DELLA P.A..
Negli appalti pubblici l’inadempimento della P.A.
committente
all’obbligo di eseguire la tempestiva consegna
dei lavori all’appaltatore è un momento essenziale per
la realizzazione dell’opera ma non conferisce
all’appaltatore
il diritto di risolvere il rapporto a norma degli
artt. 1453 e 1454 c.c., né di avanzare pretese risarcitorie,
bensì la sola facoltà di presentare un’istanza di recesso
dal contratto, dal mancato accoglimento della quale
sorge in capo all’appaltatore un diritto al compenso per
i maggiori oneri dipendenti dal ritardo, oltre ad un congruo
prolungamento del termine originariamente convenuto.
Giunge all’esame della Suprema Corte una sentenza d’una
Corte territoriale che, a conferma della statuizione resa in
prime cure dal Tribunale, aveva rigettato le domande di un
Raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) che aveva
chiesto la declaratoria di risoluzione di diritto di un
contratto
d’appalto pubblico, da esso sottoscritto con una P.A.
per la realizzazione d’un impianto polisportivo, in ragione
dell’inutile decorso del termine concesso nella diffida
rivolta
all’Ente per la consegna delle aree, nonché per la condanna
al pagamento dei lavori eseguiti, sui quali erano state
iscritte riserve.
La decisione di merito trova fondamento nell’applicazione
della legislazione specialistica in materia di lavori
pubblici,
nella specie costituita dall’art. 10, d.P.R. n. 1063/1962.
In
particolare, osservò la Corte territoriale, è inconferente
la
tardiva, mancata o incompleta consegna da parte
dell’Amministrazione
committente, posto che n tali casi l’appaltatore
non ha diritto di risolvere il rapporto né di chiedere il
risarcimento
del danno, bensì la mera facoltà di presentare
un’istanza di recesso per ottenere, in caso di rigetto della
stessa,, un compenso per i maggiori oneri dipendenti dal
ritardo e una proroga del termine fissato per l’ultimazione
dell’opera non rilevando quando (come nella specie) non
sia stata presentata l’istanza di recesso, né che il
committente
sia stato costituito in mora (art. 1454 c.c.) né che
l’appaltatore abbia iscritto riserve in contabilità.
Il Supremo Collegio accoglie il primo motivo di ricorso, e
cassa con rinvio la sentenza impugnata: condividendo la
censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 10,
d.P.R. n. 1063/1962, per avere la Corte di merito ritenuto
indebito il pagamento dei lavori eseguiti e non
contabilizzati.
Osserva in proposito la Suprema Corte che tale norma limita
soltanto la possibilità di formulare domande risarcitorie
in caso di mancata presentazione dell’istanza di recesso
dal contratto per tardata o incompleta consegna da parte
del committente ma non esclude per nulla il diritto al
pagamento
dei lavori eseguiti, trattandosi di corrispettivo
dell’appalto
estraneo all’ambito applicativo della citata norma
e per il quale, ove ne ricorrano le circostanze,
l’appaltatore
può coltivare le relative riserve.
Negli appalti pubblici l’inadempimento del committente
all’obbligo
di eseguire la tempestiva consegna dei lavori
all’appaltatore
è un momento essenziale ai fini della realizzazione
dell’opera e non conferisce all’appaltatore il diritto di
risolvere il rapporto a norma degli artt. 1453 e 1454 c.c.,
né di avanzare pretese risarcitorie, ma solo la “facoltà” di
presentare un’istanza di recesso dal contratto, dal mancato
accoglimento della quale sorge in capo all’appaltatore un
diritto al compenso per i maggiori oneri dipendenti dal
ritardo,
oltre ad un congruo prolungamento del termine
originariamente
convenuto (cfr. art. 10, comma 8, d.P.R. n.
1063/1962; art. 129, comma 8, d.P.R. n. 554/1999; art.
153, comma 8 e 157, comma 1, d.P.R. n. 207/2010).
Il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno
può venire in considerazione solo se l’appaltatore abbia
preventivamente esercitato la facoltà di recesso, dovendosi
altrimenti presumere che egli abbia considerato ancora
eseguibile il contratto, senza oneri aggiuntivi a carico
della
stazione appaltante (Cass. n. 4780/2012, n. 7069 e
21484/2004, n. 11329/1997). Del resto, la norma in esame
(art. 10, comma 8, d.P.R. n. 1054, cit.) prevede, in caso di
ritardata consegna del cantiere, seguita da un rigetto
dell’istanza
di scioglimento da parte della P.A. solo un indennizzo
per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo ma non il
pagamento
all’appaltatore del corrispettivo dei lavori eseguiti
in base al contratto: la ragione è che, non essendovi stata
la consegna, non dovrebbe esservi stata alcuna esecuzione
dei lavori.
Poiché, tuttavia, una (parziale) esecuzione non potrebbe
escludersi in ipotesi di consegna parziale dei lavori, la
questione
giuridica che qui si pone di valutare se -in presenza
di consegna parziale o incompleta, alla quale abbia fatto
seguito un’esecuzione dei lavori (nel caso in esame “quasi
integrale”)- la P.A. possa sottrarsi al pagamento degli
stessi
eccependo che l’appaltatore non avrebbe attivato il
meccanismo
individuato dalla legge per sciogliersi dal contratto,
mediante richiesta diretta alla P.A. (e non in sede
giudiziaria
ex art. 1453 c.c.) di recedere dal contratto.
I Giudici di Legittimità danno risposta negativa al quesito.
Osservano che, nel caso di lavori eseguiti in forza di una
consegna che -seppur parziale- vi è stata, l’appaltatore
ha
certo maturato un diritto al corrispettivo per i lavori
eseguiti
che trova titolo nel contratto adempiuto. La ragione di non
aver chiesto all’Ente di recedere dal contratto è una
ragione
idonea a precludere la sola pretesa indennitaria per i
“maggiori oneri” derivanti da una consegna incompleta.
Questa conclusione non contraddice l’assimilazione
dell’ipotesi
di mancata (o di ritardata) consegna a quella di consegna
parziale (cui faccia seguito un’esecuzione, pur non
completa, dei lavori), che è stata operata dalla
giurisprudenza
(Cass. n. 2983/2013; n. 6178/2005) ai fini dell’applicazione
dell’art. 10, comma 8, d.P.R. n. 1063/1962.
Tale
assimilazione
può operare nei limiti in cui sia compatibile con
la diversità delle situazioni considerate, tenuto conto
della ratio della citata disposizione, che è quella di assicurare
alla
P.A. la possibilità di valutare la convenienza, per
l’interesse
pubblico, di tenere in vita il rapporto oppure di adottare
una difforme scelta prospettandosi, ad esempio, il
superamento
degli originari limiti di spesa: è una finalità che sarebbe
elusa ove fosse dato all’appaltatore di richiedere il
rimborso di “maggiori oneri” a titolo indennitario (Cass. n.
1818/1980), non il pagamento di lavori eseguiti
legittimamente
in base al contratto (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
19.10.2015 n. 21100 - Urbanistica
e appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: LA COLLOCAZIONE SU UN’AREA DI UNA “CASA MOBILE”
CON STABILE DESTINAZIONE ABITATIVA RICHIEDE IL
PERMESSO DI COSTRUIRE
La collocazione su un’area di una “casa mobile” con
stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso
di costruire, configura il reato di cui all’art. 44, lett.
b),
d.P.R. n. 380 del 2001, rilevando esclusivamente, ai fini
dell’esclusione contenuta nell’ultima parte dell’art. 3,
comma 1, lett. e5), d.P.R. n. 380 del 2001, la contestuale
sussistenza dei requisiti indicati e, segnatamente, la
collocazione all’interno di una struttura ricettiva
all’aperto,
il temporaneo ancoraggio al suolo, l’autorizzazione
alla conduzione dell’esercizio da effettuarsi in conformità
della normativa regionale di settore e la destinazione
alla sosta ed al soggiorno, necessariamente occasionali
e limitati nel tempo, di turisti.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno del “massimo” titolo
abilitativo per la realizzazione di un intervento edilizio
invero
assai diffuso nella pratica corrente, ossia la c.d. casa
mobile.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza
del tribunale che ha respinto la richiesta di riesame
presentata
avverso il decreto con il quale il Giudice per le indagini
preliminari aveva disposto il sequestro di un prefabbricato
modulare, ipotizzandosi il reato di cui all’art. 44, lett.
b),
d.P.R. n. 380 del 2001.
Avverso tale pronuncia l’indagata
proponeva ricorso per cassazione, in particolare osservando
che, avuto riguardo alla potestà esclusiva in materia
urbanistica
attribuita alla Regione Sicilia, le disposizioni contenute
nel d.P.R. n. 380 del 2001, non potrebbero essere
applicate, mentre, in ragione di quanto disposto dall’art.
5,
L.R. n. 37 del 1985, la sosta o il parcheggio di una casa
mobile non sarebbe soggetto ad alcuna concessione o
autorizzazione se non adibita ad uso abitativo, ipotesi
ricorrente
nel caso di specie.
Aggiungeva che la destinazione
all’uso abitativo sarebbe stata erroneamente valutata dai
giudici del riesame sulla base di un giudizio meramente
prognostico e valorizzando elementi non rilevanti, quali
l’esistenza
di una pavimentazione esterna e di una vasca interrata,
comunque compatibili con la destinazione del terreno
e rispetto ai quali non risulta dimostrata alcuna relazione
con la casa mobile installata.
La Cassazione, respingendo il ricorso dell’indagata, ha sul
punto di interesse, affermato il principio di cui in
massima,
in particolare ricordando che la Corte cost., sent. 24.07.2015, n. 189, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art.
41, comma 4, D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito
con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98, aggiungendo
la frase “ancorché siano installati, con temporaneo
ancoraggio
al suolo, all’interno di strutture ricettive all’aperto,
in conformità alla normativa regionale di settore, per la
sosta
ed il soggiorno di turisti” (successivamente, con il D.L.
28.03.2014, n. 47, art. 10-ter, comma 1, convertito con
modificazioni dalla L. 23.05.2014, n. 80, la parola
“ancorché”
è stata sostituita con le parole “e salvo che”).
Sul
punto, osservano i Supremi Giudici, la Corte costituzionale
ha precisato come la norma individua “(...) specifiche
tipologie
di interventi edilizi, realizzati nell’ambito delle
strutture
turistico-ricettive all’aperto, molto peculiari, che
peraltro
contraddicono i criteri generali (della trasformazione
permanente
del territorio e della precarietà strutturale e funzionale
degli interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale,
ai fini dell’identificazione della necessità o meno del
titolo
abilitativo. In tal modo, la norma impugnata sottrae al
legislatore
regionale ogni spazio di intervento, determinando la
compressione della sua competenza concorrente in materia
di governo del territorio, nonché la lesione della
competenza
residuale del medesimo in materia di turismo, strettamente
connessa, nel caso di specie, alla prima”.
Secondo la Cassazione, dunque, l’evidente eccezione
introdotta,
riferita alle sole “strutture ricettive all’aperto”,
troverebbe
la sua ragion d’essere, come si ricava anche dalla
menzionata sentenza della Corte costituzionale (e da quella,
in essa richiamata, n. 278/2010), nel fatto che la
collocazione
dei manufatti indicati al loro interno, in ragione della
destinazione, non determina una permanente trasformazione
del territorio tale da richiedere il permesso di costruire.
Le modifiche apportate alla disposizione in esame non ne
hanno, per la S.C., in alcun modo ampliato l’ambito di
operatività,
limitandosi a fornire un contributo esplicativo
perfettamente
coerente con i principi generali fissati dalla disciplina
urbanistica e, sostanzialmente, fondato sul fatto
che interventi del tipo di quelli descritti non comportano
una stabile trasformazione rilevante sotto il profilo
urbanistico.
È dunque in quest’ottica che la disposizione deve essere
interpretata, avendo specifico riguardo alla precarietà
oggettiva
e funzionale dell’intervento, cui fa riferimento anche
la Corte cost. nella sent. n. 278/2010. Andrà quindi tenuto
conto del fatto che la disposizione in esame richiede alcuni
specifici requisiti:
a) il temporaneo ancoraggio la suolo,
cosicché
ogni collocazione di tali manufatti che abbia natura
permanente, desumibile non soltanto dal dato temporale
ma anche da ogni altro elemento significativo, quale, ad
esempio, la presenza di parti accessorie fisse o di stabili
allacciamenti
alle reti elettriche, idrica o fognaria;
b) i manufatti
devono trovarsi all’interno di strutture ricettive
all’aperto
e l’uso della specifica locuzione induce a ritenere che il
riferimento riguardi esclusivamente quelle individuate
dall’art.
13, D.Lgs. 23.05.2011, n. 79 (c.d. Codice del turismo)
e, segnatamente, i villaggi turistici i campeggi, i campeggi
nell’ambito delle attività agrituristiche ed i parchi di
vacanza;
c) tali strutture dovranno essere debitamente
autorizzate e condotte in conformità alla normativa
regionale
di settore;
d) la destinazione dei manufatti è quella della
sosta ed il soggiorno di turisti. La formulazione della
disposizione
è inequivoca, peraltro, nel richiedere la compresenza
di tutte le condizioni in precedenza indicate.
Da qui, conclusivamente, il rigetto del ricorso, non
rientrando
l’ipotesi concreta nel campo di applicazione della normativa
in deroga, atteso che -come accertato dal giudice
di merito- l’immobile sequestrato risultava costituito da
un
prefabbricato modulare di mq 42, in parte poggiato su un
carrello ed in parte su pali telescopici, dotato, sul lato
est,
di un terrazzino di mq 16, poggiato anch’esso su pali
telescopici.
Il manufatto risultava, inoltre, suddiviso in due distinte
unità, con ingressi separati, dotate la prima di due
camere da letto, vano cucina e vano WC e la seconda di
una camera, un vano cucina e vano WC. Il Tribunale, sulla
base dei dati fattuali a sua disposizione, aveva dunque
correttamente
ritenuto che l’immobile fosse destinato ad uso
abitativo, escludendone anche l’utilizzo per fini di
soddisfacimento
di esigenze meramente temporanee, valorizzando,
a tal fine, la presenza di arredi, l’esistenza, all’esterno
del
manufatto, di un’area piastrellata di circa 200 mq, sulla
quale insiste il terrazzino e la realizzazione di una vasca
idrica
interrata in cemento armato vibro-compresso ed osservando
che l’assenza di allacciamenti alla rete idrica e l’assenza
di vasche di raccolta delle acque bianche e nere è
giustificata dalla recente collocazione del prefabbricato,
desunta
dalla data di rilascio della carta provvisoria di
circolazione.
In giurisprudenza, sulla necessità del permesso di
costruire per le cosiddette case mobili, v. Cass., Sez. III,
22.06.2011, n. 25015, D.R., in CED, n. 250601)
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 13.10.2015 n. 41067
- Urbanistica e appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: GLI INTERVENTI EDILIZI IN ZONA VINCOLATA DIFFORMI DAL
TITOLO ABILITATIVO SONO EX LEGE TUTTI IN DIFFORMITÀ
TOTALE.
In presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente
vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica
e dell’individuazione della sanzione penale applicabile,
è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale,
in quanto l’art. 32, comma 3, d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi
realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli
eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni
essenziali e, quindi, quali difformità totali.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla qualificazione dell’intervento edilizio eseguito in
zona
sottoposta a vincolo paesaggistico e della sua rilevanza
agli effetti della successiva individuazione della sanzione
penale applicabile.
La vicenda processuale segue
all’ordinanza
con la quale il Tribunale aveva accolto l’istanza di
riesame proposta avverso il decreto con il quale il GIP
disponeva
il sequestro preventivo delle opere esistenti in un
cantiere. Il sequestro era stato disposto nell’ambito di
indagini
a carico del L. nella qualità di comproprietario dell’opera
abusiva per il reato di cui all’art. 44, comma 1, d.P.R. n.
380 del 2001, perché, previa demolizione di un immobile
preesistente e previo sbancamento, era stato realizzato nel
cantiere un basamento in c.a. di circa mq 17 sul quale era
in corso di realizzazione la collocazione di carpenteria in
legno
e ferro al momento priva di gettata in calcestruzzo.
I
giudici del riesame rilevavano che nel caso di specie,
concernente
una ristrutturazione con ampliamento di un immobile,
previa demolizione delle parti interne di esso e mutamento
dei volumi, la Polizia Municipale si era limitata a
dare atto dell’esistenza dell’illecito edilizio, senza
precisare,
visto che sia le demolizioni interne dell’edificio, sia lo
sbancamento
di 17 mq costituivano oggetto della concessione
edilizia n. 220 del 2013, in che cosa vi fosse difformità
penalmente
rilevante.
Peraltro, argomentavano i giudici di
merito, dalla disamina del fascicolo fotografico non si
evinceva
la demolizione dei muri perimetrali dell’edificio, essendo
ben visibile l’esistenza di un muro di prospetto. Contro
l’ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il P.M., in
particolare rilevando, per quanto qui di interesse, che il
Tribunale
del riesame aveva trascurato di considerare che le
opere in questione interessavano un’area gravata da vincolo
paesaggistico: quindi era del tutto inconferente, ai fini
della rilevanza penale della condotta edificatoria in atti,
l’entità differenziale tra quanto assentito dalla
concessione
e quanto effettivamente realizzato dall’impresa esecutrice,
integrando il reato di cui all’art. 44, lett. c),
qualsivoglia divergenza
rispetto al provvedimento concessorio.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, osservando come il Tribunale
del riesame aveva ritenuto la legittimità dell’intervento di
ristrutturazione
sulla base della sussistenza di un titolo concessorio,
senza considerare il dato, evidenziato dal P.M.,
che nel verbale di sequestro di urgenza della Polizia
Municipale,
risultava accertata la demolizione totale dell’immobile
preesistente e che dal rapporto fotografico della PG
operante si evinceva che le mura in esso rappresentate
non erano le pareti della struttura originaria, bensì
appartenevano
agli edifici confinanti, trattandosi di lotto di terreno
intercluso fra altri fondi.
Alla luce di tali risultanze
l’attività
svolta nel cantiere si poneva in totale difformità dal
permesso
di costruire rilasciato, essendo essa diretta alla creazione
di una nuova opera e non alla ristrutturazione delle
preesistente, donde, in base ad una giurisprudenza ormai
consolidata in tema di interventi edilizi in zona vincolata,
gli
stessi andavano considerati in difformità totale (v., in
precedenza:
Cass., Sez. III, 05.09.2014, n. 37169, in
CED, n. 260181; Id., Sez. III, 27.04.2010, n. 16392, in
CED, n. 246960) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
02.10.2015 n. 39817 - Urbanistica e appalti n.
12/2015).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Secondo costante indirizzo di questa Corte,
la ristrutturazione edilizia consiste nel ripristino
o la sostituzione di elementi costitutivi dell'edificio
originario volti a trasformare l'organismo preesistente, a
condizione che rimangano immutati sagoma, volume ed altezza
dello stesso
(Cass. sez. 3, n. 36528 del 16/06/2011, dep. 10/10/2011, Rv.
251039, Sez. 3, n. 49221 del 06/11/2014, dep. 26/11/2014 Rv.
261216, Cass. Sez. 5^ 17.2.1999 n. 3558, P.M. in proc.
Scarti. Rv. 213598,)
Nella nozione di ristrutturazione edilizia
sono dunque ricompresi interventi volti alla trasformazione
dell'edificio preesistente mediante il ripristino e la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi, ma lo stesso
deve rimanere inalterato per forma, volume ed altezza, onde
è estranea a detta categoria la creazione di nuovi volumi
sia in ampliamento sia in sopraelevazione, esclusi quelli
tecnici (in questo
senso Cass. Sez. 5^ 17.2.1999 n. 3558, P.M. in proc. Scarti.
Rv. 213598).
La normativa di riferimento della fattispecie in esame è
data dall'art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 380/2001, la
quale descrive gli interventi di ristrutturazione edilizia
come: "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento
di nuovi elementi ed impianti".
Premessi tali principi, ritiene questo Collegio che gli
interventi effettuati non siano riconducibili nel concetto
di ristrutturazione in quanto si è proceduto alla integrale
demolizione della originaria struttura senza che la
successiva ricostruzione prevedesse il mantenimento di
volumi sagome ed altezza identiche alla preesistente
costruzione; tutto ciò in totale difformità del titolo
concessorio (n. 220 del 2013) rilasciato per la
ristrutturazione, il quale autorizza "ristrutturazione
edilizia mediante ampliamento, per mc 105,56 su una cubatura
esistente di mc 212,54 finalizzata alla realizzazione di
primo piano realizzazione di parcheggio a piano cantinato,
demolizione di superfetazione consistente nel tramezzo
realizzato nel terrazzo, demolizione di solaio e nuova
realizzazione, realizzazione di impianti , diversa
distribuzione interna ed opere di rifinitura.
Gli aumenti di volumetria previsti nella concessione
contemplavano in minima parte la possibilità di effettuare
abbattimenti; mentre la demolizione totale
accompagnata dalla ricostruzione con nuovi volumi integra
l'ipotesi di nuova opera prevista dall'art. 3, lett. e),
cit. d.p.r. e non certo una ristrutturazione edilizia.
A ciò va aggiunto il rilievo che l'intervento edilizio è
stato effettuato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
In tale ipotesi la Suprema Corte ha più volte affermato il
principio secondo cui in presenza di
interventi edilizi in zona paesagisticamente vincolata, ai
fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è
indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, d.P.R.
06.06.2001, n. 380, prevede espressamente che tutti gli
interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo,
inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità totali
[Sez. 3 n. 37169 del 06/05/2014 Ud. (dep. 05/09/2014) Rv.
260181, Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010 Cc. (dep.
27/04/2010) Rv. 246960].
Il Tribunale del riesame ha ritenuto la legittimità
dell'intervento di ristrutturazione sulla base della
sussistenza di un titolo concessorio, senza considerare il
dato, evidenziato dal P.M. ricorrente, che nel verbale di
sequestro di urgenza 16.11.2013 della Polizia Municipale,
risulta accertata la demolizione totale dell'immobile
preesistente e che dal rapporto fotografico della PG
operante si evince che le mura in esso rappresentate non
sono le pareti della struttura originaria, bensì
appartengono agli edifici confinanti, trattandosi di lotto
di terreno intercluso fra altri fondi.
Alla luce di tali risultanze l'attività svolta nel cantiere
di via Papa Sergio I si pone in totale difformità dal
permesso di costruire rilasciato, essendo essa diretta alla
creazione di una nuova opera e non alla ristrutturazione
delle preesistente. |
ESPROPRIAZIONE:
DETERMINAZIONE DELL’INDENNIZZO ESPROPRIATIVO IN
CASO DI OCCUPAZIONE USURPATIVA.
In fattispecie d’occupazione cd. usurpativa e, quindi, di
illecito comune (quale si ha nel caso di trasformazione
del fondo sulla base d’una dichiarazione di P.U. inefficace
per omessa indicazione dei termini di inizio e fine
delle espropriazioni) la valutazione dei beni va effettuata
con riferimento alla disciplina urbanistica vigente al
tempo del compiuto illecito ed in base al criterio
dell’edificabilità
o meno dei suoli, accertando, quindi, la destinazione
ad essi all’epoca impressa dallo strumento
medesimo, senza alcun ricorso integrativo o sostitutivo
all’edificabilità di fatto: tale valutazione deve essere
commisurata al valore venale del terreno usurpato, da
ponderarsi non in base a criteri astratti, bensì concreti,
alla luce della Corte cost., sent. n. 181/2011.
In accoglimento di una domanda proposta da alcuni privati,
un Tribunale condannò un Comune al risarcimento del
danno da occupazione acquisitiva d’un terreno, reputato a
vocazione edificatoria e utilizzato dall’Ente locale per
realizzare
opere pubbliche viarie, liquidando anche il ristoro in
favore degli attori per l’occupazione acquisitiva patita ma
dichiarandosi incompetente per la domanda di determinazione
dell’indennità d’occupazione temporanea, essendo
tal materia devoluta alla competenza funzionale della Corte
d’Appello, in unico grado.
La Corte di merito, in riforma della sentenza di primo
grado,
riduceva l’entità del risarcimento ritenendo tra l’altro e
all’esito di una rinnovata CTU, che nella specie si vertesse
in ipotesi d’illecito da occupazione usurpativa e non
acquisitiva:
questo perché la declaratoria di P.U. non era stata
corredata dai termini prescritti dall’art. 13 della L. n.
2359/1865, non potendosi ritenersi sanata, quest’originaria
invalidità, da una successiva delibera di Consiglio
comunale.
Per il che, anche il decreto di occupazione, non collegato a
un fine di pubblico interesse legalmente dichiarato, era
inidoneo
a legittimare la temporanea sottrazione della disponibilità
del bene alla parte privata.
Avverso questa sentenza i privati hanno proposto ricorso
per Cassazione, che la Suprema Corte in parte accoglie
cassando con rinvio la sentenza gravata.
Il ricorso è accolto con riferimento alla censura involgente
la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 Cost.,
dell’art.
5-bis, D.L. n. 333/1992, in combinato l’art. 43 del d.P.R.
n.
327/2001 (T.U. Edilizia).
Osserva la S.C. che nella specie si verte in caso di
occupazione
c.d. usurpativa e, quindi, di illecito comune.
In particolare si è già affermato che in ipotesi di
occupazione
usurpativa (quale si ha nel caso di trasformazione del
fondo sulla base d’una dichiarazione di P.U. inefficace per
omessa indicazione dei termini di inizio e fine delle
espropriazioni)
la valutazione dei beni deve essere effettuata con
riferimento alla disciplina urbanistica vigente al tempo del
compiuto illecito ed in base al criterio dell’edificabilità
o
meno dei suoli, accertando, quindi, la destinazione ad essi
all’epoca impressa dallo strumento medesimo, senza alcun
ricorso integrativo o sostitutivo all’edificabilità di
fatto.
Tale
valutazione del risarcimento deve essere commisurato al
valore venale del terreno usurpato, da ponderarsi non in
base a criteri astratti, bensì concreti, alla luce della
sopravvenuta
e nota sent. n. 181/2011 resa dal Giudice delle leggi
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
25.09.2015 n. 19085 - Urbanistica e appalti n. 12/2015). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: EFFETTI DELL’APPROVAZIONE DI UN PIANO
PARTICOLAREGGIATO DI INIZIATIVA PRIVATA IN TEMA DI
PROCEDIMENTO ESPROPRIATIVO E DETERMINAZIONE
DELL’INDENNIZZO.
L’approvazione di un piano particolareggiato d’iniziativa
privata in zona industriale e artigianale d’interesse
locale consente (ex art. 28, L. n. 1150/1942, novellato ex
art. 8, L. n. 765/1967) il ricorso all’espropriazione per
l’acquisizione delle aree necessarie, nel caso in cui i
proprietari
non aderiscano al progetto o non accettino di
cederle volontariamente, così attribuendo alle opere
previste dal piano il valore di opere private di pubblica
utilità: in tali casi, trova applicazione l’art. 36, comma
1,
T.U. Espropriazioni che, prevede la liquidazione
dell’indennità
in misura pari al valore venale dell’immobile.
Un Consorzio di Imprese convenne in giudizio un privato e
un Comune, chiedendo la determinazione dell’indennità
dovuta per l’espropriazione di due fondi, disposta in favore
del Consorzio medesimo per la realizzazione di un piano
particolareggiato d’iniziativa privata, in zona industriale
e
artigianale d’interesse locale.
A tale giudizio fu riunito
quello
d’opposizione alla stima, promosso dal privato verso il
Consorzio e il Comune. In quest’ultimo giudizio, si erano
costituiti il Comune, il quale aveva eccepito il proprio
difetto
di legittimazione passiva, e il Consorzio, che aveva
riproposto
in via riconvenzionale la domanda avanzata nel primo
giudizio.
La Corte d’Appello, definendo il gravame in unico grado,
dichiarò il difetto di legittimazione del Comune,
determinando
l’indennità d’esproprio a favore del privato. Ritenuto
che al pagamento dell’indennità fosse tenuto il Consorzio,
quale beneficiario dell’espropriazione, la Corte osservò che
-come accertato dal CTU- i fondi espropriati ricadevano in
zona omogenea soggetta a piano particolareggiato di
iniziativa
privata e, pur risultando edificabili sotto il profilo
giuridico, non erano dotati delle essenziali opere
propedeutiche.
Pertanto, ai sensi dell’art. 37 T.U. Espropriazioni
(d.P.R. n. 327/2001) l’indennità di esproprio era da
liquidarsi
in misura pari al valore venale degli immobili, decurtato
degli oneri di urbanizzazione. In tal modo, facendo propria
la valutazione del CTU, a tali importi ha aggiunto
l’indennità
di cui al d.P.R. n. 327/2001 (art. 40, commi 1 e 4),
liquidata
sulla base del valore agricolo medio previsto per le
coltivazioni risultanti dal verbale d’immissione in possesso
e dallo stato di consistenza.
La Corte, invece, escluse che
gli oneri di urbanizzazione dovessero essere calcolati in
base
ai costi effettivamente sostenuti dal Consorzio, da
dividersi
per le sole aree edificate, rilevando che l’ammontare
di tali costi non era ancora definitivo, perché i lavori non
erano ancora ultimati e precisando che il costo unitario era
stato correttamente determinato in relazione all’intera area
urbanizzata, in quanto tra i costi dovevano essere incluse
anche le aree a cessione gratuita.
La Corte, infine, escluse
l’applicabilità dell’art. 36 del d.P.R. n. 327/2001,
osservando
che il richiamo a tale disposizione non avrebbe comportato
una modifica del criterio adottato, anche con riferimento
alla detrazione degli oneri di urbanizzazione. Infine,
la Corte territoriale riconosceva (ex L. n. 244/2007, n.
244,
art. 2, comma 89) la maggiorazione prevista dall’art. 37,
comma 2, d.P.R. n. 327/2001, escludendo invece
l’applicabilità
del comma 7 della medesima disposizione, in mancanza
di prova documentale delle somme pagate per ICI e
dell’indicazione delle aree alle quali si riferivano.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, proposto
dal Consorzio al quale resiste, mediante controricorso e
ricorso
incidentale, la parte privata.
La Corte analizza le complessive doglianze, principiando
dal ricorso incidentale.
In tale sede, i controricorrenti censurano la sentenza per
violazione e falsa applicazione dell’art. 36 T.U.
Espropriazioni,
oltre che per vizio motivazionale, sostenendo che nella
liquidazione dell’indennità d’esproprio la Corte di merito
non avrebbe dovuto tener conto dell’incidenza degli oneri
d’urbanizzazione ma solo del valore venale dei fondi, già
dotati di potenzialità legali ed effettive di edificazione,
non
essendo gravati da vincoli d’inedificabilità assoluta. Nella
specie, non poteva quindi trovare applicazione la
decurtazione
di cui all’art. 37 T.U. Espropriazioni (relativa agli
interventi
finalizzati all’attuazione di riforme economico-sociali)
né quella contenuta nel precedente art. 36, comma 1-bis
(che riguarda la realizzazione di programmi di
riabilitazione
urbana).
Di contro, avrebbe dovuto applicarsi la disciplina dettata
dal primo comma dell’art. 36, trattandosi d’espropriazione
disposta per la realizzazione di insediamenti industriali o
artigianali.
Nel procedere alla decurtazione dell’indennità, ad
avviso dei controricorrenti, la Corte di merito non avrebbe
erroneamente tenuto conto delle motivazioni sottese
all’approvazione
del piano particolareggiato, che escludevano la
sussistenza dei presupposti prescritti dall’art. 27 della L.
n.
166/2002, né dei contributi pubblici percepiti dal Consorzio
a copertura parziale degli oneri di urbanizzazione, ai sensi
delle L.R. Friuli Venezia Giulia n. 18/2011 e n. 27/2012.
La Suprema Corte accoglie il mezzo incidentale e, per
l’effetto
annulla con rinvio la sentenza gravata, con assorbimento
del ricorso principale.
A fondamento della propria decisione, il Supremo Collegio
osserva che la sentenza impugnata ha accertato che
l’espropriazione
fu disposta per la realizzazione di un piano
particolareggiato d’iniziativa privata in zona industriale e
artigianale
d’interesse locale, la cui approvazione consente
(ai sensi della L.R. Friuli Venezia Giulia n. 52/1991, n.
52, il
cui art. 49 pone una disciplina analoga a quella dell’art.
28
della Legge urbanistica fondamentale n. 1150/1942, novellato
dall’art. 8 L. n. 765/1967) il ricorso all’espropriazione
per l’acquisizione delle aree necessarie, nel caso in cui i
proprietari non aderiscano al progetto o non accettino di
cederle volontariamente. Tale legge, quindi, consente di
equiparare sostanzialmente alle opere previste dal piano il
valore di opere private di pubblica utilità.
Tale qualificazione, non espressamente prevista ex lege ma
ricollegabile al carattere privato dell’iniziativa sottesa
alla
formazione e all’attuazione del piano, comporta
l’applicabilità
dell’art. 36 del d.P.R. n. 327/2001, ai sensi del quale
l’indennità di esproprio dev’essere determinata in misura
pari al valore venale dell’immobile, con esclusione
dell’applicabilità
delle disposizioni contenute nelle Sezioni III e IV
del Capo VI del Titolo II del citato d.P.R., concernenti la
determinazione
dell’indennità di espropriazione rispettivamente
per le aree edificabili o edificate e per quelle
inedificabili.
L’applicazione della predetta disposizione, in luogo di
quelle
dettate dagli artt. 37 e 40, non comporta un mutamento
del criterio fondamentale di determinazione dell’indennità
che -per effetto della dichiarazione d’illegittimità
costituzionale
dell’art. 37, comma 1 (Corte cost., n. 348/2007) e
della sua sostituzione ad opera dell’art. 2, comma 89, lett.
a), della L. n. 244/2007, nonché della dichiarazione
d’incostituzionalità
dell’art. art. 40, comma 1 (Corte cost., n.
181/2011)- consiste, tanto per le aree edificabili quanto
per
quelle inedificabili, sempre nel valore di mercato del bene.
L’inapplicabilità di tali disposizioni esclude la
possibilità di
operare la riduzione prevista dall’art. 37, comma 1, d.P.R.
cit., per gli espropri finalizzati a interventi di riforma
economico-
sociale, rendendo viceversa operante l’art. 27, comma
5, L. n. 166/2002 (richiamato dall’art. 36, comma 1-bis,
T.U. Espropriazioni, introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. n.
302/2002) che, per le espropriazioni finalizzate alla
realizzazione
di programmi di riabilitazione urbana, prevede la
decurtazione
dell’indennità in misura pari agli oneri di urbanizzazione
stabiliti dalla convenzione stipulata tra il Comune
e il Consorzio costituito tra i proprietari degl’immobili
inclusi
nel relativo piano di attuazione.
Sennonché, conclude
la S.C., l’espropriazione dei fondi di proprietà degli
attori
non è qui in alcun modo riconducibile alla fattispecie
prevista
dall’art. 27, comma 5, cit., essendo stata disposta per
realizzazione di un piano che -promosso da privati per la
realizzazione di una zona industriale e artigianale
d’interesse
locale- non ha nulla in comune con quelli a cui fa
riferimento
la predetta disposizione: questi ultimi, oltre ad avere
come finalità la “riabilitazione di immobili ed attrezzature
di
livello locale” ed il “miglioramento della accessibilità e
mobilità
urbana”, ovvero il “riordino delle reti di trasporto e di
infrastrutture di servizio per la mobilità attraverso una
rete
nazionale di autostazioni per le grandi aree urbane”,
traggono
origine da un’iniziativa pubblica, dovendo essere promossi
dagli enti locali, e rispondono ad esigenze urbanistiche
totalmente diverse, in quanto le opere da essi previste,
pur potendo essere cofinanziate da risorse private, fornite
dai soggetti interessati alle trasformazioni urbane, debbono
consistere in “interventi di demolizione e ricostruzione di
edifici e delle relative attrezzature e spazi di servizio,
finalizzati
alla riqualificazione di porzioni urbane caratterizzate da
degrado fisico, economico e sociale” (TAR Puglia, Bari,
Sez. III, 04.03.2014, n. 295).
Trova pertanto applicazione, nella specie, esclusivamente
dell’art. 36, comma 1, che per le espropriazioni finalizzate
alla realizzazione di opere private di pubblica utilità non
rientranti nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica,
convenzionata
o agevolata né nell’ambito di piani di insediamenti
produttivi di iniziativa pubblica, prevede la liquidazione
dell’indennità in misura pari al valore venale
dell’immobile.
Torna pertanto applicabile, in riferimento alla fattispecie
in
esame, il principio enunciato dalla giurisprudenza di
legittimità
in tema di liquidazione dell’indennità di espropriazione
per le aree edificabile secondo cui, nell’ambito della
valutazione
dell’immobile, la distinta considerazione degli oneri
di urbanizzazione costituisce un momento imprescindibile
esclusivamente nel caso di adozione del metodo di stima
analitico-ricostruttivo, fondato sul calcolo del valore di
trasformazione
dell’immobile, da determinarsi tenendo conto
degl’indici di fabbricabilità previsti dallo strumento
urbanistico
e dell’incidenza delle superfici da destinare a spazi
pubblici e ad opere d’interesse generale, mentre non trova
giustificazione nel caso di ricorso al metodo
sintetico-comparativo,
che, in quanto fondato sulla comparazione con i
prezzi di mercato pagati per immobili situati nella medesima
zona ed aventi caratteristiche omogenee a quelle del
fondo espropriato, sconta anticipatamente il peso degli
oneri connessi allo sfruttamento del suolo, la cui
detrazione
si risolverebbe pertanto in una non consentita duplicazione
(ex plurimis, Cass., Sez. I, 04.07.2013, n. 16750; 22.03.2013, n. 7288; 31.05.2007, n. 12771)
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
25.09.2015 n. 19077 -
Urbanistica e appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: NOZIONE DI “ESISTENZA” DELLE OPERE DI URBANIZZAZIONE E SUA RILEVANZA RISPETTO ALL’ATTIVITÀ
LOTTIZZATORIA.
In virtù del combinato disposto della L. n. 1150 del
1942, art. 31 e art. 41-quinquies, ultimo comma,
l’espressione
“esistenza” delle opere di urbanizzazione ivi
contenuta, rilevante ai fini della necessità o meno della
previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro
strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della
concessione edilizia, deve essere intesa nel significato
di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto,
tale valutazione circa la congruità del grado di
urbanizzazione
di un’area non può che essere effettuata alla
stregua della normativa sugli “standards” urbanistici di
cui al combinato disposto del D.M. n. 1444 del 1968 e
dell’art. 17, L. n. 765 del 1967.
Ne discende che
l’equivalenza
tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata
urbanizzazione è configurabile quando si riscontri
l’esistenza
di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
almeno nelle quantità minime prescritte.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su
una vicenda assai diffusa nella giurisprudenza di
legittimità,
in particolare attinente i rapporti intercorrenti tra
l’illecito lottizzatorio
e l’esistenza o meno di opere di urbanizzazione in
un’area al fine di consentire una corretta valutazione
dell’esistenza
del relativo reato edilizio. La vicenda processuale trae
origine dall’ordinanza con cui il tribunale respingeva la
richiesta
di riesame presentata nell’interesse di L.F. proposta
avverso il decreto con cui il G.I.P. disponeva il sequestro
preventivo
di n. 16 unità abitative divise su quattro fabbricati, in
quanto indagato dei reati di cui all’art. 44, lett. c),
artt. 95 e
75, d.P.R. n. 380 del 2001, e art. 181, D.Lgs. n. 42 del
2004.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione
l’indagato,
in particolare contestando, con riferimento alla questione
della carenza di urbanizzazione primaria, quanto affermato
dal tribunale che avrebbe erroneamente fatto riferimento
all’erroneo presupposto che la frazione territoriale in
cui insistono gli abusi costituisse area solo parzialmente
urbanizzata,
ciò per la mancanza alla data del 24.06.2013
del collettore fognario pubblico; quanto alla carenza
urbanizzazione
secondaria, erroneamente i giudici avrebbero fatto
riferimento alle dichiarazioni di un teste (tale B.,
dell’Ufficio
opere pubbliche) da cui sarebbe risultato che non erano
stati
previsti incrementi delle stesse a seguito della
realizzazione
di alcune opere.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare evidenziando che, con
riferimento
alla nozione di “esistenza” delle opere di urbanizzazione,
occorreva tener conto della più recente giurisprudenza
dei giudici amministrativi, in virtù del combinato disposto
dagli artt. 31 e 41-quinquies, ultimo comma, L. n.
1150 del 1942.
Secondo la giurisprudenza amministrativa,
infatti, l’espressione “esistenza” delle opere di
urbanizzazione
ivi contenuta, rilevante ai fini della necessità o meno
della
previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro
strumento
urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione
edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza
delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale
valutazione
circa la congruità del grado di urbanizzazione di un’area
non può che essere effettuata alla stregua della normativa
sugli “standards” urbanistici di cui al combinato disposto
del
D.M. n. 1444 del 1968 e della L. n. 765 del 1967, art. 17.
Ne
discende che l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e
stato
di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si
riscontri
l’esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
almeno nelle quantità minime prescritte (Cons. Stato,
Sez. V, 29.04.2000, n. 2562; TAR Venezia, sent. 04.02.2012, n. 234).
A ciò si aggiunge -concludono i
Supremi
Giudici- quanto disposto dall’art. 12 del T.U. E., in forza
del quale il permesso di costruire è comunque subordinato
alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, o
alla
previsione da parte del Comune dell’attuazione delle stesse
nel successivo triennio, ovvero all’impegno degli
interessati
di procedere all’attuazione delle medesime
contemporaneamente
alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso.
Elementi tutti mancanti nel caso in esame
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.09.2015 n.
38795 - Urbanistica e appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
INCOMMERCIABILITÀ DEGLI IMMOBILI ABUSIVI.
Gli atti di trasferimento di diritti reali su immobili sono
nulli, ai sensi dell’art. 40, comma 2, L. n. 47/1985, sia
nel caso in cui gli immobili oggetto di trasferimento
non siano in regola con la normativa urbanistica (nullità
di carattere sostanziale), sia quando dagli atti di
trasferimento
non risulti la circostanza della regolarizzazione
in corso (nullità di carattere formale).
Un privato convenne in Tribunale il promittente venditore
di un immobile, chiedendo dichiararsi la legittimità del
proprio
recesso dalla proposta d’acquisto del bene, risultato
essere accatastato come “locale di soffitta, categoria A/7”,
perciò privo del certificato di abitabilità e, quindi, non
conforme
alla destinazione d’uso residenziale prospettata in
sede di vendita, al cui scopo l’attore dichiarava di averlo
voluto acquistare.
Il Tribunale accolse la domanda e condannò il convenuto
al pagamento del doppio della caparra.
La statuizione fu riformata dalla Corte d’Appello, che
rigettò
la domanda dell’attrice. Oltre a verificare la consistenza
di reciproci inadempimenti, osservò che il consenso delle
parti si era formato sull’acquisto di “quattro locali di
soffitta”
e non già di un’abitazione, com’era ricavabile dalla
descrizione
del bene indicata nella proposta d’acquisto formulata
dall’originario attore e accetta dal convenuto.
In tal
modo si escluse che la consegna dell’immobile oggetto del
preliminare integrasse la vendita di aliud pro alio e si
affermò
che seppure la pubblicità dell’immobile compiuta
dall’agenzia
avesse fatto riferimento alla vendita di un “superattico”,
la promissaria fosse perfettamente a conoscenza
della reale destinazione dell’immobile, in ragione della
preventiva
disamina degli atti di provenienza, avvenuti prima
della sottoscrizione della proposta.
Circa la mancanza del
requisito di abitabilità ed il cambio d’uso -osservò la
Corte
distrettuale- l’attrice, visitato l’immobile adibito ad
abitazione,
ben aveva percepito il contrasto con la descrizione
contenuta negli atti di provenienza e nella proposta di
acquisto
(ove lo stesso era definito “magazzino”). In ragione
di questo, era da ritenersi che parte attrice avesse
rinunciato
al requisito dell’uso abitativo, difforme da quello
risultante
dagli atti di provenienza, non potendo neppur rilevare, in
proposito, il riferimento alla clausola inerente alle
agevolazioni
fiscali per la prima casa inserita nella proposta
d’acquisto.
In ogni caso, concluse la Corte territoriale, ai fini
della commerciabilità del bene sarebbe stata sufficiente la
dichiarazione di avvenuta realizzazione dell’immobile in
data
anteriore al 01.09.1967, sicché parte inadempiente
doveva considerarsi l’attrice, che non si era presentata
per la stipulazione del contratto definitivo.
L’originario attore perciò grava la sentenza con ricorso
affidato
a quattro motivi, uno dei quali è accolto dalla Suprema
Corte, che cassa con rinvio.
Per quanto d’interesse per questa Rivista, il ricorso è
accolto
in relazione motivo con il quale è denunciata la violazione
di alcune disposizioni della L. n. 47/1985. Osserva la
Corte che gli atti di trasferimento di diritti reali su
immobili
sono nulli, ai sensi dell’art. 40, comma 2, L. n. 47/1985,
sia
nel caso in cui gli immobili oggetto di trasferimento non
siano in regola con la normativa urbanistica (nullità di
carattere
sostanziale), sia quando dagli atti di trasferimento
non risulti la circostanza della regolarizzazione in corso
(nullità di carattere formale): sul punto, è richiamato un
recente
insegnamento (Cass., n. 25811/2014).
Ancora, il Supremo Collegio ricorda che in forza di tal
norma
i beni immobili che abbiano subito, in epoca successiva
al 01.09.1967, interventi di trasformazione edilizia
per i quali sia necessaria la concessione, sono
incommerciabili
-con conseguente nullità dei relativi atti di trasferimento- ove l’alienante non dia conto degli estremi della licenza
o della concessione ad edificare o della concessione
rilasciata in sanatoria o della presentazione della relativa
domanda. Per escludere la commerciabilità è sufficiente
che l’opera abbia subito modifiche nella sagoma o nel volume
rispetto a quelli preesistenti.
La sentenza qui impugnata s’è discostata da queste
disposizioni,
avendo ritenuto che sarebbe stato possibile il trasferimento
dell’immobile con una mera dichiarazione sostitutiva
dell’atto notorio di cui all’art. 40, L. n. 47/1985, pur
avendo affermato che non era stato sanato il cambio di
destinazione dell’immobile. Evidentemente, sotto il profilo
in
esame e per le considerazioni sopra formulate, è irrilevante
che in tempo successivo l’immobile sia stato venduto: per
tale profilo, la sentenza è cassata con rinvio ad altra
sezione
della Corte a quo (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.09.2015 n. 18261
- Urbanistica e
appalti n. 11/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ORDINE DI DEMOLIZIONE DEL MANUFATTO ABUSIVO
NON SI ESTINGUE PER LA MORTE DEL REO E RESTA
ESEGUIBILE ANCHE NEI CONFRONTI DELL’EREDE.
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile per successione
a causa di morte, l’ordine di demolizione del manufatto
abusivo conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede
del condannato, stante la preminenza dell’interesse
paesaggistico o urbanistico, alla cui tutela è preordinato
il provvedimento amministrativo emesso dal giudice
penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione
del manufatto, dell’avente causa del condannato, mentre
passa in secondo piano l’aspetto afflittivo della sanzione
e, quindi, il carattere personale della stessa.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione della persistente eseguibilità dell’ordine
di
demolizione del manufatto abusivo nel caso in cui,
pronunciata
la sentenza di condanna, si verifichi medio tempo il decesso
del condannato.
La vicenda processuale trae origine
dall’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione rigettava
l’istanza
volta ad ottenere la revoca, ovvero la sospensione,
dell’ingiunzione a demolire emessa dalla Procura della
Repubblica
in esecuzione di una sentenza irrevocabile. Contro
l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato,
in particolare deducendo che il provvedimento di demolizione
era indirizzato a soggetto deceduto, ed era stato notificato
all’erede nell’atto di notifica compilato dall’ufficiale
giudiziario.
Nessun provvedimento di demolizione sarebbe mai stato emesso
a carico della stessa erede o degli altri eredi legittimi
o testamentari, non essendo la destinataria della notifica
l’unica erede, ma soltanto usufruttuaria del bene.
Sosteneva,
ancora, che proprio in virtù del principio che l’ordine
di demolizione ha carattere reale e ricade direttamente sul
soggetto che è in rapporto con il bene, quest’ultimo ha
diritto
alla notificazione dell’ingiunzione a demolire, in modo da
potersi poi rivalere con gli strumenti privatistici, nei
confronti
dei soggetti responsabili dell’attività abusiva, degli
effetti
sopportati in via pubblicistica.
Anche alla luce delle
pronunce
rese dalla Corte di Strasburgo, andava quindi ribadito il
principio che l’ordine di demolizione ha carattere reale e
natura
di sanzione amministrativa e deve essere eseguito nei
confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto con il
bene
e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento,
anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione
del reato. Nel caso di specie, tale principio non sarebbe
stato
rispettato, in quanto l’ingiunzione a demolire era
indirizzata
al de cuius e la stessa ingiunzione non era stata notificata
a tutti gli eredi in rapporto diretto con il bene, ma
soltanto all’usufruttuaria.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha rigettato il ricorso, osservando che, nello specifico del
caso
esaminato, il G.E. aveva operato un buon governo del
costante dictum della Cassazione secondo cui l’ordine di demolizione
del manufatto abusivo, disposto con la sentenza
di condanna per reato edilizio, non è estinto dalla morte
del
reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non
avendo
natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria
(cfr. ex multis: Cass. pen., Sez. III, 18.01.2011, n.
3861,
B. ed altri, in CED, n. 249317).
Peraltro, nel ribadire che
l’esecuzione
di un sequestro o di un ordine di demolizione di
un immobile abusivamente realizzato non è preclusa
dall’intervenuta
cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi
nei confronti di chiunque abbia la disponibilità di un
manufatto
che continui ad arrecare pregiudizio al territorio, la
stessa
Cassazione aveva già avuto modo di precisare, diversamente
da quanto sostenuto dall’erede, che tale principio è
conforme alle norme Cedu, come interpretate dalla Corte
Europea con sentenza 20.01.2009, nel caso Sud Fondi
c/ Italia (cfr. Cass. pen., Sez. III, 22.10.2009, n.
48925,
V. ed altri, in CED, n. 245918).
Infine, concludono i
Supremi
Giudici, in ogni caso, la circostanza che la destinataria
della
notifica fosse nel possesso dell’immobile, rendeva la stessa
soggetto passivo legittimato a ricevere la notifica
dell’ingiunzione
alla demolizione del manufatto abusivo originariamente
di proprietà del marito deceduto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 09.09.2015 n. 36383
- Urbanistica
e appalti n. 11/2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: CONTRATTO SCRITTO PER CONFERIMENTO D’INCARICHI
PROFESSIONALI DA PARTE DELLA P.A.
Le obbligazioni a carico della P.A. possono sorgere solo
da contratto in forma scritta, irrilevante restando ogni
atto unilaterale posto dall’Amministrazione stessa e
che non si traduca in un documento contrattuale
sottoscritto,
recante il dettaglio delle prestazioni e il compenso
da corrispondere: ciò vale anche per gli incarichi
professionali, che vanno stipulati per iscritto mediante
contratto d’opera intellettuale, non surrogabile da una
deliberazione dell’Ente pubblico che abbia autorizzato o
direttamente conferito l’incarico professionale.
Un professionista azionò con decreto ingiuntivo avanti ad
un Giudice di pace il proprio credito per emolumenti quale
collaudatore di un’opera idraulica.
L’Amministrazione
ingiunta
propose opposizione, accolta in ragione della mancanza
di copertura finanziaria dell’atto di conferimento
d’incarico professionale.
Il professionista appellò la decisione e il Tribunale, in
riforma
dell’impugnata sentenza, confermò l’originario decreto
ingiuntivo.
La P.A. grava la decisione per Cassazione, che la Suprema
Corte accoglie con riguardo alla dedotta violazione degli
artt. 97 Cost.; 16 e 17, R.D. n. 2440/1923; artt. 1325,
1326,
1350, 1418, 1421 e 2725 c.c., laddove la sentenza impugnata
aveva ritenuto validamente concluso l’accordo contrattuale
tra le parti. Ancora, il ricorso è accolto per carenza
di motivazione al riguardo, propria della sentenza
impugnata.
I Giudici di legittimità ribadiscono che l’assunzione di
obbligazioni
a carico della P.A. può sorgere esclusivamente da
un contratto redatto, a pena di nullità, in forma scritta,
apparendo
irrilevanti eventuali atti unilaterali, posti in essere
dall’Amministrazione stessa, che non si traducano in un
documento contrattuale sottoscritto, recante il dettaglio
delle prestazioni e il compenso da corrispondere. Si tratta
di un principio direttamente ricavabile dal dettato
costituzionale,
perché espressione dei principi di buon andamento
e imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97
Cost., posto nell’interesse del cittadino e della P.A.
(Cass.
n. 17327/2008).
A tale principio non si sottraggono gli
incarichi
professionali, che devono essere stipulati con un contratto
d’opera intellettuale, essendo irrilevante l’esistenza di
una deliberazione dell’ente pubblico che abbia autorizzato
o direttamente conferito l’incarico al professionista in
assenza
del contratto sottoscritto dal rappresentante esterno
dell’Ente e dal professionista.
Né tal carenza, per consolidato indirizzo giurisprudenziale
(ex multis, Cass. nn. 24547/2008; 8263/2015), può ritenersi
superata laddove il conferimento dell’incarico professionale
sia deliberato dall’organo collegiale rappresentativo
dell’Ente
pubblico, comunicata all’interessato e seguita
dall’accettazione
scritta da parte del medesimo. Infatti, ribadisce
la S.C., l’incontro di volontà deve essere contestuale, e
così la sottoscrizione delle parti, in questo caso non
versandosi
nell’eccezionale casistica di cui all’art. 17, R.D. n.
2240, cit., che ammette il contratto per corrispondenza solo
se intercorrente tra P.A. e ditte commerciali (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 24.08.2015 n. 17084
-
Urbanistica e appalti n. 11/2015).
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MASSIMA
Come è noto,
l'assunzione di obbligazioni a carico dell'amministrazione
pubblica può sorgere esclusivamente da un contratto redatto,
a pena di nullità, in forma scritta apparendo irrilevanti
eventuali atti unilaterali della P.A., che non si traducano
in un documento contrattuale sottoscritto dal rappresentante
esterno dell'Ente e dal soggetto incaricato, nel quale siano
indicate specificamente le prestazioni e il compenso da
corrispondere.
Tale principio generale ha indubbia valenza costituzionale,
quale espressione dei princìpi di buon andamento ed
imparzialità dell'amministrazione ai sensi dell'art. 97
Cost., quale strumento di garanzia della regolare attività
amministrativa, nell'interesse del cittadino e della stessa
P.A.
(al riguardo, tra le altre, Cass. n. 17327 del 2008).
Gli incarichi professionali devono essere conferiti in forma
scritta a pena di nullità
(R.D. n. 2240 del 1923, art. 16 e 17, richiamato
ripetutamente dalla legislazione regionale della Calabria)
mediante stipulazione di un contratto d'opera professionale,
essendo irrilevante l'esistenza di una deliberazione
dell'ente pubblico che abbia autorizzato o direttamente
conferito l'incarico al professionista, in assenza del
contratto, come si diceva, sottoscritto dal rappresentante
esterno dell'Ente e dal professionista.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, infine (tra le
altre, Cass. n. 24547 del 2008, n. 5263 del 2015),
non sussiste valida obbligazione contrattuale, ove il
conferimento dell'incarico al professionista venga
autorizzato dall'organo collegiale rappresentativo dell'ente
pubblico e lo stesso ente comunichi l'intervenuta
deliberazione, pur se intervenga successivamente l'eventuale
accettazione del professionista incaricato, anche in forma
scritta.
L'incontro di volontà deve essere contestuale, e così la
sottoscrizione delle parti, ai sensi dell' art. 17 R.D. 2240
che ammette il contratto per corrispondenza solo quando esso
intercorra tra la P.A. e ditte commerciali. |
EDILIZIA PRIVATA:
RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO NON COMMITTENTE
PER L’ABUSO EDILIZIO ED INDIVIDUAZIONE DELLE
CONDIZIONI PER LA SUA AFFERMAZIONE.
Anche il proprietario non committente può essere
responsabile
dell’abuso edilizio e la sua colpevolezza può
essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria
della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione
del manufatto, desumibili dalla presentazione della
domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità
giuridica e di fatto del suolo, dall’interesse specifico
ad edificare la nuova costruzione.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sul tema, assai discusso in
giurisprudenza, dell’individuazione delle condizioni in
presenza
delle quali può essere riconosciuta la responsabilità
penale del soggetto, proprietario di un immobile
abusivamente
realizzato, ma che non ne sia formalmente il committente.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di
condanna pronunciata nei confronti di un’imputata cui, in
qualità di proprietaria del terreno, era stata contestata
l’esecuzione
di lavori di costruzione di un manufatto in assenza
di apposito permesso a costruire; i giudici di merito
avevano
ritenuto, in particolare, che la stessa fosse pienamente
consapevole
delle opere realizzate dal figlio, sia perché residente
in loco, sia perché nello stesso anno era stata vista
partecipare
materialmente ai lavori, sia perché già in passato le era
stata notificata ordinanza di sospensione dei lavori, mentre
i
lavori erano stati ripresi ed ultimati sotto i suoi occhi.
Contro
tale sentenza l’imputata presentava ricorso per cassazione,
in particolare sostenendo che non vi fosse la prova che la
stessa sapesse che l’opera che si stava realizzando fosse
destinata
al figlio, essendo stata desunta tale consapevolezza
esclusivamente dal vincolo parentale.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, osservando come, nel caso concreto,
i giudici di appello avessero desunto la diretta
ascrivibilità
del reato edilizio alla proprietaria dell’area dalla
circostanza,
pacifica, che già in precedenza la stessa fosse stata
sorpresa
dalla polizia locale mentre collaborava alla realizzazione
di un manufatto abusivo da destinare ad abitazione del
figlio,
principale esecutore dell’opera; successivamente, poi,
era stato accertato che, previa rimozione dei sigilli in
precedenza
apposti, i lavori fossero stati ripresi e che l’opera fosse
stata completata, desumendo la Corte d’Appello, da tali
emergenze istruttorie, che la donna avesse fornito un
contributo
di adesione e partecipazione morale alla commissione
dell’illecito, consentendo il completamento dell’opera.
La decisione della Cassazione si inerisce in
quell’orientamento
ormai consolidato secondo cui la responsabilità
del proprietario o comproprietario, non formalmente
committente
delle opere abusive, può dedursi da indizi quali la
piena disponibilità della superficie edificata, l’interesse
alla
trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o
affinità
con l’esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza
durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di
provvedimenti
abilitativi anche in sanatoria, la fruizione dell’immobile
secondo le norme civilistiche sull’accessione nonché tutti
quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano
trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la
compartecipazione
anche morale alla realizzazione del fabbricato
(v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, 15.12.2014, n.
52040, L. e altro, in CED, n. 261522)
(Corte di
Cassazione, Sez. Feriale penale,
sentenza 19.08.2015 n.
34977 - Urbanistica e appalti n. 11/2015). |
URBANISTICA:
IL CONCORSO DEL VENDITORE-LOTTIZZATORE PERMANE
SINO A QUANDO CONTINUA L’ATTIVITÀ EDILIZIA DEGLI
ACQUIRENTI DEI SINGOLI LOTTI.
Il reato di lottizzazione abusiva ha carattere permanente
ed è inquadrabile nella categoria dei reati progressivi
nell’evento, la cui permanenza continua per ogni concorrente
sino a che di ciascuno di essi perdura la condotta
volontaria e la possibilità di fare cessare la condotta
antigiuridica dei concorrenti, sicché il concorso
del venditore lottizzatore permane sino a quando continua
l’attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei
singoli lotti.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, oggetto di
approfondimento
nella giurisprudenza di legittimità, della configurabilità
del concorso nel reato di lottizzazione abusiva del
venditore
del terreno oggetto dell’illecito lottizzatorio.
La vicenda
processuale trae origine dalla ordinanza con cui il
Tribunale
del riesame aveva respinto la richiesta di riesame proposta
nei confronti del decreto di convalida di sequestro
preventivo del G.I.P. avente ad oggetto un’intera area di
mq. 2640 di superficie ed il sovrastante complesso
residenziale
in corso di realizzazione per i reati di cui al d.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. c) e del D.Lgs. n. 42 del 2004,
art. 181, comma 1-bis, in relazione alla illegittima
trasformazione
di un complesso immobiliare assentito come attività
ricettiva alberghiera in complesso residenziale costituito
da 21 singole unità abitative e in relazione alla
realizzazione
di molteplici interventi edilizi in assenza del permesso
di costruire e comunque in totale difformità dalla
concessione
edilizia.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per
cassazione l’indagato, sostenendo, per quanto qui di
interesse,
che, sulla base della successione cronologica degli
eventi, la presunta violazione dei vincoli di unitarietà e
indivisibilità
si sarebbe comunque verificata con un atto del
2005 di cessione dai C. alla soc. T. della porzione di mq.
2460 dell’originario lotto 42, con conseguente prescrizione
del reato di lottizzazione abusiva.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, precisando, quanto
al tema della prescrizione del reato di lottizzazione
abusiva,
che l’alienazione delle costruzioni realizzate sui singoli
lotti,
già oggetto di frazionamento abusivo, non costituisce un
“post factum” non punibile, ma protrae la commissione del
reato di lottizzazione mista, nella sua forma negoziale, per
tutti coloro che partecipano all’atto (Cass. pen., Sez. III,
20.05.2011, n. 20006 P.M. in proc. B. e altri, in CED, n.
250387), sicché, correttamente, la stessa ordinanza aveva
potuto concludere che, nella specie, la permanenza del
reato aveva coinciso, a ben vedere, con l’ultimo atto di
vendita; del resto, era evidente che l’attività edificatoria
fosse proseguita da parte di alcuni acquirenti, con la
creazione
di scale interne per collegare le unità abitative poste
al primo piano con il sottotetto reso abitabile, fino al
2012
(v. sulla questione, in termini: Cass. pen., Sez. III, 21.01.2002, n. 1966, V. N. ed altri, in CED, n. 220853)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.08.2015 n. 34895
- Urbanistica e appalti n. 11/2015). |
INCARICHI PROGETTUALI: INAMMISSIBILITÀ DI AZIONE DI ARRICCHIMENTO INDEBITO
VERSO LA P.A. IN ASSENZA DI CONTRATTO SCRITTO E
AZIONE SPECIFICA VERSO AMMINISTRATORI O FUNZIONARI
CHE HANNO CONSENTITO LA PRESTAZIONE.
Nel caso di prestazione professionale eseguita in assenza
di contratto scritto non è esperibile verso la P.A. -per difetto del requisito di sussidiarietà di cui all’art.
2042 c.c.- l’azione residuale d’indebito arricchimento ex
art. 2041 c.c., potendosi semmai azionare la pretesa ai
sensi dell’art. 23, commi 3 e 4, D.L. n. 66/1989 (conv. in
L. n. 144/1989) verso l’amministratore o il funzionario
che abbia consentito la prestazione, indipendentemente
dal fatto che sia intercorsa un’effettiva negoziazione
contrattuale.
Due progettisti citarono un’Amministrazione avanti il
Tribunale
Ordinario, chiedendo che la P.A. convenuta fosse condannata
al pagamento, in loro favore, di compensi per prestazioni
professionali effettuate (in seguito a specifica delibera)
consistite nella redazione di progetti per la costruzione
d’un complesso sportivo.
Il Comune resistette alla domanda, eccependo l’inesistenza
di valido contratto sul quale fondare le pretese attoree. Il
Tribunale, sul presupposto della necessità -ad substantiam
acti- di un contratto scritto tra le parti, nella specie
mancante,
rigettò la domanda anche sotto il profilo della subordinata
domanda ex art. 2041 c.c..
La Corte territoriale confermò la pronuncia di primo grado.
Ricorrono per Cassazione i professionisti, con ricorso che
la Suprema Corte respinge.
Si deduce la violazione dell’art. 23, D.L. n. 66/1989
(convertito
in L. n. 144/1989) e dell’art. 2041 c.c.: in particolare i
ricorrenti
denunciano l’errore della Corte territoriale nel ritenere
inammissibile l’azione generale di arricchimento esercitata
(subordinatamente all’azione contrattuale, rigettata)
in ragione della mancanza del presupposto carattere di
sussidiarietà. Tale presupposto, secondo i Giudici d’appello
era legato al fatto che gli attori -ove avessero azionato
la
propria pretesa creditoria ai sensi del citato D.L. n.
66/1989- ben avrebbero potuto agire, per ottenere il pieno delle
loro
spettanze, verso gli amministratori o i funzionali che
avevano
richiesto e consentito la loro prestazione senza valida
obbligazione per l’Ente pubblico.
I ricorrenti contestano tale prospettazione, offerta dalla
Corte di merito, asserendo che essa presupporrebbe lo
svolgimento d’una “contrattazione” tra professionista
incaricato
e P.A. o funzionario pubblico richiedente la stessa:
contrattazione, per vero, mai avvenuta, dal che
l’impossibilità
d’una domanda formulata su questo presupposto giuridico,
con salvezza del rimedio offerto in via residuale dall’art.
2041 c.c. verso l’Ente pubblico, il quale ha tratto
giovamento
dall’attività prestata dai ricorrenti.
La Suprema Corte disattende l’assunto.
La sentenza rimarca che l’art. 23 del D.L. n. 66/1989,
recante
disposizioni in materia di finanza locale (convertito
con modificazioni nella L. n. 144/1989 prevede, al comma
3, che “a tutte le amministrazioni provinciali, ai comuni ed
alle comunità montane l’effettuazione di qualsiasi spesa è
consentita esclusivamente se sussistano la deliberazione
autorizzativa nelle forme previste dalla legge e divenuta o
dichiarata esecutiva, nonché l’impegno contabile registrato
dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il
ragioniere,
sul competente capitolo del bilancio di previsione, da
comunicare
ai terzi interessati”. Al successivo al comma 4 esso
stabilisce che “nel caso in cui vi sia stata l’acquisizione
di beni o servizi in violazione dell’obbligo indicato nel
comma
3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione
e per ogni altro effetto di legge, tra il fornitore e
l’amministratore o il funzionario che abbiano consentito
la fornitura”.
La norma, osserva il Supremo Collegio, è stata costantemente
interpretata nel senso che qualsiasi spesa degli enti
comunali deve essere assistita da un conforme provvedimento
dell’organo munito di potere deliberativo e da uno
specifico impegno contabile registrato in bilancio di
previsione
e che in mancanza, il rapporto obbligatorio si costituisce
direttamente con l’amministratore o il funzionario
che abbia consentito la prestazione, onde il professionista
non può esperire nei confronti dell’ente pubblico l’azione
di
indebito arricchimento di cui all’art. 2041 c.c. verso
l’Ente
pubblico, per difetto del carattere sussidiario e residuale
(art. 2042 c.c.) di tale azione (Cass., Sez. I, 30.10.2013
n. 24478; Cass., Sez. VI, sottosez. III, ord., 23.01.2014, n. 1391; Cass., Sez. I, 26.05.2010, n. 12880).
Per l’applicazione di tale norma speciale non può sostenersi
che debba intercorrere una negoziazione contrattuale,
ossia una trattativa, dovendosi la richiamata espressione
“rapporto contrattuale” interpretare nel senso di mero
“consenso” prestato dall’amministratore o dal funzionario
comunale alla prestazione del professionista, in conformità
al dettato dell’art. 23, comma 4, cit., che richiede
esclusivamente
che l’amministratore o il funzionario “abbiano
consentito la fornitura”.
In altri termini, l’insorgenza del
rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo,
direttamente
con l’amministratore o il funzionario si ha per la semplice
circostanza che -mancando una valida obbligazione dell’ente
locale, con il prescritto impegno contabile- l’esecuzione
di fatto del rapporto è stata semplicemente consentita
dall’amministratore o dal funzionario (Cass., Sez. I, 09.05.2007, n. 10640).
Né tale disposizione può destare dubbi i legittimità
costituzionale
-in relazione agli artt. 3, 24 e 28 Cost.- avendo il
Giudice delle Leggi dichiarato (sentenze nn. 446/1995;
295/1997) la piena conformità della norma di legge in
questione
alla Carta costituzionale (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
06.08.2015 n. 16558
- Urbanistica
e appalti n. 11/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
QUALI SONO I RAPPORTI TRA LE PRESCRIZIONI DEL
P.R.G. E LA NORMATIVA TRANSITORIA DETTATA
DALL’ART. 9 DEL T.U. EDILIZIA?
Le prescrizioni del P.R.G. che disciplinano, in senso più
restrittivo rispetto al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 9, le
possibilità di intervento sugli edifici preesistenti, in
sede
di salvaguardia delle finalità di riequilibrio territoriale
di una zona, devono ritenersi prevalenti sia perché dirette
ad assicurare un regime di maggiore tutela dell’area
interessata, sia al fine di stimolare l’iniziativa dei
privati a diventare protagonisti dei processi di
risanamento.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
su una questione sostanzialmente inesplorata nella
giurisprudenza
penale di legittimità, in particolare concerne il
tema dei rapporti intercorrenti tra la disciplina delle N.T.A.
del P.R.G. comunale e la disciplina transitoria dettata
dall’art.
9 del d.P.R. n. 380 del 2001 quanto alla possibilità di
intervento edilizio su edifici preesistenti.
La vicenda
processuale
segue alla ordinanza con cui il tribunale del riesame
aveva rigettato l’appello cautelare presentato avverso il
decreto
emesso dal G.I.P. del medesimo tribunale nell’interesse
del legale rappresentante della D.P. fu E. S.p.a.; con
tale provvedimento, in particolare, era stata respinta
l’istanza
di dissequestro a seguito del rilascio del permesso di
costruire
da parte del Comune che autorizzava la ripresa dei
lavori (già oggetto di precedente sequestro, confermato
anche dalla Cassazione con una precedente sentenza) in
base al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 9, comma 2,
disattendendo
la tesi difensiva secondo cui detto rilascio avrebbe
fatto venir meno il fumus dei reati ipotizzati (d.P.R. n.
380
del 2001, art. 44, lett. c), artt. 110 e 323 c.p. e artt.
110,
479 e 481 c.p.), in quanto legittimava la ripresa dei lavori
nel limite del 25% delle destinazioni preesistenti,
contestando
l’esegesi del giudice di merito che aveva ritenuto
che l’art. 9 predetto non fosse applicabile ai lavori posti
in
essere all’interno dei Comuni sprovvisti di P.R.G. ed il
soggetto
non si fosse obbligato al compimento di ulteriori opere
di urbanizzazione, oltre a sostenere che il p.d.c.
successivo
avrebbe impedito la confisca delle opere.
Contro l’ordinanza
proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare
sostenendo che il tribunale sarebbe incorso in un
errore di diritto con riferimento all’esegesi del cit. d.P.R.,
art. 9, comma 2; in sostanza, si sosteneva, richiamando il
p.d.c. successivamente rilasciato, che con quest’ultimo era
stata disposta la “riforma” del precedente p.d.c.,
autorizzando
la ripresa dei lavori nei limiti del 25% della variazione
delle destinazioni d’uso preesistenti pari a mq. 1525,04 di
commerciale/direzionale; non v’era dubbio, aggiungeva
l’indagato, che l’edificio di cui si discute avesse una
destinazione
preesistente a scopo industriale e commerciale e
non certo residenziale, consistendo peraltro l’intervento
unicamente nella ristrutturazione interna del medesimo
edificio, avente tale destinazione, da adibire a centro
direzionale
con attività commerciale, in totale conformità alla
destinazione urbanistica in cui ricadeva il fabbricato (zona
D1 di P.R.G.); analogamente, non v’era dubbio sulla
preesistenza
di tutte le opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
in definitiva, quindi, non vi sarebbero stato elementi
ostativi alla applicabilità dell’art. 9 citato, invece
esclusa
dal giudice del riesame.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, soffermandosi in particolare
sulla corretta esegesi nel caso di specie della norma,
frutto
peraltro di plurime interpretazioni da parte del Giudice
amministrativo,
secondo la quale la predetta norma prevede
la possibilità di intervenire solo su edifici esistenti, con
opere
di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e
risanamento
conservativo ex d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3,
lett. a), b), c), senza particolari limitazioni.
Lo stesso
art. 9
ammette, inoltre, gli interventi di ristrutturazione di cui
all’art.
3, lett. d), purché riguardino singole unità immobiliari
o loro parti. Ove invece, i suddetti interventi di
ristrutturazione
edilizia interessino l’intero fabbricato, o più edifici, la
loro ammissibilità è subordinata ad una duplice condizione:
1) il mantenimento delle “destinazioni preesistenti” almeno
nella misura del 75%; 2) il convenzionamento con il Comune
“limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso
residenziale”
in ordine ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione,
nonché il concorso negli oneri di urbanizzazione: rimangono
esclusi per converso tutti gli altri interventi edilizi.
In tale contesto, le trasformazioni più rilevanti, eccedenti
la
misura del 25% di tutte le destinazioni d’uso preesistenti,
rimangono assoggettate alla previa pianificazione attuativa.
Tali previsioni, ad esempio, consentono di modificare anche
la destinazione residenziale prima intangibile, con il solo
limite del convenzionamento con il Comune limitatamente
alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, in ordine
ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, nonché il
concorso negli oneri di urbanizzazione.
Alla stregua di tale
ricostruzione dunque, l’intervento di cui è causa, seppure
riferito ad un intero edificio e non a singole unità
immobiliari
o a parti di esso, e ricadente quindi nella disciplina della
seconda parte dell’art. 9, comma 2, sarebbe assentibile,
in base alla prescrizione di legge, secondo quanto a tal
riguardo
ritenuto dal Comune, in quanto nell’ipotesi di specie
si avrebbe comunque la conservazione della precedente
destinazione, ad uso commerciale, destinazione questa
non ostativa all’assentibilità degli interventi di
ristrutturazione,
secondo quanto innanzi evidenziato.
Pertanto, alla luce
delle suesposte argomentazioni, era errata la
interpretazione
contenuta nell’ordinanza, che aveva escluso l’applicabilità
dell’art. 9 citato al caso in esame (v., nella
giurisprudenza
amministrativa, circa l’esegesi del predetto art. 9: Cons.
Stato, Sez. IV, sent. 10.05.2012, n. 2707; v., ancora: Cons. Stato, Sez. IV, sent. 10.06.2010, n. 3699)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2015 n. 33033
- Urbanistica e appalti n. 11/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL CONDONO AMBIENTALE NON COSTITUISCE
CONSEGUENZA AUTOMATICA DEL RILASCIO
DELL’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.
La L. 15.12.2004, n. 308, art. 1, commi 37, 38 e
39, ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur
permanendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste
dall’art. 167) causa di estinzione del reato di cui al
D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1, in tale articolo
inserendo i commi 1-ter e 1-quater che lo disciplinano,
non configurando il condono come automatica conseguenza
dell’autorizzazione paesaggistica.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte
di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da
parte dei giudici di legittimità con la sentenza in esame,
in
cui viene ad essere affrontato il tema del possibile
automatismo
tra rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e
l’applicabilità
del c.d. condono ambientale.
La vicenda processuale
traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello
aveva respinto l’appello avverso la sentenza con cui il
Tribunale aveva condannato gli imputati per il reato di cui
all’art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, per avere realizzato opere edili senza autorizzazione
paesaggistica.
Contro la sentenza presentavano ricorso per
cassazione gli interessati, in particolare dolendosi del
fatto
che il giudice d’appello non aveva tenuto conto del parere
di conformità ambientale della Soprintendenza per cui il
reato si sarebbe estinto ex art. 181, comma 1-ter.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso confermando la sentenza, peraltro
aggiungendo
che l’art. 181, comma 1-ter, prevede, in caso di
accertamento della compatibilità paesaggistica da parte
dell’autorità amministrativa competente secondo le procedure
di cui al comma 1-quater, la non applicabilità del comma
1, che concerne una fattispecie contravvenzionale, non
investendo invece il delitto di cui al comma 1-bis (in
giurisprudenza,
v.: Cass. pen., Sez. III, 29.10.2013, n.
44189, T., in CED, n. 257527) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2015 n. 33024
- Urbanistica
e appalti n. 11/2015). |
VARI: AZIONE EX ART. 2932 C.C. E PROVA DELLA REGOLARITÀ URBANISTICO-EDILIZIA DELL’IMMOBILE.
In una causa per l’esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere un contratto di compravendita immobiliare,
occorre siano prodotti i documenti attestanti la regolarità
urbanistica dell’immobile o che sia resa la dichiarazione
sostitutiva di atto notorio di cui all’art. 40, L. n.
47/1985: tuttavia, poiché la regolarità urbanistica non è
un presupposto della domanda ma una condizione dell’azione,
essa può intervenire anche in corso di causa e
sino al momento della decisione della lite e la sua carenza
è rilevabile anche d’ufficio, fino al momento della
decisione.
Sorge controversia fra due privati in dipendenza d’una
scrittura con cui il primo aveva promesso di vendere al
secondo
un negozio con terreno antistante, alla quale era seguita
la mancata comparizione dell’acquirente avanti il notaio
e il radicamento di una causa ex art. 2932 c.c. da parte
del promittente venditore.
All’esito dei due gradi di merito, la Corte d’Appello
accoglieva
la domanda ex art. 2932 c.c. dichiarando la convenuta
tenuta a prestarsi all’erezione dell’atto pubblico, previo
versamento della somma di € 30.987,41 quale residuo
prezzo.
Del resto, chiosava la sentenza di merito, la
produzione
di copia della licenza edilizia, del progetto allegato alla
licenza e della concessione in sanatoria evidenziavano la
regolarità urbanistica dell’immobile già al momento della
conclusione del contratto, escludendone la nullità da parte
convenuta.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione
l’acquirente,
sviluppando quattro motivi che la S.C. rigetta. Per
quanto di interesse, il Supremo Collegio osserva che in tema
di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un
contratto di compravendita di un immobile, occorre siano
prodotti i documenti attestanti la regolarità urbanistica
dell’immobile
(ovvero di rendere la dichiarazione sostitutiva di
atto notorio di cui all’art. 40, L. n. 47/1985).
Peraltro -poiché
la regolarità urbanistica non costituisce un presupposto
della domanda, bensì una condizione dell’azione, che
può intervenire anche in corso di causa e sino al momento
della decisione della lite- la carenza di tali documenti è
rilevabile,
anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio,
con l’ulteriore conseguenza che sia l’allegazione, che la
documentazione
della sua esistenza, si sottraggono alle preclusioni
che regolano la normale attività di deduzione e
produzione delle parti e possono quindi avvenire anche nel
corso del giudizio di appello, purché prima della relativa
decisione (SS.UU., n. 23825/2009) (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
28.07.2015 n. 15947 - Urbanistica
e appalti n. 11/2015). |
URBANISTICA: IL NOTAIO CONCORRE NELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA SE
NON ESAMINA PUNTUALMENTE LA DOCUMENTAZIONE
STORICA DELL’IMMOBILE.
In tema di lottizzazione abusiva, il notaio deve
preoccuparsi
che l’atto non nasca invalido o invalidabile e che
lo stesso strumento riduca al massimo i rischi
dell’emergenza
di liti interpretative tra le parti; ne consegue
che spetta al notaio l’esame puntuale della documentazione
storica dell’immobile, per la completa tranquillità
di non rischiare la invalidità dell’atto, poiché questi,
quale privato esercente di pubbliche funzioni, deve assumere
una pregnante funzione di controllo documentale,
sussistendo un interesse generale da tutelare oltre
quello delle parti costituite.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla discussa questione
della responsabilità penale del notaio in ipotesi di
illecito
lottizzatorio.
La vicenda processuale trae origine dalla
sentenza
con cui la Corte di appello, riformando la pronuncia
emessa dal Tribunale soltanto in punto di sostituzione della
pena detentiva in pecuniaria e concessione della non
menzione
della condanna, confermava la stessa quanto alla ritenuta
responsabilità di tre soggetti in ordine alla
contravvenzione
di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. 06.06.2001, n.
380, art. 44, comma 1, lett. c); agli stessi -i G. quali,
rispettivamente,
legale rappresentante e consigliere delegato
della “Villaggio C. s.r.l.”, il M. quale notaio rogante-
era
contestato di aver effettuato l’abusiva lottizzazione di un
complesso immobiliare mutando la destinazione d’uso da
turistico-ricettivo a residenziale, e così procedendo alla
vendita delle singole unità costituenti il complesso in
spregio
agli strumenti urbanistici vigenti.
Contro la sentenza,
per quanto qui di interesse, proponeva ricorso per
cassazione
il notaio, sostenendo la violazione del d.P.R. n. 380
del 2001, art. 47: lo stesso avrebbe dovuto essere assolto
in ragione di tale norma la quale escluderebbe, se
rispettata
con riguardo al certificato di destinazione urbanistica,
qualsivoglia responsabilità del notaio, il quale, peraltro,
potrebbe
sì rispondere a titolo di concorso nell’attività illecita
altrui, ma a condizione che questa condotta -ulteriore
rispetto
alla mera stipula dell’atto- sia stata contestata.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso del notaio, in particolare
evidenziando
come era da escludere l’operatività dell’art. 47, comma 2,
cit. d.P.R., a mente del quale “tutti i pubblici ufficiali,
ottemperando
a quanto disposto dall’art. 30 (lottizzazione
abusiva), sono esonerati da responsabilità inerente al
trasferimento
o alla divisione dei terreni”; questa scriminante,
secondo i Supremi Giudici, non può esser riconosciuta nei
confronti di un notaio che:
1) ha stipulato sia la
convenzione
di lottizzazione che la quasi totalità degli atti di
cessione
(nella specie, in numero di diverse decine);
2) in
particolare,
aveva stipulato atti nei quali l’oggetto formalmente
indicato
-quote millesimali di proprietà indivisa- era “corretto”
sia
dalle rassicurazioni che lo stesso sovente forniva agli
acquirenti
circa il carattere esclusivo della proprietà acquistata,
sia dalla allegazione di documenti (tabella millesimale)
che evidenziavano la specifica unità abitativa oggetto del
negozio;
3) aveva allegato a questi atti un certificato di
destinazione
urbanistica (turistico-ricettiva) che ben si saldava
con il dato apparente della cessione di quote millesimali,
ma si poneva in inconciliabile contrasto con il citato
carattere
esclusivo del bene compravenduto;
4) con tale modalità,
sempre uguale in decine e decine di operazioni, aveva
partecipato, con piena consapevolezza ed adesione
soggettiva,
ad una lottizzazione abusiva. La sentenza rappresenta
una ulteriore specificazione del principio, più volte
affermato
dalla Cassazione, secondo cui in tema di lottizzazione
abusiva sussiste la responsabilità del notaio rogante,
a titolo di concorso nel reato, ove risulti la cosciente e
volontaria
partecipazione alla integrazione del reato in questione,
desumibile dalla dimensione complessiva strutturale
di ogni singolo atto, dal sistema negoziale predisposto
per eludere specifiche prescrizioni degli strumenti
urbanistici
(quali la minima unità culturale), dalla stipulazione
diluita
nel tempo di vari atti da parte degli stessi venditori per
il medesimo terreno (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III,
14.12.2000, n. 12989, P., in CED, n. 218015)
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 16.07.2015 n. 30863
- Urbanistica e appalti n. 11/2015). |
LAVORI PUBBLICI: GIURISDIZIONE ORDINARIA PER LE CONTROVERSIE
INERENTI LA FASE ESECUTIVA DI UNA CONCESSIONE DI
LAVORI PUBBLICI.
La controversia inerente la fase d’esecuzione di una
convenzione per la costruzione di un complesso immobiliare
e l’affidamento in gestione al concessionario degli
impianti e servizi relativi, previa corresponsione
all’aggiudicatore
di un canone annuo, appartiene alla giurisdizione
ordinaria, non avendo ormai rilievo, nel vigente
quadro normativo, la precedente distinzione tra
concessione di sola costruzione e concessione di gestione
dell’opera (o di costruzione e gestione congiunte),
e sussistendo, piuttosto, l’unica categoria della
“concessione di lavori pubblici”, nella quale la gestione
funzionale ed economica dell’opera non costituisce più
un accessorio eventuale della concessione di costruzione,
ma la controprestazione principale e tipica a favore
del concessionario.
La Suprema Corte, in sede regolatrice di giurisdizione,
dirime
a favore del G.O. un conflitto sorto avanti un Tribunale
civile nell’ambito di una causa intentata da un fallimento
contro un’Amministrazione comunale, per ottenere un ingente
risarcimento, pari al costo delle opere eseguite in
attuazione
d’una convenzione per la gestione del locale Centro
sportivo.
Contestandosi, da parte del Comune, il difetto
di giurisdizione del G.O. l’attore ha proposto regolamento
preventivo di giurisdizione chiedendo alle Sezioni Unite di
affermare la giurisdizione ordinaria, che viene
riconosciuto.
Questo il percorso logico attraverso il quale la Corte
regolatrice
perviene a tale decisione.
La ricorrente era mandante di un’ATI aggiudicataria della
gara per la gestione per diciotto anni del Centro sportivo
comunale e l’esecuzione delle opere d’integrale
ristrutturazione
dei locali. L’ATI si era impegnata, con una seguente
convenzione, a versare un canone annuo e aveva appaltato
ad altra impresa i lavori per una nuova palestra per oltre
un
milione di euro. Essa, inoltre, aveva eseguito ogni opera di
ristrutturazione e ampliamento prevista e, malgrado ciò, il
Comune aveva dichiarato la risoluzione del contratto e
intimato
alla società (poi fallita) il rilascio dell’immobile, senza
corrispondere alcun prezzo per le opere acquisite.
Per tale ragione, la curatela fallimentare ha promosso
l’azione
civile contro il Comune per il pagamento del costo
delle opere eseguite in attuazione della Convenzione o, in
subordine, come indennizzo per ingiustificato arricchimento.
A tal fine, osserva che essa non ha impugnato l’atto di
risoluzione del contratto, né messo in discussione alcun
provvedimento concessorio. Per l’effetto, vertendosi in
ipotesi
di concessione di costruzione e gestione, possono essere
invocati alcuni precedenti in argomento emersi in
giurisprudenza,
che inquadrano la fattispecie in termini pattizi,
finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica che è
remunerata
dalla relativa gestione, diversamente da quanto
accade nel caso di concessione di un bene pubblico,
rilasciato
in godimento al privato contro il pagamento di un
corrispettivo.
A dir del Comune, di contro, il sinallagma è quello tipico
d’una concessione di pubblico servizio, avente a oggetto la
gestione del centro sportivo dietro pagamento d’un canone,
mentre gli interventi manutentivi sono solo quelli correlati
a garantirne l’efficiente gestione e non comportano
trasformazione
del rapporto in una concessione di lavori pubblici.
Oggetto principale del contratto sarebbe, infatti, la
gestione di un bene già esistente e utilizzabile, mentre una
“concessione di lavori” potrebbe esservi solo se la gestione
del servizio pubblico fosse funzionale a remunerare la
costruzione
dell’opera. Nella specie, di contro, si è nell’ambito
della “concessione di servizi” poiché i lavori sono
funzionali
a rendere possibile lo svolgimento e la migliore
organizzazione
del servizio pubblico. Attenendo la controversia alla
materia dei pubblici servizi, la questione deve esser
conosciuta
dal G.A., salvo che si discuta di indennità e altri
corrispettivi,
a condizione però che la cognizione non si debba
estendere alla risoluzione del rapporto concessorio.
A fondamento della proprie convinzioni, le Sezioni Unite
osservano che per stabilire se si sia in presenza di
concessione
di pubblici servizi o di concessione di costruzione e
gestione di opera pubblica sia rilevante la considerazione
degli importi in gioco nell’insieme della pattuizione
negoziale.
A tal fine la comparazione non può avvenire tra il costo
delle opere e il fatturato che il gestore potrà ricavare
dalla conduzione degli impianti ma deve esser fatto tra le
due prestazioni che fanno carico al concessionario gestore.
Ciò che si deve stabilire è se si sia in presenza di un mero
affidamento in gestione dell’impianto sportivo, come
vorrebbe
l’intestazione della convenzione, o se in realtà sia
stata chiesta all’impresa contraente la costruzione e
gestione
di opera pubblica e se la prima assuma valenza
preponderante,
come accade nel caso in esame. Infatti, il canone
annuo per la gestione degli impianti è di soli trentaseimila
euro, mentre il costo delle opere che l’ATI si è impegnata a
eseguire supera i due milioni di euro: importo è ben
superiore anche a quello dei canoni previsto per i 18 anni
di
concessione (che non supera i € 700.000).
In ragione di questo, le SS.UU. rilevano come il vero
oggetto
del contratto sia, per l’interesse concretamente perseguito
dalle parti, la realizzazione delle opere e, ancora, che
la gestione degli impianti rilevi quale mezzo per
conseguire,
dal lato dell’impresa, la remunerazione necessaria, restando
al contempo soddisfatto l’interesse dell’amministrazione
al funzionamento dei servizi sportivi.
Sicché ben può calzare, allo specifico -ove il fallimento
mira
a conseguire “il pagamento del costo delle opere eseguite
in attuazione della convenzione”- il precedente
(Cass., SS.UU., n. 19391/2012) nel quale si è affermato che
la controversia inerente alla fase d’esecuzione di una
convenzione
avente ad oggetto la costruzione e la ristrutturazione
di un complesso immobiliare (in quel caso, un’area
termale) e l’affidamento in gestione al concessionario degli
impianti e servizi relativi, previa corresponsione
all’aggiudicatore
di un canone annuo, appartiene alla giurisdizione ordinaria,
non avendo ormai rilievo, nel vigente quadro normativo,
la precedente distinzione tra concessione di sola
costruzione e concessione di gestione dell’opera (o di
costruzione
e gestione congiunte), e sussistendo, piuttosto,
l’unica categoria della “concessione di lavori pubblici”,
nella
quale la gestione funzionale ed economica dell’opera
non costituisce più un accessorio eventuale della
concessione
di costruzione, ma la controprestazione principale e
tipica a favore del concessionario.
In tal senso, le SS.UU., con sentenza n. 11022/2014 hanno
precisato che la nozione normativa di “concessione di lavori
pubblici” - che impone il riconoscimento della giurisdizione
ordinaria sulle controversie relative alla fase successiva
all’aggiudicazione anche per le concessioni “di gestione” o
“di costruzione e di gestione” si rinviene (prima ancora che
nella direttiva n. 2004/18/CE, recepita dal D.Lgs. n.
163/2006) già nella Dir. 18.07.1989, n. 89/440/CEE
(Corte di Cassazione, SS.UU.
civili,
ordinanza 06.07.2015 n. 13864
- Urbanistica e appalti n. 10/2015). |
APPALTI: IMPOSSIBILITÀ DI SURROGA DELLA FORMA SCRITTA CON
UN RICONOSCIMENTO DI DEBITO DA PARTE DELLA P.A..
Il riconoscimento del debito emergente da una fattura
azionata non costituisce autonoma fonte di obbligazione
né surroga in sede giudiziale la mancata esistenza di
un contratto scritto (artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923),
necessario per le PP.AA., al più costituendo un elemento
utile per un’azione ex art. 2041 c.c. alla ricorrenza degli
altri presupposti previsti dalla legge.
Sorge controversia fra un’azienda che aveva fornito prodotti
medicali, per un importo di modesto valore, ad un
Policlinico
(ente successivamente posto in gestione liquidatoria).
Il Giudice di pace di Roma -disattese le eccezioni di
carenza
del titolo contrattuale scritto- con sentenza di primo
grado condannò al pagamento della somma richiesta la
parte giuridicamente succeduta al Policlinico. In
accoglimento
del gravame, il Tribunale di Roma dichiarò la nullità
del contratto perché privo di forma scritta, richiesta ad substantiam
trattandosi di contratto con Ente pubblico.
La questione è sottoposta dall’originario attore al vaglio
della Suprema Corte, che rigetta il ricorso con una
interessante
disamina circa le modalità con le quali i contratti di
fornitura con le P.A. possono dirsi conclusi ai sensi
dell’art.
17, R.D. n. 2440/1923.
Incidentalmente osserva -in via preliminare- che il
riconoscimento
del debito di cui alla fattura azionata, da parte
della gestione liquidatoria del Policlinico, non costituisce
autonoma fonte di obbligazione né surroga in sede giudiziale
la mancata esistenza di un contratto scritto, al più
costituendo
un elemento utile per un’azione ex art. 2041 c.c.
alla ricorrenza degli altri presupposti previsti dalla
legge.
Nello specifico, osservano i Supremi Giudici che
correttamente
la sentenza d’appello ha accertato la nullità del contratto
per mancanza di forma scritta, sulla scorta di un
apprezzamento
delle risultanze probatorie che - in quanto
compiuto dal giudice di merito in modo logico, non
contraddittorio
e conforme al diritto - è insuscettibile di esame
in sede di legittimità.
Come affermato nella sentenza
gravata,
è certo vero che il canone della forma scritta è rispettato
anche nel caso in cui il consenso si formi in base ad
atti scritti non contestuali, che si atteggino come proposta
e accettazione tra soggetti assenti (ex art. 17, R.D. n.
2440/1923; art. 87, R.D. n. 383/1934, per la cui
applicazione
nella specie non ricorrevano, tuttavia, i presupposti). Il
R.D. n. 2440/1923, fonte richiamata dalle norme in tema di
contratti degli enti locali, consente che (ferma restando la
regola della forma scritta) il contratto concludersi a
distanza,
a mezzo di corrispondenza, quando intercorra con ditte
commerciali.
Tuttavia, questa ipotesi ha natura derogatoria
non solo alla regola della forma scritta (contenuta nel
precedente
articolo 16) ma anche a quella posta dallo stesso
art. 17 per cui i contratti a trattativa privata (oltre che
in forma
pubblica amministrativa nei modo indicato al citato art.
16), possono anche stipularsi per mezzo di scrittura privata
firmata dall’offerente e dal funzionario rappresentante
l’amministrazione.
Essa, pertanto, non è prospettabile a sua
volta come una regola generale -sicché non può affermarsi
che in qualsiasi contratto della P.A. la forma scritta
necessaria ad substantiam possa ritenersi osservata anche
quando il consenso si formi in base a atti o scritti
successivi
che si prospettino come proposta e accettazione tra assenti- ma è invocabile soltanto in quei negozi in cui è ammessa
la trattativa privata.
Laddove ciò non sia, come nel caso specifico, occorreva
procedere con procedimento a evidenza pubblica e con
contratto scritto (Corte di Cassazione, Sez. III
civile,
sentenza 30.06.2015 n. 13322
- Urbanistica e
appalti n. 10/2015). |
URBANISTICA: RILEVABILITÀ D’UFFICIO DELLE NULLITÀ NEGOZIALI
DERIVANTI DA VIOLAZIONE DI NORME EDILIZIE O
URBANISTICHE - ATTIVITÀ RILEVANTE PER LA
CONFIGURAZIONE DI UNA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA.
Il rilievo ex officio di una nullità negoziale per
violazione
di norma imperativa in materia edilizia o urbanistica -sotto qualsiasi profilo ed anche ove sia configurabile
una nullità speciale o “di protezione”- deve ritenersi
consentito in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale
(adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo,
annullamento,
rescissione) senza, per ciò solo, negarsi la diversità
strutturale di queste ultime sul piano sostanziale,
poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso
normativo autonomo ed omogeneo, affatto incompatibile,
strutturalmente e funzionalmente, con la diversa
dimensione della nullità contrattuale.
In tema di lottizzazione abusiva, l’attività rilevante ai
fini
urbanistici e edilizi è data dal carattere permanente
della modifica apportata all’assetto del territorio, sempre
riscontrabile quando l’opera realizzata è destinata a
soddisfare un’esigenza non transeunte, indipendentemente
dalla natura dei materiali adoperati, dalle caratteristiche
costruttive o dalla sua agevole rimovibilità.
Alcuni privati convennero, avanti il Tribunale ordinario,
una
società che gestiva aree campeggio, con la quale ognuno
degli attori aveva sottoscritto contratti aventi ad oggetto
l’uso -per novantaquattro anni e verso corrispettivo
economico- di singoli lotti di terreno, con facoltà di installarvi
strutture abitative mobili, espresso divieto di collocarvi
costruzioni
stabili e previsione che tale diritto si sarebbe trasformato
in proprietà se la società non avesse eseguito le
opere di urbanizzazione per il campeggio che si era
obbligata
a realizzare ma che non aveva poi eseguito.
Gli attori chiesero una sentenza che ordinasse al
Conservatore
dei RR.II. di trascrivere i contratti sottoscritti, oltre
all’emananda
sentenza; ancora, chiesero la condanna della
convenuta ad attivare tutti i servizi della struttura, a
realizzare
le opere di urbanizzazione; a risarcire i danni conseguenti
agli inadempimenti, da liquidarsi in separata sede.
La convenuta contestò la fondatezza delle domande, deducendo
anzi che erano gli attori a non avere rispettato né il
divieto di realizzare costruzioni stabili, né l’obbligo di
pagare
le somme dovute per contratto. Chiese, perciò, in via
riconvenzionale
la loro condanna alla riduzione in pristino e
al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede,
previa dichiarazione di risoluzione per inadempimento dei
contratti in questione. Il Tribunale accolse le sole domande
di trascrizione, respingendo le altre degli attori e le
riconvenzionali.
La Corte d’Appello, investita dalla convenuta soccombente,
riformava la sentenza rigettando le domande che il Tribunale
aveva accolto. Questo, ritenendo che la trasformazione
del diritto di uso in proprietà - prevista dai contratti
nel caso di mancata realizzazione delle opere che la società
s’era impegnata a eseguire - è giuridicamente impossibile
poiché darebbe luogo a un’illegittima lottizzazione abusiva.
Peraltro, essendo stata la società posta in liquidazione e
non essendo quindi più in grado di adempiere tale
obbligazione,
i contratti stessi si sono risolti ex art. 1456 c.c.
Gli originari attori impugnano, per cassazione, tale
sentenza.
La Suprema Corte, in parte accoglie il ricorso per motivi
prettamente civilistici, cassando in parte qua con rinvio la
sentenza. Per quanto interessi la presente Rivista, merita
attenzione l’argomentare della Corte di Cassazione sul
motivo
con cui i ricorrenti -deducendo la gestione unitaria del
complesso e dei servizi- domandano al Giudice di
Legittimità
se la semplice trasformazione di un diritto reale di
godimento
in diritto di proprietà su di un bene adibito a campeggio
evidenzi una non equivoca destinazione del bene a
scopo edificatorio e quindi -come ritenuto dalla Corte di
merito- integri violazione dell’art. 18 della L. n. 47/1985
(lottizzazione abusiva). Ancora, desta interesse il mezzo
con cui si domanda se la L. n. 47/1985 (introducendo
all’art.
18 la predetta fattispecie), sopravvenuta rispetto ai
contratti oggetto di controversia, possa incidere sulle
opere
(campeggio) realizzate in forza di concessione edilizia
rilasciata
in conformità allo strumento urbanistico ed alle leggi
all’epoca in vigore.
La Cassazione -a proposito della prima- richiama principi
già enunciati nel recentissimo periodo dalle Sezioni Unite
(Cass., SS.UU., 12.12.2014, n. 26242), per il quale il
rilievo ex officio di una nullità negoziale -sotto
qualsiasi
profilo ed anche ove sia configurabile una nullità speciale
o
“di protezione”- deve ritenersi consentito sempreché la
pretesa azionata non venga rigettata in base ad una
individuata
“ragione più liquida”, in tutte le ipotesi di impugnativa
negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo,
annullamento, rescissione), senza, per ciò solo, negarsi
la diversità strutturale di queste ultime sul piano
sostanziale,
poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso
normativo
autonomo ed omogeneo, affatto incompatibile,
strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione
della nullità contrattuale.
Sebbene si vertesse, nella
specie,
(anche) sulla risoluzione per inadempimento dei contratti
in questione, la validità delle clausole di cui si tratta
poteva senz’altro essere vagliata d’ufficio, sotto il
profilo
della loro contrarietà a norme imperative. D’altra parte,
proprio quelle clausole gli attori avevano addotto a
fondamento
dei loro vantati diritti di proprietà, al cui giudiziale
riconoscimento
era da intendersi la domanda diretta a ottenere
l’ordine di trascrizione dei contratti intercorsi con la
società proprietaria del campeggio.
Né può sostenersi la validità di queste pattuizioni, stante
l’orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza
di questa Corte in sede penale (v., tra le più recenti,
Cass.
14.05.2013, n. 37573, per la quale in tema di
lottizzazione
abusiva, l’attività rilevante ai fini urbanistici e edilizi
è
data dal carattere permanente della modifica apportata
all’assetto
del territorio, sempre riscontrabile quando l’opera
realizzata è destinata a soddisfare un’esigenza non
transeunte,
indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati,
dalle caratteristiche costruttive o dalla sua agevole
rimovibilità: in quel caso si verteva in ipotesi di
frazionamento
di area di campeggio in seicento piazzole, di cui ci
cui oltre un sesto occupate da case mobili poggiate su
blocchi di cemento e stabilmente allacciate alle reti dei
servizi
primari e secondari).
Nello specifico, avuto conto della
natura non edificatoria del terreno, che l’estensione dei
singoli
lotti è mediamente di 200 mq, che è avvenuta la
realizzazione
di abitazioni sulla gran parte di essi, correttamente
la Corte d’appello ne ha desunto, in diritto, che l’acquisto
della proprietà delle aree sarebbe funzionale a mutare la
destinazione urbanistica del terreno rispetto a quella
prevista
dagli strumenti urbanistici e che pertanto le clausole di
cui si tratta davano luogo a una ipotesi di lottizzazione
abusiva
di carattere “negoziale”.
Non ha rilevanza, osserva la Suprema Corte, che il progetto
del campeggio fosse approvato anteriormente all’entrata in
vigore della L. n. 47/1985, perché la lottizzazione abusiva
di aree -in ogni sua forma, compresa quella “negoziale”-
è stata configurata come reato già dalla legge urbanistica
fondamentale (L. 17.08.1942, n. 1150) con norme da
qualificarsi senz’altro come imperative ai sensi dell’art.
1418 c.c..
La nullità di cui si è detto era stata affermata dal
Tribunale
(e ribadita dalla Corte d’Appello) limitatamente all’
acquisto
in proprietà dei lotti, mentre era stata espressamente
esclusa per l’attribuzione del diritto di uso. Non essendovi
stata impugnazione su questo punto, la questione non poteva
formare oggetto di riesame, per la preclusione derivante
dal giudicato.
Il giudice di secondo grado ha comunque
ritenuto che quel diritto d’uso, pur validamente costituito,
fosse però venuto meno perché la sua trasformazione
in diritto di proprietà -per la stessa ragione per cui la
comune volontà delle parti aveva inserito tale previsione-
comportava necessariamente che il primo non avrebbe
mai potuto sopravvivere alla mancata realizzazione dei
programmi
della società e che l’abbandono di tali programmi
avrebbe in ogni caso avuto come effetto la risoluzione del
contratto per la parte in cui conferiva il godimento in uso,
con conseguente accoglimento del primo motivo di appello,
che presuppone l’accertamento, dell’avvenuta risoluzione
del contratto ai sensi dell’art. 1456 c.c..
A questo capo
della sentenza impugnata si riferiscono il primo e il quarto
motivo di ricorso, che la Suprema Corte accoglie
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
26.06.2015 n. 13287
- Urbanistica e appalti n. 10/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL VENIR MENO DEL RISPETTO DELL’IDENTITÀ DI SAGOMA
NELLE RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE NON ESCLUDE
L’INVARIANZA DELLA PREESISTENTE VOLUMETRIA.
Per effetto delle modifiche legislative introdotte dal c.d.
decreto del fare (D.L. n. 69 del 2013) il requisito del
rispetto
della identità di sagoma non è più elemento indefettibile
onde operare la diagnosi differenziale fra gli
interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di
preventivo permesso a costruire e gli altri interventi
minori
di risanamento conservativo assentibili anche tramite la
presentazione, allora, della DIA ed, ora, della SCIA.
Tuttavia, non va trascurato che anche in questi casi è
pur sempre necessario, onde accertare che sia rimasta
invariata anche la preesistente volumetria, che sia
possibile
operare la verifica della originaria consistenza in
base a riscontri documentali od altri elementi certi e
verificabili.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene alla corretta delimitazione dell’ambito
applicativo
della recente modifica legislativa introdotta dal
c.d. decreto del fare (D.L. 21.06.2013, n. 69, art. 30
conv. con mod. in L. 09.08.2013, n. 98), con riguardo
agli interventi di ristrutturazione edilizia.
La vicenda
processuale
trae origine dalla ordinanza con cui il Tribunale del
riesame aveva rigettato l’appello proposto avverso il
provvedimento
con il quale il G.I.P. aveva a sua volta respinto
la richiesta di revoca del sequestro preventivo di un
immobile,
originariamente disposto in data 27.05.2010,
avanzata dall’indagato (cui era contestata la violazione del
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per avere,
unitamente
ad altra persona, realizzato delle opere edilizie abusive,
consistenti nell’accorpamento di volumetrie secondarie,
cambio di destinazione d’uso di annessi ad abitazione e
costruzione
di portici in assenza del permesso a costruire.
Il
Tribunale, nel rigettare il ricorso, aveva osservato, per
ciò
che concerneva l’avvenuta modificazione del d.P.R. n. 380
del 2001, art. 3 che, per un verso, la modifica non
concerneva
l’ipotesi di ricostruzione di manufatti demoliti nel corso
di interventi edilizi e per opera dell’uomo e che comunque
neppure in questi casi si prescindeva dalla identità di
volumetria e di area di sedime rispetto all’immobile
preesistente.
Contro la sentenza aveva proposto ricorso l’indagato,
deducendo che sulla base della legislazione edilizia vigente
nella Regione (si trattava della Regione Toscana, ove
era vigente all’epoca del fatto la L.R. n. 1 del 2005, art.
79,
comma 2, lett. d), nell’ambito della attività di
ristrutturazione,
soggetta all’epoca dei fatti a DIA, era compresa anche
la ricostruzione di volumi secondari oggetto di demolizione,
purché con identica o inferiore consistenza di quelli
preesistenti,
sebbene in diversa collocazione sul lotto di pertinenza.
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha
affermato
il principio di cui in massima, così dando continuità
all’indirizzo
giurisprudenziale secondo cui proprio con riferimento
alla sopravvenuta innovazione legislativa, costituita
dalla ricordata modificazione introdotta nel d.P.R. n. 380
del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), per effetto della
entrata
in vigore del D.L. n. 69 del 2013, convertito con
modificazioni
dalla L. n. 98 del 2013, la Corte di cassazione ha avuto
occasione di precisare più volte che integra il reato di
cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 la ricostruzione di
un
edificio demolito senza il preventivo rilascio del permesso
di costruire, sia perché trattasi di intervento di nuova
costruzione
e non di ristrutturazione, di un edificio preesistente,
dovendo intendersi per quest’ultimo un organismo edilizio
dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura,
sia perché non è applicabile il D.L. n. 69 del 2013, art.
30 (convertito in L. n. 98 del 2013), che, per assoggettare
gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o
parti
di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime
semplificato
della SCIA, o in passato della DIA, richiede l’accertamento
della preesistente consistenza dell’immobile in base
a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito
o
ad altri elementi certi e verificabili (Cass. pen., Sez. III,
30.09.2014, n. 40342, Q., in CED, n. 260552)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.06.2015 n. 26713
- Urbanistica e appalti n. 10/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: INSOSTENIBILE LA CONTINUAZIONE TRA REATI EDILIZI SE
COMMESSI A DISTANZA TEMPORALE NOTEVOLE L’UNO
DALL’ALTRO.
In caso di reati edilizi commessi a distanza temporale
l’uno dell’altro, si deve presumere, salvo prova contraria,
che la commissione di ulteriori abusi edilizi, anche
analoghi per modalità e “nomen juris”, non poteva essere
progettata specificamente al momento di commissione
del fatto originario, e deve quindi negarsi la sussistenza
della continuazione.
Di sicuro interesse la sentenza qui annotata della Corte di
cassazione sulla questione giuridica relativa alla
individuazione
delle condizioni in presenza delle quali può essere escluso
il vincolo della continuazione tra illeciti edilizi commessi
a
notevole distanza cronologica l’uno dall’altro.
La vicenda
processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte
d’Appello confermava la sentenza del tribunale con cui gli
imputati erano stati ritenuti colpevoli dei reati di cui
all’art.
44, lett. c), artt. 93 e 94 in relazione agli artt. 95 e 64,
commi
2 e 3, e art. 65 in relazione al d.P.R. n. 380 del 2001,
artt. 71
e 72.
Contro la sentenza proponevano ricorso per Cassazione
gli imputati, in particolare per non aver la Corte d’Appello
applicato la disciplina del reato continuato, preferendo
invece
applicare quella del cumulo giuridico; la molteplicità delle
violazioni appariva il frutto di un medesimo disegno
criminoso,
atteso che la realizzazione della copertura nei fatti
costituiva
la continuazione dei lavori di realizzazione del piano terra
e la concretizzazione di un medesimo disegno criminoso.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha confermato la sentenza, così facendo applicazione di un
principio, ormai da ritenersi consolidato nella
giurisprudenza
della Cassazione. Ed infatti, i giudici di appello
manifestarono
il diniego sul punto avuto riguardo al consistente arco
temporale intercorrente tra la data di commissione dei
diversi
reati (risalenti, quella già giudicati, agli accertamenti
del
30.08.1996 e del 20.09.1996) che escludeva la
medesimezza del disegno criminoso.
A fronte di tale
argomentazione,
coerente con le risultanze processuali e immune
da vizi logici, gli imputati avevano opposto censure
puramente
contestative, asserendo invece che ricorressero le
condizioni per il riconoscimento dell’applicazione della
disciplina
della continuazione tra i fatti giudicati e quelli oggetto
del presente giudizio. È pacifico, secondo la giurisprudenza
della Cassazione, che ai fini del riconoscimento della
continuazione
in sede di cognizione, incombe sull’interessato l’onere
di allegazione degli specifici elementi dai quali possa
desumersi l’identità del disegno criminoso (v., tra le
tante:
Cass. pen., Sez. VI, 07.12.2010, n. 43441, P., in CED,
n. 248962).
L’identità del disegno criminoso, infatti, non
può
essere presunta e l’imputato ha un onere di allegazione di
sentenze, di prove e di argomentazioni tali da dimostrare
l’unicità
del disegno criminoso in cui devono essere ricomprese
le diverse azioni od omissioni fin dal primo momento (v.,
ancora (v., ex multis: Cass. pen., Sez. I, 27.01.2009,
n.
3747, G., in CED, n. 242537) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2015 n. 26509
- Urbanistica
e appalti n. 11/2015). |
LAVORI PUBBLICI - VARI:
DETERMINAZIONE DEGLI INDENNIZZI PER SERVITÙ DI
ELETTRODOTTO.
Non può equipararsi la costituzione di servitù di
elettrodotto
all’ablazione della proprietà dell’area sottoservita
e così quantificarne l’indennizzo secondo il valore
venale al metro quadro dell’area sorvolata la quale conserva
una possibilità di utilizzazione valutabile economicamente:
infatti, per ricorrente giurisprudenza (Cass.,
Sez. I, n. 3751/2012), in tema di servitù di elettrodotto,
per la determinazione dell’indennità di asservimento ex
art. 123, comma 1, R.D. n. 1775/1933, la componente
dell’indennizzo costituita dalla diminuzione di valore
del fondo può essere attribuita solo quando sia dimostrata
e motivata l’attualità del deprezzamento.
Alcuni privati convennero in giudizio la società
proprietaria
di un elettrodotto, realizzato per decreto del Ministeriale
che ne dichiarava la p.u., contestando la quantificazione
dell’indennità di asservimento fissata in relazione al
terreno
di loro proprietà, sito in zona artigianale e oggetto di
servitù
di attraversamento aereo a favore della convenuta.
La Corte d’Appello accolse in parte la domanda,
rideterminando
l’indennità di asservimento. Stabilì che, per la
liquidazione
di tale indennità, dovesse escludersi l’applicabilità
degli artt. 29, 33, 34 e 123 del R.D. n. 1175/1933, c.d.
T.U.
Acque (abrogati dall’art. 58 del D.P.R. n. 327/2001 - T.U.
Espropri) e che l’art. 37 del citato T.U. aveva perpetuato
l’applicabilità dell’art. 5 bis del D.P.R. n. 333/1992
(norma,
peraltro, già dichiarata illegittima da Corte cost. n.
348/2007 che impose quale unico parametro per la
liquidazione
dell’indennità di espropriazione il c.d. valore venale
del bene, senza possibilità di applicare i nuovi criteri
introdotti
(a modifica dell’art. 37, d.P.R. n. 327/2001) in ragione
del menzionato art. 51-bis d.P.R. n. 327, che li riserva
alle
sole fattispecie alle quali si applica il T.U. Espropri e
l’art.
16 del D.Lgs. n. 504/1992.
Sicché, ad avviso della Corte di merito, sulla scorta delle
stime operate dal CTU, spettava ai proprietari l’indennizzo
per la fascia di terreno di forma trapezoidale interessata,
comprensiva della c.d. “fascia di passaggio”
dell’elettrodotto
(di ml 2), essendo assenti sostegni e manufatti. Viceversa
andava esclusa ogni possibilità di indennizzo della
c.d. “fascia di rispetto”, determinata secondo l’art. 5 del
D.P.C.M. 03.04.1992 (riguardante un vincolo conformativo
di carattere generale, efficace erga omnes).
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione da parte
della società proprietaria dell’elettrodotto, che la Corte
in
parte accoglie ove si censura l’aver equiparato l’indennità
per la costituzione della servitù di elettrodotto a quella
di
esproprio, con equiparazione dell’asservimento del bene alla
sua totale ablazione.
Affermano i Giudici di legittimità che erroneamente il
giudice
distrettuale ha finito per equiparare la costituzione di
servitù di elettrodotto all’ablazione della proprietà
dell’area
asservita (secondo il “valore venale al metro quadro”),
identificando l’indennità di asservimento con quella di
espropriazione dell’intera area sottoposta alla limitazione
impressa dal ius in re aliena, che è un minus rispetto
all’intero,
atteso che tendenzialmente il bene sorvolato dalle linee
aeree conserva pur sempre una possibilità di utilizzazione,
valutabile economicamente. Questo, in violazione di
quanto già affermato da questa Corte (Cass., Sez. I, n.
3751/2012), secondo cui, in tema di servitù di elettrodotto,
ai fini della determinazione dell’indennità di asservimento,
a norma dell’art. 123, comma 1, R.D. n. 1775/1933, la
componente dell’indennizzo costituita dalla diminuzione di
valore di tutto o parte del fondo, inteso come complessiva
entità economica, non opera in modo indistinto ed
automatico,
potendo essere attribuita solo quando sia dimostrata
l’attualità del deprezzamento e comunque il suo documentato
verificarsi in connessione alla natura del fondo
o all’oggettiva incidenza causale della costituzione della
predetta servitù.
Occorre, quindi, che in applicazione di
tale
principio il giudice di merito indichi le ragioni della
corresponsione
del valore venale integrale, eventualmente disposto
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
24.06.2015 n. 13095 - Urbanistica e appalti n. 10/2015). |
URBANISTICA:
CARATTERE RELATIVO E NON ASSOLUTO DI ALCUNE
NULLITÀ IN MATERIA EDILIZIA E URBANISTICA.
Le nullità disposte dall’art. 10, comma 4, L. n. 765/1967
(abrogato dall’art. art. 18, L. n. 47/1985) e dall’art. 15,
comma 7, L. n. 10/1977 e previste, rispettivamente, per
gli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati
a scopo residenziale e per i negozi aventi a oggetto
unità edilizie costruite in assenza di concessione edilizia,
non hanno carattere assoluto bensì di invalidità relativa,
che può essere fatta valere soltanto dall’acquirente
in buona fede (cfr. Cass. 27.04.1993, n. 4926).
Sorge questione, avanti un Tribunale civile, fra due
privati:
l’attore esponeva che i convenuti, con scrittura privata
registrata,
gli avevano venduto la quota di 1/2 della piena proprietà
di un fondo rustico con sovrastanti fabbricati rurali;
che il prezzo era stato pagato; che i promittenti venditori
non avevano aderito agli inviti per la stipula dell’atto
pubblico.
Per l’effetto, era chiesta sentenza traslativa della
proprietà,
con ordine al Conservatore dei RR.II. di effettuare
volture e trascrizioni.
Il Tribunale rigettava la domanda.
Sull’appello proposto dall’originario attore, gli appellati
(già
convenuti) eccepivano, tra l’altro, la nullità della
scrittura,
avendo essa a oggetto il trasferimento d’immobili costruiti
senza concessione edilizia. La Corte territoriale riformava
la
sentenza gravata e dichiarava l’avvenuto trasferimento in
capo all’appellante del diritto di proprietà sui beni
oggetto
di scrittura privata, ordinando al Conservatore dei RR.II.
di
provvedere all’integrale trascrizione della medesima, come
dalla stessa sentenza integrata.
A fondamento della decisione, la Corte d’Appello affermava
di non condividere l’eccezione di nullità -prospettata
dagli appellati ai sensi degli artt. 15 e 18 della L. n.
10/1977- della scrittura in questione, perché conclusa in
epoca anteriore all’entrata in vigore della citata legge.
Gli originari convenuti, appellati soccombenti, ricorrono
per
la cassazione di tale sentenza, con ricorso che la Suprema
Corte respinge.
Essi deducono anzitutto che tanto la scrittura privata
quanto
la registrazione (avvenuta dopo circa dieci anni) della
stessa sono successive all’entrata in vigore della L. n.
10/1977, il che implica la fallacità della motivazione
assunta
dalla Corte distrettuale a fondamento della domanda:
con la conseguenza che, dovendosi applicare quanto disposto
agli artt. 15 e 18 della legge in parola, la scrittura
era indiscutibilmente nulla.
Con il secondo motivo, deducono che il contratto era
comunque
affetto da altre ragioni di nullità, inutilmente denunciate
nel doppio grado di merito, per violazione degli
artt. 18 e 40, comma 2, L. n. 47/1985: questo, sia per il
difetto
di allegazione all’atto del certificato di destinazione
urbanistica,
quanto in ragione del fatto che la scrittura ineriva
ad immobili la cui alienazione ha dato luogo a lottizzazione
abusiva.
La Suprema Corte disattende entrambe le censure, partendo
dal rilevare che la scrittura è da ritenersi intervenuta in
data 20.10.1982 e che, per quanto in atti, ebbe
immediato
effetto traslativo reale, ex art. 1376 c.c..
La sua validità in rapporto alla disciplina urbanistica ed
edilizia,
pertanto, va vagliata alla stregua del carattere
eventualmente
abusivo delle opere che a tale data (20.10.1982) risultavano realizzate sul fondo.
In questi termini la S.C. evidenzia, anzitutto, che la
scrittura
non soggiace alla disciplina dell’art. 18, comma 2, L. n.
47/1985, essendo tal norma successiva alla vendita del
terreno,
frazionato con tale atto. In termini, si richiama un
precedente
orientamento (Cass. 28.03.1997, n. 2776, secondo
cui la disposizione, che vieta gli atti di trasferimenti
immobiliari, da cui derivino lottizzazioni abusive, non
comporta
la nullità dei contratti preliminari o definitivi stipulati
prima della sua entrata in vigore, non avendo la norma
richiamata
efficacia retroattiva).
In secondo luogo, osserva la Corte che la scrittura non
soggiace neppure alla disciplina dell’art. 40, comma 2, L.
n. 47/1985, per le medesime ragioni di anteriorità, pur ad
ammettere che la costruzione delle supposte opere abusive,
oggetto di compravendita, fosse antecedente.
In terzo luogo, la Cassazione ritiene che scrittura non
soggiaccia
neppure alla disciplina di cui all’art. 15, comma 7,
L. n. 10/1977.
Infatti, la nullità prevista dall’art. 10,
comma
4, L. 06.08.1967, n. 765 (abrogato ex art. 18 della L. n.
47/1985) e dall’art. 15, comma 7, L. n. 10/1977 -rispettivamente,
per gli atti di compravendita di terreni abusivamente
lottizzati e a scopo residenziale e per i negozi aventi ad
oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione
edilizia- non ha carattere assoluto bensì di invalidità
relativa,
che può essere fatta valere soltanto dall’acquirente in
buona fede (cfr. Cass. 27.04.1993, n. 4926) ovvero,
nella
fattispecie, esclusivamente dall’acquirente e
controricorrente
in questa sede, il che non è avvenuto, con conseguente
impossibilità di una tale declaratoria
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
23.06.2015 n. 12952 - Urbanistica e appalti n. 10/2015). |
VARI: Nell’associazione
la responsabilità non si trasmette. I soggetti. Paga chi
agisce «in nome e per conto».
Violazioni tributarie con
responsabilità solo in capo a chi effettivamente e
concretamente agisce in nome e per conto dell’associazione
sportiva.
Per le associazioni sportive dilettantistiche non
riconosciute (senza personalità giuridica) la responsabilità
contrattuale è regolata dall’articolo 38 del Codice civile
secondo cui: «Per le obbligazioni assunte dalle persone
che rappresentano l’associazione, i terzi possono far valere
i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse
rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che
hanno agito in nome e per conto dell’associazione». Non
vi è dubbio che tra i terzi tutelati dall’ articolo 38 del
Codice civile vi sia anche il fisco.
In questo senso, infatti, si esprime anche la recente
Cassazione, Sez. VI civile (ordinanza
17.06.2015 n. 12473) che fa propri i principi di
precedenti pronunce della Suprema corte secondo cui in
riferimento alla responsabilità solidale con l’associazione,
si deve avere riguardo alla concreta attività negoziale
posta in essere dal rappresentante (Cassazione sentenze
16344/2008 e 19486/2009).
Per tale motivo -ribadisce la Cassazione- in ambito fiscale
sarà chiamato a rispondere solidalmente con l’associazione
stessa, «tanto per le sanzioni pecuniarie quanto per il
tributo non corrisposto, il soggetto che, in forza del ruolo
rivestito, abbia diretto la complessiva gestione associativa
nel periodo considerato». Ciò significa che questa
responsabilità investe solamente gli amministratori o i
soggetti durante il cui mandato sono stati contratti gli
obblighi o i debiti per conto dell’ente. L’incombenza non
riguarda invece chi assume successivamente la rappresentanza
dell’associazione.
In concreto, vuol dire che il semplice avvicendarsi nelle
cariche sociali non comporta la trasmissione del debito da
un rappresentante all’altro, per cui ognuno sarà chiamato a
rispondere delle obbligazioni assunte nei periodi d’imposta
di loro competenza.
Nel merito della questione va però puntualizzato che
l’articolo 38 del Codice civile non qualifica in via diretta
la responsabilità in capo al presidente o rappresentante
legale dell’associazione, ma mira ad identificare sempre e
comunque «chi agisce in nome e per conto
dell’associazione». Per cui anche se, in linea di
principio, le persone che possono giuridicamente spendere il
nome dell’ente sono il presidente e in alcuni casi il
consiglio direttivo, in relazione a singoli casi concreti
l’attribuzione di responsabilità potrebbe non sempre essere
così chiara e immediata e finire con il coinvolgere anche
altri attori della vita associativa.
Di converso è altrettanto chiaro che, in mancanza di
provabili condizioni che possano permettere di identificare
colui che ha agito in nome e per conto dell’ente, la
responsabilità solidale (ivi compreso per i debiti fiscali)
è da ascrivere sempre in capo a chi ne ha la formale legale
rappresentanza.
Decisamente di entità minore si presenta invece il problema
per i sodalizi con personalità giuridica dove il Dl 269/2003
al comma 1 dell’articolo 7 ha stabilito che le sanzioni «sono
esclusivamente a carico della persona giuridica»
(articolo Il Sole 24 Ore del
25.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
COMPROPRIETARIO NON COMMITTENTE CORRESPONSABILE
DELL’ABUSO EDILIZIO SOLO SE VIGILA SULL’ESECUZIONE
DEI LAVORI.
Perché il comproprietario non committente possa essere
ritenuto responsabile dell’abuso edilizio, occorre un
contributo causale diretto ad agevolare l’abusiva
edificazione,
contributo che non può essere ritenuto senza
che risulti la prova che, oltre alla presenza sul luogo, di
per sé non significativa, fosse stata esercitata anche
una vigilanza sull’esecuzione dei lavori, posto che il
contributo causale non può essere desunto dal comportamento
inerte tenuto nei confronti dell’esecutore materiale
del reato.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza
in esame concerne un tema ricorrente nell’esegesi
giurisprudenziale
di legittimità, rappresentato dalla delimitazione
dell’ambito della responsabilità del c.d. comproprietario
dell’immobile sul quale siano eseguiti lavori edilizi
abusivi.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione contro
la sentenza con la quale la Corte di appello, in parziale
riforma di quella emessa dal tribunale aveva rideterminato
nei confronti dell’imputato la pena per i reati di
violazione
dei sigilli, per il reato urbanistico previsto dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b), e per i connessi reati
edilizi.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione
l’interessato, in particolare sostenendo che la prova della
responsabilità era stata erroneamente fondata sulla base di
indizi non gravi e neppure precisi e concordanti, atteso non
vi era alcuna prova che egli, separatosi dalla moglie,
avesse
manomesso i sigilli apposti alla cosa sequestrata,
proseguendo
i lavori.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto la tesi difensiva, osservando come la Corte
d’Appello aveva ritenuto che la prova della responsabilità
fosse desumibile dal fatto di essere l’imputato
comproprietario
dell’immobile, di essere stato rinvenuto sul luogo delle
opere edili abusivamente realizzate, con riferimento alle
quali erano proseguiti i lavori nonostante un precedente
sequestro
e l’apposizione dei sigilli, e di avere già in precedenza
subito un processo, dal quale risultò indenne, per
concorso in condotte analoghe della moglie.
Va ricordato
che la giurisprudenza di legittimità ritiene che, in tema di
reati edilizi, la responsabilità del proprietario non
committente
non può essere oggettivamente dedotta dal diritto
sul bene, né può essere configurata come responsabilità
omissiva per difetto di vigilanza, attesa l’inapplicabilità
dell’art.
40, comma 2, c.p., ma deve essere desunta da indizi
ulteriori rispetto all’interesse insito nel diritto di
proprietà,
idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale,
al reato (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 10.10.2013, n. 44202, M., in CED, n. 257625); nel caso di specie,
occorreva la prova, anche indiziaria, che il comproprietario
non committente avesse fornito un contributo causale diretto
ad agevolare l’abusiva edificazione, prova nella specie
non emergente con certezza (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.06.2015 n. 24688
- Urbanistica
e appalti n. 10/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: IL PROPRIETARIO COMMITTENTE RISPONDE DEL REATO DI
OMESSA DENUNCIA DEI LAVORI IN ZONA SISMICA.
Il reato di omessa denuncia (art. 93, d.P.R.
06.06.2001, n. 380) dei lavori in zona sismica, in quanto reato
a soggettività ristretta, è ascrivibile unicamente al
committente,
al titolare della concessione edilizia e, in genere,
a chi abbia la disponibilità dell’immobile o dell’area
sui cui lo stesso sorge, mentre del medesimo non risponde
il titolare della ditta esecutrice o il mero esecutore
dei lavori, la cui responsabilità è configurabile solo
in caso di esecuzione dei lavori in difetto di
autorizzazione
e di inosservanza delle norme o prescrizioni tecniche
contenute nei decreti interministeriali vigenti.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della responsabilità penale del
proprietario committente lavori edilizi in zona sismica, il
quale ometta di presentare la relativa denuncia all’Ufficio
del Genio civile.
La vicenda processuale che ha fornito
l’occasione
alla Corte per occuparsi della questione segue alla
sentenza che aveva dichiarato responsabile dei reati di cui
al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 71, 93 e 95 il
proprietario
di un immobile per avere realizzato in zona sismica, senza
l’ausilio di un tecnico qualificato ed omettendo di
depositare
prima dell’inizio dei lavori gli atti progettuali presso
l’ufficio
del Genio Civile competente, relativamente alla
realizzazione
di una sopraelevazione di un piano abitabile di un
fabbricato.
Contro la sentenza proponeva ricorso per
cassazione
il proprietario-committente, in particolare eccependo
l’errore in cui era caduto il giudice di merito nel
riconoscerlo
responsabile delle violazioni contestate, rilevato
che gli illeciti rubricati concretizzano fattispecie di
reati
omissivi propri giammai imputabili al proprietario
dell’immobile.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare
precisando
che le fattispecie di cui al d.P.R. n. 380 del 2001,
artt. 64, 71, 93 e 95, hanno natura di reati propri;
tuttavia
l’ambito di ascrivibilità è più ristretto, investendo
unicamente
il soggetto interessato alla realizzazione dell’intervento
edilizio non denunciato, prevedendo specifici obblighi
formali, ricadenti sul committente dei lavori o su chi abbia
la disponibilità dell’immobile o dell’area ubicata in zona
sismica.
L’art. 71 sanziona il comportamento di chi
commette,
dirige ed esegue le opere senza progetto redatto da
un tecnico abilitato; l’art. 93 punisce, altresì, tra gli
altri anche
il committente, il quale deve accertare che tutti gli
adempimenti, ex lege previsti, siano stati ritualmente posti
in essere, come quello di informare preventivamente l’UTC
(v., in senso conforme, tra le tante: Cass. pen., Sez. III,
23.02.2010, n. 7098, M., in CED, n. 246018)
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 10.06.2015 n. 24585
- Urbanistica e appalti n. 10/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
ILLEGITTIMA LA SANATORIA SUBORDINATA
ALL’ESECUZIONE DI OPERE EDILIZIE SULL’IMMOBILE
ABUSIVO PER RENDERLO “SANABILE”.
Non sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere
il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del
2001, i provvedimenti amministrativi di sanatoria di
immobile
abusivo che subordinano gli effetti del beneficio
alla esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre
l’immobile stesso nell’alveo di conformità agli
strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione
è ontologicamente contrastante con la ratio della sanatoria,
collegabile alla già avvenuta esecuzione delle
opere e alla loro conformità agli strumenti urbanistici.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella
giurisprudenza di legittimità, della possibilità di
ammettere
la c.d. sanatoria edilizia anche in relazione ad immobili
abusivi,
condizionando la sanatoria medesima all’esecuzione
di opere sull’immobile abusivo per renderlo sanabile.
La
vicenda
processuale trae origine dalla sentenza di condanna,
emessa in appello, che aveva riformato quella di primo grado
che aveva assolto gli imputati dal reato di avere
realizzato,
in concorso tra loro, in parziale difformità rispetto alla
concessione edilizia, interventi nei locali interrati di un
edificio
in costruzione, modificativi delle altezze predefinite,
con conseguente variazione volumetrica degli stessi, con
realizzazione di una rampa con pendenza differente da
quella abilitata.
La Corte d’Appello di Trento, chiamata a
pronunciarsi sull’appello interposto dal Procuratore della
Repubblica, aveva dichiarato i prevenuti responsabili del
reato ad essi ascritto.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il
direttore
dei lavori, in particolare sostenendo l’estinzione del
reato edilizio per intervenuto rilascio della concessione in
sanatoria.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare
osservando
come nessun rilievo può attribuirsi alla concessione
in sanatoria in quanto la stessa risultava condizionata alla
effettuazione di determinati interventi: infatti, in materia
edilizia, per giurisprudenza pacifica della Cassazione, non
è
ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria,
d.P.R. n. 380 del 2001, ex artt. 36 e 45, subordinata alla
esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta
ontologicamente
con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità,
i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione
delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina
urbanistica
(v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 12.11.2007, n. 41567, P.M. in proc. R. e altro, in CED, n.
238020) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2015 n. 24583
- Urbanistica e appalti
n. 10/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della sussistenza dei presupposti per la
decadenza della concessione edilizia (ora permesso di
costruire), l'effettivo inizio dei relativi lavori deve
essere valutato non in termini generali ed astratti, ma con
specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle
dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed
autorizzato, allo scopo di evitare che il termine prescritto
possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e/o
simbolici e in ogni caso non oggettivamente significativi di
un effettivo intendimento del titolare della concessione di
procedere alla costruzione dell'opera progettata.
---------------
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia,
del permesso di costruire n. 720/2004, emesso con
riferimento alla pratica edilizia n. 4/2004, rilasciato
dall’arch. De.Pa. nella sua qualità di
responsabile comunale del servizio urbanistico ai sigg.
Ma.Ru.Fa., ora deceduto, e alla sig.ra De Do.Ri.Ma. -
conosciuto dalla ricorrente solo in data 01.04.2008;
...
Anche il quarto motivo di ricorso con il quale
la ricorrente deduce la decadenza della concessione edilizia
per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal
rilascio del titolo ai sensi dell’art. 15 del DPR 380/2001,
non coglie nel segno (a prescindere dalla considerazione che
la decadenza deve essere dichiarata con un atto che, pur se
dovuto e di carattere ricognitivo,è nondimeno un atto,
sicché la sua assenza non determina un vizio delle fasi del
procedimento amministrativo susseguenti ma va censurata nei
modi debiti).
Secondo la ricorrente la comunicazione dell’inizio dei
lavori (avvenuta in data 27.10.2005) due giorni prima della
scadenza del termine di un anno (29.10.2005) non può essere
ritenuta adempimento utile ai fini della dimostrazione
dell’inizio tempestivo dei lavori stessi mancando dei
presupposti essenziali (in assenza di comunicazione del
nominativo, qualifica e residenza del direttore dei lavori e
del nominativo e residenza del costruttore con la firma di
questi ultimi).
La Sezione ritiene, al riguardo, e condividendo sul punto
quanto precisato dal prevalente orientamento della giustizia
amministrativa in materia, che ai fini della sussistenza dei
presupposti per la decadenza della concessione edilizia (ora
permesso di costruire), l'effettivo inizio dei relativi
lavori debba essere valutato non in termini generali ed
astratti, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità
ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato
ed autorizzato, allo scopo di evitare che il termine
prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi
e/o simbolici e in ogni caso non oggettivamente
significativi di un effettivo intendimento del titolare
della concessione di procedere alla costruzione dell'opera
progettata (v. TAR Liguria, sez. I, 19/10/2007 n. 1775;
TAR Lazio - LT - 23/02/2007 n. 132; TAR Marche, sez. I,
11/07/2006 n. 525; TAR Campania - NA - sez. IV, 05/01/2006
n. 56).
Nella specie, il Collegio ritiene che la nota del
20.12.2007 della ditta M., con la quale si comunica
che era stato provveduto al tracciamento di plinti e travi
in fondazione per la realizzazione dello scavo, allo
sbancamento parziale del terreno e all’organizzazione del
cantiere, evidenzia di per se la sussistenza di un concreto
animus aedificandi; peraltro, l’affermazione della
ricorrente riguardante il mancato concreto inizio dei lavori
nel termine suddetto non risulta suffragata da alcun
concreto elemento probatorio, sicché non vi sono ragioni per
condividere la tesi da quest’ultima esposta
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 11.07.2009 n. 1809 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 19.04.2016 (ore 22,45) |
ã |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI:
G.U. 19.04.2016 n. 91:
►
suppl. ord. n. 10/L, "Attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori
dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi
postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture"
(D.Lgs.
18.04.2016 n. 50).
►
suppl. ord. n. 11, "Tabella
di concordanza relativa al decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50, recante: «Attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori
dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi
postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture»" (Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti). |
IN EVIDENZA |
Continueremo a ripeterlo all'infinito per coloro che
indefessamente "se ne fregano" del rispetto
della legge:
E'
illegittimo (e fonte di danno erariale)
l'affidamento di incarichi all'esterno in assenza di
una preventiva ricognizione puntuale dell’assenza di
strutture organizzative o professionalità interne
all’ente in grado di svolgere l’incarico.
|
INCARICHI PROFESSIONALI:
Non è consentito procedere al conferimento di incarichi
esterni in assenza di una preventiva ricognizione puntuale
dell’assenza di strutture organizzative o professionalità
interne all’ente in grado di svolgere l’incarico.
• La legge (art. 1, comma 8, l. n.
190/2012) pone l’espresso divieto di consentire l’attività
di elaborazione del Piano triennale per la prevenzione della
corruzione a soggetti estranei all’amministrazione.
• Non è conforme a legge il conferimento di un incarico di
consulenza in assenza di una procedura comparativa
adeguatamente pubblicizzata. La particolare urgenza, che può
legittimare il diretto conferimento dell’incarico a favore
di un professionista, deve essere determinata dalla
imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un
termine prefissato o ad un evento eccezionale con la
precisazione che la “particolare urgenza” deve essere
connessa alla realizzazione dell’attività discendente
dall’incarico e che non è rilevante l’urgenza creata da
condotta imputabile all’ente anche nella fissazione di un
termine.
• Con l’atto di conferimento di incarico esterno il
funzionario che impegna la spesa deve accertare
preventivamente che il programma dei pagamenti sia
compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le
regole di finanza pubblica.
• L’eventuale avvio anticipato di prestazioni a favore della
pubblica amministrazione rispetto al conferimento di
incarico con relativo impegno di spesa è situazione del
tutto eccezionale ammessa nei soli casi tassativamente
previsti dal legislatore.
---------------
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha
previsto che
gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono
essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei
conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione.
La finalità di tale previsione normativa è
riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da
parte della Corte, dell’idoneità dell’attività
amministrativa posta in essere dagli enti controllati a
raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica
della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può
comunque prescindere da un riscontro della conformità della
stessa a norme giuridiche.
Per completezza va dato atto che accanto alla disposizione
generale sopracitata
per gli enti locali vige altresì la
previsione più puntuale di cui all’art. 1, comma 42, della
legge 30.12.2004 n. 311 che stabilisce l’obbligo di
trasmissione alla magistratura contabile degli atti di
affidamento di incarichi di studio, ricerca e di
consulenza
ad estranei alla pubblica amministrazione, a prescindere dal
valore monetario, con obbligo di valutazione dell’organo di
revisione dell’ente.
La giurisprudenza contabile in relazione al suddetto
controllo ha affermato che ”l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”.
E’ infatti evidente che
alla pronuncia accertativa della magistratura contabile
consegua l’obbligo della P.A. di conformarsi alla stessa
onde assicurare il rispetto della legge e che
contestualmente possa derivare una responsabilità del
soggetto agente autore dell’atto contra legem.
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge
dell’incarico conferito dalla Regione
occorre rammentare che
i presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di
collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del
d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti
costituiscono la codificazione di quanto ampiamente
affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al
conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese
soggette a controllo da parte della Sezione
(le consulenze,
gli studi, le ricerche, le spese per relazioni,
rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità).
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle
competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione
conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati
e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità
dell'amministrazione conferente; è stato in proposito
chiarito che: “il requisito della corrispondenza della
prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento
all’amministrazione conferente è determinato dal poter
ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge”;
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno. Al proposito va rammentato che
in base ai principi generali di organizzazione
amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i
compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale.
Tale
regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale
di buon andamento della pubblica amministrazione e il
conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti
esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di
speciali e peculiari condizioni. D’altro canto il
legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in
linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni
esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo
(art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte
tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione
in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e
altamente qualificata e deve soddisfare esigenze
straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo;
l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita,
in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e
per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando
la misura del compenso pattuito in sede di affidamento
dell'incarico;
d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo,
oggetto e compenso della collaborazione;
e) deve sussistere il requisito della “comprovata
specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni,
per esigenze cui non possono far fronte con personale in
servizio, possono conferire incarichi individuali (con
contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di
collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti
di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della
comprovata specializzazione universitaria in caso di
stipulazione di contratti di collaborazione di natura
occasionale o coordinata e continuativa per attività che
debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o
albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello
spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività
informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di
ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il
collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di
cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché
senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica, ferma restando la necessità di accertare la
maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso
di conferimento di un incarico di studio o di consulenza
occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti
dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n.
122/2010 e s.m.i.
(salve particolari ipotesi: es. la
copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e
specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati,
cfr. sez. contr. Piemonte 25.10.2013, n. 362)
e che in sede
di assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi
dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009
convertito dalla legge n. 102/2009
(cfr. per le Regioni
l’art. 56, co. 6, d.lgs. n. 118/2011, per gli enti locali
art. 74 d.lgs. n. 118/2011 di modifica dell’art. 183 TUEL),
ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma
dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di
bilancio o di cassa e con le regole di finanza pubblica,
salvo incorrere, in caso di inosservanza di tale obbligo, in
responsabilità disciplinare ed amministrativa.
---------------
I. L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha
previsto che
gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono
essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei
conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione.
La finalità di tale previsione normativa è
riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da
parte della Corte, dell’idoneità dell’attività
amministrativa posta in essere dagli enti controllati a
raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica
della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può
comunque prescindere da un riscontro della conformità della
stessa a norme giuridiche.
Per completezza va dato atto che accanto alla disposizione
generale sopracitata
per gli enti locali vige altresì la
previsione più puntuale di cui all’art. 1, comma 42, della
legge 30.12.2004 n. 311 che stabilisce l’obbligo di
trasmissione alla magistratura contabile degli atti di
affidamento di incarichi di studio, ricerca e di
consulenza
ad estranei alla pubblica amministrazione, a prescindere dal
valore monetario, con obbligo di valutazione dell’organo di
revisione dell’ente.
La giurisprudenza contabile in relazione al suddetto
controllo ha affermato che ”l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez.
reg. contr. Lombardia, n. 244/2008).
E’ infatti evidente che
alla pronuncia accertativa della magistratura contabile
consegua l’obbligo della P.A. di conformarsi alla stessa
onde assicurare il rispetto della legge e che
contestualmente possa derivare una responsabilità del
soggetto agente autore dell’atto contra legem.
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge
dell’incarico conferito dalla Regione
occorre rammentare che
i presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di
collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del
d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti
costituiscono la codificazione di quanto ampiamente
affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al
conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese
soggette a controllo da parte della Sezione
(le consulenze,
gli studi, le ricerche, le spese per relazioni,
rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità), in tal senso,
si può richiamare il
parere 25.10.2013 n. 362 di questa Sezione.
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle
competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione
conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati
e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità
dell'amministrazione conferente; è stato in proposito
chiarito che: “il requisito della corrispondenza della
prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento
all’amministrazione conferente è determinato dal poter
ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge”
(Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37, nonché Sez.
Reg. Lombardia, n. 244/2008);
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno. Al proposito va rammentato che
in base ai principi generali di organizzazione
amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i
compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale.
Tale
regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale
di buon andamento della pubblica amministrazione e il
conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti
esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di
speciali e peculiari condizioni. D’altro canto il
legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in
linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni
esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo
(art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte
tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione
in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e
altamente qualificata e deve soddisfare esigenze
straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo;
l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita,
in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e
per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando
la misura del compenso pattuito in sede di affidamento
dell'incarico;
d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo,
oggetto e compenso della collaborazione;
e) deve sussistere il requisito della “comprovata
specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni,
per esigenze cui non possono far fronte con personale in
servizio, possono conferire incarichi individuali (con
contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di
collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti
di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della
comprovata specializzazione universitaria in caso di
stipulazione di contratti di collaborazione di natura
occasionale o coordinata e continuativa per attività che
debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o
albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello
spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività
informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di
ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il
collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di
cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché
senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica, ferma restando la necessità di accertare la
maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso
di conferimento di un incarico di studio o di consulenza
occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti
dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n.
122/2010 e s.m.i.
(salve particolari ipotesi: es. la
copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e
specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati,
cfr. sez. contr. Piemonte 25.10.2013, n. 362)
e che in sede
di assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi
dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009
convertito dalla legge n. 102/2009
(cfr. per le Regioni
l’art. 56, co. 6, d.lgs. n. 118/2011, per gli enti locali
art. 74 d.lgs. n. 118/2011 di modifica dell’art. 183 TUEL),
ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma
dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di
bilancio o di cassa e con le regole di finanza pubblica,
salvo incorrere, in caso di inosservanza di tale obbligo, in
responsabilità disciplinare ed amministrativa.
II. Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di
legittimità per il conferimento dell’incarico occorre
evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti dalla
Regione Piemonte a mezzo della risposta inviata nel corso
dell’espletata istruttoria, mentre per gli aspetti inerenti
ai limiti annui di spesa correlati agli incarichi di studio
e consulenza ed all’avvenuta comunicazione dell’atto alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della
Funzione Pubblica le indicazioni fornite possono ritenersi
adeguate e sufficienti, non può dirsi ugualmente in ordine
agli altri rilievi formulati.
1. Innanzitutto appare necessario procedere all’analisi
della questione inerente la verifica preventiva circa
l’assenza di strutture organizzative o professionalità
interne all’amministrazione in grado di fare fronte
all’incarico.
La Regione in sede di risposta ha riferito che prima del
ricorso all’esterno sarebbero stati preventivamente sentiti
i responsabili dei Settori audit interno e Trasparenza ed
anticorruzione che avrebbero avuto a disposizione le
strutture maggiormente competenti ad effettuare la
valutazione dei rischi corruttivi relativi ai procedimenti
di competenza regionale; tuttavia tale attività “mai posta
in essere nell’ente Regione, avrebbe permesso l’applicazione
del principio di rotazione degli incarichi dirigenziali,
risultando però al momento del tutto estranea alle
conoscenze acquisite ed alle prassi: per tali ragioni non è
risultato reperibile una specifica e comprovata
professionalità in tale senso all’interno dell’Ente”.
Con riferimento alla previa verifica della presenza di
strutture in grado di far fronte all’esigenza occorre
evidenziare che la Regione Piemonte, nell’ambito della
propria autoorganizzazione in tema di conferimento di
incarichi esterni, ha assunto con la deliberazione di Giunta
regionale n. 28/1337 del 29.12.2010 (richiamata nella nota
di risposta del 03.03.2016 della Regione al punto 2) una
direttiva volta a fissare una disciplina delle procedure
comparative per il conferimento degli incarichi esterni da
parte delle Direzioni della Giunta regionale.
La citata Direttiva stabilisce all’art. 2 quale presupposto
per il conferimento di ogni incarico che la Direzione
competente verifichi “l’inesistenza qualitativa e
quantitativa, all’interno sia della propria struttura che
delle altre direzioni regionali, della figura professionale
idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per
mezzo di una reale ricognizione da effettuarsi presso tutte
le altre Direzioni regionali anche a mezzo richiesta via
posta elettronica.”.
Tale previo accertamento è ribadito al successivo articolo 3
quale elemento antecedente all’avvio dell’ordinaria
procedura selettiva mediante avviso pubblico.
Nel caso di specie occorre tuttavia evidenziare che la
Regione si è limitata a riferire in termini del tutto
generici che sarebbero stati sentiti (non si indica neppure
le modalità e le tempistiche) i responsabili dei Settori
audit interno e Trasparenza ed anticorruzione, ma che non
sarebbero state reperibili professionalità adeguate (non è
peraltro neppure chiaro chi avrebbe attestato tale
mancanza); tuttavia non vi è traccia alcuna della concreta
effettuazione della previa ricognizione interna sia a mezzo
posta elettronica ovvero attraverso altro mezzo, non essendo
stato fornito alcun elemento in proposito.
Si aggiunga inoltre che quanto riferito nella nota di
risposta dalla Regione Piemonte circa l’assenza di
professionalità interne in grado di occuparsi della
mappatura dei rischi non appare peraltro in linea con quanto
risultante dagli atti già assunti. In particolare risulta
che nel corso del 2014 la Regione Piemonte ha adottato il
Piano triennale della prevenzione della corruzione 2014-2016
e che al suddetto fine si è dovuta occupare espressamente
della mappatura dei rischi di corruzione all’interno della
propria organizzazione.
Risulta infatti al punto 6 del
citato Piano “Metodologia adottata per valutazione rischio”
un’articolata disamina dei rischi esistenti all’interno
dell’ente preceduta dall’esposizione del metodo utilizzato
per effettuare l’analisi, ove è stato riferito del processo
di gestione del rischio suddiviso in tre macro-fasi
(mappatura dei processi amministrativi a rischio;
valutazione del rischio corruzione; trattamento del rischio
corruzione) e puntualizzato che “l’attività di
individuazione e valutazione dei rischi è stata sviluppata
secondo la logica del “Control Risk self assesment (CRSA)
coinvolgendo tutti i direttori ed i dirigenti di Settore
della Giunta Regionale, come previsto dalla legge 190/2012.”
Inoltre è stato riferito che al fine del raggiungimento
dell’obiettivo “ogni direttore ha proceduto alla mappatura
dei processi di competenza della propria Direzione
attraverso la compilazione di una scheda tecnica inviata al RAT entro il 15.06.2014” e che all’esito si procede alla
valutazione del grado di rischio per ogni singola direzione.
Alla luce di quanto sopra
appare dunque smentita
l’affermazione per la quale all’interno della struttura
regionale non sarebbe mai stata effettuata alcuna attività
valutativa del rischio corruttivo e che pertanto non vi
sarebbero professionalità munite di conoscenze adeguate.
Si aggiunga che l’attività di mappatura dei rischi
corruttivi all’interno delle strutture regionali e
nell’ambito dei procedimenti trattati dalla Regione appare
per definizione una tipologia di attività che richiede
necessariamente una conoscenza della situazione interna
all’amministrazione ed alla scansione e gestione dell’iter
dei procedimenti amministrativi che non può essere detenuta
che da quei soggetti che operano quotidianamente ed
effettivamente all’interno della stessa (Direttori,
dirigenti, responsabili di servizi/uffici), sicché appare
non solo naturale ma assolutamente necessario che proprio
attraverso l’opera ed il coinvolgimento di tali soggetti si
proceda alla suddetta mappatura, essendo del tutto evidente
che viceversa un soggetto esterno all’amministrazione
regionale non avrebbe quel patrimonio conoscitivo necessario
per l’adeguato svolgimento di tale compito.
D’altronde il Piano triennale per dettato normativo (art. 1,
comma 9, legge n. 190/2012) deve, tra l’altro, rispondere
all’esigenza di individuare le attività in cui è più elevato
il rischio di corruzione ed è quindi un contenuto necessario
del piano la parte inerente alla gestione del rischio ed
dunque in primis l’individuazione di tutte le aree a rischio
all’esito di un processo di analisi e valutazione. In
ragione di quanto detto pertanto la legge (art. 1, comma 8,
l. n. 190/2012) pone l’espresso divieto di consentire
l’attività di elaborazione del Piano triennale a soggetti
estranei all’amministrazione.
In conclusione
l’affidamento all’esterno
dell’amministrazione regionale dell’attività consulenziale e
di studio volta alla redazione della mappatura dei rischi
corruttivi in ordine ai procedimenti gestiti dalla Regione
Piemonte, con relazione conclusiva degli esiti dell’attività
medesima,
non appare giustificato sia per inesistenza del
presupposto dell’assenza di strutture o professionalità
interne in grado di fare fronte alla relativa esigenza sia a
fortiori per violazione della disciplina di cui alla legge
n. 190/2012 in ordine alla redazione del Piano
anticorruzione e dei relativi aggiornamenti.
Sotto tale
profilo deve essere disposta la trasmissione della presente
alla locale Procura regionale della Corte dei Conti.
2. In secondo luogo per quanto il primo rilievo sia
dirimente in termini di non conformità alla disciplina
legislativa, va altresì evidenziato che laddove fosse stata
effettivamente riscontrabile l’esigenza di ricorrere
all’esterno della struttura comunque l’amministrazione
avrebbe dovuto ricorrere ad una procedura selettiva.
In proposito al suddetto rilievo la Regione con la nota di
risposta ha riferito che con le DGR n. 16/282 del 08.09.2014 e
n. 20/318 del 15.09.2014 è stata stabilita una riduzione del
numero delle Direzioni regionali e che con DGR n. 11/1409
del 11.05.2015 è stata disposta una riconfigurazione delle
strutture dirigenziali del ruolo della Giunta regionale con
individuazione di nuovi settori in numero inferiore
determinando per l’effetto una nuova struttura organizzativa
operativa a far data dal 03.08.2015.
Tale tempistica avrebbe reso assolutamente urgente procedere
alla mappatura dei rischi e alla conseguente applicazione
della rotazione dei dirigenti interessati in un tempo molto
ridotto. Conseguentemente sarebbe risultato applicabile
l’art. 5, comma primo, lett. b), della già citata DGR n.
28/1337 del 29.12.2010 secondo cui è ammesso il conferimento
dell’incarico in via diretta “in casi di assoluta urgenza
adeguatamente documenti e motivati, quando le scadenze
temporali ravvicinate e le condizioni per la realizzazione
di obiettivi specifici richiedano l’esecuzione della
prestazione professionale in tempi molto ristretti non
consentendo l’esperimento di procedure di selezione”.
Nella propria nota la Regione ha inoltre affermato che la
prestazione “è connotata da assoluta urgenza determinata
dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione
ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale
(redazione della mappatura dei rischi … alla luce della
riorganizzazione in corso)”.
Sotto il profilo procedurale va rammentato che
l’obbligo di
seguire procedure comparative per il conferimento degli
incarichi di collaborazione è puntualmente declinato nel
comma 6-bis del richiamato art. 7 d.lgs. n. 165/2001. Tale
obbligo è considerato da tempo dalla giurisprudenza
amministrativa e contabile un adempimento essenziale per la
legittima attribuzione di incarichi di collaborazione
(TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007; Cons. St.,
sentenza 28.05.2010 n. 3405; Corte Conti sez.
reg. contr. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37
e
parere 27.11.2012 n. 509).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto
modo di statuire che: “il comma 6-bis dell’art. 7 del d.lgs.
n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni di
disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative
per il conferimento di incarichi di collaborazione, ha in
concreto posto la necessità dell’espletamento della
procedura concorsuale, nella considerazione che un simile
modus operandi, implicando il rispetto di precisi
adempimenti procedurali e moduli operativi, concorra a
rendere l’operato dell’Amministrazione conforme ai parametri
di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza,
costituzionalmente tutelati ex art. 97” (Corte Conti, sez.
centrale controllo prev. legittimità Stato, 02.10.2012, n.
23; analogamente la stessa sezione, delibera 26.10.2011, n.
21).
Pertanto
il ricorso a procedure comparative adeguatamente
pubblicizzate può essere derogato con affidamento diretto
nei limitati casi individuati dalla giurisprudenza, del
tutto sovrapponibili a quelli altresì previsti all’art. 5
della Direttiva regionale in tema di incarichi esterni:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile
necessità della collaborazione in relazione ad un termine
prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la
“particolare urgenza” deve essere “connessa alla
realizzazione dell’attività discendente dall’incarico”
(ex plurimis,
parere 14.03.2012 n. 67 Sez. Contr. Lombardia).
Con riferimento proprio alla ricorrenza del requisito
dell’assoluta urgenza occorre tuttavia precisare che
l’eventuale ristrettezza dei tempi
(prospettata dalla
Regione a giustificazione dell’affidamento diretto)
incompatibile con la selezione non dovrebbe essere in alcun
modo imputabile all’amministrazione regionale, ma dipendere
da un termine non autonomamente fissato o essere
ricollegabile ad evento di carattere eccezionale.
Nella fattispecie invero la Regione fa riferimento al fatto
che la nuova struttura organizzativa sarebbe divenuta
operativa dal 03.08.2015 in virtù di un termine fissato dalla
Giunta regionale con deliberazione del 11.05.2015.
Si tratta
sotto questo primo profilo quindi non già di un elemento
temporale del tutto esterno come tale sottratto alla
determinazione da parte dell’amministrazione regionale, ma
viceversa di un termine stabilito internamente. Si aggiunga
inoltre che l’aggiornamento della mappatura dei rischi
corruttivi correlato alla nuova riorganizzazione non può
certo dirsi evento del tutto imprevedibile nel senso
individuato dalla giurisprudenza, trattandosi invero di
attività correlata alla riorganizzazione della struttura, da
tempo nota, avviata già nel 2014 dalla Giunta regionale con
le sopra richiamate delibere del 08.09.2014 e 15.09.2014.
Dunque anche sotto tale profilo
è evidente l’insussistenza
del presupposto dell’urgenza che possa legittimare la deroga
all’osservanza della procedura comparativa.
Va infine osservato comunque che il periodo intercorrente
tra l’ultima deliberazione della Giunta regionale di
individuazione dei singoli settori e l’entrata in vigore del
nuovo assetto (quasi tre mesi, rectius 84 giorni) non è
risultato comunque così ristretto da potersi affermare
l’impossibilità dell’espletamento della procedura
comparativa per la scelta dell’eventuale incaricato che si
fosse reso concretamente necessario (d’altro canto anche la
direttiva regionale all’art. 3, comma 4, prevede termini
ridotti per la presentazione delle offerte in caso di
urgenza).
Del resto l’eventuale ricorrenza di ritardi o
disfunzioni nella gestione dei procedimenti necessari
sarebbero comunque imputabili all’amministrazione regionale
quale apparato e si tratterebbe quindi di evenienza che non
legittimerebbe certo l’affidamento di un incarico in via
diretta.
Va infatti ribadito che
la giurisprudenza ha ripetutamente
evidenziato che l’assoluta urgenza deve essere determinata
dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione
ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale,
ricordando che la “particolare urgenza” deve essere
“connessa alla realizzazione dell’attività discendente
dall’incarico” e che non è dunque rilevante l’urgenza creata
da condotta imputabile all’ente
(sez. contr. Piemonte
20.06.2014, n. 122; sez. contr. Piemonte 26.03.2014 n. 61;
cfr. anche: sez. Lombardia 19.02.2013 n. 59; di recente cfr.
sez. contr. Piemonte, 18.02.2015, n. 22).
Conseguentemente
anche sotto tale aspetto l’atto di affidamento dell’incarico
non risulta rispettoso della vigente normativa.
3. In terzo luogo va osservato che
l’atto di incarico è
altresì in contrasto con il dettato normativo sotto il
profilo della mancata verifica che il pagamento fosse
compatibile con i vincoli finanziari.
Al riguardo va richiamata la previsione di cui all’art. 9,
co. 1, lett. a), n. 2 d.l. n. 78/2009 convertito dalla l. n.
102/2009, che pone in capo al funzionario che impegna una
spesa l'obbligo di accertare preventivamente che il
programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi
stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica
(cfr. per le Regioni l’art. 56, co. 6, d.lgs. n. 118/2001).
Si tratta di obbligo preventivo posto direttamente in capo
al funzionario o dirigente che effettua l’impegno, di
qualunque servizio o settore esso sia e che va fatto a
prescindere dalle modalità di finanziamento della spesa,
essendo funzionale innanzitutto ad una verifica di cassa
circa l’effettiva sostenibilità del pagamento nei termini
contrattualmente previsti e alla conformità dello stesso con
il complesso dei vincoli vigenti.
Conseguentemente sotto
tale profilo non è adeguata la risposta della Regione che
sul punto non ha dato dimostrazione dell’espletamento di
tale accertamento preventivo, ma si è limitata ad affermare
che “il programma dei conseguenti pagamenti era compatibile
con i relativi stanziamenti di bilancio” ed al fine di
fornire prova di ciò ha fatto riferimento ad un elemento
successivo del tutto irrilevante riferendo “prova ne è che
nello stesso esercizio 2015 si è disposto il pagamento
dell’intero importo previsto”.
Va dunque ribadito che
la suddetta verifica preventiva è
essenzialmente un controllo inerente la cassa finalizzato ad
assicurare l’effettività del pagamento nei tempi stabiliti,
da effettuarsi operativamente mediante una programmazione
dei flussi di cassa ed un successivo monitoraggio nel corso
dell’anno delle disponibilità liquide, onde scongiurare
ritardi anche con riferimento alle previsioni contenute nel
d.lgs. n. 231/2002.
L’atto di incarico dunque non risulta conforme al dettato
normativo anche sotto tale profilo.
4. Infine occorre rilevare che alla rilevata illogicità
della previsione di quanto contenuto nell’art. 1, comma 11,
del contratto di consulenza che fissava il termine per la
consegna della relazione conclusiva al 25.05.2015 a fronte
della stipula del contratto in data 03.06.2015 la regione ha
replicato affermando che la stessa “trova una sua
spiegazione sia nell’urgenza –già ampiamente motivata nelle
argomentazioni sopra esposte– sia nel ritardo
amministrativo/contabile connesso alla formalizzazione
dell’incarico” e che si tratterebbe di un involontario
disallineamento tra la fase amministrativa di affidamento
dell’incarico e la fase di gestione di merito della
consulenza.
Al riguardo occorre evidenziare che
nella fattispecie
nessuna giustificazione sul piano giuridico può assumere
l’urgenza per giustificare di fatto una sostanziale
anticipazione della prestazione da parte di un soggetto
esterno all’amministrazione prima della stipula del
contratto e di fatto ancor prima dell’assunzione dell’atto
di incarico comportante impegno di spesa.
Nella fattispecie
l’incarico risulta infatti conferito con determinazione
dirigenziale del 25.05.2015, integrata quanto a spesa con
successiva determinazione del 28.05.2015, i cui impegni per
rendere esecutivo il provvedimento di spesa sono stati
registrati in data 29.05.2015, mentre da un lato il contratto
risulta sottoscritto solamente in data 03.06.2015 (secondo
quanto riferito nella nota a causa di un ritardo non meglio
specificato nella formalizzazione dell’incarico) e
dall’altro lato il testo contrattuale ha fissato al
consulente il termine per l’adempimento conclusivo al 25.05.2015 ovvero allorquando lo stesso atto amministrativo
connesso all’incarico doveva ancora essere completato.
E’ evidente che siffatto modo di operare
dell’amministrazione abbia di fatto determinato una anomala
richiesta di avvio dell’espletamento della collaborazione in
capo al consulente in via anticipata rispetto al contratto e
all’atto di conferimento ufficiale dell’incarico che di
fatto è intervenuto altresì in sanatoria rispetto alla
prestazione che era ormai in corso di espletamento se non
del tutto già esaurita.
In proposito non può che essere richiamata la regola per cui
nel vigente ordinamento l’eventuale avvio anticipato dei
lavori a favore della pubblica amministrazione rispetto al
conferimento di incarico con relativo impegno di spesa è
situazione del tutto eccezionale ammessa nei soli casi
tassativamente previsti dal legislatore
(ad. es. per i
lavori di somma urgenza art. 176 d.p.r. 05.10.2010 n. 207,
art. 191, co. 3, d.lgs. n. 267/2000),
sicché al di fuori di
tali ipotesi non è in alcun modo ammissibile tale modus procedendi.
In conclusione alle rilevate irregolarità dell’attribuzione
dell’incarico in questione consegue l’obbligo della Regione
Piemonte di conformare la propria azione amministrativa in
materia di affidamento di incarichi esterni alla legge e di
dare tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative
assunte.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il
Piemonte:
- dichiara l’atto di affidamento di
incarico di cui alla determinazione n. 276 del 25.05.2015,
integrata dalla determinazione n. 283 del 28.05.2015, della
Regione Piemonte non conforme alla disciplina di legge per
quanto esposto nella parte motiva;
- invita l’Amministrazione regionale ad adottare gli
opportuni provvedimenti per conformare la propria attività
alla legge in materia di affidamento di incarichi, dando
riscontro a questa Sezione delle iniziative conseguentemente
assunte;
- dispone la trasmissione della presente
deliberazione alla Procura Regionale presso la Sezione
giurisdizionale per la Regione Piemonte della Corte dei
Conti;
- dispone che la deliberazione sia trasmessa, a cura della
Segreteria, alla Regione Piemonte in persona del legale
rappresentante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
deliberazione 07.04.2016 n. 34). |
IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L’art. 15, comma 5, del CCNL 01.04.1999, tuttora in vigore
per la parte normativa, prevede la possibilità, per gli enti
locali, di ampliare la parte variabile del fondo integrativo
per il personale dipendente in caso di “attivazione di nuovi
servizi o di processi di riorganizzazione finalizzati ad un
accrescimento di quelli esistenti”.
Pertanto, l’incremento della parte variabile del fondo
presuppone necessariamente un preventivo, specifico,
programma di nuovi servizi o di miglioramento di quelli
esistenti, che abbiano una ricaduta positiva sui cittadini.
Appare inevitabile che la scelta dei nuovi servizi, di
competenza della Giunta comunale, debba essere fatta al
massimo entro i primi mesi dell’esercizio, se non
addirittura negli ultimi mesi dell’esercizio precedente, per
evitare che si indichino ex post obiettivi già raggiunti,
trasformando uno strumento di incentivazione della
produttività e del merito in una non commendevole modalità
di integrazione postuma dello stipendio del dipendente
pubblico.
---------------
Il conferimento di incarichi di Posizione Organizzativa deve
essere motivato con riferimento a criteri generali, in
maniera specifica ed esauriente senza ricorrere a mere
formule di stile e, soprattutto, con una durata tale da
consentire al titolare della posizione un ragionevole
margine di autonomia e discrezionalità, circostanza che pare
escludersi in casi di rinnovi ogni quindici giorni od ogni
mese, il più delle volte, peraltro, con efficacia
retroattiva.
----------------
1. I fatti emersi dalla documentazione in atti consentono
alla Sezione di accertare l’effettiva sussistenza delle
criticità rilevate in sede istruttoria.
2. Come precedentemente esposto, la situazione riguarda la
tardiva approvazione dei progetti finalizzati al
miglioramento quali–quantitativo dei servizi istituzionali
da parte della Giunta comunale negli anni 2013–2014 e il
conferimento di alcune posizioni organizzative negli anni
2013–2015.
3. Per quanto riguarda il primo punto, appare utile
sintetizzare brevemente la disciplina contrattuale prevista
in materia di risorse decentrate per il personale dipendente
prima di soffermarsi sulla fattispecie concreta.
L’art. 15, comma 5, del CCNL 01.04.1999, tuttora in vigore
per la parte normativa, prevede la possibilità, per gli enti
locali, di ampliare la parte variabile del fondo integrativo
per il personale dipendente in caso di “attivazione di nuovi
servizi o di processi di riorganizzazione finalizzati ad un
accrescimento di quelli esistenti”.
Pertanto, l’incremento della parte variabile del fondo
presuppone necessariamente un preventivo, specifico,
programma di nuovi servizi o di miglioramento di quelli
esistenti, che abbiano una ricaduta positiva sui cittadini.
Appare inevitabile che la scelta dei nuovi servizi, di
competenza della Giunta comunale, debba essere fatta al
massimo entro i primi mesi dell’esercizio, se non
addirittura negli ultimi mesi dell’esercizio precedente, per
evitare che si indichino ex post obiettivi già raggiunti,
trasformando uno strumento di incentivazione della
produttività e del merito in una non commendevole modalità
di integrazione postuma dello stipendio del dipendente
pubblico.
Il Comune di Alassio, invece, negli esercizi 2013–2014 ha
svolto tale adempimento con notevole ritardo, e cioè nei
mesi di ottobre 2013 e agosto 2014, quando ormai larga parte
dell’attività dei dipendenti era stata svolta. Pertanto,
l’eventuale corresponsione della retribuzione variabile
perderebbe il suo carattere di pregnante stimolo a
conseguire un risultato difficile da ottenere per assumere
quello, del tutto estraneo alla sua funzione, di compensare
prestazioni già svolte o in corso di svolgimento quasi
ultimato.
Non a caso il Segretario generale, consapevolmente, ha
evitato di corrispondere le risorse del fondo integrativo
per il personale dipendente destinate a compensare la
“innovazione quali-quantitativa dei servizi complessivi
dell’Ente”.
Sul punto non si può non rilevare come, effettivamente, la
giurisprudenza contabile abbia più volte ravvisato la
responsabilità amministrativa a carico della Giunta, del
Segretario comunale e dei Responsabili del personale e della
ragioneria per l’erogazione di compensi di produttività non
preceduta da una adeguata e preventiva pianificazione del
lavoro (Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della
Sardegna n. 274/2007; Sezione giurisdizionale della
Lombardia 08.07.2008, n. 457; Sezione giurisdizionale del
Lazio 02.05.2011, n. 714; Sezione giurisdizionale della
Campania 13.10.2011, n. 1808; Sezione II Centrale di
Appello, 12.02.2003 n. 44; Sezione III Centrale di
Appello, 17.12.2010, n. 853).
Pertanto, confermando quanto sinora disposto dal Comune di
Alassio,
la Sezione ritiene che non vi siano le condizioni
contrattuali per procedere all’erogazione della parte
variabile retributiva prevista dall’art. 15, comma 5, del
CCNL 01.04.1999, relativamente agli anni 2013 e 2014.
4. Nel corso dell’istruttoria, sono stati acquisiti i
seguenti provvedimenti di conferimento di posizioni
organizzative:
- Det. Dirig. 17.10.2013, n. 562, che ha conferito tre
P.O. per il periodo 01.10.2013–31.10.2013, con parziale
efficacia retroattiva, presso il Settore 1, senza dare luogo
ad una procedura comparativa, “in quanto risultano nei
Servizi di riferimento dipendenti già testati … e
destinatari … senza soluzioni di continuità di detti
incarichi”;
- Det. Dirig. 12.11.2013, n. 610, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.11.2013–31.12.2013, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1,
continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa,
per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 20.01.2014, n. 8, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.01.2014–28.02.2014, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1,
continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa,
per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 25.03.2014, n. 135, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.03.2014–30.09.2014, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1,
continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa,
per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 01.10.2014, n. 489, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.10.2014–15.10.2014, presso
il Settore 1, continuando a non dare luogo ad una procedura
comparativa, per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 28.10.2014, n. 517, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 16.10.2014–31.10.2014, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 1,
continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa
“per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto
organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 15.10.2013, n. 559, che ha conferito tre
P.O. per il periodo 01.10.2013–31.10.2013, con parziale
efficacia retroattiva, presso il Settore 2, senza dare luogo
ad una procedura comparativa, “in quanto risultano nei
Servizi di riferimento dipendenti già testati .. e
destinatari di detti incarichi”;
- Det. Dirig. 14.11.2013, n. 613, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.11.2013–31.12.2013, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2,
continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa,
per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 21.01.2014, n. 11, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.01.2014–28.02.2014, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, in
quanto unici funzionari di area D;
- Det. Dirig. 13.03.2014, n. 111, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.03.2014–30.09.2014, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2, senza
dare luogo ad una procedura comparativa, “in quanto
risultano nei Servizi di riferimento dipendenti già testati
… e destinatari … senza soluzioni di continuità di detti
incarichi”;
- Det. Dirig. 03.10.2014, n. 496, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 01.10.2014–15.10.2014, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2,
continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa,
per la motivazione sopra richiamata;
- Det. Dirig. 28.10.2014, n. 518, che ha conferito le
medesime P.O. per il periodo 16.10.2014–31.10.2014, con
parziale efficacia retroattiva, presso il Settore 2,
continuando a non dare luogo ad una procedura comparativa
“per ovvi motivi di speditezza e certezza dell’assetto
organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 27.11.2014, n. 588, che ha conferito la
P.O. per il Servizio 2.6 (Servizio Urbanistica ed Edilizia
Privata) per il periodo 01.11.2014–31.12.2014, con parziale
efficacia retroattiva, presso il Settore 2, senza dare luogo
ad una procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza
e certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 13.10.2015, n. 453, che ha conferito una
P.O. per il Servizio 3.2 per il periodo 01.11.2015–31.12.2015, presso il Settore 3;
- Det. Dirig. 30.10.2015, n. 470, che ha conferito una
P.O. presso il Servizio “Attività informative”, per il
periodo 1.11.2015–31.12.2015, senza dare luogo ad una
procedura comparativa “al fine di non arrecare pregiudizio
agli indirizzi di governo di questa Amministrazione”;
- Det. Dirig. 30.10.2015, n. 472, che ha conferito una
P.O. presso il Corpo di Polizia Municipale, per il periodo
1.11.2015–31.12.2015, senza dare luogo ad una procedura
comparativa “al fine di non arrecare pregiudizio agli
indirizzi di governo di questa Amministrazione”;
- Det. Dirig. 09.11.2015, n. 497, che ha conferito la
P.O. per il Servizio 2.1-2.5 e per quello 2.3 per il
periodo 01.11.2015–31.12.2015 con parziale efficacia
retroattiva, presso il Settore 2, senza dare luogo ad una
procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e
certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 12.11.2015, n. 506, che ha conferito la
P.O. per il Servizio 2.4, per il periodo 01.12.2015–31.12.2015 presso il Settore 2, senza dare luogo ad una
procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e
certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
- Det. Dirig. 25.11.2015, n. 536, che ha conferito una
P.O. per il Servizio 3.1 per il periodo 01.12.2015–31.12.2015, presso il Settore 3, senza dare luogo ad una
procedura comparativa “per ovvi motivi di speditezza e
certezza dell’assetto organizzativo dell’Ente”;
5. L’art. 9, comma 1 e 4, del CCNL 01.04.1999 prevede che
“gli incarichi relativi all’area delle posizioni
organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo
massimo non superiore a 5 anni, previa determinazione di
criteri generali da parte degli enti, con atto scritto e
motivato e possono essere rinnovati con le medesime
formalità ...i risultati delle attività svolte dai
dipendenti cui siano stati attribuiti gli incarichi di cui
al presente articolo sono soggetti a valutazione annuale in
base a criteri e procedure predeterminati dall’ente”.
L’esame delle determinazioni, dirigenziali precedentemente
indicate consente di evincere come il Comune di Alassio
abbia più volte conferito posizioni organizzative non
rispettando il dettato dell’art. 9 e cioè per brevissimi
periodi (sovente anche solo di quindici giorni) con continui
rinnovi, senza una sufficiente motivazione giustificativa di
tale prassi e senza individuazione ed attribuzione degli
obiettivi specifici che ciascun titolare avrebbe dovuto
conseguire nel periodo di riferimento, in molti casi
addirittura con effetto retroattivo.
L’Amministrazione comunale ha rilevato come il conferimento
a breve termine delle posizioni organizzative sia stato un
effetto naturale del processo di riorganizzazione della
propria struttura amministrativa.
Il Collegio, pur prendendo atto delle osservazioni dei
rappresentanti dell’Amministrazione, non può non rilevare
come
il conferimento di tali incarichi debba essere motivato
con riferimento a criteri generali, in maniera specifica ed
esauriente senza ricorrere a mere formule di stile (quali,
ad esempio, gli “ovvi motivi di speditezza e certezza
dell’assetto organizzativo dell’Ente”, oppure “al fine di
non arrecare pregiudizio agli indirizzi di governo di questa
Amministrazione”) e, soprattutto, con una durata tale da
consentire al titolare della posizione un ragionevole
margine di autonomia e discrezionalità, circostanza che pare
escludersi in casi di rinnovi ogni quindici giorni od ogni
mese, il più delle volte, peraltro, con efficacia
retroattiva.
In questo ambito viene meno anche la causa dell’indennità di
posizione, già corrisposta in tutti i casi esaminati, la
quale non è più collegata allo svolgimento di mansioni
caratterizzate da un elevato grado di autonomia gestionale e
organizzativa o da contenuti di alta professionalità e
specializzazione, ma diviene, analogamente alla parte
variabile del fondo per i dipendenti analizzata
precedentemente, una semplice integrazione retributiva,
slegata dal suo presupposto negoziale.
La stessa durata annuale, indicata dal Comune con
riferimento all’esercizio 2015 si pone al limite della
ragionevolezza, senza peraltro superarla ad avviso di questo
Collegio, se si tiene conto che l’art. 9 del CCNL 01.04.1999 si riferisce ad “un periodo massimo non superiore a
5 anni”, ipotizzando una naturale durata pluriennale
dell’incarico, anche in funzione di certezza dell’azione
amministrativa e di garanzia del dipendente pubblico di non
rimanere continuamente in balia delle decisioni del potere
politico.
La dubbia legittimità dell’erogazione della retribuzione di
posizione, conseguente alle determinazioni dirigenziali
sopra esposte, per un totale complessivo di euro 37.388,50,
comporta l’opportuna trasmissione della presente pronuncia
alla Procura Regionale competente.
P.Q.M.
ACCERTA
- la tardiva approvazione dei progetti
finalizzati al miglioramento quali–quantitativo dei servizi
istituzionali da parte della Giunta comunale negli anni
2013–2014, con la conseguente non erogabilità della
retribuzione variabile prevista dall’art. 15, comma 5, del
CCNL 01.04.1999, relativamente agli stessi anni;
- la non conformità alle disposizioni del CCNL 01.04.1999
delle determinazioni dirigenziali di conferimento delle
Posizioni Organizzative, espressamente menzionate in
motivazione.
DISPONE
- la trasmissione di copia della presente
pronuncia, a cura della Segreteria della Sezione, alla
Procura contabile in sede, per le valutazioni di competenza,
in ordine al conferimento delle Posizioni Organizzative
sopra menzionate.
- la trasmissione di copia della presente pronuncia, a cura
della Segreteria della Sezione, al Presidente del Consiglio
comunale e al Sindaco del Comune di ALASSIO (SV) per la
predisposizione delle misure idonee e da comunicare a questa
Sezione entro il termine di sessanta giorni, ai sensi
dell’art. 148-bis TUEL, nonché per la pubblicazione, ai
sensi dell’articolo 31 del decreto legislativo n. 33 del
2013, sul sito internet dell’Amministrazione (Corte dei
Conti, Sez. controllo Liguria,
deliberazione 21.03.2016 n. 23). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 19.04.2016 n. 91 "Misure per la realizzazione di un
sistema adeguato e integrato di gestione della frazione
organica dei rifiuti urbani, ricognizione dell’offerta
esistente ed individuazione del fabbisogno residuo di
impianti di recupero della frazione organica di rifiuti
urbani raccolta in maniera differenziata, articolato per
regioni" (D.P.C.M.
07.03.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
18.04.2016 n. 90, suppl. ord, n. 9, "Criteri e norme
tecniche generali per la disciplina regionale
dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento
e delle acque reflue, nonché per la produzione e
l’utilizzazione agronomica del digestato"
(Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali,
decreto 25.02.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 15.04.2016 n. 88 "Testo di legge costituzionale
approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma
inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera,
recante: «Disposizioni per il superamento del bicameralismo
paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il
contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni,
la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della
parte II della Costituzione»"
(Camera dei Deputati,
comunicato). |
SICUREZZA LAVORO:
Linee d'indirizzo per la prevenzione e la sicurezza dei
cantieri per opere di grandi dimensioni e rilevante
complessità e per la realizzazione di infrastrutture
strategiche
(Regione Lombardia,
decreto D.S. 12.04.2016 n. 3221). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO -
URBANISTICA:
Oggetto: Legge regionale in materia di difesa del suolo,
di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e
gestione dei corsi d’acqua (ANCE di Bergamo,
circolare 15.04.2016 n. 100). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale –
istruzioni ISPRA (ANCE di Bergamo,
circolare 15.04.2016 n. 99). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Pagamento del diritto annuale di iscrizione
all’Albo Nazionale Gestori Ambientali e per le imprese che
recuperano rifiuti in procedura semplificata (ANCE di
Bergamo,
circolare 15.04.2016 n. 98). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: DURC – Art. 90, commi 9 e 10, del D.Lgs. n.
81/2008 e smi - Interpello 1/2016 (ANCE di Bergamo,
circolare 15.04.2016 n. 95). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Decreto interministeriale del 24.02.2016,
concernente le procedure di riversamento, rimborso e
regolazioni contabili relative ai tributi locali. Art. 1,
commi da 722 a 727, della legge 27.12.2013, n. 147 e art. 1,
comma 4, del D.L. 06.03.2014, n. 16 convertito, con
modificazioni, dalla legge 02.05.2014, n. 68. Chiarimenti
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
circolare 14.04.2016 n. 1/DF). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Efficacia della nuova classificazione sismica
del territorio lombardo – Linee guida per le funzioni
trasferite ai Comuni. Prossima riunione informativa
(ANCE di Bergamo,
circolare 13.04.2016 n. 93). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: MUD
2016 istruzioni (ISPRA,
nota 08.04.2016 n. 22028 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI:
Oggetto: Istruzioni operative GSE per la gestione e lo
smaltimento di pannelli fotovoltaici incentivati (ANCE
di Bergamo,
circolare 08.04.2016 n. 90). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
G. D. Nuzzo,
Senza il certificato di agibilità l'acquirente dell'immobile
deve essere risarcito
(15.04.2016 - link a www.condominioweb.com). |
APPALTI:
Nuovo Codice appalti, via libera definitivo del governo:
cosa cambia.
Entro lunedì il testo in Gazzetta Ufficiale e subito in
vigore. Il vecchio regolamento n. 207/2010 resta in vita
fino al varo delle linee guida dell'Anac (15.04.2016
- link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, dal 10 aprile è in vigore la nuova
classificazione sismica.
Sono 57 i comuni lombardi in zona 2, 1027 in zona 3 e 446 in
zona 4 (13.04.2016 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI:
G. De Luca e A. Di Matteo,
La centralizzazione delle procedure di
acquisto della pubblica amministrazione. I soggetti
aggregatori, le Centrali di committenza e le possibili
alternative - Le novità della Legge di Stabilità per l’anno
2016 e le prospettive “de iure condendo” (12.04.2016
- link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Compendio sulle distanze tra le costruzioni secondo la
normativa codicistica e quella dettata dagli strumenti
urbanisti nonché dalla legislazione nazionale -
II edizione
(15.03.2016 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Compendio dottrinario e giurisprudenziale sulle luci e
vedute disciplinate dal codice civile - II edizione
(09.03.2016 - tratto da http://renatodisa.com). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Centrale
di committenza fa la stazione appaltante.
Per la delega di funzioni dall'ente locale serve
il controllo analogo.
Necessario il controllo analogo per la delega di funzioni di
stazione appaltante da parte di enti locali a una centrale
di committenza.
È quanto ha chiarito l'Autorità nazionale anticorruzione con
il
comunicato del
Presidente 23.03.2016 (Oggetto: delibera ANAC
n. 32 del 30.04.2015 sul “sistema Asmel società consortile a
r.l.” ed effetti della sentenza Tar Lazio, sez. III, n. 2339
del 22.02.2016) siglato dal presidente Raffaele
Cantone prendendo le mosse dalla nota vicenda relativa alla
società consortile Asmel che aveva formulato domanda, più di
un anno fa, per essere qualificata come centrale di
committenza.
L'Anac aveva istruito la domanda e si era pronunciata con la
delibera n. 32/2015 evidenziando che il sistema Asmel e in
particolare il consorzio Asmez e la società consortile Asmel,
non corrispondevano ai modelli organizzativi indicati
dall'art. 33, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici.
Nella delibera n. 32 l'Autorità aveva affermato che, a valle
della delega di funzioni di committenza finalizzata
all'acquisto di beni e servizi disposta da diversi enti
locali a favore della società Asmel, essa a sua volta aveva
realizzato un «sistema attraverso il quale ha offerto i
propri servizi di intermediazione negli acquisti ai comuni
dell'intero territorio nazionale, mediante l'adesione
successiva all'associazione».
Per l'Anac un primo elemento
rilevante è che la «partecipazione degli enti locali alla
centrale di committenza è solo indiretta e non essendo
previsto un sistema che garantisca un controllo analogo da
parte degli enti locali coinvolti, Asmel agisce come un
soggetto di diritto privato del tutto autonomo da questi
ultimi».
Questa impostazione ad avviso dell'Anac risulta confermata
dai contenuti della pronuncia del Tar Lazio (sez. III) n.
2339, che ha respinto il ricorso di Asmel contro la delibera
n. 32. Nel comunicato Anac si legge che il Tar ha avallato
le statuizioni della delibera dell'Authority e quindi ha
ritenuto che «il consorzio Asmez e la società consortile
Asmel a r.l., oltre a non poter essere certamente inclusi
tra i soggetti aggregatori di cui all'art. 9 del dl n.
66/2014, non rispondessero ai modelli organizzativi indicati
dall'art. 33, comma 3-bis, del dlgs 163/2006, quali possibili
sistemi di aggregazione degli appalti di enti locali». E
questo anche perché non era previsto neanche un limite
territoriale all'operatività della società consortile.
L'Anac ricorda anche alcuni punti cardine che devono essere
rispettati al fine di poter essere qualificati come centrale
di committenza, a loro volta contenuti nella determina
11/2015: «Quando si utilizza un ente strumentale ai fini di
cui all'art. 33, comma 3-bis, quale soggetto operativo di
associazioni di comuni o di accordi consortili tra i
medesimi», occorre non solo che lo stesso sia interamente
pubblico, ma sia anche prevista «un'adeguata programmazione
degli interventi e degli acquisti, da operarsi in seno allo
strumento associativo, coinvolgendo l'eventuale società
controllata dall'Unione, dall'associazione o attraverso
l'accordo consortile in maniera congiunta da parte dei
comuni».
Di fatto significa applicare anche a queste
fattispecie il concetto del controllo analogo, elemento
essenziale per la legittimità degli affidamenti in house,
già nelle direttive appalti e nella giurisprudenza europea,
a partire dalla nota sentenza Teckal
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2016). |
CORTE DEI CONTI |
PATRIMONIO:
Vie provinciali, palla al comune. Ok la
manutenzione. Per la sicurezza.
Un comune può avviare interventi di manutenzione
straordinaria su beni di proprietà di altro soggetto, se
questo intenda tutelare le esigenze e la sicurezza della
collettività locale.
Così la sezione regionale di controllo della Corte dei conti
per la Regione Piemonte, nel testo del
parere 24.03.2016 n. 29,
nel fare chiarezza sulla possibilità, per un'amministrazione
comunale, di intervenire economicamente al ripristino di un
una strada di proprietà dell'ente provinciale del
territorio.
Il comune di Zubiena (Biella) chiedeva alla Corte se fosse
possibile intervenire con le risorse del proprio bilancio,
per far fronte ad interventi su strade provinciali che
insistono sul proprio territorio, stante la momentanea
disponibilità da parte dell'ente proprietario della strada.
In primo luogo, il comune è tenuto a realizzare gli
interessi della collettività locale, così come prevede
l'art. 13 Tuel. È pacifico, pertanto, che l'amministrazione
comunale sia interessata al fatto che la rete viaria
esistente sul proprio territorio sia mantenuta in piena
efficienza dai rispettivi enti proprietari, anche ai fini
della tutela e la sicurezza della collettività locale.
Ne
consegue che, in situazioni peculiari e qualora sia
accertata l'impossibilità temporanea ad intervenire da parte
dell'ente proprietario, il comune ha tutto l'interesse a far
effettuare senza ritardo la manutenzione di una strada
provinciale, poiché questo tutela la sicurezza dei cittadini
amministrati.
Quanto all'intervento economico destinato a
finanziare lavori manutentivi su beni di proprietà di altro
soggetto, la Corte ha sottolineato che l'uscita delle
risorse dal bilancio comunale trova «puntuale
giustificazione» nella dimostrazione del perseguimento di un
«indifferibile» interesse della comunità locale.
Il
materiale «spostamento» di risorse tra gli enti interessati,
poi, potrebbe successivamente regolarsi mediante lo
strumento della convenzione ex articolo 30 Tuel, grazie al
quale verrebbero regolati i rapporti finanziari e le
previsioni di restituzione, all'interno del principio
costituzionale della «leale collaborazione tra
amministrazioni pubbliche»
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2016). |
ENTI
LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
I dirigenti sono esclusi dai limiti al turn-over.
Parere della Corte conti Puglia. Resta valido
il dl 90/2014.
I nuovi limiti al turnover fissati dalla legge di Stabilità
2016 non si applicano alle assunzioni dei dirigenti, per le
quali resta valida la disciplina del dl 90/2014.
Lo chiarisce il
parere
17.03.2016 n. 73
della Corte del conti – Sezione regionale di controllo per
la Puglia, con il quale, però, viene anche affermata
l'estensione agli enti territoriali del vincolo di
indisponibilità sui posti dirigenziali vacanti.
Al riguardo, pertanto, i giudici contabili non condividono
la tesi (sostenuta invece dall'Anci) secondo cui il predetto
vincolo riguarderebbe le sole amministrazioni statali.
La querelle riguarda il comma 219 della legge 208/2015, ai
sensi del quale, nelle more della riforma della dirigenza
pubblica e della ricollocazione dei lavoratori provinciali
in esubero, sono resi indisponibili i posti dirigenziali di
prima e seconda fascia delle p.a. vacanti alla data del 15.10.2015, tenendo comunque conto del numero dei
dirigenti in servizio senza incarico o con incarico di
studio e del personale dirigenziale in posizione di comando,
distacco, fuori ruolo o aspettativa.
Tale indisponibilità
comporta anche in via retroattiva la risoluzione di diritto
degli incarichi conferiti dopo fra il 15.10.2015 e il
01.01.2016, fatte salve le eccezioni previste dalla
legge, ma (precisa il parere della Corte conti Puglia) senza
esclusioni né per gli incarichi conferiti a tempo ex art.
110 Tuel, né per le proroghe di incarichi conferiti in
precedenza.
Malgrado l'imperfetta tecnica di formulazione legislativa
(evidente, ad esempio, nel riferimento alle posizioni
dirigenziali di prima e seconda fascia, articolazione non
presente a livello locale), non vi sarebbe, secondo i
giudici contabili, la reale volontà di circoscrivere
l'ambito applicativo alle sole amministrazioni dello Stato.
A favore della tesi dell'Anci, non può neppure essere
richiamato il comma 221 che, nel prevedere una ricognizione
delle dotazioni organiche degli enti territoriali, si limita
a introdurre regole di razionalizzazione organizzativa
complementari, e non alternative, a quelle previste dal
comma 219; né il comma 228 che, nel sancire una riduzione al
25% delle percentuali del turnover per il triennio 2016-2018
limitatamente personale a tempo indeterminato non
dirigenziale, ha lasciato inalterata la disciplina già
esistente con riferimento al personale dirigenziale.
Per la sostituzione dei dirigenti, quindi, valgono, le
percentuali previste dall'art. 3, comma 5, del dl 90/2014
(80% fino al 2017, 100% dal 2018)) ma ovviamente solo con
riferimento ai posti disponibili ex comma 219
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Contro i furbetti della Pa possibile anche
l'utilizzo dei detective privati.
Il dirigente pubblico può avvalersi
anche di detective privati per scovare il "furbetto" di
turno.
A stabilirlo è la Corte dei Conti in una recente sentenza,
in cui sostiene "la legittimità del ricorso ad una
agenzia investigativa privata" per stanare gli abusi di
un dipendente ufficialmente in congedo parentale.
A ricorrere a investigatori esterni era stato il presidente
di un'azienda partecipata per circa il 99% dal comune di
Arco, in Trentino.
I giudici contabili si sono espressi proprio su suo appello,
visto che gli era stata addebitata la spesa per le indagini.
Per la Corte dei Conti (II Sez. giurisdiz. centrale
d'appello,
sentenza 22.01.2016 n. 71) deve infatti ritenersi
che "l'urgenza" abbia indotto "ad utilizzare il
mezzo che appariva attendibilmente più idoneo, anche per la
prevedibile maggiore rapidità d'intervento, a disvelare il
comportamento del dipendente sospettato di svolgere attività
retribuita presso terzi nel periodo di congedo parentale"
(articolo Il
Messaggero del 12.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
L'intervento sostitutivo per irregolarità contributiva.
DOMANDA:
A seguito di verifica regolarità contributiva, sono emerse
irregolarità tanto nei confronti di INPS quanto nei
confronti di INAIL per somme superiori a quelle dovute dal
Comune scrivente.
A quale dei due enti deve essere richiesto il cd. intervento
sostitutivo e deve essere soddisfatto prima?
RISPOSTA:
L’art. 4 del D.P.R. n. 207/2010, recate disposizioni in
merito al “Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture” ha stabilito che qualora il
DURC rilevi delle irregolarità nei versamenti dovuti agli
istituti e casse edili, le stazioni appaltanti possono
sostituirsi all’appaltatore versando in tutto o in parte le
somme dovute in forza del contratto di appalto.
Sulla materia sono intervenuti il Ministero del Lavoro con
circolare n. 3 del 16.02.2012 e l’Inail con nota n. 2029 del
21.03.2012 al fine di fornire dei primi chiarimenti. L’INPS
a seguito di diversi approfondimenti svolti di concerto con
il Ministero del Lavoro, l’INAIL e le casse Edili, ha
provveduto a fornire un quadro di sintesi in ordine ai
contenuti e alla modalità di attivazione dell’intervento
sostitutivo da parte delle stazioni appaltanti attraverso la
circolare n. 54 del 13.04.2012.
Va precisato che la stazione appaltante, prima di porre in
essere l’intervento sostituivo, deve trattenere sull’importo
la ritenuta dello 0,50%. Tale ritenuta può essere svincolata
unicamente in sede di liquidazione finale successivamente
all’approvazione da parte della stazione appaltante del
certificato di collaudo o di verifica di conformità previo
rilascio del DURC.
Laddove l’intervento sostitutivo da parte della stazione
appaltante sia in grado di colmare solo in parte il debito
contributivo è necessario che le somme dovute
all’appaltatore siano ripartite tra gli istituti e le Casse
Edili in misura proporzionale ai crediti che ciascuno vanti
e di evidenza nel DURC
(link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Gli elenchi dei beneficiari di contributi e sussidi.
DOMANDA:
Il Comune deve adempiere a norma dell’art. 12 della Legge n.
241/1990 e degli artt. 1 e 2 del D.P.R. n. 118/2000
all'approvazione e alla pubblicazione dell’albo dei
beneficiari di provvidenze economiche erogate nell’esercizio
finanziario 2015.
In ragione di ciò si chiede di sapere:
- il termine entro il quale è necessario approvare il citato
albo dei beneficiari;
- se bisogna inserire nell'albo citato le sole somme
liquidate entro il 31.12.2015 a titolo di sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari o se vanno inserite
anche quelle solamente impegnate entro il 31.12.2015 ma
invero liquidate nel 2016;
- se l’albo dei beneficiari citato deve essere pubblicato
sul sito istituzionale nella sezione “Amministrazione
Trasparente”, nella sottosezione “Sovvenzioni,
contributi, sussidi, vantaggi economici” o se va creata
un apposita sottosezione denominata “Albo dei beneficiari
anno 2015”.
RISPOSTA:
Gli art. 1 e 2 del D.P.R. 118/2000 disciplinano
l’istituzione degli albi dei beneficiari di provvidenze di
natura economica da parte degli enti locali, delle regioni,
delle amministrazioni dello stato e degli altri enti
pubblici. L’albo deve contenere i nominativi dei soggetti,
comprese le persone fisiche, a cui sono erogati in ogni
esercizio finanziario contributi, sovvenzioni, crediti,
sussidi e benefici di natura economica a carico dei
rispettivi bilanci.
Gli albi devono essere aggiornati ogni anno e per ogni
erogazione deve essere indicata anche la disposizione di
legge che disciplina l’erogazione stessa. Gli albi devono
essere tenuti con modalità informatiche, consentendone
l'accesso gratuito, anche per via telematica.
Deve essere garantita la massima facilità di accesso e di
pubblicità. Analogo obbligo è stato imposto dagli artt. 26 e
27 del D.Lgs. 33/2013 prevedendo, con maggiore precisione
ulteriori dati da pubblicare e disponendo che la
pubblicazione costituisce condizione legale di efficacia dei
provvedimenti adottati per contributi di importo superiore a
1.000 euro nel corso dell’anno allo stesso beneficiario.
A tutela della privacy è stata prevista l’esclusione della
pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche
destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo,
qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni
relative allo stato di salute ovvero alla situazione di
disagio economico-sociale degli interessati.
Con delibera n. 59/2013 con all’oggetto “Pubblicazione
degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi,
sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone
fisiche ed enti pubblici e privati (artt. 26 e 27, d.lgs. n.
33/2013)” l’Anac ha precisato che: ”Per evitare una
duplicazione degli adempimenti e semplificare il più
possibile le attività delle amministrazioni, i suddetti
elenchi devono essere strutturati in modo tale da assolvere
anche le funzioni dell’Albo dei beneficiari che, stando
all’art. 1 del d.P.R. n. 118/2000”.
Uguale indicazione è stata fornita dal Garante per la
protezione dei dati personali, con delibera 15.05.2014, n.
243. Sulla base delle indicazioni data dall’Anac e dal
Garante per la protezione dei dati personali è opportuno che
per l’Albo dei beneficiari sia creata un apposita
sottosezione di secondo livello sul sito istituzionale nella
sezione “Amministrazione Trasparente”, nella
sottosezione “Sovvenzioni, contributi, sussidi, vantaggi
economici”. Nell’albo vanno indicate le erogazioni cioè
le somme liquidate nell’anno.
Si ricorda che per importi superiori a 1.000 euro la
pubblicazione è condizione di efficacia dei provvedimenti,
pertanto devono essere individuate modalità operative tali
da rispettare entrambi gli obblighi. Non è previsto alcun
termine per l’approvazione dell’albo, mentre è previsto un
obbligo di pubblicazione delle singole erogazioni, almeno
quelle per importi superiori a €. 1000,00.
Si suggerisce di aggiornare l’albo, sul sito, ad ogni
erogazione e procedere, dopo la chiusura dell’esercizio, ad
una formale approvazione riepilogativa di tutte le
erogazioni effettuate eventualmente distinte per settori di
intervento
(link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissione senza stop. Quorum funzionale e strutturale
coincidono. La questione dei
consiglieri necessari per la validità delle sedute.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità
delle sedute della commissione regolamenti e statuto?
Nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste
per legge come, ad esempio, la commissione elettorale
comunale) e commissioni facoltative (come le cd. commissioni
consiliari permanenti ex art. 38 del Tuoel n. 267/2000); in
entrambi i casi, la rispettiva composizione ed il
funzionamento si riconducono generalmente alla fonte
normativa che le istituisce e, quindi, alle disposizioni di
legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali. È,
pertanto, a tali previsioni che occorre fare riferimento per
dirimere la questione prospettata.
Nella fattispecie in esame il regolamento comunale individua
il quorum funzionale stabilendo che la commissione
regolamenti e statuto è composta da un rappresentante per
ogni gruppo consiliare, con diritto di voto di
rappresentanza pari al numero dei consiglieri rappresentati.
Mancando una specifica indicazione in ordine al quorum per
considerare valida la seduta, la minoranza ritiene che debba
applicarsi la disposizione regolamentare che richiede, per
la validità delle sedute delle commissioni permanenti, la
presenza della maggioranza assoluta dei componenti.
Posto che l'art. 38, comma 6, del Tuoel dà facoltà ai
consigli comunali di recepire, in sede statutaria, la
possibilità di avvalersi di commissioni costituite nel
proprio seno con criterio proporzionale, nel caso specifico
la commissione regolamenti e statuto costituisce un terzo
genere rispetto alle commissioni permanenti e alle
commissioni speciali previste dallo statuto.
Il regolamento, invece, ha disciplinato le commissioni
permanenti e le commissioni speciali istituendo, altresì, la
citata commissione regolamenti e statuto.
In particolare il regolamento comunale, disciplinando le
sedute, il numero legale e la votazione, prevede che «le
sedute delle commissioni permanenti sono valide con la
maggioranza assoluta dei componenti».
Essendo la norma, indirizzata in forma specifica alle
commissioni permanenti, appaiono applicabili alla
Commissione regolamenti e statuto, proprio per le sue
caratteristiche, le disposizioni relative alle commissioni
speciali. In particolare, lo statuto prevede, nell'ambito
delle commissioni speciali, la rappresentanza di tutti i
gruppi consiliari e l'espressione del voto di ogni singolo
componente con valore proporzionale ai consiglieri
rappresentati in consiglio comunale, ma non fornisce
indicazioni in ordine al quorum strutturale, rinviando ad
altra disposizione statutaria la disciplina delle modalità
di costituzione e funzionamento.
Anche il regolamento riguardo alle commissioni speciali non
fornisce indicazioni in ordine alla formazione del quorum
strutturale, stabilendo, invece, come per le commissioni
speciali il voto di rappresentanza pari al numero dei
consiglieri componenti il gruppo rappresentato.
Laddove si procede alla costituzione di organi collegiali
con modalità ponderali, in assenza di disposizioni che
stabiliscano maggioranze speciali o qualificate, il quorum
funzionale deve essere generalmente individuato nella
maggioranza (metà più uno) dei voti possibili.
Pertanto, nel caso di specie, anche riguardo alla
Commissione Regolamenti e Statuto, qualora i consiglieri
presenti siano in grado di esprimere la maggioranza dei voti
necessari, non può non farsi coincidere il quorum funzionale
con il quorum strutturale.
Infatti, l'eventuale assenza dei rappresentanti della
minoranza, numericamente superiori ai rappresentanti della
maggioranza, ma con un peso di rappresentatività minore,
potrebbe bloccare i lavori della commissione pur essendo la
maggioranza potenzialmente in grado di esprimere il quorum
funzionale (articolo ItaliaOggi del 15.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Realizzazione di un guado temporaneo sul Fiume
... in Comune di .... Risposta a richiesta parere
(Regione Emilia Romagna,
nota 14.04.2016 n. 267817 di prot.).
---------------
In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita
agli atti di questo Ufficio, con la quale si chiede parere
alla Regione, in quanto ente delegante dell’esercizio della
funzione autorizzatoria, in merito all’assoggettamento alla
autorizzazione paesaggistica di un manufatto consistente in
un guado temporaneo sul fiume ..., la cui funzione è
finalizzata esclusivamente a permettere il trasposto di
materiali per la realizzazione di un impianto di energia
rinnovabile idroelettrica in Comune di ..., e solo per il
periodo necessario al compimento di tale opera, si rileva
quanto segue. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Art. 4, comma 5, D.L. n. 95/2012. Compensi amministratori
società a totale partecipazione pubblica.
L'art. 4, comma 5, D.L. n. 95/2012, come
novellato dall'art. 16, D.L. n. 90/2014, fissa la misura dei
compensi degli amministratori delle società partecipate
dalle amministrazioni pubbliche nella misura massima
dell'80% del 'costo complessivamente sostenuto nell'anno
2013', a decorrere dall'1 gennaio 2015.
Tale locuzione deve intendersi riferita a quanto
effettivamente corrisposto, in quell'anno, agli
amministratori aventi diritto.
Il Comune chiede un parere in ordine alla misura dei
compensi spettanti agli amministratori delle società a
totale partecipazione pubblica, ai sensi dell'art. 4, comma
5, D.L. n. 95/2012, come novellato dall'art. 16 del D.L. n.
90/2014.
In particolare, il Comune chiede da quale momento vada
applicata la misura riduttiva ivi prevista e quale base di
calcolo prendere a riferimento nell'ipotesi in cui per
eventi eccezionali (ad esempio le dimissioni di un
amministratore) l'importo speso nell'anno di riferimento
(2013) sia inferiore a quello deliberato dall'assemblea dei
soci.
L'art. 4, comma 4, secondo periodo, D.L. n. 95/2012, come
novellato dall'art. 16, comma 1, D.L. n. 90/2014, dispone
che a decorrere dal 01.01.2015, il costo annuale sostenuto
per i compensi degli amministratori delle società
controllate direttamente o indirettamente dalle
amministrazioni pubbliche, ivi compresa la remunerazione di
quelli investiti da particolari cariche, non può superare
l'80% del costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013.
Specificamente, il successivo comma 5 estende l'applicazione
di questo tetto alle altre società a totale partecipazione
pubblica, diretta o indiretta. La novella del D.L. n.
90/2014, inoltre, nel prevedere l'applicazione delle
disposizioni del comma 1 dell'art. 16 richiamato a decorrere
dal primo rinnovo dei consigli di amministrazione successivo
alla data di entrata in vigore del decreto stesso, ha
espressamente 'fatto salvo quanto previsto in materia di
limite ai compensi' (art. 16, comma 2).
Ne consegue che la decorrenza applicativa correlata al
rinnovo dei consigli di amministrazione si riferisce
soltanto alle disposizioni relative alla composizione dei
consigli di amministrazione.
Dal tenore letterale delle disposizioni richiamate risulta
dunque la decorrenza del 01.01.2015 della nuova misura dei
compensi degli amministratori delle società controllate
dalla pp.aa.. e, specificamente per quanto qui di interesse,
di quelli delle società a totale partecipazione pubblica. In
particolare, la decorrenza dell'01.01.2015 opera per gli
amministratori delle società a totale partecipazione
pubblica, in virtù dell'estensione a queste società delle
disposizioni in materia di misura di compensi e relativa
decorrenza, di cui all'art. 4, comma 4, secondo periodo,
D.L. n. 95/2012 [1].
Per quanto concerne il parametro di riferimento per il
calcolo della spesa consentita per i compensi degli
amministratori delle società partecipate, sentito il
Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si
osserva che l'art. 4, comma 4, D.L. n. 95/2012, pone quello
del 'costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013'.
La Corte dei conti, nell'evidenziare il fine della norma in
esame di contenimento dei costi di amministrazione di
società partecipate della pubblica amministrazione, ha
chiarito che il concetto di 'costo sostenuto' impone di
includere nella base di calcolo i soli membri del consiglio
di amministrazione aventi diritto ad un compenso, rispetto
ai quali possa configurarsi un 'costo sostenuto',
precisando ulteriormente che la locuzione 'costo
complessivamente sostenuto nell'anno 2013' deve
intendersi nel senso di comprendervi i soli compensi
percepiti dagli amministratori aventi diritto a tale
retribuzione [2].
Queste considerazioni, se pur rese dalla Corte dei conti con
riferimento alla specifica questione dell'inclusione o meno
nella base di calcolo dei compensi figurati degli
amministratori privi di compenso, sembrano condurre ad una
interpretazione strettamente letterale dell'art. 4, comma 4,
che faccia riferimento al costo effettivamente sostenuto nel
2013, e cioè ai soli compensi percepiti dagli amministratori
aventi diritto in quell'anno [3].
---------------
[1] In questo senso, cfr. Corte conti, sez. contr.
Regione Friuli Venezia Giulia, parere 14.08.2015, n. 102,
che precisa la decorrenza 01.01.2015 della limitazione del
costo annuale per i compensi degli amministratori di società
partecipate di cui all'art. 4, comma 4 - secondo periodo,
D.L. n. 95/2012.
[2] Cfr. Corte conti, sez. contr. Regione Piemonte, parere
08.07.2015, n. 107. In quella sede, il comune istante
prospettava l'eccessiva riduzione della base di calcolo, che
sarebbe conseguita alla sola considerazione dei compensi
corrisposti, qualora nell'anno di riferimento (2013) il
consiglio di amministrazione fosse stato composto in
maggioranza da consiglieri privi di compenso.
Al riguardo, merita di osservare la posizione della Corte
dei conti, che, se pur consapevole delle conseguenze di
operare la riduzione prevista dall'art. 4, comma 4, su una
base di calcolo (in quella circostanza) già contenuta,
esprime ciò nonostante l'avviso che 'tale situazione,
peraltro, non pare contrastare con l'intenzione del
legislatore di perseguire la contrazione dei costi degli
apparati di strutture latamente pubblicistiche, incentivando
la nomina di amministratori non aventi diritto al compenso'.
[3] In questo senso, cfr. Corte dei conti Lombardia, parere
18.02.2015, n. 88, secondo cui il 'costo complessivamente
sostenuto nel 2013' è quello corrisposto dall'ente per tutti
gli amministratori in carica quell'anno. Anche Corte dei
conti, sez. contr. Emilia Romagna, parere 10.07.2015, n.
119, ritiene doversi interpretare il vincolo ex art. 4,
comma 4, D.L. n. 95/2012, come tassativo, tale da non
consentire eccezioni derivanti da situazioni contingenti.
E ciò, pur nella consapevolezza di come disposizioni di
riduzione di spesa, che assumano come parametro la spesa
storica di un dato anno finiscano per penalizzare gli enti i
quali hanno avuto una precedente gestione virtuosa (in quel
caso, il comune istante riferiva di aver confermato i
compensi di cui si tratta negli importi ridotti, nell'anno
2012, dalla precedente Amministrazione, per cui chiedeva di
poter non applicare la riduzione di cui all'art. 4, comma 4,
in commento) (12.04.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Domanda di condono edilizio ai sensi della Legge
n. 47 del 1985 – Risposta a richiesta di parere in merito
all'applicazione dell'art. 32 della Legge n. 47 del 1985
(Regione Emilia
Romagna,
nota 05.04.2016 n. 239384 di prot.).
---------------
In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita
agli atti di questo Ufficio con il --------, con la quale si
pongono alcuni quesiti in merito alla applicazione dell'art.
32 della Legge n. 47 del 1985, si rileva quanto segue.
(...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Richiesta di accesso agli atti per redazione tesi di laurea.
Si ritiene che, per il soggetto
richiedente, sussista il diritto ad ottenere l'accesso ai
documenti necessari per la redazione della propria tesi di
laurea.
Nel caso in cui tra i documenti richiesti ve ne siano alcuni
contenenti dati personali, la consultazione degli stessi è
assoggettata alle disposizioni del Codice in materia di
protezione dei dati personali.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta,
avanzata da un cittadino, di accesso, con estrazione di
copia, ad una serie di documenti necessari per la redazione
della propria tesi di laurea. Si tratta, in particolare, di
atti di varia natura (bando, delibere, elaborati
progettuali, autorizzazioni edilizie, ecc.), relativi ad una
pratica ad oggi già chiusa e rendicontata.
Per fornire una risposta al quesito posto si ritiene
necessario individuare la normativa di riferimento. In
particolare, parrebbe che, in relazione alla fattispecie in
esame, possa venire in rilievo sia la disciplina contenuta
nella legge 07.08.1990, n. 241 recante 'Nuove norme in
materia di procedimento amministrativo e di diritto di
accesso ai documenti amministrativi' (artt. 22 e segg.),
sia quella di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42
recante 'Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai
sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137'
(artt. 122 e segg.).
Quanto alla legge sul diritto di accesso ai documenti
amministrativi si ricorda che, ai sensi dell'articolo 22,
comma 1, della legge 241/1990, il diritto in questione
spetta a 'tutti i soggetti privati, compresi quelli
portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso.'
Si potrebbe sostenere che la redazione della tesi di laurea
integri gli estremi dell'interesse qualificato richiesto
dalla legge 241/1990: in particolare, si tratterebbe di una
specificazione del diritto soggettivo allo studio tutelato
costituzionalmente dall'articolo 34 della Costituzione.
[1] Una
recente sentenza del giudice amministrativo
[2] ha
affermato che: 'Il diritto di accesso agli atti della
P.A. si presenta come posizione strumentale riconosciuta a
un soggetto che sia già titolare di una diversa situazione
giuridicamente tutelata, e che abbia, in collegamento a
quest'ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad
acquisire mediante accesso uno o più documenti
amministrativi'.
Applicando i principi sopra espressi al caso in esame si
potrebbe affermare che il laureando è titolare del diritto
soggettivo a raggiungere i gradi più alti degli studi, quale
è il conseguimento della laurea, e, in connessione ad essa,
richiede l'accesso alla documentazione necessaria per
portare a termine il proprio iter formativo. In altri
termini, la correlazione richiesta dall'articolo 22 della
legge 241/1990 ai fini dell'accesso sembrerebbe sussistere
tra quella specifica tesi di laurea che deve essere
predisposta e i documenti richiesti.
Nel senso dell'accessibilità dei documenti amministrativi
necessari per la redazione della tesi di laurea si è
espresso anche l'ANCI [3]
che, con riferimento ad una questione analoga a quella ora
in esame, ha affermato: «La dottrina maggioritaria,
fornendo una lettura in combinato disposto delle
prescrizioni in tema di accesso agli atti amministrativi
contenute negli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990 -come
novellata dalla L. n. 15/2005- e delle disposizioni di cui
al D.P.R. 12.04.2006, n. 184, tende ormai a ritenere
pacificamente accoglibile domande come quella de qua,
[4]
e ciò ancorché il soggetto istante non abbia
quell''interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento del quale si chiede l'accesso', che normalmente ed
in via ordinaria costituisce il presupposto dell'accesso
stesso».
Quanto alla giurisprudenza, si segnala, per completezza
espositiva, un'unica sentenza della Suprema magistratura
amministrativa [5]
individuata sull'argomento la quale recita: 'È legittimo
il diniego di accesso a documenti ed atti, la cui richiesta
è stata formulata per generici motivi di studio, [...]
perché i motivi addotti dal privato per accedervi esulano
dai casi nei quali la legge obbliga la p.a. ad estendere i
propri atti e, anzi, manifestano una mera conoscenza fine a
se stessa, opposta a quell'interesse giuridico che la legge
intende tutelare'.
Benché la pronuncia in commento si esprima in senso
contrario all'accessibilità dei documenti fondata su
generici motivi di studio preme evidenziare che la stessa,
sulla base dei dati raccolti, [6]
pare non riferirsi ad una richiesta di accesso
circostanziata come è quella in esame, che si collega non ad
un generico diritto allo studio ma alla necessità della
conoscenza di quei determinati documenti ai fini della
redazione della tesi di laurea. Di qui i dubbi circa la
possibilità di avvalersi di essa per negare, nel caso
concreto, l'accesso alla documentazione richiesta.
Per la soluzione della questione posta, si ritiene,
tuttavia, opportuno richiamare altra normativa che parrebbe
contenere dei riferimenti idonei a consentire, entro
determinati limiti, la consultabilità dei documenti
richiesti. Ci si riferisce, in particolare, all'articolo 124
del D.Lgs. 42/2004 il quale, al comma 1, recita: 'Salvo
quanto disposto dalla vigente normativa in materia di
accesso agli atti della pubblica amministrazione, lo Stato,
le regioni e gli altri enti pubblici territoriali
disciplinano la consultazione a scopi storici dei propri
archivi correnti e di deposito'.
In generale, nella definizione di 'consultazione a scopi
storici' potrebbe farsi rientrare anche il caso in esame
relativo, propriamente, ad una ricerca per specifici motivi
di studio (quale pare essere la redazione di una tesi di
laurea): in tal senso, infatti, pare deporre il Codice di
deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati
personali per scopi storici, emanato dal Garante per la
protezione dei dati personali, [7]
che, all'articolo 1, comma 1, specifica che 'le presenti
norme sono volte a garantire che l'utilizzazione di dati di
carattere personale acquisiti nell'esercizio della libera
ricerca storica e del diritto allo studio e
all'informazione, nonché nell'accesso ad atti e documenti,
si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà
fondamentali e della dignità delle persone interessate, in
particolare del diritto alla riservatezza e del diritto
all'identità personale'.
Sempre da un punto di vista definitorio si precisa che
l'archivio corrente è costituito dal complesso di documenti
relativi ad affari ed a procedimenti amministrativi in corso
di istruttoria e di trattazione o comunque verso i quali
sussista un interesse corrente; l'archivio di deposito
comprende, invece, il complesso dei documenti relativi ad
affari e a procedimenti amministrativi esauriti. Tale
archivio è definito, anche 'intermedio' proprio
perché si tratta di 'una fase intermedia del ciclo di
vita degli archivi, tra quella dell'archivio corrente e
quella dell'archivio storico'. [8]
Per completezza espositiva si segnala che esiste anche
l'archivio storico che è formato dall'insieme dei documenti
relativi ad affari ed a procedimenti amministrativi
esauriti, destinati alla conservazione perenne.
Quanto all'accesso agli atti facenti parte dei suindicati
archivi il D.Lgs. 42/2004, prevede la libera consultabilità
dei documenti conservati negli archivi storici (articolo
122, comma 1) [9]
mentre, per quelli facenti parte degli archivi correnti e di
deposito soccorre il disposto di cui all'articolo 124 sopra
riportato che demanda al singolo ente il compito di
disciplinare tale consultazione. In difetto della stessa si
ritiene debbano soccorrere gli indirizzi generali stabiliti
dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, richiamati dal comma 2 dell'articolo 124 del D.Lgs.
42/2004 il quale prevede che: 'La consultazione ai fini
del comma 1 degli archivi correnti e di deposito degli altri
enti ed istituti pubblici, è regolata dagli enti ed istituti
medesimi, sulla base di indirizzi generali stabiliti dal
Ministero'. Atteso che, alla data odierna, pare che gli
indicati indirizzi non siano stati emanati, si ritiene che,
in luogo degli stessi, si debba fare riferimento ai principi
generali contenuti nel Codice dei beni culturali e del
paesaggio. [10]
Concludendo, la normativa esistente parrebbe riconoscere un
diritto di consultazione per motivi di studio e ricerca che
si aggiungerebbe a quello di accesso agli atti
amministrativi previsto dalla legge 241/1990. È cura
dell'Ente stabilire le modalità di esercizio di un tale
diritto, ad esempio prevedendo o meno che esso si
estrinsechi nella sola presa visione degli atti richiesti o
possa estendersi anche alla possibilità di ottenerne copia.
Concludendo, le due normative citate porterebbero a ritenere
esistente il diritto di accesso/consultabilità dei documenti
richiesti: il distinguo tra le due si concretizzerebbe nelle
modalità con cui consentire tale accesso atteso che, ai
sensi della legge 241/1990, il diritto di concretizza nel 'prendere
visione e [...] estrarre copia di documenti amministrativi'
[articolo 22, comma 1, lett. a)] [11],
invece il D.Lgs. 42/2004 demandando all'Ente la
determinazione delle modalità di consultazione parrebbe
consentire una diversa modulazione delle modalità di
accesso.
Giova ricordare, da ultimo, che nel caso in cui tra i
documenti richiesti ve ne siano alcuni contenenti dati
personali, la consultazione degli stessi è assoggettata alle
disposizioni del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196
recante 'Codice in materia di protezione dei dati
personali'. Questi, in particolare, al Titolo VII,
rubricato 'Trattamento per scopi storici, statistici o
scientifici', agli articoli 97 e seguenti, detta una
serie di norme afferenti il trattamento dei dati personali
effettuato per scopi storici, statistici o scientifici.
[12]
L'articolo 102 del codice in materia di protezione dei dati
personali rimanda, poi, al codice di deontologia e di buona
condotta per i soggetti pubblici e privati interessati al
trattamento dei dati per scopi storici. Si tratta del codice
già emanato dal Garante per la protezione dei dati personali
in applicazione dell'articolo 6 del decreto legislativo
30.07.1999, n. 281, [13]
cui si rinvia. [14]
Per completezza espositiva, si segnala che anche il D.Lgs.
42/2004, all'articolo 126, rubricato 'Protezione dei dati
personali' dispone, al comma 3, che: 'La
consultazione per scopi storici dei documenti contenenti
dati personali è assoggettata anche alle disposizioni del
codice di deontologia e di buona condotta previsto dalla
normativa in materia di trattamento dei dati personali'.
Anche la legge 241/1990, all'articolo 24, comma 6, lett. d),
nel disciplinare le ipotesi di esclusione del diritto di
accesso, contempla espressamente la tutela della
riservatezza di persone fisiche (e giuridiche). Con la
modifica della legge 241/1990, operata dalla legge
11.02.2005, n. 15, è stato disciplinato il rapporto tra
diritto di accesso e riservatezza dei terzi, nel senso che 'deve
comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o difendere i propri interessi giuridici'
(art. 24, comma 7). [15]
Alla luce delle su indicate considerazioni l'Ente valuti
l'opportunità, ad esempio, di adottare accorgimenti idonei a
non rivelare i nominativi dei privati cittadini che hanno
presentato gli elaborati progettuali di cui si chiede
l'ostensione, [16]
considerando oltretutto che si tratterebbe di elementi non
necessari per lo scopo per cui il diritto di accesso viene
richiesto.
Con riferimento specifico all'accesso agli elaborati
progettuali si rileva che la giurisprudenza tende a negare
che il progettista -titolare del diritto d'autore sugli
elaborati progettuali- sia un soggetto legittimato a
bloccare l'accesso alla documentazione che forma la pratica
del permesso di costruire. Si afferma, infatti che: 'Le
norme in materia di proprietà intellettuale non impediscono
l'accesso agli elaborati progettuali contenuti nel fascicolo
del procedimento; tali elaborati, d'altra parte, risultano
protetti in sede civile e penale, per il diritto di autore,
mediante la tutela apprestata dall'ordinamento'.
[17]
---------------
[1] Recita l'articolo 34 Cost: 'La scuola è aperta a
tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto
anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli,
anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i
gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo
questo diritto con borse di studio assegni alle famiglie ed
altre provvidenze, che devono essere attribuite per
concorso'.
[2] TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, sentenza del 10.02.2016,
n. 1894.
[3] ANCI, parere del 17.03.2009.
[4] Si trattava di una richiesta di accesso per motivi di
studio (analisi di atti per tesi di laurea).
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 23.05.1997, n.
549.
[6] Non è stato possibile recuperare il testo integrale
della sentenza ma solo una serie di massime relative alla
stessa.
[7] Garante per la protezione dei dati personali,
provvedimento n. 8/P/2001 del 14.03.2001.
[8] Così in Direzione generale per gli archivi, «Cosa
s'intende per 'archivio corrente' e per 'archivio storico'»
reperibile sul seguente sito internet:
www.archivi.beniculturali.it
[9] Con le limitazioni indicate nel medesimo articolo alle
lett. a) e b) del comma 1.
[10] In questi termini si è espressa la Soprintendenza
archivistica per il Piemonte e la Valle d'Aosta, nel
promemoria 'Obblighi di legge dell'ente pubblico riguardo al
proprio archivio', Torino, giugno 2005, pag. 11. Anche
l'ANCI, nell'affrontare una questione analoga, nel parere
del 23.10.2009, ha affermato che: 'L'accesso agli atti è
previsto a favore di chiunque avanzi richiesta per motivi di
studio sin a partire dai risalenti artt. 21 e 22 del D.P.R.
1409/1963. La disciplina di riferimento, [...] è oggi
puntualmente contenuta nel D.Lgs. n. 42/2004 [...],
segnatamente agli artt. 122, 123 e 124. [...] Alla luce di
quanto evidenziato, trova pertanto applicazione il
Regolamento per l'accesso agli atti vigente nell'Ente
Locale, ferma restando -in mancanza del prescritto
Regolamento- l'osservanza dei principi generali di cui al
Codice ed alla L. n. 241/1990 in tema di accesso'.
[11] Si veda, altresì, l'articolo 25, comma 1, della legge
241/1990 il quale recita: 'Il diritto di accesso si esercita
mediante esame ed estrazione di copia dei documenti
amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla
presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il
rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del
costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in
materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura.'.
[12] Si osserva che, ai sensi dell'articolo 4, comma 4, del
D.Lgs. 196/2003, «ai fini del presente codice si intende
per:
a) 'scopi storici', le finalità di studio, indagine, ricerca
e documentazione di figure, fatti e circostanze del passato;
b) 'scopi statistici', le finalità di indagine statistica o
di produzione di risultati statistici, anche a mezzo di
sistemi informativi statistici;
c) 'scopi scientifici', le finalità di studio e di indagine
sistematica finalizzata allo sviluppo delle conoscenze
scientifiche in uno specifico settore».
[13] Recante 'Disposizioni in materia di trattamento dei
dati personali per finalità storiche, statistiche e di
ricerca scientifica.' Tale decreto legislativo è stato
abrogato dall'articolo dall'art. 183, del D.Lgs. 196/2003,
ad eccezione degli articoli 8, comma 1, 11 e 12.
[14] Provvedimento n. 8/P/2001 del 14.03.2001
[15] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 27.05.2008, n.
2511. Il Consiglio di Stato rileva come il D.Lgs. 196/2003
abbia demandato interamente alla legge 241/1990 la
regolamentazione del rapporto accesso-privacy (artt. 59 e 60
del D.Lgs. 196/2003). E così, in base all'articolo 24, comma
7, della legge 241/1990, si possono delineare tre livelli di
protezione dei dati personali dei terzi a seconda della loro
natura: l'accesso ai dati comuni (quale è il caso in esame)
è consentito qualora sia 'necessario' alla difesa dei propri
interessi; l'accesso ai dati sensibili e giudiziari è
consentito nei limiti in cui sia 'strettamente
indispensabile'; l'accesso ai dati super sensibili (idonei a
rivelare lo stato di salute e la vita sessuale) è consentito
nei termini di cui all'art. 60 del Codice, e dunque se la
situazione giuridicamente rilevante è 'di rango almeno pari'
alla tutela del diritto alla riservatezza.
[16] Ad esempio, oscuramento dei nomi, uso delle sole
iniziali, ecc.
[17] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 10.01.2005, n.
34. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Campania,
Salerno, sez. I, sentenza del 09.10.2006, n. 1619. Sul punto
si vedano, anche, in senso conforme, i pareri dell'ANCI del
02.08.2006 e del 17.11.2010 (04.04.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Solare free sui tetti.
«Libera» l'installazione di pannelli solari negli immobili
ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente, con la
sottrazione al controllo autorizzativo paesaggistico. Ma
questo nel solo caso in cui il posizionamento degli impianti
sul tetto o sul lastrico solare sia tale da non poter essere
visibile dall'esterno.
Questo è quanto si legge nella
nota 15.03.2016 n. 7716 di prot. del Ministero
dei beni culturali in merito all'installazione di impianti
solari fotovoltaici con il modello unico negli immobili
ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente.
Ricordiamo che il decreto del ministro dello sviluppo
economico 19.05.2015 ha introdotto l'iter semplificato
(cosiddetto modello Unico) per la realizzazione, la
connessione e l'esercizio di nuovi impianti fotovoltaici per
i quali sia richiesto contestualmente l'accesso al regime
dello scambio sul posto.
I produttori interessati dovranno pertanto interfacciarsi
esclusivamente con i gestori di rete per inoltrare il
modello Unico
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2016). |
NEWS |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Addio immediato per gli incentivi ai progettisti
della Pa. Personale. Gli effetti della riforma in busta
paga.
Aboliti tutti i vecchi compensi per la progettazione. Sarà
il primo effetto sulla busta paga dei dipendenti pubblici
dell’approdo in Gazzetta Ufficiale del nuovo Codice degli
appalti, che non annovera queste attività fra le
destinatarie dell’incentivo.
La data di pubblicazione, che coincide con l’entrata in
vigore, costituisce lo spartiacque per la quantificazione
dei premi che potranno essere liquidati.
Ben pochi problemi si pongono per le opere concluse, per le
quali, senza dubbio, c’è da applicare la vecchia normativa
e, di conseguenza, il vecchio regolamento, anche se
aggiornato all’ultima modifica normativa precedente il nuovo
Codice vale a dire l’articolo 13-bis del Dl 90/2014.
Particolare attenzione si deve prestare alle opere il cui
processo di realizzazione era in corso alla data di ieri.
Per queste, la norma non prevede alcun regime transitorio e,
quindi, si apre un non scontato processo interpretativo. Se
da un lato manca una giurisprudenza consolidata in materia,
dall’altro vi è da registrare un orientamento costante della
Corte dei Conti, che individua, quale momento rilevante per
l’applicazione della norma, il compimento dell’attività
oggetto di incentivazione.
La questione era già sorta e risolta nel 2009, quando il
balletto dei compensi fu sfrenato. I magistrati contabili,
con la delibera 7/2009 della sezione Autonomie, avevano
affermato il principio della correlazione fra compenso e
momento in cui la prestazione è stata effettivamente resa:
posizione confermata lo scorso anno dalla stessa Corte
(delibera 11/2015 della sezione Autonomie).
Oggi, quindi, gli uffici tecnici devono provvedere alla
redazione di uno stato di avanzamento lavori, in cui
evidenziare puntualmente le attività di progettazione
effettuate fino al giorno prima della pubblicazione in
Gazzetta. Se non obbligatoria nell’immediato, è opportuno
provvedervi a breve per evitare che la ricostruzione a
distanza diventi, oltre che complessa, anche imprecisa,
aprendo la porta al contenzioso e, quindi, al danno
erariale.
Ovviamente, oltre a questo, è necessario iniziare a pensare
al nuovo contratto decentrato e al nuovo regolamento, che
recepiscano le novità. Dall’entrata in vigore del
regolamento attuativo del Codice degli appalti, gli
incentivi possono essere destinati solo alle attività
tecnico-burocratiche, un tempo escluse, relative alla
programmazione, alle procedure di gara, all’esecuzione dei
contratti, alla verifica di conformità eccetera; fino a un
massimo dell’1,6% dell’importo a base di gara può essere
destinato al responsabile unico del procedimento, agli
incaricati di funzioni tecniche e ai loro collaboratori.
Tutto questo non vuol dire ovviamente che i tecnici interni
abbiano il diritto di riporre la matita nel cassetto in
quanto la progettazione rientra nelle mansioni ascrivibili
al loro profilo professionale: ma senza “premio”
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.04.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Massimo ribasso subito ridotto. Per rating di
impresa e sorteggio commissioni serviranno disposizioni
attuative.
Appalti. Il nuovo Codice è arrivato alla firma del Capo
dello Stato: potrebbe essere pubblicato ed entrare in vigore
già oggi.
È atteso in Gazzetta
a partire da oggi il nuovo Codice appalti
(Schema di decreto
legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare),
approvato in Consiglio dei ministri venerdì 15 aprile.
Ieri il decreto ha ricevuto la «bollinatura» della
Ragioneria ed è andato alla firma del Capo dello Stato,
ultimo passaggio formale prima della pubblicazione. Il
provvedimento è arrivato al Quirinale in serata, fuori tempo
massimo per poter rispettare gli annunci che davano per
certa la pubblicazione per ieri, 18 aprile, data di entrata
in vigore delle nuove direttive europee che il Codice
recepisce.
Il decreto legislativo entrerà in vigore il giorno stesso
della pubblicazione. Ma non tutte le misure previste dai
suoi 220 articoli saranno subito operative. Peraltro, il
testo uscito dal Consiglio dei ministri ha riservato più di
una sorpresa rispetto a quello di entrata.
La principale riguarda le misure di trasparenza sui piccoli
appalti. Al contrario di quanto prevedevano le ultime bozze,
nella versione definitiva non hanno trovato posto le
richieste avanzate dal Parlamento (e dal Consiglio di Stato)
sulla necessità di accendere un faro sui piccoli lavori,
rendendo obbligatorie le gare precedute da un bando, per gli
appalti sopra i 150mila euro: a sorpresa, l’ultimo testo
lascia tutto più o meno come è oggi, con la possibilità di
affidare gli appalti fino a un milione (coprono l’80% del
numero di bandi) con una procedura negoziata (ex trattativa
privata) senza bando, ritenendo sufficiente chiedere un
preventivo a dieci imprese («ove esistenti»).
L’altra novità dell’ultim'ora riguarda i lavori delle
concessionarie da affidare all’80% con gara. Salta la deroga
che avrebbe permesso alle società (in particolare quelle che
hanno in gestione autostrade) di continuare a realizzare i
lavori in house, se gestiti attraverso risorse interne («amministrazione
diretta»).
Scatterà da subito la limitazione del massimo ribasso:
assegnare i contratti tenendo conto solo del prezzo sarà
possibile solo per le opere sotto il milione. Negli altri
casi diventa obbligatoria l’offerta economicamente più
vantaggiosa (prezzo più qualità). Massimo ribasso vietato da
subito anche per i servizi di progettazione, quelli ad alta
intensità di manodopera (costo del personale oltre il 50%),
ristorazione scolastica e ospedaliera.
L’entrata in vigore segna anche l’addio all’appalto
integrato. Per assegnare un cantiere, la Pa dovrà mettere a
gara un progetto esecutivo, tranne nei casi di appalto a
general contractor (ormai una rarità) o di operazioni
finanziate da privati. Salta subito anche l’incentivo del 2%
per i progetti svolti da tecnici interni alla Pa (si veda
l’articolo a fianco).
Due buone notizie per le Pmi. Ridotta a un massimo di 5mila
euro la sanzione per sanare le offerte incomplete. Con un
importante chiarimento: paga solo chi non vuole essere
escluso. La seconda novità è il pagamento diretto per
microimprese e Pmi, con contestuale svincolo dalla
responsabilità solidale per il titolare del contratto.
Subito operativi anche la stretta sui ricorsi, il tetto al
30% per il contributo pubblico nel project financing
e lo sconto sulla cauzione per le imprese con rating di
legalità.
Ci vorrà tempo invece per far alcune delle novità più attese
della riforma. Servono infatti provvedimenti specifici
dell’Anticorruzione per attivare il rating di impresa
chiamato a valutare (e premiare) la reputazione conquistata
sul campo dai costruttori. Per lo stesso motivo non
partiranno subito le commissioni di gara estratte a sorte da
un albo gestito dall’Anac (ma solo per gli appalti sopra la
soglia Ue) e la qualificazione delle stazioni appaltanti,
utile anche alla spending review
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.04.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO:
Conflitto d’interessi anche per delega. Può
scattare un «contrario interesse istituzionale del
condominio». In assemblea. Il
professionista non può più riceverle ma la norma non ha
divieti per i suoi collaboratori.
La delega in
assemblea è una rotella fondamentale del meccanismo. Ma non
può essere troppo ingombrante. La partecipazione delegata
alle assemblee di condominio è disciplinata dall’articolo 67
delle Disposizioni di attuazione del Codice civile: «ogni
condomino può intervenire all’assemblea anche a mezzo di
rappresentante». La funzione della delega è quella di
consentire al condòmino che non possa presenziare
all’assemblea di parteciparvi ugualmente, per mezzo di una
persona dallo stesso designata.
La delega può essere sempre conferita, anche senza uno
specifico impedimento, e può risultare particolarmente utile
nel caso in cui, ad esempio, non ci si ritenesse in grado di
affrontare determinati argomenti di particolare complessità,
preferendo affidarsi ad un esperto. Il delegante sarà
considerato presente in assemblea ad ogni effetto di legge.
Una guida completa alle deleghe in assemblee sarà pubblicata
domani sul Quotidiano Condominio del Sole 24 Ore.
Il conflitto di interessi è quella situazione conflittuale,
anche potenziale, nella quale ciascun condòmino può trovarsi
in relazione alla gestione del condominio. Secondo la
Cassazione «sussiste il conflitto di interessi ove sia
dedotta e dimostrata in concreto una sicura divergenza tra
specifiche ragioni personali di determinati singoli
condomini, il cui voto abbia concorso a determinare la
necessaria maggioranza ed un parimenti specifico contrario
interesse istituzionale del condominio» (Cass. n.
13004/2014).
Le situazioni di conflitto possono coinvolgere i singoli
condòmini per le circostanze più varie. Molto spesso,
soprattutto in caso di delega in bianco, la situazione di
conflittualità può riguardare anche il soggetto delegato. Si
tratta comunque di una nozione non tipizzata dal codice,
anche dopo la legge di riforma del 2012, per cui rimangono
validi i principi elaborati in giurisprudenza.
Alcuni esempi: il condòmino è in conflitto d’interessi se
l’assemblea deve decidere di fargli causa; oppure è
potenzialmente in conflitto d’interessi se l’assemblea deve
decidere di riconoscergli la spesa urgente di gestione
effettuata ex articolo 1134 del Codice civile
La delibera votata dal condòmino in conflitto d’interessi è
da ritenersi annullabile (Cass. n. 18192/2009) e va
impugnata nei modi e termini di cui all’articolo 1137 del
Codice civile. Il condòmino che impugna la delibera avrà
l’onere di provare: 1) l’esistenza del conflitto
d’interesse; 2) che il voto del condòmino in conflitto è
stato determinante per l’approvazione della delibera
impugnata; 3) che la delibera impugnata gli ha recato un
danno.
È possibile che la situazione di conflitto riguardi il
soggetto delegato.
In questi casi, il conflitto di interessi del delegante non
si estende al condòmino delegato: se Mario, in conflitto di
interessi, delega il condòmino Luigi, non potrà essere
computato il voto dato da Luigi quale delegato di Mario,
mentre sarà valido il voto dato da Luigi a nome proprio.
Qualora, invece, sia il delegato a trovarsi in conflitto di
interessi, l’invalidità del voto espresso in proprio dal
delegante non si estende automaticamente al voto espresso
quale delegato, occorrendo indagare se la situazione di
conflitto fosse nota o meno al delegante: solo nel secondo
caso, il voto del delegante sarà valido (Cassazione,
sentenza 18192/2009).
Una delle ipotesi in cui maggiormente si verificavano
situazioni di conflitto d’interessi era la delega conferita
da uno o più condòmini all’amministratore del condominio.
Oggi il nuovo comma 5 del citato articolo 67 (introdotto
dalla legge 220/2012) dispone il divieto assoluto di delega
all’amministratore, così risolvendo il problema alla radice.
La riforma ha eliminato ogni dubbio vietando sempre la
partecipazione delegata dell’amministratore in assemblea. Se
il divieto è violato, la relativa delibera è annullabile e
impugnabile ai sensi dell’articolo 1137 del Codice civile.
Il condòmino che agisce per l’annullamento dovrà dimostrare
che la delibera è stata illegittimamente votata
dall’amministratore e tale voto è stato determinante per
l’approvazione.
Non è più necessario, invece, dimostrare la situazione di
conflitto, in quando l’invalidità è legata esclusivamente
alla violazione del divieto di delega. Una bella
semplificazione.
Tuttavia, rimangono alcune perplessità sull’efficacia
pratica del divieto. La norma, ad esempio, non esclude la
possibilità di conferire la delega ad un collaboratore
dell’amministratore, a un suo parente stretto oppure all’ex
amministratore, per cui, nella sostanza, alcune situazioni
conflittuali potrebbero ripresentarsi in vesti diverse.
Problemi potrebbero sorgere poi sulla applicabilità del
divieto all’amministratore che sia anche lui stesso
condòmino
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.04.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province, opzioni entro il 18 maggio.
Personale. Al via le richieste di nuova
destinazione per gli esuberi di enti di area vasta e Croce
rossa.
È partita ieri la
nuova fase del processo di mobilità che deve ricollocare in
un nuovo ufficio i 3.515 «esuberi» delle Province
(sono 1.644) e della Croce rossa (gli altri 1.871).
Il portale della mobilità gestito dalla Funzione pubblica ha
infatti pubblicato gli elenchi nominativi dei dipendenti
interessati provincia per provincia e, con le stesse
modalità, quello dei posti disponibili. Gli interessati
avranno tempo fino al 18 maggio per esercitare l’opzione,
dopo di che resteranno due mesi per concludere la procedura:
nei primi 30 giorni la Funzione pubblica assegnerà alla
nuova destinazione i dipendenti, che dovranno prendere
servizio entro i 30 giorni successivi.
Come emerso però dalle prime analisi (si veda Il Sole 24 Ore
dell’11 marzo), in alcune province del Sud l’elenco delle
persone in cerca di ricollocazione è più lungo di quello dei
posti offerti da Regioni e Comuni. Il quadro cambia tuttavia
quando si considerano nel conto anche i posti messi a
disposizione dal ministero della Giustizia nei tribunali e,
anche se meno numerosi, quelli aperti da altre articolazioni
territoriali della Pubblica amministrazione centrale.
La questione riguarda in particolare alcune Province di
Campania e Puglia, mentre è più sfumata in Molise, Umbria e
Basilicata. In ogni caso, i primi calcoli dei tecnici del
governo, che naturalmente devono tenere conto della
compatibilità dei profili richiesti e offerti oltre che
dell’incrocio dei numeri, indicano in circa 200 i casi più “problematici”:
per loro, i tempi potrebbero allungarsi un po’ rispetto al
calendario normale, ma resta confermato l’obiettivo della
piena ricollocazione come ricordato nei giorni scorsi dalla
stessa ministra della Pa e innovazione Marianna Madia
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.04.2016). |
APPALTI:
Reati in gara, Gdf guardiana. Indagini
finanziarie e interventi per i commissariamenti.
APPALTI/ La circolare della Guardia di
finanza ne delinea il ruolo a fini anticorruzione.
Possibili indagini finanziarie da parte della Guardia di
finanza sulle imprese, oltre ad altri interventi per
verificare l'applicazione delle norme del codice dei
contratti pubblici e finalizzati anche al commissariamento
delle ditte in caso di reati contro la pubblica
amministrazione. Accertamenti delle Fiamme gialle mirati per
il rilascio del rating di legalità.
È quanto stabilisce la circolare emessa dal Comando generale
della Guardia di finanza il 14 aprile scorso, indirizzata ai
comandi regionali e alle unità speciali, relativamente
all'attività di collaborazione del corpo con l'Autorità
nazionale anticorruzione, a valle del protocollo di intesa
siglato nello scorso settembre che avrà validità tre anni
(si veda quanto anticipato da ItaliaOggi del 15 aprile
scorso).
Ai già rafforzati poteri previsti dal nuovo codice dei
contratti pubblici approvato venerdì scorso (si veda altro
articolo a pag. 33), si affianca quindi, sul lato operativo,
la Guardia di finanza che dovrà rendere effettiva
l'attuazione concreta dei compiti affidati dalla legge
all'Authority di Raffaele Cantone a valle del protocollo di
intesa.
Il fondamento del potere di verifica e accertamento della
Guardia di finanza è nell'abrogando Codice dei contratti
pubblici (articolo 6, comma 9) e viene raccordato anche con
la disciplina di cui all'articolo 32 della legge 90/2014,
che ha anche previsto la possibilità di commissariare le
imprese (interventi Expo e Mose).
L'accordo di collaborazione prevede in particolare la
possibilità di fare ispezioni nei confronti delle stazioni
appaltanti, degli operatori economici e di ogni
amministrazione e società a partecipazione pubblica
relativamente alle procedure di affidamento di lavori,
forniture e servizi.
Le Fiamme gialle potranno inoltre essere attivate per i
controlli sul sistema di qualificazione Soa (sistema
confermato dal nuovo dei contratti pubblici) con riguardo
all'assetto societario, patrimoniale, organizzativo e di
governance, al riscontro di requisiti di indipendenza che
gli organismi di attestazione devono assicurare per il
rilascio delle attestazioni alle imprese di costruzioni che
ne fanno richiesta.
Da notare che il nuovo codice dei contratti pubblici prevede
una revisione straordinaria sulle Soa da effettuarsi entro
tre mesi da parte dell'Anac; probabile quindi l'imminente
attivazione della Guardia di finanza. Non solo: i finanzieri
potranno anche controllare l'ottemperanza delle decisioni
dell'Anac (indirizzate sia alle stazioni appaltanti, sia
agli operatori economici) e agire con riferimento alle
misure sul «commissariamento» delle imprese disposto
in caso di problemi di corruzione e altri reati contro
l'Amministrazione.
Prevista l'attivazione della Gdf, da parte dell'Autorità
presieduta da Cantone, anche per il rating di legalità
(previsto nel nuovo codice appalti), oltre che
dall'Antitrust, per gli accertamenti connessi al rilascio
del rating delle impresa. La collaborazione avrà anche ad
oggetto il rispetto della disciplina sulla prevenzione della
corruzione nella p.a. (legge Severino), rivolta alle
amministrazioni e agli enti pubblici e agli enti di diritto
privato sotto controllo pubblico (ad esempio, sui piani di
prevenzione, sulle verifiche in tema di obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione).
Gli interventi potranno essere «congiunti» con
personale Anac e delle Fiamme gialle, o autonomi con il
personale in forza al Nucleo speciale della Gdf. Per quel
che riguarda l'esercizio dei poteri di accertamento fiscale,
i nuclei di polizia tributaria delle fiamme gialle potranno,
su richiesta dell'Anac, richiedere alle amministrazioni
comunicazioni di dati e notizie rilevanti ai fini
istruttori, eseguire accessi presso le amministrazioni per
acquisire direttamente i documenti, «effettuare accessi,
ispezioni, verifiche e indagini finanziarie» inerenti ai
soggetti affidatari dei contratti pubblici.
La Guardia di finanza dovrà informare l'Anac se nel corso
delle proprie attività istituzionale venisse a conoscenza di
«elementi di interesse per l'Anac». Previsto anche lo
scambio di informazioni fra le banche dati della Gdf e
quelle dell'Anac (articolo
ItaliaOggi del 19.04.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
Appalti, riforma graduale. Attesi 50 decreti. E
le linee guida dell'Anac. Il nuovo
codice oggi in Gazzetta. Cabina di regia per l'attuazione.
Soppresso il vecchio codice degli appalti, la palla passa ai
decreti attuativi. Poco meno di 50 provvedimenti, fra cui le
linee guida generali dell'Anac che dovrebbero vedere la luce
entro fine luglio e a breve saranno messe in consultazione
pubblica. Le norme del dpr 207/2010 (regolamento del Codice
De Lise) non incompatibili con il nuovo codice decadranno
comunque entro la fine del 2016.
Sono questi gli effetti derivanti dalla entrata in vigore
del nuovo codice dei contratti pubblici, il decreto
legislativo n. 50/2016, approvato venerdì dal consiglio dei
ministri in via definitiva e atteso oggi in G.U. (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Le nuove norme si applicheranno alle procedure e ai
contratti per i quali i bandi o gli avvisi con cui si indice
la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati
dopo l'entrata in vigore del decreto delegato. Non solo: il
nuovo codice si applicherà anche ai contratti per i quali
non è stata data pubblicità ai bandi e agli avvisi; per tali
fattispecie contrattuali il decreto prevede che le nuove
norme risultino applicabili se alla data di entrata in
vigore del nuovo codice non sono stai ancora inviati gli
inviti a presentare offerte.
Pertanto, per esempio, a una procedura negoziata senza bando
di gara laddove la stazione appaltante non abbia ancora
inviato la lettera di invito ai soggetti individuati a
seguito di indagine di mercato. L'entrata in vigore del
nuovo decreto ha però, come effetto più rilevante,
l'immediata soppressione del dlgs163/2006 e di ogni sua
modifica successiva, disposta dall'articolo 217 del testo:
da oggi, quindi, si applicano tutte le nuove norme contenute
nei 217 articoli del decreto delegato, sostitutivo del
codice del 2006.
Il problema però è che al codice De Lise erano collegate
anche molte norme del dpr 207/2010 (il regolamento attuativo
del codice del 2006) che, in alcune materie, dettavano
(dettano) un cospicuo apparato regolatorio (si pensi al tema
della qualificazione delle imprese di costruzioni, ai
livelli progettuali, alla disciplina dell'esecuzione del
contratto, alle regole per l'affidamento di servizi di
ingegneria e architettura).
Nel nuovo sistema il regolamento non esisterà più e al suo
posto vi sarà una congerie di atti che, in larga misura,
faranno capo all'Anac (linee guida generali e di dettaglio),
alla presidenza del consiglio, al ministero delle
infrastrutture, al Consiglio superiore dei lavori pubblici e
ad altri dicasteri, con modalità di concerto le più
svariate. Rispetto a questa pluralità di provvedimenti e di
soggetti chiamati ad attuare il codice, con varie modalità,
il Consiglio di stato nel parere reso due settimane fa aveva
espresso «preoccupazione».
Sarà fondamentale che la cabina di regia istituita ai sensi
dell'articolo 212 del codice presso la presidenza del
consiglio dei ministri riesca a coordinare il complesso iter
attuativo fra i diversi soggetti. Alla fine la cabina di
regia potrà anche prevedere la «raccolta in testi unici
integrati, organici e omogenei» dei decreti e linee
guida adottate da qui al prossimo anno.
Il regolamento del 2010 rimarrà vigente fino a quando non
saranno entrati in vigore tutti i provvedimenti di
attuazione previsti dal codice stesso.
Si prevede inoltre che ogni provvedimento attuativo dovrà
effettuare la ricognizione delle norme del dpr 207 che si
intenderanno abrogate; per le norme che non formeranno
oggetto di ricognizione l'abrogazione scatterà in ogni caso
entro il 31.12.2016 a condizione che non siano incompatibili
con il nuovo codice o con ulteriori provvedimenti, anche
dell'Anac. È poi lo stesso codice a elencare alcune delle
discipline regolamentari (e non) da salvare fino a quando i
provvedimenti attuativi non saranno adottati (e i termini,
quando ci sono, varieranno da sessanta giorni a un anno).
Infine occorrerà attendere il più importante di tutti i
provvedimenti di attuazione: le linee guida generali dell'Anac
che, di fatto, sostituiranno in buona misura il regolamento
del codice dei contratti pubblici. A breve la Commissione
presieduta da Michele Corradino lancerà la consultazione
pubblica su una bozza, ma la natura regolamentare comporterà
una vera corsa contro il tempo (articolo
ItaliaOggi del 19.04.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province. Mobilità da chiudere per giugno.
Completare entro giugno il trasferimento dei dipendenti
soprannumerari delle province in modo che gli oltre 1.600
lavoratori ancora in attesa di ricollocamento non pesino più
sui bilanci degli enti di area vasta.
È la richiesta che l'Unione delle province italiane (Upi) ha
formalizzato ieri nel corso dell'audizione davanti alle
commissioni bilancio di camera e senato sul Documento di
economia e finanza. La procedura online per far incontrare
domanda e offerta di lavoro, gestita dal portale
www.mobilita.gov.it,
è ormai pienamente attiva.
A partire da ieri, infatti, i dipendenti degli enti di area
vasta e della Croce rossa italiana, presenti nelle liste
della domanda di mobilità, dopo aver attivato la propria
utenza sul portale, potranno esprimere le proprie preferenze
di assegnazione tra i posti resi disponibili dalle
amministrazioni pubbliche (offerta di mobilità). Il termine
finale di presentazione dell'istanza è fissato alle ore
24,00 del 18 maggio.
L'auspicio dell'Upi è che entro giugno l'intero processo di
trasferimento possa dirsi completo, in modo da portare ad
attuazione quella che è stata definita «la più grande
operazione di trasferimento del personale nella p.a. mai
affrontata prima nella storia della Repubblica», con
oltre 20 mila lavoratori spostati (nelle regioni, nei comuni
e nella amministrazioni statali).
Nell'audizione l'Upi ha sottolineato come la trasformazione
delle province in enti di secondo livello con meno
competenze e ridotti costi della politica abbia prodotto
risparmi per circa un miliardo e mezzo di euro, visto che
dalla piena entrata a regime della legge Delrio (n. 56/2014)
la spesa corrente dei 76 enti di area vasta delle regioni a
statuto ordinario interessate dalla riforma, è passata da
4,385 miliardi a 2 miliardi e 870 milioni. Un dato di cui
anche il Def dà merito agli enti.
Tuttavia, rimarca l'Upi, il Def non affronta il problema del
progressivo taglio di risorse che sta mettendo in ginocchio
le province al punto che, a fine 2015, si registravano tre
enti in dissesto e dieci in procedura di riequilibrio, oltre
a un quasi generalizzato sforamento del Patto (articolo
ItaliaOggi del 19.04.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La delega Pa inciampa sull’attuazione.
I decreti. Su trasparenza e semplificazioni i
pareri del Consiglio di Stato sottolineano la distanza fra
il valore strategico degli interventi e le regole scritte
per applicarli.
Le ultime obiezioni
sono arrivate venerdì scorso, sul decreto che prova a
semplificare le autorizzazioni della Pa alle imprese e
prevede il dimezzamento dei tempi con la possibilità per lo
Stato di “commissariare” le regioni e gli enti locali
ritardatari; ma anche sulla copia italiana del Freedom of
Information Act, sul nuovo Codice dell’amministrazione
digitale, sulle semplificazioni per la Scia e sulla riforma
della Conferenza dei servizi i passaggi al Consiglio di
Stato dei decreti attuativi della riforma Madia si sono
rivelati tutt’altro che lisci, e lo stesso è accaduto alle
regole anti-furbetti.
Ottima la strategia, hanno detto praticamente in tutte le
occasioni i giudici amministrativi, ma se i decreti
attuativi non funzionano il rischio di peggiorare
ulteriormente la situazione è alto.
La matita rossa dei giudici amministrativi si è trovata
spesso a sottolineare le regole chiamate a tradurre in
pratica le parole d’ordine della riforma, cioè «trasparenza»,
«innovazione» e «semplificazione». Il problema
è apparso chiaro fin dal primo parere, quello che a metà
febbraio si è concentrato sul decreto trasparenza. Il
provvedimento, intitolato allo scopo ambizioso di introdurre
anche da noi il passaggio «dal bisogno di conoscere al
diritto di conoscere» tipico della trasparenza totale di
modello anglosassone, prima apre le porte dell’accesso agli
atti anche a chi non è titolare di un «interesse
specifico» e poi rimette in gioco un’antichissima forma
di silenzio-rifiuto, in base al quale la mancata risposta in
30 giorni si traduce in un rigetto automatico della
richiesta, senza obbligo di motivazione e senza sanzioni per
i responsabili.
In questo modo, chiosa il Consiglio di Stato, «si
verificherebbe il paradosso che un provvedimento in tema di
trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera
trasparente gli argomenti in base ai quali la Pa non gli
accorda l’accesso richiesto». Il tutto senza contare
l’obbligo, per i cittadini che chiedono i dati, di
rimborsare i costi sostenuti dalla Pa per fornirli: problema
che secondo i giudici potrebbe essere eliminato prevedendo
una richiesta solo telematica, perché senza costi reali non
ci sarebbe neanche l’esigenza di finanziarli.
Nemmeno per il provvedimento sulla digitalizzazione, del
resto, il passaggio sui tavoli dei giudici amministrativi si
è rivelato un trionfo. Il nuovo Codice dell’amministrazione
digitale ipotizzato dalla riforma, prima di tutto, con uno
slancio ottimistico attribuisce valore probatorio a tutti i
documenti firmati elettronicamente ma, osserva il Consiglio
di Stato, oggi la firma elettronica può essere tante cose, a
partire dalla «semplice password» che non garantisce
davvero sull’origine del documento.
Accanto a un balzo in avanti, però, ce n’è uno indietro, che
imporrebbe di togliere i nomi degli interessati da tutte le
sentenze prima della pubblicazione, obbligo oggi previsto
solo nei casi più “sensibili”: questa «anonimizzazione
totale», che si affianca curiosamente alla «trasparenza
totale» che ispira la riforma, inonderebbe le
cancellerie di un nuovo lavoro, rallentando ulteriormente il
core business della giustizia. Per questa ragione il
Consiglio di Stato ha chiesto di togliere dal testo la
norma, oltre che di ripensare l’obbligo di un capitale da
almeno 5 milioni imposto agli operatori che si candidano a
gestire l’identità digitale e la posta certificata: questa
soglia, che ha scatenato la rivolta delle aziende
interessate, è già stata giudicata «sproporzionata»
dal Tar Lazio e il Consiglio di Stato chiede di motivarla
meglio o di ripensarla.
In tutti questi casi, i giudici hanno sottolineato la
distanza fra gli obiettivi della riforma, condivisi e
considerati «strategici» dal Consiglio di Stato, e la
loro traduzione pratica nei provvedimenti attuativi: cioè
proprio nella fase cruciale per passare dalle parole ai
fatti (articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori
edili, obblighi green per la Pa. I criteri di selezione per
forniture e servizi si fondano su precisi requisiti
ambientali.
Appalti. Le procedure introdotte dal 2 febbraio dal
Collegato ambiente resteranno valide anche dopo il varo del
nuovo Codice.
Le imprese che operano nel settore
edilizio e vogliono lavorare come fornitori della pubblica
amministrazione devono possedere specifici requisiti di
carattere ambientale. In risposta ai propri bandi di gara,
dallo scorso 2 febbraio la Pa non può infatti accettare
offerte da parte di aziende prive di apposite qualifiche
“verdi”. Se in precedenza il ricorso allo strumento del Gpp
(Green public procurement) era volontario e non superava il
30% della fornitura, i criteri di selezione dei candidati
sono ora tutti fondati sui sistemi di gestione ambientale.
Il cambio di passo è avvenuto con l’entrata in vigore del
Collegato ambientale (legge 221/2015). In particolare, con
gli articoli 18 e 19 è stato fissato l’obbligo (totale o
parziale) di applicare i criteri ambientali minimi (Cam)
negli appalti pubblici per le forniture e negli affidamenti
dei servizi. La modifica incide direttamente sull’ancora
vigente Codice degli appalti (Dlgs 163/2006), arricchendolo
di nuove e specifiche norme. E conserverà tutta la sua
valenza anche con la riforma del Codice, approvata il 15
aprile dal Consiglio dei ministri.
Ai settori già disciplinati dai Cam (o che lo saranno in
futuro) l’obbligo di acquisto secondo i criteri ambientali
di riferimento si applica in generale per almeno il 50% del
valore della gara, sia sopra che sotto la soglia di rilievo
comunitario. Ma tale percentuale sale al 100% del fabbisogno
nel caso dei settori “energetici”: dunque, anche per
le forniture di lampade, attrezzature elettriche ed
elettroniche e servizi energetici per gli edifici.
Ai lavori pubblici edili, dove si assiste ad una vera e
propria rivoluzione, tale obbligo di acquisto “verde”
si attesta a non meno del 50% e il relativo Cam è stato
definito dal Dm 24.12.2015 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 16 del 21.01.2016). I nuovi criteri riguardano
l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la
costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici, e
per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione.
Il decreto ministeriale prevede che, per poter partecipare
alla gara, l’offerente sia in possesso di una valida
registrazione Emas (regolamento 1221/2009/Ce), oppure di una
certificazione secondo la norma Iso 14001 o secondo norme di
gestione ambientale attestate da organismi di valutazione
della conformità. Sono accettate anche altre prove relative
a misure equivalenti, quali una descrizione dettagliata del
sistema di gestione attuato dall’offerente (ad esempio,
politica ambientale), con particolare riferimento alle
procedure di:
- controllo operativo, affinché tutte le misure previste dal
Dpr 207/2010, articolo 15, commi 9 e 11, siano applicate
all’interno del cantiere;
- sorveglianza e misurazioni sulle componenti ambientali;
- preparazione alle emergenze ambientali e risposta.
Uno specifico capitolo è quindi riservato alle tecniche del
cantiere. Ma i Cam per l’edilizia si occupano anche di
garantire la tutela del suolo e degli habitat naturali. A
tal fine, la Pa appaltante deve analizzare le esigenze e
valutare anche la possibilità di adeguare gli edifici
esistenti e migliorarne la qualità. Deve anche comunicare
all’Osservatorio dei contratti pubblici o all’Anac i dati
sui propri acquisti e relativi all’applicazione dei Cam.
Tra i criteri premianti sono inclusi la capacità tecnica dei
progettisti, il miglioramento prestazionale di progetto,
l’installazione di un sistema di monitoraggio dei consumi,
l’utilizzo di materiali rinnovabili.
Mentre, riguardo alle specifiche tecniche dei componenti
edilizi, sussiste l’obbligo che nell’edificio «almeno il
15% in peso valutato sul totale di tutti i materiali
utilizzati» sia costituito da materia prima secondaria:
recuperata o riciclata. Tra i criteri particolari, si
prevede che i materiali e i prodotti a base di legno debbano
provenire da fonti legali, secondo quanto previsto dal
regolamento 995/2010/Ue, o esser costituiti da legno
riciclato (articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti, via libera ai nuovi incarichi se già
programmati. «Sì» anche per le funzioni fondamentali.
Personale. L’accordo in Conferenza Unificata
sul «congelamento».
Arriva a una
soluzione di compromesso il problema legato al congelamento
degli organici dirigenziali disponibili al 15 ottobre
previsto dall’ultima manovra (comma 219 della legge
208/2015).
In Conferenza Unificata, dopo una lunga trattativa con i
sindaci che puntavano a un’esclusione tout court
dalla norma, sulla base del riferimento ai «dirigenti di
prima e seconda fascia» che negli enti locali non
esistono. L’ipotesi, contestata anche dalla Corte dei conti
(parere
17.03.2016 n. 73
della Puglia), non è passata, ma in Conferenza ci si è
accordati sulla possibilità di i posti «specificamente
previsti dalla legge o connessi allo svolgimento di funzioni
fondamentali».
Non solo: in Conferenza si è deciso anche di considerate gli
«atti di programmazione» tra le ipotesi di «avvio
del procedimento» prima del 15 ottobre, che permettono
di procedere con il conferimento degli incarichi, e si è
aperta una terza possibilità, che permette di coprire le
posizioni dirigenziali libere nelle strutture interessate da
processi di ricognizione degli organici che riducono i posti
entro il 31 dicembre.
Deve ancora chiarirsi, invece, il quadro sulle assunzioni
bloccate dall’obbligo di ricollocazione degli esuberi
provinciali. Per oggi è previsto l’avvio del sistema che
permette a chi ha aderito alla mobilità di esercitare
l’opzione sul nuovo ente di destinazione.
Il passaggio, annunciato nei giorni scorsi dalla ministra
per la Pa e la semplificazione Marianna Madia, rappresenta
una nuova tappa del meccanismo di ricollocazione del
personale disegnato dal decreto del 14 settembre scorso, ed
è atteso da tutta la Pubblica amministrazione locale: gli
enti di area vasta, certo, aspettano di arrivare alla nuova
collocazione strutturale delle loro risorse umane nel
tentativo di rimettere ordine a bilanci sempre più
zoppicanti, ma in fila ci sono anche tutti i Comuni che
hanno le assunzioni bloccate fino al completamento della
nuova geografia del personale provinciale.
Rispetto al calendario ufficiale, molto ottimista, previsto
con il decreto dell’autunno scorso, l’apertura delle opzioni
per il personale in soprannumero che ha presentato la
domanda di mobilità arriva con tre mesi di ritardo, complici
le inevitabili difficoltà di un processo così complesso.
Proprio per il fatto che la corsia preferenziale per i
ricollocamenti blocca le altre strade per il reclutamento
dei Comuni, però, il dato non è privo di conseguenze. In
base al decreto, i 1.644 dipendenti di Province e Città
interessati dagli spostamenti avranno tempo fino a metà
maggio per esercitare l’opzione, dopo di che toccherà alla
Funzione pubblica assegnare, entro un altro mese, il
personale alla nuova collocazione: a questo punto, ci sarà
un altro mese di tempo per la presa di servizio.
Se tutto funziona come previsto, quindi, questi movimenti
del personale si concluderanno nella seconda metà di luglio,
rimandando nei fatti a settembre la possibilità per i Comuni
di utilizzare gli spazi di turn-over ammessi dalla manovra:
per il momento, come ribadito anche dalla Corte dei conti
(parere 63/2016 della sezione Molise), gli enti locali
possono utilizzare i «resti» del turn-over ereditati
dagli anni precedenti.
Per questa ragione, le amministrazioni locali premono per
liberare subito le assunzioni nelle regioni dove il problema
delle ricollocazioni è superato, come previsto dalle norme:
al momento il via libera è arrivato solo per la Polizia
locale in sei regioni (Basilicata, Emilia Romagna, Lazio,
Marche, Piemonte e Veneto), ma le amministrazioni premono
per uno sblocco più generalizzato (articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016
- tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
Acquisti, sopra i 40mila euro serve la
qualificazione Anac. Appalti. Con il nuovo Codice si
rafforza la spinta alle procedure centralizzate.
Gli enti locali devono acquisire
beni e servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria
ricorrendo ai mercati elettronici o alle piattaforme
telematiche, ma con le nuove regole in arrivo per le
procedure di valore superiore ai 40mila euro dovranno
ottenere la qualificazione dall’Anac.
Il nuovo Codice degli appalti
(Schema di decreto
legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare)
delinea un sistema
con due articolazioni di valore, collegando la regola
generale all’obbligo previsto dall’articolo 1, comma 450
della legge 296/2006.
Lo schema del nuovo sistema prevede una prima fascia entro i
40mila euro, nella quale l’ente può procedere all’acquisto
di beni e servizi mediante affidamento diretto, dovendo fare
ricorso agli strumenti elettronici o in alternativa aderire
alle convenzioni-quadro (in entrambi i casi con lo strumento
dell’ordine diretto).
Nella fascia superiore a 40mila euro e inferiore a 209mila
la stazione appaltante, con adeguata qualificazione, deve
utilizzare gli strumenti di negoziazione messi a
disposizione da Consip o dai soggetti aggregatori regionali
(quindi effettuando una richiesta di offerta): in tal caso
la soddisfazione dell’obbligo (congiunto con quello
stabilito dal comma 450) consente all’ente di gestire
autonomamente l’acquisto.
Solo se questi strumenti non sono disponibili, la Pa ha
margine per procedure tradizionali, che tuttavia deve
realizzare con il ricorso alla centrale di committenza o
comunque con percorsi ordinari (gara).
Il quadro viene così razionalizzato con un impulso
all’utilizzo dei mercati elettronici e delle piattaforme
telematiche, lasciando uno spazio limitato alle procedure
tradizionali.
La novità più significativa è rinvenibile nella condizione
fondamentale affinché la stazione appaltante possa operare
in proprio nella fascia tra i 40mila euro e la soglia
comunitaria, costituita dall’ottenimento della
qualificazione, attraverso il percorso che sarà disegnato
con un decreto (su proposta dell’Anac) in base ai criteri
definiti nel Codice.
In termini operativi, le amministrazioni possono
approfittare del periodo transitorio (che decorrerà
dall’entrata in vigore del nuovo Codice fino alla
definizione del sistema di qualificazione con decreto
ministeriale) per analizzare la loro organizzazione per la
gestione delle fasi dei processi di acquisto, ma anche per
potenziare la formazione degli operatori e comporre
l’assetto organizzativo con le misure anticorruzione.
Molta attenzione deve essere posta anche in relazione agli
obblighi di acquisto che derivano dalle norme in materia di
riorganizzazione della spesa.
Anzitutto, la nuova disciplina va coordinata con l’articolo
1, comma 7, del Dl 95/2012, che per alcune categorie
merceologiche (telefonia, carburanti, energia e gas,
combustibili per riscaldamento) prevede il ricorso alle
convenzioni Consip e ai soggetti aggregatori regionali, ma
pone come prima alternativa l’utilizzo degli strumenti
elettronici (aspetto che favorisce chi può disporre di
piattaforme telematiche o di mercati elettronici non a
catalogo).
Altrettanta attenzione deve essere posta dalle
amministrazioni in relazione all’obbligo di
approvvigionamento presso i soggetti aggregatori per alcune
tipologie di beni e servizi in rapporto a specifiche soglie,
individuate entrambe dal Dpcm 24.12.2015, attuativo
dell’articolo 9, comma 3, della legge 89/2014: tra queste
rientrano i servizi di pulizia e manutentivi (per i quali
gli enti possono operare solo sino alla soglia comunitaria),
ma anche quelli di guardiania (per i quali la soglia di
acquisto autonomo è fissata a 40mila euro)
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016
- tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
LA RIFORMA DEGLI APPALTI/
Appalti: Anac, soft law, rating, le parole chiave
della riforma. L'orientamento
espresso con il dlgs sul codice dei contratti pubblici, in
vigore da oggi.
Con l'approvazione del decreto legislativo contenente il
nuovo codice dei contratti pubblici e delle concessioni (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare),
in vigore da oggi, lunedì 18 aprile, il governo ha concluso
il secondo step della riforma della contrattualistica
pubblica.
Si tratta di una riforma epocale che tuttavia non deve
considerarsi oggi conclusa ma appena iniziata.
Epocale perché cambia l'impostazione stessa del sistema a
livello di strumenti normativi utilizzati. Vengono anche
modificati e in maniera importante molteplici istituti ma,
principalmente, si abbandona il duplice strumento normativo
legge-regolamento.
Dal 1865, con l'allegato F della legge 2248 e il regolamento
del 1895 sino ai nostri giorni, con il dlgs n. 163/2006 e il
dpr n. 207/2010, ci siamo sempre appoggiati su due pilastri
normativi.
Ora, con la riforma, questa impostazione va in soffitta in
quanto ritenuta obsoleta e non più rispondente alle
necessità di semplificazione e razionalizzazione del
sistema: in una parola, non più rispondente alle esigenze di
efficacia richieste con forza dalle direttive Ue nn. 23, 24
e 25 del 2014.
Il punto nodale della riforma, quindi, non si deve ricercare
nella riduzione (pure molto consistente) degli articoli
della legge, ovvero nell'accorpamento di alcuni istituti,
laddove si trattano congiuntamente appalti di forniture,
servizi e lavori, ma nell'uso della cosiddetta soft law,
che va a sostituire la fonte regolamento. Soft law che si
estrinseca nelle linee guida, di prossima emanazione,
affidate in maniera decisa all'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), che ne sarà, al contempo, ispiratrice
e ideatrice, attuatrice e infine custode.
Un triplice compito che rende l'Anac il vero perno della
riforma.
Se questa è la novità, è, però, al tempo stesso anche la
scommessa insita nella riforma stessa, tanto che già si
discute sul modo in cui la soft law si inserirà nel
sistema rigido delle fonti delineato dalla Costituzione
italiana.
Emergono tre distinti modelli di linee guida: quelle che
derivano la loro forza vincolante dal decreto legislativo
oggi approvato; quelle che saranno recepite, su proposta di
Anac, con apposito decreto ministeriale; quelle, infine, che
lo stesso codice configura come non vincolanti e che
traggono la loro forza dalla moral suasion, derivante
dalla riconosciuta autorità del soggetto che le emana.
A questi tre modelli di linee guida, strumenti dotati di
grande flessibilità, è affidato il compito di guidare
l'agire delle singole amministrazioni cui, a prima vista,
con la nuova riforma potrebbe sembrare affidata una
discrezionalità troppo vasta in un momento storico
caratterizzato dal dilagare di fenomeni corruttivi.
In questo senso, diversi sono gli aspetti su cui l'Anac
potrà e dovrà fornire puntuali indicazioni onde evitare che
la discrezionalità amministrativa si traduca in abusi
sistematici: la scelta del contraente affidata quasi
esclusivamente all'offerta economicamente più vantaggiosa
(sarà residuale, e per gli appalti di più modeste
dimensioni, il ricorso al massimo ribasso); i criteri per la
valutazione delle offerte anomale; la possibilità di
richiedere gara per gara requisiti specifici per la
partecipazione; i criteri reputazionali per le imprese,
valutati sulla base di parametri oggettivi e misurabili
nonché su accertamenti definitivi concernenti il rispetto
dei tempi e dei costi nell'esecuzione degli appalti a essi
affidati.
Criteri reputazionali (cui si aggiunge anche la previsione
di sanzioni, determinate da Anac, nei casi di omessa o
tardiva denunzia delle richieste estorsive e corruttive da
parte delle imprese titolari di contratti pubblici, comprese
le imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di
materiali, opere e servizi) che avvicinano sensibilmente la
scelta del contraente a sistemi privatistici con conseguente
condivisione di obiettivi fra committente e appaltatore.
Di rilevante importanza sono, poi, il rating di legalità,
che si candida ad assumere un ruolo determinante
nell'aggiudicazione delle gare (le imprese con un rating più
alto otterranno un maggior punteggio), sia l'entità ridotta
della cauzione provvisoria da prestarsi per garantire la
serietà dell'offerta.
Infine e soprattutto degne di note sono le procedure per gli
appalti sottosoglia nelle quali tendono a valere regole
maggiormente flessibili, con ricorso alle indagini di
mercato in sede di diramazione degli inviti a presentare
offerta.
Peraltro, è anche lo stesso codice a porre precisi
deterrenti all'abuso di discrezionalità, introducendo forme
di controllo non più solo posteriori, ma contestuali allo
svolgimento dell'azione amministrativa cioè nel momento
stesso in cui vengono effettuate le scelte.
Si pensi alla nomina dei commissari di gara che saranno
estratti a sorte, dopo la presentazione delle offerte, da
nominativi contenuti in uno specifico albo presso l'Anac);
si pensi anche alla qualificazione e centralizzazione delle
stazioni appaltanti vengono fortemente ridotte nel numero al
fine di assicurare competenze e uniformità di applicazione
delle procedure; si pensi, infine, all'obbligo di
centralizzazione delle informazioni e di pubblicità con
media informatici.
E rileva anche la trasmissione all'Anac, negli appalti di
rilevanza comunitaria, delle varianti superiori al 10%
dell'importo del contraente originario, nonché la
comunicazione alla stessa Autorità degli appalti riguardanti
le transazioni o gli accordi bonari. L'effetto deterrente di
questi adempimenti è di immediata percezione.
Ma la portata innovativa della riforma, si parla addirittura
di vera e propria risoluzione copernicana, non deve essere
percepita in modo trionfalistico, come possibile panacea di
tutti i mali né, per contro, con senso quasi di frustrazione
di chi di colpo è privato di collaudati e largamente
sperimentati strumenti di lavoro.
Un approccio equilibrato è d'obbligo. Si deve avere la
consapevolezza che siamo in presenza di una sorta di work in
progress in cui il momento del diritto intertemporale, in
questa fase di passaggio, è fortemente critico e potrebbe,
se non gestito correttamente, e con tempi rapidissimi,
portare a una fortissima contrazione della spesa pubblica
per investimenti con effetti devastanti nell'attuale
congiuntura. Dovranno, infatti, essere emanati oltre
cinquanta ulteriori provvedimenti, molti dei quali sono
tasselli decisivi della riforma.
L'Anac è già al lavoro per definire le linee guida, ma è
indispensabile, in questa delicata fase, che tutti i
soggetti interessati diano, ciascuno per il proprio ruolo,
il massimo impegno per far si che i molti aspetti positivi
già presenti nella riforma non rimangano lettera morta e
anzi si trasformino in veri e propri elementi distorsivi del
sistema, con conseguenti ritardi e inefficienze.
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Stazioni e imprese solo qualificate.
Con il nuovo codice dei contratti pubblici e delle
concessioni, il governo, con un intento certamente
meritorio, ha potenziato, e in parte introdotto per la prima
volta, nuovi istituti volti alla tutela dei valori
costituzionali della competitività e dell'efficienza.
In tale contesto, in un'ottica per così dire bipartisan, il
nuovo testo pretende che debbano essere qualificati non solo
gli operatori economici, ma anche le stazioni appaltanti.
Per inciso, la qualificazione delle stazioni appaltanti, a
differenza della qualificazione degli operatori economici,
non è specificamente prevista dalle direttive comunitarie,
né è mai stata disciplinata nel sistema nazionale.
Il Consiglio di stato, sezione consultiva degli atti
normativi, con
parere 01.04.2016 n. 855, reso sulla bozza del
codice, ha tuttavia, ritenuto che la mancata previsione
nelle direttive dell'istituto della qualificazione delle
stazioni appaltanti non implichi la violazione del divieto
cosiddetto di gold plating (divieto di introduzione
di oneri burocratici non essenziali), posto che
l'introduzione di tali disposizioni troverebbe la sua
giustificazione in funzione della tutela dei valori di
trasparenza e concorrenza.
Per definizione, la qualificazione degli operatori economici
comprende quell'insieme di disposizioni che disciplinano i
requisiti richiesti per la partecipazione alle procedure di
affidamento.
La grande novità risiede, quindi, nel fatto che tali
requisiti, con gli opportuni adattamenti, vengono ora
richiesti anche alle stazioni appaltanti.
In altri termini, così come l'operatore economico deve
dimostrare di possedere dei requisiti per poter partecipare
alle procedure di affidamento, anche la stazione appaltante
deve dimostrare (all'Anac) di possedere i requisiti per
poter affidare una commessa.
Il tutto con una precisa regola operativa: a decorrere dalla
data di entrata in vigore del nuovo sistema di
qualificazione, l'Anac non rilascia il codice identificativo
gara (Cig) alle stazioni appaltanti che intendono affidare
appalti non rientranti nella qualificazione conseguita.
Si chiude un cerchio, nel contesto di un disegno strategico
di più ampio respiro, vale a dire quello di ridurre le
stazioni appaltanti attraverso la centralizzazione della
committenza, di conseguentemente garantire la
professionalizzazione delle stesse attraverso un sistema di
gestione e di controllo del loro operato, e di garantire in
definitiva alle stesse un corretto esercizio della
discrezionalità amministrativa, tanto invocato dalle
direttive comunitarie.
Queste ultime, in effetti, verranno qualificate in rapporto
alla tipologia e complessità del contratto e per fasce
d'importo. La qualificazione conseguita opera per la durata
di cinque anni e può essere rivista a seguito di verifica,
anche a campione, da parte di Anac o su richiesta della
stazione appaltante.
I requisiti presi in considerazione dal codice appartengono
essenzialmente a due categorie: requisiti di base (strutture
organizzative stabili; presenza nella struttura
organizzativa di dipendenti con specifiche competenze;
formazione e aggiornamento del personale; numero di gare
svolte nel triennio) e requisiti premianti (valutazione
positiva dell'Anac in ordine all'attuazione di misure di
prevenzione dei rischi di corruzione e promozione della
legalità; presenza di sistemi di gestione della qualità
conformi alla norma Uni En Iso; disponibilità di tecnologie
telematiche nella gestione delle gare; livello di
soccombenza nel contenzioso; applicazione di criteri di
sostenibilità ambientale e sociale nell'attività di
progettazione e affidamento).
Sul fronte della qualificazione degli operatori economici
non muta, almeno nei settori cosiddetti ordinari, la
tradizionale dicotomia tra appalti di lavori da un lato, per
i quali resta in vigore il sistema delle attestazioni Soa, e
servizi e forniture dall'altro, per i quali la stazione
appaltante può, in relazione al singolo affidamento,
richiedere i singoli requisiti tra quelli previsti dalla
normativa, selezionandoli e graduandoli in funzione della
natura e delle caratteristiche della commessa che intendono
affidare.
Sul fronte della qualificazione dei lavori pubblici, il
sistema Soa, dunque, resiste, ma viene in parte modificato,
con la previsione per esempio della verifica a campione, da
parte delle stazioni appaltanti, del possesso dei singoli
requisiti che hanno consentito il rilascio
dell'attestazione.
Per altro verso, in tema di qualificazione dei lavori
pubblici, si demanda all'Anac tanto il compito effettuare
una ricognizione straordinaria circa il possesso dei
requisiti in capo ai soggetti attualmente operanti in
materia di attestazione, quanto quello di individuare forme
di partecipazione pubblica agli stessi e alla relativa
attività di attestazione.
Sarà, invece, il ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, su proposta dell'Anac, sentite le competenti
commissioni parlamentari, a individuare, entro un anno
dall'entrata in vigore del codice, modalità di
qualificazione, anche alternative o sperimentali da parte di
stazioni appaltanti ritenute particolarmente qualificate, se
del caso attraverso un graduale superamento del sistema
unico di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici.
Sul fronte dei servizi e delle forniture, il codice
recepisce, invece, fedelmente le direttive comunitarie. Da
segnalare, tuttavia, l'introduzione di due nuovi requisiti
di capacità economico finanziaria, quali il rapporto tra
attività e passività, desumibile dai conti annuali e il
livello adeguato di copertura assicurativa contro i rischi
professionali. Tra i mezzi di prova del possesso di tali
requisiti, resistono, in ogni caso le idonee referenze
bancarie e le attestazioni attraverso i bilanci (menzionate
nell'allegato XVII del codice).
In generale, in ogni caso, tanto con riferimento ai lavori,
quanto ai servizi e alle forniture, vengono introdotti i
cosiddetti criteri reputazionali, che attribuiranno rilievo
al contenimento dei costi e dei tempi nell'esecuzione della
commessa, nonché al «tasso di litigiosità» delle
imprese (inteso, come chiarito dal Consiglio di stato nel
citato parere, nel senso di tasso di soccombenza nelle cause
instaurate, non già nel senso di numero di cause promosse).
Tali criteri reputazionali (in altre parti del testo
sintetizzati nel concetto di rating di impresa) verranno,
comunque, definiti dall'Anac nelle linee generali.
Nell'attuale formulazione, e comunque in attesa
dell'adozione delle linee guida, tali requisiti verranno
accertati dalle Soa nell'ambito dei lavori pubblici e dalle
stazioni appaltanti nell'ambito dei servizi e delle
forniture.
All'esito di tale breve disamina, è possibile affermare che
il nuovo codice tende ad avvicinare, dal punto di vista
della competenza e della professionalità, le stazioni
appaltanti e le imprese. L'avvicinamento, auspicato e
possibile, non si tradurrà obiettivamente in una piena
parificazione tra le parti, non potendosi trascurare che,
quanto meno in sede di espletamento della procedura a
evidenza pubblica, tendono a prevalere gli interessi
pubblici di cui è portatrice la stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cantieri edili, Mud solo per scarti pericolosi.
Le imprese che svolgono in via principale le attività di
costruzione e demolizione sono obbligate alla presentazione
del Mud solo in relazione ai rifiuti pericolosi di cui sono
produttori iniziali. Laddove per i rifiuti non pericolosi
tutti, anche se classificati con codici Cer diversi da
quelli di settore, vale invece l'esenzione dalla
presentazione dell'annuale dichiarazione ambientale a monte
prevista dall'articolo 189, comma 3, del decreto legislativo
n. 152/2006 per determinate categorie di produttori.
Il chiarimento sulla portata dell'adempimento in scadenza il
prossimo 30.04.2016 arriva con la
nota 08.04.2016 n. 22028 di prot.
dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca
ambientale (Ispra).
Nel documento, formulato in risposta a un quesito formulato
da un'associazione di settore, si rende atto «che le
attività di costruzione e demolizione possono produrre,
accanto al flusso di rifiuti afferenti al capitolo 17,
anche, in misura residuale, tipologie di rifiuti funzionali
all'attività svolta, ma non attribuibili al medesimo
capitolo, per esempio rifiuti di imballaggio» e che,
conclude la lettera, «pertanto si possono includere nelle
tipologie di rifiuti escluse dall'obbligo di dichiarazione
anche quelle non appartenenti al capitolo 17 dell'Elenco
europeo di rifiuti. L'esclusione riguarda i soli rifiuti non
pericolosi».
Le precisazioni dell'Ispra, che fanno espressamente salve le
interpretazioni del Codice ambientale fornite dalle
competenti istituzioni, si agganciano direttamente alle
«informazioni aggiuntive» alle istruzioni per la
presentazione del Mud adottate dallo stesso Istituto lo
scorso marzo 2016 in attuazione del dpcm 21.12.2015 (si veda
ItaliaOggi Sette del 14/3/2016)
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Controlli su aree pedonali Niente placet
ministeriale.
Non serve alcuna licenza ministeriale per attivare il
controllo elettronico dell'area pedonale. È infatti
sufficiente installare strumentazione omologata per questo
uso particolare e avvisare l'utenza stradale nella modalità
più idonea allo scopo.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con l'inedito
parere n. 5466/2015.
Un comune intenzionato a installare le telecamere per il
monitoraggio del traffico nel centro storico ha richiesto
chiarimenti all'organo tecnico centrale.
A parere del dipartimento per i trasporti terrestri per
attivare il controllo elettronico degli accessi alle aree
pedonali non serve alcuna autorizzazione. A differenza del
telecontrollo delle zone a traffico limitato, infatti, il
dpr 250 del 22.06.1999 non richiede una autorizzazione
ministeriale per posizionare dei varchi in prossimità delle
zone pedonali.
La rilevazione degli accessi abusivi potrà avvenire
utilizzando gli stessi dispositivi omologati per il
controllo delle zone a traffico limitato, prosegue la nota.
Tuttavia, mentre per l'installazione di questi impianti è
necessaria una licenza ad hoc, per il presidio
elettronico delle aree pedonali non serve nulla. Purché si
tratti di strumenti elettronici specificamente omologati per
le finalità di cui all'art. 7 del dpr n. 250/1999, «per
ovvi motivi di analogia tecnologica».
Per quanto riguarda la necessità di informare adeguatamente
l'utenza nel rispetto della disciplina sul trattamento dei
dati personali le cose sono particolarmente semplificate. È
possibile installare una informativa minima prevista dal
garante nella direttiva 08.04.2010. Ma può bastare anche un
semplice avvertimento di varco elettronico attivo.
Specifica infatti il ministero che quando la normativa di
settore prevede espressamente l'obbligo di rendere noto agli
utenti l'installazione degli impianti elettronici di
rilevamento automatizzato delle infrazioni «è possibile
fare a meno di fornire un'ulteriore distinta informativa
rispetto al trattamento dei dati che riproduca gli elementi
che sono già noti agli interessati per effetto degli avvisi
di cui alla disciplina di settore in tema di circolazione
stradale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016). |
APPALTI:
Appalti, semplificazione e regia a Cantone. Renzi:
altro passo per sbloccare l’Italia, chiuse le strade alla
corruzione - Delrio: la rivoluzione della normalità.
Si regge sul
ruolo centrale affidato all’Anticorruzione di Raffaele
Cantone, ma contiene molte altre misure dai connotati quasi
rivoluzionari per il settore la riforma degli appalti varata
in via definitiva ieri dal Consiglio dei ministri. Quella
più evidente è la semplificazione del quadro normativo.
Dagli oltre 600 articoli del vecchio impianto (codice più
regolamento) si passa ai 220 articoli del nuovo codice. A
parte la forma, è nei contenuti che si gioca la sfida di
rimettere in piedi un settore economico messo in ginocchio
dalla crisi e sfregiato dalle inchieste della magistratura.
Semplificazione e strategia anticorruzione sono le due linee
su cui si muove il nuovo assetto. Anche se non viene
archiviata del tutto, come chiedeva il Parlamento, viene
molto ridimensionata la possibilità di assegnare le gare al
massimo ribasso. Tenere conto solo del prezzo per assegnare
le commesse sarà possibile solo nelle gare sotto al milione.
In tutti gli altri casi bisognerà valutare anche la qualità
di esecuzione della prestazione.
Il criterio prezzo-qualità
(offerta più vantaggiosa) diventa poi obbligatorio per tutte
le gare di progettazione e per i servizi ad alta intensità
di manodopera. Il nuovo codice accende poi un faro sui
piccoli appalti, vera zona grigia in cui si sono concentrati
i fenomeni di corruzione più diffusi. Negli appalti di
importo superiore a 150mila euro, dove prima si poteva
procedere a inviti, chiedendo un preventivo a qualche
impresa, sarà necessario passare da una gara.
Innovativa è poi la scelta sulla qualificazione delle
imprese e delle stazioni appaltanti. Per valutare i
costruttori debutta il rating di impresa. Ad assegnarlo sarà
l’Anac, tenendo conto del curriculum conquistato
dall’azienda nella gestione dei cantieri precedenti. Anche
le stazioni appaltanti saranno valutate in base a competenze
e risorse.
Finisce l’epoca in cui anche un comune di mille
abitanti avrebbe potuto bandire una gara milionaria. In
futuro, sarà l’Anticorruzione a decidere fino a che punto
potranno spingersi gli enti pubblici, in base a un sistema
graduato per importi. Attenzioni specifiche vengono dedicate
alle piccole imprese. Tra queste, spiccano le norme sul
subappalto, che sarà limitato a un massimo del 30% del
valore del contratto. Mentre per gli appalti ad alta
intensità di manodopera viene previsto l’inserimento delle
clausole sociali che promuovono la stabilità occupazionale.
Il nuovo codice (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare), poi, archivia la stagione della legge
obiettivo. Anche le grandi opere rientreranno nella
programmazione ordinaria e saranno sottoposte a
consultazione pubblica. Seguendo le indicazioni europee, il
codice regolamenta per la prima volta in modo organico il
settore delle concessioni e del partenariato pubblico
privato.
Su questo fronte si definisce l’obbligo di
trasferire il rischio operativo ai privati e si fissa al 30%
il tetto massimo del contributo pubblico sulle opere da
affidare in gestione. Molto delicato il capitolo delle
concessioni autostradali. In particolare sui lavori, con
l’obbligo di affidare a gara almeno l’80% degli appalti
(dopo una fase transitoria di due anni). Sulla progettazione
due novità su tutte: il divieto di appaltare insieme
progetto e lavori e la cancellazione del bonus del 2% per i
tecnici della Pa.
Oltre alle molte certezze, restano diverse incognite. La
principale criticità del testo è, infatti, legata alla fase
transitoria. Il nuovo codice entrerà in vigore di colpo, nel
giorno stesso della sua pubblicazione, prevista per lunedì
prossimo. Questa partenza così rapida, però, sarà monca, dal
momento che andrà completata con un ampio pacchetto di
decreti attuativi (più di quaranta): molti di questi
riguarderanno passaggi strategici, come il rating di impresa
o la qualificazione delle stazioni appaltanti. Soprattutto,
poi, sono attese nel giro di un paio di mesi le linee guida
condivise da Anac e Mit, che dovranno sostituire il
regolamento.
Il vecchio Dpr n. 207/2010, allora, resterà
attivo ancora per qualche mese: sarà abrogato un pezzo alla
volta dai diversi provvedimenti in arrivo. Solo a fine 2016
è prevista la sua definitiva sparizione. Questa transizione
così rapida nella prima fase e così complessa nel suo
sviluppo preoccupa molto gli operatori: non si contano le
segnalazioni di probabili difficoltà applicative previste
per i primi giorni di utilizzo. A rendere ancora più
intricata la situazione, poi, c’è il nodo delle competenze
dell’Anac. L’Anticorruzione incassa decine di nuovi poteri,
ma nessuna risorsa. Potrebbe andare in difficoltà.
Comunque, il premier Matteo Renzi rivendica l’approvazione
di una riforma che definisce «mastodontica» e che «continua
nella direzione di sbloccare i lavori in Italia».
Soprattutto, è decisiva la semplificazione che arriverà da
queste nuove norme: «Avevamo un vecchio codice che aveva 660
articoli e 1.500 commi, passiamo a un codice con 220
articoli, con linee di indirizzo che vengono affidate al
lavoro dell’Anac. È una riforma strutturale» che consentirà
«di chiudere le strade alla corruzione».
Per il ministro
delle Infrastrutture, Graziano Delrio, invece, quella del
codice «è la rivoluzione della normalità. Si archivia la
legge Obiettivo, dove tutto era urgente e prioritario,
torniamo a una sana e pragmatica concretezza» nella quale ci
sarà «programmazione delle opere sulla base della loro
utilità». Guarda già ai suoi molti compiti il presidente Anac, Raffaele Cantone che parla di «sfida da raccogliere» (articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2016). |
APPALTI:
Un nuovo corso per gli appalti. Digitalizzazione,
stop ai massimi ribassi, poteri all'Anac.
CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Via libera definitivo al
decreto sui contratti pubblici.
Via alla riforma degli appalti pubblici: semplificazione e
digitalizzazione delle procedure; vietato il massimo ribasso
a eccezione dei lavori fino a 500 mila euro; albo dei
commissari di gara gestito dall'Anac (l'Autorità nazionale
anticorruzione) per contrastare la corruzione; criteri
reputazionali e rating di legalità (per ridurre l'importo
delle cauzioni); abrogazione del codice De Lise sui
contratti pubblici e del regolamento attuativo, oltre che
della Legge obiettivo, e rivisitazione della programmazione
delle opere infrastrutturali; ridotte le competenze del
contraente generale; stazioni appaltanti qualificate dall'Anac
e maggiori poteri all'Authority per regolazione, bandi-tipo
e contratti-tipo; introduzione graduale del Bim (Building
information modelling) anche come elemento per qualificare
le stazioni appaltanti; tecnici della p.a. incentivati ma
solo su programmazione, direzione lavori e controlli; più
mercato per la progettazione.
È su questi (e molti altri) punti che si fonda quella che il
governo ritiene una vera e propria rivoluzione nel sistema
dei contratti pubblici: dopo il nuovo decreto legislativo di
attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE, approvato definitivamente ieri dal consiglio dei
ministri (di 34 articoli più breve del precedente), la
riforma dovrà essere completata a breve con le linee guida
generali messe a punto dall'Anac e adottate con decreto
delle Infrastrutture (Schema di decreto legislativo
recante disposizioni per l'attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi
postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Il decreto dovrebbe andare in G.U. lunedì 18 aprile ed
entrare in vigore lo stesso giorno. Le linee guida generali
sostituiranno il regolamento del codice De Lise, il dpr
207/2010 (verrà soppresso ma rimarrà in vigore per alcune
parti fino all'uscita delle linee guida).
Rimane qualche
dubbio sulla disciplina transitoria dal momento che la
soppressione del codice, sostituito dal nuovo, vedrà ancora
in vigore delle norme pensate per la disciplina del 2006. Si
può dire, come fu per la Legge Merloni 20 anni fa, che anche
questo codice nasce su alcune «spinte emotive» (così si
diceva per giustificare scelte drastiche operate nel '94):
gli scandali sulle opere della Legge obiettivo hanno portato
alla sua soppressione e alla conseguente cancellazione delle
procedure speciali, nonché al divieto di affidare al
contraente generale la direzione dei lavori.
Ma è anche
l'intero assetto della disciplina delle grandi opere ad
essere radicalmente rivisto: il programma di infrastrutture
strategiche si baserà sul «documento pluriennale di
programmazione» e, come atto presupposto, sul Piano generale
dei trasporti e della logistica; tutte le opere seguiranno
la stessa procedura, senza alcuna deroga. Analogamente si è
intervenuti sulla fase di aggiudicazione con la creazione
presso l'Anac di un albo dei commissari di gara dal quale
saranno estratti i nominativi da fornire alle stazioni
appaltanti.
Si tratta di una disciplina di particolare
rilievo perché l'aggiudicazione degli appalti richiederà
quasi sempre il ricorso al criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa (prezzo più basso fino a 150
mila euro) e quindi a valutazioni qualitative che sarà
fondamentale che siano rese da commissari preparati e
moralmente inappuntabili. Grazie ai molti rilievi del
Consiglio di stato e delle commissioni parlamentari il testo
approvato dal consiglio dei ministri di ieri sistema alcuni
problemi, primo fra tutti quello dei contratti sotto soglia
che vedeva nella prima versione di più di un mese fa, un
largo uso della procedura negoziata con inviti a tre o a
cinque soggetti.
Si garantisce anche una adeguata stima dei
corrispettivi per le progettazioni con il riferimento al
decreto parametri e si elimina una barriera all'entrata
soprattutto per i più giovani, con la cancellazione delle
cauzioni provvisorie per i progettisti. Il testo si muove in
linea con la legge delega sul profilo della riduzione del
numero delle stazioni appaltanti: fino a 40 mila per
forniture e servizi e a 100 mila per i lavori le piccole
stazioni appaltanti potranno operare senza problemi, oltre
questi tetti scatta l'obbligo di aggregazione; in più si
avvia un sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti
gestito dall'Anac.
In generale tutte le procedure saranno
più trasparenti e controllabili e la comunicazione fra p.a.
e operatori privati sarà integralmente digitalizzata, sia
pure gradualmente, così come gradualmente si andrà
all'introduzione del Bim (Building information modelling, il
nuovo sistema di progettazione che mette insieme aziende,
professionisti, p.a. e fornitori) presso le stazioni
appaltanti.
Netta spinta verso la semplificazione nella
partecipazione alle gare con lo spostamento alle
Infrastrutture del sistema Avcpass per la verifica dei
requisiti, che dovrà essere rivisto per farlo adeguatamente
funzionare e la messa in linea di tutte le banche dati ad
opera dell'Anac. L'appalto integrato sembra sparire, con la
regola generale di affidare i lavori sulla base di progetti
esecutivi e con divieto di affidamento sulla base del
progetto preliminare. Rimane il tetto del 30% per il
subappalto di lavori (tutti e non solo per le
superspecialistiche).
Sul fronte delle garanzie viene
soppresso il performance bond, sostituito da una garanzia
che coprirà anche gli extra-costi a carico della stazione
appaltante. Per la disciplina dei contratti sotto la soglia
Ue possibile la procedura negoziata senza bando per lavori
da 40 mila a 500 mila euro con invito a 5 fino a 150 mila e
a 10 fino a mezzo milione
(articolo ItaliaOggi del 16.04.2016). |
APPALTI:
Guardia di finanza in cantiere. Poteri di polizia
tributaria per la verifica degli appalti.
In una circolare delle Fiamme gialle le direttive
per il nucleo speciale anticorruzione.
La Guardia di finanza nei cantieri a controllare, per conto
dell'Autorità anticorruzione, la regolarità delle procedure
sugli appalti. Per farlo il nucleo speciale anticorruzione,
una costola di diretta emanazione della polizia tributaria,
potrà contare sui poteri propri degli accertamenti fiscali
(dando attuazione così a una norma del codice appalti, dlgs
16372006).
Non solo. a disposizione di Raffaele Cantone, Autorità
anticorruzione, la possibilità di ordinare indagini
finanziarie mirate per il tema degli appalti finora
confinate all'ambito delle verifiche tributarie.
Sono queste alcune delle novità della circolare della Gdf,
che ItaliaOggi è in grado di anticipare, con cui si
formalizza l'attività di collaborazione tra Guardia di
finanza e Raffaele Cantone, capo dell'Autorità nazionale
anticorruzione.
Nel testo si legge che l'Anac ha la possibilità di ricorrere
al supporto della Guardia di finanza per l'esercizio delle
funzioni di competenza tanto nell'area della
contrattualistica pubblica quanto nell'«ampio comparto dei
presidi di prevenzione della corruzione».
E a questi fini il corpo guidato da Saverio Capolupo può
utilizzare i poteri attribuiti per gli accertamenti di
natura fiscale, «aspetto», scrivono dalla Gdf, «quest'ultimo
che conferisce alle sinergie un'indubbia incisività».
Nasce, dunque, il Nucleo speciale anticorruzione che avrà il
ruolo di referente unico dell'Anac. Mentre, a livello
locale, sono istituite le sezioni/drappelli anticorruzione
nei nuclei di polizia tributaria in sede di ogni capoluogo
di regione come punti di contatto privilegiati sul
territorio.
Ambito di intervento.
La Gdf potrà, dunque, effettuare
ispezioni nei confronti delle stazioni appaltanti, degli
operatori economici, e di ogni pubblica amministrazione e
società partecipata relativamente all'affidamento e
all'esecuzione di lavori e servizi e forniture e al
conferimento di incarichi di progettazione.
Si attiverà poi sui controlli sul sistema di qualificazione
attuato dalle Soa (società organismi di attestazione) con
particolare riguardo all'assetto societario, patrimoniale,
organizzativo e di governance, al riscontro dei requisiti
generali e di indipendenza, al rispetto delle procedure per
il rilascio delle attestazioni anche con riferimento alle
società aventi sede legale all'estero.
La Gdf analizzerà, inoltre, le procedure per il rilascio del
rating di legalità alle imprese e i controlli relativi
all'ottemperanza delle decisioni delle varie autorità.
Metodi di intervento.
In che modo la Gdf eserciterà questa
nuove funzione? «I militari del corpo incaricati del
supporto hanno la possibilità» scrive nero su bianco il capo
del III reparto operazioni, Stefano Screpanti, «di avvalersi
delle potestà loro attribuite dalla normativa fiscale,
segnatamente dagli articoli 32 e 33 del dpr 600/1973 e 51 e 52
del dpr 633».
Una potestà amplissima che affonda la sua
ragion d'essere proprio nel codice appalti, nell'articolo 9,
comma 6, infatti si riconosce all'autorità la possibilità di
«avvalersi del Corpo della Guardia di finanza, che esegue le
verifiche e gli accertamenti richiesti agendo con i poteri
di indagine a esso attribuiti ai fini degli accertamenti
relativi all'imposta sul valore aggiunto e alle imposte sui
redditi».
In particolare, poi, le Fiamme gialle riservano una
notazione particolare alle indagini finanziarie. Sarà
preparata un'applicazione di indagini finanziarie con cui il
nucleo potrà sviluppare in totale autonomia la procedura
telematica di richiesta ed esecuzione della particolare
tipologia di accertamento
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Sparisce
la parola provincia. Ma restano in vigore leggi che vi fanno
riferimento. RIFORME COSTITUZIONALI/
Gli effetti del ddl Boschi sul futuro degli enti locali.
La riforma della Costituzione abolisce le province
definitivamente. Almeno sulla carta.
Il disegno di legge sulle riforme costituzionali, approvato
definitivamente dalle Camere e ora in attesa del referendum
autunnale (si veda ItaliaOggi di ieri) contiene un articolo
29 rubricato «abolizione delle province» e in diverse altre
norme si cancella la parola. Ma, per abolire un ente, non
basta enunciare l'intenzione o eliminarne la denominazione.
La Costituzione non può, ovviamente, andare nel dettaglio
dell'organizzazione territoriale, né abolire leggi
ordinarie.
Sta di fatto, dunque, che anche laddove la riforma dovesse
superare la prova del referendum confermativo, resterebbe in
vigore la legge «Delrio», la 56/2014, che regola ed ordina
la disciplina delle province, confusamente ivi definite come
enti di area vasta. E restano vigenti tutte le altre leggi
ordinarie che alle province per qualsiasi ragione facciano
riferimento.
Il che significa che, province o enti di area vasta che
siano, conservano la competenza a gestire le «funzioni
fondamentali» previste dalla legge 56/2014 (edilizia e
programmazione scolastica, programmazione territoriale,
trasporti, tutela e valorizzazione dell'ambiente, controllo
sulla discriminazione in ambito lavorativo) e le funzioni
ulteriori che possono essere svolte, come autorità di bacino
per i servizi pubblici locali a rilevanza economica, o
centrali uniche appaltanti o per lo svolgimento di concorsi.
Quindi, in realtà, la riforma abolisce solo la parola, non
l'istituto, né incide sulle competenze. Di fatto, le
province o enti di area vasta semplicemente degradano da
enti a rilevanza costituzionale ed autonomia
costituzionalmente garantita, a enti disciplinati dalla
normativa statale ordinaria. Ma vi è di più. L'articolo 40,
comma 4, della legge di riforma costituzionale stabilisce
che «per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle
aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali
relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello
Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate
con legge regionale».
Dunque, le regioni potranno esercitare
la propria potestà legislativa, allo scopo di accrescere e
diversificare competenze e funzioni delle province, rispetto
a quanto non stabilito dalla legge dello Stato. Il quale,
proprio dalla disposizione transitoria contenuta nella
Costituzione, di fatto assume la competenza di definire
proprio l'assetto fondamentale principale di tali enti.
Ciò conferma quello che, nei fatti, è già avvenuto, perché
le province sono già state degradate ad enti di minore
portata rispetto ai comuni dalla normativa conseguente alla
riforma Delrio, in particolare la legge 190/2014, che ha
imposto loro un prelievo forzoso di ben 3 miliardi a regime,
condannandole al disequilibrio e al dissesto.
Una conseguenza forte, però, connessa alla riforma
costituzionale potrà esservi. Le province, finché hanno la
tutela costituzionale loro assicurata dall'attuale testo
della Costituzione, possono pretendere l'applicazione
dell'articolo 119, che impone a Stato o Regioni di
finanziare integralmente le funzioni loro conferite. Laddove
il referendum confermativo rendesse efficace la riforma
della Costituzione, allora le province non potranno più
contare sulla tutela
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Fare leggi diventa complicato. Si passa dal
bicameralismo perfetto al differenziato.
Lo prevede la riforma della Costituzione
approvata in via definitiva dal parlamento.
Il passaggio dal bicameralismo perfetto o paritario al
bicameralismo differenziato porta con sé il frutto della
complicazione del processo di formazione delle leggi.
La riforma della Costituzione approvata in via definitiva
dal Parlamento (e ora in attesa degli esiti del referendum
confermativo, si veda ItaliaOggi di ieri) è stata adottata
sotto la bandiera della velocizzazione e semplificazione.
Tuttavia, proprio la parte delicatissima dell'iter
legislativo non sembra cogliere l'obiettivo.
Parità di ruoli.
Intanto, restano campi nei quali la funzione legislativa è
esercitata congiuntamente sia da Camera sia da Senato. Si
tratta delle leggi di revisione della Costituzione e delle
altre leggi costituzionali, nonché delle leggi di attuazione
delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela
delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le
altre forme di consultazione di cui all'articolo 71.
Ancora,
la funzione legislativa paritaria del Senato riguarda le
leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione
elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali
dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di
principio sulle forme associative dei Comuni. Il Senato
interviene obbligatoriamente per la legge che stabilisce le
norme generali, le forme e i termini della partecipazione
dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa
e delle politiche della Ue.
E ancora, per le leggi sui casi
di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di
senatore di cui all'articolo, per le modalità di «elezione»
dei senatori, la ratifica dei trattati Ue, l'ordinamento di
Roma capitale, le forme particolari di autonomia regionale,
l'attuazione degli accordi internazionali da parte delle
regioni, la disciplina che autorizza le regioni a concludere
accordi internazionali con Stati o enti territoriali di
altri stati, le norme sul patrimonio e l'indebitamento di
comuni e città metropolitane, la legge sull'esercizio dei
poteri sostitutivi nei confronti di comuni e città
metropolitane, la legge di principio per le elezioni degli
organi regionali, spostamenti dei comuni da una regione
all'altra.
Richiesta di esame.
Tuttavia, il Senato, entro dieci giorni dalla ricezione dei
disegni di legge approvati dalla Camera, può disporre di
esaminarli, potendo altresì proporre modifiche entro i 30
giorni successivi. La Camera può disporre senza particolari
maggioranze di accettare le modifiche proposte.
Unità giuridica o economica della
Repubblica. Il
senato deve obbligatoriamente esaminare, entro dieci giorni
dalla trasmissione da parte della Camera, le leggi in
materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo
richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della
Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale. In
questo caso, il Senato può proporre modifiche solo a
maggioranza assoluta dei suoi componenti; la Camera può non
accogliere le proposte solo pronunciandosi nella votazione
finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
Nuove spese.
L'intervento del Senato è obbligatorio nel caso di leggi che
importino nuove o maggiori spese e, dunque, indicare i mezzi
per farvi fronte. In questo caso, i disegni di legge
approvati dalla Camera sono esaminati dal Senato, che può
deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni
dalla data della trasmissione. Pare che, in questa
circostanza, la Camera si riappropri di un potere ampio di
accogliere o meno le proposte del Senato.
Procedura accelerata.
Laddove il Governo qualifichi un disegno di legge come
essenziale per l'attuazione del programma di governo, chiede
alla Camera che sia iscritto con priorità all'ordine del
giorno e sottoposto alla votazione definitiva della Camera
entro il termine di 70 giorni. Sicché i termini entro i
quali il Senato può chiedere di esaminare il ddl e proporre
modifiche si dimezzano.
Decreti legge.
Nel caso di disegni di legge di conversione di decreti legge
adottati dal Governo, il Senato può chiederne l'esame entro
trenta giorni dalla presentazione dei dl alla Camera. In
questo caso, il Senato può proporre modifiche entro dieci
giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di
conversione, che deve avvenire non oltre 40 giorni dalla
presentazione.
Questioni di competenza.
L'incrocio degli iter, dei termini, delle materie è talmente
complesso che la nuova Costituzione assegna ai presidenti di
Camera e Senato di decidere d'intesa tra loro sulle
eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le
norme dei rispettivi regolamenti.
Tuttavia, i vizi di incompetenza o di formazione delle
leggi, visto il quadro molto complicato, saranno sempre
dietro l'angolo. In particolare, sarà difficilissimo gestire
i provvedimenti che abbraccino più materie, come tipicamente
le leggi di stabilità o «milleproroghe», evitando di
incorrere in violazioni suscettibili non solo di conflitti
di competenza tra le Camere, ma anche di ricorsi alla Corte
costituzionale
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Imprese edili, Mud evitabile con i rifiuti non
pericolosi.
Nessun obbligo di presentazione entro il 30 aprile prossimo
del Mud 2016 per le imprese di edili che trasportano rifiuti
non pericolosi dai cantieri. Al contrario il Mud dovrà
invece essere presentato dalle imprese di costruzione che
hanno prodotto, nel corso dell'anno 2015, rifiuti speciali
pericolosi.
Questo è quanto sostiene Ispra in risposta all'Ance (nota
08.04.2016 n. 22028 di prot.) in
merito alla presentazione del Mud 2016 da parte delle
imprese di costruzioni che trasportano rifiuti non
pericolosi.
Le imprese che rientrano nell'esclusione del Mud in quanto
produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti da
attività di demolizione, costruzione e scavo, sono solo le
aziende che svolgono attività di costruzione e demolizione
come attività principale. L'esclusione vale per tutti i
rifiuti classificati con codici appartenenti alla famiglia
dei Cer 17 (rifiuti delle operazioni di costruzioni e
demolizione).
L'articolo 189, 3° comma, del dlgs n. 152/2006, stabilisce
che «chiunque effettua a titolo professionale attività di
raccolta e trasporto di rifiuti, i commercianti e gli
intermediari di rifiuti senza detenzione, le imprese e gli
enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento
di rifiuti, i consorzi istituiti per il recupero ed il
riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti, nonché le
imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi
e le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non
pericolosi di cui all'articolo 184, comma 3, lettere c), d)
e g), comunicano annualmente alle camere di commercio le
quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti
oggetto delle predette attività».
Sono esonerati da tale obbligo gli imprenditori agricoli di
cui all'articolo 2135 del codice civile con un volume di
affari annuo non superiore a euro ottomila, le imprese che
raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi, di
cui all'articolo 212, comma 8, nonché, per i soli rifiuti
non pericolosi, le imprese e gli enti produttori iniziali
che non hanno più di dieci dipendenti
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
I tecnorifiuti vanno gestiti solo da accreditati
Raee.
Trattamento dei tecnorifiuti solo negli impianti gestiti da
aziende accreditate presso il Centro di coordinamento Raee.
Il quale, prima di concedere l'accreditamento, ne vaglierà
qualità e adeguatezza attraverso un audit condotto da
verificatori terzi. I sistemi collettivi, per il trattamento
dei Raee di competenza, avranno dunque l'obbligo di
rivolgersi ai soli impianti accreditati (in continuità con
l'accordo precedente).
È quanto prevede il nuovo accordo di programma sul
trattamento dei Raee firmato dal Centro di coordinamento e
dalle aziende del settore: Assoraee, Assorecuperi e
Assofermet.
La sottoscrizione di accordi con i soggetti recuperatori per
«assicurare adeguati e omogenei livelli di trattamento e
qualificazione delle aziende del settore» è prevista dalla
normativa madre nazionale in materia di Raee, il dlgs 49/2014,
all'art. 33, comma 5, lettera g). L'accordo appena firmato
entrerà in vigore dopo 30 giorni e ad esso potranno aderire
tutte le associazioni degli operatori del trattamento che
vorranno sottoscriverlo.
L'accreditamento delle imprese presso il Centro di
coordinamento avrà durata da uno a tre anni a seconda dei
requisiti in possesso dei singoli impianti.
Sono istituiti un Comitato paritetico che monitori
l'applicazione dell'accordo e un tavolo tecnico per la
definizione e l'aggiornamento dei riferimenti allo sviluppo
tecnologico e all'evoluzione normativa.
Il Centro di coordinamento Raee dovrà implementare il
proprio portale con servizi ad hoc per gli impianti
accreditati e questi dovranno fornire annualmente al Centro Raee i dati sulla composizione dei «raggruppamenti»
(tipologie di Raee) utili alle comunicazioni dell'Italia
all'Europa.
«Ispirandoci ai più evoluti standard europei, vogliamo
raggiungere quei target qualitativi nel trattamento dei Raee
richiesti dalla Comunità europea», ha commentato Giancarlo Dezio, presidente del Centro di coordinamento Raee,
aggiungendo che «il rispetto delle regole previste vincolerà
anche il trattamento di Raee raccolti nel nostro paese che
dovessero essere inviati in impianti esteri, garantendo così
un livello qualitativo di eccellenza ovunque avvenga la
lavorazione»
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2016). |
TRIBUTI: Agevolazioni
Imu e Tasi, vale la data del contratto.
COMODATO/ Il Mineconomia risponde a Confedilizia.
Per il contratto di comodato d'uso verbale non conta la data
di registrazione, ma quella di conclusione del contratto
stesso per poter fruire delle agevolazioni Imu e Tasi.
Dunque, la riduzione al 50% della base imponibile Imu e Tasi
in caso di concessione in comodato di un immobile a un
parente in linea retta entro il primo grado, che lo utilizzi
come abitazione principale, decorre dal 01.01.2016 a
prescindere dalla data di registrazione del contratto
verbale.
È questa la risposta che ha fornito il Dipartimento delle
finanze del Ministero dell'economia, con la nota 08.04.2016 n. 8876
di prot., a un
quesito inviato dalla Confederazione italiana della
proprietà edilizia (Confedilizia).
Confedilizia, infatti, aveva rilevato un contrasto tra due
diverse interpretazioni ministeriali sui termini per la
registrazione del contratto di comodato d'uso verbale ai
fini del riconoscimento delle agevolazioni fiscali. Il
ministero precisa al riguardo che è da intendersi superata
l'interpretazione contenuta «nella precedente nota n. 2472
del 29.01.2016».
Inoltre, richiama la
risoluzione 17.02.2016 n. 1/DF e conferma che non c'è un termine ad hoc per la
registrazione del contratto di comodato verbale e che per la
decorrenza della riduzione del 50% della base imponibile Imu
e Tasi «si deve prendere in considerazione la data di
conclusione del contratto stesso».
In effetti, dal 2016 i titolari degli immobili dati in
comodato d'uso gratuito a parenti in linea retta destinati
ad abitazione principale pagano Imu e Tasi in misura
ridotta. È stato abrogato il comma 2 dell'articolo 13 del dl
201/2011, laddove prevedeva che le amministrazioni comunali
potessero assimilare alle prime case le unità immobiliari
concesse in comodato gratuito dal titolare ai parenti in
linea retta entro il primo grado. In base all'articolo 1,
comma 10, della legge di Stabilità 2016 (208/2015) i
beneficiari possono fruire di una riduzione della base
imponibile Imu, che è la stessa dell'imposta sui servizi
indivisibili, nella misura del 50%, purché sussistano le
condizioni richieste dalla norma.
Nello specifico, il
comodante deve avere la residenza anagrafica e la dimora nel
comune in cui è ubicato l'immobile concesso in comodato.
Oltre all'immobile concesso in comodato, può essere titolare
di un altro immobile nello stesso comune, che deve essere
utilizzato come propria abitazione principale, purché non si
tratti di un fabbricato di pregio, classificato nelle
categorie catastali A/1, A/8 e A/9 (immobili di lusso, ville
e castelli). Questo requisito è imposto anche per l'unità
immobiliare data in comodato. Secondo il ministero, però,
solo il possesso di altri immobili destinati ad unità
abitative fa perdere l'agevolazione. Al comodante è poi
imposto di presentare la dichiarazione Imu e di registrare
il contratto.
Francamente quest'ultimo adempimento risulta eccessivo.
Sarebbe stato sufficiente richiedere una scrittura privata
autenticata, per assicurare la certezza della data di
decorrenza del contratto e, per l'effetto,
dell'agevolazione. A maggior ragione se, come sostenuto dal
dipartimento delle Finanze, alla registrazione del contratto
verbale di comodato non gli viene riconosciuta neppure
quella valenza che dovrebbe avere in ordine alla certezza
della data, dalla quale dovrebbe decorrere il beneficio
fiscale
(articolo ItaliaOggi del 13.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Cantiere chiuso senza il Durc. Sospesi i lavori,
pubblici o privati, se manca il documento.
Un interpello del ministero del lavoro
sull'attestazione della regolarità contributiva.
Stop ai lavori finché manca il Durc. In assenza del rilascio
del documento unico di regolarità contributiva di un'impresa
o di un lavoratore autonomo, infatti, va sospeso il titolo
abilitativo dei lavori, pubblici e/o privati.
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello
21.03.2016 n. 1/2016.
Due quesiti.
La commissione risponde a due quesiti del
consiglio nazionale degli ingegneri sulla corretta
interpretazione dei commi 9 e 10 dell'art. 90 del dlgs n.
81/2008, il Tu sicurezza.
Con il primo quesito (comma 9) è
stato chiesto di sapere il significato da dare alla dizione
«in assenza del documento unico di regolarità contributiva»
e, nello specifico, se la presenza di un Durc irregolare
equivalga ad assenza del Durc e, quindi, se i lavori possano
svolgersi senza che gli uffici comunali abbiano acquisito un
Durc regolare di imprese o lavoratori autonomi.
Con il
secondo quesito (comma 10) è stato chiesto di sapere se,
nell'ipotesi precedente (Durc non regolare), sia ammissibile
la sospensione del titolo abilitativo da parte delle
amministrazioni concedenti.
Il Durc o c'è o non c'è.
Quanto al primo quesito, la
commissione spiega che l'art. 90, comma 9, stabilisce
l'obbligo per il committente o responsabile dei lavori di
verificare l'idoneità tecnico-professionale di imprese e
lavoratori autonomi con le modalità di cui all'allegato XVII
al Tu sicurezza.
Modalità che nei cantieri la cui entità è
inferiore a 200 uomini-giorno per lavori non comportanti
rischi particolari (di cui all'allegato XI) può essere la
presentazione, da parte di imprese e lavoratori autonomi,
di: certificato iscrizione camera commercio; Durc;
autocertificazione sul possesso di altri requisiti (allegato
XVII). Relativamente al Durc, la commissione fa presente
che, come specificato nella disciplina del c.d. Durc online
(dm 30.01.2015), per «assenza del documento unico di
regolarità contributiva (Durc)» deve intendersi il suo
mancato rilascio.
In altri termini, se non può essere
attestata la regolarità dei versamenti contributivi non
viene rilasciato un «Durc irregolare» non solo perché non è
previsto dal sistema, ma perché, ontologicamente, il Durc è
solo regolare. Pertanto, poiché il Durc è un certificato che
attesta contestualmente la regolarità di un'impresa per
quanto concerne gli adempimenti previdenziali, assicurativi
e assistenziali di Inps, Inail e cassa edile, non può essere
emesso nell'ipotesi di irregolarità.
Ora, aggiunge la
commissione, mentre nell'ambito dei lavori privati il
committente o il responsabile dei lavori deve chiedere il Durc a imprese e lavoratori autonomi per la verifica
dell'idoneità tecnico-professionale, al contrario,
nell'ambito degli appalti pubblici, la stazione appaltante è
tenuta ad acquisire d'ufficio il Durc (online). Peraltro,
evidenzia la commissione, nei lavori privati edili, il
committente o responsabile dei lavori non deve più
trasmettere il Durc all'amministrazione concedente prima
dell'inizio dei lavori.
Stop ai lavori.
Quanto al secondo quesito, la commissione
ritiene che l'amministrazione concedente debba sospendano
l'efficacia del titolo abilitativo in assenza del Durc, sia
nel caso d'inadempienze comunicate da organi di vigilanza,
sia in caso d'inadempienze accertate dall'amministrazione
stessa
(articolo ItaliaOggi del 13.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Limiti da chiarire sugli affidamenti. La
gestione. Codice appalti e nuovo testo unico aprono alla
partecipazione dei privati nelle affidatarie dirette senza
fissare un tetto alle quote.
L’affidamento in house apre alla
partecipazione dei privati senza possibilità di controllo,
ma la nuova disciplina non specifica i limiti della
partecipazione di questi soci.
Lo schema di decreto legislativo
(Schema di decreto
legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare)
che recepisce le direttive
comunitarie in materia di appalti e di concessioni contiene
anche la disciplina che dovrebbe integrarsi con le
previsioni contenute negli schemi di testo unico sulle
società partecipate e sui servizi pubblici locali.
Le norme sulle società a controllo pubblico titolari di
affidamenti diretti di servizi, sulle quali le
amministrazioni pubbliche esercitano il controllo analogo
(sottoposte al prossimo vaglio della Conferenza unificata
insieme a quelle sui modelli gestionali dei servizi
pubblici), stabiliscono infatti che non vi sia
partecipazione di capitali privati ad eccezione di quella
prevista da norme di legge, e che queste partecipazioni non
comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di
un’influenza determinante sulla società.
La specificazione delle modalità e, soprattutto, del
dimensionamento della possibile partecipazione dei privati
alla compagine societaria di un’affidataria in house è stata
demandata al nuovo Codice degli appalti il cui schema (ormai
al rush finale per l’approvazione definitiva) si limita a
una declaratoria generica. La disposizione specifica,
infatti, stabilisce soltanto che è ammessa la partecipazione
di capitali privati che non comportano controllo o potere di
veto e che non esercitano un’influenza determinante sulla
persona giuridica controllata.
Il Consiglio di Stato, nel
parere 01.04.2016 n. 855, evidenzia che la
norma inserita nello schema del nuovo Codice in materia di
appalti e concessioni si limita a produrre una formulazione
generica (del tutto simile a quella desumibile dall’articolo
17 del principio della direttiva comunitaria 2014/23) e non
indica, invece, il limite della partecipazione dei soci
privati, auspicando che sia inserito.
Il Consiglio di Stato non indica peraltro la necessità di un
limite quantitativo o la composizione di nuove norme ad
opera dello stesso legislatore delegato, ma piuttosto
sollecita un rinvio al quadro normativo già esistente.
E questo (anche se non esplicitato dal parere) è rinvenibile
nella regola stabilita dall’articolo 2359 del Codice civile
in base alla quale sono considerate società controllate
quelle che vengono a trovarsi in tre situazioni tipizzate.
La prima riguarda le società in cui un’altra società dispone
della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea
ordinaria, configurando un’ipotesi difficilmente
ipotizzabile per le società affidatarie dirette, soprattutto
per quelle pluripartecipate da amministrazioni pubbliche.
Più complesse sotto il profilo attuativo risultano le altre
due fattispecie, nelle quali la norma civilistica prevede il
controllo quando, in un caso, in una società un’altra
società dispone di voti sufficienti per esercitare
un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria e,
nell’altro, la società è sotto influenza dominante di
un’altra società in virtù di particolari vincoli
contrattuali con essa.
Entrambe le proiezioni dell’influenza del socio privato
lasciano presupporre che spetterà alle amministrazioni
pubbliche socie elaborare norme statutarie e patti
parasociali con adeguate clausole di garanzia, al fine di
assicurare il mantenimento del controllo pubblico anche in
caso di significative partecipazioni di privati.
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2016). |
TRIBUTI:
Terreni, la graffatura non conta. Area
pertinenziale anche se non accorpata al fabbricato.
Lo ha stabilito la Commissione tributaria
regionale di Milano: estesi i benefici fiscali.
Un terreno può essere qualificato pertinenziale anche se non
è accorpato catastalmente a un fabbricato e, quindi, non è
soggetto a imposta autonomamente. La «graffatura», vale a
dire l'unione dei due beni immobili in catasto, agevola
l'attività di controllo dell'ente impositore, ma non può
essere considerata decisiva per attribuire al terreno natura
pertinenziale.
Lo ha stabilito la Commissione tributaria regionale di
Milano, Sez. XIX, con la sentenza 14/2016.
Per i giudici d'appello, il fatto che un terreno non sia
censito al catasto urbano unitamente al fabbricato destinato
ad abitazione non può comportare il disconoscimento delle
agevolazioni «prima casa», perché per il fisco essendo il
terreno un bene autonomo allo stesso non potrebbe essere
riconosciuta natura pertinenziale.
In realtà, «la normativa
in materia di imposta di registro non prevede alcuna
limitazione tassativa rispetto ai beni che possono assumere
natura pertinenziale di un fabbricato, ai fini di potere
fruire delle cosiddette agevolazioni «prima casa», ma solo
una elencazione esemplificativa».
Secondo la commissione
regionale, «se è ben possibile ritenere che la graffatura
rappresenti manifestazione inequivoca della volontà del
proprietario di destinazione del terreno (area scoperta) a
servizio od ornamento del fabbricato principale cui è
agganciato; non può, al contrario, sostenersi che la mancata
graffatura escluda automaticamente e insuperabilmente tale
volontà, risultando tale interpretazione non conforme alla
normativa primaria di riferimento».
La tesi della Cassazione sull'Ici.
La regola stabilita dalla Ctr vale per l'imposta di
registro, ma lo stesso trattamento è applicabile oggi per
Imu e Tasi alle aree edificabili pertinenziali. Il principio
affermato dal giudice d'appello con la pronuncia in esame
trova conferma in precedenti pronunce della Cassazione
(sentenza 19638/2009) in materia di Ici.
I giudici di
legittimità hanno però riconosciuto il beneficio solo nei
casi in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo
dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di
variazione. Mentre dal punto di vista fiscale hanno ritenuto
irrilevante la circostanza che un'area pertinenziale e una
costruzione principale siano censite catastalmente in modo
distinto, al fine di poter essere assoggettate a tassazione
come un unico bene e di fruire delle agevolazioni.
Tuttavia,
il vincolo pertinenziale deve essere visibile e va rilevato
dallo stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che in
catasto l'area e il fabbricato non risultino accorpati. In
caso contrario, i due immobili sono soggetti a imposizione
autonomamente. Già con la sentenza 5755/2005 hanno stabilito
che quando si tratta di pertinenza di un fabbricato non
contano le risultanze catastali, ma la destinazione di
fatto.
L'area che costituisce, di fatto, pertinenza di un
fabbricato non è soggetta a Ici, come area edificabile,
anche se iscritta autonomamente al catasto. Sempre la
Cassazione, con la sentenza 17035/2004, richiamata nella
motivazione della sentenza 19638/2009, aveva chiarito che
per le aree pertinenziali non si introduce alcuna
particolare e nuova accezione di pertinenza, ma,
semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va
fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale,
dall'articolo 817 del codice civile. Questa norma prevede
che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo
durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa.
Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole
destinazione della cosa accessoria a servizio od ornamento
di quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di
creare la destinazione. Accertare la sussistenza di questo
vincolo comporta un apprezzamento di fatto. Il tributo,
dunque, non può essere richiesto per l'assenza di
accorpamento (cosiddetta «graffatura») dell'area al contiguo
fabbricato, ancorché costituenti unità catastali separate.
L'autonomo accatastamento non rende irrilevante l'uso di
fatto del terreno come pertinenza. Tanto meno rileva la
presenza o meno di segni grafici, che sono inconsistenti sul
piano probatorio.
La posizione dell'Agenzia delle entrate.
Anche l'Agenzia delle entrate si dovrebbe allineare alla
tesi della Cassazione sul trattamento dei terreni e delle
aree edificabili che sono destinati, di fatto, a pertinenze
dei fabbricati. La Ctr di Milano ha giudicato infondata la
circolare del fisco sulle pertinenze.
L'Agenzia delle entrate
(circolare 38/2005), infatti, non riconosce le agevolazioni
per l'acquisto della prima casa, il cui atto di
trasferimento sconta il pagamento dell'Iva o dell'imposta di
registro, alle aree che siano autonomamente censite al
catasto terreni. In questi casi non vengono considerate
pertinenze anche se durevolmente destinate al servizio di un
fabbricato urbano.
Secondo l'Agenzia i terreni «non
graffati» all'immobile agevolato, in quanto iscritti
autonomamente nel catasto terreni, non possono avvalersi del
beneficio fiscale. Per godere dell'agevolazione le «aree
scoperte» pertinenziali devono risultare censite al catasto
urbano unitamente al fabbricato. In realtà,
l'amministrazione finanziaria non nega che alle pertinenze
debba essere riconosciuto un trattamento agevolato, ma non
ammette che questa qualificazione possa essere attribuita ai
terreni.
Con la suddetta circolare ha chiarito che sono
ricomprese tra le pertinenze, limitatamente a una per
ciascuna categoria, le unità immobiliari classificate o
classificabili nelle categorie catastali C/2 (cantine,
soffitte, magazzini), C/6 (autorimesse, rimesse, scuderie) e
C/7 (tettoie chiuse o aperte), che siano utilizzate in modo
durevole al servizio della casa di abitazione oggetto
dell'acquisto agevolato.
Tra l'altro, per l'Agenzia, l'area pertinenziale è soggetta
ai limiti fissati dall'articolo 5 del decreto ministeriale
del 02.08.1969, in base al quale si considerano
abitazioni di lusso le case che hanno come pertinenza
un'area scoperta della superficie di oltre sei volte
rispetto a quella coperta.
E superando questi limiti il contribuente non avrebbe
comunque diritto ai benefici fiscali
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusivismo con prescrizione limitata.
Edilizia. Per le Sezioni unite, se il Comune
non risponde in 60 giorni il conteggio riparte.
Più difficile la
prescrizione dei reati urbanistici, per la
sentenza 13.04.2016 n. 15427
delle Sezz. unite penali della Corte di Cassazione (tratta
da www.lexambiente.it)).
Concludendo una vicenda di condoni edilizi nati dalla legge
47/1985 (cioè con procedure più volte prorogate fino al 31.12.1993), i giudici hanno cristallizzato due princìpi
sulla prescrizione quinquennale:
-
se si presenta al Comune istanza di accertamento di
conformità (articolo 36, Dpr 380/2001), il processo è
sospeso e quindi il quinquennio non decorre;
-
la prescrizione ricomincia a decorrere se il Comune non si
pronuncia entro 60 giorni.
È quindi inutile che l’imputato o il difensore chiedano al
giudice di mantenere a lungo sospeso il processo, sperando
nel fluire del quinquennio in attesa che l’ente si pronunci.
Per meglio comprendere l’utilità della sentenza, giova
ricordare che la condanna penale è un serio rischio per chi
costruisce abusivamente, sia per le conseguenze
professionali su imprese e tecnici sia perché gli articoli
31 e 44 del Dpr 380 prevedono che il giudice penale ordini
la demolizione delle opere, se non ha già provveduto il
sindaco.
Per frenare le macchine sanzionatorie amministrativa
(comunale) e giudiziaria (penale), gli autori degli abusi
ricorrevano a procedure intricate, chiedendo la sanatoria
(possibile fino a tutto il 1993) o un "accertamento di
conformità” nel caso in cui l’abuso risultasse genericamente
sanabile: in tale situazione, per ragioni che la Cassazione
ha più volte definito “imperscrutabili”, i procedimenti
amministrativi si arenavano e non rispettavano i corretti
tempi di decisione (60 giorni dall’istanza di accertamento).
Così, facendo leva sull’inerzia dei Comuni, gli imputati
ottenevano lunghe sospensioni dei processi, che si
concludevano quando gli enti si pronunciavano
sfavorevolmente.
Ma anche in caso di provvedimento sfavorevole gli imputati
ottenevano vantaggi, perché con poca lealtà, chiedevano
comunque di calcolare a loro favore gli anni passati in
attesa del provvedimento. Tutto ciò rendeva agevole
accumulare i cinque anni entro i quali si consuma il potere
sanzionatorio penale (compreso, quindi, il potere del
giudice di disporre la demolizione). In sostanza, attraverso
labirinti penali ed amministrativi, si generava una
sostanziale impunità.
Con la sentenza di ieri, la prescrizione penale resta di
cinque anni, ma non subisce più interruzioni chieste per
mera strategia processuale: l’imputato potrà far valere,
come periodo valido ai fini del quinquennio, solo i primi 60
giorni dall’istanza di accertamento di conformità. Tutti gli
altri periodi di sospensione del processo, ottenuti con poca
trasparenza, non gli saranno utili ai fini del calcolo e
quindi non danneggeranno il potere d’intervento della
magistratura penale.
Non potendo intervenire sulla durata della prescrizione (una
modifica normativa non potrebbe essere retroattiva), la
Cassazione snellisce quindi il procedimento, restituendo
linearità e tempi definiti ai poteri giudiziari e
all’operato dei Comuni (articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanatoria e prescrizione del reato urbanistico.
Il periodo di sospensione del processo disposto dal giudice
nelle ipotesi di presentazione di istanza per la concessione
in sanatoria, ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, deve
essere considerato ai fini del computo dei termini di
prescrizione del reato edilizio, e, in caso di successive
istanze di rinvio del processo dinanzi al giudice penale ed
all’esito negativo della domanda amministrativa di rilascio
della concessione edilizia in sanatoria, si applicano le
disposizioni previste dall’art. 159, comma 1, par. 3), del
codice penale per effetto di richieste di rinvio su istanze
del privato.
---------------
1. Le questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle
Sezioni
Unite sono le seguenti:
- "se la sospensione del processo, prevista nel caso di
presentazione della
istanza di 'accertamento di conformità', ex art. 36 d.P.R.
n. 380 del 2001 (già
art. 13 legge n. 47 del 1985), debba essere considerata ai
fini del computo dei
termini di prescrizione del reato edilizio";
- "se, in caso di sospensione del processo disposta su
richiesta dell'imputato
o del suo difensore oltre il termine previsto per la
formazione del silenzio-rifiuto
ex art. 36 d.P.R. cit., operi la sospensione del corso della
prescrizione a norma
dell'art. 159, primo comma, n. 3, cod. pen.".
2. Occorre preliminarmente richiamare l'attenzione sulle
differenze
intercorrenti tra la disciplina del "condono edilizio", di
cui alle leggi 28.02.1985, n. 47, 23.12.1994, n. 724, e 24.11.2003,
n. 326
(quest'ultima di conversione, con modificazioni, del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269), e quella della "sanatoria" conseguente ad
accertamento di
conformità, disciplinata dall'art. 36 del Testo Unico
dell'edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), specificamente riguardante la questione
sottoposta all'attenzione
delle Sezioni Unite.
Come è noto, con la legge 28.02.1985, n. 47, si è
individuata, per la
prima volta, una disciplina organica dell'attività edilizia,
sulla quale era in
precedenza intervenuta la legge 28.01.1977, n. 10,
operandosi una
consistente revisione della normativa previgente.
L'entrata in vigore della legge n. 47/1985 venne accompagnata
dalla
previsione del primo condono edilizio, che aveva lo scopo di
dare un netto taglio
al passato, recuperando le opere abusive fino ad allora
realizzate.
Tale scelta legislativa, venne poi replicata, per ragioni di
razionalizzazione
della finanza pubblica, con la legge 23.12.1994, n.
724, e,
successivamente, con la legge 24.11.2003, n. 326, la
quale convertiva,
con modificazioni, il decreto-legge 30.09.2003, n.
269.
La legge n. 724/1994 e la successiva legge n. 326/2003, pur
prevedendo,
per la definizione degli illeciti edilizi presi in
considerazione, requisiti e formalità
differenti, fanno comunque riferimento alle disposizioni di
cui ai capi IV e V della
legge n. 47 del 1985, alle quali hanno anche apportato
modifiche.
3. Come si rileva, dunque, dalla lettura delle menzionate
disposizioni, il condono edilizio si caratterizza per l'efficacia limitata
nel tempo, poiché è
finalizzato alla regolarizzazione di determinati abusi
edilizi realizzati entro un
limite temporale individuato dalla norma.
Il suo effetto estintivo, inoltre, consegue al pagamento di
un'oblazione,
formalizzato attraverso l'attestazione, da parte
dell'autorità comunale, della
congruità di quanto corrisposto a tale titolo.
Esso opera, peraltro, anche con riferimento ad interventi in
contrasto con gli
strumenti urbanistici e produce effetti estintivi anche
verso reati conseguenti alla
violazione delle norme antisismiche e sulle costruzioni in
cemento armato.
La sanatoria disciplinata dagli articoli 36 e 45 d.P.R. n.
380/2001 (e, in
precedenza, dagli artt. 13 e 22 legge n. 47 del 1985)
opera,
al contrario, su un
piano del tutto diverso, in quanto destinata, in via
generale, al recupero degli
interventi abusivi previo accertamento della conformità
degli stessi agli strumenti
urbanistici generali e di attuazione, nonché alla verifica
della sussistenza di altri
requisiti di legge specificamente individuati.
In base al menzionato articolo 36, la sanatoria può essere
ottenuta quando
l'opera eseguita in assenza del permesso sia conforme agli
strumenti urbanistici
generali e di attuazione approvati o non in contrasto con
quelli adottati, tanto al
momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento
della presentazione
della domanda, che può avvenire fino alla scadenza dei
termini di cui agli articoli
31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e, comunque, fino
all'irrogazione
delle sanzioni amministrative.
Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile
del competente
ufficio comunale deve pronunciarsi -con adeguata
motivazione- entro sessanta
giorni, trascorsi inutilmente i quali la domanda si intende
respinta. L'istanza è
subordinata, inoltre, al pagamento di una somma a titolo di
oblazione, secondo
le modalità descritte nello stesso articolo.
In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il
rilascio della
sanatoria «estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche
vigenti», con esclusione, quindi, di altri reati
eventualmente concorrenti.
4. Si tratta, dunque, di istituti che hanno finalità ed
ambito di applicazione
del tutto differenti e che non possono essere confusi, come
ha già rilevato la
giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 6331 del
20/12/2007, dep. 2008,
Latteri, Rv. 238822; Sez. 3, n. 10307 del 28/09/1988, Serra, Rv. 179501; Sez. 3,
n. 9797 del 22/06/1987, Scarcella, Rv. 176643),
riconoscendo,
tra l'altro, la
specialità della disciplina del condono edilizio rispetto a
quella della sanatoria
conseguente all'accertamento di conformità (Sez. 3, n. 23996
del 12/5/2011, De
Crescenzo, Rv. 250607).
A conclusioni analoghe è peraltro pervenuta anche la
giurisprudenza
amministrativa, rilevando l'antiteticità dei presupposti dei
due procedimenti di
sanatoria, per il fatto che il condono edilizio concerne il
perdono ex lege per la
realizzazione, senza titolo abilitativo, di un manufatto in
contrasto con le
prescrizioni urbanistiche, comportante una violazione
sostanziale, mentre la sanatoria riguarda l'accertamento postumo della conformità
dell'intervento
edilizio realizzato senza permesso di costruire agli
strumenti urbanistici e
riguarda una violazione formale (così, Cons. Stato, sez. 6,
n. 466 del
02/02/2015).
5. Entrambe le procedure, tuttavia, presuppongono periodi di
sospensione,
diversamente disciplinati, che assumono specifico rilievo
riguardo al computo del
termine massimo di prescrizione del reato.
In particolare, per ciò che concerne il condono edilizio,
sono state
individuate due distinte cause di sospensione del processo.
La prima, prevista dall'art. 44 legge n. 47/1985, definita
"automatica", in
quanto applicabile a tutti i procedimenti in cui risulti
contestato un reato
urbanistico o commessa una violazione di detta normativa,
indipendentemente
dalla presentazione o meno di una domanda di condono e
quantificata in 223
giorni.
Detta quantificazione veniva effettuata dalle Sezioni Unite
(sent. n. 1283 del
03/12/1996, dep. 1997, Sellitto, Rv. 206849), chiamate a
risolvere il contrasto
venutosi a creare in ordine al calcolo dei termini
complessivi di sospensione del
decorso della prescrizione in conseguenza della mancata
conversione di vari
decreti legge, succedutisi nel tempo prima della
approvazione della legge n.
724/1994.
La seconda causa di sospensione, prevista dall'art. 38 della
stessa legge,
indicata come "obbligatoria" -ma subordinata
all'accertamento di determinati
presupposti, quali la presentazione di una domanda di
condono relativa
all'immobile abusivo oggetto del processo realizzato nei
limiti temporali stabiliti
ed il versamento della prima rata di oblazione
autodeterminata- che non può
superare i due anni.
Sull'applicabilità in concreto delle sospensioni previste
dalle disposizioni sul condono edilizio si contrapponevano, tuttavia, opposti
indirizzi giurisprudenziali,
in quanto, secondo un primo orientamento, maggioritario,
tanto la sospensione
"automatica", quanto quella "obbligatoria" erano applicabili
a tutti i procedimenti
riguardanti i reati edilizi indicati agli artt. 38, comma 2,
legge n. 47/1985 e 39,
comma 8, legge n. 724/1994; e ciò indipendentemente dall'epoca
di commissione
degli illeciti (considerato il requisito temporale previsto
per la condonabilità delle
opere) e dall'effettiva sospensione disposta con
provvedimento del giudice.
L'altro indirizzo, invece, escludeva l'applicabilità della
sospensione ai reati la
cui consumazione risultava, sulla base della contestazione e
degli atti del
procedimento, proseguita dopo il 31.12.1993, data
individuata dalla legge
n. 724/1994 quale termine ultimo per il completamento delle
opere, che ne
consentiva la condonabilità.
Le Sezioni Unite (sent. n. 22 del 24/11/1999, Sadini, Rv.
214792), chiamate
a risolvere il contrasto, hanno ritenuto preferibile
quest'ultimo indirizzo
interpretativo, sulla base del dato letterale dell'art. 39,
comma 1, legge n.
724/1994, il quale richiama, tra l'altro, il capo IV della
legge n. 47/1985 -nel
quale sono compresi gli artt. 44 e 38, che riguardano le due
ipotesi di
sospensione dei procedimenti penali e che fanno, a loro
volta, riferimento agli
artt. 35 e 31, concernenti la presentazione della domanda di
condono-
osservando come esso non sembri consentire una
interpretazione diversa da
quella secondo la quale la data del 31.12.1993
costituisce uno dei
presupposti per la condonabilità e per la sospensione dei
procedimenti penali.
Veniva ulteriormente rilevato che l'inesistenza di detto
presupposto
impediva non soltanto il condono delle opere abusive, ma
anche la sospensione
del procedimento penale e ciò indipendentemente dal fatto
che il giudice avesse
disposto o negato la sospensione del procedimento,
dovendosi, nel primo caso,
ritenere la sospensione inesistente per assenza, appunto,
del suo fondamentale
presupposto.
Analoga lettura delle richiamate disposizioni veniva
successivamente offerta
dalla Terza Sezione penale (Sez. 3, n. 21679 del 06/04/2004, Paparusso, Rv.
229319. V. anche Sez. 3, n. 47342 del 15/11/2007,
Maffongelli, Rv. 238619;
nonché Sez. 3, n. 40434 del 13/07/2006, Gambino, Rv. 236270,
non massimata sul punto), osservandosi che, mentre l'art. 31
legge n. 47/1985, nella sua
formulazione testuale, prevedeva una serie di requisiti
esclusivamente in
relazione alla possibilità di conseguire la concessione o la
autorizzazione in
sanatoria, l'art. 32, comma 25, decreto legge n. 269/2003,
poi convertito dalla
legge n. 326/2003 (come già l'art. 39 legge n. 724/1994),
subordinava
l'applicazione degli interi capi 4 e 5 della legge n.
47/1985 all'esistenza di
determinati requisiti di condonabilità dell'opera.
6. Conseguentemente, l'art. 44 legge n. 47/1985 veniva
ritenuto applicabile
nei soli casi di oggettiva presenza di detti requisiti, in
assenza dei quali era
esclusa anche l'applicabilità dell'art. 39 della legge
medesima (il quale prevede
l'estinzione dei reati conseguente alla mera effettuazione
dell'oblazione, «qualora
le opere non possano conseguire la sanatoria»), osservandosi
che risulterebbe
incongruo argomentare che la sospensione possa essere
comunque finalizzata a
conseguire il beneficio già previsto da tale ultima norma.
Va anche ricordato che, in relazione al difetto dei
requisiti di condonabilità,
la possibilità di sospensione del processo era stata esclusa
in caso di richiesta di
condono presentata per violazioni edilizie relative a nuove
costruzioni non
residenziali, in quanto l'art. 32 legge n. 326/2003 limita
l'applicabilità del condono
edilizio alle sole nuove costruzioni residenziali (Sez. 3,
n. 8067 del 19/01/2007,
Zenti, Rv. 236084; Sez. 3, n. 14436 del 17/02/2004, Longo, Rv. 227959; Sez.
3, n. 3358 del 18/11/2003, dep. 2004, Gentile, Rv. 227178);
in relazione a
interventi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
rientranti tra quelli esclusi
dal condono dall'art. 32, comma 26, lett. a), legge n.
326/2003 (Sez. 3, n. 9670
del 26/01/2011, Rizzo, Rv. 249606; Sez. 3, n. 38113 del
03/10/2006, De Giorgi,
Rv. 235033; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci, Rv.
231315 ed altre
conformi) o, più in generale, in caso di presentazione di
domanda di sanatoria
strumentale o dilatoria e inerente a un fabbricato non
ultimato entro il termine
stabilito (Sez. 3, n. 5452 del 17/03/1999, Somma G, Rv.
213369).
La
sospensione è stata inoltre esclusa anche con riferimento al
c.d. "condono
paesaggistico" di cui all'art. 37 legge n. 308/2004,
mancando una espressa
previsione normativa ed in assenza di qualsivoglia
correlazione con le
disposizioni in tema di condono edilizio (Sez. 3, n. 16471
del 17/02/2010,
Giardina, Rv. 246759, non rnassimata sul punto; Sez. 3, n.
32529 del
19/04/2006, Martella, Rv. 234934).
Si è chiarito, inoltre, che la sospensione riguarda soltanto
la fase del giudizio
e non anche quella delle indagini preliminari (Sez. 3, n.
48986 del 09/11/2004,
Cerasoli, Rv. 230475).
In altre decisioni si è poi affermato che l'omessa
sospensione del
procedimento da parte del giudice non può essere dedotta
quale vizio della
decisione eventualmente presa, non determinandosi alcuna
nullità, stante
l'assenza di una previsione di legge in tal senso (Sez. 3,
n. 19235 del
15/02/2005, Benzo, Rv. 231848; Sez. 3, n. 7847 del
27/05/1998, Todesco, Rv.
211354; Sez. 3, n. 11422 del 29/09/1997, Onolfo, Rv. 210101
ed altre
conformi), osservandosi, tra l'altro, che la sospensione del
processo opera
indipendentemente dalla pronuncia del giudice, avente natura
meramente
dichiarativa, purché sussistano i presupposti di legge e può
essere accertata
anche in sede di giudizio finale (Sez. 3, n. 3871 del
22/10/2010, dep. 2011, Pisa,
Rv. 249151, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 22921 del
06/04/2006,
Guercio, Rv. 234475; Sez. 3, n. 6054 del 12/03/1999,
Bartaloni, Rv. 213763 ed
altre conformi)
Inoltre, qualora applicata, la sospensione deve riguardare
l'intero
procedimento quando il giudice di merito, riconoscendo il
vincolo della
continuazione, abbia proceduto unitariamente per varie
ipotesi di reato, delle
quali alcune soltanto siano divenute estinguibili a seguito
di condono (v. per
tutte Sez. U, n. 9080 del 09/06/1995, Luongo, Rv. 201861).
La possibilità di sospendere il procedimento a seguito della
presentazione
della domanda di condono edilizio (nella specie, ai sensi
della legge n. 326/2003) è
stata anche esclusa in caso di inammissibilità del ricorso
per cassazione per
manifesta infondatezza dei motivi, sul presupposto che la
sospensione deve
essere disposta con riferimento ai procedimenti in corso,
mentre, impedendo
l'inammissibilità del ricorso la formazione di un valido
rapporto di impugnazione,
non può ritenersi che tale condizione si sia verificata
(Sez. 3, n. 35084 del
25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, non massimata sul punto;
Sez. 3, n. 9536 del
20/01/2004, Mancuso, Rv. 227404; Sez. 3, n. 979 del
27/11/2003, dep. 2004,
Nappo, Rv. 227950; Sez. 3, n. 5309 del 13/11/2003, dep.2004, Sciaccovelli, Rv.
227556).
7. Alla luce di quanto affermato dalla sentenza Sadini delle
Sezioni Unite, si
è ricavato -considerando la formulazione "speculare"
dell'art. 32, comma 25,
d.l. n. 269/2003 rispetto all'art. 39 legge n. 724/1994,
preso in esame nella
menzionata decisione- un ulteriore principio generale,
secondo il quale il
giudice, già prima di sospendere il processo in forza
dell'art. 44 legge n.
47/1985, deve effettuare un controllo in ordine alla
sussistenza dei requisiti
richiesti per la concedibilità in astratto del condono,
perché, diversamente
opinandosi, si allungherebbero «inevitabilmente ed
inutilmente i tempi del
processo» e, nel caso in cui il giudice sospenda il processo
in assenza dei presupposti di legge, la sospensione deve
ritenersi inesistente (Sez. 3, n. 9670
del 26/01/2011, Rizzo, cit.; Sez. 3, n. 563 del 17/11/2005,
dep. 2006, Martinico,
Rv. 233011; Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv.
229652, cit.; Sez. 3,
n. 3350 del 13/11/2003, dep. 2004, Lasí, Rv. 227217).
L'ambito del controllo relativo alle condizioni legittimanti
l'accesso alla
procedura di sanatoria riguarda, secondo altra pronuncia, la
data di esecuzione
delle opere; lo stato di ultimazione delle stesse secondo la
nozione fornita
dall'art. 31 della legge n. 47/1985; il rispetto dei limiti
volumetrici; eventuali
esclusioni oggettive della tipologia d'intervento dalla
sanatoria, nonché la
tempestività della presentazione, da parte di soggetti
legittimati, di una
domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate
nel capo di
imputazione (Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Termíniello,
Rv. 237824; Sez. 3,
n. 28517 del 29/05/2007, Marzano, Rv. 237140, non massímata
sul punto).
Il successivo accertamento dell'inesistenza dei presupposti
per l'applicazione
del condono, tuttavia, non determina inevitabilmente
l'inesistenza della
sospensione, perché, a tal fine, deve ovviamente prendersi
in considerazione la
situazione prospettatasi al giudice nel momento in cui ha
pronunciato la relativa
ordinanza.
Sempre tenendo conto di quanto affermato nella sentenza
Sadíní, si è del
tutto correttamente rilevato come, in tale pronuncia, venga
affermato che, in
tema di condono edilizio, le cause di sospensione del
processo penale sono
soltanto quelle previste dalla legge, che richiedono
determinati presupposti, in
difetto dei quali la sospensione eventualmente disposta non
può produrre
risultati efficaci.
Ciò implica, tuttavia, che l'inesistenza di una valida causa
di sospensione
risulti dagli atti processuali o dalla stessa contestazione
del reato e sia,
conseguentemente, immediatamente rilevabile dal giudice,
perché, altrimenti, il
successivo accertamento della inesistenza dei requisiti per
l'applicazione della
causa estintiva della contravvenzione non farebbe venir meno
la correttezza
dell'iniziale ordinanza sospensiva (e, quindi, gli effetti
ad essa connessi, della
conseguente sospensione della prescrizione), avendo il
giudice proceduto nella
esatta osservanza di quanto previsto dalla legge (Sez. 3, n.
8536 del
18/05/2000, Zarbo, Rv. 217754; conf. Sez. 3, n. 29253 del
24/06/2005, Di
Maio, Rv. 231951).
È di tutta evidenza che le argomentazioni sviluppate nelle
richiamate
decisioni assumono particolare rilievo per ciò che concerne
il computo dei termini
di prescrizione, sulla decorrenza dei quali incide, in
maniera significativa, la
sospensione del procedimento.
8. Per ciò che riguarda, invece, il diverso istituto della
sanatoria
conseguente ad accertamento di conformità, va osservato come
il già
menzionato art. 45 d.P.R. n. 380/2001 stabilisca, al comma 1,
che l'azione penale
relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non
siano stati esauriti i
procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all'art. 36.
Tale articolo dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta
di sanatoria il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
deve pronunciarsi
entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda,
poiché, decorso tale
termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato
orientamento, una
ipotesi di silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 17954 del
26/02/2008, Termini, Rv. 240234;
Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, Rv. 232181; Sez.
3, n. 16706 del
18/02/2004, Brilla, Rv. 227960; Sez. 3, n. 10640 del
30/01/2003, Petrillo, Rv.
224353), al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di
diniego.
Pur verificandosi tale evenienza, tuttavia,
l'Amministrazione non perde il
potere di provvedere, in quanto il silenzio-rigetto è
esplicitamente previsto al
solo fine di consentire all'interessato di adire il giudice
(ex plurimis Sez. 3, n.
17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240233. V. anche Sez. 3,
n. 11604 del
11/11/1993, Schiavazzi, Rv. 196069; Sez. 3, n. 16245 del
10/10/1989, Allegrini,
Rv. 182627), sebbene l'eventuale instaurazione di un
procedimento
amministrativo avviato mediante ricorso avverso il diniego
di sanatoria non
comporti alcuna estensione della durata della sospensione
fino alla sua
definizione (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, Rv.
265085; Sez. 3, n.
24245 del 24/03/2010, Chiarello, Rv. 247692; Sez. 3, n.
48523 del 18/11/2009,
Righetti, Rv. 245418, non massimata sul punto; Sez. 6, n.
4614 del 13/01/1994,
Cammariere, Rv. 197767; Sez. 3, n. 12779 del 02/12/1991,
Leggio, Rv.
188743), come rilevato anche dalla Corte costituzionale nel
dichiarare la
manifesta infondatezza della questione di legittimità
dell'art. 22, primo comma,
della legge 28.02.1985, n. 47 (ord. n. 247 del 2000,
la quale richiama
anche la sentenza n. 85 del 1998 e l'ordinanza n. 309 del
1998).
Il provvedimento con il quale il giudice dispone la
sospensione richiede,
peraltro, il previo accertamento della effettiva sussistenza
dei presupposti
necessari per il conseguimento della sanatoria e, inoltre,
la mancata sospensione
-in assenza di espressa previsione normativa e non
configurandosi pregiudizi al
diritto di difesa dell'imputato, potendo questi far valere
l'esistenza o la
sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di
giudizio- non
determina alcuna nullità (Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005,
Pescara, cit.).
La sospensione, inoltre, non opera con riferimento ai reati
esclusi dagli
effetti estintivi determinati dal rilascio della concessione
in sanatoria,
diversamente da quanto previsto in materia di condono (Sez.
3, n. 50 del
07/11/1997, dep. 1998, Casà, Rv. 209662).
9. Il richiamo, effettuato espressamente dall'art. 45 d.P.R.
n. 380/2001 all'art.
36 dello stesso decreto, il quale prevede, all'ultimo comma,
il termine di
sessanta giorni entro il quale il dirigente o il
responsabile del competente ufficio
comunale deve pronunciarsi sulla domanda di sanatoria,
limita -evidentemente- la durata della sospensione a tale determinato lasso
temporale. In tal senso si
è, peraltro, più volte espressa anche la Corte
costituzionale (ordd. nn. 304 e 201
del 1990; n. 423 del 1989).
Sebbene in precedenza (Sez. U, n. 10849 del 01/10/1991,
Mapelli, Rv.
188579) si sia affermato che, in mancanza di impugnazione,
la sospensione del
procedimento, ai sensi dell'allora vigente art. 22 legge n.
47/1985, anche se
disposta fuori dei limiti consentiti, produce i suoi effetti
propri, tra cui la
sospensione del corso della prescrizione, in una successiva
pronuncia delle
Sezioni Unite (n. 4154 del 27/03/1992, Passerotti, Rv.
190245), si è osservato
come la sospensione dipenda direttamente dalla richiesta del
titolo abilitativo in
sanatoria e la sua durata corrisponda al tempo stabilito
dalla legge per la
definizione del procedimento, cioè per sessanta giorni dalla
richiesta, con la
conseguenza che il provvedimento del giudice, avente natura
meramente
dichiarativa, non può svolgere alcun ruolo preclusivo,
cosicché non potrà
assumere rilievo una sospensione disposta in mancanza delle
condizioni stabilite,
né un periodo di sospensione superiore a quello fissato
dalla legge.
A tali principi si sono adeguate successive pronunce, le
quali hanno
considerato limitato il periodo di sospensione a soli
sessanta giorni (Sez. 3, n.
16706 del 18/02/2004, Brilla, cit.; Sez. 3, n. 10640 del
30/01/2003, Petrillo, Rv.
224353; Sez. 3, n. 2220 del 26/01/1999, Sasso, Rv. 212717),
evidenziando
anche la preclusione, per il giudice penale, a sindacare la
legittimità del
provvedimento della competente autorità amministrativa di
diniego di rilascio del
permesso di costruire in sanatoria (Sez. 3, n. 36902 del
13/05/2015, Milito, cit.;
Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, cit.).
10. Anche riguardo alla disciplina della sanatoria per
accertamento di
conformità, come già osservato con riferimento al condono
edilizio, la prevista
sospensione assume rilievo determinante ai fini del calcolo
dei termini di
prescrizione del reato e proprio con riferimento ad essa è
stato rilevato il
contrasto che ha portato alla rimessione della questione
alle Sezioni Unite.
Si è infatti ritenuta, in una prima pronuncia (Sez. F, n.
34938 del
09/08/2013 Bombaci, Rv. 256714), l'illegittimità
dell'ordinanza di sospensione
dei termini di prescrizione per un tempo superiore alla
durata della procedura
amministrativa per la definizione della sanatoria e
conseguente al differimento
del procedimento penale, disposto su richiesta della difesa
proprio in ragione
della pendenza della procedura medesima.
La sospensione è stata infatti considerata in contrasto con
il disposto degli
artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, con il
limite temporale massimo
di sessanta giorni fissato dalla legge per la definizione
del procedimento
finalizzato al rilascio del titolo abilitativo sanante,
trascorso il quale la domanda
si intende respinta.
A tale indirizzo interpretativo si è successivamente
contrapposta altra
decisione (Sez. 3, n. 41349 del 28/05/2014, Zappalorti, Rv.
260753), nella
quale, in presenza di un rinvio disposto su richiesta della
difesa e giustificato
dalla pendenza del procedimento amministrativo,
successivamente non
perfezionatosi, di sanatoria edilizia di un immobile
abusivo, l'operatività della
sospensione ai fini del computo dei termini di prescrizione
è stata estesa per
l'intera durata del differimento.
Dichiarando di non condividere il diverso orientamento
espresso dalla
menzionata sentenza Bombaci, la Terza Sezione ricorda come
le Sezioni Unite
(n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220509),
sostanzialmente
anticipando quanto poi espressamente stabilito dal
legislatore con le modifiche
apportate, nel 2005, all'art. 159 cod. pen., abbiano
affermato che «oggi il
processo vive prevalentemente delle iniziative non solo
istruttorie delle parti
anche private, che hanno il potere di contribuire
autonomamente a determinare
tempi, modalità e contenuti delle attività processuali. Le
parti non hanno più solo
poteri limitativi dell'autorità del giudice, ma condividono
con il giudice la
responsabilità dell'andamento del processo. E debbono
assumersi
conseguentemente gli oneri connessi all'esercizio dei loro
poteri».
La sentenza Zappalorti
ritiene, dunque, del tutto incongrua
un'interpretazione della norma «che consenta alla stessa
parte che ha chiesto ed
ottenuto il rinvio della udienza, pur in mancanza dei
presupposti legittimanti, di
lamentare la correlata considerazione della sospensione
della prescrizione
proprio da tale rinvio derivante» (analoghe considerazioni
erano state svolte, in
precedenza, in Sez. 3, n. 26409 del 08/05/2013, C., Rv.
255579), pur
distinguendo le diverse ipotesi in cui il rinvio sia stato
invece disposto per
impedimento della parte o del difensore, ovvero, in pendenza
di sanatoria e oltre
il sessantesimo giorno dall'avvio del relativo procedimento
amministrativo, sia disposto d'ufficio dal giudice, in
mancanza di richiesta di parte, riconoscendo, in
tali casi, una operatività del rinvio limitata a soli
sessanta giorni.
11. Tale ultimo indirizzo interpretativo risulta pienamente
condivisibile.
Invero, la sentenza Bombaci, pur partendo da un presupposto
corretto e,
cioè, che la sospensione ex lege del procedimento, in
pendenza della domanda di
sanatoria, è limitato, come si è precisato in precedenza, a
soli sessanta giorni,
giunge a conclusioni errate laddove sembra fondare la
riconosciuta illegittimità
del differimento oltre il sessantesimo giorno sul
presupposto che la decorrenza di
detto termine comporti il silenzio-rigetto, considerando
quindi ogni ulteriore
rinvio (e la conseguente sospensione dei termini di
prescrizione), anche se
espressamente richiesto al giudice, come ingiustificato.
Una simile affermazione non tiene conto del fatto che,
nonostante il decorso
del termine ed il significativo silenzio
dell'amministrazione competente, questa
non perde il potere di rilasciare comunque, in presenza dei
presupposti di legge,
il permesso di costruire in sanatoria, cosicché una
eventuale richiesta di rinvio in
previsione dell'accoglimento della domanda già presentata
risulterebbe
pienamente giustificato, considerato, peraltro, i
vantaggiosi effetti per l'imputato
che conseguono al rilascio del titolo abilitativo postumo.
Al contrario, del tutto irragionevoli risulterebbero le
conseguenze di una
diversa lettura delle disposizioni richiamate che
considerino non superabile, in
ogni caso, il termine di sospensione di sessanta giorni.
Invero, detto termine di definizione del procedimento
amministrativo di
sanatoria non viene, in pratica, quasi mai rispettato per
diverse ragioni, e gli
effetti, decisamente negativi per il richiedente,
conseguenti al fatto che dopo il
decorso del temine la domanda si intende rifiutata, sono
sostanzialmente
compensati dalla più volte ricordata possibilità, per
l'amministrazione
competente, di rilasciare comunque la sanatoria anche oltre
il sessantesimo
giorno dalla presentazione della richiesta.
Ebbene, accedendo all'orientamento secondo il quale ogni
ulteriore
sospensione del procedimento, comunque disposta, sarebbe
illegittima, si
verrebbe a configurare una singolare situazione, nella
quale, al fine di evitare il
decorso dei termini di prescrizione, il giudice si vedrebbe
costretto a proseguire
comunque nella trattazione del processo, anche in presenza
di una espressa
richiesta in tale senso della parte.
Ciò detto, va chiarito che devono comunque tenersi distinte
l'ipotesi della
sospensione ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e
45 d.P.R. n. 380/2001
e quella della sospensione conseguente al rinvio su istanza
di parte.
Nel primo caso, infatti, vanno applicati i principi,
richiamati in precedenza e
sviluppati con riferimento tanto alla disciplina del condono
che a quella sulla
sanatoria per accertamento di conformità, i quali
presuppongono, ai fini della
legittimità della sospensione, la previa verifica, da parte
del giudice, della
oggettiva sussistenza dei presupposti di legge.
L'analisi effettuata dalla giurisprudenza è stata
particolarmente
approfondita, come si è visto, riguardo alla più ampia
casistica sviluppatasi in
relazione al condono, sebbene conclusioni non dissimili
siano state tratte anche
con riferimento alla sanatoria per accertamento di
conformità.
Ne consegue che, a fronte di una situazione, risultante
chiaramente dagli
atti o dall'imputazione, che evidenzi, pacificamente e senza
necessità di specifici
accertamenti, l'assenza dei requisiti per l'accoglimento
della domanda, come, ad
esempio, in caso di plateale contrasto delle opere con le
previsioni degli
strumenti urbanistici, la sospensione, per il periodo di
sessanta giorni indicato
dalla legge per la definizione del procedimento
amministrativo (o per quello,
superiore, eventualmente indicato nel provvedimento che la
dispone), non potrà
operare e, se disposta comunque dal giudice, autonomamente e
senza richiesta
di parte, non potrà produrre effetti di sospensione dei
termini di prescrizione.
Per contro, avranno in ogni caso effetti sospensivi del
corso della
sospensione i rinvii disposti in accoglimento di una
richiesta dell'imputato o del
suo difensore, dovendosi al riguardo condividere le
osservazioni svolte dalla
citata sentenza Zappalorti.
Ricorda infatti tale pronuncia che la giurisprudenza
formatasi in tema teneva
necessariamente conto di quanto stabilito dall'art. 159 cod. pen. prima degli
interventi modificativi ad opera della legge 05.12.2005, n. 251 («Il corso
della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione
a procedere o di
questione deferita ad altro giudizio, e in ogni caso in cui
la sospensione del
procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è
imposta da una
particolare disposizione di legge»), la quale, con l'art. 6,
ne ha sostituito il testo
che, come è noto, stabilisce ora, al primo comma, n. 3, che
il corso della
prescrizione rimane, tra l'altro, sospeso in caso di
sospensione del procedimento
o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti
e dei difensori,
ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore,
disponendo che, nella
prima ipotesi, l'udienza non può essere differita oltre il
sessantesimo giorno
successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento,
dovendosi avere
riguardo, in caso contrario, al tempo dell'impedimento
aumentato di sessanta
giorni.
La disposizione è stata sempre interpretata nel senso che il
rinvio
dell'udienza, accordato su richiesta del difensore,
determina la sospensione dei termini di prescrizione del
reato, ritenendosi, peraltro, manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 159
cod. pen., sollevata per
contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non indica
il termine massimo di
sospensione della prescrizione conseguente alla richiesta
della difesa
dell'imputato di un differimento dell'udienza, osservandosi
che la previsione di
rinvii del dibattimento su richiesta di parte è finalizzata
al soddisfacimento di
esigenze diverse da quelle costituenti legittimo impedimento
e tiene conto della
libera scelta del difensore di chiedere il rinvio, sicché è
stato ritenuto logico, in
tal caso, contemperare l'aggravio per l'ufficio giudiziario
derivante dal
soddisfacimento di esigenze di parte, rimettendo alla sua
determinazione la
durata del rinvio in modo da tener conto delle esigenze
dell'ufficio medesimo
(Sez. 3, n. 45968 del 27/10/2011, Diso, Rv. 251629).
Si è inoltre osservato (Sez. 3, n. 29885 del 15/04/2015, Vuolo, Rv 264433)
come, in tali casi, la durata del differimento sia
discrezionalmente determinata
dal giudice in considerazione delle esigenze organizzative
dell'ufficio giudiziario,
dei diritti e delle facoltà delle parti coinvolte nel
processo, nonché dei principi
costituzionali di ragionevole durata del processo e di
efficienza della
giurisdizione, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite
(n. 4909 del
18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262914) con riferimento
a tutti i casi in cui
il giudice, su richiesta del difensore, accordi un rinvio
della udienza, pur in
mancanza delle condizioni che integrano un legittimo
impedimento per
concorrente impegno professionale del difensore.
12. In caso di rinvio su richiesta dell'imputato o del suo
difensore, dunque,
ai fini della sospensione dei termini di prescrizione
operano i principi generali
stabiliti dal codice di rito, i quali, peraltro, avranno
effetto, a differenza di quanto
avviene con riguardo alla sospensione prevista dal combinato
disposto degli artt.
36 e 45 d.P.R. n. 380/2001, anche con riferimento ai reati
eventualmente
concorrenti con la contravvenzione di cui all'art. 44 del
medesimo decreto.
13. Ne consegue che ai quesiti posti in apertura della
presente parte motiva,
al § 1, deve rispondersi affermativamente.
...
15. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche con
riferimento al
secondo e al terzo motivo di ricorso, perché le opere, come
descritte nel capo di
imputazione, necessitavano, per essere eseguite, del
preventivo rilascio del
permesso di costruire.
Si tratta di un intervento edilizio che deve essere
unitariamente considerato,
diversamente da quanto affermato in ricorso, ove viene
effettuata la disamina
delle singole opere al fine di sostenere la soggezione delle
stesse ad un diverso
regime autorizzatorio, ponendosi così in contrasto con il
principio, ripetutamente
affermato, secondo il quale il regime dei titoli abilitativi
edilizi non può essere
eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria
finale nelle singole opere
che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di
forme di controllo
preventivo più limitate per la loro più modesta incisività
sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel
suo complesso, senza
che sia consentito scindere e considerare separatamente i
suoi singoli
componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su
preesistente opera abusiva
(Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473; Sez.
3, n. 15442 del
26/11/2014, dep. 2015, Prevosto, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618
del 17/11/2011,
dep.2012, Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010,
Tulipani, non
massimata, ed altre conformi).
Corretta risulta pertanto la soluzione adottata dalla Corte
territoriale, la
quale ha puntualmente analizzato la natura e consistenza
dell'intervento
realizzato, qualificando correttamente la condotta oggetto
di contestazione, con
motivazione adeguata, del tutto immune da salti logici o
manifeste contraddizioni, che il ricorso denuncia senza
ulteriori specificazioni, evidenziando,
così, un'assoluta genericità (Corte
di Cassazione, Sezz. Unite penali,
sentenza 13.04.2016 n. 15427 -
tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di
pronunciarsi, anche in assenza di un termine perentorio
stabilito in via normativa, sulla base del principio
generale per il quale ogni procedimento amministrativo ha un
termine.
Tale principio consente di fondare la legittimazione ad
agire attraverso la procedura del silenzio, quando sono
stati superati limiti ragionevoli e non sussistono cause
giustificative oggettivamente rilevabili o formalmente
dichiarate dall’Amministrazione con atti interlocutori.
In tali casi sussiste l’interesse tutelato delle parti alla
conclusione del procedimento di emersione, anche se poi
spetterà al giudice di valutare se vi sono le condizioni per
fissare un termine e quale debba essere questo termine in
relazione al tempo trascorso e alla esistenza o meno di
cause giustificative.
---------------
6.4. – La vera questione da approfondire sulla base di una
non del tutto univoca giurisprudenza del consiglio di Stato
è quella già indicata al punto 6.1. relativa alla
azionabilità della procedura del silenzio con riferimento al
provvedimento conclusivo del procedimento di emersione dal
lavoro irregolare in relazione a quanto previsto per i
provvedimenti in materia di immigrazione dalla disciplina
generale dei termini amministrativi prevista dalla legge n.
241/1990.
6.5. – La giurisprudenza più recente di questa Sezione, ed
in particolare le sentenze 25.02.2014, n. 891, 10.09.2014,
n. 4607, 21.01.2015, n. 206, 17.11.2015, n. 5262, hanno
esaminato e analizzato la disciplina dei termini dei
procedimenti amministrativi prevista dall'art. 2 della legge
n. 241/1990 ed in specie i commi 2, 3, 4: "2. Nei casi in
cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai
commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i
procedimenti amministrativi di competenza delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali
devono concludersi entro il termine di trenta giorni.
3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei
ministri, adottati ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della
legge 23.08.1988, n. 400, su proposta dei Ministri
competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica
amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione
normativa, sono individuati i termini non superiori a
novanta giorni entro i quali devono concludersi i
procedimenti di competenza delle amministrazioni statali.
Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri
ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro
i quali devono concludersi i procedimenti di propria
competenza.
4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei
tempi sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa,
della natura degli interessi pubblici tutelati e della
particolare complessità del procedimento, sono
indispensabili termini superiori a novanta giorni per la
conclusione dei procedimenti di competenza delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i
decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche
dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione
e per la semplificazione normativa e previa deliberazione
del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non
possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola
esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza
italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione."
6.6. - Considerata la sequenza delle sopra riportate norme,
la richiamata giurisprudenza ne deduce la evidenza che
l'esclusione della materia dell'immigrazione, di cui
all'ultimo periodo del sopra riportato comma 4, riguarda
l'intero sistema dei termini per il procedimento
amministrativo prevista dai tre commi e a maggior ragione il
termine più breve previsto dal comma 2.
Lo dimostra anche il fatto che la disciplina attuativa del
sopra riportato comma 3, per il Ministero dell'Interno
adottata con il dpcm n. 214/2012, che regola i termini dei
procedimenti amministrativi di durata non superiore a
novanta giorni, di competenza del Ministero dell'Interno,
non considera tra questi la procedura di emersione.
6.7. - Anche il termine di 60 giorni previsto dall'art. 5,
comma 9, del d.lgs. n. 286/1998, come modificato dal d.lgs.
n. 40/2014, per il rilascio o il rinnovo del permesso di
soggiorno non è perentorio, come dimostrano senza alcun
ombra di dubbio le disposizioni del successivo comma 9-bis
del medesimo articolo, che disciplinano la situazione dello
straniero conseguente al superamento del termine stesso,
prevedendo la possibilità di svolgimento o di continuazione
del lavoro a determinate condizioni.
6.8. - Di conseguenza, la giurisprudenza del Consiglio di
Stato deduce dalla sopra riportata normativa la non
estensibilità dei termini previsti dalla disciplina generale
dei termini del procedimento amministrativo di cui all'art.
2 della legge n. 241/1990 alla procedura di emersione in
base alla espressa esclusione della materia
dell'immigrazione, che la stessa normativa prevede.
Oltre alle deduzioni direttamente conseguenti dalla lettura
delle disposizioni soprarichiamate, può aggiungersi che la
ragionevolezza della assenza di termini per la conclusione
del procedimento di emersione deriva dal fatto che,
nell'ambito dei procedimenti relativi all'immigrazione, di
particolare complessità sul piano amministrativo, tale
procedura ha natura del tutto eccezionale coinvolgendo
soggetti eterogenei tra loro, sia per gli interessi di cui
sono portatori, sia per i plurimi requisiti da verificare
per ciascuno di essi.
6.9. – Deve essere tuttavia richiamata e valorizzata ai fini
della definizione della presente causa anche la sentenza
14.01.2015 n. 59, anche essa di questa medesima III Sezione
del Consiglio di Stato come quelle soprarichiamate, la quale
sentenza si è pronunciata in modo parzialmente diverso,
riconoscendo l'obbligo dell'Amministrazione a provvedere
(senza pronunciarsi su quale sia il termine che la stessa
Amministrazione dovrebbe ordinariamente rispettare) e
fissando solo il termine di 30 giorni dalla comunicazione
della medesima sentenza all’Amministrazione per provvedere
nella singola fattispecie.
Richiamando espressamente la sentenza n. 59, l’obbligo di
provvedere della Amministrazione nei tempi più rapidi
possibili è stato riconosciuto anche dalle sentenze più
recenti di questa stessa Sezione 13.05.2015 n. 2384,
13.05.2015, n. 2407, n. 17.11.2015 n. 5262, già in
precedenza richiamate, le quali hanno però concluso con
l’accoglimento dell’appello dell’Amministrazione e, in
riforma della sentenza impugnata, con la conseguente
dichiarazione di inammissibilità del ricorso di primo grado
avverso al silenzio dell’Amministrazione per mancanza di un
termine fissato dalla legge e la inapplicabilità dei termini
generali fissati dall’art. 2 della legge n. 241/1990.
6.10. – La questione deve pertanto essere ulteriormente
approfondita. Occorre infatti trarre tutte le conseguenze
dall’affermazione contenuta nelle sentenze da ultimo citate,
che, pur in assenza di un termine, hanno comunque statuito
che sussisteva un obbligo dell’Amministrazione di
pronunciarsi nel più breve tempo possibile riprendendo solo
in parte la netta e coerente statuizione della sentenza n.
59.
6.11. – Bisogna superare in un senso o nell’altro la
contraddizione nella giurisprudenza più recente della
Sezione. Questo Collegio ritiene di poter armonizzare i
diversi orientamenti nel senso di riaffermare l’obbligo
dell’Amministrazione di pronunciarsi -anche in assenza di un
termine perentorio stabilito in via normativa- sulla base
del principio generale per il quale ogni procedimento
amministrativo ha un termine.
Tale principio consente di fondare la legittimazione ad
agire attraverso la procedura del silenzio, quando sono
stati superati limiti ragionevoli e non sussistono cause
giustificative oggettivamente rilevabili o formalmente
dichiarate dall’Amministrazione con atti interlocutori. In
tali casi sussiste l’interesse tutelato delle parti alla
conclusione del procedimento di emersione, anche se poi
spetterà al giudice di valutare se vi sono le condizioni per
fissare un termine e quale debba essere questo termine in
relazione al tempo trascorso e alla esistenza o meno di
cause giustificative.
6.12. – Nel caso di specie è trascorso un tempo notevole e
non si riscontra la esistenza di cause impeditive. Deve
pertanto concludersi nel senso dell’accoglimento
dell’appello quanto al riconoscimento della legittimazione a
ricorrere mediante procedura del silenzio avverso alla
mancata conclusione del procedimento di emersione in tempi
ragionevoli e alla affermazione dell’obbligo
dell’Amministrazione di provvedere.
Quanto al termine esso deve essere fissato in modo
ragionevole e proporzionato alla procedura in essere.
Pertanto nel caso di specie questo Collegio ritiene di
fissarlo in via provvisoria in sessanta giorni dalla
comunicazione della sentenza per analogia con il già
ricordato termine ordinatorio previsto dall’art. 5, comma 9,
del d.lgs. n. 286/1998, come modificato dal d.lgs. n.
40/2014.
Il Collegio si riserva inoltre di nominare su istanza di
parte un Commissario ad Acta, se il termine dovesse
scadere inutilmente e l’Amministrazione non abbia fornito
alcuna idonea causa giustificativa. In tale ultimo caso si
fisserà un nuovo termine proporzionato alla causa
giustificativa riconosciuta valida.
13. – In base alle considerazioni che precedono l’appello
deve essere accolto nei limiti di cui alla motivazione,
accogliendosi negli stessi limiti il ricorso in primo grado
con corrispondente riforma della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.04.2016 n. 1425 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le offerte devono essere conformi al progetto in
gara. La difformità è causa di
esclusione.
In una gara di appalto pubblico è legittima l'esclusione
dell'offerta difforme dal progetto a base di gara.
È quanto afferma il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza 08.04.2016 n. 359
nella quale si affronta il tema della legittimità
dell'esclusione di una offerta difforme dal progetto a base
di gara anche in relazione all'applicazione di quanto
dispone l'articolo 46, comma 1-bis del codice dei contratti
pubblici.
La norma del codice stabilisce che sono cause di esclusione
il mancato adempimento di prescrizioni previste dal codice,
dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti,
nonché i casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali.
I giudici affermano che proprio in base a questa norma la
stazione appaltante deve procedere all'esclusione se
individua difformità essenziali nell'offerta tecnica tali da
rivelare l'inadeguatezza del progetto proposto dall'impresa
offerente rispetto a quello posto a base di gara. In questi
casi occorre quindi andare oltre la mera penalizzazione
dell'offerta in fase di attribuzione del punteggio dal
momento che si determina «la mancanza di un elemento
essenziale per la formazione dell'accordo necessario per la
stipula del contratto».
In passato la giurisprudenza del
Consiglio di stato aveva precisato che tale conclusione «non
solo non può ritenersi in contrasto con l'art. 46, comma
1-bis, del Codice dei contratti pubblici ma consegue proprio
alla diretta applicazione dell'art. 46, comma 1-bis,
medesimo».
La sentenza chiarisce inoltre che l'articolo 46, comma 1-bis
deve essere interpretato nel senso che l'esclusione dalla
gara è disposta sia nel caso in cui il Codice, la legge
statale o il regolamento attuativo la comminino
espressamente, sia nell'ipotesi in cui impongano «adempimenti
doverosi» o introducano, comunque, «norme di divieto»
pur senza prevedere espressamente l'esclusione.
Quel che conta, per i giudici, è che sia rilevata
l'inadeguatezza del progetto proposto dall'impresa offerente
rispetto a quello posto a base di gara; soltanto in questo
caso si può disporre l'esclusione dell'offerta con la «copertura
normativa» del comma 1-bis
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2016).
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MASSIMA
Il primo motivo di ricorso, formulato nei confronti
dell’esclusione, non può trovare accoglimento.
Giova ricordare che il Capitolato speciale d’appalto, in
relazione al lotto n. 5, punto “A- Lavaendoscopio”,
tra l’altro, stabiliva espressamente: “Lavatrice per
endoscopi flessibili monovasca in grado di realizzare un
reprocessing ad alta disinfezione, garantire un’alta
produttività strumenti/ora con cicli a tempi brevi di
lavaggio completo (secondo ISO 15833-1-4: lavaggio,
risciacquo, detersione, risciacquo, disinfezione,
risciacquo, asciugatura): 20/25 minuti max. Permettere di
settare e lavorare con cicli diversi, dotata di camera di
disinfezione/sterilizzazione ampia per consentire facilità
nell’inserimento strumenti, e un sistema di lavaggio che
garantisca il trattamento su ogni punto esterno dello
strumento in modo che non ci siano aree di contatto dello
strumento su se stesso o con la vasca della macchina”.
Ebbene, ritiene il Collegio che tali prescrizioni tecniche
configurino, nella loro oggettiva e chiara formulazione,
requisiti minimi essenziali che le apparecchiature offerte
dovevano possedere (e la cui legittimità è rimasta
incontestata nel presente giudizio), con la conseguenza che
la accertata mancanza di detti requisiti non poteva che
determinare, ex se, l’esclusione dalla procedura di
gara, anche in mancanza di espressa comminatoria. Invero, i
predetti requisiti tecnici, posti a presidio della sicurezza
dei pazienti, individuano uno specifico prodotto, con
caratteristiche ben determinate, la cui mancanza si risolve
nella proposta di un prodotto diverso da quello richiesto
dalla Stazione Appaltante.
A tal proposito, è stato, peraltro, autorevolmente osservato
che “le difformità essenziali
nell’offerta tecnica, che rivelano l’inadeguatezza del
progetto proposto dall’impresa offerente rispetto a quello
posto a base di gara, legittimano l’esclusione dell’impresa
dalla gara e non già la mera penalizzazione dell’offerta
nella valutazione del punteggio da assegnare, determinando
la mancanza di un elemento essenziale per la formazione
dell’accordo necessario per la stipula del contratto
(Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5604 del 26.11.2013; v.
anche, da ultimo, Cons. St., III, 01.07.2015, n. 3275)”
(in tal senso, Consiglio di Stato, sez. III, 21.10.2015, n.
4804).
E’ stato, altresì, ulteriormente precisato che
tale conclusione “non solo non può ritenersi in
contrasto….con l'art. 46, comma 1-bis, del Codice dei
contratti pubblici (in quanto l'esclusione è determinata non
dal mancato rispetto di adempimenti solo documentali o
formali o privi, comunque, di una base normativa espressa,
ma dall'accertata mancanza dei necessari contenuti
dell'offerta richiesti per la partecipazione alla gara), ma
l'esclusione stessa consegue proprio alla diretta
applicazione dell'art. 46, comma 1-bis, medesimo …., che
prevede quali cause di esclusione il mancato adempimento di
prescrizioni previste dal codice, dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché i casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali
ovvero in caso di non integrità del plico contenente
l'offerta o la domanda di partecipazione".
Tale norma deve essere intesa nel senso "che
l'esclusione dalla gara è disposta sia nel caso in cui il
Codice, la legge statale o il regolamento attuativo la
comminino espressamente, sia nell'ipotesi in cui impongano
"adempimenti doverosi" o introducano, comunque, "norme di
divieto" pur senza prevedere espressamente l'esclusione ma
sempre nella logica del numerus clausus"
(Consiglio di Stato, Ad.. plen., sentenza 25.02.2014, n. 9;
v. anche Cons. St., VI, 30.04.2015, n. 2203)”
(in tal senso Consiglio di Stato n. 4804/2015 cit.). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al
primo comma, che il rilascio del permesso di costruire
comporta la corresponsione di un contributo commisurato
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo
di costruzione.
Presupposto per la debenza del costo di costruzione è che
l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali
l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001 prevede il
titolo abilitativo del permesso di costruire.
In tal senso deve essere interpretato anche il comma 10,
dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel
caso di interventi su edifici esistenti il costo di
costruzione è determinato in relazione al costo degli
interventi stessi, così come individuati dal comune in base
ai progetti presentati per ottenere il permesso di
costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio
edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i
Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi
di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori
determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di
ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere,
ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di
interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è
dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo
abilitativo del permesso di costruire in conformità a
quanto previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R.
n. 380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione
che “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente e che comportino modifiche
della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso,
nonché gli interventi che comportino modificazioni della
sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di
costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi
di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si
rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che
assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli
interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa
sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi
previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli
interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del
permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10,
comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001.
---------------
La giurisprudenza ha precisato che per le opere di
ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso
di costruire), il pagamento degli concessori è dovuto solo
nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento
del carico urbanistico.
E’ stato ancora precisato che, ai fini della corresponsione
o meno degli oneri d'urbanizzazione in caso di intervento su
un fabbricato già autorizzato, l'unico legittimo presupposto
dell’imposizione è costituito dalla sussistenza o meno
dell'eventuale maggiore carico urbanistico, dovendosi
considerare illegittima la richiesta del pagamento di tali
maggiori oneri se non si verifica la variazione del carico
urbanistico.
Il fondamento del contributo di urbanizzazione, invero, non
consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità
eque per la comunità.
Anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso,
cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato
il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento
della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per
la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti
per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto,
è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
qualificate sotto il profilo della differenza del regime
contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
---------------
Le modifiche della disposizione interna degli ambienti, il
rifacimento di pavimenti e controsoffitti, così come
l’adeguamento o la realizzazione di impianti
igienico-sanitari privati, idraulici o elettrici, non
comportano la necessità del permesso di costruire, mancando
la configurazione di un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente con “modifiche della volumetria
complessiva degli edifici o dei prospetti” o “mutamenti
della destinazione d'uso” (peraltro rilevanti solo se
relativi a immobili compresi nelle zone omogenee A) o
“modificazioni della sagoma” (peraltro solo sugli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22.01.2004, n. 42).
Anzi le opere poste in essere appaiono addirittura rientrare
nell’ambito della manutenzione straordinaria di cui art. 3,
comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001.
Gli interventi effettuati, inoltre, per la loro natura non
hanno comportato alcuna variazione del carico urbanistico,
né tale aspetto è stato sollevato dal Comune, trattandosi di
mere opere di rifacimento interno, senza cambi di
destinazione.
Gli oneri concessori richiesti non risultavano, pertanto
dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali autonomamente
sufficiente; ovverosia perché le opere poste in essere non
rientrano nel regime abilitativo del permesso di costruire e
in quanto le stesse non hanno comportato l’aumento del
carico urbanistico.
---------------
... per l'accertamento del diritto della ricorrente alla
restituzione degli importi versati al Comune di Marcianise a
titolo di costo di costruzione in relazione a taluni
interventi edilizi eseguiti presso il Centro Commerciale
Campania;
...
1) In primo luogo il Collegio intende puntualizzare
di trovarsi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva,
vertendosi in materia di diritti soggettivi, in quanto
l'art. 133, lett. f), del c.p.a. devolve al giudice
amministrativo "le controversie aventi ad oggetto gli
atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in
materia urbanistica ed edilizia".
La qualificazione in termini di diritto soggettivo delle
situazioni giuridiche qui coinvolte, deriva dalla
circostanza che, pur in presenza di contestazione circa la
quantificazione o la debenza degli oneri connessi al
permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura
del contributo imposto, non l'esercizio del potere al
rilascio del titolo edilizio (Cons. Stato, Sez. IV,
29.10.2015, n. 4950).
2) In secondo luogo, il Collegio rileva
l’infondatezza dell’eccezione di carenza di legittimazione
attiva sollevata dal Comune, e fondata sull’assunto della
mancata dimostrazione della parte ricorrente di essere
titolare dell’immobile in questione; eccezione, peraltro,
formulata in modo del tutto generico.
La società ricorrente, infatti, seppure non ha versato in
atti formale documentazione attestante la sua proprietà
dell’immobile, ha comprovato (né la circostanza è stata
specificamente contestata) di aver essa presentato le C.I.L.
per l’effettuazione dei lavori in questione; e in virtù di
tale circostanza di essere stata tenuta al pagamento degli
oneri di costruzione: ma è appunto tale situazione ad
essere, allora, sufficiente a radicare la sua legittimazione
attiva all’azione e il suo interesse a ricorrere.
3) Nel merito il ricorso si palesa fondato.
L’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo comma,
che il rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione.
Presupposto per la debenza del costo di costruzione è che
l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali
l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001 prevede il
titolo abilitativo del permesso di costruire.
In tal senso deve essere interpretato anche il comma 10,
dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel
caso di interventi su edifici esistenti il costo di
costruzione è determinato in relazione al costo degli
interventi stessi, così come individuati dal comune in base
ai progetti presentati per ottenere il permesso di
costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio
edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i
Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi
di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori
determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di
ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere,
ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di
interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è
dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo
abilitativo del permesso di costruire in conformità a
quanto previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R.
n. 380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione
che “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente e che comportino modifiche
della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso,
nonché gli interventi che comportino modificazioni della
sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di
costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi
di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si
rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che
assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli
interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa
sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi
previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli
interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del
permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10,
comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001.
3.1) Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che per le
opere di ristrutturazione edilizia (soggette al regime del
permesso di costruire), il pagamento degli concessori è
dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato
un aumento del carico urbanistico (Cons. Stato Sez. IV,
29.10.2015, n. 4950; Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n.
2611).
E’ stato ancora precisato che, ai fini della corresponsione
o meno degli oneri d'urbanizzazione in caso di intervento su
un fabbricato già autorizzato, l'unico legittimo presupposto
dell’imposizione è costituito dalla sussistenza o meno
dell'eventuale maggiore carico urbanistico, dovendosi
considerare illegittima la richiesta del pagamento di tali
maggiori oneri se non si verifica la variazione del carico
urbanistico (Cons. Stato Sez. V, 16.06.2009, n. 3847; Cons.
Stato, Sez. IV 29.04.2004 n. 2611; Cons. Stato, Sez. V,
15.09.1997, n. 959, Cons. Stato, Sez. V, 21.01.1992, n. 61 e
27.01.1990 n. 693).
Il fondamento del contributo di urbanizzazione, invero, non
consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità
eque per la comunità.
Anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso,
cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato
il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento
della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per
la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti
per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto,
è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
qualificate sotto il profilo della differenza del regime
contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici
(Cons. Stato Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; Consiglio Stato,
sez. IV, 28.07.2005, n. 4014).
3.2) Nel caso specie, gli interventi di cui si discute,
anche a voler ammettere, come sostiene il Comune, che
potessero rientrare nelle opere di ristrutturazione, non
sarebbero comunque da ricomprendere tra quegli interventi
che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), D.P.R. n.
380/2001, richiedevano il permesso di costruire o, in
alternativa, la d.i.a. cosiddetta sostitutiva.
Le modifiche della disposizione interna degli ambienti, il
rifacimento di pavimenti e controsoffitti, così come
l’adeguamento o la realizzazione di impianti
igienico-sanitari privati, idraulici o elettrici, non
comportano infatti, come previsto da quest’ultimo articolo,
la necessità del permesso di costruire, mancando la
configurazione di un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente con “modifiche della volumetria
complessiva degli edifici o dei prospetti” o “mutamenti
della destinazione d'uso” (peraltro rilevanti solo se
relativi a immobili compresi nelle zone omogenee A) o “modificazioni
della sagoma” (peraltro solo sugli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42).
Anzi le opere poste in essere appaiono addirittura rientrare
nell’ambito della manutenzione straordinaria di cui art. 3,
comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001.
La riprova della circostanza che gli interventi in questione
non necessitassero del permesso di costruire, per essere
invece soggetti al regime delle comunicazioni effettuate
dalla ricorrente, è, per vero, nello stesso comportamento
del Comune, atteso che, in caso contrario, avrebbe dovuto
contestare alla medesima parte ricorrente la necessità del
titolo abilitativo concessorio per la realizzazione degli
interventi e non limitarsi a richiedere gli oneri
concessori.
Gli interventi effettuati, inoltre, per la loro natura non
hanno comportato alcuna variazione del carico urbanistico,
né tale aspetto è stato sollevato dal Comune, trattandosi di
mere opere di rifacimento interno, senza cambi di
destinazione.
Gli oneri concessori richiesti non risultavano, pertanto
dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali autonomamente
sufficiente; ovverosia perché le opere poste in essere non
rientrano nel regime abilitativo del permesso di costruire e
in quanto le stesse non hanno comportato l’aumento del
carico urbanistico.
3.3) Per quanto indicato, quindi, il ricorso va accolto, e,
conformemente alla domanda formulata in giudizio, va
dichiarato che gli oneri in questione non risultano dovuti,
e, pertanto, qualora siano stati effettivamente versati, gli
stessi andranno restituiti dal Comune alla parte ricorrente.
A quest’ultimo riguardo, infatti, pur essendo state allegate
agli atti le disposizioni date agli istituti bancari in
merito al pagamento, non è allegata agli atti la prova
dell’avvenuta successiva effettiva corresponsione, per cui,
a fronte della pur generica contestazione della circostanza
da parte del Comune, il Collegio allo stato, non può
disporne la restituzione.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante,
ex plurimis, per le affermazioni più risalenti,
Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle
più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 07.04.2016 n. 1769 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’art. 22, c. 1, lett. b), legge n. 241/1990, nel
testo novellato dalla legge 11.02.2005 n. 15, richiede per
la legittimazione attiva all’esercizio del diritto di
accesso la titolarità “di interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è richiesto
l'accesso” e che il successivo comma terzo prevede che
“tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad
eccezione di quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e
6”; mentre l'art. 24, c. 7, precisa che “deve comunque
essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”.
In sostanza ai sensi del suesposto art. 24, c. 7, l’accesso
va garantito qualora sia funzionale “a qualunque forma di
tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e
indipendentemente dall'effettivo esercizio di un'azione
giudiziale”.
Ne consegue che l'interesse all'accesso ai documenti deve
essere valutato in astratto, senza che possa essere operato,
con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in
ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda
giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente
proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante
l’accesso e quindi la legittimazione all'accesso non può
essere valutata “alla stessa stregua di una legittimazione
alla pretesa sostanziale sottostante”.
Inoltre, ai sensi dell’art. 25 della L. 241/1990 “la
richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata” ed
in particolare deve indicare la situazione qualificata di
cui è portatore il ricorrente. Deve inoltre contenere
l’indicazione degli elementi diretti circoscrivere l’oggetto
dell’accesso, al fine di evitare che l’esercizio di tale
diritto si traduca in una inammissibile forma di controllo
generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione.
Ai sensi del comma 3 del citato art. 25, l’Amministrazione
ha il potere di rifiutare, limitare o differire l’accesso ai
documenti amministrativi. In particolare la domanda di
accesso può essere respinta oltre che espressamente anche
tacitamente per effetto dell’inutile decorso di 30 giorni
dalla richiesta.
---------------
E’ vero che ai fini dell’esperimento dell’azione per
l’accesso agli atti è necessario essere titolari di un
interesse individuale e giuridicamente qualificato, non
trattandosi di uno strumento a disposizione di qualunque
cittadino che intenda controllare il corretto svolgimento
dell’attività amministrativa.
Tuttavia la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere a
tutte le imprese che operano nel settore di attività oggetto
di un contratto che l’amministrazione abbia assegnato con
una procedura negoziata la legittimazione ad impugnare
l’atto di aggiudicazione, a prescindere dal fatto che esse
abbiano o meno partecipato alla procedura.
----------------
...
per l'annullamento del diniego di accesso agli atti inerente le procedure
per l'affidamento in concessione dell'installazione dei
molteplici distributori automatici presso l'Azienda
Sanitaria Provinciale di Catania.
...
La ricorrente Pa. & C srl, e’ un’impresa che opera nel
settore della erogazione mediante distributori automatici di
caffè, bevande, snack.
La ricorrente con istanza di accesso presentata a mezzo
posta elettronica certificata il 28.10.2014 -dopo aver
premesso di operare da decenni ne1 settore, e di vantare "...un
interesse giuridicamente rilevante a conoscere ogni atto e/o
provvedimento sulla scorta dei quali l'Azienda ha affidato
in concessione a terzi l'installazione di distributori
automatici negli uffici, reparti ed altri ambienti
ospedalieri..."- ha chiesto di accedere alla
documentazione inerente le procedure per l‘affidamento in
concessione dell'installazione dei molteplici distributori
automatici presenti nei medesimi uffici, reparti ed ambienti
ospedalieri.
L'Azienda intimata non ha risposto.
Da ciò il ricorso in esame con cui parte ricorrente lamenta
la lesione dei diritti partecipativi ed informativi di cui
agli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990 a lui spettanti.
Giova premettere che l’art. 22, c. 1, lett. b), legge n.
241/1990, nel testo novellato dalla legge 11.02.2005 n. 15,
richiede per la legittimazione attiva all’esercizio del
diritto di accesso la titolarità “di interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
richiesto l'accesso” e che il successivo comma terzo
prevede che “tutti i documenti amministrativi sono
accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24, c.
1, 2, 3, 5 e 6”; mentre l'art. 24, c. 7, precisa che “deve
comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
In sostanza ai sensi del suesposto art. 24, c. 7, l’accesso
va garantito qualora sia funzionale “a qualunque forma di
tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e
indipendentemente dall'effettivo esercizio di un'azione
giudiziale” (ex multis, Consiglio di Stato, sez.
V, 23.02.2010, n. 1067).
Ne consegue che l'interesse all'accesso ai documenti deve
essere valutato in astratto, senza che possa essere operato,
con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in
ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda
giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente
proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante
l’accesso e quindi la legittimazione all'accesso non può
essere valutata “alla stessa stregua di una
legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante” (ex
multis Consiglio Stato sez. V 10.01.2007, n. 55, TAR
Umbria 30.01.2013, n. 56).
Inoltre, ai sensi dell’art. 25 della L. 241/1990 “la
richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata”
ed in particolare deve indicare la situazione qualificata di
cui è portatore il ricorrente. Deve inoltre contenere
l’indicazione degli elementi diretti circoscrivere l’oggetto
dell’accesso, al fine di evitare che l’esercizio di tale
diritto si traduca in una inammissibile forma di controllo
generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione
(cfr. TAR Lazio, sez. I, 20.11.2013 n. 867).
Ai sensi del comma 3 del citato art. 25, l’Amministrazione
ha il potere di rifiutare, limitare o differire l’accesso ai
documenti amministrativi. In particolare la domanda di
accesso può essere respinta oltre che espressamente anche
tacitamente per effetto dell’inutile decorso di 30 giorni
dalla richiesta.
Ciò premesso, ad avviso del Collegio, il ricorso è fondato.
E’ vero che ai fini dell’esperimento dell’azione per
l’accesso agli atti è necessario essere titolari di un
interesse individuale e giuridicamente qualificato, non
trattandosi di uno strumento a disposizione di qualunque
cittadino che intenda controllare il corretto svolgimento
dell’attività amministrativa.
Tuttavia la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere a
tutte le imprese che operano nel settore di attività oggetto
di un contratto che l’amministrazione abbia assegnato con
una procedura negoziata la legittimazione ad impugnare
l’atto di aggiudicazione, a prescindere dal fatto che esse
abbiano o meno partecipato alla procedura (Cfr.: Tar
Lombardia I, n. 1829/2012).
Ne consegue che, sussistendo tutti i requisiti soggettivi ed
oggettivi prima richiamati, il ricorso in epigrafe merita
accoglimento con conseguente affermazione del diritto di
parte ricorrente ad avere conoscenza degli atti indicati
nella richiesta inoltrata in data 28.10.2014 (TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 07.04.2016 n. 960 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Contributo unificato, ok Ue.
Il contributo unificato da pagare per i procedimenti
giurisdizionali in materia di appalti non viola il diritto
comunitario.
Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue -Sez. XI- nell'ordinanza
07.04.2016 causa C-495/14 che ha visto
contrapposti uno studio infermieristico di Trento e il
ministero della giustizia.
Secondo la Corte, la legislazione italiana che prevede
contributi processuali non eccedenti il 2% del valore
dell'appalto (si va da un minimo di 2 mila euro a un massimo
di 6 mila a seconda del valore dell'appalto, rispettivamente
di valore uguale o inferiore a 200 mila euro sino a un
importo superiore al milione di euro) non costituisce un
ostacolo all'accesso alla giustizia e quindi non si verifica
alcuna lesione del principio di effettività.
Si tratta infatti, dice la Corte, di una percentuale «in
sé assai contenuta», tenuto conto che «la
partecipazione di un'impresa a un appalto pubblico ne
presuppone un'appropriata capacità economica e finanziaria»
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2016).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Nona Sezione) dichiara:
L’articolo 1 della direttiva 89/665/CEE del
Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, nonché
i principi di equivalenza e di effettività devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa
nazionale che prescrive il versamento di tributi giudiziari,
come il contributo unificato oggetto del procedimento
principale, all’atto della proposizione di un ricorso in
materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici
amministrativi. |
APPALTI:
La stazione appaltante può limitare avvalimenti.
Sentenza della Corte di giustizia Ue su un
caso polacco.
La stazione appaltante può limitare l'utilizzo dell'avvalimento
quando specifiche capacità dell'impresa non sono
trasmissibili al concorrente o offerente; in questi casi
legittimamente si può imporre a chi presta il requisito di
partecipare all'esecuzione del contratto.
Lo afferma la Corte di giustizia con la
sentenza 07.04.2016 (C-324/14) che esamina alcuni
profili dell'articolo 48 della direttiva 2004/18 in materia
di appalti pubblici.
La vicenda oggetto della sentenza riguardava un appalto
affidato a Varsavia per il quale la stazione appaltante
aveva ritenuto essenziale la partecipazione personale ed
effettiva alla realizzazione dell'appalto da parte della
società che avrebbe dovuto prestare i requisiti.
La corte
europea premette che le direttive europee riconoscono il
diritto di qualunque operatore economico di fare
affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di
altri soggetti, a prescindere dalla natura dei suoi legami
con questi ultimi; l'unica condizione è che sia dimostrato
all'amministrazione aggiudicatrice che il candidato o
l'offerente disporrà effettivamente delle risorse di tali
soggetti che sono necessarie per eseguire detto appalto.
Ciò
premesso però la Corte europea afferma che «non è escluso
che l'esercizio di tale diritto (cioè di avvalersi delle
capacità di altro soggetto) possa essere limitato, in
circostanze particolari, tenuto conto dell'oggetto
dell'appalto in questione e delle finalità dello stesso».
Il
caso che viene fatto è quello nel quale la stazione
appaltante ritiene che determinate capacità tecniche o
professionali essenziali per partecipare all'esecuzione del
contratto, «non siano trasmissibili al candidato o
all'offerente, di modo che quest'ultimo può avvalersi di
dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa
direttamente e personalmente all'esecuzione di tale
appalto».
Pertanto, tenuto conto dell'oggetto dell'appalto e
delle sue finalità, la Corte europea ritiene del tutto
legittimo «in circostanze particolari, ai fini della
corretta esecuzione dell'appalto» che indichi espressamente
nel bando di gara o nel capitolato d'oneri «regole precise
secondo cui un operatore economico può fare affidamento
sulle capacità di altri soggetti, purché tali regole siano
connesse e proporzionate all'oggetto e alle finalità di
detto appalto».
In particolare risulterebbe legittimo
prevedere che l'offerente può fare affidamento su dette
capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e
personalmente all'esecuzione dell'appalto in questione. Nel
caso di specie veniva criticato il fatto che determinate
capacità professionali sarebbero state messe a disposizione
soltanto attraverso lo svolgimento di attività di consulenza
e di formazione, senza alcuna partecipazione diretta della
società ausiliaria all'esecuzione dell'appalto.
Su questo
punto va precisato come le nuove direttive appalti (e il
nuovo codice appalti), per quanto attiene alle pregresse
esperienze professionali e ai titoli di studio, impongano la
partecipazione diretta all'appalto dell'operatore economico
che presta il requisito
(articolo ItaliaOggi del 13.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, la canna fumaria deve ritenersi
ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un’opera
priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è
necessario il permesso di costruire, senza essere
conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione, a
meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto
alla costruzione ed alla sagoma dell’immobile, occorrendo
solo in tal caso il permesso di costruire.
---------------
Quanto ai profili igienico-sanitari, colgono nel segno le
ineccepibili doglianze della ricorrente secondo cui la
violazione regolamentare di norme preordinate alla
salvaguardia della salubrità ambientale avrebbe dovuto
trovare rimedio –nel caso di canne fumarie- non già
nell’ordine di demolizione, bensì nella diversa intimazione
a ricondurre tali opere alle altezze e distanze prescritte,
tanto più nel caso di specie ove –secondo puntuali
argomentazioni della ricorrente che il comune, neanche
costituito, non ha inteso evidentemente confutare- sarebbero
bastati piccoli accorgimenti tecnici per una piena
conformazione agli statuti del vigente Regolamento Edilizio.
---------------
... per l'annullamento DEL PROVVEDIMENTO N. 01 DEL
27/01/2010 EMESSO DAL RESPONSABILE DEL SERVIZIO TECNICO DEL
COMUNE DI AIELLI CON IL QUALE VIENE INGIUNTO ALLA RICORRENTE
DI PROVVEDERE ALLA DEMOLIZIONE DI DUE CANNE FUMARIE ED A
RIPRISTINARE LO STATO DEI LUOGHI.
...
● Visti i motivi di ricorso con i quali si lamenta:
i) la violazione delle regole sul contraddittorio e sul giusto
procedimento (anche mediante gravi ritardi del comune nella
consegna degli atti presupposti di indagine e di
sopralluogo, avvenuta -dopo molte insistenze- ben dopo
l’adozione dell’atto impugnato);
ii) la grave superficialità istruttoria, con particolare riguardo
alla erronea riconduzione temporale delle opere a periodi
recenti “intorno” al 2008 (con conseguente applicazione del
nuovo più severo regime sanzionatorio introdotto dal 1998
con l’art. 32 del Regolamento Edilizio e con gli artt. 34 e
31 del DPR 380/2001), periodo desunto esclusivamente dal
fatto che i confinanti autori dell’esposto –proprietari fin
dal 2007- si sarebbero lamentati delle presunte immissioni
nocive solo nel corso degli anni 2008 e 2009, senza
considerare l’esistenza di documentazione ben più
significativa, che dimostrerebbe la risalenza delle opere
de quibus al 1988 (come da planimetria del 12.09.1988
allegata alla denuncia di variazione depositata all’Ufficio
Tecnico Erariale di L’Aquila l’08.02.1989, ove risulterebbero
entrambe le canne fumarie oggetto di causa, con l’ulteriore
precisazione che proprio tale denuncia al catasto era stata
prodotta anche al comune di Aielli, che l’aveva
espressamente citata nelle premesse dell’autorizzazione di
sindacale di abitabilità dell’immobile rilasciata il
18.08.1989); ulteriore circostanza che smentirebbe la
superficiale asserzione del comune in ordine al tempo di
realizzazione delle due canne fumarie, emergerebbe poi dal
contratto di transazione del 25.09.1993 sottoscritto dai
proprietari confinanti pro tempore, ove si sarebbe dato atto
della preesistenza di tali opere;
iii) in ogni caso la sanzione demolitoria sarebbe sproporzionata,
trattandosi opere pertinenziali poste a servizio di un
camino domestico, per le quali –a tutto concedere, nel caso
in cui non si ritenesse attività libera nei sensi
puntualizzati da autorevole giurisprudenza- la normativa
edilizia imporrebbe una sola sanzione pecuniaria, fermo
restando che la misura demolitoria –anche ai sensi dell’art.
34 TUE- risulterebbe inapplicabile nella specie, perché la
sua attuazione pregiudicherebbe la statica dell’intero
edificio;
iiii) per le ragioni prima esposte a proposito del tempo di
realizzazione delle opere, non sarebbe applicabile
ratione temporis l’art. 32 del vigente regolamento
edilizio sul regime regolatorio riservato alle canne
fumarie; in ogni caso tale norma -nello stabilire l’altezza
delle canne fumarie e la distanza dalle finestre-
presidierebbe interessi di carattere igienico-sanitario, ma
in tal caso il Comune avrebbe dovuto adottare misure di
polizia sanitaria (es. art. 54, comma 4, d.leg.vo 267/2000)
per l’eliminazione delle presunte immissioni, e non già
l’impugnato provvedimento edilizio, per di più in presenza
di agevoli possibilità di adeguare le due canne fumarie
–mediante semplici accorgimenti tecnici, con prolungamento
della canna fumaria di un metro oltre il colmo del tetto-
alla normativa introdotta dal citato art. 32 del RE, senza
alcuna necessità di misure demolitorie (adeguamento che la
ricorrente non avrebbe effettuato, solo perché a suo tempo
rassicurata dal consenso scritto dei vicini sullo stato
attuale delle canne fumarie);
iiiii) gli esposti, che il comune avrebbe superficialmente posto a
base del provvedimento impugnato, sarebbero in ogni caso del
tutto infondati e fuorvianti, “anche perché da diversi
anni le due canne fumarie non vengono più utilizzate e
quindi non arrecano nessun fastidio ai vicini ed ai loro
ospiti” (sic, pag. 18 del ricorso); piuttosto sarebbero
proprio i coniugi denuncianti (peraltro privi di un titolo
di proprietà sull’immobile di loro residenza) a molestare la
ricorrente con immissioni di fumo prodotte da un loro forno
abusivo, privo dei requisiti di idoneità, come da
comunicazione ASL del 10.07.2008; da qui emergerebbero
ulteriori elementi del grave sviamento istruttorio, in cui
sarebbe incorsa l’amministrazione;
● Preso atto della mancata costituzione in giudizio del Comune
intimato;
● Ritenuto che il ricorso va accolto per le seguenti decisive
argomentazioni:
- quanto ai profili edilizi, la misura demolitoria delle due
canne fumarie si manifesta priva di adeguata istruttoria e
motivazione:
i) in relazione alla frettolosa stima circa il tempo di
realizzazione delle opere (riportate al 2008, basandosi
solamente sulle lamentele dei proprietari finitimi, mentre
la ricorrente ha dedotto ben altre più significative
circostanze –illustrate in precedenza e comunque mai prese
in considerazione dal Comune, nonostante vari tentativi di
interlocuzione da parte della medesima ricorrente- che
portano a ritenere le opere risalenti al 1998, con tutte le
conseguenze derivanti –oltre che dalla maturazione di
aspettative di sorta- dall’applicazione di una norma
edilizia allora non in vigore),
ii) ma soprattutto –e più in radice- per la mancata
valutazione dell’impatto visivo e dell’ingombro delle due
canne fumarie, atteso che per costante giurisprudenza, la
canna fumaria deve ritenersi ordinariamente un volume
tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza
urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è
necessario il permesso di costruire, senza essere
conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione (ex
multis, Tar Campania NA sez. VII 15.12.2010 n.
27380), a meno che non si tratti di opere di palese evidenza
rispetto alla costruzione ed alla sagoma dell’immobile,
occorrendo solo in tal caso il permesso di costruire (TAR
Campania–Napoli, 3612/2015, Sez. VI 3039/2009); nel
delineato contesto il Comune ha completamente omesso
qualsiasi indagine, dando per scontata la misura demolitoria,
senza alcuna motivazione sul punto e comunque nell’implicito
erroneo assunto che le canne fumarie debbano tout court
ricondursi ad opere sottoposte a permesso;
- quanto ai profili igienico-sanitari: colgono nel segno le
ineccepibili doglianze della ricorrente in precedenza
illustrate, secondo cui la violazione regolamentare di norme
preordinate alla salvaguardia della salubrità ambientale
avrebbe dovuto trovare rimedio –nel caso di canne fumarie-
non già nell’ordine di demolizione, bensì nella diversa
intimazione a ricondurre tali opere alle altezze e distanze
prescritte, tanto più nel caso di specie ove –secondo
puntuali argomentazioni della ricorrente che il comune,
neanche costituito, non ha inteso evidentemente confutare-
sarebbero bastati piccoli accorgimenti tecnici per una piena
conformazione agli statuti del vigente Regolamento Edilizio;
● Considerato pertanto che il ricorso trova accoglimento per
le suesposte ragioni, con conseguente annullamento
dell’impugnata determinazione del 27.01.2010
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 07.04.2016 n. 209 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
troppa fretta sui furbetti. Pochi 30 giorni per l'iter.
Danno all'immagine gonfiato. Molti
rilievi nel parere del Cds sul decreto sui licenziamenti di
chi timbra e se ne va.
Il decreto sul licenziamento dei dipendenti che attestano
falsamente la presenza in servizio o «furbetti del
cartellino» prevede termini troppo brevi, che rischiano di
far saltare il procedimento disciplinare, nonché viola la
delega legislativa sia nella previsione del danno di
immagine, sia nell'introduzione di una nuova fattispecie
penale di omissioni d'atti d'ufficio, per mancata adozione
del provvedimento di licenziamenti.
Il
parere 05.04.2016, n. 864 reso dal Consiglio di
Stato, Commissione speciale,
è «favorevole» allo schema di decreto
legislativo approvato dal Governo, ma nella sostanza è una
vera e propria stroncatura.
Fattispecie.
Il parere evidenzia che la riforma specifica ed ampia il
fatto sanzionabile col licenziamento. È precisato che «deve
trattarsi di modalità fraudolenta... per far risultare il
dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione
presso la quale il dipendente presta servizio circa il
rispetto dell'orario di lavoro dello stesso».
Contestualmente, la fattispecie si amplia, perché concerne
«qualunque» modalità fraudolenta, assumendo rilevanza anche
la circostanza dell'aiuto (omissivo o commissivo di terzi).
Sospensione cautelare.
Solo la sospensione cautelare da disporre entro 48 ore con
provvedimento motivato, di fatto, passa indenne il varo del
Consiglio di stato.
La misura viene condivisa da Palazzo Spada, perché riferita
specificamente per altro alla flagranza della violazione
disciplinare o all'accertamento della falsa attestazione
della presenza mediante strumenti di registrazione tecnici e
audiovisivi. Proprio la flagranza o la registrazione
dell'evento non rendono necessarie garanzie di
contraddittorio, alle quali supplisce l'obbligo di motivare
la sospensione cautelare. Il parere, tuttavia, invita il
Governo a prevedere espressamente il mantenimento al
dipendente sospeso dal servizio quanto meno dell'assegno
alimentare.
Inoltre, secondo Palazzo Spada è da precisare quale possa
essere la responsabilità del dirigente o dei componenti
dell'ufficio per i procedimenti disciplinari che non
attivino la sospensione cautelare entro le 48 ore,
escludendo che possa consistere nel licenziamento, dovuto,
invece per mancata irrogazione della sanzione del
licenziamento.
Procedimento accelerato.
Il Consiglio di stato, come molti altri osservatori,
evidenzia che il termine breve previsto per la conclusione
del procedimento, 30 giorni, non si coordina con le
disposizioni generali sullo svolgimento del procedimento
disciplinare previste dall'articolo 55-bis, commi 2 e 4, del
dlgs 165/2001. Queste prevedono tempi procedurali
incompatibili con l'accelerazione del procedimento (che
dovrebbe ridursi da 120 a 30 giorni). In particolare,
critica è la fase della convocazione dell'incolpato, da
disporre non prima di 20 giorni dalla contestazione, che
sottrae moltissimo tempo alla procedura.
Altrettanto grave è la mancanza della specificazione di un
preciso giorno a decorrere dal quale occorre avviare il
procedimento disciplinare, essendo troppo generica la
previsione di «dare immediato avvio» al procedimento, sì da
esporlo ad una decadenza decorrente dal giorno di prima
acquisizione della notizia della violazione, sottraendo
ulteriore tempo ai 30 giorni complessivi.
Il Consiglio di stato oltre a suggerire di correggere i
termini propone un procedimento più agile e basato
sull'oralità: «convocazione dell'incolpato, già sospeso dal
servizio, presso l'ufficio dei provvedimenti disciplinari
alla presenza del dirigente responsabile della struttura di
appartenenza per la formale contestazione dell'addebito e
per raccoglierne le giustificazioni nel corso di
un'audizione orale».
Danno di immagine.
Per Palazzo Spada la commisurazione del danno alla rilevanza
data sulla stampa all'evento rischia di enfatizzare troppo
il decreto come misura «mediatica».
Non solo: il parere rileva il vizio di legittimità di
eccesso di delega, perché la legge 124/2015 non ha indicato
al legislatore delegato di disciplinare responsabilità
erariali.
Responsabilità oggettiva dei dirigenti.
Allo stesso vizio di eccesso di delega si presta la norma
secondo cui l'omessa comunicazione all'ufficio competente
per procedimenti disciplinari, l'omessa attivazione del
procedimento disciplinare e l'omessa adozione del
provvedimento di sospensione cautelare costituiscono, a
carico dei dirigenti ovvero, negli enti privi di qualifica
dirigenziale, a carico dei responsabili di servizio
competenti, illecito disciplinare punibile con il
licenziamento; tali comportamenti configurano il reato di «omissione
di atti di ufficio», punito dall'art. 328 del codice
penale.
Si tratta, secondo il Consiglio di stato, per un verso di
una norma introduttiva di una sorta di responsabilità
oggettiva eccessiva nei riguardi dei dirigenti. Ma,
soprattutto di una disposizione penale nuova, diversa da
quella prevista dal codice penale, che richiede una
specifica norma primaria, per non violare la Costituzione
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il Consiglio di Stato ha reso parere favorevole con
osservazioni sullo schema di decreto legislativo sulla
disciplina relativa alla responsabilità disciplinare dei
pubblici dipendenti (Consiglio di Stato, Commissione
speciale,
parere 05.04.2016, n. 864 - "Schema di
decreto legislativo recante “Modifiche all’art. 55-quater
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi
dell’art. 17, comma 1, lettera s), della legge 07.08.2015,
n. 124, in materia di licenziamento disciplinare”.".
I punti principali del parere del Consiglio
di Stato sulla disciplina relativa alla responsabilità
disciplinare dei pubblici dipendenti.
Il parere, dopo aver ricordato il ruolo e la natura della
funzione consultiva del Consiglio di Stato, prosegue con la
attenta e dettagliata ricostruzione normativa della
disciplina in materia disciplinare.
Segue l’esame ricostruttivo, anche in termini di obiettivi,
delle regole predisposte nello schema.
In particolare, lo schema di decreto prevede:
– l'ampliamento del novero delle ipotesi riconducibili alla
fattispecie “falsa attestazione della presenza in
servizio”, con la statuizione che risponde della
violazione anche chi abbia agevolato, con comportamenti
attivi o omissivi, la condotta fraudolenta;
– l'introduzione della sanzione della sospensione cautelare
senza stipendio del dipendente pubblico nei casi di “falsa
attestazione della presenza in servizio”, da irrogarsi
immediatamente e comunque entro 48 ore;
– l'introduzione di un procedimento disciplinare accelerato
nei casi di “falsa attestazione della presenza in
servizio”;
– l'introduzione dell’azione di responsabilità per danni di
immagine della PA nei confronti del dipendente sottoposto ad
azione disciplinare per assenteismo;
– l'estensione della fattispecie di reato “Omissione
d’atti d’ufficio”, di cui all’artt. 328 c.p., ai casi in
cui il dirigente (o il responsabile del servizio) ometta
l’adozione del provvedimento di sospensione cautelare o
l’attivazione del procedimento disciplinare nei confronti
del dipendente che abbia attestato falsamente la propria
presenza;
– l'estensione della responsabilità disciplinare del
dirigente (o del responsabile del servizio) e irrogazione
della sanzione del licenziamento disciplinare ai casi in cui
lo stesso ometta l’adozione del provvedimento di sospensione
cautelare o l’attivazione del procedimento disciplinare.
Modifiche proposte.
Quanto alle modifiche proposte, vanno segnalate le
osservazioni concernenti la necessità di introdurre
specifici e chiari termini procedimentali, in specie in tema
di contestazione dell’addebito e di preavviso per la
convocazione in contraddittorio, i quali devono essere
compatibili con il termine di conclusione del procedimento,
ma anche idonei ad assicurare l’effettività del diritto di
difesa, nonché con la specifica indicazione del dies a
quo di decorrenza del termine di conclusione del
procedimento.
Viene poi suggerita una riflessione, sotto il profilo della
ragionevolezza e della proporzionalità, in ordine
all’introduzione della sanzione disciplinare del
licenziamento in capo ai dirigenti e ai responsabili di
servizio per i casi previsti dal comma 3-bis, che
sostanzialmente equipara il dirigente, quanto al trattamento
sanzionatorio, ad un soggetto che ha concorso nella
commissione dell’illecito, mentre in realtà la condotta
omissiva del dirigente, cui la norma si riferisce, è una
condotta successiva e diversa rispetto all’illecito posto in
essere dal dipendente.
Eccesso di delega.
Di particolare rilievo appaiono le considerazioni conclusive
svolte in termini di eccesso di delega, sotto due profili.
In primo luogo, è chiesta l’espunzione dal testo della
disciplina concernente l’azione di responsabilità per danno
d’immagine alla pubblica amministrazione, in quanto posta al
di fuori della delega conferita dall’art. 17, comma 1, lett.
s), l. 07.08.2015, n. 124. Tale disciplina appare, infatti,
estranea alla materia della responsabilità disciplinare e al
procedimento disciplinare, vertendosi in tema di
responsabilità di diversa natura.
Né è possibile indirettamente ricondurre l’istituto alla
materia della responsabilità disciplinare mediante
riferimento ad una ipotetica contestualità delle azioni nei
confronti del pubblico dipendente, atteso che neppure questa
sussiste. Ad avviso del Consiglio di Stato la formulazione
della norma porta a ritenere che tale azione di
responsabilità per danno di immagine si svolga e si
esaurisca successivamente alla conclusione della procedura
di licenziamento.
Va inoltre considerato che la stessa non concerne
direttamente la disciplina del lavoro con la pubblica
amministrazione. Né i relativi profili di organizzazione
amministrativa, attenendo piuttosto agli effetti che la
violazione degli obblighi del lavoratore produce, in
relazione alla tutela di interessi e beni che non riguardano
direttamente il rapporto di lavoro.
L’unica parte della disposizione che risulta pienamente
compatibile con la previsione della lett. s) dell’art. 17
della legge delega -prosegue il Consiglio di Stato- è la
prima parte del comma 3-quater, laddove prevede che “Nei
casi di cui al comma 3-bis, la denuncia al pubblico
ministero e la segnalazione alla competente procura
regionale della Corte dei Conti avvengono entro quindici
giorni dall’avvio del procedimento disciplinare”,
rinvenendosi in tal caso la posizione di un mero obbligo di
denuncia connesso alla commissione di fatti per i quali è
avviato ed è in corso un procedimento disciplinare;
collegamento che potrebbe essere rafforzato dalla espressa
previsione di tale obbligo in capo all’ufficio per i
procedimenti disciplinari.
Da tale denuncia, e dalla segnalazione alla Corte
–correttamente previste dalla norma delegata– già discende
l’obbligo per la giurisdizione contabile di valutare la
consistenza dei fatti, senza certo potersi escludere che il
danno alla immagine debba costituire componente
significativa del danno “erariale” risarcibile dal
dipendente infedele.
E' poi evidenziata l'introduzione, con riferimento alla
disposizione del comma 3-quinquies, di una nuova ipotesi di
omissione di atti d'ufficio ex art. 328 c.p.. Il cit. comma
3-quinquies ha infatti previsto che "Il comma 3-quinquies
prevede che, per i casi di cui al comma 3-bis, l’omessa
comunicazione all’ufficio competente per i procedimenti
disciplinari, l’omessa attivazione del procedimento
disciplinare e l’omessa adozione del provvedimento di
sospensione cautelare costituiscono, a carico dei dirigenti
ovvero, negli enti privi di qualifica dirigenziale, a carico
dei responsabili di servizio competenti, illecito
disciplinare punibile con il licenziamento; tali
comportamenti configurano il reato di omissione di atti di
ufficio, punito dall’art. 328 del codice penale".
Indubbia è la differenza rispetto all'art. 328 c.p. che, per
la configurabilità del fatto di reato, prevede la preventiva
formulazione di una richiesta, il mancato compimento
dell’atto dell’ufficio e la mancata risposta per esporre le
ragioni del ritardo. Trattasi, dunque, di introduzione di
una nuova norma penale, in relazione alla quale non si
riscontra il supporto di idonea delega legislativa.
Ad avviso del Consiglio di Stato qualora il Governo, nel
quadro di un inasprimento della responsabilità dei
dirigenti, ed al fine di dare forte impulso alla iniziativa
di controllo e denuncia dei fenomeni di assenteismo, intenda
introdurre una estensione, ai comportamenti dirigenziali
omissivi nei casi in esame, dell’art. 328 c.p.., sarà
necessario un intervento con norma primaria giacché la norma
delegata, così come formulata, si presterebbe ad essere
censurata con successo da eventuali incolpati per eccesso di
delega, compromettendo così l’obiettivo finale di giusto
rigore nei confronti degli assenteisti e di chi omette di
denunciare i comportamenti.
Il parere quindi conclude con il suggerimento di espungere
dal testo le disposizioni che attengono all’azione di
responsabilità per danno d’immagine e alla responsabilità
penale dei dirigenti, senza con ciò voler porre alcuna
preclusione in merito e in diritto a che le stesse
previsioni siano riprese in considerazione per l’inserimento
in un successivo idoneo provvedimento legislativo, anche in
via urgente (tratto da a e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Pa digitale, primo stop dal Consiglio di Stato. I
giudici contro l’obbligo di «anonimizzare» tutte le
sentenze.
Riforma Madia. Da rivedere il capitale minimo chiesto ai
gestori di Pec e «identità».
Il decreto attuativo
della riforma Madia sul Codice dell’amministrazione digitale
inciampa al Consiglio di Stato, che chiede al governo una
serie di chiarimenti e integrazioni prima di dare il proprio
parere. Se sugli altri provvedimenti esaminati finora, dal
decreto Scia a quello sulla conferenza dei servizi (si veda
Il Sole 24 Ore di ieri) e sulle sanzioni anti-assenteismo, i
giudici amministrativi hanno finora dato il via libera,
anche se accompagnato da suggerimenti di correzioni, il
provvedimento sull’amministrazione digitale incontra
obiezioni più pesanti.
Palazzo Vidoni, in pratica, è
chiamato a fornire le motivazioni puntuali su un gruppo di
scelte, e solo dopo il Consiglio di Stato potrà fornire il
giudizio definitivo.
In effetti le domande dei giudici amministrativi, messe in
fila nel
parere 23.03.2016 n. 785
(Schema
di decreto legislativo recante “modifiche e integrazioni
al Codice dell’Amministrazione Digitale di cui al decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1
della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche”), puntano su
questioni parecchio delicate.
I giudici amministrativi,
prima di tutto, rilanciano le obiezioni già sollevate dagli
operatori del settore sul nuovo super-requisito imposto
dall’articolo 25 del decreto alle imprese che si candidano a
gestire la posta elettronica certificata, l’identità
digitale e gli altri servizi elettronici certificati.
A loro
il decreto legislativo chiede di avere un capitale sociale
di almeno 5 milioni di euro, cioè il livello che Bankitalia
ha imposto nella circolare 285/2013 alle banche di credito
cooperativo: sul punto, i giudici amministrativi richiamano
una prima obiezione già sollevata dal Tar Lazio, che nella
sentenza 9951/2015 ha ritenuto «sproporzionato» il
requisito, e chiede al governo di chiarire le ragioni della
scelta, e di tener conto dell’esigenza di «non escludere dal
mercato società che, pur in possesso di accertati requisiti
di affidabilità», hanno un capitale inferiore.
Per l’articolo 46 si arriva invece a ipotizzare «l’esigenza
di espungere dal testo» le novità. La riforma prevede
infatti l’obbligo di cancellare da tutte le sentenze i dati
personali, con l’eccezione di quelle dei giudici e degli
avvocati. L’«anonimizzazione totale», che sostituisce quella
oggi imposta quando la chiede una delle parti o il giudice,
quando c’è in gioco l’identità di minori, i rapporti
famigliari o la salute, non è però prevista in alcun punto
della delega, e potrebbe soffocare di lavoro aggiuntivo le
cancellerie danneggiando «l’efficacia e la speditezza» della
giustizia.
Da chiarire, poi, il taglio alle regole sulla
«continuità operativa», in base alle quali il Codice attuale
(articolo 50-bis) impone alle Pa di preparare piani di
emergenza per superare gli inciampi informatici, e la
validità automatica prevista per i documenti elettronici con
firma digitale. La «firma elettronica», osserva il Consiglio
di Stato, è rappresentata oggi da tanti sistemi diversi, a
volte limitati a una «semplice password» che «per sua natura
potrebbe non fornire la certezza» sulla provenienza
effettiva del documento.
Mentre la Funzione pubblica è al lavoro per superare le
obiezioni del Consiglio di Stato, il cantiere della riforma
continua a lavorare. Ieri sono arrivati in Parlamento i
primi testi, quelli che hanno già raccolto tutta la dote dei
pareri preventivi, mentre per domani sono attesi in
Conferenza unificata i due decreti paralleli sul taglio
delle partecipate e il riordino dei servizi locali, insieme
al regolamento sulle semplificazioni su cui già nelle scorse
settimane si è acceso il confronto con le Regioni (articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Tassa rifiuti, esenzione solo con denuncia.
Per invocare l'esenzione dal pagamento della tassa sui
rifiuti, in caso di immobile inutilizzato, è necessario
presentare tempestivamente la denuncia al relativo comune,
affinché l'ente possa disporre le opportune verifiche; di
contro, non è plausibile richiedere al comune un
accertamento postumo delle condizioni d'uso dell'immobile,
una volta ricevuto l'atto impositivo.
È quanto si legge nella
sentenza
22.03.2016 n. 252/02/2016 della Ctp di Frosinone
(presidente e relatore Ferrara). La vertenza nasce dal
ricorso proposto da una contribuente residente nel comune di
Frosinone, contro un avviso di accertamento per la Tarsu,
relativamente alle annualità dal 2009 al 2012.
La
contribuente sosteneva di non aver mai abitato l'immobile in
questione, seppur vi risultava residente, poiché dimorava
abitualmente presso l'abitazione dell'anziana madre,
bisognosa di cure e assistenza; tant'è che, si affermava nel
ricorso, non v'erano neppure consumi di elettricità o gas,
per cui non si erano potuti produrre rifiuti di alcun tipo.
Resisteva il comune di Frosinone, palesando il fatto che
nessuna denuncia era mai stata presentata in tal senso e
che, invece, la contribuente aveva avanzato una richiesta di
accertamento sull'immobile solamente dopo aver ricevuto
l'atto impositivo.
La Ctp di Frosinone ha respinto il ricorso, condannando la
ricorrente al pagamento di trecento euro per le spese di
giudizio. «Incombeva alla contribuente», affermano i giudici
frusinati, «l'obbligo di denuncia di nuova utenza, con
l'indicazione delle condizioni ostative all'applicazione
della tassa, denuncia che invece non risulta sia stata
prodotta a suo tempo». Neppure può avere alcun valore la
richiesta di verifica avanzata dalla contribuente dopo la
notifica dell'atto impositivo, ossia a distanza di diverso
tempo rispetto alle annualità per cui veniva richiesta la
tassa: in tal senso, una verifica postuma non avrebbe
consentito di attestare retroattivamente le condizioni d'uso
dell'immobile.
Infine, la Ctp ha respinto l'ulteriore profilo difensivo
avanzato nel ricorso, con cui la contribuente sosteneva di
aver versato ella stessa la tassa rifiuti per l'altro
immobile, quello intestato alla madre; circostanza che il
collegio non ha ritenuto sufficiente per riconoscere
l'invocata esenzione dal pagamento, atteso che «le cause di
esclusione dalla tassa non sono automatiche e devono essere
indicate nella denuncia di utenza, nuova o variata».
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il ricorso non è fondato e pertanto merita di
essere respinto. Il comune di Frosinone, avvalendosi di
quanto disposto in materia di Tarsu dal decreto legislativo
n. 507/1993 e dallo specifico stato di residenza anagrafica,
quindi a titolo di presunzione legale relativa, ha richiesto
il pagamento della tassa in questione per gli anni dal 2009
al 2012, gravando sulla contribuente l'onere di dimostrare
la non idoneità dei locali di cui trattasi a produrre
rifiuti e perciò il proprio diritto alla non applicazione
della tassa.
Detta dimostrazione non pare essere andata a
buon fine. Infatti le tre richieste di verifica dei luoghi,
tutte di data successiva all'avvenuta notifica, in data
16/10/2013, di un primo avviso di accertamento e non accolte
dall'ufficio in mancanza di novità tali da metter in
discussione l'esito degli accertamenti eseguiti in
precedenza dai vigili urbano, non avrebbero potuto attestare
retroattivamente le condizioni d'uso dell'immobile.
Comunque
a parte tale male intesa pretesa di accertamento
amministrativo postumo, che al contrario poteva essere
ottenuto mediate autocertificazione, resta il fatto, assai
più rilevante che incombeva sulla contribuente, ossia
l'obbligo della denuncia di nuova utenza in via [omissis],
con l'indicazione delle condizioni ostative all'applicazione
della tassa, denuncia che invece non risulta che sia stata
prodotta a suo tempo.
Le attestazioni di versamento prodotte
in copia, intestate o alla madre della ricorrente oppure
agli eredi della detta genitrice, non sono in grado di
provare che trattasi di pagamenti effettuati dalla stessa
ricorrente in qualità di debitrice della tassa per lo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
Dalla giurisprudenza
maggioritaria emerge che le cause dell'esclusione
dall'applicazione della tassa non sono automatiche, che
devono essere indicate nella denuncia di utenza (nuova o
variata) e che detta mancanza preclude la possibilità di
invocare in sede processuale la circostanza della inidoneità
dei locali. Il ricorso è, pertanto, privo di fondamento e va
respinto.
PQM
Rigetta il ricorso. Le spese seguono la soccombenza nella
misura di euro 300
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016). |
CONDOMINIO:
Vietato occupare la «colonna d’aria» sopra il
cortile. Spazi comuni. Costruzioni
«aggettanti».
La colonna d’aria sovrastante il cortile
condominiale è da considerarsi comune
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 21.03.2016 n. 5551).
La Cassazione ha avuto modo di precisare, in diverse
situazioni, che lo spazio aereo sovrastante alle unità
abitative in condominio, non può essere occupato dai singoli
condomini con costruzioni proprie in aggetto, non essendo
consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri
ai sensi dell’articolo 840, comma terzo, del Codice civile
(«sottosuolo e spazio sovrastante al suolo»),
l’utilizzazione ancorché parziale a proprio vantaggio della
colonna d’aria sovrastante ad area comune, quando la
destinazione naturale di questa ne risulti compromessa
(Cassazione sentenza 966/1993).
In condominio, la funzione dei cortili è quella di dare aria
e luce alle unità abitative che vi prospettano e la
costruzione di manufatti nel cortile comune di un fabbricato
condominiale è consentita al singolo condomino solo se non
alteri la normale destinazione di quel bene, non anche
quando si traduca in corpi di fabbrica aggettanti, con
incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante
ed utilizzazione della stessa a fini esclusivi (Cassazione,
sentenza 3098/2005).
La sopraelevazione, disciplinata
dall’articolo 1127 codice civile, pur essendo riconosciuta
come un diritto potestativo del proprietario dell’ultimo
piano o del lastrico solare ad uso esclusivo, non solo
prevede il pagamento di un’indennità da corrispondere agli
altri condomini ma è sottoposta a limitazione in quanto
prevede per i condòmini la possibilità di opporvisi, tra
l’altro, quando con la nuova costruzione diminuisce
notevolmente l’aria o la luce dei piani sottostanti.
Nella fattispecie sottoposta all’esame della suprema Corte
risultava evidente, dalla descrizione dei luoghi, che si era
in presenza di un vero e proprio corpo di fabbrica
aggettante sul cortile comune, realizzato mediante
incorporazione di una parte della colonna d’aria sovrastante
la relativa area, con conseguente alterazione della normale
destinazione del cortile, che è principalmente quella di
fornire aria e luce agli immobili circostanti.
Secondo i giudici di legittimità, la Corte di appello, pur
dando atto che il manufatto in esame poggiava su tre
pilastri che «occupano stabilmente e definitivamente parte
della corte comune» di «dimensioni assolutamente minime e
marginali», aveva, comunque, tratto delle conclusioni che si
basavano su un’incompleta valutazione della fattispecie,
perché non aveva tenuto conto del fatto che lo spazio aereo
sovrastante il cortile comune, stabilmente occupato dal
manufatto in questione, si poneva in contrasto con i
principi affermati in materia dalla giurisprudenza,
disattendendo il motivo di gravame principale con cui si
sosteneva che l’opera alterava la destinazione della cosa
comune, rendendola inservibile all’uso degli altri
condomini.
Per tali ragioni, la suprema Corte accoglieva tale motivo
del ricorso (articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2016).
---------------
MASSIMA
5) Il terzo e quarto motivo, che per ragioni di
connessione possono essere trattati congiuntamente, sono
fondati.
Come si legge a pag. 6 della sentenza impugnata, la
costruzione di cui gli attori hanno chiesto l'abbattimento è
costituita da "un'appendice posteriore di tipo pensile"
posta sul lato est del fabbricato. Tale costruzione appoggia
sul suolo (cortile comune) verso est, mediante tre pilastri
della sezione 35 x 35 cm., mentre dall'altro lato appoggia
totalmente sul muro perimetrale posteriore del fabbricato
condominiale. Le dimensioni esterne della costruzione in
appendice sono di m. 5,40 x 3,34 in proiezione orizzontale e
di m. 5,53 in altezza (primo e secondo piano), oltre la
falda. A tale costruzione si accede dalla contigua porzione
di fabbricato di proprietà della convenuta, mediante
ampliamento delle originarie finestre.
Siffatta descrizione rende evidente che si
è in presenza di un vero e proprio corpo di fabbrica
aggettante sul cortile comune, realizzato mediante
incorporazione di una parte della colonna d'aria sovrastante
la relativa area, con conseguente alterazione della normale
destinazione del cortile, che è principalmente quella di
fornire aria e luce agli immobili circostanti.
La Corte di Appello, pur dando atto che il manufatto in
esame poggia su tre pilastri che "occupano stabilmente e
definitivamente parte della corte comune", ha disatteso,
in considerazione delle "dimensioni assolutamente minime
e marginali del suolo su cui sono installati i tre pilastri",
il motivo di gravame principale con cui si sosteneva che
l'opera alterava la destinazione della cosa comune,
rendendola inservibile all'uso degli altri condomini.
Tali conclusioni si basano su un'incompleta valutazione
della fattispecie, non tenendo conto dello spazio aereo
sovrastante il cortile comune stabilmente occupato dal
manufatto in questione, e si pongono in contrasto con i
principi affermati in materia dalla giurisprudenza.
Deve, infatti, rammentarsi che negli
edifici in condominio, poiché la funzione dei cortili comuni
è quella di fornire aria e luce alle unità abitative che vi
prospettano, lo spazio aereo ad essi sovrastante non può
essere occupato dai singoli condomini con costruzioni
proprie in aggetto, non essendo consentito a terzi, anche se
comproprietari insieme ad altri, ai sensi dell'art. 840,
comma terzo c.c., l'utilizzazione ancorché parziale a
proprio vantaggio della colonna d'aria sovrastante ad area
comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti
compromessa (Cass.
27.01.1993 n. 966).
La costruzione di manufatti nel cortile
comune di un fabbricato condominiale, pertanto, è consentita
al singolo condomino solo se non alteri la normale
destinazione di quel bene, non anche quando si traduca in
corpi di fabbrica aggettanti, con incorporazione di una
parte della colonna d'aria sovrastante ed utilizzazione
della stessa a fini esclusivi
(Cass. 16.02.2005 n. 3098; nello stesso senso Cass.
13.04.1991 n. 3942).
S'impone, pertanto, la cassazione della sentenza impugnata
nella parte de qua, con conseguente assorbimento
degli ulteriori profili di illegittimità dell'opera dedotti
con gli stessi motivi, nonché del quinto, sesto, settimo e
undicesimo motivo. |
EDILIZIA PRIVATA:
Tlc, mega antenne promosse. Stazioni radio per
cellulari compatibili con il Prg.
Sentenza del Tar Veneto sui limiti alle infrastrutture
tecnologiche. Comuni in k.o..
Compagnia tlc batte comune. Si presume che il progetto di
mega antenna per cellulari della società telefonica sia
sempre compatibile con il piano regolatore generale del
comune: la stazione radio-base, infatti, risulta
assimilabile a un'opera di urbanizzazione primaria e dunque
non soggiace ai divieti previsti per altri manufatti. Ecco
allora che se in base al Prg la zona è soggetta a un piano
attuativo già approvato, lo stop all'infrastruttura
tecnologica può scattare soltanto quando l'opera si rivela
del tutto inconciliabile con l'intervento urbanistico
previsto nell'area. Diversamente l'ente locale non può
bloccare i lavori.
È quanto emerge dalla
sentenza 15.03.2016 n. 294, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Veneto, che aggiunge un nuovo episodio alla
saga in cui i giganti delle comunicazioni si trovano
contrapposti agli enti locali, creando un notevole
contenzioso.
Prescrizioni escluse.
Deve rassegnarsi l'amministrazione locale che ha
reiteratamente bocciato il progetto della mega antenna. Se
il Prg nulla dispone in senso contrario, la stazione
radio-base che dà il segnale ai telefonini deve ritenersi
compatibile con qualunque destinazione d'uso impressa alle
opere dagli strumenti urbanistici: i servizi tecnologici non
risultano quindi assoggettati alle prescrizioni che valgono
per altri tipi di opere e che sono dettate per disciplinare
diversi usi del territorio.
Nel caso specifico il manufatto è di soli sei metri per
cinque e si trova sul retro di una costruzione: il
proprietario del terreno è favorevole all'installazione e la
presenza della mega antenna non può dirsi inconciliabile in
senso assoluto con il piano attuativo del Prg approvato per
l'area; solo questo avrebbe potuto far scattare il niet
dell'ente locale. Al quale non resta che pagare le spese di
giudizio.
Obbligo di motivazione.
Attenzione, però. L'assimilazione delle stazioni radio-base
a opere di urbanizzazione primaria produce anche altre
conseguenze giuridiche: la mega antenna per cellulari non
deve osservare le norme sulle distanze, per esempio dalla
strada, che valgono per i comuni manufatti edilizi. E dunque
il comune non può bloccare soltanto per questo i lavori che
stanno a cuore alla compagnia telefonica.
In ogni caso quando l'amministrazione locale nega il titolo
edilizio richiesto per incompatibilità con il regolamento
deve motivare il rigetto indicando la norma violata. Lo
stabilisce la sentenza 1146/2016, pubblicata dalla settima
sezione del Tar Campania.
Pubblica utilità.
Troppo frettolosi i tecnici dell'ente che reputano
l'impianto per la telefonia mobile non conforme al
regolamento edilizio né all'epoca della realizzazione né al
momento in cui risulta chiesta la sanatoria. La stazione
radio-base della compagnia deve essere considerata un
impianto di pubblica utilità.
Ciò che conta, però, è che l'unica struttura a restare fuori
terra sarebbe l'antenna vera e propria, dal momento che
tutte le altre opere di rilevante valore edilizio e
urbanistico sono interrate: a riconoscerlo è lo stesso
provvedimento di diniego adottato dal comune quando dà atto
che le armature del basamento si trovano al di sotto del
piano campagna. Insomma: mancano opere edilizie
significative che impongano l'osservanza delle disposizioni
dettate a tutela delle distanze tra fabbricati. Spese di
giudizio compensate fra le parti in causa.
Impianti compatibili.
Veniamo ai rapporti fra istituzioni. Non è il comune che può
proibire le mega antenne per cellulari vicino a case, scuole
e ospedali: il regolamento dell'ente locale invade la
riserva di competenza dello stato se interviene sulle soglie
di attenzione con divieti generalizzati invece che curare il
corretto insediamento territoriale degli impianti.
Ecco allora che è accolto il ricorso del big delle
telecomunicazioni contro il regolamento dell'ente locale che
vieta di installare praticamente ovunque le stazioni
radio-base che servono a far funzionare i telefonini: gli
impianti sono invece «compatibili con qualsiasi
destinazione urbanistica». È quanto emerge dalla
sentenza 503/2015, pubblicata dal Tar Calabria, sezione
staccata di Reggio.
Interesse generale.
Sbaglia la compagnia telefonica quando sostiene che
l'amministrazione locale avrebbe bisogno del placet della
regione nell'adottare il regolamento con tutte le modifiche
che ha introdotto sul piano urbanistico. In realtà l'ente
locale ha i poteri per disciplinare il corretto insediamento
territoriale degli impianti.
Il punto è che con il regolamento di «minimizzazione»
il comune non può spingersi a porre divieti generalizzati
che puntano a tutelare la popolazione amministrata dai campi
magnetici: spetta infatti al legislatore nazionale indicare
obiettivi di qualità per le installazioni degli impianti con
criteri unitari da applicare uniformemente in tutta Italia.
Bisogna invece consentire dappertutto la copertura della
telefonia mobile: le mega antenne devono infatti ritenersi «infrastrutture
primarie e impianti di interesse generale».
Infine: il comune non può dare il placet alla mega antenna
senza ascoltare la voce del quartiere
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).
---------------
MASSIMA
Il ricorso ed i motivi aggiunti sono fondati e devono
essere accolti.
Infatti l'art. 86, comma 3, del Dlgs.
01.08.2003, n. 259 dispone espressamente che le
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazioni di cui
agli art. 87 e 88 sono assimilate ad ogni effetto alle opere
di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, DPR
06.06.2001 n. 380.
Tale assimilazione comporta che, in assenza di specifica
previsione per gli impianti in questione, gli stessi debbano
ritenersi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica
impressa dagli strumenti urbanistici
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 05.02.2013 n. 687;
Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.06.2011 n. 3646).
Da tale principio discende che tale tipo di
impianti possa essere localizzato anche in aree nelle quali
l’edificazione sia subordinata dallo strumento urbanistico
alla previa redazione di un piano attuativo, in quanto si
tratta di infrastrutture che, non potendo essere assimilate
alle normali costruzioni edilizie, non sono assoggettate
alle prescrizioni urbanistico edilizie preesistenti che si
riferiscono a tipologie di opere diverse e sono state
elaborate con riferimento a possibilità di diverso utilizzo
del territorio
(cfr. ex pluribus Tar Sicilia, Palermo, Sez. II,
15.01.2015, n. 100), e che, qualora, come
nel caso di specie, sia stato già approvato un piano
attuativo, la realizzazione dell’impianto possa essere
negata solo ove ricorra una condizione di effettiva ed
assoluta incompatibilità con le previsioni del piano.
Tale condizione non sussiste nel caso di specie.
Infatti come emerge dalla documentazione versata in atti
(cfr. la planimetria di progetto allegata quale doc. 9 alle
difese del Comune) l’area interessata dall’impianto ha una
limitata estensione (6 m per 5) ed è posta in un angolo
dell’intervento urbanistico posto sul retro dello scivolo
che porta al piano interrato, in un punto per il quale il
piano attuativo non reca alcuna previsione e che risulta
quindi idoneo ad ospitare la realizzazione di servizi
tecnologici.
Pertanto, contrariamente a quanto reiteratamente affermato
dal Comune nei provvedimenti impugnati, non sussiste alcun
contrasto con le previsioni del piano attuativo.
Da quanto esposto emerge l’infondatezza anche della tesi del
Comune secondo la quale dovrebbe procedersi ad una previa
variazione delle previsioni del piano attuativo per
consentire l’inserimento dell’infrastruttura.
Infatti l’istanza per la realizzazione dell’impianto è stata
presentata con l’espresso assenso della Società Te.Im. Srl
(cfr. doc. 3 allegato al ricorso introduttivo), proprietaria
delle aree comprese nel piano attuativo dalla stessa
presentato, e l’impianto, non comportando alcun sostanziale
mutamento del disegno edificatorio previsto dall’elaborato
progettuale, non incide sui suoi criteri informatori.
Parimenti privo di fondamento è il capo di motivazione del
diniego che fa riferimento alla mancata previsione di una
accesso all’impianto dalla pubblica via, atteso che,
una volta valutata la conformità dell’istanza alla
disciplina applicabile al titolo richiesto, il rilascio del
provvedimento abilitativo assume carattere vincolato, e
l’eventuale interclusione può essere ovviata con la
possibilità di ottenere, in via consensuale o giudiziale, la
costituzione di una servitù di passaggio ai sensi dell’art.
1051 c.c. (cfr.
Tar Veneto, sez. II, 08.02.2016, n. 127; id. 12.01.2011, n.
37; Consiglio di Stato, parere Sez. II, 27.02.2002, n.
2559/2001).
E’ inoltre erronea l’affermazione, contenuta nel
provvedimento impugnato con i motivi aggiunti, secondo la
quale l’area interessata dall’intervento dovrebbe essere
ceduta al Comune al pari delle altre aree con destinazioni
ad uso pubblico, in quanto l’art. 86, comma 3, del Dlgs.
01.08.2003, n. 259, nell’affermare l’assimilazione di tali
impianti alle opere di urbanizzazione primaria, precisa che
restano “di proprietà dei rispettivi operatori”.
In definitiva, in accoglimento delle assorbenti censure di
carenza di presupposti, difetto di motivazione e di
istruttoria di cui al secondo e terzo motivo del ricorso
introduttivo e al secondo e terzo dei motivi aggiunti,
devono essere annullati i dinieghi impugnati. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il dipendente si paga da solo le spese legali.
Tar della Calabria.
Innocente sì, ma più povero. Dopo l'assoluzione
dall'imputazione di peculato il dipendente del Comune chiede
all'ente datore di coprirlo sulle spese legali sostenute nel
procedimento il reato ipotizzato, inerente motivi di
servizio. Ma dovrà rassegnarsi a pagarle da solo perché a
suo tempo non ha coinvolto l'amministrazione, anzi ha
taciuto l'esistenza del processo a suo carico, forse temendo
la condanna: l'ente datore, invece, deve essere messo in
condizione di verificare se sussistono conflitti d'intesse
con il dipendente.
È quanto emerge dalla
sentenza
09.03.2016 n. 272,
pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria, che interviene
su di una questione controversa in giurisprudenza.
Schema procedimentale
- Niente da fare per la lavoratrice,
che pure è stata mandata esente da pena nel procedimento in
cui era accusata di essersi appropriata di marche da bollo
nella sua disponibilità. Non c'è dubbio che il dipendente
pubblico sotto inchiesta per reati riconducibili al suo
lavoro possa scegliersi l'avvocato che preferisce.
Ma non
può farsi vivo con l'amministrazione solo a giudizio
concluso perché sia il Comune a farsi carico della parcella
forense: lo schema procedimentale, infatti, è quello
previsto per l'intervento dell'avvocatura dello Stato e
l'ente datore deve poter verificare se gli atti per i quali
si procede in giudizio riguardano davvero in modo diretto
funzioni del lavoratore.
E se non ci sono conflitti di
interesse l'ente deve farsi carico delle spese legali a
tutela propria e del dipendente
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).
----------------
MASSIMA
... per la condanna al pagamento delle spese legali
dovute dalla ricorrente al proprio difensore di fiducia ai
sensi dell’art. 67 del D.P.R. n. 268/1987.
...
La domanda è infondata.
All’epoca dei fatti, la ricorrente era impiegata presso
l’Ufficio Anagrafe del Comune di San Ferdinando.
La normativa applicabile al caso di specie, pertanto, è
quella prevista per il comparto del personale degli enti
locali e, segnatamente, l’art. 67 del D.P.R. 13.05.1987, n.
268 (contenente “Norme abrogato, a decorrere dal 06.06.2012, dall’art. 62, comma 1, e dalla tabella A allegata al
D.L. 09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla
L. 04.04.2012, n. 35 e, dunque, applicabile al caso di
specie ratione temporis), rubricato “Patrocinio legale”, ai
sensi del quale:
“1. L’ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi,
ove si verifichi l’apertura di un procedimento di
responsabilità civile o penale nei confronti di un suo
dipendente per fatti o atti direttamente connessi
all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti
d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non
sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin
dall’apertura del procedimento facendo assistere il
dipendente da un legale di comune gradimento.
2. In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti
commessi con dolo o con colpa grave, l’ente ripeterà dal
dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in
ogni grado di giudizio”.
Sostiene la ricorrente che il rimborso sarebbe comunque
dovuto, a seguito della sua assoluzione, indipendentemente
da qualsivoglia coinvolgimento iniziale
dell’Amministrazione.
E’ circostanza pacifica, infatti, che la stessa non solo non
ha rivolto al Comune istanza di assistenza legale o di
assunzione degli oneri di difesa, ma non ha finanche
comunicato l’instaurazione del procedimento penale a suo
carico.
Il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale che
non condivide la predetta tesi.
L’art. 67, cit., infatti, prevede un modello procedimentale
analogo a quello regolamentato dall’art. 44 del R.D. n.
1611/1933, relativo all’assunzione a carico dello Stato
della difesa dei pubblici dipendenti per fatti e cause di
servizio (“L'Avvocatura dello Stato assume la rappresentanza
e la difesa degli impiegati e agenti delle Amministrazioni
dello Stato o delle amministrazioni o degli enti di cui
all'art. 43 nei giudizi civili e penali che li interessano
per fatti e cause di servizio, qualora le amministrazioni o
gli enti ne facciano richiesta, e l'Avvocato Generale dello
Stato ne riconosca la opportunità”).
Tale modello procedimentale ex art. 67 cit. “rimette alla
valutazione ex ante dell’ente locale, con specifico
riferimento all’assenza di conflitto di interessi, la scelta
di far assistere il dipendente da un legale di comune
gradimento, per cui non è in alcun modo riconducibile al
contenuto della predetta norma la pretesa… di ottenere il
rimborso delle spese del patrocinio legale a seguito di una
scelta del tutto autonoma e personale nella nomina del
proprio difensore. Del resto, l’onere della scelta di un
legale di comune gradimento appare del tutto coerente con le
finalità della norma perché, se il dipendente vuole
l’amministrazione lo tenga indenne dalle spese legali
sostenute per ragioni di servizio, appare logico che il
legale chiamato a tutelare tali interessi, che non sono
esclusivi di quelli del dipendente, ma coinvolgono anche
quelli dell’ente di appartenenza , debba essere scelto
preventivamente e concordemente tra le parti… in caso
diverso, si priverebbe di significato la previsione
normativa volta a tutelare diritti ed interessi che sono
comuni ad entrambe le parti” (Consiglio di Stato, Sez. V, 12.02.2007, n. 552).
Alla stregua della predetta norma è senz’altro configurabile
un potere di intervento a posteriori, per l'accollo di spese
già sostenute direttamente dal dipendente (in tal senso,
Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.03.2002, n. 1476),
ma pur
sempre nel presupposto dell’iniziale coinvolgimento
dell’ente di appartenenza che deve essere messo nelle
condizioni di svolgere un apprezzamento discrezionale
dell'ente circa la sussistenza o meno di un conflitto
d'interessi o la qualificazione dei fatti o degli atti per
cui si procede in sede giudiziaria, se direttamente o meno
connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei
compiti d'ufficio, fermo restando che, in assenza di un
dichiarato e motivato conflitto di interessi, l'assunzione
di ogni onere di difesa da parte dell'ente costituisce
un'attività vincolata, in quanto preordinata alla tutela
degli interessi del dipendente, oltre che a tutela di quelli
propri dell'ente (in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI,
12.03.2002, n. 1476, cit.).
In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite della
Cassazione che, con sentenza n. 12719 del 29.05.2009, in
sede di decisione su un conflitto negativo di giurisdizione,
hanno affermato quanto segue:
“I presupposti per l'insorgenza di questa speciale garanzia,
prevista in favore dei dipendenti degli enti locali, sono
costituiti: a) dal fatto che la commissione di fatti o atti
addebitati al dipendente in sede penale siano direttamente
connessi all'espletamento del servizio o all'adempimento dei
compiti d'ufficio; b) dalla mancanza di una situazione di
conflitto di interesse.
Sussistendo questi presupposti il dipendente, quindi, sulla
base della suddetta disciplina può avvalersi della garanzia
alla rivalsa alle spese attraverso il riconoscimento di un
diritto, che sorge -come emerge dalla lettera del citato
art. 67- nel momento stesso in cui il procedimento penale
ha inizio e le spese legali vengono concretamente sostenute,
atteso che espressamente la disposizione scrutinata prevede
detta garanzia al momento dell'"apertura del procedimento"
ed atteso che risponde ad un interesse sia del dipendente
che della pubblica amministrazione che sin da tale momento
la difesa in giudizio avvenga ad opera di "un legale di
comune gradimento"”.
Anche le Sezioni Unite, dunque, postulano quale presupposto
necessario dell’insorgenza del diritto al rimborso il
coinvolgimento iniziale dell’ente.
La sussistenza di un preciso onere, da parte del dipendente,
di comunicare all’amministrazione interessata la pendenza
del procedimento in cui è coinvolto, ai fini
dell’operatività dell’accollo imposto ex lege è stata
sostenuta dal Giudice Ordinario anche più recentemente.
La Corte d’Appello di Campobasso, nella sentenza del 06.11.2013 (resa in causa r.g.n. 337/2012), ha
correttamente richiamato la sentenza n. 1657 del 25.08.2009 con cui la Corte dei Conti, Reg. Lazio “esclude che vi
possa essere un rimborso "ex post" delle spese sostenute
dall'interessato, se egli non segue l'iter previsto dalla
legge, in quanto la norma prevede l'onere a carico dell'ente
"anche a tutela dei propri diritti e interessi…Questa
precisazione deve interpretarsi nel senso che
l'Amministrazione deve comunque preventivamente valutare che
non sussista un conflitto di interessi, a prescindere da una
possibile futura assoluzione, e si deve anch'essa far carico
che la vicenda processuale non abbia esiti che possano
ripercuotersi negativamente sui suoi interessi o sulla sua
immagine pubblica. Né la procedura viola il principio del
diritto alla difesa e la facoltà di scegliersi un avvocato
di personale fiducia.
Invero, non è in discussione la facoltà per l'interessato di
scegliersi l'avvocato che preferisce, ma se vuole essere
tenuto indenne da parte dell'ente locale per le spese del
giudizio in cui è coinvolto, deve seguire la procedura di
cui si è detto”.
Parte della giurisprudenza richiamata da parte ricorrente,
inoltre, non è attinente al caso di specie.
Le sentenze del TAR Piemonte, Torino, Sez. II, n.
4585/2010 e del TAR Sicilia, Palermo, sez I, n. 1309/2002
si riferiscono al comparto del personale dipendente del
Servizio Sanitario Nazionale, al quale si applica l’art. 41
del D.P.R. 20.05.1987, n. 270, che non richiede che il
dipendente sia assistito da un legale di comune gradimento
(“L'ente, nella tutela dei propri diritti ed interessi, ove
si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità
civile o penale nei confronti del dipendente per fatti e/o
atti direttamente connessi all'espletamento del servizio è
all'adempimento dei compiti d'ufficio assumerà a proprio
carico, a condizione che non sussista conflitto di
interesse, ogni onere di difesa fin dall'apertura del
procedimento e per tutti i gradi del giudizio, facendo
assistere il dipendente da un legale”).
La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8750/2009, si
limita a chiarire che il dipendente può agire sia per
ottenere l'assunzione diretta del patrocinio che per il
pagamento delle spese richieste dal proprio difensore
all'esito del procedimento penale e richiama la sopra citata
Cass., Sez. Un., 29.05.2009, n. 12719.
La sentenza del TAR Veneto n. 1505/1999 si riferisce ad
ipotesi in cui l'Amministrazione non abbia espresso
l'assenso circa la scelta del difensore, ma non al caso in
cui essa Amministrazione non abbia avuto conoscenza della
pendenza del processo.
Dal mancato coinvolgimento iniziale del Comune resistente,
in conclusione, deriva l’infondatezza della domanda per
insussistenza del diritto al rimborso. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Per il dehors serve il sì del condominio. Poteri
di veto. I proprietari devono dare il consenso alla
realizzazione del manufatto in aderenza alla facciata.
Il conduttore di un immobile destinato ad uso birreria che
intende realizzare nell’area antistante il locale un dehors
che verrà montato solo in aderenza alla facciata non può
essere autorizzato dal comune a realizzare l’opera se non
dimostra di aver ottenuto il consenso della collettività
condominiale.
È questo il
principio affermato dal TAR Toscana -Sez. II- nella
sentenza 04.03.2016 n. 379.
La vicenda prendeva l’avvio quando il titolare di un locale
birreria, facente parte di un caseggiato, decideva di
realizzare, nello spazio antistante il locale condotto in
locazione, un dehors temporaneo con possibilità di
chiusura stagionale in cui installare tavoli, sedie.
Il progetto definitivo prevedeva che la struttura portante
del dehors non fosse ancorata alla parete
condominiale, ma fosse realizzata soltanto in aderenza del
muro perimetrale con montanti verticali in acciaio
indipendenti.
L’opera, quindi, veniva autorizzata, ma una condòmina
richiedeva al comune l’annullamento in via di autotutela del
provvedimento autorizzatorio, per la mancanza di nulla osta
da parte del condominio. La richiesta veniva respinta, anche
perché tutti gli altri condomini (compreso il proprietario
del locale-birreria) con apposita comunicazione, avevano
confermato l’autorizzazione ad occupare l’area privata
antistante il pubblico esercizio.
La questione, poi, è stata sottoposta all’attenzione del Tar
che ha dato torto al titolare della birreria, rilevando che
la domanda volta ad ottenere la concessione e/o
l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro
all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio, con
occupazione di tutta l’area esterna condominiale, richiede
il consenso degli altri condòmini (inclusa la ricorrente che
non ha mai prestato il suo assenso), anche nel caso in cui
la struttura venga posta solo a contatto dell’edificio.
A diversa conclusione si potrebbe arrivare, però, se il
dehors fosse realizzato con le stesse modalità ma con
occupazione parziale del cortile: in tal caso, infatti, se
si considera che i rapporti condominiali richiedono il
continuo rispetto del principio di solidarietà, il quale
richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli
interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora
sia prevedibile (come nel caso in questione) che gli altri
partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso
della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal
condomino potrebbe ritenersi legittima
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.04.2016).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento:
- del provvedimento Autorizzativo Unico n. 152 del
29.07.2013 con cui il Dirigente del Settore Urbanistica e
Suap ha autorizzato il Sig. Er.Si., nella sua qualità di
legale rappresentante dell’impresa “Pi. Bar di Er.Si. & C.
<<ad occupare l’area privata antistante il pubblico
esercizio denominato “Bar Lume” posto in via Rinchiosa,
angolo Via Garibaldi al fine di poter installare tavoli,
sedie e strutture a padiglione con temporanea possibilità di
chiusura stagionale […]>>, nonché degli atti connessi,
presupposti e conseguenti nonché per il risarcimento:
- dei danni subiti e subendi dalla ricorrente per effetto
degli illegittimi provvedimenti impugnati;
...
2. Il primo motivo del ricorso introduttivo del presente
giudizio è fondato.
La circostanza,
infatti, che “la struttura portante del
dehors da installare non verrà agganciata alla parete
condominiale, ma sostenuta da montanti verticali in acciaio
indipendenti”,
come si legge nel provvedimento autorizzativo impugnato,
non esonerava dalla necessità di ottenere il previo
consenso da parte dei proprietari della facciata medesima.
A riguardo va rilevato come sia incontestato che il progetto
per la realizzazione del dehors di cui si discute sia
quello graficamente rappresentato nel documento prodotto
dalla ricorrente come all. 18, consegnato al Comune
nell’aprile del 2013, nel quale si trova espressamente
scritto “Dehors distaccato 1 cm dalla facciata con
struttura indipendente”.
Ora, l’Allegato L del Regolamento edilizio comunale al punto
2.8 prevede, con riferimento alle “strutture a padiglione
temporanee con possibilità di chiusura stagionale”, il
generale divieto di ogni infissione al suolo e alla parete
dell’edificio di pertinenza.
Tuttavia, il quarto comma del citato punto 2.8 stabilisce
che “nel caso di presenza di marciapiede
sopraelevato di larghezza tale da consentire la coesistenza
del manufatto e del percorso pedonale, il manufatto stesso
può essere collocato in aderenza alla facciata a condizione
che venga comunque garantita una striscia libera di almeno 2
metri di larghezza a partire dal filo esterno del
marciapiede”.
Ed è questa la fattispecie in cui rientra, secondo il
progetto di cui si è detto, la struttura per cui è causa,
per la quale, dunque, viene consentita la collocazione in
aderenza alla facciata, mentre rimane vietata ogni
infissione alla stessa.
Inoltre, il citato Allegato L del Regolamento edilizio
comunale al punto 1.2 lett. c richiede in via generale, per
tutte le domande volte ad ottenere la concessione e/o
l’autorizzazione per la costruzione di spazi di ristoro
all’aperto annessi a locali di pubblico esercizio di
somministrazione, il “nulla-osta del proprietario o
dell’amministratore dell’immobile qualora la struttura venga
posta a contatto dell’edificio”; ciò in piena coerenza
con la disciplina del condominio negli edifici (artt. 1117 e
ss. cod. civ.).
Ne discende che, oltre al divieto di
infissione-aggancio alla parete condominiale, viene
stabilito altresì che il contatto-aderenza –essendo i due
termini sinonimi– dell’edificio richiede il previo
nulla-osta dei proprietari o dell’amministratore
dell’immobile.
Ciò significa che
l’amministrazione non avrebbe dovuto ridurre la questione di
cui si controverte all’esistenza o meno dell’”aggancio”
alla parete, ma avrebbe dovuto prendere in considerazione la
specifica disciplina regolamentare del “contatto-aderenza”
con l’edificio per dedurne la necessità del suddetto
nulla-osta dei proprietari.
E’ evidente, infatti, che la progettata
struttura, proprio in quanto distaccata di un solo
centimetro dalla facciata, non può non essere considerata
come aderente alla facciata stessa, con la conseguenza che
la sua collocazione richiedeva il previo nulla-osta di tutti
i proprietari della medesima, in quanto muro perimetrale
condominiale ai sensi dell’art. 1117 cod. cic., ivi incluso
quello della ricorrente che non risulta, invece, aver mai
prestato il suo assenso a tal fine. |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza, il datore non è responsabile per
l’operaio distratto. Prevenzione. Sentenza della Cassazione.
Il datore di lavoro non ha un obbligo di vigilanza assoluta
nei riguardi del lavoratore, ma una volta forniti tutti i
mezzi idonei alla prevenzione e adempiute tutte le
obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli
non risponderà dell’evento derivante da una condotta
imprevedibilmente colposa del lavoratore.
Il principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione
-Sez. IV penale- con la
sentenza
03.03.2016 n. 8883, in cui si considera maggiormente
la responsabilità dei lavoratori attuando il cosiddetto
«principio di auto responsabilità» degli stessi. Viene così
abbandonato il criterio esterno delle mansioni che «si
sostituisce con il parametro della prevedibilità, intesa
come dominabilità del fattore causale».
La sentenza trae motivo dal ricorso proposto
dall’amministratore di una società e dal responsabile del
servizio di prevenzione e protezione (Rspp) della società
stessa, contro la sentenza d’appello che li aveva
riconosciuti colpevoli del reato di lesioni a carico di un
lavoratore caduto dal tetto di un capannone. Dai fatti
accertati è risultato che la sera prima dell’incidente, il
lavoratore, elettricista manutentore, dipendente della
società da 5 anni, si era recato per un sopralluogo, su
incarico della propria azienda e accompagnato
dall’amministratore della società, presso un capannone del
committente dove avrebbe dovuto montare dei faretti sulle
pareti esterne.
In tale circostanza il lavoratore e il Rspp
della committente avevano utilizzato un elevatore con
braccio meccanico. A conclusione del sopralluogo il Rspp
della società datrice di lavoro, informato telefonicamente
del lavoro da eseguire, gli aveva detto di prendere tutte le
attrezzature di lavoro e di sicurezza, con la verosimile
certezza che l’operaio avrebbe operato dall’elevatore messo
a disposizione dal committente. È avvenuto invece che il
lavoratore, pur servendosi dell’elevatore, si era portato
sul cordolo esterno del capannone, frantumatosi per
l’esilità delle lastre di eternit causando l’infortunio.
In base alla ricostruzione istruttoria dei fatti, per il
Tribunale non era possibile sostenere che quei lavori
dovessero essere svolti dal tetto e non dall’elevatore. Era
risultato, inoltre, che gli imputati avevano organizzato il
lavoro da effettuare senza che fosse prevista la necessità
di salire sul tetto, sincerandosi che la ditta cliente
mettesse a disposizione l’elevatore, ritenuto più che
sufficiente per svolgere l’attività in sicurezza.
Di diverso avviso la Corte d’appello, che condannava invece
i due imputati per aver omesso di predisporre i necessari
apprestamenti di sicurezza.
Prima di stabilire il principio già citato, la Corte di
legittimità ha ribadito che la radicale riforma in appello
di una sentenza di assoluzione non può essere basata su
valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio
probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità
e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza
di primo grado, ma deve fondarsi su elementi dotati di
effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di
vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineata
situazione di conflitto valutativo delle prove (articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2016).
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MASSIMA
9. Questa Corte Suprema ha reiteratamente affermato -e
si ritiene di dover ribadire- che non vale
a escludere la responsabilità del datore di lavoro il
comportamento negligente del lavoratore infortunato che
abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da
ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che,
se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il
rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente
(cfr. ex multis questa sez. 4, n. 7364 del
14.01.2014, Scarselli, rv. 259321).
Tuttavia, quello che ci occupa è proprio un caso in cui
tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano
state assunte.
Era da prevedersi che un operaio dotato di siffatta
qualificazione -ponesse in essere un comportamento del
genere?
Sul punto va ricordato che, come affermato nella recente
sentenza delle Sezioni Unite n. 38343/2014 sul c.d. caso
Thyssenkrupp, in tema di colpa, la
necessaria prevedibilità dell'evento -anche sotto il profilo
causale- non può riguardare la configurazione dello
specifico fatto in tutte le sue più minute articocolazioni,
ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso
che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca
quello oggetto del processo
(Cass. Sez. Un., n. 38343 del 24.04.2014, P.G., R.C.,
Espenhahn e altri, rv. 261103 nella cui motivazione la Corte
ha precisato che, ai fini della imputazione soggettiva
dell'evento, il giudizio di prevedibilità deve essere
formulato facendo riferimento alla concreta capacità
dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue
specifiche qualità personali).
Inoltre, è stato precisato che nel reato
colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra
omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base
del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve
essere verificato alla stregua di un giudizio di alta
probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato,
oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato
sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di
tipo induttivo elaborato sull'analisi della
caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità
del caso concreto
(Cass. Sez. Un., n. 38343 del 24.04.2014, P.G., R.C.,
Espenhahn e altri, rv. 261103; conf. sez. 4, n. 49707 del
04.11.2014, Incorcaia ed altro, rv. 263284; sez. 4, n. 22378
del 19.03.2015, PG in proc. Volcan ed altro, rv. 263494).
Ebbene, la risposta in termini di possibile prevedibilità
dell'evento non può che essere che il comportamento posto in
essere dal Se. non era assolutamente prevedibile.
10. Questa Corte di legittimità ha anche ricordato, in una
recente pronuncia (sez. 4, n. 41486 del 05.05.2015, Viotto,
non mass.), come il sistema della normativa
antinfortunistica, si sia lentamente trasformato da un
modello "iperprotettivo", interamente incentrato
sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto
garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta
sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di
sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i
lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi
contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo"
in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti,
compresi i lavoratori.
Tale principio, normativamente affermato
dal Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro di cui al D.Lgs.
09.04.2008 n. 81, naturalmente non ha escluso, per la
giurisprudenza di questa Corte, come si ricordava, che
permanga la responsabilità del datore di lavoro, laddove la
carenza dei dispositivi di sicurezza, o anche la mancata
adozione degli stessi da parte del lavoratore, non può certo
essere sostituita dall'affidamento sul comportamento
prudente e diligente di quest'ultimo.
Ricordava ancora la sentenza 41486/2015 -che il Collegio
condivide pienamente- che in
giurisprudenza, dal principio "dell'ontologica
irrilevanza della condotta colposa del lavoratore"
(che si rifà spesso all'art. 2087 del codice civile),
si è passati
-a seguito dell'introduzione del D.Lgs. 626/1994 e, poi del
T.U. 81/2008- al concetto di "area di
rischio" (cfr.
sez. 4, n. 36257 del 01.07.2014, rv. 260294; sez. 4, n.
43168 del 17.06.2014, rv. 260947; sez. 4, n. 21587 del
23.03.2007, rv. 236721) che il datore di
lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.
Strettamente connessa all'area di rischio
che l'imprenditore è tenuto a dichiarare nel DVR si sono,
perciò, andati ad individuare i criteri che consentissero di
stabilire se la condotta del lavoratore dovesse risultare
appartenente o estranea al processo produttivo o alle
mansioni di sua specifica competenza.
Si è dunque affermato il concetto di
comportamento "esorbitante", diverso da quello "abnorme"
del lavoratore. Il primo riguarda quelle condotte che
fuoriescono dall'ambito delle mansioni, ordini, disposizioni
impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci,
nell'ambito del contesto lavorativo, il secondo,
quello, abnorme, già costantemente delineato dalla
giurisprudenza di questa Corte di legittimità, si riferisce
a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile
dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto
lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con
l'attività svolta.
La recente normativa (T.U. 2008/81) impone anche ai
lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni
cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e
perizia.
Le tendenze giurisprudenziali -va qui
ribadito- si dirigono anch'esse verso una maggiore
considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. "principio
di autoresponsabilità del lavoratore"). In buona
sostanza, si abbandona il criterio esterno delle mansioni e
-come condìvisibilmente rilevava la sentenza 41486/2015
"si sostituisce con il parametro della
prevedibilità intesa come dominabìlità umana del fattore
causale".
Il datore di lavoro non ha più, dunque, un
obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come
in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei
alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni
proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà
dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente
colposa del lavoratore.
Questi princìpi si attagliano specificamente al caso di
specie, essendo rimaste provate non solo la valutazione
preventiva del rischio derivante dallo svolgimento in quota
dei lavori di sostituzione dei faretti e di posizionamento
dei fili, ma anche la concreta dotazione al lavoratore, nel
frangente dell'infortunio, degli strumenti idonei ad
effettuare tali tipi di lavoro in sicurezza.
Ne deriva, ad avviso del Collegio, l'assenza di violazione
della norma cautelare che, idonea forse, come ritenuto dal
giudice di primo grado, ad influire sotto il profilo della
tipicità oggettiva del reato, lo è certamente sotto il
profilo soggettivo dell'assenza di colpa.
Ne deriva che la sentenza impugnata va annullata senza
rinvio e che entrambi gli imputati vanno mandati assolti dal
reato loro ascritto perché il fatto non costituisce reato,
con il conseguente venir meno delle statuizioni civili del
giudice di secondo grado. |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione da parte del ricorrente della
domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il
venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso
l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in
funzione della repressione dell'abuso edilizio.
Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta
istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio
della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del
ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in
caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel
contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di
diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui
essa è stata richiesta.
---------------
Il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive
determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di
sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche
nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i
provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in
cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel
procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso
all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine
di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso
interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di
quel procedimento.
Tale semplice considerazione induce a disattendere
l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in
materia di abusivismo edilizio, la presentazione
dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio originario,
quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione
originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione,
ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure
ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in
caso di eventuale rigetto della sanatoria.
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro
autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza
dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la
presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in
caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera,
conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla
formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe
luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente
realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto
confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento
contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso
avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito
dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente
confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto
abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto
dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo,
l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria
–ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente
l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della
vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà),
producendo una nuova situazione di fatto, della quale il
Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori
determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza,
sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di
quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa;
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula
ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di
acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché
delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria
edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati
legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in
caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria,
il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione,
né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe
ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di
reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire
l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della
domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il
procedimento non è definito, ma una volta negata la
sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare,
dell’ordinanza n. 2 del 27.11.2014 (prot. n. 3864),
notificata in data 18.12.2014, con la quale il Comune di
Busso ha ordinato al ricorrente la demolizione di un
manufatto realizzato nella parte retrostante il fabbricato
di civile abitazione, contenente un serbatoio di acqua
potabile avente struttura portante in muratura di mattoni e
soprastante terrazzo.
...
Il ricorso è improcedibile.
La presentazione da parte del ricorrente della domanda di
rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno
dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso
l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in
funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto
conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e
considerato che, da un lato, il rilascio della
sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del
ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in
caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel
contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di
diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui
essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III,
02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n.
735; Tar Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Nel caso di specie, poi, il ricorrente ha prodotto il parere
positivo espresso dalla Regione nell’ambito del procedimento
di autorizzazione paesaggistica ex art. 167 d.lgs. n.
42/2004.
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto,
nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti
all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto,
anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a
reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e
ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in
cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel
procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso
all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine
di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso
interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di
quel procedimento.
Tale semplice considerazione, come di recente rilevato da
questo Tribunale in un caso analogo (sentenza 20.11.2015, n.
441), induce a disattendere l’orientamento
giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di
abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi
dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non
costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non
determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione
originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione,
ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure
ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in
caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato
VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro
autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza
dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la
presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in
caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera,
conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla
formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe
luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente
realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto
confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento
contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso
avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito
dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto
meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del
manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità
affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio
negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di
sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica
strutturalmente l’interesse del ricorrente alla
conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio
o il manufatto di proprietà), producendo una nuova
situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener
conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale
istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale
sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di
rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: TAR Umbria
Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e
postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della
demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di
sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della
sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere
adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi
propri; in caso di concessione del permesso di costruire in
sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la
demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe
ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di
reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire
l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della
domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il
procedimento non è definito, ma una volta negata la
sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.
In conclusione, il ricorso è da ritenersi improcedibile (TAR
Molise,
sentenza 26.02.2016 n. 105 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
ragioni che militano per l’orientamento che depone per
l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale
demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia,
sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente
confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto
abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto
dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo,
l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria
–ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente
l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della
vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà),
producendo una nuova situazione di fatto, della quale il
Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori
determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza,
sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di
quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa;
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula
ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di
acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché
delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria
edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati
legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in
caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria,
il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione,
né applicare altre sanzioni;
5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice
amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità
del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una
nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori
successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un
paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine
di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia
divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un
provvedimento incontestabile, almeno per i profili
riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente
accertata e non più ovviabile.
---------------
... per l'annullamento dei seguenti atti: 1) l’ordinanza di
demolizione di opere abusive prot. n. 2/2015, emessa dal
Comune di Rocchetta al Volturno in data 08.01.2015,
notificata al ricorrente in data 16.02.2015, con la quale è
stata ordinata la demolizione delle dette opere a propria
cura e spese; 2) ogni atto presupposto, connesso e
conseguente;
...
III - La presentazione da parte del ricorrente della domanda di sanatoria
edilizia comporta il venir meno dell'interesse alla
decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e
tutti gli atti intervenuti, in funzione della repressione
dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria
pronuncia del Comune su detta istanza, e considerato che, da
un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente
l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si
produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi
l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale
provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei
limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania
Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I,
07.04.2015 n. 735; T.a.r. Liguria Genova II, 03.09.2014 n.
1334).
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener
conto, nelle successive determinazioni, delle vicende
conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché
sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di
sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori,
demolitori e ripristinatori.
Tale semplice considerazione induce a disattendere
l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in
materia di abusivismo edilizio, la presentazione
dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio originario,
quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione
originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione,
ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure
ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in
caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato
VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la
menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere
la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso,
anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria
edilizia è che, in caso di riesame negativo circa
l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di
sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un
provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna
modificazione sostanziale della preesistente realtà
giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo
del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento
contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso
avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito
dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il
rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente
confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto
abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto
dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo,
l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi
decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi
compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente
l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della
vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà),
producendo una nuova situazione di fatto, della quale il
Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori
determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera
provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: Tar Umbria Perugia I,
04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori
provvedimenti di esecuzione della demolizione e di
acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché
delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria
edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati
legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in
caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria,
il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione,
né applicare altre sanzioni;
5) appare ultronea ed eccessiva
la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che
la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso
l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di
ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al
diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di
abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione
fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto
incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento
incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza
del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più
ovviabile (TAR Molise,
sentenza 26.02.2016 n. 86 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Niente «tassa» per le associazioni ambientaliste.
Contributo unificato. Esentata la Onlus.
Le associazioni a tutela
dell’ambiente e del paesaggio non sono tenute a pagare il
contributo unificato per l’accesso alla tutela
giurisdizionale, in quanto agiscono in difesa di interessi
della collettività, senza che possa essere sottesa alcuna
capacità contributiva.
Lo ha affermato la
Ctr della Lombardia con la
sentenza 22.02.2016 n. 987/19/2016 (presidente
Labruna, relatore Scarcella).
La vicenda origina da un ricorso al Tar Lombardia presentato
da una Onlus che ha chiesto di annullare un provvedimento
comunale sul trasferimento di un bene di valore ambientale
dal patrimonio indisponibile a quello disponibile. A fronte
dell’omesso pagamento del contributo unificato per
l’iscrizione della causa a ruolo, il Segretario generale del
Tar ha notificato alla Onlus un invito di pagamento, che è
stato impugnato davanti alla Ctp di Milano.
Il giudice di primo grado ha accolto la tesi difensiva della
Onlus, secondo cui troverebbe applicazione anche agli atti
processuali l’esenzione stabilita per l’imposta di bollo (di
cui il contributo unificato è divenuto sostitutivo)
dall’articolo 27-bis, tabella, del Dpr 642/1972.
La presidenza del Consiglio dei ministri impugna la
pronuncia davanti alla Ctr, che respinge l’appello. Infatti
l’articolo 27-bis -si legge nella sentenza- prevede che
siano esenti dall’imposta di bollo «atti, documenti,
istanze, contratti, nonché copie anche se dichiarate
conformi, estratti, certificazioni, dichiarazioni e
attestazioni poste in essere o richiesti da organizzazioni
non lucrative di utilità sociale (Onlus) e dalle federazioni
sportive ed enti di promozione sportiva riconosciuti dal
Coni».
L’articolo 10 del Dpr 115/2002 stabilisce che «non è
soggetto al contributo unificato il processo già esente,
secondo previsione legislativa e senza limiti di competenza
e di valore, dall’imposta di bollo o da ogni spesa, tassa o
diritto di qualsiasi specie e natura». La questione
interpretativa ruota pertanto attorno al significato da
attribuire alla parola «atti» contenuta nell’articolo
27-bis.
La Ctr afferma che «atto» è anche il ricorso in sede
giurisdizionale e non solo l’atto amministrativo prodotto
nell’ambito dell’attività procedimentale delle Onlus (come
sosteneva la presidenza del Consiglio).
Del resto –prosegue la Ctr– se si applicasse
l’interpretazione restrittiva proposta dalla presidenza del
Consiglio, si giungerebbe al paradosso che le Onlus
beneficerebbero dell’esenzione per gli atti
endoprocedimentali, che sottintendono una capacità
contributiva dell’associazione, mentre si negherebbe
l’esenzione per i ricorsi giurisdizionali, finalizzati alla
tutela dell’ambiente e del paesaggio, che non sottintendono
alcuna capacità contributiva dell’associazione ma, anzi, la
escludono in quanto sono posti in essere per conto della
collettività, in difesa di interessi diffusi di rango
costituzionale particolarmente meritevoli.
La pronuncia è importante anche perché va in senso opposto
rispetto a quanto sostenuto, in un caso sostanzialmente
analogo, dalla Cassazione con la sentenza 21522/2013, per
cui l’esenzione per le Onlus riguarderebbe solo gli atti
amministrativi, non anche gli atti giudiziari
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.04.2016). |
CONDOMINIO:
Amministratori senza incarico. Se manca la
delibera, la nomina può essere tacita.
La Cassazione sulla gestione di fatto del condominio e
sulla durata del mandato.
Per amministrare un condominio non occorre necessariamente
un incarico formale. Ove, infatti, manchi la delibera
assembleare di nomina dell'amministratore (e, quindi, anche
l'annotazione delle generalità del medesimo nello speciale
registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7, c.c.), lo
stesso può considerarsi in carica per tacito rinnovo del
mandato, ove risulti un comportamento concludente da parte
dei condomini, che lo abbiano considerato tale a tutti gli
effetti, rivolgendosi abitualmente al medesimo in detta
veste e senza mai metterne in discussione i poteri di
gestione e la rappresentanza del condominio.
Questo il principio che emerge dalla
sentenza 04.02.2016 n. 2242 della II Sez. civile
della Corte di Cassazione.
La decisione in questione arriva tra l'altro proprio nel
momento in cui più ferve il dibattito sulla durata del
mandato dell'amministratore condominiale a seguito della
nuova disposizione introdotta dalla legge n. 220/2012 di
riforma del condominio (si veda ItaliaOggi Sette dell'08.02.2016) e potrebbe aggiungere ulteriori elementi di
riflessione.
Il caso concreto.
Nella specie un condominio aveva presentato opposizione nei
confronti del decreto ingiuntivo ottenuto nei suoi confronti
dal condominio per il mancato pagamento dei relativi oneri.
L'opposizione era stata respinta e il condomino aveva allora
impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di appello,
contestando in via pregiudiziale, per la prima volta, il
difetto di legittimazione attiva del condominio, poiché la
procura rilasciata in relazione al procedimento monitorio
era stata rilasciata da un soggetto che non risultava essere
formalmente l'amministratore.
I giudici di secondo grado
avevano però evidenziato come l'eccezione in questione fosse
tardiva, non essendo stata proposta nel giudizio di prime
cure, e comunque infondata nel merito, in quanto nel corso
del procedimento era emerso che il soggetto di cui si
contestava la qualifica di amministratore avesse svolto
varie attività in rappresentanza del condominio, per esempio
partecipando alle assemblee per l'approvazione del riparto
delle spese e inviando la diffida di pagamento al condomino
opponente. Anche l'appello era stato dunque rigettato e il
condomino aveva allora deciso di ricorrere in Cassazione.
La decisione della Suprema corte.
Anche la Cassazione ha però rigettato l'eccezione
pregiudiziale in questione, chiarendo meglio i contorni
della questione ed esprimendo interessanti considerazioni in
tema di nomina dell'amministratore condominiale.
I giudici di legittimità hanno in primo luogo chiarito come
l'eccezione in questione non riguardasse propriamente il
difetto di legittimazione attiva del condominio, quanto
piuttosto il preteso difetto del potere di rappresentanza di
quest'ultimo in capo al soggetto che aveva fornito il
mandato al legale incaricato di richiedere l'emissione del
decreto ingiuntivo per il mancato pagamento delle spese
comuni.
La seconda sezione civile della Cassazione, nel fare proprie
le conclusioni alle quali erano pervenuti i giudici di
merito, ha quindi evidenziato come alla nomina
dell'amministratore, giusto il rapporto contrattuale di
mandato che regolamenta i rapporti di quest'ultimo con la
compagine condominiale, sia applicabile l'art. 1392 c.c.,
che disciplina i requisiti di forma della procura, ovvero
dell'atto con cui un soggetto conferisce a un terzo il
potere di compiere atti giuridici in nome proprio e dal
quale sorge il diritto di rappresentanza.
Detta disposizione codicistica prevede che la procura sia efficace soltanto
laddove abbia la forma prescritta per l'atto che il
procuratore (rappresentante) è chiamato a concludere. Ne
discende, quindi, che la stessa deve avere necessariamente
forma scritta soltanto laddove l'atto da compiere necessiti
a sua volta, per esplicare i propri effetti, della medesima
forma. In caso contrario la procura potrà anche essere
verbale o tacita, ovvero desunta da comportamenti
concludenti.
Sulla base di questa disposizione i giudici di legittimità
hanno quindi concluso che la nomina dell'amministratore,
anche in mancanza di una specifica delibera assembleare (e
della conseguente annotazione delle generalità del medesimo
nello speciale registro di cui all'art. 1130, comma 1, n. 7,
c.c.), possa desumersi dal comportamento concludente dei
condomini che abbiano considerato una data persona quale
amministratore condominiale, rivolgendosi abitualmente a
questa per il disbrigo delle varie questioni legate alla
gestione del condominio, senza mai metterne in discussione i
relativi poteri e la rappresentanza.
Si tratta, a ben vedere, del riconoscimento della figura
dell'amministratore condominiale di fatto, figura
generalmente ritenuta non configurabile dalla dottrina. A
maggior ragione dopo la riforma del 2012, che ha preteso una
maggiore formalizzazione del rapporto tra amministratore e
condomini, sia prevedendo una sorta di accettazione della
nomina assembleare, sia richiedendo come obbligatorio, a
pena di nullità della delibera, la presentazione di un
preventivo relativo al compenso richiesto, sia ammettendo
che la nomina possa essere subordinata dall'assemblea alla
stipula di una polizza assicurativa per la responsabilità
civile, sia ancora indicando una serie di requisiti
necessari per tale nomina, la verifica dei quali è
nuovamente lasciata all'assemblea. Questi e ulteriori
adempimenti connessi alla designazione dell'amministratore
sembrano infatti difficilmente conciliabili con una nomina
tacita.
La questione della durata del mandato
dell'amministratore condominiale.
La posizione espressa dalla Suprema corte sulle modalità di
nomina dell'amministratore potrebbe quindi incidere anche
sul dibattito in corso relativamente alla durata
dell'incarico, alle modalità del suo rinnovo e alla
permanenza dell'istituto della c.d. prorogatio.
Non è chiaro, infatti, quale sia la durata del mandato
dell'amministratore condominiale. Il vecchio art. 1129 c.c.
si limitava a stabilire che quest'ultimo restasse in carica
per un anno. Si riteneva, quindi, per il combinato disposto
di cui agli artt. 66 disp. att. c.c. e 1135 c.c., che lo
stesso dovesse sempre ottenere la conferma dell'incarico
annuale da parte dell'assemblea (con le stesse maggioranze
previste per la prima nomina, salvo qualche isolata
decisione di merito di segno contrario), ossia una nuova
nomina della durata di un anno. Nel caso in cui non fosse
stata raggiunta la necessaria maggioranza, si ricorreva
quindi generalmente all'applicazione analogica dell'istituto
della c.d. prorogatio, in base al quale l'amministratore era
temporaneamente legittimato a curare gli interessi del
condominio in attesa della decisione assembleare sulla
conferma del suo incarico o sulla nomina di un nuovo
mandatario.
Con il nuovo art. 1129, comma 10, c.c., il legislatore ha
quindi confermato che la durata dell'incarico
dell'amministratore è annuale, ma ha altresì sibillinamente
aggiunto che il relativo incarico si intende rinnovato per
eguale durata. Di qui l'incertezza interpretativa sulla
reale durata del mandato. Il dibattito si è quindi
incentrato da una parte sul funzionamento di detto
meccanismo di rinnovo automatico ex lege e, dall'altra,
sulla necessità o meno di inserire all'ordine del giorno
dell'assemblea la questione della nomina/conferma
dell'amministratore.
Sul primo tema vi è chi sostiene la tesi
dell'indeterminatezza temporale di tale meccanismo di
rinnovo, nel senso che il mandato continuerebbe tacitamente
anno dopo anno, salvo che ne intervenga la revoca. Un altro
orientamento, recentemente fatto proprio dai tribunali di
Milano e Cassino, ritiene invece che il rinnovo automatico
valga soltanto per il primo biennio di durata in carica
dell'amministratore.
Il secondo aspetto sul quale si è acceso il dibattito è
stato quindi quello relativo all'obbligo di continuare a
indicare tra le questioni all'ordine del giorno
dell'assemblea ordinaria quella relativa alla
conferma/revoca dell'amministratore. I menzionati precedenti
giudiziali di Milano e Cassino hanno infatti avallato la
prassi di non indicare più tale questione all'ordine del
giorno, anche se soltanto per il primo rinnovo biennale.
Detta omissione da parte dell'amministratore è infatti stata
giudicata conforme alla nuova disciplina condominiale,
secondo la quale la durata annuale dell'incarico è
tacitamente prorogabile per un altro anno, salvo delibera di
revoca assunta dall'assemblea
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Nelle strade extraurbane autovelox col sì
prefettizio.
Spetta al rappresentante governativo autorizzare
l'installazione di un misuratore di velocità in sede fissa
fuori centro abitato. E in questo caso non occorre fare
riferimento alle dimensioni della strada ma solo
all'ubicazione esatta dell'autovelox.
Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. I, con la
sentenza 04.12.2015 n. 1691.
Un automobilista incorso nei rigori dei limiti di velocità
ha presentato un esposto alla prefettura denunciando
l'illegittimità del provvedimento che ammette la
collocazione di un misuratore elettronico su una strada
comunale extraurbana di modeste dimensioni. A seguito del
mancato accoglimento dell'istanza l'interessato ha proposto
ricorso ai giudici amministrativi contro il rinnovato
decreto prefettizio che ha confermato la precedente
determinazione. Ma senza successo.
A parere del collegio infatti l'elemento fondamentale da
valutare attiene alla natura della strada comunale scelta
dalla prefettura per l'installazione dell'autovelox fisso.
Ovvero se la stessa risulta essere una strada extraurbana o
meno. L'art. 4 della legge 168/2002 permette il controllo
automatico dell'eccesso di velocità, infatti, solo su certi
tipi di strade, previa autorizzazione del prefetto. Ovvero
le strade extraurbane secondarie e quelle locali di
scorrimento. Si definiscono strade extraurbane secondarie
tutte le strade che non interessano i centri abitati senza
riferimento alle dimensioni del manufatto.
A differenza delle strade extraurbane principali, munite di
spartitraffico, quelle secondarie devono solamente disporre
di una corsia per senso di marcia e delle banchine. Il
decreto ministeriale 6792/2004 sulle dimensioni delle
strade, prosegue la sentenza, interessa solo le modalità di
costruzione dei nuovi manufatti. Per l'attività di
classificazione delle strade occorre fare riferimento
all'art. 2 del codice stradale.
La strada in esame, conclude il Tar, è fuori dal centro
abitato, e quindi correttamente classificata come
extraurbana, dotata di due corsie, priva di uno
spartitraffico locale, ma le banchine sono esistenti,
essendovi su entrambi i lati una spazio tra la linea di
margine e il ciglio erboso
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).
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MASSIMA
La questione centrale attiene alla natura della strada,
cioè se sia stata correttamente classificata come strada
extraurbana secondaria, ovvero se si tratti di una strada
extraurbana locale, per cui il Prefetto non aveva alcun
potere di autorizzare l’attività di rilevamento a distanza
di cui all’art. 4 L. 168/2002, che prevede la possibilità di
installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del
traffico sulle strade di cui all'articolo 2, comma 2,
lettere C e D, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285,
(cioè rispettivamente C - Strade extraurbane secondarie e D
- Strade urbane di scorrimento).
Secondo la tesi di parte ricorrente la strada non può
classificarsi come strada extraurbana neppure secondaria,
poiché il Codice della Strada richiede per le strade
extraurbane secondarie che siano “ad unica carreggiata
con almeno una corsia per senso di marcia e banchine”.
La strada de qua invece è priva di corsie e di
banchine e non presenta le dimensioni richieste dal D.M.
Infrastrutture e Trasporti 05.11.2001 n. 6792 che impone
quanto meno come larghezza di una corsia mt. 3,50.
La tesi del ricorrente non può essere condivisa.
La qualificazione della strada come
extraurbana è stata effettuata sulla base dell’art. 2 del
Codice della Strada, che distingue le strade all’interno dei
centri abitati e le strade che si sviluppano fuori da
questi. Tra questi vengono distinte le autostrade, le strade
secondarie urbane ed extraurbane secondarie (lett. C), cioè
quelle “ad unica carreggiata con almeno una corsia per
senso di marcia e banchine”.
La classificazione che viene effettuata in base al Codice la
strada fa riferimento non tanto alle dimensioni, ma alla
ubicazione della strada (urbana ed extra urbana, se
all’interno del centro abitato o all’esterno), alla
effettiva destinazione e alla conformazione: tra le strade
extra urbane, in quanto esterne al centro abitato, si
distinguono quelle principali (che devono avere uno
spartitraffico centrale di separazione dei flussi di
circolazione), da quelle secondarie, per le quali la
disposizione si limita a richiedere una unica carreggiata,
con una corsia per senso e le banchine, senza tuttavia porre
delle precise dimensioni.
Al contrario il DM citato 6792/2004 attiene solo alle
modalità di costruzione di nuove strade, mentre per
l’attività di classificazione delle strade già esistenti i
criteri sono contenuti nel Codice della strada.
La strada in esame è fuori dal centro abitato, e quindi
correttamente classificata come extraurbana, dotata di due
corsie, priva di uno spartitraffico centrale, ma le banchine
sono esistenti, essendovi su entrambi i lati uno spazio tra
la linea di margine e il ciglio erboso.
Pertanto, essendo corretta la qualificazione della strada
come extraurbana secondaria, non può essere censurata la
scelta dell’Amministrazione di posizionare il sistema di
controllo di velocità anche su detto tratto di strada. |
EDILIZIA PRIVATA:
FALSO IDEOLOGICO IN ATTO PUBBLICO E SUA
CONFIGURABILITÀ SE LA VERIFICA DI CONFORMITÀ IMPLICA
ESERCIZIO DI DISCREZIONALITÀ TECNICA.
In tema di falso
ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico
ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero
anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua
attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il
documento che contiene il giudizio non è destinato a provare
la verità di alcun fatto.
Diversamente,
se l’atto da compiere fa riferimento anche implicito a
previsioni normative che dettano criteri di valutazione
si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica,
che vincola la valutazione ad una verifica di conformità
della situazione fattuale a parametri predeterminati,
sicché l’atto può risultare falso se il suddetto giudizio
di conformità non è rispondente ai parametri cui esso è
esplicitamente o implicitamente vincolato.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione della configurabilità del reato di falso
ideologico
in atto pubblico da parte del pubblico ufficiale nel
caso in cui questi sia chiamato ad effettuare una verifica
di
conformità tra una situazione di fatto e parametri ben
determinati
dalla legge.
La vicenda processuale trae origine
dalla sentenza con cui la Corte d’Appello ha confermato la
sentenza di primo grado avente ad oggetto la realizzazione
di opere edilizie in assenza di titoli abilitativi idonei
presso
un immobile -già oggetto di pratiche di condono, non ancora
definite, per ampliamenti e modifiche della destinazione
d’uso- ed adibito ad albergo-ristorante, in zona sottoposta
a vincolo paesistico e dichiarata di notevole interesse
pubblico.
Per quanto qui di interesse, nel presentare
ricorso
per Cassazione, il pubblico ufficiale sosteneva di essersi
limitato a riportare l’attestazione del privato a corredo
della
sua istanza amministrativa, senza realizzare dunque una
falsa attestazione, ma solo una errata argomentazione, che
come tale ha dato luogo ad una falsa conclusione; in tal
senso, inesistente doveva ritenersi il dolo, avendo egli
operato
un controllo sugli atti, senza sopralluogo, sulla base
delle sole dichiarazioni del proponente la domanda di
permesso.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha rigettato il ricorso, osservando come del tutto
coerentemente
i Giudici di merito avevano ritenuto che negli atti
amministrativi richiamati nei rispettivi temi d’accusa i
ricorrenti
avevano falsamente attestato il fatto che i lavori erano
da ritenersi variazioni non essenziali (quando la richiesta
variazione prevedeva una modifica della struttura di uno
dei solai di copertura con materiale diverso), ovvero che
potevano realizzarsi senza il nulla osta della
Soprintendenza
ed erano conformi alla normativa vigente, così determinando
il rilascio del permesso a costruire con l’omessa
indicazione
del dato di oggettiva rilevanza che l’immobile ricadeva
in zona vincolata.
L’oggetto della immutatio veri, infatti,
è stato da essi individuato nell’attestazione di una
situazione
diversa da quella reale, attraverso l’omessa indicazione
della reale consistenza delle opere richieste, della
loro incidenza sulla realtà territoriale e della normativa
correttamente
applicabile nel caso concreto, a fronte di una
disciplina urbanistica, nazionale e locale, le cui
previsioni
non consentivano la possibilità di esprimere giudizi, ma
stabilivano, per contro, il ricorso a criteri di valutazione
vincolati
ad un tipo di verifica guidata da specifiche competenze
e propriamente ricadenti, in quanto tali, nell’area della
c.d. discrezionalità tecnica (in precedenza, nel senso della
configurabilità del delitto di falso ideologico in atto
pubblico:
Cass., Sez. II, 11.01.2013, n. 1417, in CED, n.
254305; Id., Sez. V, 17.12.1999, n. 14283, in CED, n.
216123) (Corte di Cassazione, Sez. fer.
penale,
sentenza 02.10.2015 n. 39843 - Urbanistica e appalti
n. 12/2015).
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MASSIMA
3. Muovendo dalle implicazioni di tale quadro
ricostruttivo, dunque, del tutto coerentemente i Giudici di
merito hanno ritenuto che negli atti amministrativi
richiamati nei rispettivi temi d'accusa i ricorrenti (Di Na.
e Ve.) hanno falsamente attestato il fatto che i lavori
dalla Un. richiesti erano da ritenersi variazioni non
essenziali (quando la richiesta variazione prevedeva una
modifica della struttura di uno dei solai di copertura con
materiale diverso), ovvero che potevano realizzarsi senza il
nulla osta della Soprintendenza ed erano conformi alla
normativa vigente, così determinando il rilascio del
permesso a costruire con l'omessa indicazione del dato di
oggettiva rilevanza che l'immobile ricadeva nella zona
vincolata del su menzionato Parco regionale.
L'oggetto della immutatío veri, infatti, è stato da
essi individuato nell'attestazione di una situazione diversa
da quella reale, attraverso l'omessa indicazione della reale
consistenza delle opere richieste, della loro incidenza
sulla realtà territoriale e della normativa correttamente
applicabile nel caso concreto, a fronte di una disciplina
urbanistica, nazionale e locale, le cui previsioni non
consentono la possibilità di esprimere giudizi, ma
stabiliscono, per contro, il ricorso a criteri di
valutazione vincolati ad un tipo di verifica guidata da
specifiche competenze e propriamente ricadenti, in quanto
tali, nell'area della cd. discrezionalità tecnica.
Sulla stregua delle rappresentate emergenze probatorie,
pertanto, deve ritenersi che l'impugnata pronuncia abbia
fatto buon governo del quadro di principi che regolano la
materia in esame, avendo questa Suprema Corte ormai da tempo
affermato il principio secondo cui (Sez. 2, n. 1417 del
11/10/2012, dep. 11/01/2013, Rv. 254305; Sez. 5, n. 14283
del 17/11/1999, dep. 17/12/1999, Rv. 216123)
in tema di falso ideologico in atto pubblico, nel
caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un
giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale
e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è
destinato a provare la verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa
riferimento anche implicito a previsioni normative che
dettano criteri di valutazione si è in presenza di un
esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la
valutazione ad una verifica di conformità della situazione
fattuale a parametri predeterminati, sicché l'atto può
risultare falso se il suddetto giudizio di conformità, come
avvenuto nel caso in esame, non è rispondente ai parametri
cui esso è esplicitamente o implicitamente vincolato.
V'è ancora da osservare, al riguardo, che
la fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.Lgs.
n. 42/2004, secondo la giurisprudenza di questa Suprema
Corte (Sez. 3, n.
48478 del 24/11/2011, dep. 28/12/2011, Rv. 251635),
è punita a titolo di dolo generico, con la
conseguenza, quanto alla coscienza dell'antigiuridicità
dell'azione, che presupposto della responsabilità penale è
la conoscibilità, da parte del soggetto agente,
dell'effettivo contenuto precettivo della norma e che,
secondo la sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale
(in relazione alla previsione dell'art. 5 cod. pen.),
va considerata quale limite alla responsabilità
personale soltanto l'oggettiva impossibilità di conoscenza
del precetto (cd. ignoranza inevitabile, e quindi scusabile,
della legge penale).
Nella fattispecie in esame, come osservato dai Giudici di
merito, non v'era alcun dubbio che la zona ricadesse nei
vincoli posti dalle su indicate disposizioni normative e la
ricorrente Ungaro, dunque, aveva il dovere di informarsi
preventivamente (anche) circa l'eventuale assoggettamento a
vincoli dell'area sulla quale andava a costruire.
Al riguardo, peraltro, si è in questa Sede precisato che una
eventuale rimessione in pristino delle aree o degli immobili
assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente
eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale,
estingue solo il reato previsto dal comma primo e non certo
quello di cui al su citato comma 1-bis, dell'art. 181 del
d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Sez. 3, n. 33542 del 19/06/2012,
dep. 31/08/2012, Rv. 253139). |
EDILIZIA PRIVATA:
IN PRESENZA DI UNA RISTRUTTURAZIONE IMPLICANTE
MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO È NECESSARIO
IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
In tema di competenza concorrente Stato-Regioni in
materia di governo del territorio, per costante
giurisprudenza
della Corte costituzionale, rientrano nell’ambito
della normativa di principio in materia di governo
del territorio le disposizioni legislative riguardanti i
titoli
abilitativi per gli interventi edilizi, le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi -perché è in
conformità
a queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi-, con riguardo al procedimento e agli
oneri nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali, sicché la definizione delle diverse categorie di
interventi edilizi spetta allo Stato e non alle Regioni.
Ne
consegue che la potestà legislativa della Regione, nella
materia di legislazione concorrente (quella relativa al
governo del territorio), non può incidere su principi
fondamentali
riservati alla legislazione dello Stato (art.
117, comma 3, Cost.), non potendosi pertanto fondare
la legittimità di un intervento edilizio su una potestà
legislativa
regionale intervenuta su una normativa di
“principio” riservata alla legislazione statale.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione del rapporto intercorrente tra la potestà
legislativa
dello Stato e quella spettante alle Regioni in materia
di governo del territorio.
La vicenda processuale segue
all’ordinanza con cui il Tribunale, rigettando la richiesta
di
riesame, aveva confermato il sequestro preventivo di un
fabbricato in relazione ad alcune violazioni edilizie
ipotizzate
a carico di S.M. (legale rappresentante della società
proprietaria
dell’immobile), B.E. (direttore dei Lavori) e F.C.
(esecutore).
Agli indagati -quanto interessa- era stata
contestata
la violazione dell’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del
2001, per avere posto in essere, nelle rispettive qualità,
una attività di “sostituzione edilizia” nell’immobile
originariamente
destinato a magazzino, mediante completa demolizione
e successiva ricostruzione del complesso edilizio
con modifica di sagoma e destinazione d’uso, avendo iniziato
la realizzazione, mediante iniziale demolizione completa,
di 50 appartamenti destinati a civile abitazione e uffici
nonché 109 autorimesse, in assenza di permesso di costruire.
Secondo i giudici del riesame, gli indagati avevano
realizzato una ristrutturazione edilizia con cambio di
destinazione
d’uso mediante opere strutturali e totali modificazioni
rispetto al preesistente edificio con variazioni tra
categorie
non omogenee, sicché per tale intervento -definito di
ampia portata- occorreva il permesso di costruire e non
già la DIA (di cui essi erano in possesso), trattandosi di
un
organismo del tutto diverso. Hanno inoltre ritenuto privo di
rilievo il parere della Commissione Edilizia osservando che
esso riguardava solo la fedele ricostruzione della parte
demolita,
ma nulla dice del cambio di destinazione d’uso.
Contro l’ordinanza proponevano ricorso per cassazione gli
indagati, da un lato, analizzando il progetto allegato alla
DIA nonché la normativa di riferimento nazionale (art. 3,
comma 1, lett. d, d.P.R. n. 380 del 2001) e regionale (art.
79, comma 2, lett. d, L.R. Toscana n. 1 del 2005), ed
osservando
che la demolizione rappresenta un intervento minoritario
rispetto alla consistenza dell’edificio, e quindi non
sarebbe propedeutica ad una demolizione totale e quindi
ancora una volta soggetta a DIA: a tale problematica il
Tribunale
-secondo i ricorrenti- non aveva fatto alcun riferimento
benché sollevata nel corso delle discussione; dall’altro,
gli indagati osservavano che il cambio di destinazione
d’uso su cui si è soffermato il Tribunale doveva invece
ritenersi
conforme agli strumenti urbanistici, a tal proposito
riportando
il contenuto dell’art. 10, d.P.R. n. 380 del 2001, e,
quanto alla potestà regionale in materia prevista
dall’ultimo
comma di tale disposizione, richiamando gli artt. 77 e 78,
L.R. Toscana n. 1 del 2005, per concludere che gli
interventi
di ristrutturazione implicanti modifica della destinazione
d’uso non richiedono il rilascio del permesso di costruire
(a tal fine invocavano anche il contenuto degli artt. 7 e 8
norme tecniche attuazione Piano regolatore che qualificano
tra gli interventi di ristrutturazione anche quelli
finalizzati al
mutamento di destinazione d’uso).
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, osservando come la questione
di diritto riguarda evidentemente la competenza concorrente
in materia di governo del territorio. Orbene, puntualizzano
i Supremi Giudici, per costante giurisprudenza della
Corte costituzionale, rientrano nell’ambito della normativa
di principio in materia di governo del territorio le
disposizioni
legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli
interventi
edilizi (sent. Corte cost. n. 259/2014, punto 3.1 del
considerato
in diritto; sent. n. 303 del 2003, punto 11.2): a fortiori
"sono principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità
a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli
abilitativi,
con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché
agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali” (così la
sent. n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse
categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze
n.
102 e n. 139 del 2013).
Più specificamente, la sentenza
della
Corte cost. n. 309 del 2011, occupandosi di una legge
della Regione Lombardia, ne ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale
proprio in quanto definiva come ristrutturazione
edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il
vincolo della sagoma, in contrasto con il principio
fondamentale
stabilito (“allora”) dall’art. 3, comma 1, lett. d),
d.P.R. n. 380 del 2001.
Da quanto esposto, discende, secondo
la Cassazione, che la potestà legislativa della Regione
Toscana, nella materia di legislazione concorrente (quella
relativa appunto al governo del territorio), non poteva
incidere
su principi fondamentali, come quello di cui oggi si
discute, riservati alla legislazione dello Stato (art. 117,
comma
3, Cost.) e quindi errano i ricorrenti nel fondare la
legittimità
dell’intervento su una potestà legislativa regionale
intervenuta
su una normativa di “principio” riservata alla legislazione
statale.
E, nel caso di specie, era assolutamente
pacifico che l’immobile si trovasse in “zona A” (Centro
Storico
fuori le mura) e che vi fosse stato un mutamento di
destinazione
d’uso (da commerciale a residenziale), essendo
quindi ciò sufficiente per ritenere necessario il previo
rilascio
del titolo abilitativo.
Peraltro, e conclusivamente,
aggiunge
la Cassazione, la L.R. Toscana, invocata dagli indagati,
risulta di recente abrogata dall’art. 254, L.R. 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio)
che ha disciplinato nuovamente le trasformazioni
urbanistiche
ed edilizie soggette a permesso di costruire (art. 134),
le opere ed interventi soggetti a SCIA (art. 135) e
l’attività
edilizia libera (art. 136), prevedendo, in particolare, il
permesso
di costruire anche per gli interventi di ristrutturazione
edilizia ricostruttiva (v. art. 134, comma 1, lett. h, n.
2).
Si rivelava, pertanto, a maggior ragione corretta
l’ordinanza
laddove aveva ritenuto necessario, in presenza di una
ristrutturazione
implicante mutamento della destinazione
d’uso, il permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 30.09.2015 n.
39374 - Urbanistica
e appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: PER L’ULTIMAZIONE EFFETTIVA DEI LAVORI INTERNI
NECESSARIA LA PROVA DELLA CONCLUSIONE DEGLI
INTERVENTI DI RIFINITURA.
L’ultimazione coincide con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli
infissi;
ne consegue che, al fine della corretta individuazione
del termine di prescrizione del reato, nel caso in cui
l’immobile sia privo di infissi, impianti elettrici e
imbiancatura,
spetta all’imputato l’onere di dimostrare di
avere non solo sospeso l’attività edilizia, ma anche di
aver voluto lasciare volutamente l’opera abusiva nello
stato in cui è stata rinvenuta.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, della questione relativa all’individuazione
del dies a quo da cui far decorrere il termine di
prescrizione
del reato edilizio.
La vicenda processuale segue alla
sentenza
con cui la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza
con cui il tribunale condannava G.G. per il reato di
cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001. Contro la
sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare
sostenendo che la Corte d’Appello non aveva motivato
sulla richiesta di proscioglimento per prescrizione; secondo
l’imputato, non rileverebbe lo stato degli interni al
manufatto; in ogni caso, la permanenza del reato
urbanistico,
concludeva l’imputato, cessa anche nel momento di
sospensione volontaria dei lavori, sicché il reato sarebbe
comunque estinto per prescrizione in quanto i lavori erano
cessati nell’arco temporale 2000/2003.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare
osservando,
quanto all’ultimazione delle opere, che era rimasto
insoddisfatto il requisito della ultimazione effettiva dei
lavori
interni, non essendovi prova della conclusione degli
interventi
di rifinitura. Ed invero, la Corte di cassazione ha più
volte affermato che l’ultimazione coincide con la
conclusione
dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli
intonaci
e gli infissi (Cass., Sez. III, 03.11.2011, n. 39733,
V.,
in CED Cass., n. 251424, fattispecie in tema di prescrizione
del reato di cui all’art. 44, d.P.R. 06.06.2001, n. 380;
in
senso conforme, Cass., Sez. III, 20.11.2014, n.
48002, S., in CED, n. 261153, riguardante fattispecie
relativa
ad immobile privo di infissi, impianti elettrici e
imbiancatura,
nella quale la Corte ha specificato che spetta al ricorrente
l’onere di dimostrare di avere non solo sospeso l’attività
edilizia, ma anche di aver voluto lasciare volutamente
l’opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta).
Errato,
infine, per gli Ermellini, è il richiamo da parte
dell’imputato
alla previsione normativa dell’art. 31, L. n. 47 del 1985.
Ed
infatti, la Cassazione ha già da tempo chiarito che la
cessazione
della permanenza del reato di costruzione abusiva va
individuato nel momento della ultimazione dell’opera, ivi
comprese le rifiniture esterne ed interne, atteso che la
particolare
nozione di ultimazione, contenuta nell’art. 31, L. 28.02.1985, n. 47 e che anticipa tale momento a quello
della ultimazione della struttura, è funzionale ed
applicabile
solo in materia di condono edilizio e non anche per
stabilire
in via generale il momento consumativo del reato di
costruzione
in difetto di concessione, ora permesso di costruire
(Cass., Sez. III, 5 agosto 2003, n. 33013, S. ed altro,
in CED, n. 225553)
Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.09.2015 n.
38792 - Urbanistica e
appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
4. Sulla questione dedotta, la Corte territoriale motiva sul
dies a quo con argomentazioni immuni da vizi
logico-giuridici e coerenti con i dati processualmente
acquisiti; quanto, in particolare, all'ultimazione delle
opere, era rimasto insoddisfatto il requisito della
ultimazione effettiva dei lavori interni, non essendovi
prova della conclusione degli interventi di rifinitura.
Ed invero, questa Corte ha più volte affermato che
l'ultimazione coincide con la conclusione dei lavori
di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli
infissi (Sez. 3,
n. 39733 del 18/10/2011 - dep. 03/11/2011, Ventura, Rv.
251424, fattispecie in tema di prescrizione del reato di cui
all'art. 44, d.P.R. 06.06.2001, n. 380; in senso conforme,
Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014 - dep. 20/11/2014, Surano,
Rv. 261153, riguardante fattispecie relativa ad immobile
privo di infissi, impianti elettrici e imbiancatura, nella
quale la Corte ha specificato che spetta al ricorrente
l'onere di dimostrare di avere non solo sospeso l'attività
edilizia, ma anche di aver voluto lasciare volutamente
l'opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta: Sez.
3, n. 48002 del 17/09/2014 - dep. 20/11/2014, Surano, Rv.
261153).
5. Errato, infine, è il richiamo da parte del ricorrente
alla previsione normativa dell'art. 31, legge n. 47 del
1985. Ed infatti, questa Corte ha già da tempo chiarito che
la cessazione della permanenza del reato di
costruzione abusiva va individuato nel momento della
ultimazione dell'opera, ivi comprese le rifiniture esterne
ed interne, atteso che la particolare nozione di
ultimazione, contenuta nell'art. 31 della legge 28.02.1985
n. 47, e che anticipa tale momento a quello della
ultimazione della struttura, è funzionale ed applicabile
solo in materia di condono edilizio e non anche per
stabilire in via generale il momento consumativo del reato
di costruzione in difetto di concessione, ora permesso di
costruire (Sez. 3,
n. 33013 del 03/06/2003 - dep. 05/08/2003, Sorrentino ed
altro, Rv. 225553). |
EDILIZIA PRIVATA: IL P.D.C. IN SANATORIA NON PUÒ AVERE EFFETTI
TEMPORANEI O RIGUARDARE PARTE DEGLI INTERVENTI O
ESSERE SUBORDINATO ALL’ESECUZIONE DI OPERE
È illegittimo -né determina l’estinzione del reato edilizio
ai sensi del combinato disposto dagli artt. 36 e 45, d.P.R.
06.06.2001, n. 380,- il rilascio di un permesso
di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo
soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati od
ancora, subordinato all’esecuzione di opere, atteso che
ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali
dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono
la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
su una non infrequente questione giuridica, relativa alla
possibilità di ritenere legittimo il rilascio di un permesso
di
costruire in sanatoria subordinato a termine o a condizione
ovvero limitato solo a parte degli abusi edilizi realizzati.
La
vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la
Corte di appello ha confermato la condanna inflitta dal
Tribunale
per il reato di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, 44, lett. b), per aver l’imputato, quale
direttore
dei lavori, ed in concorso con i committenti e il titolare
della ditta esecutrice dei lavori stessi, in totale
difformità
dalla dichiarazione di inizio attività e da quella in
variante,
ed in assenza di permesso di costruire, la modifica della
destinazione d’uso del sottotetto, reso abitabile con opere
murarie e l’installazione di impianti e la modifica della
copertura.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato, in particolare sostenendo che, a fronte di
una prima dichiarazione di inizio attività, che prevedeva la
realizzazione della copertura a due falde, ne era stata
presentata
un’altra che contemplava proprio la modifica della
copertura a una falda, conformemente al progetto allegato
alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, in particolare osservando come non
fosse contestato, in fatto, che l’originaria dichiarazione
di
inizio attività prevedesse la realizzazione di una modifica
del sottotetto con realizzazione di un ambiente non
abitabile
destinato alla collocazione di vasche, mentre era stato
realizzato un appartamento di tre vani, completamente
rifinito
e munito di locale cucina e bagno. La Corte d’Appello
aveva affermato che il permesso di costruire in sanatoria
era stato subordinato alla demolizione delle opere
abusivamente
realizzate e ne aveva correttamente tratto la conclusione
in ordine all’inefficacia estintiva del reato urbanistico.
I Supremi Giudici ribadiscono l’illegittimità di un siffatto
permesso di costruire in sanatoria (v., tra le tante: Cass.,
Sez. III, 27.04.2011, n. 19587, M., in CED, n. 250477;
Id., Sez. III, 26.11.2003, n. 291, F., in CED, n.
226871; cfr., altresì, Cass., Sez. III, 15.01.2015, n.
7405, B., in CED, n. 262422, secondo cui la sanatoria degli
abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all’art.
44,
d.P.R. n. 380 del 2001, può essere conseguita solo qualora
ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate
dall’art.
36, d.P.R. cit. e, precisamente, la conformità delle
opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento
della realizzazione del manufatto che al momento della
presentazione
della domanda di sanatoria, dovendo escludersi
la possibilità di una legittimazione postuma di opere
originariamente
abusive che, successivamente, siano divenute
conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di
pianificazione
urbanistica), così facendo applicazione di una
giurisprudenza
sul punto da ritenersi ormai diritto vivente
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.09.2015 n. 38547 - Urbanistica e appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
2. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi
non consentiti dalle legge, generico e totalmente infondato.
3. Non è contestato, in fatto, che l'originaria
dichiarazione di inizio attività prevedesse la realizzazione
di una modifica del sottotetto con realizzazione di un
ambiente non abitabile destinato alla collocazione di
vasche, mentre fu realizzato un appartamento di tre vani,
completamente rifinito e munito di locale cucina e bagno.
3.1. La Corte di appello ha affermato che il permesso di
costruire in sanatoria era stato subordinato alla
demolizione delle opere abusivamente realizzate e ne ha
correttamente tratto la conclusione in ordine
all'inefficacia estintiva del reato urbanistico.
3.2. Questa Suprema Corte ha più volte affermato (ed il
principio deve essere ribadito) che è
illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio
ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di
costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo
soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati od
ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò
contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali
dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica
(Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini, Rv. 250477; Sez.
3, n. 291 del 26/11/2003, Fannmiano, Rv. 226871; cfr.,
altresì, Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv.
262422, secondo cui la sanatoria degli
abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art.
44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere conseguita solo
qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate
dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la conformità
delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al
momento della realizzazione del manufatto che al momento
della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo
escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di
opere originariamente abusive che, successivamente, siano
divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti
di pianificazione urbanistica).
3.3. L'eccezione secondo la quale «l'interpretazione-applicazione
degli artt. 36 e 44 del DPR 380/2001 che fa la corte
territoriale nel condannare l'Arch. Sc. non corrisponde
nella realtà, ed alla conseguente ricostruzione dei fatti di
causa» è volta a scardinare in fatto la corretta
applicazione del principio di diritto affermato dalla Corte
di appello ed è perciò inammissibile in questa sede.
3.4. E' in ogni caso totalmente infondata, sotto vari
profili, la deduzione secondo la quale la presentazione
della dichiarazione di variante in sanatoria prova la non
intenzionalità dell'abuso:
a) per un primo profilo perché l'abuso non riguarda la sola
modifica della copertura (oggetto della D.I.A. in variante),
ma la trasformazione del sottotetto in appartamento
abitabile;
b) per un secondo profilo perché la sussistenza dell'elemento
psicologico va valutata al momento della realizzazione
dell'abuso edilizio che la presentazione della D.I.A. in
variante presuppone già consumato;
c) per un terzo profilo perché il reato per il
quale si procede ha natura contravvenzionale, sicché di esso
l'autore risponde anche a titolo di colpa;
d) per un ultimo profilo perché il direttore dei
lavori è per legge responsabile della conformità delle opere
al titolo edilizio (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001) e, in
caso di DIA, anche alla conformità dell'opera agli strumenti
urbanistici ed edilizi vigenti
(art. 22, d.P.R. n. 380 del 2001). |
EDILIZIA PRIVATA:
QUANDO SONO QUALIFICABILI COME RISTRUTTURAZIONE
EDILIZIA E NON COME SEMPLICI INTERVENTI DI MANUTENZIONE LE OPERE INTERNE?
Ancorché senza aumento volumetrico, appartengono al
novero delle ristrutturazioni (e non delle semplici
manutenzioni)
le opere anche solamente interne che alterano,
anche sotto il semplice profilo della diversa distribuzione
dei vani, l’originaria consistenza fisica di un immobile
e comportano l’inserimento di nuovi impianti e
la modifica e ridistribuzione dei volumi; ed invero queste
ultime, per costante giurisprudenza anche amministrativa,
non si configurano né come manutenzione
straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo,
ma rientrano a pieno titolo nell’ambito della
ristrutturazione
edilizia.
Ne consegue che perché sia ravvisabile
un intervento del genere, è sufficiente che siano
modificati la distribuzione della superficie interna e
dei volumi ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le
diverse porzioni dell’edificio, per il solo fine di rendere
più agevole la destinazione d’uso esistente.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in
esame, sul tema della rilevanza penale delle cc.dd. opere
interne, categoria giuridica prevista nella previgente
disciplina
normativa (art. 26, L. n. 47 del 1985), non più riproposta
nell’attuale regime giuridico dettato dal d.P.R. n. 380
del 2001.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza
con cui la Corte d’Appello, parzialmente riformando la
sentenza di primo grado, aveva condannato agli effetti
civili
gli imputati per il reato p. e p. dell’art. 110 c.p., d.P.R.
n.
380 del 2001, art. 44, D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e
art.
81 cpv. per avere, S.C. in qualità di committente delle
opere
da realizzare in zona sottoposta a vincolo e C.G. in qualità
di direttore dei lavori di ristrutturazione interna, in
esecuzione
del medesimo disegno criminoso, iniziato, continuato
ed eseguito, in assenza del permesso di costruire, le
seguenti
opere: realizzazione dei lavori di ristrutturazione interna
dell’immobile prima indicato, lavori descritti nella DIA
e nella successiva variante, opere illecite in quanto poste
in
essere su immobile abusivo oggetto di procedura di condono
non ancora definita.
Contro la sentenza proponevano
ricordo per cassazione i due imputati, in particolare
dolendosi
del fatto che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente
inquadrato i lavori come ristrutturazione edilizia e non già
interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione, come
invece correttamente sostenuto nella perizia tecnica di
ufficio
e nella relazione tecnica del consulente di parte.
Ed
invero,
i giudici di appello -pur dando atto che gli interventi
in esame erano stati giustificati dalla necessità di una
diversa
distribuzione degli spazi interni al fine di adeguare gli
impianti igienici alle regole comunitarie e pur dando atto
del fatto che non fosse stata interessata la struttura
portante
del fabbricato e che il volume e le superfici dello stesso
fossero rimaste immutate- pervenivano di poi, in maniera
che si assumeva essere del tutto illogica e contraddittoria,
alla conclusione che si rientrasse nel novero dei lavori di
ristrutturazione
edilizia, avendo comunque le aperture sui
muri di tompagno (divisorie) modificato i prospetti,
alterando
la sagoma.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, in particolare osservando come proprio
dalla lettura della DIA si acquisiva la certezza che si
versi in ipotesi di ristrutturazione non di manutenzione,
essendo
stati gli interventi giustificati dalla necessità di una
diversa distribuzione degli spazi interni al fine di
adeguare
gli impianti igienici alle regole comunitarie, a nulla
rilevando
il fatto che non fosse stata interessata la struttura
portante
del fabbricato e che il volume e le superfici dello stesso
fossero rimaste immutate. La modifica delle aperture
sui muri di tompagno, invero, aveva comunque modificato
i prospetti, alterando la sagoma.
E sul punto non va
dimenticato
che la stessa Corte di legittimità ha precisato che
l’esecuzione
di interventi comportanti la modifica dei prospetti
non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie
“minori” e come tale richiede il preventivo rilascio di
permesso
a costruire (Cass., Sez. III, 21.05.2013, n.
38338, C., in CED, n. 256381, fattispecie in cui è stato
ritenuto
integrato il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art.
44; conf. Cass., Sez. III, 07.11.2013, n. 48478, C., in
CED, n. 258352) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.09.2015 n.
38139 - Urbanistica e
appalti n. 12/2015).
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MASSIMA
7. Chiave di volta della decisione è, infatti, la
qualità dei lavori eseguiti sull'immobile del Sa. con la
direzione dei lavori dell'ing. Ca.: se lavori di
manutenzione per lo più ordinaria e solo in parte
straordinaria ovvero se lavori di ristrutturazione interna,
come si legge nell'imputazione.
La conclusione del giudice di prime cure, a cui dire le
opere edilizie de quibus, in quanto assentibili con
semplice DIA e da qualificare di manutenzione straordinaria,
piuttosto che di ristrutturazione interna, come nel capo,
non costituirebbero illecito penale, ma solo amministrativo,
sanzionabile a mente dell'art. 37 piuttosto che dell'art. 44
del D.P.R. 380/2001 non può essere condivisa secondo la
Corte territoriale in quanto non considera né la tipologia
di intervento praticato, né il fatto che il principio
invocato è valido esclusivamente in caso di loro conformità
agli strumenti urbanistici vigenti nel comune di San Giorgio
a Cremano.
Così si evince, fuori da ogni dubbio, secondo i giudici del
gravame del merito, dalla piana lettura dell'art. 22 del
precitato testo normativo il cui I comma recita testualmente
"Sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività
gli interventi non riconducibili all'elenco di cui
all'articolo 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente",
risulta integrata la fattispecie penalmente sanzionata.
In primo luogo, secondo quanto si legge nella motivazione
del provvedimento impugnato, vanno
qualificati gli interventi edilizi in parola, atteso che,
ancorché senza aumento volumetrico, appartengono al novero
delle ristrutturazioni (e non delle semplici manutenzioni)
le opere anche solamente interne che alterano, anche sotto
il semplice profilo della diversa distribuzione dei vani,
l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano
l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi.
Corretta è l'affermazione secondo cui queste ultime, per
costante giurisprudenza anche amministrativa, non si
configurano né come manutenzione straordinaria, né come
restauro o risanamento conservativo, ma rientrano -a pieno
titolo e come da contestazione- nell'ambito della
ristrutturazione edilizia.
Perché sia ravvisabile un intervento del
genere, è sufficiente che siano modificati la distribuzione
della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui
risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per
il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso
esistente.
Ebbene, proprio dalla lettura della DIA -rileva la Corte
territoriale- si acquisisce la certezza che si versi in tale
ipotesi, essendo stati gli interventi giustificati dalla
necessità di una diversa distribuzione degli spazi interni
alfine di adeguare gli impianti igienici alle regole
comunitarie, a nulla rilevando il fatto che non sia stata
interessata la struttura portante del fabbricato e che il
volume e le superfici dello stesso siano rimaste immutate.
La modifica delle aperture sui muri di tompagno, invero,
viene ricordato nella sentenza impugnata, ha comunque
modificato i prospetti, alterando la sagoma. E sul punto non
va dimenticato che questa Corte di legittimità ha precisato
che l'esecuzione di interventi comportanti
la modifica dei prospetti non rientra nelle tipologie delle
ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale
richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire
(sez. 3, n. 38338 del 21.05.2013, Cataldo, rv. 256381,
fattispecie in cui è stato ritenuto integrato il reato dì
cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001; conf. sez. 3, n.
48478 del 07.11.2013, Cottone, rv. 258352).
Questa Corte di legittimità ha anche precisato che,
in tema di reati urbanistici, il mutamento di
destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere
edilizie, senza il preventivo rilascio del permesso di
costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n.
380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate
dall'art. 17 del D.L. n. 133 del 2014
(conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3
del citato d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli
interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o
accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere,
se comportante variazione di superficie o del carico
urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la
volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso
(sez. 3, n. 3953 del 16.10.2014 dep. il 28.01.2015, Statuto,
rv. 262018, fattispecie relativa a trasformazione,
attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da
deposito ad uso residenziale).
8. Né giova, secondo il condivisibile opinare dei giudici di
appello, il riferimento alla conservazione del procedimento
amministrativo per le cosiddette opere
interne di cui al previgente art. 26 L. 47/1985 le quali non
sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380 come
categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici
esistenti di talché esse rientrano negli interventi di
ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità
immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti
-com'è nel caso di specie- e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso
(corretto è il richiamo al dictum di questa Corte
Suprema di cui a sez. 3 n. 47438 del 24/11/2011 , Truppi, rv.
251637; vedasi anche in senso conf. sez. 3, n. 27713 del
20.05.2010, Olivieri ed altro, rv. 247919; sez. 3, n. 35177
del 12.07.2001 dep. 21.10.2002, Cinquegrani, rv. 222740).
Come ricorda in sentenza la Corte napoletana
deve escludersi che, entrato in vigore il D.P.R.
06.06.2001 n. 380, gli interventi de quibus, di
ristrutturazione edilizia, siano senz'altro eseguibili in
forza di dichiarazione di inizio di attività, in conformità
all'art. 22, comma 3, lett. a), D.P.R. n. 380, cit., pure
ottenuta. Tale disposizione, infatti, realizza solo una
semplificazione procedurale nel senso che gli interventi di
cui trattasi sono eseguibili a mezzo di DIA, purché conformi
alle disposizioni dello strumento urbanistico generale, come
dimostra la circostanza che essa dev'essere accompagnata da
asseverazione circa la conformità delle opere da realizzare
agli strumenti urbanistici approvati e la loro non
contrarietà con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi
vigenti.
I giudici del gravame del merito rilevano, invece, che la
prova documentale e testimoniale agli atti -al contrario- ha
comprovato che:
• tra gli strumenti urbanistici vigenti nel comune di San
Giorgio a Cremano, al tempo, vi fosse la Delibera di Giunta
Municipale n. 979 del 17.11.1998 intitolata "Autorizzazioni
Edilizie" che al punto 5 recita testualmente: "non
possono essere consentiti gli interventi di cui al punto 2
(manutenzione straordinaria) nel caso in cui le opere di cui
si chiede l'esecuzione determinino modifiche di parti
dell'edificio abusivamente realizzate anche se oggetto di
richiesta di condono edilizio ai sensi della legge 47/1985
e/o della legge 724/1994 non ancora definita ovvero per le
quali è stato disposto il diniego; la preclusione in
questione riguarda, in via esclusiva, le parti dell'edificio
abusivamente realizzate con l'esclusione delle altre parti
del medesimo edificio ed inoltre i suoli di pertinenza delle
costruzioni interamente illegittime (non sanate ovvero con
atto di diniego della sanatoria). Su tali parti abusivamente
realizzate potranno essere ammessi solo interventi atti ad
eliminare stati di pericolo ed a ripristinare,
conseguentemente, la situazione preesistente";
• la dimostrazione della vigenza dello strumento urbanistico
in esame è stata offerta tramite le dichiarazioni del
dirigente del Settore Gestione del Territorio del comune di
San Giorgio a Cremano ing. Ca.In. rese al consulente del
P.M. e da quest'ultimo allegate sub 4) al suo elaborato,
senza che alcuna ipotesi ricostruttiva alternativa sul punto
sia stata offerta dalla difesa.
La Corte territoriale confuta i dubbi difensivi circa il
carattere precettivo della delibera di giunta (per la quale
indica la natura di atto interno) e finanche di quello
provvedimentale, come induce a ritenere l'inciso che ivi si
legge che non si tratta di atto a natura provvedimentale,
evidenziando che, a tacere d'altro si tratta di riedizione
dei principi normativi, su cui anche oltre, per i quali in
presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla
quale ineriscono strutturalmente.
Del resto, come chiarito dall'ing. In. -si legge ancora
nella motivazione del provvedimento impugnato- analoga
previsione si mutua dal P.R.G. ("D'Altra parte il P.R.G.
già adottato dal C.C. di S. Giorgio con delibera n. 95197 e
quindi precedente alla del. 979198, così come specificato
nella tav. i Relazione Generale nulla differenzia nelle
tipologie di intervento ammesse circa le opere oggetto di
concessione in sanatoria").
9. La Corte territoriale analizza in maniera approfondita e
corretta i risvolti normativi che giustificavano la
necessità del permesso di costruire per l'opera realizzata.
E fa buon governo della giurisprudenza di questa Corte di
cui alla richiamata sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010:
gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche
se soggetti a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art.
22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non
possono essere eseguiti su immobili originariamente abusivi
(sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010, Perna, rv. 246217, relativa
ad un caso di un intervento di demolizione e ricostruzione,
eseguito in base a D.I.A., di un preesistente manufatto
abusivamente realizzato).
Nella stessa sentenza 8739/2014 si precisa, peraltro, che
gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se
eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio
attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla
cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata
disposizione, necessitano del preventivo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo
(in motivazione la Corte ha precisato che solo per gli
interventi di restauro e risanamento conservativo e per
quelli di manutenzione straordinaria non comportanti
alterazione dello stato dei luoghi o dell'aspetto esteriore
degli edifici, la D.I.A. non deve essere preceduta
dall'autorizzazione paesaggistica). |
EDILIZIA PRIVATA:
VALUTABILE L’ADEMPIMENTO DELL’ORDINE DI
DEMOLIZIONE AL FINE DI OTTENERE LA RIABILITAZIONE DA
PARTE DEL CONDANNATO PER REATI EDILIZI.
Mentre deve escludersi che l’inosservanza dell’ordine di
demolizione del manufatto abusivo possa costituire in
sé un elemento ostativo alla concessione della
riabilitazione,
l’adempimento dell’ordine può farsi rientrare, per
analogia, nell’obbligo di adoperarsi in favore della vittima
del reato, da individuarsi nell’ente pubblico territoriale,
titolare dell’interesse al corretto svolgimento
dell’attività
edificatoria.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte
di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da
parte dei giudici di legittimità con la sentenza in
commento,
in cui viene ad essere affrontato il tema della possibile
incidenza che l’adempimento, da parte del condannato per
un reato edilizio, dell’ordine di demolizione possa avere
sulla
eventuale istanza di riabilitazione proposta.
La vicenda
processuale traeva origine dall’ordinanza con cui il
Tribunale
di Sorveglianza aveva rigettato l’istanza avanzata da
B.M.S., tesa a ottenere la riabilitazione in relazione alla
sentenza
di condanna alla pena dell’ammenda di euro millecinquecento,
emessa dal Tribunale per il reato di cui all’art.
44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001. Il Tribunale rilevava,
a
ragione della decisione, la insussistenza dei presupposti
per l’accoglimento della richiesta, poiché era emerso dalla
svolta istruttoria che l’istante non aveva assolto l’obbligo
di
demolizione del manufatto, come statuito in sentenza.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione il
condannato,
in particolare sostenendo che il Tribunale si era limitato
a fare generico e apodittico riferimento alla mancata
ottemperanza all’ordine di demolizione, senza alcun
argomento
in ordine alla concreta incidenza di tale aspetto
nell’accertamento
della prova della buona condotta in relazione
alla chiesta riabilitazione. Né il Tribunale aveva tenuto
conto della dimostrata regolarità amministrativa del
manufatto,
acquisita in corso di istruttoria, e delle documentate
attività amministrative svolte, che rappresentavano attività
del reo volte alla eliminazione, per quanto possibile, delle
conseguenze di ordine civile del reato, da valutarsi
positivamente
ai fini della sussistenza del requisito della buona
condotta.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha annullato l’ordinanza, censurandola per aver esaurito la
sua motivazione nell’affermazione che l’istante non aveva
assolto l’obbligo di demolizione del manufatto, come
statuito
in sentenza, e nella rappresentazione della esclusa
sussistenza per tale ragione dei presupposti per
l’accoglimento
della richiesta di riabilitazione.
Il Tribunale, limitandosi
a evocare detto inadempimento, non aveva, tuttavia,
offerto alcuna indicazione, anche soltanto per negarvi
rilievo,
riguardo al fatto per cui è intervenuta la condanna cui
atteneva l’imposto ordine di demolizione dell’opera abusiva,
ai destinatari di tale ordine, alla sua eseguibilità e alle
ragioni della incorsa inottemperanza, alla stessa concreta
consistenza negativa del profilo valutativo individuato e al
suo carattere sintomatico di irregolare o illegale
comportamento
del condannato riabilitando dopo il reato, nel contesto
delle valutazioni riguardanti la buona condotta e la
sopravvenuta
emenda della stessa, funzionali all’accoglimento
della sua domanda (v., in precedenza, sulla valutazione
da compiersi in tema di istanza di riabilitazione: Cass.,
Sez.
I, 28.05.1996, n. 1274, P., in CED, n. 204698; Id., Sez.
I, 11.01.2013, n. 1507, C., in CED, n. 254251; Id.,
Sez. I, 09.10.2014, n. 42066, P.G. in proc. S., in CED,
n.
260517) (Corte di
Cassazione, Sez. I penale,
sentenza 17.09.2015 n. 37829 - Urbanistica e appalti
n. 12/2015).
---------------
MASSIMA
2. Deve premettersi in diritto che la
riabilitazione è un istituto che ha come risultato la
reintegrazione del condannato nella sua capacità giuridica,
che si consegue mediante l'estinzione delle pene accessorie
e degli altri effetti penali derivanti dalla condanna
penale, a norma dell'art. 178 cod. pen..
Atteso detto risultato, la riabilitazione è
possibile, ai sensi del successivo art. 179 cod. pen., se,
in presenza degli altri requisiti di legge, il condannato
abbia mostrato dì avere tenuto buona condotta con fatti
positivi e costanti dì emenda e di ravvedimento, dopo la
condanna e fino alla data della decisione sulla istanza
presentata (tra le
altre, Sez. 1, n. 1274 del 27/02/1996, dep. 28/05/1996,
Politi, Rv. 204698; Sez. 1, n. 1507, del 17/12/2012, dep.
11/01/2013, Carnaghì, Rv. 254251; Sez. 1, n. 42066 del
04/04/2014, dep. 09/10/2014, P.G. in proc. Secondo, Rv.
260517), dovendo la valutazione del
comportamento tenuto dall'interessato essere attuata
globalmente e non essere limitata al periodo minimo fissato
dalla legge.
2.1. Questa Corte ha più volte rimarcato che,
ai fini del conseguimento della riabilitazione,
l'attivarsi del condannato al fine della eliminazione, per
quanto possibile, delle conseguenze di ordine civile
derivanti dalla condotta criminosa ha valore dimostrativo di
emenda dello stesso
(tra le altre, Sez. 1, n. 9755 del 27/01/2005, dep.
11/03/2005, Fortuna, Rv. 231589; Sez. 1, n. 16026 del
12/04/2006, dep. 10/05/2006, P.G. in proc. Luodiyi, Rv.
234135; Sez. 1, n. 7752 del 16/11/2011, dep. 28/02/2012,
Liberatore, Rv. 252412), e che è a carico
del medesimo l'onere di dimostrare, in funzione di detto
valore, di avere fatto quanto in suo potere per adempiere le
obbligazioni civili derivanti dal reato ovvero di dimostrare
l'impossibilità di adempiervi
(tra le altre, Sez. 1, n. 6704 del 02/12/2005, dep.
22/02/2006, Pettenati, Rv. 233406; Sez. 1, n. 4089 del
07/01/2010, dep. 01/02/2010, De Stasi, Rv. 246052; Sez. 1,
n. 35630 del 04/05/2012, dep. 18/09/2012, Critti, Rv.
253182; Sez. 1, n. 4004 del 09/01/2014, dep. 29/01/2014,
P.G. in proc. Pollero, Rv. 259141).
2.2. Tale impossibilità di adempimento
ricomprende, in particolare, tutte le situazioni non
addebitabili al condannato, istante per la riabilitazione,
che gli impediscano l'esatta osservanza dell'obbligo cui è
tenuto per conseguirla, non potendosi frapporre
ingiustificato ostacolo al suo reinserimento sociale,
qualora abbia fornito prova, con la buona condotta tenuta,
di esserne meritevole
(tra le altre, Sez. 3, n. 685 del 11/02/2000, dep.
31/03/2000, Fortin, Rv. 216156; Sez. 1, n. 4429 del
16/06/2000, dep. 16/10/2000, P.G. in proc. Grigolin, Rv.
217240).
Pertanto, in tema di riabilitazione, atteso
che l'impossibilità di adempiere le dette obbligazioni non
costituisce ostacolo alla concessione della causa estintiva
in presenza di situazioni dì fatto che impediscano
l'adempimento, il giudice, nel rigettare l'istanza, deve
indicare in che modo il reato abbia determinato l'insorgenza
di obbligazioni civili, e se siano state individuate o siano
comunque individuabili e non siano irreperibili persone
danneggiate dalla condotta sanzionata penalmente
(Sez. 1, n. 5707 del 18/12/2012, dep. 05/02/2013, Piccinini,
Rv. 254806).
2.3. Un tale percorso logico deve presiedere anche la
verifica da compiersi quando, come nella specie,
l'adempimento, in funzione dimostrativa di emenda, sia
correlato più specificamente all'ordine di demolizione della
costruzione abusiva, impartito al condannato con la sentenza
dì condanna definitiva per il reato di cui all'art. 44,
lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001.
L'indicato ordine ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380 del
2001 è emesso dal giudice penale quale provvedimento
accessorio alla condanna, sulla base dell'accertamento della
persistente offensività dell'opera edilizia abusiva in danno
dell'interesse tutelato dalla norma. In tal senso si è
espressa la giurisprudenza di questa Corte (Sezioni U, n.
714 del 20/11/1996, dep. 03/02/1997, Luongo, Rv. 206659, e,
tra le successive, Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, dep.
16/10/2007, Terminiello, Rv. 237825; Sez. 3, n. 28356 del
21/05/2013, dep. 01/07/2013 Farina, Rv. 255466; Sez. 3, n.
3685 del 11/12/2013, dep. 28/01/2014, Russo, Rv. 258517),
che ha evidenziato come l'ordine di demolizione, adottabile
in concorrenza con l'analogo potere che compete all'autorità
amministrativa, non costituisce una pena in senso stretto,
ma uno strumento ripristìnatorio, diretto a eliminare le
conseguenze dannose del reato, e lo stesso riceve una tutela
rinforzata per la previsione, contenuta nella stessa norma,
secondo la quale, in caso di mancata ottemperanza entro il
termine dì novanta giorni dall'ingiunzione di demolizione,
l'area di sedime e le opere su di essa realizzate vengono
acquisite a titolo gratuito al patrimonio indisponibile del
comune nel cui territorio insistono.
In conseguenza di tale sua natura, mentre
deve escludersi che l'inosservanza dell'ordine di
demolizione del manufatto abusivo possa costituire in sé un
elemento ostativo alla concessione della riabilitazione,
l'adempimento dell'ordine può farsi rientrare, per analogia,
nell'obbligo di adoperarsi in favore della vittima del
reato, da individuarsi nell'ente pubblico territoriale,
titolare dell'interesse al corretto svolgimento
dell'attività edificatoria. |
COMPETENZE PROGETTUALI:
NON CONSENTITA LA DIREZIONE LAVORI AL GEOMETRA SE
GLI INTERVENTI SONO ESEGUITI IN ZONA SISMICA.
Per la realizzazione di interventi edilizi in zona sismica i
lavori devono essere diretti da un ingegnere, architetto,
geometra o perito edile iscritto nell’albo “nei limiti delle
rispettive competenze”; per quanto concerne il geometra,
l’oggetto e i limiti dell’esercizio della professione
sono disciplinati dal R.D. 11.02.1929, n. 274, art.
16, che consente a tale figura professionale la
progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili,
che non necessitino di complesse operazioni di calcolo
e non presentino implicazioni per la pubblica incolumità.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da
considerare modesta consiste nel valutare le difficoltà
tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera
comportano e le capacità occorrenti per superarle; a tal
fine, mentre non è stato ritenuto decisivo il mancato
uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione
“non modesta” essere realizzata senza di esso),
è rilevante il fatto che la costruzione sorga in zona
sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento
edilizio alla normativa antisismica prevista dal
T.U. Edilizia, la quale impone calcoli complessi che esulano
dalle competenze professionali dei geometri.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, della possibilità di far eseguire i lavori in
zona
sismica ad un soggetto apparentemente dotato di conoscenze
professionali idonee, qual è il geometra.
La vicenda
processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per
occuparsi
della questione segue alla sentenza con cui il Tribunale
assolveva per insussistenza del fatto il proprietario di un
immobile dai reati di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
artt. 93, 94 e 95 (Testo Unico delle disposizioni
legislative e
regolamentari in materia edilizia), in particolare, per
quanto
qui di interesse, per avere realizzato lavori edilizi in
zona
sottoposta a vincolo sismico, senza che gli stessi fossero
diretti da un professionista iscritto all’albo.
In
particolare, rilevava,
quanto all’omessa nomina dì un professionista quale
direttore dei lavori, che dalla consulenza tecnica del P.M.
emergeva che l’imputato era assistito dallo studio tecnico
C. S.a.s. del geom. C., il quale aveva anche inoltrato, come
da missiva in atti, comunicazione al Sindaco del Comune
nella qualità di direttore dei lavori; la regolarità di
tutta la
procedura posta in essere dall’imputato era stata altresì
acclarata
dal verificatore, ingegner M., nominato dal Tar, il
quale non aveva rilevato alcuna violazione di legge in capo
al G.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
il P.M., in particolare sostenendone l’erroneità per avere
ritenuto
che la direzione dei lavori, in caso di opere sismiche,
potesse essere affidata ad un geometra. Evidenziava,
infatti, che a norma del R.D. 11.02.1929, n. 274, art.
16, lett. m), e secondo quanto anche previsto dalla
legislazione
antisismica e dal Testo unico dell’edilizia circa le opere
in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone
sismiche,
esula dalla competenza dei geometri la progettazione
e la direzione di costruzioni civili con strutture in
cemento
armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia
l’importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli
architetti
iscritti nei relativi albi professionali.
Proprio per tal
motivo,
nel caso di specie, il Genio Civile aveva rilasciato parere
favorevole, allegato alla relazione del consulente del PM,
espressamente però subordinandolo alla condizione che
“la direzione lavori sia eseguita da tecnico in possesso di
laurea magistrale e quinquennale”.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha annullato la sentenza, in particolare osservando come il
Tribunale, nel ritenere sufficiente, a escludere nella
specie
la violazione di tale disposizione, il fatto che
risultassero
l’affidamento e l’effettivo espletamento dell’incarico di
direttore
dei lavori da parte del geom. C., non aveva evidentemente
tenuto conto del principio indicato (in precedenza,
sull’argomento, nella giurisprudenza civilistica: Cass.,
Sez.
II, sent. 07.09.2009, n. 19292, in CED, n. 609967; nel
senso che in materia di costruzioni edilizie, i geometri non
possono progettare o dirigere costruzioni in cemento armato
di tipo civile, neppure di modesta entità, sicché è loro
consentito progettare o dirigere costruzioni in cemento
armato
solo se sono costruzioni accessorie di tipo rurale e
che non presentano particolari complessità, v. Cass. pen.,
Sez. III, 06.11.2000, n. 11287, B., in CED, n.
217802) (Corte di
Cassazione, Sez. Feriale penale,
sentenza 12.08.2015 n.
34849 - Urbanistica e appalti
n. 11/2015).
---------------
MASSIMA
5. Il secondo motivo di ricorso è solo parzialmente
fondato.
Giova premettere alcune brevi osservazioni sull'oggetto e lo
scopo delle disposizioni che si assumono violate (artt. 93 e
94 d.P.R. n. 380/2001) e sulla natura della correlata
fattispecie penale (art. 95).
Le norme definiscono forme di controllo di tipo
permissivo-preventivo sugli interventi edilizi da eseguirsi
in zone sismiche.
L'art. 93 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, impone a chiunque
intenda effettuare interventi di costruzione, riparazione e
sopraelevazione nelle zone sismiche, comprese quelle a bassa
sismicità, la cui sicurezza possa interessare la pubblica
incolumità, di effettuare la denuncia dei lavori e il
deposito del relativo progetto esecutivo (c.d. «deposito
sismico»), presentando un preavviso scritto al c.d.
sportello unico edilizio. Questo, a sua volta, provvede ad
inoltrarlo al competente ufficio tecnico regionale. La
denuncia deve essere accompagnata dal deposito del progetto,
in doppio originale, sottoscritto, da un ingegnere, un
architetto o un geometra, secondo le rispettive competenze,
e dal direttore dei lavori.
Il successivo art. 94 impone inoltre di munirsi di
un'autorizzazione regionale preventiva ed espressa per
l'inizio dei lavori.
Dopo la presentazione della denuncia dei lavori ai sensi
dell'art. 93, l'inizio effettivo degli stessi può dunque
aver luogo soltanto dopo il rilascio dell'autorizzazione
scritta dell'ufficio tecnico regionale. Questa è rilasciata
nel termine di 60 giorni dalla richiesta, ed è comunicata, a
cura dell'ufficio tecnico regionale, allo sportello unico
edilizia, per i provvedimenti di sua competenza.
L'autorizzazione sismica non sostituisce il titolo edilizio
abilitativo (sia esso permesso di costruire o SCIA) ma si
somma ad esso, consentendo all'avente titolo di iniziare
legittimamente i lavori.
Più precisamente il rilascio del titolo
edilizio è condizione per l'ottenimento dell'autorizzazione
sismica, mentre questa condiziona l'efficacia del primo, nel
senso che fino a quando non è rilasciata non è possibile
dare inizio ai lavori, ma non è presupposto di legittimità
del permesso di costruire
(v. Cons. Stato, sez. V, n. 875 del 08/08/1997).
Il mancato rispetto delle prescrizioni di cui agli
artt. 93 e 94 T.U. edilizia è punito con un'ammenda ai sensi
del successivo art. 95.
Le fattispecie di reato sanzionate sono
dunque costituite segnatamente da:
a) inizio dell'attività di costruzione, riparazione e
sopraelevazione in zona sismica, senza avere preventivamente
dato il preavviso scritto allo sportello unico;
b) inizio dell'attività edilizia sulla base di un preavviso scritto
privo della documentazione richiesta, ai sensi dei
successivi commi da 2 a 5;
c) inizio dell'attività edilizia in assenza dell'autorizzazione
sismica rilasciata dall'ufficio tecnico regionale ai sensi
dell'art. 94, comma 1;
d) esecuzione dell'attività edilizia senza la direzione di un
ingegnere, di un architetto o di un geometra iscritto
all'albo ai sensi del successivo comma 4.
Fattispecie queste tutte contestate all'odierno imputato,
con la sola esclusione di quella di cui alla lettera b), che
non risulta in effetti compresa in nessuno dei due capi
della rubrica.
La norma incriminatrice punisce dunque inosservanze formali,
volte a presidiare il controllo preventivo della pubblica
amministrazione sulla sicurezza statica degli edifici in
zona sismica.
Più in particolare, in quanto riferita alle prescrizioni di
cui all'art. 93, la norma tutela
l'interesse al controllo della P.A. nella fase della
progettazione dell'opera, al fine di verificare l'effettiva
corrispondenza del progetto presentato alle norme tecniche
sulle costruzioni in zona sismica; in quanto invece riferita
alle previsioni di cui all'art. 94 tutela l'interesse che
consegue all'esecuzione dell'opera, ed è finalizzata a
mettere in condizione la P.A. di effettuare l'attività di
verifica circa la corrispondenza dei lavori con quanto
indicato nel progetto approvato e il concreto rispetto delle
norme tecniche sulle costruzioni in zona sismica.
Le due norme, tutelando beni giuridici solo
in parte coincidenti, danno luogo ad altrettante distinte
fattispecie di reato, che possono operare in concorso tra
loro.
La giurisprudenza ha peraltro chiarito che,
in entrambi i casi, l'effettiva pericolosità della
costruzione realizzata senza l'autorizzazione del genio
civile e senza le prescritte comunicazioni è del tutto
irrilevante ai fini della sussistenza del reato, come pure
lo è la verifica postuma dell'assenza del pericolo, in
quanto la normativa è finalizzata, come detto, a garantire
l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle
attività edificatorie in dette zone
(v. Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007; Sez. 3, n. 2181 del
12/06/2001).
...
8. È altresì fondato il terzo motivo di ricorso.
A norma dell'art. 94, comma 4, d.P.R. n. 380/2001 i lavori
devono essere diretti da un ingegnere, architetto, geometra
o perito edile iscritto nell'albo «nei limiti delle
rispettive competenze».
Il Tribunale nel ritenere sufficiente, a escludere nella
specie la violazione di tale disposizione, il fatto che
risultino l'affidamento e l'effettivo espletamento
dell'incarico di direttore dei lavori da parte del geom.
Ca., non ha evidentemente tenuto conto di tale ultima
importante precisazione.
L'oggetto e i limiti dell'esercizio della
professione di geometra sono invero disciplinati dall'art.
16, r.d. 11.02.1929, n. 274.
Questo consente a tale figura professionale la
progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili, che non necessitino di complesse operazioni di
calcolo e non presentino implicazioni per la pubblica
incolumità.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da
considerare modesta consiste nel valutare le difficoltà
tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera
comportano e le capacità occorrenti per superarle.
A questo fine, mentre non è stato ritenuto
decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo
anche una costruzione «non modesta» essere realizzata
senza di esso), è stata data rilevanza al fatto che la
costruzione sorga in zona sismica, con conseguente
assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla legge n. 64/1974, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei
geometri (v. Cass.
Civ., Sez. 2, n. 19292 del 07/09/2009, Rv. 609967; Cass.
Civ., Sez. 2, n. 8543 del 08/04/2009, Rv. 607639).
Ne discende che anche sul punto la decisione impugnata deve
ritenersi supportata da motivazione carente, in quanto non
adeguatamente rapportata alle dette indicazioni normative.
La contestazioni svolte al riguardo nella memoria difensiva
depositata avanti questa Corte in data 22/07/2015, secondo
cui la censura svolta dal P.G. ricorrente sarebbe infondata
in punto di fatto, essendo stati gli incarichi in parola
affidati a ingegnere abilitato, non possono essere in questa
sede valutate, implicando esse ovviamente un accertamento di
merito da riservare al giudice del rinvio e occorrendo
piuttosto qui arrestarsi al rilievo che sul punto la
sentenza impugnata omette qualsiasi verifica limitandosi ad
affermare, erroneamente, la sufficienza dell'incarico
affidato al geom. Ca.. |
EDILIZIA PRIVATA:
PERMESSO DI COSTRUIRE E DISTINZIONE TRA IL REGIME
DELLE VARIANTI IN SENSO PROPRIO E LE CC.DD. VARIANTI
ESSENZIALI.
In tema di reati edilizi, mentre le “varianti in senso
proprio”,
ovvero le modificazioni qualitative o quantitative
di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato,
tali da non comportare un sostanziale e radicale
mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto
di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso
in variante, complementare ed accessorio, anche
sotto il profilo temporale della normativa operante,
rispetto
all’originario permesso a costruire, le “varianti
essenziali”, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità
quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario
rispetto ai parametri indicati dall’art. 32 del d.P.R.
n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a
costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello
originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti
al momento di realizzazione della variante.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla diversità del regime
giuridico applicabile alle varianti quantitative e
qualitative
non consistentemente rilevanti rispetto all’originario p.d.c.
e quello applicabile alle varianti cc.dd. essenziali, che
si
presentano invece radicalmente incompatibili con il progetto
approvato.
La vicenda processuale trae origine dal
provvedimento
con cui il Tribunale rigettava l’istanza di riesame
proposta dall’indagata avverso il decreto con il quale il
Giudice
per le indagini preliminari di quello stesso Tribunale,
sulla ritenuta sussistenza dei reati di lottizzazione
abusiva
di terreni ed altri reati urbanistici ed edilizi inerenti la
costruzione,
in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in
variazione essenziale e totale difformità dai titoli edilizi
rilasciati,
di 8 villette unifamiliari, aveva disposto il sequestro
preventivo delle aree, dei terreni, delle opere e dei
fabbricati
meglio in detto decreto individuati.
Annullata dalla
Cassazione
l’ordinanza, chiedendosi nuovamente al tribunale
di valutare la legittimità dell’intervento alla stregua del
P.R.G. solo ove potesse ritenersi che le modifiche
autorizzate
con il permesso in variante fossero tali da comportare
un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato
rispetto a quello oggetto di approvazione, il tribunale del
riesame rigettava nuovamente l’istanza ritenendo variante
non essenziale (e dunque non variante propria) quella
assentita
con successiva concessione, con la conseguenza
che l’intervento edilizio doveva essere ricondotto sotto
l’ambito applicativo del P.R.G. del 2009, con l’ulteriore
conseguenza
della patente illegittimità della concessione edilizia
per la mancata preventiva predisposizione dello strumento
attuativo piano quadro in zona non urbanizzata e
l’omesso computo della nuova volumetria assentita e relativa
alla riqualificazione in seminterrati abitabili degli
originari
piani interrati nel complessivo calcolo della volumetria
edificabile secondo l’indice 0,03 mc/mq.
Contro l’ordinanza
proponeva nuovamente ricorso per cassazione l’indagata,
in particolare sostenendo che la stessa era stata adottata
in palese violazione dei principi fissati dalla sentenza di
annullamento
e l’assenza totale di motivazione in relazione al fumus commissi delicti. Nel sostenere la piena validità
della
concessione edilizia, si doleva del fatto che il Tribunale
del
riesame quale giudice di rinvio in particolare non avrebbe
tenuto dell’intervenuta decadenza delle cd. “norme di
salvaguardia”
del P.R.G. del 2004 aventi validità di tre anni,
con la conseguenza che l’area in cui erano state costruite
le villette continuava ad essere identificata sulla base del
vecchio P.R.G. del 1978 quale zona stralciata da ristudiare
in cui era consentita l’edificazione; da, quindi, dunque,
anche
l’erronea interpretazione ed applicazione del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 32, in tema di varianti
urbanistiche
e la legittimità del permesso di costruire n. 107 del
2010.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare escludendo la
fondatezza
della tesi difensiva rilevando come il Tribunale avesse
correttamente sussunto l’ipotesi concreta nella disciplina
del nuovo P.R.G., spiegando con ampiezza di argomenti
sulla base di quali emergenze istruttorie gli interventi
edilizi
assentiti non potessero qualificarsi come varianti non
essenziali
e dovessero, invece, ritenersi interventi edilizi
palesemente
diversi da quelli originariamente assentiti, con relativo
assoggettamento alla normativa urbanistica vigente
al momento del rilascio della nuova concessione, dunque
alla normativa ampiamente descritta, che vietava interventi
edificatori in assenza di apposito strumento attuativo del
P.R.G.
Il Tribunale aveva, sul punto, dunque colmato il
vuoto
motivazionale della prima ordinanza annullata dalla
Cassazione,
ottemperando all’indicazione fornita nella sentenza
di annullamento e spiegando sulla base di quali elementi
ritenesse che le varianti avessero carattere essenziale, nel
pieno rispetto di quanto prevedono al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 31 e 32 (in precedenza, sull’argomento:
Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2010, n. 24236, M. e altro,
in
CED., n. 247686) (Corte di Cassazione, Sez. IV
penale,
sentenza 11.08.2015 n. 34829 - Urbanistica e
appalti n. 11/2015).
---------------
MASSIMA
5. Nella citata sentenza di annullamento questa Corte ha
rilevato che, ai fini della verifica di sussistenza
(ancorché indiziaria) del reato di lottizzazione abusiva,
non ha importanza decisiva stabilire se il frazionamento del
2005 fosse dolosamente preordinato alla successiva
lottizzazione abusiva dell'area, quanto piuttosto chiarire i
seguenti aspetti della vicenda che sono rimasti del tutto
inesplorati:
a) il regime urbanistico-edilizio dell'area oggetto
d'intervento alla data di rilascio del primo permesso di
costruire, e la conseguente verifica di conformità ad esso
dell'intervento assentito; b) la natura delle varianti in
corso d'opera consentite con il rilascio del permesso di
costruire n. 107/2010.
Quanto al primo punto osservava che, come dato atto dallo
stesso Tribunale del riesame, a seguito dell'adozione del
nuovo PRG del 2004, l'amministrazione comunale di Agrigento
aveva anche adottato le c.d. misure di salvaguardia,
tuttavia decadute al momento del rilascio del permesso di
costruire n. 182/2008. Il regime urbanistico-edilizio cui
far riferimento è, dunque, fornito dalla pianificazione
vigente in epoca anteriore al PRG definitivamente approvato
nel 2009 (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 3), dalle
prescrizioni di cui al D.M. 16.05.1968 (che, per le zone B,
non pone il vincolo di inedificabilità, ma solo indici di
fabbricabilità molto bassi) e dal vincolo paesistico imposto
per legge, ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142,
comma 1, lett. a), sulla fascia di rispetto (all'interno
della quale, però, non pare sia stata realizzata alcuna
delle 8 villette).
Il Tribunale, prosegue la sentenza di annullamento, però,
ritiene in ogni caso applicabile il PRG del 2009 sul rilievo
che le varianti apportate alle villette approvate con
permesso di costruire n. 107/2010, comportassero, per la
loro natura essenziale, la loro soggezione al nuovo
strumento urbanistico.
Il principio non è errato, ma non è chiaro sulla base di
quali elementi il Tribunale ha ritenuto la natura "essenziale"
delle varianti. La motivazione, sul punto, è assente.
Tale valutazione andava fatta (e spiegata) sulla scorta dei
criteri stabiliti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma
1, e art. 32, nonché, avuto riguardo alle deduzioni
difensive circa la natura tecnica degli ulteriori volumi
ottenuti dalla realizzazione di locali seminterrati al posto
dei locali originariamente previsti come totalmente
interrati, e tuttavia pur sempre destinati a garage,
dall'art. 22 delle NTA (sempre che di garage effettivamente
si tratti) (sulla natura essenziale della variante, sul
necessario riferimento al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, e
sulle conseguenze in tema di regime urbanistico applicabile,
cfr. Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010, Muoio, Rv. 247686: "In
tema di reati edilizi, mentre le varianti in senso proprio,
ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non
rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali
da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del
nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione,
sono soggette al rilascio di permesso in variante,
complementario ed accessorio, anche sotto il profilo
temporale della normativa operante, rispetto all'originario
permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle
caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il
progetto edificatorio originario rispetto ai parametri
indicati dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, sono soggette
al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed
autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono
le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della
variante").
7.6. Non va peraltro nemmeno sottaciuto che la rubrica
provvisoria non specifica affatto quali siano le "varianti
essenziali" ai progetti approvati.
In ogni caso, ove dovesse ritenersi, in sede di rinvio,
applicabile il nuovo PRG del 2009, il Tribunale non potrebbe
esimersi dal valutare le vicende amministrative derivanti
dall'annullamento del decreto di approvazione dello stesso
PRG, n. 1106 del 28/10/2009, e le concrete ricadute sul
regime urbanistico ed edilizio dell'area oggetto di
intervento.
Quanto all'urbanizzazione dell'area, ricordava la Corte che,
secondo il principio costantemente affermato dal giudice
amministrativo, "la necessità dello
strumento attuativo, quale presupposto di legittimità per il
rilascio della concessione edilizia, normalmente esclusa nel
caso di zone completamente urbanizzate, sussiste, invece,
non soltanto nelle ipotesi estreme di zone assolutamente
inedificate, ma anche in quelle (intermedie) di zone
parzialmente urbanizzate, nelle quali si manifesti
un'esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo
e di potenziamento delle opere di urbanizzazione; pertanto,
per escludere la necessità della lottizzazione, è necessario
che la zona presenti una situazione di pressoché completa e
razionale edificazione, tale da rendere del tutto superfluo,
un piano attuativo"
(Cons. St., Sez. 5, sent. n. 790 del 15/02/2001;cfr. sullo
stesso punto, in materia di lotti interclusi, Sez. 4, n.
5764 del 27/10/2011: "Ai sensi dell'art.
9 del T.U. Edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n.
380, nella aree per le quali non sono stati approvati gli
strumenti urbanistici attuativi di quello generale è inibita
qualsiasi attività edilizia, a meno che questa non debba
essere svolta all'interno di un lotto intercluso. La
relativa fattispecie costituisce una deroga eccezionale al
divieto per le amministrazioni comunali di rilasciare un
permesso di costruire in assenza della preventiva
approvazione dei piani attuativi previsti dallo strumento
urbanistico generale").
...
Esaminando, in quanto dirimente, la questione della
conformità dell'ordinanza impugnata alla traccia
motivazionale indicata dalla sentenza di annullamento, è
bene ricordare quanto già affermato dalla Corte di
Cassazione in merito alla natura essenziale della variante:
<In tema di reati edilizi, mentre le
varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni
qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un
sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato
rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed
accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa
operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le
varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da
incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dal
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, sono soggette al rilascio
di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto
a quello originario e per il quale valgono le disposizioni
vigenti al momento di realizzazione della variante>
(Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010, Muoio, Rv. 247686).
Nella specie il Tribunale dopo aver operato una
ricostruzione normativa del quadro urbanistico di
riferimento a partire dall'adozione da parte del comune di
Agrigento nel 2004 del Piano Regolatore Generale e
attraverso l'esame delle successive modifiche apportate per
assicurare l'osservanza delle vigenti disposizioni statali e
regionali, nonché gli effetti dell'annullamento del decreto
n. 1106 del 28.10.2009 del Dirigente Generale
dell'Assessorato Regionale Territorio e Ambiente ed avente
ad oggetto l'approvazione del PRG, nella parte in cui
recependo il parere reso dal Consiglio Regionale
dell'urbanistica apponeva al PRG le prescrizioni n. 1, 2, 3,
4, 8 e 11 (effetti limitati alle sole modifiche apportate
dal D.D.G. 1106/2009 e non l'intero impianto del PRG), ha
ritenuto che l'area in sequestro ricadeva in una parte "stralciata"
cioè da pianificare successivamente ad opera del Comune.
Il che avveniva con la successiva destinazione dell'area a
"Parco Territoriale sottozona G2 (ove non era assentibile
nessuna nuova costruzione) e "parcheggio pubblico".
Donde, nonostante le successive precisazioni, l'intervento
diretto poteva essere assentito solo nell'ambito di un piano
di lottizzazione con la conseguente illegittimità della
concessione del 2008.
Ancorché non risulti corretta in punto di diritto la
valutazione operata dal Tribunale in merito all'asserita
illegittimità della prima concessione edilizia (in quanto,
per espressa indicazione del Tribunale, all'epoca in cui fu
rilasciato il provvedimento concessorio, il PRG non era
ancora approvato e, con esso, non erano applicabili le
relative NTA, in particolare l'art. 33 richiamato a pag. 8 a
sostegno della necessità di un Piano Quadro attuativo del
predetto PRG), tale erronea applicazione della normativa di
riferimento non comporta annullamento del provvedimento
impugnato, bensì solo correzione della motivazione ai sensi
dell'art. 619 cod. proc. pen., in quanto del tutto infondate
si presentano le censure mosse con riguardo alla affermata
illegittimità della concessione rilasciata nel 2010.
Il Tribunale ha, infatti, sul punto, correttamente sussunto
l'ipotesi concreta nella disciplina del nuovo PRG, spiegando
con ampiezza di argomenti sulla base di quali emergenze
istruttorie gli interventi edilizi assentiti non potessero
qualificarsi come varianti non essenziali e dovessero,
invece, ritenersi interventi edilizi palesemente diversi da
quelli originariamente assentiti, con relativo
assoggettamento alla normativa urbanistica vigente al
momento del rilascio della nuova concessione, dunque alla
normativa ampiamente descritta, che vietava interventi
edificatori in assenza di apposito strumento attuativo del
PRG.
Le deduzioni in fatto contenute nel ricorso tendono ad
ottenere un giudizio su asseriti vizi della motivazione del
provvedimento, precluso, come detto, in sede di legittimità
nel giudizio d'impugnazione di ordinanza in materia
cautelare reale ove non si tratti di vizi qualificabili in
termini di assoluta carenza e, in quanto tali, riconducibili
nell'alveo della violazione di legge. Il Tribunale ha, sul
punto, colmato il vuoto motivazionale ottemperando
all'indicazione fornita nella sentenza di annullamento e
spiegando sulla base di quali elementi ritenesse che le
varianti avessero carattere essenziale, nel pieno rispetto
di quanto prevedono gli artt. 31 e 32 d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
Né risulta condivisibile quanto sostenuto dal ricorrente a
proposito della apoditticità della motivazione sul punto
relativo al periculum in mora, sia perché il
Tribunale aveva specificamente replicato alle doglianze
concernenti l'asserita urbanizzazione dell'area, ma
soprattutto perché nel ricorso si analizza detto presupposto
sulla base dell'assunto, smentito dalla puntuale descrizione
dell'ampio intervento edilizio che la misura cautelare tende
ad impedire, che si trattasse di otto villette di 40 mq di
superficie già terminate. |
EDILIZIA PRIVATA:
PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ E REATO PAESAGGISTICO.
In tema di reati paesaggistici, la fattispecie D.Lgs. n. 42
del 2004, ex art. 181, rappresenta un reato di pericolo e,
pertanto, per la sua configurabilità non è necessario un
effettivo pregiudizio per l’ambiente, potendo escludere
dal novero della condotte penalmente rilevanti solo
quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a
compromettere i valori del paesaggio e l’aspetto esteriore
degli edifici; ne consegue che il principio di offensività
deve essere inteso in termini non di concreto apprezzamento
di un danno ambientale, bensì della attitudine
della condotta a porre in pericolo il bene protetto.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza
in esame concerne un tema di particolare interesse,
rappresentato
dalla possibile configurabilità dell’illecito paesaggistico
in presenza di interventi che, apparentemente,
si presentino di modesta entità e, quindi, sostanzialmente
inoffensivi.
La vicenda processuale trae origine della
ordinanza
con cui il Gip presso il Tribunale rigettava la richiesta
del p.m. di sequestro preventivo di un volume edilizio,
ottenuto
mediante la chiusura perimetrale di un porticato, con
superficie di circa 80 mq., trasformato, da area di
collegamento
tra una S.S. e l’Albergo S.S., in locale chiuso destinato
all’esercizio del ristorante “A.M.”, in relazione
all’astratta
ipotesi di reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis,
contestato a B.G., in concorso con l’amministratore della
società proprietaria dell’immobile e della società H.S.S.,
sull’assunto della intervenuta prescrizione delle
violazioni,
per essere maturato il relativo termine quinquennale.
Il
Tribunale,
chiamato a pronunciarsi sull’appello proposto dal
P.M, in accoglimento del gravame, aveva disposto la misura
cautelare reale, rilevando la sussistenza del fumus del
delitto ambientale contestato e, in particolare, che
relativamente
ad esso il termine prescrizionale non poteva considerarsi
ancora consumato. Contro l’ordinanza proponeva
ricorso per cassazione l’indagato, in particolare
contestando
la sussistenza del periculum in mora ai fini della
applicazione
del sequestro preventivo del manufatto in contestazione.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, così facendo applicazione del
predetto
principio ed osservando che le opere realizzate, al di fuori
da ogni controllo preventivo ed autorizzatorio da parte
delle autorità preposte, determinanti la creazione di una
nuova attività commerciale di ristorazione, hanno incidenza
non solo sulla consistenza del paesaggio, ma, in maniera
significativa, anche sull’equilibrio ambientale, nella sua
accezione
più ampia: l’utilizzo, il funzionamento di un ristorante
determina inevitabili e sostanziali conseguenze anche
in termini di maggiore affluenza di persone, traffico
veicolare,
produzione di rifiuti, inquinamento, legati alla gestione
dell’esercizio commerciale.
Peraltro, in una zona sottoposta
a vincolo paesaggistico-ambientale, nonché a speciale
protezione
dell’autorità, come il sito del Comune interessato,
l’opera in contestazione, che ivi insiste, e l’uso della
stessa,
concorreva a modificare l’assetto ambientale e del
territorio,
incidendo notevolmente sull’equilibrio paesaggistico,
considerato che la ratio della apposizione di vincoli e
della
speciale protezione di una zona risiede proprio
nell’impedire
situazioni di degrado e a preservare la integrità di luoghi
particolarmente ameni, che hanno determinate conformazioni
da non compromettere.
Del resto, concludevano i Supremi
Giudici, l’oggetto tutelato non è il concetto astratto
di “bellezze naturali”, bensì l’insieme delle cose, beni
materiali
o le loro composizioni, che presentano valore paesaggistico,
che non possono non ritenersi in alcun modo compromesse
dalla allocazione di una attività commerciale, anche
se nella zona ne siano sussistenti altre, come nella specie
(v., in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 20.03.2003, n. 12863 A., in CED, n. 224896)
(Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 28.07.2015 n. 33034 - Urbanistica e appalti n. 11/2015). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: È FALSO PER INDUZIONE L’ATTESTAZIONE DEL P.U. CHE
UN FABBRICATO È CONFORME AL PROGETTO APPROVATO
CON IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Il falso per induzione ex artt. 48 e 479 c.p. sussiste
indipendentemente
dalla natura fidefacente dell’autocertificazione;
ne consegue che l’atto con cui il pubblico ufficiale
attesta la conformità di un fabbricato al progetto
approvato con la concessione edilizia costituisce atto
pubblico.
Il tema esaminato dalla Cassazione, con la sentenza in
esame,
verte sulla natura o meno di atto pubblico
dell’attestazione,
promanante dal pubblico ufficiale, circa la conformità
del fabbricato al progetto assentito.
La vicenda processuale
trae origine dalla sentenza che aveva condannato
l’imputato per falso per induzione, in particolare per avere
dichiarato falsamente in sede di autocertificazione che
l’intervento
di costruzione di una palazzina residenziale era
stato realizzato in conformità ai disegni approvati e
tenendo
presenti tutte le prescrizioni di cui al permesso di
costruire
rilasciato dal comune, dichiarazione non veritiera atteso
che non erano stati realizzati gli allacci alle reti
tecnologiche,
in particolare alla rete idrica gestita dalla società
R.R. S.p.A..
Contro la sentenza proponeva ricorso per
cassazione
l’imputato, in particolare deducendo la mancanza
di un’autocertificazione fidefacente, per inesistenza di una
specifica previsione normativa che conferisse valore de veritate
all’attestazione resa dal privato al pubblico ufficiale.
La dichiarazione resa in autocertificazione sarebbe stata
priva dei requisiti richiesti dal d.P.R. n. 445 del 2000,
art.
46 per avere la funzione di provare i fatti attestati dal
privato
al pubblico ufficiale, per cui sarebbe priva di potenzialità
lesiva della pubblica fede.
Inoltre, l’autocertificazione
non
era stata sottoscritta in presenza di un dipendente del
Comune,
né era stata presentata unitamente alla copia fotostatica
di un documento di identità, onde non aveva i requisiti
per valere come dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà
ex d.P.R. n. 445 del 2000, artt. 47 e 38, di tal che
non poteva provare i fatti in essa attestati e non poteva
confluire nel certificato di agibilità. Infine, la medesima
autocertificazione, come risulta dal testo, non era idonea a
comprovare i fatti della stessa dichiarati perché non
espressamente indicati nell’art. 46 (con riferimento al cit.
d.P.R., art. 47, comma 3), onde anche per tale motivo non
aveva alcuna potenzialità lesiva della pubblica fede.
Trattavasi
di una semplice dichiarazione, priva di qualunque efficacia
certificativa, tanto più se si considera che essa non è
necessaria ai sensi dell’art. 25, comma 1, del Testo unico
in materia edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001) per cui non è
destinata
a confluire nel certificato di agibilità e quindi a provare
la verità dei fatti in essa attestati.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha annullato per insussistenza del fatto la sentenza di
condanna,
in particolare osservando come che il reato non
sussisteva, atteso che la prescrizione del permesso di
costruire
(“Prima della richiesta del rilascio del permesso di
agibilità dovranno essere realizzati gli allacci alle reti
tecnologiche”)
non implicava l’attivazione in concreto della fornitura
(che, peraltro, non si vede come possa essere richiesta
dal costruttore a nome del futuro acquirente), bensì solo la
predisposizione tecnica degli impianti per l’allacciamento
alla rete idrica, mediante esternalizzazione dell’impianto
fino
all’armadio o al pozzetto di successiva installazione del
contatore.
Tale interpretazione era, altresì, confortata non
solo dagli atti dell’ufficio tecnico comunale, che, dopo
un’iniziale
sospensione dell’agibilità, aveva revocato il provvedimento
cautelare, ma gli stessi atti privati, risultando in
modo espresso dal contratto preliminare di compravendita
che l’impresa avrebbe proceduto esclusivamente alla
realizzazione
degli impianti, restando a carico dell’acquirente il
successivo allaccio mediante stipula del relativo contratto
di fornitura (v., nel senso del principio affermato: Cass.
pen., SS.UU., 17.09.984, n. 7299, Nirella, in CED,
n. 165602) (Corte
di
Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 23.07.2015 n. 32433 - Urbanistica e appalti n.
11/2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
CONTRATTI DELLA P.A. LA CASSAZIONE FA IL PUNTO
SULL’ESPERIBILITÀ DELL’AZIONE D’INDEBITO
ARRICCHIMENTO VERSO LA P.A.
Il requisito della sussidiarietà -presupposto per
l’applicazione
dell’art. 2041 c.c.- consiste nell’assenza di un rimedio
tipico, atto a reintegrare la parte che ha determinato
l’arricchimento altrui in una posizione di equilibrio
economico e va inteso nel senso che l’azione è esperibile
solo quando quella contrattuale non è andata a buon
fine e non esistano rimedi residuali com’è, per le
obbligazioni
prestate a favore di una P.A. in assenza di un
valido contratto scritto, quella dell’art. 23, comma 4,
D.L. n. 66/1989 (conv. in L. n. 144/1989 e riprodotto senza
sostanziali modifiche dall’art. 35 del D.Lgs. n.
77/1995, art. 35).
Un Comune ricorre in Cassazione contro una sentenza di
Corte d’Appello che, pronunciandosi in sede di rinvio dalla
Cassazione stessa, ha accolto un appello in origine proposto
da due privati riconoscendo agli stessi una somma a titolo
d’ingiustificato arricchimento derivante da prestazioni
rese a favore del medesimo Comune. La Corte respinge il
ricorso, facendo un interessante punto sulla ricorrente
giurisprudenza
maturata sull’applicabilità dell’art. 2041 c.c.
nei confronti della P.A..
La fattispecie si caratterizza per essere anteriore
all’entrata
in vigore dell’art. 23, comma 4, D.L. n. 66/1989 (conv. in
L.
n. 144/1989 e riprodotto senza sostanziali modifiche
dall’art.
35 del D.Lgs. n. 77/1995, art. 35) a mente del quale in
caso di assunzione, da parte delle PP.AA., di obbligazioni
prive di contratto scritto e impegno di spesa validamente
assunto, il rapporto intercorre in via diretta fra il
prestatore
di beni o servizi e l’amministratore o il funzionario che
abbiano
consentito la fornitura.
Tale disciplina, perché anteriore
al rapporto di cui è causa, non è qui applicabile,
altrimenti
dovendosene fare applicazione in ossequio al canone
ricavabile dall’art. 2042 c.c. per il quale l’azione
d’indebito
arricchimento verso la P.A., stante la sua natura residuale,
è proponibile dal privato “impoverito” solo in assenza
di altre azioni tipiche, secondo un orientamento ormai
invalso e ricorrente del Giudice di legittimità.
Per questa ragione, è applicabile de plano la disciplina
dell’azione
generale di arricchimento indebito verso la P.A. In
relazione ad essa, dottrina e giurisprudenza non hanno
avuto dubbi nel ravvisarne i presupposti: a)
nell’arricchimento
senza causa di un soggetto; b) nell’ingiustificato
depauperamento
di un altro; c) nel rapporto di causalità diretta
ed immediata tra le due situazioni, di modo che lo
spostamento
risulti determinato da un unico fatto costitutivo;
d) nella sussidiarietà dell’azione (art. 2042 c.c.), nel
senso
che essa può avere ingresso solo quando nessun’altra
azione sussista ovvero se questa, pur esistente in astratto,
non possa essere esperita per carenza ab origine di taluno
dei suoi requisiti.
Si ritenne, poi, del tutto pacifico che
l’arricchimento
debba consistere in un’effettiva attribuzione
patrimoniale: configurabile, tuttavia, con il conseguimento
di qualunque utilità economica, e quindi non soltanto
quando vi sia stato un incremento patrimoniale, ma anche
se la prestazione eseguita da altri, con diminuzione del
proprio
patrimonio, abbia fatto risparmiare una spesa od abbia
evitato il verificarsi di una perdita (Cass. 28.01.1970,
n. 178; da ultimo, Cass. 05.07.2013, n. 16820).
Anche in
questi casi, infatti, il soggetto beneficiato riceveva
un’utilità
in mancanza della quale avrebbe dovuto effettuare un
esborso, o subire una diversa diminuzione patrimoniale.
La questione -osserva la Suprema Corte- acquistò rilevanza
quando la giurisprudenza iniziò ad ammettere la
proponibilità
dell’azione anche nei confronti della P.A. qualora
questa abbia riconosciuto, sia pur implicitamente, l’utilità
derivata dall’opera o dalla prestazione altrui. E ritenne
che
detto riconoscimento ben potesse risultare per implicito
dal fatto che l’ente sia addivenuto alla sua utilizzazione:
posto
che l’oggetto era costituito quasi sempre da prestazioni
di privati in dipendenza di contratti irregolari, nulli o
addirittura
inesistenti coinvolgenti, in genere, appaltatori, fornitori
o professionisti. E, quindi, situazioni caratterizzate dal
fatto
che l’opera svolta dall’impoverito ha carattere
imprenditoriale
ovvero professionale, ed in ogni caso, consiste in
un’attività posta in essere abitualmente e professionalmente
al fine di procurarsi un guadagno.
Il requisito della sussidiarietà consiste nell’assenza di un
rimedio
di carattere specifico o ordinario atto a reintegrare
la parte che ha determinato l’arricchimento altrui in una
posizione di equilibrio economico. Ma la sussidiarietà va
intesa
nel senso che l’azione di ingiustificato arricchimento è
esperibile quando quella contrattuale non è andata a buon
fine. In questo senso, infatti depongono quelle decisioni
che consentono la sua proposizione nei confronti della P.A.
quando il rapporto contrattuale è basato su di un contratto,
ad esempio, invalido perché annullato dal giudice
amministrativo
(Cass., SS.UU., 11.09.2008, n. 23385).
D’altra parte le due azioni, quella contrattuale e quella
d’ingiustificato
arricchimento, non si pongono in una situazione
di alternatività, nel senso che se è proposta la prima, la
seconda non è più proponibile, ma in una situazione di
successione
cronologica. Questo perché tale seconda azione è
diversa per petitum e per causa petendi e che, inoltre,
avendo
funzione sussidiaria e natura residuale, trova il
riconoscimento
della sua esperibilità proprio nell’indicato diniego
di tutela contrattuale (Cass. 25.05.2011, n. 11489,
ord.; Cass. 27.01.2010, n. 1707; Cass. 13.12.1984, n. 6537).
Diversamente, si tratterebbe di
un’interpretazione
eversiva del concetto di ingiustificato arricchimento
(che è un principio di equità). Di qui la proponibilità,
anche
nel medesimo giudizio, delle due azioni, ma in via
subordinata
(Cass., SS.UU., 07.10.2010, n. 26128; Cass. 23.06.2009, n. 14646) (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 19.03.2015 n. 5480 - Urbanistica
e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
EFFICACIA INDIRETTA DEL D.M. 1444/1968 NEI
CONFRONTI DEI PRIVATI.
L’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 impone agli Enti titolari di
poteri pianificatori l’osservanza di limiti edilizi in sede
di formazione o di revisione degli strumenti urbanistici:
per l’effetto le previsioni di PRG con distanze inferiori
sono illegittime e suscettibili di disapplicazione e
sostituzione con quelle previste dal citato D.M..
In ragione di
questo effetto automatico, può concludersi che la normativa
di cui ai regolamenti edilizi ed urbanistici locali,
come così integrata e modificata, ha carattere di immediata
applicazione anche nei rapporti tra privati.
La Cassazione si occupa dell’applicazione del D.M. n.
1447/1968 e della sua incidenza sulle norme di PRG, in
relazione
ad una controversia sorte tra privati per questioni di
natura dominicale.
In disparte ogni punto strettamente privatistico, estraneo
alla materia della Rivista, merita osservarsi come il
Supremo
Collegio - con riguardo alla sopravvenienza di distoniche
previsioni legislative e regolamentari, anche se di livello
locale - affermi che in tema di edilizia, quando nel tempo
si succeda una pluralità di norme regolatrici, la
legittimità o
meno di ciascuna attività edificatoria e le relative
conseguenze
vadano accertate con riferimento alla normativa vigente
all’epoca della realizzazione dell’attività stessa (Cass.
15.03.2001, n. 3771).
Ancora, la sentenza merita attenzione ove ricorda che, in
tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, emanato su delega contenuta all’art.
41-quinquies (introdotto dall’art. 17, L. 06.08.1967, n.
765) della L. 17.08.1942, n. 1150 (legge urbanistica) è
produttivo di effetti assimilabili a quelli d’una fonte
primaria,
sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili
di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass.,
SS.UU., 07.07.2011, n. 14953).
Per tale inderogabilità,
la
previsione di dieci metri va interpretata nel senso che
questa
distanza minima è richiesta anche nell’ipotesi in cui
una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e,
ancora,
che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo
edificio
o quella dell’edificio preesistente, essendo sufficiente,
per l’applicazione di tale distanza, che le finestre
esistano
in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro
edificio,
ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza
infra-legale;
ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in
parte privi di finestre (Cass. 07.07.2011, n. 13547).
La Cassazione qui osserva che se pure è vero che l’art. 9
del D.M. n. 1444/1968 impone precipuamente ai Comuni
l’osservanza di determinati limiti edilizi in sede di
formazione
o di revisione degli strumenti urbanistici -sicché esso
non ha immediata valenza interprivatistica- nondimeno
eventuali previsioni di PRG con distanze inferiori sono da
ritenersi
illegittime e quindi suscettibili di disapplicazione e
sostituzione con quelle previste dal citato D.M.: in ragione
di questo effetto automatico, può concludersi che la
normativa
di cui ai regolamenti edilizi ed urbanistici locali, come
integrata e modificata dal D.M. n. 1444/1968, ha carattere
di immediata applicazione anche nei rapporti tra privati
(Cass. 15.03.2001, n. 3771).
Ancora interessante, nella sentenza in commento, è
l’affermazione
per la quale l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 non impone
di rispettare, in ogni caso, una distanza minima dal
confine sicché -in applicazione del principio di
prevenzione- esso deve interpretarsi nel senso che tra una parete
finestrata
e l’edificio antistante vada rispettata la distanza di
dieci metri con obbligo del prevenuto di arretrare la
propria
costruzione fino ad una distanza di m. 5 dal confine, se il
preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, ha
rispettato
una distanza di almeno m. 5 dal confine.
Tuttavia, se il
preveniente abbia realizzato una parete finestrata ad una
distanza dal confine inferiore a cinque metri, il vicino non
sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino a
rispettare
la distanza di dieci metri da tale parete ma potrà imporre
al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con
parete non finestrata) rispettando la metà della distanza
legale
dal confine ed eventualmente procedere all’interpello
di cui all’art. 875, comma 2, c.c., ove ne ricorrano le
condizioni
(Cass. 07.03.2002, n. 3340) (Cassazione civile, Sez. II,
sentenza 12.03.2015 n. 4968 - Urbanistica
e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
ALLE SEZIONI UNITE IL TEMA DELL’APPLICABILITÀ DEL
CRITERIO DELLA PREVENZIONE EDILIZIA SE LE DISPOSIZIONI
LOCALI PREVEDONO SOLO UNA DISTANZA FRA
COSTRUZIONI MAGGIORE DI QUELLA CODICISTICA.
Mentre è pacifica l’inoperatività del criterio della
prevenzione
quando la disciplina regolamentare imponga
il rispetto d’una distanza inderogabile delle costruzioni
dai confini, meno univoca è, di contro, la soluzione
concernente
l’ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano
solo una distanza tra costruzioni maggiore di quella
codicistica.
A riguardo si registrano contrasti tra due contrapposti
orientamenti giurisprudenziali che giustificano
la remissione degli atti al Primo presidente, per
l’eventuale
trattazione da parte delle Sezioni Unite.
Un privato convenne al Tribunale civile un altro privato
lamentando
l’edificazione, da parte di quest’ultimo, d’una
costruzione in violazione delle distanze fissate dalla L. n.
765/1967: di tal manufatto era chiesto l’arretramento, oltre
al rilascio della striscia di terreno di proprietà attorea
posta
oltre il confine a protezione del muro di cinta. Il
Tribunale
accolse la domanda condannando il convenuto ad arretrare
il proprio edificio di dodici metri.
La Corte territoriale accolse solo in parte il gravame
condannando
l’originario convenuto (divenuto appellante) ad
arretrare la recinzione realizzata sul muro di confine fino
ad
osservare una distanza non inferiore all’altezza della
costruzione
di proprietà dell’appellato.
L’appellato ricorreva per la Cassazione, con ricorso che era
accolto: ivi il Giudice nomofilattico osservava che il
Comune
nel quale gli immobili si trovavano era dotato di
regolamento
edilizio anteriore alla L. n. 765/1967, quindi applicabile
in luogo di questa. Tale regolamento imponeva un distacco
fra costruzioni non inferiore a otto metri in relazione
al quale, pertanto, doveva essere nuovamente esaminata
la controversia.
La Corte di rinvio condannava ad arretrare la costruzione a
otto metri da quella dell’attrice, quest’ultima a sua volta
condannata ad arretrare la recinzione metallica realizzata
sul vecchio muro di confine, fermo restando tale manufatto,
fino a osservare dalla frontistante costruzione una distanza
non inferiore all’altezza di quest’ultima. Il fondamento
della decisione era da rivenire, secondo la Corte del
riesame,
nel fatto che in applicazione del regolamento comunale,
era la costruzione preveniente a dover essere arretrata
a tale distanza.
La questione torna all’esame della Suprema Corte che, con
l’ordinanza in rassegna trasmette l’affare al Primo
Presidente,
per l’eventuale remissione alle Sezioni Unite.
Osserva la Cassazione che il punto di partenza non può
che essere costituito dal principio di diritto enunciato, da
Cass. n. 13338/2006 nella precedente fase di legittimità,
secondo cui “le limitazioni previste dall’art. 41- quinquies
della legge urbanistica n. 1150/1942 (introdotto dall’art.
17
della legge n. 765/1967) in materia di distanza fra edifici
contigui, nel Comuni privi di PRG o di un programma di
fabbricazione, si estendono anche ai Comuni dotati di
regolamento
edilizio se esso è privo di norme disciplinanti i
distacchi tra costruzioni, mentre prevalgono nel caso in cui
il regolamento contenga tali disposizioni”. Il che accade
nello specifico, sorgendo gli edifici in un Comune munito
di un regolamento edilizio anteriore alla “legge ponte” n.
765/1967 cit., il cui art. 26 pone un divieto di spazi vuoti
inferiori
a otto metri.
Osserva la Cassazione che è pacifica l’inoperatività del
criterio
della prevenzione allorquando la disciplina regolamentare
imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle
costruzioni dai confini (Cass. nn. 23693/2014, 18728/2005,
627/2003, 12561/2002, 4895/2002, 4366/2001,
10600/1999, 4438/1997, 3737/1994, 7747/1990 e
4737/1987, tutte precedute dall’incipit di S.U. n.
2846/1967).
Meno univoca, di contro, è la soluzione
concernente
l’ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo
una distanza tra costruzioni maggiore di quella codicistica.
A tale ultimo riguardo nella giurisprudenza si registra un
contrasto sincrono. Un primo indirizzo afferma che, nel caso
in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza
fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione
circa
il distacco delle stesse dal confine, il principio della
prevenzione
deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto
di costruire in aderenza o sul confine (Cass. nn.
25401/2007, 8283/2005, 6101/1993, 5474/1991,
3859/1988, 8543/1987 e 4352/1983).
In base al secondo
orientamento, invece, se i regolamenti edilizi stabiliscono
una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di
quella prevista dal codice civile, tal prescrizione deve
intendersi
comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal
quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza
non inferiore alla metà di quella prescritta, con
conseguente
esclusione della possibilità di costruire sul confine e,
quindi, dell’operatività del criterio della prevenzione
(Cass.
nn. 4199/2007, 16574/2006, 5953/1996, 5062/1992, 055/1984 e 4246/1981; in posizione intermedia, Cass. n.
1282/1999).
Circa la specifica incidenza sul criterio della prevenzione
delle norme regolamentari locali che, in materia edilizia,
stabiliscono una distanza non espressamente collegata al
confine, le Sezioni Unite si sono pronunciate una sola
volta,
allorché hanno affermato che nel caso di norma regolamentare
che determini la distanza fra costruzioni non dal
confine ma in via assoluta, commisurandola alla maggiore
altezza di uno dei corpi di fabbrica, rimane esclusa la
possibilità
di costruire sul confine e l’applicabilità del criterio
della
prevenzione, onde colui che costruisce per primo deve
osservare, rispetto al confine, una distanza pari alla meta
dell’altezza dell’erigendo fabbricato (Cass., SS.UU., n.
3873/1974).
Di contro, una più recente sentenza ha
affrontato,
risolvendolo in senso affermativo, il diverso problema
della compatibilità del principio codicistico della
prevenzione
con la disciplina sulle distanze tra fabbricati vicini
dettata
dall’art. 41-quinquies, comma 1, lett. c), legge
urbanistica,
traendone la conseguenza che quando il fabbricato del
preveniente si trovi a una distanza dal confine inferiore
alla
metà del distacco tra fabbricati prescritto dalla citata
norma
speciale, il prevenuto ha, ai sensi dell’art. 875 c.c., la
facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro allo scopo
di costruirvi contro (Cass., SS.UU., n. 11489/2002).
In
ragione di questi contrasti nomofilattici, la Sezione
ritiene
sussistenti le condizioni per rimettere la relativa
questione
alle S.U. per la soluzione del contrasto, ai sensi dell’art.
374, comma 2, c.p.c. (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 12.03.2015 n. 4965 - Urbanistica
e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
In alternativa al provvedimento definitivo
espresso sull’istanza di accertamento di conformità, ex art.
36 del DPR n. 380/2001, la legge ha previsto, dopo il
decorso di 60 gg., la formazione di un
silenzio-significativo con valore legale di rigetto.
Siffatto silenzio, nella specie, si è formato e poiché il
cittadino può sempre tutelarsi mediante impugnativa del
silenzio-diniego (la cui formazione, essendo prevista dalla
legge come alternativa al provvedimento esplicito, non è
illegittima soltanto perché intervenuta appunto per
silentium), non vi è alcun obbligo per l’Amministrazione,
sanzionabile con l’illegittimità del silenzio, di
pronunciarsi espressamente.
Tale principio non può non valere anche per la presente
fattispecie.
Sull’istanza di accertamento di conformità prodotta
dall’affittuario del terreno si è formato silenzio-rigetto,
per decorso dei termini prescritti sia prima che dopo la
notifica della richiesta di osservazioni sul preavviso di
rigetto (e le osservazioni stesse).
Non si tratta, ripetesi, di silenzio-inadempimento, ma di
silenzio-significativo con valore di reiezione dell’istanza,
per il quale non è configurabile un obbligo per
l’Amministrazione di emanare un atto scritto reiterativo
degli effetti di diniego disposti dal sopra richiamato art.
36.
---------------
Trattandosi di silenzio-significativo, ne consegue che è
anche privo di fondamento il profilo di censura relativo al
difetto di motivazione.
Invero, il provvedimento tacito, in quanto tale, è
ontologicamente privo di motivazione, sicché esso è
impugnabile non per difetto di esplicazione dell’iter
giustificativo, ma per il suo contenuto di rigetto, potendo
farsi valere quindi, contro di esso, direttamente censure
afferenti alla fondatezza della pretesa, che siano quindi
idonee a dimostrare la sussistenza dei presupposti a base
dell’invocata sanatoria (sull’insussistenza di un obbligo
specifico di motivazione in caso diniego tacito di
sanatoria, cfr. da ultimo, tra le tante, citata decisione
CdS, VI, n. 395/2014).
Peraltro, nel caso di cui trattasi, l’Amministrazione, alla
stregua del contenuto del preavviso di rigetto, ha anche
manifestato (ad abundantiam) le ragioni del diniego al
soggetto richiedente, sulle quali quest’ultimo è stato
quindi posto in grado di argomentare anche nel ricorso che
ne occupa. Ciò non cambia evidentemente la tipologia del
silenzio: da rigetto ad inadempimento.
---------------
In ordine al profilo del difetto di legittimazione
dell’affittuario a presentare istanza di sanatoria, opposto
dall’Amministrazione, il Collegio concorda con la
ricostruzione in fatto ed interpretativa
dell’Amministrazione.
Invero, sia l’art. 36 del DPR n. 380/2001 che l’art. 22,
comma 1, della LR n. 15/2008 (norme che espressamente
regolano il permesso di costruire in sanatoria) indicano,
come soli soggetti legittimati a chiedere il permesso
stesso, “il responsabile dell’abuso” e il “proprietario”.
Nessun cenno è operato al conduttore dell’immobile o ad
altri soggetti. Nel caso di specie poi il consenso del
proprietario nemmeno è stato (previamente) fornito in sede
procedimentale, né tale consenso può essere automaticamente
desunto dal contratto e dal rapporto di locazione.
Infine anche la generica disponibilità manifestata in sede
di osservazioni di far firmare l’istanza al sig. Ta. non si
è mai concretizzata davanti all’Amministrazione fino alla
presentazione del ricorso, non potendo quindi farsi ricadere
sull’Amministrazione stessa la responsabilità dell’omissione
per mancata richiesta di documentazione integrativa, essendo
onere del soggetto interessato quello di dimostrare gli
elementi di legittimazione alla presentazione dell’istanza.
---------------
... per l'annullamento, quanto al ricorso introduttivo:
- del provvedimento implicito di rigetto in ordine alla
domanda di sanatoria edilizia del 03.06.2011 di cui al prot.
n. 3152 presentata, ai sensi dell’art. 36 DPR n. 380/2001,
dal sig. Vi.Mi. in qualità di affittuario e possessore dei
terreni su cui insistono gli immobili sanandi: provvedimento
implicito che si impugna, ove da intendersi formato silenzio
significativo nonostante l’intervenuta successiva
comunicazione interlocutoria di avvio del procedimento di
rigetto dell’istanza sopra indicata del 10.06.2011 prot. n.
4280 a firma del Responsabile del procedimento cui non
tuttavia fatto seguito alcun provvedimento espresso di
rigetto;
- della nota del 10.06.2011 prot. n. 4280, successivamente
notificata ed avente ad oggetto la comunicazione di avvio
del provvedimento di rigetto mai assunto in via espressa,
emessa dal responsabile del procedimento in relazione
all’istanza di permesso di costruire in sanatoria prot. n.
3152 del 03.06.2011 presentata dal signor Mi.Vi.;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e/o
consequenziali, ancorché eventualmente non richiamati nel
provvedimento impugnato e rispetto ai quali i ricorrenti
vantano una posizione di interesse;
e per l’annullamento, altresì, quanto ai motivi aggiunti:
- della Ordinanza del 02.05.2012 prot. n. 2124 Ord. n. 32/UT
con il quale il responsabile del Comune di Carbognano,
ritenendo consolidati gli effetti della ingiunzione di
demolizione n. 21/UT del 27.04.2011, applicava al signor
Ta.Le., ritenuto quale unico responsabile dell’abuso, la
sanzione pecuniaria di € 20.000, ai sensi dell’art. 15 della
L.R. n. 15/2008;
- dell’accertamento prot. n. 1620 del 02.04.2012 redatto
dall’Ufficio di Polizia Locale del Comune di Carbognano dal
quale emergerebbe che le opere per le quali è stata emessa
l’ingiunzione di demolizione n. 21/UT del 27.04.2011 non sono
state demolite;
- per quanto occorrer possa, del verbale di accertamento
prot. n. 1458 del 24.03.2011 della Polizia Locale in quanto
richiamato nella ordinanza del 02.05.2012 prot. n. 2124 ord.
N. 32/UT;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e/o
consequenziali, ancorché eventualmente non richiamati nel
provvedimento impugnato e rispetto ai quali i ricorrenti
vantano una posizione di interesse;
...
Premesso quanto sopra, la valutazione propria della
sede di merito convince il Collegio dell’infondatezza del
ricorso e dei motivi aggiunti, alla stregua delle seguenti
considerazioni:
1) La vicenda per cui è causa trae origine da un sopralluogo
sull’immobile distinto in catasto terreni al fgl. 11,
part.lle 272, 291 e 169, ed in catasto fabbricati al fgl.
11, part.lla 292, da cui emergeva l’esistenza di opere non
assistite da titolo abilitativo. Seguivano, da parte del
Comune di Carbognano, ordinanze di sospensione lavori e di
demolizione, del 27.04.2011, notificate al sig. Ta.Le. il 28.04.2011.
Tali provvedimenti non risultano
impugnati. Sono invece gravati, con il ricorso introduttivo,
il diniego tacito sull’istanza di sanatoria, ex art 36 del
DPR n. 380/2001, presentata il 03.06.2011 dal sig. Mi. in
qualità di affittuario degli immobili, nonché la nota del
10.06.2011, successivamente notificata, avente ad oggetto la
comunicazione di avvio del procedimento di rigetto, mai
peraltro successivamente assunto in via espressa;
2) Il primo motivo del ricorso suddetto è privo di
fondamento, dal momento che in alternativa al provvedimento
definitivo espresso sull’istanza di accertamento di
conformità, ex art. 36 del DPR n. 380/2001, la legge ha
previsto, dopo il decorso di 60 gg., la formazione di un
silenzio-significativo con valore legale di rigetto (cfr.
articolo predetto, ma anche art. 22, comma 4, della L.R.
Lazio n. 15/2008).
Siffatto silenzio, nella specie, si è
dunque formato dopo il decorso di 60 gg. dal 03.06.2011 e
comunque, a tutto concedere, anche successivamente alla
richiesta di controdeduzioni (notificata al sig. Mi. il
31.08.2011), non essendo ulteriormente seguito alcun
provvedimento espresso.
Poiché il cittadino può sempre
tutelarsi mediante impugnativa del silenzio-diniego (la cui
formazione, essendo prevista dalla legge come alternativa al
provvedimento esplicito, non è illegittima soltanto perché
intervenuta appunto per silentium), non vi è alcun obbligo
per l’Amministrazione, sanzionabile con l’illegittimità del
silenzio, di pronunciarsi espressamente.
Tale principio non
può non valere anche per la presente fattispecie.
Sull’istanza di accertamento di conformità prodotta
dall’affittuario del terreno si è formato silenzio-rigetto,
per decorso dei termini prescritti sia prima che dopo la
notifica della richiesta di osservazioni sul preavviso di
rigetto (e le osservazioni stesse). Non si tratta, ripetesi,
di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-significativo con
valore di reiezione dell’istanza, per il quale non è
configurabile un obbligo per l’Amministrazione di emanare un
atto scritto reiterativo degli effetti di diniego disposti
dal sopra richiamato art. 36 (cfr. CdS, IV, 13.01.2010, n.
100 e CdS, VI, n. 395 del 27.01.2014);
3) Trattandosi di silenzio-significativo, ne consegue che è
anche privo di fondamento il profilo di censura relativo al
difetto di motivazione.
Invero, il provvedimento tacito, in
quanto tale, è ontologicamente privo di motivazione, sicché
esso è impugnabile non per difetto di esplicazione dell’iter
giustificativo, ma per il suo contenuto di rigetto, potendo
farsi valere quindi, contro di esso, direttamente censure
afferenti alla fondatezza della pretesa, che siano quindi
idonee a dimostrare la sussistenza dei presupposti a base
dell’invocata sanatoria (sull’insussistenza di un obbligo
specifico di motivazione in caso diniego tacito di
sanatoria, cfr. da ultimo, tra le tante, citata decisione
CdS, VI, n. 395/2014).
Peraltro, nel caso di cui trattasi,
l’Amministrazione, alla stregua del contenuto del preavviso
di rigetto, ha anche manifestato (ad abundantiam) le ragioni
del diniego al soggetto richiedente, sulle quali
quest’ultimo è stato quindi posto in grado di argomentare
anche nel ricorso che ne occupa. Ciò non cambia
evidentemente la tipologia del silenzio: da rigetto ad
inadempimento.
Il contegno del Comune di Carbognano continua
a mantenere il suo significato di rigetto dell’istanza e
delle controdeduzioni, non potendo evidentemente una
condotta in via amministrativa modificare la qualificazione
del silenzio operata da una disposizione di legge;
4) In ordine al profilo del difetto di legittimazione
dell’affittuario a presentare istanza di sanatoria, opposto
dall’Amministrazione sia nella nota n. 4280 del 10.06.2011
che in sede difensiva, il Collegio concorda con la
ricostruzione in fatto ed interpretativa
dell’Amministrazione.
Invero, sia l’art. 36 del DPR n.
380/2001 che l’art. 22, comma 1, della LR n. 15/2008 (norme
che espressamente regolano il permesso di costruire in
sanatoria) indicano, come soli soggetti legittimati a
chiedere il permesso stesso, “il responsabile dell’abuso” e
il “proprietario”. Nessun cenno è operato al conduttore
dell’immobile o ad altri soggetti. Nel caso di specie poi il
consenso del proprietario nemmeno è stato (previamente)
fornito in sede procedimentale, né tale consenso può essere
automaticamente desunto dal contratto e dal rapporto di
locazione.
Infine anche la generica disponibilità
manifestata in sede di osservazioni di far firmare l’istanza
al sig. Ta. non si è mai concretizzata davanti
all’Amministrazione fino alla presentazione del ricorso, non
potendo quindi farsi ricadere sull’Amministrazione stessa la
responsabilità dell’omissione per mancata richiesta di
documentazione integrativa, essendo onere del soggetto
interessato quello di dimostrare gli elementi di
legittimazione alla presentazione dell’istanza.
Il secondo motivo è quindi privo di fondamento
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 06.10.2014 n. 10204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell'ambito di un procedimento amministrativo per
la demolizione di opere abusive, non è ….necessaria la
rinnovazione dell'ingiunzione originaria a fronte della
domanda di accertamento in conformità; in quanto nessuna
norma prevede il venir meno dell'efficacia dell'ordine di
demolizione.
In assenza, invero, di un'esplicita norma di legge, per
potersi affermare l'inefficacia sopravvenuta delle ordinanza
demolitoria sul piano procedimentale sarebbe necessario un
provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull'istanza
di sanatoria.
In caso contrario anche l’eventuale riesame negativo circa
l'abusività dell'opera, che fosse provocato dall'istanza di
sanatoria, ove portasse alla formazione di un provvedimento
di rigetto, non darebbe luogo ad alcuna modificazione
sostanziale della preesistente realtà giuridica e quindi
costituirebbe un tipico atto confermativo del precedente
provvedimento sanzionatorio. Come tale, esso non
costituirebbe un fatto idoneo a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio originario.
Allo stesso modo, in caso di silenzio-rigetto sull’istanza
di sanatoria, l’efficacia dell’ordinanza di demolizione,
solamente sospesa con la presentazione dell’istanza stessa,
si riespande e i termini per la demolizione riprendono il
loro corso, senza che sia necessario provvedere ex novo.
E’ bensì vero che l’interessato deve poter avere a sua
disposizione l’intero termine previsto per la demolizione ma
questo appunto è avvenuto nel caso di specie, dato che
l’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione
del 27.04.2011 (peraltro non impugnato dagli istanti) è
avvenuto il 30.03/02.04.2012, quando tutti i possibili
termini (per la formazione del silenzio-rifiuto e per
l’esecuzione dell’ordinanza di demolizione) erano scaduti.
Correttamente, pertanto, l’Amministrazione, richiamando la
mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione del
27.04.2011, ha applicato la sanzione pecuniaria impugnata
con i motivi aggiunti (nota del 02.05.2012).
In punto di fatto non vengono poi formulate specifiche di
censure su detta mancata demolizione (peraltro accertata con
atti aventi valore legale e probatorio rafforzato). Il
motivo afferente alla mancata rinnovazione dell’ordine di
ripristino va quindi respinto al pari, data la reiezione
delle censure di cui al ricorso introduttivo, dei motivi di
relativa illegittimità derivata mossi anch’essi nell’atto di
motivi aggiunti.
---------------
6) Quanto ai motivi aggiunti, anch’essi vanno disattesi,
poiché il Collegio condivide l’orientamento
giurisprudenziale, allo stato in via di progressivo
consolidamento, secondo il quale “nell'ambito di un
procedimento amministrativo per la demolizione di opere
abusive, non è ….necessaria la rinnovazione dell'ingiunzione
originaria a fronte della domanda di accertamento in
conformità; in quanto nessuna norma prevede il venir meno
dell'efficacia dell'ordine di demolizione” (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 08/05/2013 n. 2484 e Consiglio Stato sez. V
09.05.2006 n. 2562; v. anche di recente, Consiglio di
Stato, IV,18/04/2014, n. 1994 e VI, 14.03.2014, n. 1292).
In assenza invero di un'esplicita norma di legge, per
potersi affermare l'inefficacia sopravvenuta delle ordinanza
demolitoria sul piano procedimentale sarebbe necessario un
provvedimento, anche parzialmente, favorevole sull'istanza
di sanatoria.
In caso contrario anche l’eventuale riesame
negativo circa l'abusività dell'opera, che fosse provocato
dall'istanza di sanatoria, ove portasse alla formazione di
un provvedimento di rigetto, non darebbe luogo ad alcuna
modificazione sostanziale della preesistente realtà
giuridica e quindi costituirebbe un tipico atto confermativo
del precedente provvedimento sanzionatorio. Come tale, esso
non costituirebbe un fatto idoneo a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio originario.
Allo stesso modo, in
caso di silenzio-rigetto sull’istanza di sanatoria,
l’efficacia dell’ordinanza di demolizione, solamente sospesa
con la presentazione dell’istanza stessa, si riespande e i
termini per la demolizione riprendono il loro corso, senza
che sia necessario provvedere ex novo. E’ bensì vero che
l’interessato deve poter avere a sua disposizione l’intero
termine previsto per la demolizione ma questo appunto è
avvenuto nel caso di specie, dato che l’accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione del 27.04.2011
(peraltro non impugnato dagli istanti) è avvenuto il
30.03/02.04.2012, quando tutti i possibili termini (per la
formazione del silenzio rifiuto e per l’esecuzione
dell’ordinanza di demolizione) erano scaduti.
Correttamente,
pertanto, l’Amministrazione, richiamando la mancata
ottemperanza all’ordinanza di demolizione del 27.04.2011, ha
applicato la sanzione pecuniaria impugnata con i motivi
aggiunti (nota del 02.05.2012).
In punto di fatto non vengono poi formulate specifiche di
censure su detta mancata demolizione (peraltro accertata con
atti aventi valore legale e probatorio rafforzato). Il
motivo afferente alla mancata rinnovazione dell’ordine di
ripristino va quindi respinto al pari, data la reiezione
delle censure di cui al ricorso introduttivo, dei motivi di
relativa illegittimità derivata mossi anch’essi nell’atto di
motivi aggiunti
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 06.10.2014 n. 10204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.04.2016 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizi-urbanistici, la
violazione dell’obbligo di esporre il cartello indicante gli
estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal
regolamento edilizio o dal titolo medesimo, vale anche in
caso di cantiere inattivo, ed è tuttora punita dall’art. 44,
lett. a), del d.P.R. n. 380/2001 se commessa dal titolare
del permesso a costruire, dal committente, dal
costruttore o dal direttore dei lavori.
Trattasi di fattispecie già sanzionata sotto la vigenza
dell’ormai abrogata l. n. 47/1985, e tuttora in essere, in
ragione del rapporto di continuità normativa intercorrente
tra le diverse disposizioni.
----------------
Secondo il
costante orientamento di questa Corte, i
destinatari dell'obbligo in esame vanno individuati nel
titolare del permesso di costruire, nel committente,
nel costruttore e nel direttore dei lavori
sulla base di quanto espressamente previsto dalla L. n. 47
del 1985, art. 6 e, oggi, dall'art. 29, comma 1, del D.P.R.
n. 380 del 2001.
Quanto al fondamento della responsabilità del direttore dei
lavori, va richiamato il principio affermato da questa Corte
di legittimità secondo cui è configurabile
la responsabilità del direttore dei lavori per le
contravvenzioni in materia di edilizia ed urbanistica,
indipendentemente dalla sua concreta presenza in cantiere,
in quanto sussiste a carico del medesimo un onere di
vigilanza costante sulla corretta esecuzione dei lavori,
collegato al dovere di contestazione delle irregolarità
riscontrate e, se del caso, di rinunzia all'incarico.
La responsabilità del costruttore,
quale esecutore materiale e diretto responsabile dell'opera,
trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo,
imposto dalla legge, di osservare le norme in materia
urbanistico-edilizia.
Il chiaro disposto dell'ad art. 29, comma
1, D.P.R. n. 380 del 2001 non consente, infine, di
differenziare le responsabilità del costruttore e del
direttore dei lavori dei lavori da quella del
committente, tanto meno sotto il profilo temporale
dell'adempimento dell'obbligo di esposizione del cartello
indicante gli estremi del titolo abilitativo.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 08.07.2014, il Tribunale di Lucca, a
seguito di opposizione a decreto penale di condanna,
pronunciando nei confronti di Ch.Ma., Mo.Mo. e Ca.Ra.,
imputati del reato di cui all'art. 44, lett. a), dpr n.
380/1990, per avere, nella qualità rispettiva di committente
dei lavori, direttore dei lavori ed esecutori degli stessi,
in violazione dell'art. 4 p.6 della scheda L.6-normativa di
dettaglio del Reg. Edilizio del Comune di Viareggio, omesso
di esporre la prescritta tabella indicante gli estremi
dell'atto autorizzativo e dell'intervento edilizio,
dichiarava i predetti responsabili del reato loro ascritto e
li condannava ciascuno alla pena di euro 3.000 di ammenda,
oltre al pagamento delle spese processuali.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione
Mo.Mo. e Ca.Ra., tramite il difensore di fiducia,
articolando entrambi il motivo, fondato su inosservanza o
falsa applicazione della legge penale, di seguito enunciato
nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come
disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
I ricorrenti, premettendo che la norma incriminatrice,
costituita dall'art. 44, lett. a), e dall'art. 29, comma 1,
Dpr n. 380/2001, è una norma penale cd in bianco, in quanto
rinvia ai regolamenti edilizi, deducono che l'art. 4 p.6
della scheda L6 del regolamento edilizio del Comune di
Viareggio, norma di rango amministrativo, deve essere
correttamente interpretata nel senso che il riferimento al
cantiere deve intendersi quale riferimento ad un cantiere
effettivamente attivo.
Argomentano che, quindi, poiché, nella specie, al momento
del sopralluogo da parte della polizia municipale i lavori
al cantiere erano sospesi, il Giudice territoriale
erroneamente dava rilievo alla semplice apertura formale del
cantiere per ritenere configurato il reato contestato.
Aggiungono, poi, sotto altro profilo, che l'obbligo di
apposizione del cartello deve ritenersi esistente a carico
del direttore dei lavori e della ditta esecutrice solo al
momento dell'apertura del cantiere e non per tutta la durata
dei lavori, dovendosi, in caso contrario, ritenere
sussistente un inaccettabile e diabolico obbligo di custodia
a carico dei predetti.
Chiedono, quindi, l'annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata perché il fatto non è previsto come reato dalla
legge o con la formula ritenuta di giustizia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili perché basati su motivo
manifestamente infondato.
2. Va premesso che il reato previsto dal D.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, lett. a), ha natura residuale rispetto alle
altre violazioni menzionate dal medesimo articolo e
sanziona, con la sola pena dell'ammenda, l'inosservanza
delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal
titolo 4 del menzionato D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto
applicabili, l'inosservanza delle disposizioni dei
regolamenti edilizi, l'inosservanza di prescrizioni
contemplate dagli strumenti urbanistici e l'inosservanza
delle prescrizioni fissate dal permesso di costruire (Sez.
3, Sentenza n. 29730 del 04/06/2013 Rv. 255836).
Questa Corte, vigente la L. n. 47 del 1985, ha avuto modo di
rilevare l'estrema genericità della disposizione, allora
contenuta nella previgente, omologa disposizione di cui
all'art. 20, lett. a) e la possibilità di una pluralità
indiscriminata di utilizzazioni, con conseguente
insufficienza della interpretazione letterale, se non altro
perché in contrasto con il principio della tassatività delle
fattispecie legali penali ed ha posto in evidenza la
necessità di delimitarne l'ambito applicativo tenendo conto
della sua collocazione in un contesto normativo volto a
disciplinare l'attività edilizia, affermando,
conseguentemente, che "le norme, prescrizioni e modalità
esecutive" di cui all'art. 20, lett. a), dovevano
intendersi riferite soltanto a quelle regole di condotta che
sono direttamente afferenti all'attività edilizia (Sez. 3 n.
8965, 21.06.1990).
Parimenti è stata rilevata la sua natura di norma penale in
bianco poiché, mentre la sanzione è determinata, il precetto
di carattere generico rinvia ad un dato esterno quale il
titolo abilitativo, il regolamento edilizio, ecc. (SS.UU. n.
7978, 14.07.1992; v. anche SS.UU. n. 11635, 21.12.1993).
Si è, altresì, evidenziato (Sez. 3 n. 21780, 31.05.2011),
come il riferimento contenuto nella norma attualmente
vigente alle disposizioni di legge "previste nel presente
titolo" (del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo 4, Parte
prima comprendente gli artt. da 27 a 51) sia certamente
riduttivo rispetto alla previgente fattispecie di cui alla
L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. a), la quale, punendo "l'inosservanza
delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste
dalle presente legge, dalla L. 17.08.1942, n. 1150, e
successive modificazioni e integrazioni", si riteneva
effettuasse un rinvio aperto a tutta la legislazione
urbanistico-edilizia, addirittura comprensiva, secondo parte
della giurisprudenza, anche delle leggi regionali
integrative. Ciò non di meno, pur in presenza di un ambito
di operatività più contenuto, si è comunque ritenuto che la
mancata apposizione del cartello di cantiere continui ad
essere assoggettata alla sanzione penale prevista dalla
richiamata disposizione.
Deve, inoltre, rimarcarsi quanto già rilevato da questa
Corte sull'argomento (Sez. 3 n. 16037, 11.05.2006)
ricordando come il contenuto della L. n. 47 del 1985, art.
4, comma 4, prevedesse, per coloro che eseguivano interventi
edilizi, il duplice obbligo di esibizione della concessione
edilizia e dell'esposizione del cartello di cantiere -a
condizione che lo stesso fosse espressamente previsto dai
regolamenti edilizi o dalla concessione- la cui violazione
era penalmente sanzionata dall'art. 20, lett. a), più volte
menzionato (a tale proposito si richiamava quanto stabilito
dalle precedenti decisioni: SS.UU. 7978/92, cit.; Sez. 3^ n.
10435, 05.10.1994).
Veniva, altresì, dato atto dell'intervenuta abrogazione
della L. n. 47 del 1985, art. 4, rilevando, tuttavia, la
riproduzione del suo contenuto nel D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 27, comma 4, laddove si impone agli ufficiali ed agenti
di polizia giudiziaria l'obbligo di comunicazione immediata
all'autorità giudiziaria nel caso in cui accertino che nei
luoghi in cui vengono realizzate opere edilizie non sia
esibito il permesso di costruire ovvero non sia apposto il
prescritto cartello.
Contestualmente si individuavano i destinatari dell'obbligo
in quelli già indicati dalla L. n. 47 del 1985, art. 6,
comma 1, e, segnatamente, nel titolare della concessione,
nel committente, nel costruttore e nel
direttore dei lavori. Anche tale ultima affermazione è
pienamente condivisibile: infatti il D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 29, comma 1, riproduce attualmente il medesimo
contenuto della disposizione previgente, con l'unica
differenza del riferimento al titolo abilitativo, che non è
più la concessione ma il permesso di costruire.
Conseguentemente è stato affermato il principio di diritto,
in base al quale la violazione dell'obbligo
di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo
abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o
dal titolo medesimo, già sanzionata sotto la vigenza
dell'ormai abrogata L. n. 47 del 1985, è tuttora punita dal
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), in ragione del
rapporto di continuità normativa intercorrente tra le
diverse disposizioni
(sez. 3, 04/06/2013, n. 29730 Rv. 255836; Cassazione penale,
sez. 3, 10/12/2014, n. 537; sez. 3 16/01/2015, n. 10713).
3. Ciò posto, è manifestamente infondato il primo profilo di
doglianza.
La sentenza impugnata, infatti, correttamente applicando i
suesposti principi, ha rilevato che l'art. 4.6 della scheda
L.6 del Regolamento edilizio del Comune di Viareggio
-richiamato nel capo di imputazione- prevede specificamente
l'obbligo che ogni cantiere sia provvisto di cartello
indicante gli estremi dell'atto autorizzativo e, pacifica
l'assenza del cartello all'epoca del sopralluogo, ha
ritenuto configurabile la fattispecie criminosa contestata.
La doglianza dei ricorrenti, che deducono che il permanere
dell'obbligo di esposizione sussisterebbe solo in caso di
cantiere effettivamente attivo, è manifestamente infondata.
Il Tribunale ha correttamente considerato irrilevante
l'assunto difensivo circa una momentanea inattività del
cantiere dovuta al ritardo nei pagamenti da parte del
committente.
Tale valutazione è conforme ai principi espressi da questa
Corte in subíecta materia.
La circostanza che il cartello fosse
presente all'inizio dei lavori, infatti, non esclude la
configurabilità del reato, in quanto ciò che rileva è che lo
stesso non fosse esposto al momento del controllo da parte
del personale di vigilanza, in quanto funzione del cartello
è proprio quella di rendere edotti gli organi di vigilanza
dell'esistenza in loco di interventi edilizi, al fine di
consentire l'espletamento di tutte quelle attività di
verifica dell'osservanza della normativa edilizia e di
corrispondenza dell'assentito al realizzato
(Sez. 3 30/04/2014, n. 28123). Inoltre, la
finalità cui assolve l'obbligo di apposizione del cartello,
deve ritenersi che sia anche quella di indicare i soggetti
responsabili, nel caso in cui durante lo svolgimento delle
attività di cantiere derivino danni a terzi
(Sez. 3, 22/05/2012, n. 40118).
Tale funzione comporta che l'esposizione
del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi
dei responsabili deve non solo essere effettuata all'inizio
dei lavori ma protrarsi in maniera continuativa durante
tutta la fase di esecuzione degli stessi, ivi compresi i
periodi in cui i lavori siano momentaneamente sospesi,
risultando irrilevante la causa della sospensione, nella
specie addebitabile a fatto volontario del committente.
4. Anche la doglianza dei ricorrenti, che deducono che
l'obbligo di esposizione a carico del direttore dei lavori e
del costruttore sussisterebbe solo al momento di apertura
del cantiere, è manifestamente infondata.
Correttamente il Tribunale ha ritenuto la penale
responsabilità, oltre che del committente, anche degli
attuali ricorrenti Mo.Mo. e Ca.Ra., nelle rispettive qualità
di direttore dei lavori ed esecutori degli stessi.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti,
i destinatari dell'obbligo in esame vanno
individuati nel titolare del permesso di costruire,
nel committente, nel costruttore e nel
direttore dei lavori sulla base di quanto espressamente
previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 6 e, oggi, dall'art.
29, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001
(Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Rv.255836, Sez. 3 n. 38380
del 15.07.2015; sez. III, 16/01/2015, n. 10713; Sez. III,
10/12/2014, n. 537).
Quanto al fondamento della responsabilità del direttore dei
lavori, va richiamato il principio affermato da questa Corte
di legittimità, che il Collegio condivide e che va qui
riaffermato, secondo cui è configurabile la
responsabilità del direttore dei lavori per le
contravvenzioni in materia di edilizia ed urbanistica,
indipendentemente dalla sua concreta presenza in cantiere,
in quanto sussiste a carico del medesimo un onere di
vigilanza costante sulla corretta esecuzione dei lavori,
collegato al dovere di contestazione delle irregolarità
riscontrate e, se del caso, di rinunzia all'incarico
(sez. 3, n. 34602 del 17.6.2010, Ponzio, rv. 248328, nella
cui motivazione questa Corte, nel confermare la sentenza di
condanna che aveva ritenuto sussistere l'obbligo del
direttore dei lavori di recarsi quotidianamente sul cantiere
al fine di vigilare le attività eseguite, ha precisato che
questi, oltre ad essere il referente del committente per gli
aspetti di carattere tecnico, assume anche la funzione di
garante nei confronti del Comune dell'osservanza e del
rispetto dei contenuti dei titoli abilitativi all'esecuzione
dei lavori; sez. 3 15/01/2015, n. 7406; sez. 3, 11/05/2005,
n. 22867).
La responsabilità del costruttore,
quale esecutore materiale e diretto responsabile dell'opera,
trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo,
imposto dalla legge, di osservare le norme in materia
urbanistico-edilizia
(sez. 3, 25/11/2004, n. 860).
Il chiaro disposto dell'ad art. 29, comma
1, D.P.R. n. 380 del 2001 non consente, infine, di
differenziare le responsabilità del costruttore e del
direttore dei lavori dei lavori da quella del
committente, tanto meno sotto il profilo temporale
dell'adempimento dell'obbligo di esposizione del cartello
indicante gli estremi del titolo abilitativo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.04.2016 n. 13963). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
È reato penale l'accesso abusivo alla casella di posta
elettronica.
La casella di posta elettronica
rappresenta, inequivocabilmente, un "sistema informatico"
rilevante ai sensi dell'art. 615/ter cod. pen..
Conformemente alle acquisizioni del mondo
scientifico, il "sistema informatico" recepito dal
legislatore non può essere che il complesso organico di
elementi fisici (hardware) ed astratti (software) che
compongono un apparato di elaborazione dati.
Invero, sistema informatico è,
infatti, qualsiasi apparecchiatura o gruppo di
apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle
quali, in base ad un programma, compiono l'elaborazione
automatica dei dati. La "casella di posta" non è
altro che uno spazio di memoria di un sistema informatico
destinato alla memorizzazione di messaggi, o informazioni di
altra natura (immagini, video, ecc.), di un soggetto
identificato da un account registrato presso un provider del
servizio. E l'accesso a questo "spazio di memoria"
concreta, chiaramente, un accesso al sistema informatico,
giacché la casella non è altro che una porzione della
complessa apparecchiatura -fisica e astratta- destinata alla
memorizzazione delle informazioni.
Allorché questa porzione di memoria sia
protetta -come nella specie, mediante l'apposizione di una
password- in modo tale da rivelare la chiara volontà
dell'utente di farne uno spazio a sé riservato, ogni accesso
abusivo allo stesso concreta l'elemento materiale del reato
di cui all'art. 615/ter cod. pen.. I sistemi informatici
rappresentano, infatti, «un'espansione ideale dell'area
di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita
dall'art. 14 Cost. e penalmente tutelata nei suoi aspetti
più essenziali e tradizionali dagli artt. 614 e 615».
Inaccettabile, pertanto, è l'equiparazione
-fatta dalla difesa del ricorrente- della
casella di posta elettronica alla "cassetta delle lettere"
collocata nei pressi dell'abitazione, poiché detta "cassetta"
non è affatto destinata a ricevere e custodire informazioni
e non rappresenta una "espansione ideale dell'area di
rispetto pertinente al soggetto interessato", ma un
contenitore fisico di elementi (cartacei e non) solo
indirettamente riferibili alla persona.
---------------
Allorché, in un sistema informatico
pubblico (che serva, cioè, una Pubblica Amministrazione),
siano attivate caselle di posta elettronica -protette da
password personalizzate- a nome di uno specifico dipendente,
quelle "caselle" rappresentano il domicilio
informatico proprio del dipendente, sicché l'accesso abusivo
alle stesse, da parte di chiunque (quindi, anche da parte
del superiore gerarchico), integra il reato di cui all'art.
615/ter cod. pen., giacché l'apposizione dello sbarramento
-avvenuto col consenso del titolare del sistema- dimostra
che a quella "casella" è collegato uno ius
excludendi, di cui anche i superiori devono tenere
conto.
Dimostra anche che la casella rappresenta uno "spazio"
a disposizione -in via esclusiva- della persona, sicché la
sua invasione costituisce, al contempo, lesione della
riservatezza.
---------------
L'aggravante di aver commesso il fatto con
abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una
pubblica funzione o ad un pubblico servizio non presuppone
necessariamente che il reato sia commesso in relazione al
compimento di atti rientranti nella sfera di competenza del
pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico
servizio, né l'attualità dell'esercizio della funzione o del
servizio, ma è configurabile anche quando il pubblico
ufficiale abbia agito al di fuori dell'ambito delle sue
funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia reso
possibile o comunque facilitato la commissione del reato.
Nella fattispecie,
il superiore gerarchico
si servì, per accedere alla casella di posta
elettronica del proprio collaboratore, di una password "generale" -che
gli consentì di entrare in rete- e si avvalse della
posizione di sovraordinazione -in cui si trovava rispetto
al dipendente- per allontanarlo dall'ufficio ed effettuare
le operazioni che gli premevano.
Tali elementi non rappresentano, quindi, "un
presupposto del fatto" -come opinato dal ricorrente- ma
elementi che hanno reso possibile l'accesso alla posta del
dipendente e perciò rientrano nelle modalità dell'azione
prese in considerazione dalla norma incriminatrice.
---------------
2. La casella di posta elettronica
rappresenta, inequivocabilmente, un "sistema informatico"
rilevante ai sensi dell'art. 615/ter cod. pen..
Nell'introdurre tale nozione nell'ordinamento il legislatore
ha fatto evidentemente riferimento a concetti già diffusi ed
elaborati nel mondo dell'economia, della tecnica e della
comunicazione, essendo stato mosso dalla necessità di
tutelare nuove forme di aggressione alla sfera personale,
rese possibili dallo sviluppo della scienza. Pertanto,
conformemente alle acquisizioni del mondo
scientifico, il "sistema informatico" recepito dal
legislatore non può essere che il complesso organico di
elementi fisici (hardware) ed astratti (software) che
compongono un apparato di elaborazione dati.
Anche per la Convenzione di Budapest, richiamata in sentenza
e dal ricorrente, sistema informatico è,
infatti, qualsiasi apparecchiatura o gruppo di
apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle
quali, in base ad un programma, compiono l'elaborazione
automatica dei dati. La "casella di posta" non è
altro che uno spazio di memoria di un sistema informatico
destinato alla memorizzazione di messaggi, o informazioni di
altra natura (immagini, video, ecc.), di un soggetto
identificato da un account registrato presso un provider del
servizio. E l'accesso a questo "spazio di memoria"
concreta, chiaramente, un accesso al sistema informatico,
giacché la casella non è altro che una porzione della
complessa apparecchiatura -fisica e astratta- destinata alla
memorizzazione delle informazioni.
Allorché questa porzione di memoria sia
protetta -come nella specie, mediante l'apposizione di una
password- in modo tale da rivelare la chiara volontà
dell'utente di farne uno spazio a sé riservato, ogni accesso
abusivo allo stesso concreta l'elemento materiale del reato
di cui all'art. 615/ter cod. pen.. I sistemi informatici
rappresentano, infatti, «un'espansione ideale dell'area
di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita
dall'art. 14 Cost. e penalmente tutelata nei suoi aspetti
più essenziali e tradizionali dagli artt. 614 e 615»
(Relazione al disegno di legge n. 2773, tradottosi poi nella
L. 23.12.1993, n. 547).
Inaccettabile, pertanto, è l'equiparazione
-fatta dalla difesa del ricorrente- della
casella di posta elettronica alla "cassetta delle lettere"
collocata nei pressi dell'abitazione, poiché detta "cassetta"
non è affatto destinata a ricevere e custodire informazioni
e non rappresenta una "espansione ideale dell'area di
rispetto pertinente al soggetto interessato", ma un
contenitore fisico di elementi (cartacei e non) solo
indirettamente riferibili alla persona.
Il secondo e il terzo motivo sono, pertanto, palesemente
infondati.
3. Allorché, in un sistema informatico
pubblico (che serva, cioè, una Pubblica Amministrazione),
siano attivate caselle di posta elettronica -protette da
password personalizzate- a nome di uno specifico dipendente,
quelle "caselle" rappresentano il domicilio
informatico proprio del dipendente, sicché l'accesso abusivo
alle stesse, da parte di chiunque (quindi, anche da parte
del superiore gerarchico), integra il reato di cui all'art.
615/ter cod. pen., giacché l'apposizione dello sbarramento
-avvenuto col consenso del titolare del sistema- dimostra
che a quella "casella" è collegato uno ius
excludendi, di cui anche i superiori devono tenere
conto.
Dimostra anche che la casella rappresenta uno "spazio"
a disposizione -in via esclusiva- della persona, sicché la
sua invasione costituisce, al contempo, lesione della
riservatezza.
...
6. Ba. si introdusse nella casella di posta
elettronica di Mu. abusando dei poteri e in violazione dei
doveri inerenti alla sua funzione.
L'aggravante di aver commesso il fatto con
abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una
pubblica funzione o ad un pubblico servizio non presuppone
necessariamente che il reato sia commesso in relazione al
compimento di atti rientranti nella sfera di competenza del
pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico
servizio, né l'attualità dell'esercizio della funzione o del
servizio, ma è configurabile anche quando il pubblico
ufficiale abbia agito al di fuori dell'ambito delle sue
funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia reso
possibile o comunque facilitato la commissione del reato
(Cass., n. 50586 del 13/12/2013; sez. 1, n. 24894 del
28/05/2009; sez. 2, n. 20870 del 30/04/2009; sez. 6, n. 4062
del 07/01/1999; sez. 6, n. 9209 del 01/06/1988).
Di tanto è stato dato conto in sentenza, specificando che
Ba. si servì, per accedere alla casella di posta
elettronica di Mu., di una password "generale" -che
gli consentì di entrare in rete- e si avvalse della
posizione di sovraordinazione -in cui si trovava rispetto
al dipendente- per allontanarlo dall'ufficio ed effettuare
le operazioni che gli premevano.
Tali elementi non rappresentano, quindi, "un
presupposto del fatto" -come opinato dal ricorrente- ma
elementi che hanno reso possibile l'accesso alla posta del
dipendente e perciò rientrano nelle modalità dell'azione
prese in considerazione dalla norma incriminatrice
(Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 31.03.2016 n. 13057). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Progetto di Variante normativa al Piano stralcio
per l’assetto idrogeologico del bacino del fiume Po (PAI) -
Primi chiarimenti in ordine alla disciplina normativa ed
alle misure di salvaguardia applicabili alle aree
individuate nell'ambito delle Mappe della pericolosità e del
rischio di alluvioni del Piano di Gestione del rischio di
Alluvioni del bacino del Po (PGRA) (Regione Lombardia,
Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del
Suolo - Difesa del Suolo,
nota
07.04.2016 n. 3590 di prot.).
---------------
Nell’ambito del progetto di Variante normativa al Piano
stralcio per l’assetto idrogeologico del bacino del fiume Po
(PAI), di cui è stata data comunicazione con lettera del 24
marzo u.s. a firma dell’Assessore al Territorio Urbanistica
e Difesa del Suolo, finalizzato al raccordo e coordinamento
tra il PAI stesso e il Piano di Gestione dei Rischi di
Alluvioni (PGRA), l’Autorità di bacino del fiume Po ha
redatto una nota, inviata alle Regioni territorialmente
interessate e alla Provincia Autonoma di Trento, con la
quale fornisce “Primi chiarimenti in ordine alla disciplina
normativa ed alle misure di salvaguardia applicabili alle
aree individuate nell'ambito delle Mappe della pericolosità
e del rischio di alluvioni del Piano di Gestione del rischio
di Alluvioni del bacino del Po”. (...continua). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs. 81/2008 e successive modifiche e
integrazioni - risposta al quesito sulla formazione
specifica dei lavoratori (Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali,
interpello 21.03.2016 n. 4/2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs.
81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al
quesito relativo all'applicazione dell'art. 28, comma 3-bis,
del d.lgs. n. 81/2008
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 21.03.2016 n. 3/2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs. 81/2008 e successive modifiche e
integrazioni - risposta al quesito in merito all'art. 90,
comm1 9 e 10, del d.lgs. n. 81/2008
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 21.03.2016 n. 1/2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 11.04.2016 n. 84 "Rilevazione dei prezzi medi per
l’anno 2014 e delle variazioni percentuali annuali, in
aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento,
relative all’anno 2015, ai fini della determinazione delle
compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da
costruzione più significativi" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 31.03.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'11.04.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.03.2016, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 05.04.2016 n. 53). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 07.04.2016, "Approvazione
delle linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio
delle funzioni trasferite ai comuni in materia sismica
(artt. 3, comma 1, e 13, comma 1, della l.r. 33/2015)" (deliberazione
G.R. 30.03.2016 n. 5001). |
SICUREZZA LAVORO:
G.U.U.E. 31.03.2016 n. L 81 "REGOLAMENTO
(UE) 2016/425 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del
09.03.2016 sui dispositivi di protezione individuale
e che abroga la direttiva 89/686/CEE del Consiglio". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Musone,
Determinazione conclusiva e provvedimento finale della
Conferenza di servizi (Giornale di diritto
amministrativo n. 5/2015).
---------------
Il TAR Latina valuta che, nell’attuale assetto normativo
della Conferenza di Servizi, la determinazione finale della
Conferenza rappresenta sia il momento terminale di questa,
sia il provvedimento conclusivo del procedimento: quindi, la
determinazione conclusiva, avendo valore provvedimentale e
non più di atto endoprocedimentale, è dotata di immediata
lesività e, come tale, è immediatamente impugnabile. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
S. Screpanti,
Il risarcimento del danno da ritardo procedimentale
(Giornale di diritto amministrativo n. 3/2015).
---------------
Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato
condanna l’amministrazione al risarcimento del danno da
ritardo per aver concluso una procedura concorsuale dopo
undici anni. Il caso di specie offre lo spunto per
approfondire il tema della responsabilità da ritardo
procedimentale, sotto il profilo dei presupposti e
dell’onere probatorio. Consente, inoltre, di ragionare
sull’attuale configurazione della tutela risarcitoria del
danno da ritardo, con particolare riguardo al dibattito sul
c.d. giudizio di spettanza del bene finale. La vicenda in
esame, conclusa in ventuno anni (undici per il procedimento
e dieci per il contenzioso), suggerisce, infine, di
riflettere sulla valenza del principio di tempestività
dell’azione amministrativa e sul problema dell’effettività
dei rimedi previsti dall’ordinamento contro le inerzie e i
ritardi dell’amministrazione. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
M. Magri,
I concorsi e le assunzioni (Giornale di
diritto amministrativo n. 3/2015).
---------------
Specie negli ultimi anni, la giurisprudenza in tema di
assunzioni nelle pubbliche amministrazioni si è dovuta
confrontare con questioni interpretative nuove e delicate,
emergenti per un verso dai rapidi mutamenti delle norme sul
contenimento della spesa per il personale, che hanno
richiesto una interpretazione adeguata alla loro evoluzione;
per l’altro verso, da un allargamento della regola generale
del concorso pubblico, la quale ha impegnato i giudici nella
applicazione di tale principio costituzionale ad una realtà
giuridica connotata dalla “convivenza” di molteplici
categorie: idonei, stabilizzati, precari, soprannumerari,
pensionati trattenutisi in servizio, i cui rapporti non sono
vicendevolmente ben delimitati dalla legge. Proprio questa
pluralità categoriale sembra da annoverarsi come l’elemento
di spicco della materia delle assunzioni e giustifica una
sempre più marcata tendenza al dialogo tra giurisdizioni
nella fase costitutiva del rapporto di lavoro pubblico. |
APPALTI:
A. Grappelli,
LA CERTIFICAZIONE DI QUALITÀ: È DA INTENDERSI COME REQUISITO
DI IDONEITÀ TECNICO ORGANIZZATIVA DELL’IMPRESA AI FINI DEL
RICORSO ALL’ISTITUTO DELL’AVVALIMENTO
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2015).
---------------
Con il presente commento si affronta, il tema dell’avvalimento
in rapporto con la certificazione di qualità; l’analisi
scaturisce dalla sentenza n. 3949 del 24.07.2014 del
Consiglio di Stato che conferma l’orientamento della V
sezione, che in precedenza ha già avuto modo di intervenire
evidenziando che la certificazione di qualità rientra tra i
requisiti che valorizzano gli elementi di eccellenza
dell’organizzazione complessiva dell’azienda. L’istituto
dell’avvalimento pertanto deve essere applicato ricorrendo
ad una interpretazione volta a garantire il più ampio potere
operativo.
---------------
Sommario: 1. L’evoluzione giurisprudenziale sul tema
dell’avvalimento nell’ambito delle certificazioni di
qualità; 2. Il dibattito e le diverse interpretazioni; 3. La
sentenza del Consiglio di Stato n. 3949/2014; 4.
Conclusioni. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
P. Turco,
IL DIRITTO DI ACCESSO ALLE INFORMAZIONI AMBIENTALI
(Gazzetta Amministrativa
n. 2/2015).
---------------
Il diritto di accesso alle informazioni ambientali. Fonti:
La Dichiarazione di principi dell’ambiente umano di
Stoccolma del 1972 e la convenzione di Aarhus (Danimarca).
Normativa Interna ed Europea. Interventi della
giurisprudenza. Considerazioni conclusive.
---------------
Sommario: 1. Il diritto di accesso alle informazioni
ambientali: le Fonti. 2. Normativa Interna ed Europea. 3.
Interventi della giurisprudenza. 4. Il d.lgs. 19.08.2005, n.
195. 5. Considerazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
T. Bonetti e A. Sau,
La nullità del provvedimento amministrativo (Giornale
di diritto amministrativo n. 2/2015).
---------------
La categoria della nullità del provvedimento amministrativo
è stata codificata in termini generali attraverso
l’introduzione dell’art. 21-septies nel corpus della l. n.
241/1990. Pur trattandosi di un fenomeno quantitativamente
marginale nell’ambito del diritto vivente, la giurisprudenza
successiva alla novella del 2005 ha svolto una intensa opera
di ricomposizione della trama ordinamentale nella
prospettiva di definirne con maggiore precisione i contorni
teorici ed applicativi. A fronte di una formulazione del
dettato normativo che presenta diversi profili di criticità,
però, permangono ancora alcune incertezze che investono il
regime sostanziale e processuale applicabile al
provvedimento nullo. |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. Vinci,
LA DIRIGENZA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: DISCIPLINA
ATTUALE E PROSPETTIVE FUTURE
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2015).
---------------
Il tema d’interesse della presente trattazione concerne la
dirigenza delle pubbliche amministrazioni, in quanto colonna
portante del sistema amministrativo italiano così come
evolutosi fino a oggi. Volendo succintamente introdurre
l’argomento, la “Dirigenza” può essere definita come quella
quota di funzionari pubblici chiamati comporre l’“alta
burocrazia pubblica” e come tali disciplinati
dall’ordinamento dello Stato secondo una particolare
normativa, predisposta proprio in ragione della funzione di
vertice ricoperta all’interno degli uffici
dell’amministrazione.
---------------
Sommario: 1. Profili costituzionali della distinzione
tra “indirizzo politico” e “gestione amministrativa”; 2.
Profili legislativi della distinzione tra “indirizzo
politico” e “gestione amministrativa”; 3. Funzioni della
dirigenza amministrativa; 4. L’incarico dirigenziale; 5.
Criteri per il conferimento dell’incarico; 6. Cenni sulla
responsabilità dirigenziale; 7. Conclusioni e prospettive
future per la dirigenza amministrativa pubblica. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. R. Marcacci Balestrazzi,
L’ANALISI DEL PRINCIPIO DI “CHI INQUINA PAGA” RISPETTO AL
PROPRIETARIO INCOLPEVOLE, ALLA LUCE DELLA RECENTE SENTENZA
DELLA C.G.U.E., III, 04.03.2015, CAUSA C-534/2013,
M.A.T.T.M. E ALTRI CONTRO FIPA GROUP S.R.L. E ALTRI
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2015).
---------------
Esclusione della responsabilità oggettiva nel caso di danno
ambientale commesso da un soggetto diverso dal proprietario.
Applicazione ponderata del principio di “chi inquina paga”.
Il proprietario incolpevole ha il solo obbligo di rimborso
delle spese relative agli interventi effettuati
dall'autorità amministrativa competente.
---------------
Sommario: 1. Evoluzione storico-normativa del
concetto di responsabilità civile per danno ambientale; 2.
Novità introdotte dalla dir. 2004/35/CE del 21.04.2004; 3.
Caso di specie e recente interpretazione della C.G.UE (marzo
2015). |
APPALTI:
S. Napolitano,
INCERTEZZA DEL CONTENUTO DELL’OFFERTA: IL CASO DELLA MANCATA
INDICAZIONE DEI COSTI DA INTERFERENZE E COSTI AZIENDALI
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2015).
---------------
L’Adunanza Plenaria risolve il contrasto giurisprudenziale e
si pronuncia sull’obbligo per un’impresa concorrente di
indicare nell’offerta i costi aziendali anche se tale
requisito non è specificato nel bando di gara.
---------------
Sommario: 1. Le questioni oggetto dell’ordinanza di
rimessione 2. Il contrasto giurisprudenziale. 3. L’Adunanza
Plenaria del 20.03.2015, n. 3. |
APPALTI:
T. Molinaro,
I LIMITI OGGETTIVI DI AMMISSIBILITÀ ALLE VARIANTI
PROGETTUALI IN SEDE DI GARA
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2015).
---------------
L’istituto delle varianti in sede di gara e i limiti di
ammissibilità alla luce delle linee guida fissate dalla
giurisprudenza.
---------------
Sommario: 1. La disciplina del codice appalti 2.
Limiti oggettivi di ammissibilità delle varianti in sede di
gara 3. Differenze fra soluzioni migliorative e varianti in
sede di offerta: sentenza del Consiglio di Stato del
09.09.2014, n. 4578. |
APPALTI:
M. Dell'Unto,
CRITERI INTERPRETATIVI IN ORDINE ALLE DISPOSIZIONI DELL’ART.
38, CO. 2-BIS, E DELL’ART. 46, CO. 1-TER, DEL D.LGS.
12.04.2006, N. 163
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2015).
---------------
Le irregolarità negli appalti dopo le modifiche introdotte
dal d.l. 24.6.2014 n. 90.
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. Oneri dichiarativi e nuovo
co. 2-bis dell’art. 38 del Codice. 2.1 Irregolarità
essenziali degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al co. 2-bis dell’art. 38 del Codice stipula del
contratto d’appalto - 2.2 applicazione della sanzione. 3.
Nuovo soccorso istruttorio ex art. 46, co. 1-ter del Codice.
3.1 Impatto del “nuovo” soccorso istruttorio sulla
disciplina delle cause tassative di esclusione. 3.2 Carenze
ed irregolarità essenziali sanabili (e non). 3.2.1.
Irregolarità concernenti gli adempimenti formali di
partecipazione alla gara. 3.3 Altre irregolarità concernenti
elementi e dichiarazioni che devono essere prodotte in base
alla legge, al bando o al disciplinare. |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Firmata L'Ipotesi di ACQ per la definizione dei comparti
e le nuove aree di contrattazione del pubblico impiego
(CSA di Milano,
nota 07.04.2016 n. 134/SN/csa16 di prot.) |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Trattamento economico accessorio/Utilizzazione delle
risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e
per la produttività/ E’ possibile,
ai sensi dell’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999,
fare confluire nelle risorse decentrate di un determinato
anno le economie derivanti dalla mancata erogazione
nell’anno precedente di parte delle risorse stabili?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si
ritiene opportuno precisare quanto segue.
L’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999 espressamente
dispone: “Le somme non utilizzate o non attribuite con
riferimento alle finalità del corrispondente esercizio
finanziario sono portate in aumento delle risorse dell’anno
successivo”.
Questa clausola contrattuale, quindi, consente di
incrementare le risorse destinate al finanziamento della
contrattazione integrativa di un determinato anno solo con
quelle che, pure destinate alla medesima finalità nell’anno
precedente, non sono state utilizzate in tale esercizio
finanziario.
Pertanto, nell’ambito di applicazione del citato art. 17,
comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, rientrano gli importi
delle risorse comunque definitivamente non attribuite o non
utilizzate con riferimento alle finalità del corrispondente
esercizio finanziario, come certificati dall’organo di
controllo (non possono considerarsi tali le risorse per le
quali, per qualunque ragione, anche di possibile contenzioso
l’ente non abbia la certezza giuridica del definitivo
mancato utilizzo).
Spetta al singolo ente, nella sua autonomia gestionale,
verificare, sulla base delle previsioni del contratto
integrativo già stipulato e con riferimento alle risorse dei
vari istituti disciplinati, se effettivamente sussistano le
condizioni per la concreta attuazione della disciplina
dell’art. 17, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999.
Si coglie l’occasione anche per ricordare che:
a) l’incremento consentito dall’art. 17, comma 5, del CCNL
dell’01.04.1999, ha natura di incremento “una tantum”,
consentito cioè solo nell’anno successivo a quello in cui le
risorse disponibili non sono state utilizzate, e, comunque
si traduce in una implementazione delle sole risorse
variabili, che, come tali, non possono essere confermate o
comunque stabilizzate negli anni successivi;
b) per effetto della loro particolare natura solo risorse stabili
non utilizzate né più utilizzabili in relazione agli anni di
riferimento, possono incrementare le risorse destinate al
finanziamento della contrattazione integrativa dell’anno
successivo, come risorse variabili;
c) relativamente alle risorse variabili, si deve ricordare che esse
sono quelle che gli enti possono prevedere e quantificare,
in relazione ad un determinato anno, previa valutazione
della propria effettiva capacità di bilancio (nonché dei
vincoli del rispetto del patto di stabilità interno e
dell’obbligo di riduzione della spesa, per gli enti che vi
sono tenuti).
Le fonti di alimentazione di tale tipologia di risorse sono
espressamente indicate nell’art. 31, comma 3, del CCNL del
22.01.2004, che le finalizzano a specifici obiettivi a tal
fine individuati (v. ad esempio, art. 15, commi 1 e 2, del
CCNL dell’01.04.1999; risorse destinate alla progettazione;
ecc.).
Sulla base delle fonti legittimanti, ogni determinazione in
materia, comunque, è demandata alle autonome valutazioni dei
singoli Enti, sia nell’“an” che nel “quantum”.
Conseguentemente, in virtù della specifica finalizzazione
annuale e della loro natura variabile (sia il loro
stanziamento che l’entità delle stesse possono variare da un
anno all’altro), le risorse di cui si tratta non possono né
essere utilizzate per altri scopi, diversi da quelli
prefissati, né, a maggior ragione essere trasportate
sull’esercizio successivo in caso di non utilizzo nell’anno
di riferimento.
Diversamente ritenendo, esse finirebbero sostanzialmente per
“stabilizzarsi” nel tempo, in contrasto con la
ratio della previsione del CCNL e con la specifica
finalizzazione delle risorse stesse, che è alla base del
loro stanziamento annuale;
d) le risorse variabili, derivanti dal mancato utilizzo nell’anno
di riferimento di risorse stabili, avendo caratteristiche
diverse da quelle richiamate nella lett. c), ove
effettivamente non utilizzate nell’anno seguente, possono
esserlo, eventualmente, di fatto, anche in anni successivi o
a distanza di tempo rispetto a quello in cui si è
determinato il mancato utilizzo che le ha determinate;
e) poiché trattasi di risorse variabili, una tantum, che,
come sopra detti, non possono essere confermate o
stabilizzate, l’avvenuti impiego delle stesse né esaurisce
ogni ulteriore utilizzabilità;
f) pertanto, alla luce di quanto detto, si ritiene che le risorse
variabili derivanti da risorse stabili comunque, non
utilizzate nel corso del 2014, valutate e computate secondo
quanto sopra detto, possano essere riportate ed utilizzate
anche per il finanziamento della contrattazione integrativa
anche nel 2015.
Si ricorda, comunque, che non possono essere ricomprese
bell’ambito applicativo dell’art. 17, comma 5, del CCNL
dell’01.04.1999, le risorse che espressamente la vigente
legislazione vieta di destinare al finanziamento della
contrattazione integrativa (ad es. i risparmi derivanti
dall’applicazione della decurtazione del salario accessorio
per i primi 10 giorni di malattia del lavoratore, ai sensi
dell’art. 71 della legge n. 133/2008; i risparmi derivanti
dall’applicazione dell’art. 9 del D.L. n. 78/2010, come la
mancata valorizzazione economica delle progressioni
economiche, utili solo a fini giuridici e previdenziali;
ecc.).
Infine, poiché le risorse variabili di cui si tratta hanno
carattere di variabilità e non possono essere consolidate,
le stesse non possono essere utilizzate per il finanziamento
di istituti del trattamento economico accessorio che
richiedono solo risorse stabili (progressioni economiche;
posizioni organizzative; ecc.) (parere
03.03.2016 n. RAL-1830
- link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Accessori, recupero impossibile per le somme non
attribuite. Personale. Per l’Aran le valutazioni negative
tagliano le risorse disponibili.
I risparmi sul trattamento economico
accessorio derivanti dal mancato raggiungimento degli
obiettivi non possono essere utilizzati per l’incentivazione
del personale.
Questo principio si
applica alle risorse aggiuntive inserite nei fondi: a
fissare questi principi è il
parere
03.03.2016 n. RAL-1826 del'Aran.
Il
divieto deriva direttamente dal carattere mirato che ha
l’inserimento di queste risorse nel fondo, per cui la loro
disponibilità non accresce tout court le somme disponibili
per la contrattazione decentrata, ma è finalizzata
unicamente alla remunerazione del personale impegnato nel
perseguimento di questi obiettivi.
È questo il punto di maggiore rilievo su cui l’Aran richiama
l’attenzione degli operatori: non si possono fare restare
nei fondi, e quindi mettere a disposizione del personale,
risorse che non sono state ripartite a seguito di una
valutazione non positiva.
Di conseguenza, nel fondo
dell’anno successivo non possono essere riportati i risparmi
che derivano dalle voci di parte variabile non utilizzate:
questa mancata integrale utilizzazione è infatti
direttamente connessa a una valutazione non positiva sulle
attività svolte. Nel fondo dell’anno successivo vanno
inserite solamente le risorse che derivano dalla mancata
integrale utilizzazione della parte stabile del fondo,
quindi da risorse che sono naturalmente di spettanza del
personale e che possono essere utilizzate per tutte le forme
di incentivazione e non unicamente per remunerare la
performance.
Occorre ricordare, si legge nel parere, che questo divieto
riguarda i risparmi derivanti dalla mancata integrale
applicazione sia del comma 2 sia del comma 5 dell’articolo
15 del contratto nazionale del 22.01.2004. La prima di
queste disposizioni consente l’aumento della parte variabile
del fondo fino allo 1,2% del monte salari 1997 a fronte di
risparmi conseguiti a seguito di misure di razionalizzazione
organizzativa o della destinazione a specifici obiettivi di
produttività e qualità dei servizi.
La seconda consente
l’aumento della parte variabile del fondo per finanziare il
salario accessorio del personale impegnato nella
realizzazione di nuovi servizi o nel miglioramento o
ampliamento dei servizi esistenti. Non c’è in questo caso un
tetto specifico, ma questo va determinato dalle singole
amministrazioni in relazione all’impegno aggiuntivo
richiesto al personale e all’importanza del servizio di
nuova istituzione o oggetto dell’ampliamento.
In questo modo si dà corso all’estensione al personale del
comparto di principi dettati per i dirigenti, parere Aran
18248 dell’aprile del 2015: con quella pronuncia è stato
chiarito che le risorse non erogate come indennità di
risultato a seguito del mancato o parziale raggiungimento
degli obiettivi assegnati, in deroga alle previsioni del
contratto nazionale del 23.12.1999, non vanno a incrementare
il fondo per la retribuzione di risultato della dirigenza
dell’anno successivo.
In questi casi infatti non si verifica una condizione di «impossibilità
di utilizzo delle risorse», ma si tratta di un modo
attraverso cui evitare che le risorse non attribuite ai
dirigenti per il mancato raggiungimento degli obiettivi,
quindi a seguito di una valutazione negativa o quanto meno
non interamente positiva, rimangano nella loro
disponibilità, con effetti che devono essere definiti come,
per lo meno, paradossali (articolo Il Sole 24 Ore del
04.04.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Trattamento economico accessorio/Utilizzazione delle
risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e
per la produttività/Indicazioni generali/
Nel caso di risorse che sono disponibili solo a
consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado
di effettivo raggiungimento degli obiettivi di performance
organizzativa, ai quali l’incremento è stato correlato, cosa
accade alle stesse se non sono raggiunti gli obiettivi di
performance? Sono economie o possono essere rinviate
all’esercizio successivo?
In ordine a tale problematica, si rende necessario
comprendere a che tipologia di risorse si fa riferimento.
Ove le risorse di cui si tratta siano quelle variabili
derivanti dall’applicazione dell’art. 15, comma 5, o del 15,
comma 2, del CCNL dell’01.04.1999 (come sembrerebbe emergere
dal formulazione del quesito che fa riferimento a “risorse
che sono disponibili solo a consuntivo e sono erogate al
personale in funzione del grado di effettivo conseguimento
degli obiettivi…”), esse , in caso di ridotto o mancato
raggiungimento degli obiettivi di performance, sulla base
della relazione della performance, che ne hanno giustificato
l’apposizione, costituiscono economie e, quindi, non possono
essere trasportate sull’esercizio successivo (parere
03.03.2016 n. RAL-1826
- link a www.aranagenzia.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
Revisori-politici, sì ai compensi. Non rileva
fare il sindaco o consigliere in altro comune.
La Corte dei conti sezione autonomie corrobora la
tesi sempre sostenuta da Ancrel.
L'avevamo già scritto in queste pagine un anno fa (ItaliaOggi
del 10.04.2015) che il compenso al revisore che opera in un
comune spetta in ogni caso anche se lo stesso ricopre
l'incarico di consigliere comunale o sindaco in altro
comune.
Ci ha dato ragione la Corte dei conti del Veneto alla fine
del 2015 ed ora conferma la nostra tesi anche la Corte dei
conti sezione autonomie.
Ma cosa era successo?
Sull'applicazione dell'art. 5, comma 5, del dl 78/2010, la
Corte dei conti della Lombardia nel 2010 e nel 2012 con le
delibere n. 199/2010/PAR e n. 257/2012/PAR aveva ricompreso,
tra i soggetti interessati al provvedimento, anche i
revisori dei conti dei comuni ritenendo che
l'interpretazione corretta era quella letterale della norma
ovvero che al revisore dell'ente locale, titolare di carica
elettiva presso un altro ente, non può spettare alcun
compenso se non il rimborso delle spese sostenute e un
gettone di presenza di massimo 30 euro, anche nel caso in
cui il revisore dei conti rinunci al compenso da consigliere
comunale. Si erano espresse in tal senso anche altre Corti,
quali quelle della Puglia, della Campania e
dell'Emilia-Romagna, anche se con diverse argomentazioni.
La
stessa Corte della Lombardia era tornata ancora una volta
sull'argomento il 04.02.2015 con la delibera n.
38/2015/PAR rispondendo al sindaco del Comune di Chiari, in
provincia di Brescia, ribadendo il concetto che «la norma
trova applicazione al titolare di cariche elettive che
svolga qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche
amministrazioni» pertanto, sosteneva la Corte, «al soggetto
che è titolare di carica elettiva è preclusa la possibilità
di percepire emolumenti per lo svolgimento di qualsiasi
incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni, salva la
possibilità di richiedere un rimborso spese delle spese
sostenute, nonché eventuali gettoni di presenza che non
possono superare l'importo di 30 euro a seduta». La Corte
concludeva richiamando le sue precedenti delibere che
definivano tale disposizione un «vincolo di finanza
pubblica».
Prima della nota del Ministero dell'interno del 5
novembre scorso, con la quale si specificava che «il divieto
del cumulo degli emolumenti, preso atto che la finalità
perseguita dal legislatore è la riduzione del costo degli
apparati politici, deve ritenersi limitato ai costi e alle
spese necessarie per l'esercizio degli incarichi conferiti
all'amministrazione in relazione alla carica elettiva e
quindi all'esercizio del minus pubblico», si era già
espresso anche il Ministero dell'economia e delle finanze,
con una circolare del 2011, dichiarando che «va tenuto conto
che il rapporto che si instaura tra l'ente e i componenti
dei collegi dei revisori dei conti e sindacali può essere
assimilato a un rapporto di natura contrattuale che mai si
concilia con la gratuità dell'incarico, in quanto l'attività
svolta dai predetti revisori e sindaci, di natura
prettamente tecnica, è una prestazione d'opera a cui
normalmente corrisponde una prestazione economica».
Su
questa base interpretativa si era fondata la delibera
569/2015/QMIG del 16.12.2015 della Corte dei Conti del
Veneto, che, dopo un articolata spiegazione del concetto «di
attività professionale», era giunta alla conclusione che
detta attività del revisore aveva prevalenza rispetto al
ruolo istituzionale, ritenendo peraltro discriminante,
diversamente, l'attività del revisore con cariche elettive
rispetto al revisore senza incarichi, ancorché svolgente la
medesima attività sul piano tecnico.
La Corte veneziana,
però, pronunciandosi in maniera opposta rispetto alle altre
Corti regionali e non potendo cassare tali tesi già espresse
da organismi di pari grado, rimandava il tutto alla
definitiva interpretazione della norma da parte della Corte
centrale sezione autonomie, la quale con la
deliberazione 31.03.2016 n. 11 sanciva che «in
forza di un'interpretazione sistematica che tenga conto
della norma di interpretazione autentica di cui all'art. 35,
comma 2-bis, dl 09.02.2012, n. 5 (convertito dalla
legge 04.04.2012, n. 35) è possibile configurare una
eccezione al principio di tendenziale gratuità di tutti gli
incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni ai
titolari di cariche elettive. Tale eccezione è da intendersi
riferibile alla sola tipologia di incarichi obbligatori ex lege espressamente indicati dalla predetta norma (collegi
dei revisori dei conti e sindacali e revisori dei conti). Il
revisore dei conti di un comune, nominato successivamente
sia all'entrata in vigore dell'art. 5, comma 5, del dl n.
78/2010 sia al nuovo sistema di nomina dell'organo di
revisione degli enti locali, ha diritto di percepire il
compenso professionale ai sensi dell'art. 241 del Tuel, nel
caso in cui sia consigliere comunale in altra provincia».
La delibera segna un passo importante.
Sì, segna un passo importante per due ragioni: la prima è
che accogliendo la tesi della Corte dei conti del Veneto, la
Sezione autonomie smentisce interpretazioni ripetute negli
ultimi quattro anni, in senso opposto, da parte di altre
Corti e in particolare quella della Corte della Lombardia,
che fino a febbraio dello scorso anno sosteneva la tesi che
non era dovuto il compenso al revisore, se non un gettone di
presenza di massimo 30 euro oltre al rimborso delle spese.
La seconda, è che finalmente si definisce da parte del Mef
prima e della Corte dei Conti poi, che l'attività del
revisore dei conti dell'ente locale è un'attività
professionale e che non ha niente a che fare con le cosi
dette «spese per la politica».
Non si comprende perché,
invece, sempre la stessa Sezione autonomie della Corte abbia
confermato il 14.09.2015 con la delibera n. 29/SEZAUT/2015/QMIG,
il taglio del 10% del compenso spettante al revisore, sempre
introdotto con il dl 78/2010, in quanto rientrante tra i
soggetti destinatari ovvero tra i «gli organi di indirizzo,
direzione e controllo, consigli di amministrazione e organi
collegiali comunque denominati e ai titolari di incarichi di
qualsiasi tipo» quando definisce ora nella sua recente
delibera, il compenso del revisore come «professionale» e
proveniente da nomina «ex lege», quindi non dipendente da
volontà individuali.
È chiaro che c'è una contraddizione. Se
il compenso, come dice il Ministero dell'interno, non
rientra tra i cosi detti «costi per gli apparati politici»,
perché deve subire il taglio del 10%?
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016). |
PATRIMONIO: Sulla
possibilità -o meno- di destinare fondi comunali ad
interventi su beni di proprietà provinciale.
E' evidente che l’amministrazione
comunale sia interessata al fatto che la rete viaria
esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela
delle esigenze e della sicurezza della collettività locale,
sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti
proprietari.
In situazione peculiari, qualora sia accertata
l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente
istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere
interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di
una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela
della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del
Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di
proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe
comunque trovare puntuale giustificazione nella
dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e
indifferibile interesse della comunità locale.
D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato
esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno
del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere
disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione
coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione
di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i
relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie,
ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice
costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni
pubbliche.
---------------
Con la nota pervenuta in data 05.02.2016 il Sindaco del Comune
di Zubiena (BI) ha rivolto alla Sezione una richiesta di
parere in ordine alla questione inerente la possibilità di
effettuare interventi destinati a strade provinciali.
In particolare l’istante formula un quesito circa la
possibilità per il Comune di intervenire con proprie risorse
di bilancio per far fronte ad interventi su strade
provinciali.
Precisa di aver ricevuto sollecitazione a tale
tipo di intervento dalla locale amministrazione provinciale
e da rappresentanti della minoranza consiliare, ma di non
avere ancora posto in essere alcuna iniziativa.
...
Il quesito formulato attiene sotto un aspetto generale alla
tematica della possibile destinazione di fondi comunali ad
interventi su beni di proprietà di un soggetto giuridico
diverso, trattandosi nella fattispecie delineata
dall’istante di strade appartenenti all’ente Provincia.
Va al proposito evidenziato che qualunque genere di
intervento economico dell’amministrazione comunale, per
potersi eventualmente qualificare in termini di legittimità
della sottostante azione, deve necessariamente sottendere
alla realizzazione di un significativo interesse proprio
della comunità stanziata sul territorio, posto che il
Comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, co. 2, d.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura
gli interessi della propria comunità.
Al riguardo va osservato che la giurisprudenza contabile,
nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha avuto
modo di elaborare da tempo il principio generale per cui
se
l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune
(come tali generalmente ammissibili) l’erogazione di un
finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che
l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del
servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal
soggetto che riceve il contributo (Corte conti, sez. contr.
Lombardia, 29.06.2006, n. 9, sez. controllo Lombardia
13.12.2007 n. 59, sez. controllo Lombardia 05.06.2008 n. 39).
Inoltre anche in ordine alla qualificazione soggettiva del
percettore del contributo comunale o comunque del
beneficiario dell’intervento del Comune, la medesima
giurisprudenza ha precisato che la natura pubblica o privata
del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è
indifferente se il criterio di orientamento è quello della
necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di
perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa
amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per
molteplici finalità (gestione di servizi pubblici,
esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni
di ciascun ente), soggetti aventi natura privata e che nella
stessa attività amministrativa la legge di disciplina del
procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata
dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca
con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia
previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico
(Corte conti, sez. contr. Lombardia, 13.01.2010 n. 1; id.
31.05.2012 n. 262; Corte conti, sez. contr. Piemonte,
19.02.2014 n. 36).
E’ stato altresì precisato che ogniqualvolta
l’amministrazione ricorre a soggetti privati per raggiungere
i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici
di natura patrimoniale ovviamente le cautele debbono essere
maggiori –rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti
pubblici- anche al fine di garantire l’applicazione dei
principi di parità di trattamento e di non discriminazione
che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte
conti, sez. contr. Lombardia, 11.09.2015 n. 279).
Dunque sotto tale profilo il baricentro dell’attenzione
circa il corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai
attestato in correlazione con l’effettiva realizzazione di
un interesse pubblico (riferibile all’ente interessato) a
prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta
dell’attribuzione patrimoniale.
Occorre al riguardo evidenziare che il Comune è tenuto in
via generale a realizzare gli interessi della collettività
locale e secondo l’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000 esercita
tutte le funzioni amministrative che riguardano la
popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei
settori organici dei servizi alla persona e alla comunità,
dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello
sviluppo economico.
Sotto un profilo specifico inerente la
gestione della rete stradale inoltre, ai sensi dell’art. 14
del Codice della strada, va rammentato che il comune è
chiamato, quale ente proprietario delle strade a provvedere
alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro
pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi
al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della
circolazione.
La suddetta regola del resto è altresì contenuta nell’art.
39 della legge 20.03.1865 n. 2248 –allegato F- legge
sui lavori pubblici che pone infatti a carico dei comuni gli
oneri di “costruzione, sistemazione e mantenimento” delle
strade comunali così come specularmente l’art. 37 pone a
carico delle province i medesimi oneri relativi alle strade
provinciali.
Al riguardo non può non rilevarsi che l’ordine delle
competenze di ciascun ente pubblico è fissato in via
tassativa della legge, sicché non è arbitrariamente
alterabile dal singolo ente pena l’indebita invasione di
competenze altrui.
Va tuttavia osservato che nell’ambito del territorio
comunale di norma esistono una pluralità di strade
appartenenti anche ad altri enti pubblici ovvero lo Stato,
la Regione o la provincia secondo le previsioni del codice
stradale.
In siffatto contesto è evidente che l’amministrazione
comunale sia interessata al fatto che la rete viaria
esistente sul proprio territorio, anche ai fini della tutela
delle esigenze e della sicurezza della collettività locale,
sia mantenuta in piena efficienza dai rispettivi enti
proprietari.
In situazione peculiari, qualora sia accertata
l’impossibilità temporanea di intervenire da parte dell’ente
istituzionalmente competente, l’ente locale potrebbe avere
interesse a far effettuare senza ritardo la manutenzione di
una strada provinciale assolutamente necessaria a tutela
della sicurezza della comunità locale.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del
Comune destinato a finanziare lavori manutentivi su beni di
proprietà di altro soggetto (peraltro pubblico) dovrebbe
comunque trovare puntuale giustificazione nella
dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e
indifferibile interesse della comunità locale.
D’altro canto
una siffatta tipologia di intervento, destinato
esclusivamente ad uno spostamento patrimoniale all’interno
del perimetro pubblico finanche temporaneo, potrebbe essere
disciplinato tra gli enti interessati in virtù di un’azione
coordinata nell’ambito di uno strumento quale la convenzione
di cui all’art. 30 d.lgs. n. 267/2000, regolante altresì i
relativi rapporti finanziari e le previsioni restitutorie,
ed avvenire all’interno del quadro del principio di matrice
costituzionale di leale collaborazione tra amministrazioni
pubbliche.
Entro il sopra delineato quadro complessivo
l’amministrazione comunale dovrà pertanto procedere ad
effettuare le valutazioni discrezionali di propria spettanza
quale ente esponenziale della collettività insediata sul
territorio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 24.03.2016 n. 29). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Corte conti Sicilia. Le divise dei vigili con i
proventi delle multe.
I comuni possono destinare quote dei proventi derivanti
dalle sanzioni per violazioni al codice della strada per
l'acquisto delle divise del corpo di polizia locale e degli
ausiliari del traffico. Infatti, la nozione di
«attrezzature» indicata dal legislatore nella norma sopra
richiamata, ben si presta a individuare il vestiario dei
vigili che, in forza del potenziamento del servizio, è
sottoposto a una usura nel tempo oltre che a un incremento
del relativo fabbisogno.
È quanto ha precisato la Sez. regionale di controllo
della Corte dei Conti per la Regione Siciliana, nel testo
del
parere
22.03.2016 n. 74 con cui si forniscono ulteriori spunti
sugli interventi ammissibili grazie ai proventi che le
amministrazioni comunali incassano dalle violazioni al
codice della strada.
La Corte ha ritenuto che, nella nozione di «attrezzature»,
possa rientrare anche il vestiario del personale addetto
alla vigilanza e al rispetto della circolazione stradale. Se
la volontà del legislatore è quella di potenziare il
rispetto delle norme sulla circolazione, si deve, di
conseguenza, tenere conto che il maggior impegno della
polizia municipale comporterà, nel tempo, una ricaduta, in
termini di maggiore usura, delle dotazioni in capo al
personale di polizia urbana, tra cui le divise d'ordinanza.
Il perseguimento degli obiettivi del legislatore, ovvero il
potenziamento del controllo sulle strade, può dunque essere
perseguito anche con l'acquisto del vestiario del personale
impegnato
(articolo ItaliaOggi del 09.04.2016). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Nel periodo intercorrente tra
l'entrata in vigore dell'art. 13-bis, 1° comma, del d.l. n. 90/2014
come convertito con la legge n. 14/2014 (agosto 2014) e
l'entrata in vigore del regolamento comunale di disciplina
del fondo di progettazione (dicembre 2015, nella fattispecie), sorge l’astratta
pretesa alla corresponsione del suddetto incentivo, nel
rispetto dei limiti sopra ricordati, ma la stessa si
concretizza solo a seguito dell’entrata in vigore del
regolamento stesso.
Fermo il criterio discretivo relativo alla disciplina
intertemporale applicabile sancito dalla
deliberazione 24.03.2015 n. 11 della
Sezione delle Autonomie, la
concreta quantificazione dell’incentivo in analisi è,
dunque, rimessa al potere regolamentare del comune, con la
conseguenza che rientra nella valutazione
discrezionale di quest’ultimo se applicare, nella concreta
attività di quantificazione dell’incentivo, i criteri
adottati nel regolamento da ultimo adottato o prevedere una
specifica disciplina transitoria.
---------------
Il Sindaco del Comune di Magenta (MI) ha formulato una richiesta
di parere in materia di corretta applicazione dell’art. 93,
comma 7-bis, del dlgs. n. 163/2006.
Dopo aver ricordato
l’evoluzione subita dalla ora richiamata disposizione, a
seguito della novella recata dall’art. 13-bis, comma 1, del
d.l. n. 90/2014 (convertito con modificazioni dalla l. n.
114/2014) e aver premesso che il Comune di Magenta si è
dotato del regolamento previsto dalla norma de qua nel mese
di dicembre 2015, ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
1) “è possibile corrispondere l'incentivo per
l’attività̀ di progettazione e direzione lavori svolta dai
dipendenti comunali interessati nel periodo dall'entrata in
vigore dell'art. 13-bis, 1° comma, del d.l. nr. 90/2014 come
convertito con la legge nr. 14/2014 (agosto 2014) e fino
all'entrata in vigore del regolamento comunale di disciplina
del fondo di progettazione (dicembre 2015)?”
2) “In caso positivo qual è la disciplina regolamentare
applicabile? Quella del vecchio regime dell'incentivo o è
possibile introdurre nel nuovo regolamento una disposizione
regolativa dell'attività̀ svolta nel predetto periodo?”
...
2. Nel merito i quesiti posti dal Comune istante vertono sulla corretta
applicazione dell’art. 93, comma 7-bis, del dlgs. n. 163/2006,
come modificato dall’art. 13-bis, comma 1, del d.l.
n. 90/2014 (convertito con modificazioni dalla l. n.
114/2014).
La disposizione in parola, come noto, prevede che “a valere
sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni
pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e
l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al
2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o
di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un
regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare”. La
disposizione è stata già oggetto di ampia esegesi da parte
di questa Sezione, in particolare nel
parere 05.05.2015 n. 191, a cui si rinvia per l’inquadramento generale
della stessa e per l’esame delle novità recate dalla novella
del 2014 sopra ricordata.
Per quanto qui maggiormente interessa giova ricordare come
nella deliberazione ora richiamata, che sul punto fa proprie
le conclusioni a cui era pervenuta il precedente
parere 13.11.2014 n. 300 di questa Sezione
sulla scorta dell’autorevole insegnamento della Sezione
delle Autonomie (deliberazione
08.05.2009 n. 7/2009/QMIG), è stato fissato il principio secondo cui
“il diritto all’incentivo [ex art. 93, comma 7-bis, del dlgs.
n. 163/2006] deve essere corrisposto sulla base della
normativa vigente al momento in cui questo è sorto”. Ciò
in quanto, come
chiarito dalla Corte di Cassazione (Cass. Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004),
esso costituisce “un
vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che
inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va
individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a
prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere
concreta l’erogazione del compenso”.
Va, altresì, preliminarmente ricordato come sia stato già
affrontata anche la questione relativa alla fissazione del
criterio per individuare le attività di progettazione,
rilevanti ai fini del riconoscimento dell’incentivo in
questione in base alla disciplina più recente,
riconoscendosi che “la linea di demarcazione fra la vecchia
e la nuova regolamentazione della materia incentivante, non
sarebbe, da ricercarsi nel momento in cui l’attività
incentivata viene compiuta ... e neppure nel momento in cui
la prestazione resa viene remunerata, bensì nel momento in
cui l’opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei
documenti di programmazione vigenti nell’esercizio di
riferimento” (deliberazione
24.03.2015 n. 11 Sezione delle Autonomie, da ultimo in questo senso Sez. reg. di
controllo per il Veneto
parere 17.12.2015 n. 568).
2.1. Alla luce dei principi ora richiamati, è possibile
rispondere ai quesiti posti dal Comune istante.
E’ evidente, in relazione al quesito sub 1), come la pretesa
alla corresponsione dell’incentivo in esame, relativo alle
eventuali opere approvate successivamente all’entrata in
vigore della disposizione novellata, trovi la sua fonte
prima in quest’ultima disposizione, con la conseguenza che
la mancata adozione del regolamento comunale non possa
essere considerata ex se ostativa al successivo
riconoscimento della suddetta pretesa o giustificare una
sorta di reviviscenza della previgente disciplina.
Il
regolamento, infatti, nell’ottica della disposizione in
esame, è volto a fissare in concreto l’ammontare del
complessivo fondo incentivante, in misura, comunque, non
superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara
di un'opera o di un lavoro, tenendo, altresì, conto
dell'entità e della complessità dell'opera da realizzare.
Attraverso l’attribuzione del potere di adottare il suddetto
regolamento, è stata rimessa dal Legislatore alla
discrezionalità del singolo Ente la valutazione sull’an del
riconoscimento dell’incentivo in analisi, nonché sul
quantum, ovvero sulla quantificazione in concreto
dell’incentivo stesso, nel rispetto dei parametri
legislativamente fissati (su cui cfr.
parere 01.10.2014 n. 247 di questa Sezione).
2.2. Ne deriva, dunque, che nel periodo intercorrente tra
l'entrata in vigore dell'art. 13-bis, 1° comma, del d.l. n. 90/2014
come convertito con la legge n. 14/2014 (agosto 2014) e
l'entrata in vigore del regolamento comunale di disciplina
del fondo di progettazione (dicembre 2015), sorge l’astratta
pretesa alla corresponsione del suddetto incentivo, nel
rispetto dei limiti sopra ricordati, ma la stessa si
concretizza solo a seguito dell’entrata in vigore del
regolamento stesso.
Fermo il criterio discretivo relativo alla disciplina
intertemporale applicabile sancito dalla
deliberazione 24.03.2015 n. 11 della
Sezione delle Autonomie sopra richiamato, la
concreta quantificazione dell’incentivo in analisi è,
dunque, rimessa al potere regolamentare del comune, con la
conseguenza che, in relazione allo specifico quesito sub 2)
posto dall’Ente istante, rientra nella valutazione
discrezionale di quest’ultimo se applicare, nella concreta
attività di quantificazione dell’incentivo, i criteri
adottati nel regolamento da ultimo adottato o prevedere una
specifica disciplina transitoria (Corte dei Conti, Sez.
controllo Lombardia,
parere 04.03.2016
n. 69). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Concorso pubblico. Applicazione art. 35, comma 3-bis, d.lgs.
165/2001.
L'art. 35, comma 3-bis, del
d.lgs.165/2001, prevede la possibilità, per le pubbliche
amministrazioni, di bandire concorsi per titoli ed esami
finalizzati a valorizzare, con l'attribuzione di apposito
punteggio, l'esperienza professionale maturata da personale
che abbia maturato almeno tre anni di servizio, con rapporto
di lavoro a tempo determinato, nello stesso ente che
bandisce il concorso.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine all'espletamento di
una procedura concorsuale finalizzata all'assunzione a tempo
indeterminato di 'istruttore amministrativo, categoria C. In
particolare, l'Amministrazione istante si è posta la
questione relativa alla correttezza di prevedere
l'attribuzione di un punteggio specifico ai candidati in
possesso di almeno tre anni di lavoro subordinato a tempo
determinato presso lo stesso Ente, nell'ultimo quinquennio,
a mente di quanto disposto dall'art. 35, comma 3-bis, del
d.lgs. 165/2001.
E' doveroso evidenziare che la richiamata norma richiama, ai
fini applicativi, innanzitutto la sussistenza di definiti
presupposti, in dettaglio elencati. Infatti, stabilisce che
le amministrazioni pubbliche, nel rispetto della
programmazione triennale del fabbisogno di personale, nonché
del limite massimo complessivo del 50 per cento delle
risorse finanziarie disponibili ai sensi della normativa
vigente in materia di assunzioni ovvero di contenimento
della spesa di personale, secondo i rispettivi regimi
limitativi fissati dai documenti di finanza pubblica,
possono avviare procedure di reclutamento mediante concorso
pubblico, con determinate caratteristiche.
Più precisamente può essere prevista una riserva di posti,
nel limite massimo del 40 per cento di quelli banditi, a
favore dei titolari di rapporto di lavoro subordinato a
tempo determinato che, alla data di pubblicazione dei bandi,
abbiano maturato almeno tre anni di servizio alle dipendenze
delle amministrazioni che emanano il bando.
Inoltre, in alternativa, si possono bandire concorsi per
titoli ed esami finalizzati a valorizzare, con
l'attribuzione di apposito punteggio, l'esperienza
professionale maturata dal personale sopra individuato, e da
coloro che, alla data di emanazione del bando, abbiano
maturato almeno tre anni di contratto di collaborazione
coordinata e continuativa nelle amministrazioni che
bandiscono il concorso.
La Corte dei conti [1]
ha rilevato come la previsione di cui al citato comma 3-bis
dell'articolo 35 del d.lgs. 165/2001 sia finalizzata a
contemperare l'esigenza di stabilizzazione del personale
precario degli enti con il principio generale di accesso ai
pubblici impieghi mediante concorso, contenuto nell'articolo
97 della Costituzione.
E' da notare che il comma 3-ter dell'articolo 35 in esame fa
rinvio ad un decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, di concerto con il Ministro dell'economia e delle
finanze, da adottarsi entro il 31.01.2013
[2], con cui sono
definiti in dettaglio le modalità e i criteri applicativi
del comma 3-bis e la disciplina della riserva di posti, come
prevista, in rapporto ad altre categorie riservatarie. Nel
contempo si sancisce, ad ogni buon conto, che le dettate
disposizioni normative costituiscono principi generali a cui
devono conformarsi tutte le amministrazioni pubbliche
[3].
In ordine alla possibile, attuale, applicabilità di quanto
disposto dall'art. 35, comma 3-bis, del d.lgs. 165/2001,
indipendentemente dall'adozione del d.p.c.m richiamato dalla
medesima disposizione, fanno propendere anche le indicazioni
fornite a suo tempo dalla Presidenza del Consiglio dei
Ministri - Dipartimento della funzione pubblica
[4], che
ha sottolineato come la norma in argomento, in tema di
reclutamento speciale a regime, sia volta al superamento del
precariato. Le procedure concorsuali pubbliche, ivi
previste, sono aperte a tutti coloro che risultano in
possesso dei requisiti prescritti per l'accesso alla
qualifica per cui il concorso viene bandito. Detti
requisiti, quindi, compreso il titolo di studio, devono
essere posseduti dai soggetti indicati alle lettere a) e b)
del comma 3-bis, come sopra specificati.
In alternativa alle procedure di cui alla lett. a)
[5] del
comma 3-bis -precisa il Dipartimento- si possono espletare
concorsi pubblici, per titoli ed esami, nei quali,
attraverso la valutazione dei titoli -e ciò vale per la
fattispecie prospettata- può essere dato diverso rilievo
alla tipologia del contratto di lavoro (tempo determinato o
co.co.co.) e all'anzianità maturata.
Pertanto, non si rinvengono motivi ostativi all'applicazione
della disposizione in argomento, ricorrendone tutti i
presupposti, fermo restando il rigoroso rispetto del limite
massimo complessivo, imposto dal legislatore, riferito alle
risorse finanziarie disponibili per le assunzioni.
---------------
[1] Cfr. sez. reg. di controllo per l'Emilia-Romagna,
deliberazione n. 259/2013/PAR.
[2] Decreto che, a tutt'oggi, non risulta essere stato
adottato.
[3] L'art. 12, comma 2, della l.r. 19/2003 dispone
espressamente che le assunzioni del personale sono
effettuate, dalle aziende pubbliche di servizi alla persona,
nel rispetto dei principi generali in materia di accesso al
pubblico impiego.
[4] Cfr. circolare n. 5/2013, punto 3 (Reclutamento
ordinario e reclutamento speciale).
[5] Riserva di posti (12.04.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Consiglio in stile libero. Dal presidente le indicazioni.
Condivise. Così l'organizzazione
delle sedute in assenza di un regolamento.
Se l'ente locale non è dotato di regolamento per il
funzionamento del consiglio comunale e lo statuto non reca
indicazioni circa le modalità di verbalizzazione delle
sedute di consiglio, qual è la corretta modalità per
provvedere a tale adempimento?
È possibile supplire a tale
carenza procedendo alla registrazione e alla trascrizione
integrale della discussione, nonché alla pubblicazione della
stessa sull'albo pretorio online e sul sito web
istituzionale del Comune?
L'adozione del regolamento per il funzionamento del
consiglio comunale è riservata, ai sensi dell'art. 38, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000, all'autonomia
dell'ente.
Tale strumento, da adottare nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto, è necessario per il corretto
funzionamento del consiglio, proprio per l'ampia serie di
istituti da regolamentare, e per il superamento della
disciplina transitoria prevista dall'art. 273, comma 6, del
Tuoel.
Nelle more di una disciplina autonoma, il Tar Lazio, I sez.
con sentenza 10.10.1991, n. 1703, ha stabilito che «il
verbale non attiene al procedimento deliberativo, che si
esaurisce e si perfeziona con la proclamazione del risultato
della votazione, ma assolve ad una funzione di mera
certificazione dell'attività dell'organo deliberante».
Tale strumento «ha l'onere di attestare il compimento dei
fatti svoltisi al fine di verificare il corretto «iter» di
formazione della volontà collegiale e di permettere il
controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo
alcuna rilevanza l'eventuale difetto di una minuziosa
descrizione delle singole attività compiute o delle singole
opinioni espresse. D'altra parte deve aggiungersi che il
verbale della seduta di un organo collegiale, quale il
consiglio comunale, costituisce atto pubblico che fa fede
fino a querela di falso dei fatti in esso attestati»
(Conforme Consiglio di stato, sez. IV, 25/07/2001, n. 4074).
Fermo restando che la «cura delle verbalizzazioni» delle
sedute del consiglio e della giunta sono riservate, ai sensi
dell'art. 97, comma 4, del citato decreto legislativo n.
267/2000, direttamente al segretario comunale, va rilevato
che il presidente del consiglio comunale, in base
all'articolo 39 del citato decreto legislativo, ha poteri di
convocazione nonché di direzione dei lavori e delle attività
del consiglio, che potrebbero comportare la possibilità di
fornire istruzioni, opportunamente condivise dal consiglio
comunale, in merito all'adempimento di cui trattasi
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ È legittimo il rifiuto, da parte di un
consigliere comunale anziano, di controfirmare delle
deliberazioni consiliari dopo aver regolarmente sottoscritto
i verbali delle relative sedute?
L'articolo 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2,
dispone che «il funzionamento dei consigli, nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento», mentre il comma 3 prevede che «i consigli sono
dotati di autonomia funzionale e organizzativa».
Nessuna particolare indicazione è contenuta nel citato
decreto legislativo in ordine alla sottoscrizione delle
deliberazioni, essendo invece prevista, all'art. 124 la sola
obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all'albo
pretorio.
È, pertanto, necessario fare riferimento alle disposizioni
interne di cui l'ente si è dotato, in virtù proprio del
rinvio operato dal citato art. 38, nonché alle disposizioni
di carattere generale.
Nel caso di specie, lo statuto comunale demanda la
sottoscrizione del verbale di riunione di consiglio al
segretario comunale, al sindaco ed al consigliere anziano,
soggetti che devono sottoscrivere anche le deliberazioni
comunali.
Il regolamento consiliare, inoltre, ribadisce che il verbale
delle adunanze è firmato dal presidente, dal consigliere
anziano e dal segretario comunale. Lo stesso regolamento non
contiene alcuna norma che disciplini la sottoscrizione delle
deliberazioni; tuttavia, l'obbligo di firma delle
deliberazioni anche da parte del consigliere anziano
scaturisce proprio dallo statuto comunale che dispone
testualmente che le deliberazioni del consiglio comunale
sottoscritte dai soggetti tra i quali rientra anche il
consigliere anziano.
La sottoscrizione del provvedimento deliberativo, ai fini
della pubblicazione, assume, invece, una mera funzione
certificativa della regolarità formale dell'atto
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi per l'assistenza ex 104 anche in caso di
ricovero. Ma è necessario che i medici ne certifichino la
necessità.
Domanda
Usufruisco della legge 104/1992 in quanto mio fratello è
disabile e i nostri genitori sono deceduti. Mio fratello ha
dovuto subire un ricovero ospedaliero e a scuola mi hanno
detto che se è ricoverato non posso più usufruire dei tre
giorni di permesso mensili. Il che mi rende ancora più
difficile assisterlo.
Risposta
Quanto le hanno detto a scuola (spero non sia stato il
dirigente scolastico o il direttore dei servizi generali e
amministrativi) non è supportato da alcuna disposizione di
legge o di contratto.
Le norme in vigore in materia di permessi per assistere un
parente disabile sono principalmente l'articolo 33, comma 3,
della legge 104/1992, l'articolo 15, comma 6, del CCNL scuola
2007, oltre ad alcune circolari Inps quale ad esempio la n.
90 del 23.05.2007.
Dall'esame delle predette norme si ricava chiaramente che il
diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile
retribuito per assistere un parente disabile in stato di
gravità viene meno solo se la persona handicappata sia
ricoverata a tempo pieno in una struttura sia pubblica che
privata (non rientra in tale fattispecie un semplice
ricovero ospedaliero anche se di non breve durata).
Stando inoltre a quanto si legge nella citata circolare Inps
n. 90/2007, il diritto a fruire dei tre giorni di permesso
mensile permane anche in caso di ricovero a tempo pieno
qualora i sanitari della struttura attestino il bisogno di
assistenza da parte di un parente che ne abbia titolo
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2016). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: La
rivincita dell'architetto licenziato ventuno anni fa.
Stazzema, condannato il Comune: «Deve essere reintegrato».
L'architetto Baldo
Chioran Walter compirà 57 anni a giugno. E finalmente potrà
essere assunto dal Comune di Stazzema, dopo un periodo di
prova di un anno sostenuto nel lontano 1994.
Ci sono voluti 21 anni perché la Giustizia italiana
stabilisse che quel posto fisso gli spettava, che non doveva
essere mandato a casa. «E vero, sono più vicino alla
pensione -riconosce sorridendo-. Ma i magistrati hanno
deciso il reintegro e io sono pronto a iniziare il lavoro
che mi spetta».
L'architetto Chioran spiega che, in questi vent'anni
d'attesa, «non è stato facile andare avanti, ci sono
stati alti e bassi, molti progetti di vita sono saltati».
Ma adesso non è facile neppure per il Comune, tremila
abitanti divisi in 17 frazioni nelle montagne dell'Alta
Versilia, e per l'attuale sindaco, Maurizio Verona: «E
una sentenza che comporterà un esborso considerevole e a
farne le spese saranno i cittadini e i sei vizi comunali. E
evidente che ci fu un errore e c'è un danno subito, ma è
altrettanto evidente che non deve essere l'ente locale ad
affrontare il risarcimento dopo tutto questo tempo».
Insomma, è colpa della lentezza dello Stato e allora se ne
faccia carico lo Stato. Così il sindaco ha promesso una
nuova battaglia legale e un ricorso «la cifra finale sarà
probabilmente più contenuta. Anche se il calcolo è complesso».
L'architetto rimase per sei anni senza lavoro, e quei
mancati stipendi gli vanno restituiti tutti. Nel 2001 trovò
lavoro in una società che attesta le aziende idonee a
partecipare alle gare d'appalto, e quindi adesso va
conteggiata l'eventuale differenza tra quanto ha percepito e
quanto avrebbe invece guadagnato come dirigente comunale. E
in più, vanno aggiunti i contributi previdenziali, gli
interessi legali e il calcolo della svalutazione. Di sicuro,
un bel gruzzoletto.
L'architetto è soddisfatto, ma anche provato. «Da allora
non sono mai più tornato a Stazzema. Per me è stata
un'esperienza dolorosa, choccante. Non solo per la lunghezza
dei tempi, ma anche per le accuse e le maldicenze da cui mi
sono dovuto difendere. Proprio io che avevo denunciato
alcune cose che non andavano».
Chioran, infatti, al termine dell'anno di prova non solo
fece ricorso al Tar (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 30.05.2006 n. 2613) per l'irregolarità
della «risoluzione del rapporto», decisa dalla giunta
e non dal sindaco (e dopo quattro lustri il Consiglio di
Stato gli ha dato ragione), ma si rivolse anche alla Procura
per denunciare che durante il suo breve incarico all'Ufficio
tecnico l'amministrazione comunale aveva affidato le
pratiche più delicate a un consulente esterno, per questo
adeguatamente retribuito.
E soprattutto trovò che qualcuno aveva firmato, con il suo
nome, tre atti per ottenere dal ministero dell'Interno un
finanziamento da un miliardo e 300 milioni di lire per i
danni di un'alluvione.
Presentò una perizia calligrafica, ma la Procura si convinse
che era lui il mistificatore e ne chiese il processo per
calunnia. Nove anni di altro tormento che si chiusero con
l'assoluzione, Chioran chiese di indagare ancora per
scoprire chi era l'autore dei falsi, ma il procedimento si
esaurì per prescrizione.
Per questo, adesso, il Consiglio di Stato (Sez. V,
sentenza 16.03.2016 n. 1064), nel chiedere il suo
reintegro, ha anche trasmesso gli atti alla Procura
regionale della Corte di conti, per capire se quell'incarico
esterno di 21 anni fa e quelle firme false abbiano provocato
un danno all'Erario. I processi sono come gli esami, non
finiscono mai (articolo
Corriere della Sera del 12.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA (TAR
Toscana, Sez. II,
sentenza 30.05.2006 n. 2613)
E’ fondato il primo mezzo di gravame con cui viene dedotta
l’illegittimità del provvedimento di risoluzione del
rapporto sul rilievo che competente alla relativa adozione
doveva ritenersi, a norma dell’art. 25 del DPR 25.06.1983 n.
347, il sindaco e non la giunta.
In base a tale articolo, contenente le norme risultanti
dall’accordo del 29.04.1983 per il personale dipendente
dagli enti locali, la nomina in prova e la
nomina in ruolo, previo giudizio favorevole, nonché la
proroga per altre sei mesi e la risoluzione del rapporto di
impiego del dipendente dell’ente locali, ove il giudizio sia
ancora sfavorevole, compete al capo dell’Amministrazione che
deve adottare un provvedimento motivato (art. 25, 6° comma).
Al momento dell’adozione della delibera impugnata
(09.12.1994) era già in vigore la legge
08.06.1992 n. 142, sull’ordinamento della autonomie locali
che individua nel Sindaco l’organo monocratico del Comune
che, al contempo, svolge le funzioni di capo
dell’amministrazione comunale e di ufficiale di governo
(cfr. Cons. St., Ad Plen. 15.11.1991 n. 8).
In conformità all’art. 36, 1° comma (anche
nella formulazione di cui all’art. 12, della L. 25.03.1993
n. 81) i Sindaci esercitano le funzioni loro attribuite
dalla legge e dalle disposizioni anche regolamentari, per
cui, nella fattispecie in esame, il Sindaco del Comune di
Stazzema, quale capo dell’Amministrazione, costituiva
l’organo legittimato all’adozione del provvedimento
impugnato, tenuto conto, peraltro, del valore cogente
riconosciuto dalla L. 29.03.1983 n. 93, agli accordi
collettivi, come quello compreso nel DPR 25.06.1983 n. 347
(cfr. Cons. St., V Sez., 11.09.2000 n. 4794).
La fondatezza del motivo determina l’accoglimento della
domanda di annullamento della delibera impugnata (delibera
contenente, peraltro, un giudizio formulato prima che si
completasse il periodo di prova).
Sugli effetti di tale annullamento è da rilevare che il
citato art. 25, comma settimo, del DPR 25.06.1983, n. 347,
dispone (analogamente a quanto previsto per tutto il settore
del pubblico impiego) che la prova si intende conclusa
favorevolmente ove entro tre mesi dalla scadenza del periodo
di prova non sia intervenuto un provvedimento di proroga
ovvero un giudizio sfavorevole.
L’Amministrazione, dunque, se vuole evitare che si configuri
il superamento tacito della prova ha l’onere di emettere: a)
entro tre mesi dalla scadenza della prima prova un
provvedimento di proroga ovvero un giudizio sfavorevole; b)
entro tre mesi dalla scadenza della proroga, un giudizio
sfavorevole.
E’ stato, peraltro, pacificamente ritenuto, avuto riguardo
al carattere non provvedimentale del giudizio (preordinato,
se favorevole alla conferma in ruolo, se sfavorevole alla
risoluzione del rapporto) che in realtà, nel termine di tre
mesi, debba intervenire l’atto conclusivo del procedimento e
cioè il provvedimento risolutivo del rapporto non essendo,
di per sé, il parere sfavorevole idoneo a modificare la
posizione del dipendente (basti pensare all’ipotesi in cui
al giudizio sfavorevole, pur emesso nei termini, non segua
la risoluzione).
E la giurisprudenza si è costantemente espressa nel senso
che la prova si intende definitivamente
superata non solo nel caso di inerzia dell’amministrazione
che non emetta un provvedimento negativo nel prescritto
termine, ma anche nel caso di annullamento in sede
giurisdizionale del provvedimento di risoluzione del
rapporto essendo preclusa all’amministrazione la
rinnovazione dell’atto
(cfr. per tutte, Cons. St., VI Sez., 11.03.2004 n. 1229 e
TAR Sicilia, Palermo, I Sez., 01.06.1999 n. 1178).
L’accertata illegittimità della delibera
con cui il comune intimato ha fatto cessare il rapporto di
impiego del ricorrente, comporta l’accoglimento anche della
domanda da questi formulata diretta ad ottenere la
ricostruzione di carriera agli effetti economici oltre che
giuridici.
La giurisprudenza è invero pacifica nel ritenere che
nei casi in cui il rapporto di lavoro sia
stato illegittimamente interrotto, ai pubblici dipendenti
spetti, in deroga al principio della corrispettività della
prestazione, la ricostruzione della carriera ed il
corrispondente trattamento economico arretrato con
decorrenza dalla data della interruzione.
La cosiddetta “restitutio in integrum”
è costituita, difatti, dal lato attivo dal diritto del
dipendente di vedersi reintegrato nel pristino stato, e
quindi di percepire gli emolumenti che a lui sarebbero stati
corrisposti qualora il rapporto non avesse subito
interruzioni e, dal lato passivo, dall’obbligo
dell’Amministrazione di corrispondergli, dalla data della
interruzione, tutta la retribuzione e gli elementi accessori
di essa che dalle modalità della normativa e dalla
prestazione lavorativa risultano non esclusivamente
destinate a retribuire o comunque compensare la presenza in
servizio (cfr.
Cons. St., VI Sez., 05.11.1990 n. 944 e 24.11.1989 n. 1495),
cioè gli emolumenti e le indennità a
carattere fisso e continuativo e non anche quelle connesse
alla effettiva prestazione del servizio
(cfr. Cons. St., IV Sez., 28.01.1991 n. 49).
Ovviamente, nella liquidazione degli
stipendi arretrati, l’Amministrazione deve detrarre dalla
retribuzione e dagli assegni dovuti quanto l’impiegato abbia
percepito per eventuali attività lucrative, svolte durante
l’interruzione del rapporto di impiego sia nell’ambito di un
diverso (e contemporaneo) rapporto di impiego, che per lo
svolgimento di attività professionali
(cfr. Cons. St., IV Sez., 03.12.1990 n. 952).
Naturalmente l’Amministrazione è tenuta a provare
l’esistenza e l’ammontare di tali guadagni.
Concludendo il ricorso va accolto con
conseguente annullamento del provvedimento impugnato e con
declaratoria del diritto del ricorrente di vedersi
ricostruita la carriera e, quindi, di percepire gli
emolumenti che a lui sarebbero stati corrisposti qualora il
rapporto non avesse subito interruzioni.
Sulle somme dovute dal comune al ricorrente a titolo di “restitutio
in integrum” spettano interessi legali e svalutazione
monetaria come per legge.
Le spese ed onorari di causa, liquidati come in dispositivo,
seguono la soccombenza.
Quanto sopra deciso, il Collegio, atteso
che i fatti esposti dal ricorrente in sede di formulazione
del ricorso, supportati dalla documentazione prodotta in
giudizio e riportati in narrativa, appaiono assumere
rilevanza penale, ritiene di disporre, ai sensi dell’art.
331, comma 4, c.p.p., la trasmissione degli atti relativi
alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lucca
per le valutazioni di competenza e gli adempimento
consequenziali.
Considerato inoltre che le circostanze
dedotte in ricorso, e costituite dall’affidamento ad un
unico professionista esterno,
con una sequenza di delibere (n. 177, del 23.06.1994; n. 228
del 04.08.1994; n. 268 del 16.09.1994; n. 298 del 14.10.1994
e n. 318 del 03.11.1994), di funzioni di progettazione e
direzione tecnica di opere pubbliche, stanziandosi, a titolo
di competenze professionali una somma di circa £.
200.000.000 (affidamento che sarebbe stato “giustificato”
dalla giunta comunale “affermando falsamente la vacanza
del posto di dirigente tecnico”) e dalla effettuata
falsificazione della firma del ricorrente “su tre atti
amministrativi della serie procedimentale che aveva condotto
il comune di Stazzema ad acquisire un contributo di un
miliardo e trecento milioni dal Ministero dell’Interno”
appaiono, unitamente all’esborso di danaro
che l’Amministrazione è tenuta a corrispondere al
ricorrente, in seguito all’accoglimento della relativa
domanda, configurare ipotesi di danno erariale, il Collegio
ritiene di trasmettere gli atti anche alla Procura Regionale
della Corte dei Conti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana,
Sezione II, definitivamente pronunciando sul ricorso in
epigrafe, lo accoglie e per l’effetto annulla la delibera
impugnata con contestuale declaratoria del diritto del
ricorrente a vedersi ricostruita la carriera e, quindi, ai
percepire gli emolumento che gli sarebbero stati corrisposti
qualora il rapporto non avesse subito interruzione. Sulle
somme dovute dal comune al ricorrente spettano interessi
legali e svalutazione monetaria, come per legge.
Condanna il comune al pagamento delle spese ed onorari di
causa liquidati in complessivi €. 3.000,00 (tremila/00)
oltre accessori di legge.
Dispone la trasmissione degli atti sia alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lucca, che
alla Procura Regionale della Corte dei Conti per quanto di
rispettiva competenza.
---------------
MASSIMA
(Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 16.03.2016 n. 1064)
6.- L’appello è infondato.
6.1- Con la prima censura l'appellante Comune deduce
l’erroneità della sentenza appellata per violazione degli
art. 25 de1 D.P.R. n. 347/1983, nonché artt. 33, 35 e 36
della L. 142/1990 e contesta l'individuazione del capo
dell'amministrazione nel Sindaco e non nella Giunta
comunale, richiamando a sostegno sia lo statuto del Comune
di Stazzema che l'art. 35, comma 2, della L. 142/1990,
secondo cui la giunta è l’organo avente una competenza di
carattere generale e quindi l'espressione "capo
dell'Amministrazione" di cui all'art. 25 del D.P.R. n.
347/1983 non sarebbe riferibile al Sindaco, ma alla Giunta
municipale, di cui peraltro fa parte anche il Sindaco.
Tale prospettazione non può essere condivisa.
In proposito si osserva che il Collegio si è pronunciato su
un’analoga controversia (Cons. St. sez. V, n. 5175/2003),
nella quale il giudice di primo grado (TAR Marche n.
284/1996) aveva respinto il ricorso proposto
dall’interessato, accogliendo l’appello e pervenendo alle
stesse conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado
nel presente giudizio.
Infatti la statuizione dell'art. 25, comma
5, del D.P.R. n. 347/1983 sancisce che "Nel caso di
giudizio sfavorevole il periodo di prova è prorogato di
altri sei mesi, al termine dei quali, ove il giudizio sia
ancora sfavorevole, il capo dell'amministrazione dichiara la
risoluzione del rapporto di impiego con provvedimento
motivato" ed anche il successivo comma sesto dello
stesso articolo ribadisce il riferimento al “capo
dell'amministrazione”, organo competente in ordine alla
risoluzione del rapporto di impiego.
D’altronde il D.P.R. 25.06.1983 n. 347, in cui è incluso il
suddetto art. 25, ha ad oggetto la disciplina prevista
dall'accordo del 29.04.1983 per il personale dipendente
dagli enti locali, la nomina in prova e la nomina in ruolo,
previo giudizio favorevole, nonché la proroga del periodo di
prova per altri 6 mesi e la risoluzione del rapporto di
impiego del dipendente dell'ente locale.
La competenza sindacale in subiecta
materia trova ulteriore conferma nella legge 08.06.1990,
n. 142, sull'ordinamento delle autonomie locali, che
individua nel Sindaco l'organo monocratico del Comune che,
al contempo, svolge le funzioni di capo dell'amministrazione
comunale e di ufficiale di governo ed anche nella vigenza
del d.p.r. n. 333/1990, avente ad oggetto il “regolamento
per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina
prevista dall'accordo del 23.12.1989 concernente il
personale del comparto delle regioni e degli enti pubblici
non economici da esse dipendenti, dei comuni, delle
province, delle comunità montane, loro consorzi o
associazioni, di cui all'art. 4, D.P.R. 05.03.1986, n. 68".
L’art. 50, "norma finale di rinvio", del suddetto
decreto n. 333 ribadisce espressamente che: "restano
confermate ed approvate anche per il periodo antecedente,
ove non modificate o sostituite dal presente regolamento, le
disposizioni di cui ai decreti del Presidente della
Repubblica 25.06.1983, n. 347, 31.05.1984, n. 665,
13.05.1987, n. 268, e 17.09.1987, n. 494".
Nella fattispecie in esame, deve ritenersi
pertanto illegittimo, per vizio di incompetenza, il
provvedimento di dispensa dal servizio per esito negativo
del periodo di prova, adottato dalla Giunta municipale e non
dal Capo dell'Amministrazione, che, contrariamente
all’assunto di parte appellante, è indubitabilmente il
Sindaco in base alle summenzionate statuizioni normative di
univoco contenuto. |
ENTI LOCALI:
Governo. Bilanci, no a ulteriori proroghe.
Nessun ulteriore rinvio per i bilanci dei comuni, che quindi
dovranno essere approvati entro il 30 aprile. Al momento,
pare essere questo l'orientamento del Governo, anche se da
ambienti parlamentari continuano a filtrare voci di una
nuova proroga.
È quanto emerso nel corso di un seminario organizzato
giovedì scorso dall'Ifel per chiarire i tanti punti oscuri
del riparto del fondo di solidarietà comunale.
È stata anche
l'occasione per fare il punto sui prossimi adempimenti
contabili richiesti ai municipi, che entro fine mese
dovranno varare anche il rendiconto 2015, oltre al
preventivo 2016-2018. Per quest'ultimo, come sempre, rimane
aperta la possibilità di sforare fino al 20 maggio, mentre Ifel raccomanda di rispettare rigorosamente la
dead-line per
le deliberazioni sui tributi, in modo da evitare la replica
del pasticcio verificatori nel 2015, allorché molti comuni
arrivarono fuori tempo massimo con conseguente caducazione
dei provvedimenti adottati tardivamente. Peraltro, nel 2016
la leva fiscale è bloccata verso l'alto, tranne che per la
Tari e poche altre fattispecie.
Sui numeri da iscrivere, Ifel ha insistito soprattutto sulla necessità di tenere
conto del recupero Imu derivante dall'abbassamento della
quota di alimentazione del fondo. Operativamente, occorre
sommare l'importo indicato nella voce A3 del prospetto
ministeriale alla previsione Imu già nettizzata del gettito
che non verrà più incassato per effetto delle misure di
detassazione introdotte dall'ultima legge di stabilità,
gettito che viene rimborsato dalla quota di fondo indicata
nella casella C5.
Riguardo a tale aspetto, Ifel ha
tranquillizzato rispetto i diversi comuni che lamentano un
ristoro non completo della perdita (ItaliaOggi del
05/04/2016), evidenziando che i problemi dovrebbero essere
risolti nel giro di due o tre mesi grazie ai 75 milioni
accantonati e non ancora distribuiti. In ogni caso,
eventuali scostamenti rilevanti fra le stime utilizzate nel
riparto e quelle dei singoli enti possono essere segnalati
al ministero dell'interno, al Mef e allo stesso Ifel con
nota motivata
(articolo ItaliaOggi del 09.04.2016). |
APPALTI:
Province, 47 stazioni uniche.
Sono 47 le stazioni uniche appaltanti delle province già
operative e a tutti gli effetti funzionanti, a cui sono
aggregati 1.035 comuni.
Questo il dato che emerge dal un report sullo stato di
attuazione della stazione unica appaltante nei 76 enti di
area vasta riformati dalla legge 56/2014, che l'Upi ha
consegnato all'Anac, l'authority anticorruzione, e ha
inviato al governo.
Si tratta, si legge in una nota, di
strutture stabili e organizzate per le esigenze specifiche,
quali la progettazione tecnica, di cui gli enti di area
vasta sono dotati; uffici che nel 65% dei casi hanno
definito una modulistica standard e unitaria a garanzia
della trasparenza e della massima efficienza e che stanno
sperimentando, attraverso il sostegno di Upi, la
condivisione di esperienze e know how.
L'Anac, tramite un
comunicato, ha reso noto di aver registrato positivamente la
volontà dell'Upi di contribuire attivamente agli obiettivi
di riduzione e qualificazione delle stazioni che la nuova
disciplina dei contatti pubblici sta perseguendo
(articolo ItaliaOggi del 09.04.2016). |
APPALTI:
Appalti, ridimensionato il massimo ribasso.
Opere pubbliche. Nel parere delle commissioni
parlamentari la richiesta di limitarlo alle commesse
inferiori ai 150mila euro.
Dire addio al
massimo ribasso. Relegando la possibilità di assegnare le
commesse tenendo conto solo del prezzo ai microappalti sotto
i 150mila euro.
Tra le decine di correzioni richieste dal Parlamento al
codice degli appalti
(Schema di decreto
legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare), in un parere gemello approvato ieri
dalle commissioni di Camera e Senato, è questa la scelta che
farà più discutere, saldando le posizioni contrarie messe
nero su bianco nei pareri di Regioni e Comuni, con quelle
dei costruttori che già ieri hanno già fatto sapere di
«essere molto preoccupati» per gli effetti negativi sui
tempi di assegnazione degli appalti e dunque sul passaggio
dai progetti al cantiere.
«Mi immagino un piccolo comune
costretto ad assegnare appalti di importo risibile con
l'offerta più vantaggiosa (prezzo più aspetti tecnici del
progetto, ndr) -dice il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis- significa ritardare l’aggiudicazione di 8-12 mesi
in un momento in cui abbiamo invece bisogno di accelerare la
spesa».
Critiche dai costruttori arrivano anche sull’obbligo
di assegnare con gare formali anche le opere di
urbanizzazione secondaria (scuole e altri edifici pubblici).
«Questo vuol dire che avremo le case, ma non i servizi di
quartiere», sintetizza De Albertis che parla di un settore
«in fibrillazione» anche per l’apertura di una falla nel
delicato compromesso (80% in gara, 20% in house) sugli
appalti dei concessionari.
Incassato il parere del Parlamento ora il decreto punta
dritto verso la Gazzetta Ufficiale. L’obiettivo del governo
è centrare il traguardo dell’entrata in vigore entro il 18
aprile, data di scadenza per il recepimento delle nuove
direttive Ue su appalti e concessioni. Prima serve però un
nuovo passaggio in Consiglio dei ministri, per adeguare il
provvedimento ai rilievi del Parlamento, oltre alla
bollinatura della Ragioneria e alla firma del capo dello
Stato.
Tra le principali richieste spicca quella di esplicitare il
divieto di nuove proroghe per le concessioni autostradali,
la stabilizzazione dell’anticipazione del 20% del prezzo per
i vincitori di cantieri pubblici (misura che scade il 31.07.2016) insieme al tetto al 30% per i subappalti, alla
riduzione delle deroghe per le emergenze di protezione
civile e alla stretta sulla trasparenza dei piccoli lavori
(gara a procedura ristretta tra 150mila e un milione di
euro).
Su questo fronte è arrivata anche un’obiezione
relativa agli appalti della Rai, che in base alla riforma
varata a fine 2015 possono sfuggire ai paletti imposti dal
codice se inferiori all’importo di 5,2 milioni. Qui la
richiesta è di tornare sotto l’ombrello del codice,
prevedendo procedure a evidenza pubblica. Allo stesso modo
si chiede di inserire tra le attività soggette alle norme
sugli appalti pubblici anche le operazioni legate
all’estrazione e alla produzione di petrolio.
«Finalmente abbiamo un Codice degli appalti che dà tutti gli
strumenti contro la corruzione e lo spreco di denaro e che
ci fa stare in Europa», ha detto il relatore in Senato
Stefano Esposito, che ha lavorato duramente alla riforma.
Mentre i presidenti delle due commissioni parlamentari
Ermete Realacci (Camera) e Altero Matteoli (Senato), in una
nota congiunta sottolineano il «superamento della legge
obiettivo», «l’archiviazione delle varianti», l’introduzione
del débat public, il ruolo dell’Anac e il ritorno alla
«centralità della progettazione» tra i «punti salienti» della
riforma (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza, corsi online. Formazione anche in
modalità e-learning. Un interpello
chiarisce i requisiti per l'utilizzo di strumenti
tecnologici.
Formazione sulla sicurezza online. Infatti, anche la
formazione specifica ai lavoratori, prevista a carico dei
datori di lavoro dal T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008), può
essere erogata in modalità e-learning nel caso di progetti
formativi sperimentali previsti da regioni e province
autonome.
Lo precisa, tra l'altro, la commissione per gli interpelli
sulla sicurezza nell'interpello
21.03.2016 n. 4/2016 con cui ha risposto a
un quesito in merito di Assobiomedica.
La formazione dei lavoratori.
La formazione dei lavoratori è
un compito/obbligo previsto a carico dei datori di lavoro.
L'art. 37, comma 1, del dlgs n. 81/2008 (il T.u. sicurezza),
prevede che «il datore di lavoro assicura che ciascun
lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in
materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle
conoscenze linguistiche, con particolare riferimento ai ( )
rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle
conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione
caratteristici del settore o comparto di appartenenza
dell'azienda».
In via di principio, la formazione dei
lavoratori si distingue in: formazione generale (durata di 4
ore minimo) e formazione specifica (durata dipendente dal
grado di rischio aziendale: 4, 8 o 12 ore). L'accordo Stato-Regioni n. 221 del 21.12.2011 disciplina, «ai sensi
dell'articolo 37, comma 2, del dlgs 09.04.2008 n. 81, e
successive modifiche e integrazioni, la durata, i contenuti
minimi e le modalità della formazione, nonché
dell'aggiornamento, dei lavoratori e delle lavoratrici come
definiti all'art. 2, comma 1, lett. a, dei preposti e
dirigenti, nonché la formazione facoltativa dei soggetti di
cui all'art. 21, comma 1, del medesimo dlgs n. 81/2008».
Tra
l'altro, il punto 3 dell'accordo prevede la possibilità di
erogare, nei casi ivi previsti, la formazione in modalità
e-learning sulla base dei criteri e delle condizioni di cui
all'Allegato I.
Sì alla formazione online.
L'accordo Stato-Regioni del 21.12.2011, spiega la
commissione, stabilisce chiaramente al punto 3 che «sulla
base dei criteri e delle condizioni di cui all'Allegato I
l'utilizzo delle modalità di apprendimento e-learning è
consentito per la formazione generale dei lavoratori; ( )».
Pertanto, aggiunge la commissione, «la formazione
specifica dei lavoratori non può essere erogata in modalità
e-learning salvo nel caso di progetti formativi
sperimentali, eventualmente individuati da regioni e
province autonome nei loro atti di recepimento del presente
accordo, che prevedano l'utilizzo delle modalità di
apprendimento e-learning anche per la formazione specifica
dei lavoratori e dei preposti»
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Cantieri. Pos redatto prima dei lavori.
Il Pos (piano operativo di sicurezza) va sempre redatto
prima dell'inizio dei lavori, anche nel caso di imprese di
nuova costituzione, non essendo applicabile la deroga di 90
giorni prevista invece per la redazione del Dvr (Documento
valutazione rischi).
Lo stabilisce la commissione per gli interpelli sulla
sicurezza nell'interpello
21.03.2016 n. 3/2016
in risposta a un quesito
della Federazione sindacale italiana dei tecnici e
coordinatori della sicurezza in merito alle modalità con cui
deve essere redatto il Piano operativo di sicurezza (Pos) da
parte delle imprese di nuova costituzione alla luce di
quanto previsto dall'art. 28, comma 3-bis, del dlgs n.
81/2008 (il T.u. sicurezza) che consente, a tali imprese, la
possibilità di fare immediatamente la valutazione dei rischi
e di elaborare, però, il relativo documento (Dvr) entro 90
giorni dalla data d'inizio dell'attività.
In sostanza, è
stato chiesto se il principio del citato art. 28, comma
3-bis, circa la possibilità di posticipare la redazione del Dvr, possa ritenersi applicabile anche al Pos. La risposta
della commissione è negativa. Spiega, infatti, che il
principio enunciato dall'art. 28, comma 3-bis citato, non è
applicabile al Pos per due ragioni: la prima è perché non
espressamente previsto dalla legge; seconda perché la sua
mancata redazione, prima dell'inizio dei lavori, impedirebbe
al coordinatore per l'esecuzione di verificarne «l'idoneità
del piano operativo di sicurezza, da considerare come piano
complementare di dettaglio del piano di sicurezza e
coordinamento di cui all'articolo 100, assicurandone la
coerenza con quest'ultimo» (art. 92, comma 1, lett. b),
obbligo sanzionato penalmente.
Infine, la commissione evidenzia che, in caso di
costituzione di nuova impresa, la citata norma (art. 28,
comma 3-bis) obbliga comunque il datore di lavoro a
effettuare immediatamente la valutazione dei rischi e a dare
«immediata evidenza, attraverso idonea documentazione,
dell'adempimento degli obblighi di cui al co. 2, lett. b),
c), d), e), e f) e al comma 3 e immediata comunicazione al
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza»
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Segretari comunali fantasma. Sparisce l'area
contrattuale. Province ancora in vita.
PUBBLICO IMPIEGO/ Le novità per gli enti locali
nell'accordo che riduce i comparti.
Firmato tra Aran e sindacati l'accordo che riduce i comparti
del pubblico impiego a quattro, prende forma il primo
tassello della riforma del lavoro pubblico, a 7 anni di
distanza dalla sua prima previsione contenuta nel dlgs
150/2009, la «legge Brunetta».
I comparti previsti (si veda ItaliaOggi del 6 aprile scorso) saranno quello delle
Funzioni centrali, quello delle Funzioni locali, quello
della Sanità e quello de Istruzione e ricerca. Se sul piano
formale l'accordo siglato produce l'effetto innovativo
voluto, riducendo da 12 a 4 i comparti, sul piano
sostanziale, specie nel periodo transitorio, le novità reali
appaiono, però, poche.
Segretari comunali.
A ben vedere, l'innovazione principale coinvolge la
categoria dei segretari comunali e provinciali. L'accordo
quadro, infatti, anticipa gli effetti dell'abolizione della
figura, tanto che sparisce la specifica area contrattuale,
fino ad oggi presente nel comparto regioni-enti locali.
L'articolo 7, comma 3, dell'accordo prevede, infatti, che
l'area delle Funzioni locali comprende tutti i dirigenti
delle amministrazioni del comparto (elencate nell'articolo
4), i dirigenti amministrativi, tecnici e professionali
delle amministrazioni del comparto Sanità nonché, appunto, i
segretari comunali, come conseguenza dell'abolizione della
figura, disposta dall'articolo 11 della legge 124/2015.
Quindi, diviene già una realtà la confluenza dei segretari
comunali e provinciali nell'area contrattuale della
dirigenza locale. E assumono concretezza i rilievi espressi
a suo tempo dalla Corte dei conti sulla riforma-Madia,
perché non appare chiaro quali possano essere le conseguenze
finanziarie di questa scelta, visto che la retribuzione
media dei segretari è più bassa, al netto degli incrementi
consentiti dal contratto d'area, in base al
«galleggiamento».
Province highlander.
A confermare la sensazione che il contratto quadro,
comunque, innovi poco è anche un dettaglio: l'elencazione
delle amministrazioni dell'area Funzioni locali appare
scaturire da incertezza ed imbarazzo nel definirle.
Infatti,
l'articolo 4 elenca città metropolitane ed enti di area
vasta, ma vi aggiunge anche i liberi consorzi comunali
(confuso ente locale sovra comunale disciplinato dalla legge
regionale siciliana 15/2015) e, tanto per non sbagliare,
anche le «province». Che, sull'orlo del dissesto,
dissanguate di risorse e personale potranno vantarsi di
continuare ad avere un'area contrattuale tutta per loro.
Regime transitorio.
L'articolo 8 dell'intesa è un primo fulcro dell'innovazione
più apparente che concreta operata.
Infatti, si demanda alla contrattazione collettiva nazionale
di lavoro di scomporsi in due parti. Una definita «comune»
riguarderà gli istituti applicabili ai lavoratori di tutte
le amministrazioni afferenti al comparto o all'area.
I Ccnl potranno, inoltre, essere composti da «eventuali
parti speciali o sezioni», cui l'intesa demanda il compito
di regolare «peculiari aspetti del rapporto di lavoro che
non siano pienamente o immediatamente uniformabili o che
necessitino di una distinta disciplina». Come dire, insomma,
che i quattro comparti previsti, a meglio vedere altro non
saranno, specie nel periodo di prima applicazione, dei
contenitori di discipline speciali e particolari, o anche di
«specifiche professionalità», che potranno essere anche nel
nuovo contesto oggetto di regolamentazione peculiare.
Per quanto riguarda il comparto enti locali, potrebbero non
essere necessarie molte parti speciali o sezioni, anche se è
facile immaginare che i segretari comunali ambiranno ad una
disciplina professionale specifica. In generale per tutta la
dirigenza inquadrata nel ruolo unico, la potenziale
«girandola» degli incarichi innescata dalla legge 124/2015
metterà certamente a dura prova la funzionalità del sistema.
Rappresentatività sindacale.
L'altro elemento di conservazione o, quanto meno,
«prudenza», riguarda la rappresentatività sindacale
all'interno dei comparti. Infatti, si prevede una fase
transitoria per tenere vivi gli effetti delle ultime
elezioni delle Rsu, pur restando ferma la soglia del 5% di
deleghe e voti.
In ogni caso, si vuol dare tempo e modo alle sigle sindacali
più piccole di fondersi, affiliarsi o scegliere altre forme
aggregative, per conservare le deleghe e, quindi, il «peso»
nella contrattazione
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi dirigenziali, indisponibilità anche
negli enti. L'applicazione delle
disposizioni contenute nella legge di stabilità 2016.
Da un po' di tempo a questa parte si è acceso il dibattito
sulla portata delle disposizioni limitative di cui all'art.
1, comma 219, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di
Stabilità per l'anno 2016), tra coloro che le ritengono precettive per tutte le amministrazioni pubbliche e coloro
che, Anci in testa, le considerano, viceversa, limitate alle
amministrazioni centrali e dintorni, non estensibili,
pertanto, alle amministrazioni locali ed alle regioni.
Le
prescrizioni legislative sono state introdotte dal
richiamato comma 219 e dispongono che sono resi
indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia
delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma
2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, come
rideterminati in applicazione dell'articolo 2 del
decreto-legge 06.07.2012, n. 95, vacanti alla data del 15.10.2015 e che gli incarichi conferiti a copertura di
tali posti dirigenziali nel periodo intercorrente dal
predetto termine del 15 ottobre e fino alla data di entrata
in vigore della legge di stabilità (01/01/2016), cessano, di
diritto, alla medesima data, con risoluzione dei relativi
contratti di lavoro.
Sono fatti salvi i casi per i quali
alla data del 15.10.2015, sia stato avviato il
procedimento per il conferimento dell'incarico dirigenziale
e, anche dopo la data di entrata in vigore della legge n.
208/2015, quelli, comunque, conferiti a dirigenti assunti
per concorso pubblico bandito prima della data di entrata in
vigore della ripetuta legge di Stabilità. Un primo punto
attiene al richiamo che la disposizione formalmente opera
alle posizioni dirigenziali di prima e seconda fascia, ciò
che, a sostegno della tesi esclusiva, deporrebbe per la sola
applicabilità agli enti centrali delle prescrizioni
normative qui esaminate.
In realtà, per contro, non pare
proprio che tale specifico richiamo sia risolutivo ai
predetti fini, in quanto il riferimento sembra avere più
natura specificativa che limitativa dei ruoli dirigenziali
coinvolti dagli effetti interdittivi, natura, quindi, che
non esclude espressamente il coinvolgimento dei ruoli
dirigenziali presenti negli enti il cui ordinamento non
preveda tale specifica dicotomia.
D'altra parte, viceversa,
dirimente risulta il successivo ed esplicito richiamo alle
amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001, prescrizione che, ad ogni evidenza, intende
picchettare i margini attuativi della norma, ricomprendendo
tutte le amministrazioni collocabili nel novero indicato
dalla disciplina generale del lavoro pubblico, tra le quali
le amministrazioni locali e regionali.
Si sostiene, ancora,
che l'espresso richiamo operato dalla norma alla
rideterminazione dei ruoli dirigenziali realizzato ai sensi
dell'art. 2 del dl 95/2012 (c.d. «spending review»), appaia
sintomatico della sua portata limitativa alle sole
amministrazioni centrali, attesa la specifica destinazione
di tale prescrizione normativa. Anche tale osservazione,
tuttavia, non pare cogliere nel segno, in quanto la predetta
disposizione risulta, nella sua articolazione, evidentemente
destinata anche alle amministrazioni locali, atteso che il
comma 8 del citato art. 2, pur con disposizione di rinvio,
regola la ridefinizione dei ruoli dirigenziali che, ai sensi
dell'art. 16, comma 8, dello stesso dl 95/2012, sarebbe
dovuta avvenire con dpcm, da emanarsi entro il 31.12.2012.
Ancora, poi, si afferma la possibilità di disporre dei
posti dirigenziali in questione presso le amministrazioni
locali in conseguenza del fatto per cui il comma 228 della
ridetta legge di stabilità, nel disciplinare le facoltà assunzionali dei predetti enti, statuisce che tali
amministrazioni possano procedere, per gli anni 2016, 2017 e
2018, ad assunzioni di personale a tempo indeterminato di
qualifica non dirigenziale nel limite di un contingente di
personale corrispondente, per ciascuno dei predetti anni, ad
una spesa pari al 25% di quella relativa al medesimo
personale cessato nell'anno precedente, laddove l'affermata
esclusione delle assunzioni di personale di qualifica
dirigenziale equivarrebbe a sostenere che le stesse siano
rimaste regolate dalle disposizioni permissive di cui
all'art. 3, comma 5, del dl n. 90/2014.
Anche tale
valutazione, tuttavia, non convince, atteso che detta
esclusione pare maggiormente coerente con le disposizioni impeditive introdotte dal precedente comma 219 della legge
di Stabilità, piuttosto che funzionale a limitare le sole
assunzioni di personale non dirigenziale escludendo, da tali
limitazioni, proprio i ruoli dirigenziali i cui incarichi
sono, di fatto, bloccati dalle disposizioni della legge n.
208/2015.
È da ritenere, infatti, che il sistema normativo
oggi introdotto sia integralmente sostitutivo del precedente
assetto regolativo delle assunzioni di personale presso le
amministrazioni locali e regionali, di talché le precedenti
disposizioni legislative, in particolare l'assetto
limitativo di cui all'art. 3, comma 5, del dl n. 90/2014,
siano da ritenersi implicitamente abrogate dall'occupazione
organica della materia in questione, tant'è vero che il
legislatore, laddove abbia inteso mantenerne la vigenza, ha
dovuto espressamente richiamarne l'applicazione per
disciplinare effetti particolari di tali disposizioni, come
si evidenzia dal chiaro disposto del comma in questione
(comma 228), nella parte in cui (secondo periodo) consente
ancora l'applicazione delle statuizioni migliorative recate
dal vecchio impianto legislativo al solo e limitato fine di
consentire il ricollocamento del personale in esubero
proveniente dagli enti di area vasta.
Da tali
considerazioni, pertanto, può fondatamente concludersi per
un'applicazione delle norme limitative di che trattasi
estesa, per sua natura e per naturale portata, a tutte le
amministrazioni pubbliche ricomprese nell'espressa
qualificazione fornita dall'art. 1, comma 2, del dlgs n.
165/2001, ivi compresi, dunque, regioni ed enti locali
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016). |
APPALTI:
Riforma appalti entro il 18 aprile. Chieste
modifiche su affidamenti, cauzioni e Bim.
I pareri delle commissioni di camera e senato sul
decreto delegato relativo al nuovo codice.
Limite del 30% sul subappalto; elenco speciale dei
commissari per le grandi stazioni appaltanti; meno
trattative private e più concorrenza sotto soglia; niente
cauzioni per i progettisti; prezzo più basso vietato oltre i
150 mila euro.
Sono queste alcune delle proposte principali contenute nei
pareri, sostanzialmente allineati, delle commissioni lavori
pubblici del senato e ambiente, territorio e lavori pubblici
della camera sullo schema di decreto delegato che contiene
il nuovo codice dei contratti pubblici approvati ieri (Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Adesso il testo dovrà essere rivisto dal governo e
necessariamente approvato entro il 18 aprile. Le commissioni
preliminarmente danno atto «dell'approfondito e articolato
parere espresso dal Consiglio di stato, di cui si
condividono in larga parte i contenuti e i rilievi espressi»
ed evidenziano numerosi punti, sui singoli articoli,
rispetto ai quali chiedono modifiche.
Per le opere di urbanizzazione a scomputo i pareri chiedono
che si presenti un progetto definitivo e non il progetto di
fattibilità. Per gli affidamenti di incarichi di
progettazione la procedura negoziata senza bando con inviti
a cinque si propone di renderla applicabile da 40 mila a 100
mila euro come è oggi e non, come nella bozza di decreto,
fino ai 209 mila euro della soglia Ue.
Per gli altri
contratti sotto soglia (lavori, forniture e servizi, diversi
da quelli tecnici) si definisce una prima soglia (40
mila-150 mila) nella quale si procede con procedura
negoziata e invito a cinque i soggetti; da 150 mila a un
milione si utilizza la procedura ristretta con almeno 10
invitati, oltre 1 milione si andrà all'affidamento con la
procedura aperta. Viene imposto alle stazioni appaltanti di
applicare sempre il cosiddetto «d.m. parametri» per calcolare
l'importo a base di gara delle procedure di affidamento di
incarichi di progettazione altri servizi tecnici. Si rendono
obbligatorie le «clausole sociali» negli appalti ad alta
intensità di manodopera.
Per quel che riguarda l'utilizzo delle metodologie Bim
(Building information modelling), potrà essere richiesto
soltanto dalle stazioni appaltanti dotate di personale
adeguatamente formato nel tempo mediante specifici corsi di
formazione. Sarà invece un'apposita commissione ministeriale
da costituire entro luglio prossimo a definire «le modalità
e i tempi di progressiva introduzione dell'obbligatorietà
dei suddetti metodi presso le stazioni appaltanti». Per i
progettisti si propone l'eliminazione della cauzione
provvisoria e definitiva.
Per la disciplina delle
commissioni giudicatrici si crea una eccezione all'albo
generale gestito dall'Anac per le centrali di committenza,
per Consip e per Invitalia che potranno scegliere i
commissari attingendo a un elenco speciale di esperti o
utilizzando anche propri esperti o, in ultima analisi,
ricorrendo all'albo gestito dall'Anac. I pareri propongono
che le commissioni interne siano ammesse soltanto fino a 150
mila euro e non fino alla soglia Ue (come oggi previsto
nella bozza di decreto.)
Per i criteri di aggiudicazione si conferma che al di sopra
dei 150 mila euro (su questo il parere del senato è
drastico) non si potrà utilizzare il criterio del prezzo più
basso. Non si comprende però come si aggiudicheranno i
lavori sulla base di un progetto esecutivo, con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa e in particolare
quali potranno essere gli elementi di valutazione di natura
qualitativa che accompagneranno la valutazione economica
(prezzo); forse le linee guida Anac aiuteranno a risolvere
il dilemma.
Per il subappalto in tutti i contratti di
lavori, servizi o forniture esisterà la soglia-limite del
30% «dell'importo complessivo del contratto». Soddisfazione
è stata espressa dalla Cna
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Agenti
di polizia locale fuori dai seggi elettorali.
Quest'anno non si vedranno agenti di polizia locale
impiegati nei servizi di vigilanza fissa ai seggi. Spetterà
solo alle forze di polizia dello stato occuparsi di queste
attività e ricevere di conseguenza la relativa indennità.
Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, con
la nota 05.04.2016 n. 555/0001040/2016 di prot.
diramata a tutte le prefetture.
L'ordine è tassativo. I dispositivi di sicurezza e vigilanza
ai seggi quest'anno dovranno essere pianificati attraverso
l'impiego del solo personale delle forze di polizia di cui
alla legge 121/1981. Dunque niente vigili urbani a
presidiare le sezioni elettorali. Solo carabinieri e
poliziotti veri.
Le ragioni del divieto non sono chiare.
Probabilmente si tratta di una scelta tecnica che impedisce
di dirottare gli emolumenti verso la polizia locale. Non
sono mancate le immediate reazioni dei sindacati. Il Sulpm,
con una nota urgente, ha scritto al Presidente del
Consiglio, evidenziando l'ennesimo attacco ai vigili. Una
decisione, specifica la lettera del 6 aprile, «che non
solo è incomprensibile ai fini della sicurezza dei seggi, ma
che spezza quel modello di collaborazione da sempre esistito
tra forze di polizia ad ordinamento statale e locale».
In buona sostanza a parere del sindacato autonomo si
preferiscono aumentare le distanze piuttosto che favorire le
sinergie e le professionalità. In effetti alla polizia
municipale sono state tolte attribuzioni e prerogative a
partire soprattutto dal governo Monti, che ha abolito l'equo
indennizzo.
In pratica si richiede a dei semplici impiegati comunali di
girare armati, svolgere servizi particolari, affrontare
trattamenti sanitari obbligatori e occuparsi di gravi
omicidi stradali senza nessuna garanzia di legge e
preparazione. E senza adeguate coperture normative. La legge
di riforma della polizia municipale resta infatti un tema di
discussione per addetti ai lavori.
Ma intanto sul territorio gli operatori continuano a
svolgere attività molto delicate nonostante l'incertezza del
ruolo e delle funzioni. Ma senza possibilità di entrare
nelle cabine elettorali in occasione del prossimo
referendum. Lo vieta espressamente il Viminale
(articolo ItaliaOggi del 07.04.2016). |
ENTI
LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblico impiego, comparti ridotti a 4. Accordo
fra l’Aran e i sindacati che ora chiedono di rinnovare i
contratti - Madia: così sistema più semplice.
Per i rinnovi contrattuali dei
dipendenti pubblici la partita vera inizia ora, e la palla
ripassa al governo che dovrà elaborare una proposta con i
300 milioni di euro messi a disposizione dall’ultima
manovra, a cui si aggiungono i fondi che regioni ed enti
locali dovranno trovare da soli.
È questo il primo effetto dell’intesa raggiunta ieri notte
(e anticipata sul Sole 24 Ore di ieri) fra sindacati e Aran,
l’agenzia che rappresenta la pubblica amministrazione come
datore di lavoro, sulla riforma dei comparti, che aggrega in
quattro ambiti gli undici nei quali oggi è diviso il
pubblico impiego.
«Così il sistema contrattuale è più
semplice e innovativo per i lavoratori pubblici e per il
Paese», commenta su Twitter la ministra per la
Semplificazione e la Pa Marianna Madia; per il presidente
dell’Aran Sergio Gasparrini «la riduzione drastica del
numero dei contratti collettivi nazionali potrà favorirne la
rapida definizione, e si potrà anche provare ad utilizzare
la strumentazione, rimasta nel cassetto in questi anni, per
valutare performance e premi di produttività».
Definito il
quadro, toccherà andare nel merito dei rinnovi contrattuali,
e lì le questioni sono ancora più spinose: «Ora non ci sono
più alibi», fanno subito sapere i segretari generali di
Cgil, Cisl e Uil, Camusso, Furlan e Barbagallo, ma per i
rinnovi le risorse attuali «non bastano». Da Palazzo Vidoni,
comunque, filtra l’intenzione di convocare le organizzazioni
sindacali per una sorta di “tavolo di ascolto” sia sul
rinnovo contrattuale sia sul nuovo testo unico del pubblico
impiego: il testo rappresenta un pilastro nel secondo
capitolo dell’attuazione della riforma Madia, e ovviamente
solleva temi che si intrecciano in modo stretto con i nuovi
contratti.
La riforma che si attua oggi è quella prevista nel 2009 dal
decreto Brunetta, che per semplificare i contratti e
sfoltire la rete di sigle e prerogative sindacali fissò in
quattro il numero massimo dei comparti a partire dal
«successivo rinnovo contrattuale»: l’anno dopo, però, la
crisi di finanza pubblica spinse l’allora ministro
dell’Economia Giulio Tremonti a bloccare la contrattazione
nel pubblico impiego, con una misura poi rinnovata due volte
prima che a luglio la Corte costituzionale, con la sentenza
178/2015, imponesse di far ripartire la macchina.
Di qui il riavvio delle trattative, che dopo settimane
passate sul filo dei tecnicismi hanno prodotto una soluzione
ponte per avviare l’aggregazione dei comparti senza imporre
ricette troppo amare per essere digerite da sindacati e
dipendenti. Nel comparto delle «funzioni locali» (che oggi
si chiama «regioni ed enti locali») e in quello della sanità
non cambia in realtà quasi nulla, con l’unica precisazione
che i dirigenti sanitari del ministero della Salute
finiranno fra le «funzioni centrali» e quelli di aziende
sanitarie e ospedaliere fra le «funzioni locali», in cui
anche i segretari comunali e provinciali saranno insieme ai
dirigenti. Le novità più importanti si concentrano invece
nel «comparto dell’istruzione e della conoscenza», chiamato
a riunire i circa 100mila dipendenti dell’università (con
l’esclusione dei docenti, che in regime di diritto pubblico)
e i 20mila degli enti di ricerca al milione di persone che
lavora nella scuola, e in quello delle «funzioni centrali»,
dove confluiranno ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici
come Inps, Inail e Aci.
Scrivere regole comuni per strutture così diverse non è
impresa facile, e per questa ragione l’intesa imbocca la
strada del doppio binario contrattuale, formato da una
«parte comune riferita agli istituti applicabili ai
lavoratori di tutte le amministrazioni» del comparto e
«parti speciali o sezioni» per disciplinare «alcuni
peculiari aspetti» che non sono «pienamente e immediatamente
uniformabili».
Nell’intesa, questo secondo aspetto è
descritto come eventuale e quasi marginale, ma è probabile
che almeno all’inizio le parti comuni si occuperanno delle
regole di base del rapporto di lavoro, per esempio i
permessi, le malattie o le ferie, mentre toccherà alle parti
speciali regolare i temi più caldi anche per le buste paga.
Tra un’agenzia fiscale e un ministero, per esempio, i
livelli retributivi sono molto diversi, e regolati da
istituti costruiti spesso su misura per le singole
amministrazioni: e per far migrare questi aspetti nella
contrattazione di secondo livello ci vuol tempo.
La fusione dei comparti ha poi ricadute importanti sul
terreno sindacale perché per partecipare alle trattative, e
alla divisione di permessi e distacchi, ogni sigla deve
raggiungere il 5% nella media di voti e deleghe (si veda
l’articolo qui a fianco). Anche su questo aspetto, che ha
allungato parecchio le trattative e interessa soprattutto i
sindacati più “settoriali”, l’accordo costruisce un ponte
fra vecchio e nuovo sistema, che però non è privo di
incognite.
Dopo la firma definitiva, i sindacati avranno 30
giorni per comunicare all’Aran, con «idonea documentazione»,
l’intenzione di allearsi fra loro per rispettare i nuovi
parametri, per poi ratificare il nuovo assetto entro la fine
del 2017 (articolo Il Sole 24 Ore del
06.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Codice,
i correttivi dei progettisti. Corradino (Anac): la
centralità del progetto recuperata nelle linee guida.
Appalti. Fondazione Inarcassa: modifiche a cauzione, obbligo
dei parametri e soglie per la trattativa privata
Correggere il passaggio che impone
il versamento della cauzione a corredo dell’offerta.
Ripensare il tetto di 209mila euro per la trattativa privata
e l’utilizzo delle commissioni targate Anac solo sopra la
soglia comunitaria. Senza dimenticare la necessità di
esplicitare l’obbigo di utilizzo del Dm parametri per gli
importi a base di gara. Abbandonata l’idea di ottenere un
capitolo dedicato ai servizi di progettazione, i
professionisti puntano ad un obiettivo più realistico in
fase di redazione della versione definitiva del Codice
appalti: assestare tre o quattro correzioni mirate che, poi,
possano essere messe a sistema in fase di preparazione delle
linee guida Anac.
È quanto emerso ieri
nel corso di un incontro a porte chiuse, organizzato dalla
Fondazione Inarcassa per mettere attorno a un tavolo il
consigliere dell’Autorità anticorruzione, Michele Corradino
e i principali rappresentanti di architetti e ingegneri,
alla vigilia dell’emanazione del parere delle commissioni
parlamentari. Oggi è prevista la presentazione delle
proposte dei relatori e domani è in programma la votazione.
Proprio Corradino ha affermato l’importanza che potranno
avere le linee guida alle quali la commissione da lui
presieduta comincerà a lavorare da domani: «Potranno
recuperare l’unitarietà del sistema della progettazione». I
punti che è possibile chiarire sono soprattutto tre. «Il
primo è l’innalzamento della soglia per la trattativa
privata. Se il tetto dovesse restare così alto, possiamo
compensare con un rafforzamento della trasparenza e delle
rotazioni». Quindi, ci saranno regole molto stringenti sullo
svolgimento delle procedure negoziate. «Sulla qualificazione
pensiamo che la nostra determina aveva trovato un punto di
equilibrio che andrà difeso». In tema di fatturato si diceva
di attestarsi sul doppio del giro d’affari rispetto
all’importo dell’incarico. Ancora, «daremo indicazioni per
l’offerta economicamente più vantaggiosa, dal momento che un
appalto di progettazione non è uguale a un servizio di
mensa».
Restano, però, sul tavolo diversi problemi che, secondo i
progettisti, non possono essere risolti con le linee guida.
Michele Lapenna, tesoriere del Consiglio nazionale degli
ingegneri ne elenca qualcuno: «Bisogna esplicitare l’obbligo
di utilizzo del Dm parametri, andrà ritoccata la norma sulla
cauzione, così come le regole sul sottosoglia e sulle
commissioni giudicatrici. Servirebbe, poi, la previsione di
nuove linee guida per la progettazione». Senza dimenticare
il tema delle risorse, indicato dal presidente Cni, Armando
Zambrano: «Il Codice prevede un fondo per la sola
progettazione delle opere strategiche, ma mi chiedo come si
farà per le altre».
Approccio simile dal presidente della Fondazione Inarcassa,
Andrea Tomasi: «Con le regole sul Dm parametri torniamo al
libero arbitrio delle stazioni appaltanti. La struttura di
questo Codice non ci piace. Avremmo voluto che fosse rivisto
il vecchio approccio, dando una dignità maggiore ai servizi
di progettazione e regolando meglio il ruolo di
programmazione della Pa».
Poco coraggio c’è stato sui
concorsi, come dice il presidente del Consiglio nazionale
degli architetti, Giuseppe Cappochin: «Il testo non agisce
sul problema principale, che è la mancanza nella Pa di
strutture capaci di fare i concorsi». Infine, il presidente
di Inarcassa, Giuseppe Santoro sulla regolarità contributiva
sollecita «regole chiare e semplici per tutti» (articolo Il Sole 24 Ore del
06.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Contratti semplificati. Saranno quattro, per 2,5
mln di lavoratori. PUBBLICO IMPIEGO/
Ok all'accordo. Palazzo Chigi, norme ad hoc.
Semplificazione al via per i contratti del pubblico impiego.
Saranno 4 per 2,5 milioni di lavoratori della pa rispetto
agli attuali 11: Funzioni centrali, Funzioni locali, Sanità,
Istruzione e ricerca e i relativi comparti.
I sindacati e
l'Aran, l'agenzia governativa per la contrattazione nel
pubblico impiego, dopo una non stop di 17 ore hanno
sottoscritto l'accordo, anticipato ieri da ItaliaOggi, che
attua un pezzo della riforma Brunetta datata 2009. Un
restyling che consentirà l'omogeneizzazione della disciplina
normativa e anche economica del rapporto di lavoro, al quale
sfuggono i soli dipendenti della Presidenza del consiglio
dei ministri.
I circa 1200 travet di Palazzo Chigi
continueranno infatti a usufruire di un regime speciale,
così come previsto dall'articolo 74 del decreto legislativo
n. 150/2009, richiamato all'articolo 2 dell'intesa. Una
specificità, sul fronte economico e normativo, che rende di
fatto l'amministrazione al servizio del premier, Matteo Renzi, un comparto autonomo, il quinto.
Le operazioni di accorpamento hanno riguardato i ministeri,
gli enti pubblici non economici e, nonostante le proteste
del settore, le Agenzie delle entrate e delle dogane:
finiscono nel comparto unico delle Funzioni centrali. E la
scuola che con la ricerca, l'Afam e gli amministrativi
delle università (fuori i docenti) darà vita al
compartimento dell'istruzione e ricerca. La riduzione dei
comparti determina anche la riduzione delle aree
dirigenziali, sempre quattro. Per salvaguardare specifiche
professionalità, è previsto che a una parte comune del
contratto possano essere affiancate parti speciali.
Quanto alla rappresentatività sindacale all'interno dei
nuovi settori, ed è stata la questione più dibattuta su cui
si è rischiato di far saltare il tavolo, è prevista una fase
transitoria, che fa salve le ultime elezioni delle Rsu, ma
resta ferma la soglia del 5% di deleghe e voti. L'articolo 9
prevede che per i comparti delle Funzioni centrali e
dell'Istruzione, in cui si hanno gli accorpamenti più
sostanziosi, entro 30 giorni dalla data di sottoscrizione
dell'accordo le organizzazioni sindacali diano vita, tramite
«fusione, affiliazione o in altra forma, a una nuova
aggregazione associativa cui imputare le deleghe».
Le sigle
che intendono avvalersi di tale facoltà dovranno trasmettere
le necessarie modifiche statutarie all'Aran. La ratifica di
queste modifiche, tramite congresso, potrà però intervenire
successivamente, entro il 31.12.2017. Saranno dunque i
singoli sindacati a decidere, seppure con tempi
contingentati, l'assetto interno con sui sedersi al tavolo.
In via eccezionale, sempre per le Funzioni centrali e per
l'Istruzione, anche le sigle che non hanno optato per la
nuova aggregazione potranno «partecipare» ai rinnovi
contrattuali 2016-2018.
«Il sindacato ha fatto la sua parte, adesso tocca al governo
fare la sua, rinnovando i contratti fermi da sette anni»,
hanno commentato le sigle Cgil. «Non ci sono più alibi, ora
vogliamo un contratto pieno e soddisfacente per i
lavoratori», commenta il segretario confederale Uil, Antonio Foccillo, anche se ad oggi, dice Foccillo, «sono troppe le
incognite sia sul piano economico che su quello normativo.
Ma noi siamo pronti a trovare le soluzioni».
«Abbiamo
semplificato il meccanismo della rappresentanza senza
penalizzare le organizzazioni rappresentative che avevano
partecipato alle ultime elezioni delle Rsu», spiega il
segretario confederale della Cisl, Maurizio Bernava. Ora si
attende l'apertura del confronto sui nuovi contratti. Prima
però, hanno concordato sindacati e Aran in una nota aggiunta
in calce all'intesa, serve un accordo quadro sui modelli di
relazione sindacale nel lavoro pubblico. Obiettivo:
introdurre i meccanismi di flessibilità e decentramento già
previsti per il lavoro privato
(articolo ItaliaOggi del 06.04.2016). |
PATRIMONIO:
Obbligo di led anche sui vecchi semafori.
Sicurezza. Disciplina in vigore dal 2 febbraio per ogni caso
in cui si sostituiscono le lampadine esistenti.
Dal 2 febbraio
scorso, nei semafori non si possono più utilizzare lampadine
tradizionali: quando occorre sostituire quelle a
incandescenza guaste o esaurite vanno adottati modelli a
basso consumo, anche a led.
Lo stabilisce
l’articolo 20 della legge 221/2015, con lo scopo dichiarato
di favorire il risparmio energetico e la green economy. Ma
potrebbe anche esserci un altro effetto, negativo: semafori
meno sicuri, perché con luci meno visibili e più soggette a
malfunzionamenti. Infatti, la legge prescrive di apportare
agli impianti tutte le modifiche tecniche necessarie per
adattarli alle nuove lampadine, ma di fatto ciò è difficile
da garantire.
Questo problema era stato tra i motivi per cui tra il 2013 e
il 2014 un analogo obbligo era stato prima inserito e poi
cancellato, anche a causa dei pareri negativi espressi dagli
uffici tecnici del ministero delle Infrastrutture. Tutto era
avvenuto con emendamenti a decreti legge su materie del
tutto diverse, dando l’idea che si fosse in presenza dei
consueti blitz fatti in Parlamento su pressioni lobbistiche.
La norma entrata in vigore aggiunge un comma, l’8-bis,
all’articolo del Codice della strada che parla dei semafori
(il 41). Dispone che le sostituzioni negli impianti
esistenti devono essere effettuate con lampade a basso
consumo energetico e tra esse cita espressamente quelle a
led. Richiede in ogni caso che le lampade da installare
abbiano marchiatura Ce e «attacco normalizzato E27» (uno
standard di forma -in pratica,le lampadine che si avvitano- e dimensione) e garantiscano l’accensione istantanea (un
requisito fondamentale, da quando non pochi semafori sono
“presidiati” da sistemi automatici che rilevano le
infrazioni attivandosi proprio quando parte il segnale di
accensione del rosso, che quindi deve essere immediatamente
percepibile dai guidatori).
La norma si pone anche il problema dell’adattamento dei
semafori più vecchi alle nuove lampade. Perciò prescrive di
conservare immutata la struttura ottica esistente, ma solo
se ciò è «tecnicamente possibile»; in caso contrario, sono
ammesse modifiche. Infine, per le lampade a led, occorre
prevedere lo spegnimento automatico se si rompe anche un
solo elemento sulle centinaia che le compongono, in modo da
«garantire l’uniformità del segnale luminoso».
Dunque, requisiti piuttosto stringenti. Che probabilmente
metteranno fuori gioco molti semafori appena ci sarà da
cambiare la prima lampadina, se non altro perché non tutti
hanno gli attacchi E27: ce ne sono anche del tipo “a
baionetta”. Diventerà quindi necessario sostituire
urgentemente interi impianti semaforici e non è detto che
gli enti proprietari abbiano immediatamente in cassa i soldi
necessari e riescano a espletare subito tutte le procedure
necessarie per affidare i lavori. Così si rischia che alcuni
incroci restino senza regolazione per settimane o mesi.
Inoltre, la severità dei requisiti non impedisce che il
“trapianto” delle nuove lampadine sui vecchi semafori sia
esente da rischi di “rigetto”. Innanzitutto, va verificata
la compatibilità elettromagnetica, per evitare che col nuovo
abbinamento si creino correnti e campi in grado di provocare
malfunzionamenti. Poi, visto che si parla di impianti
installati all’aperto in mezzo al traffico, bisogna essere
sicuri che resti immutata la resistenza a umidità e
vibrazioni. Infine, va considerata la sicurezza per software
e hardware di gestione dei semafori (ci sono norme europee
armonizzate che hanno assunto valore di legge, come le En
50556 e 12675), che non sono adattabili a qualsiasi
lampadina.
Il nuovo comma 8-bis non considera tutto questo: si limita a
prescrivere la conservazione dell’impianto originario quando
«tecnicamente possibile», ma lo fa solo per la struttura
ottica. Quindi si occupa esclusivamente del problema che
nasce dal fatto che le lampadine a incandescenza emettono
luce calda, quelle a led luce fredda, per cui le lenti
colorate vanno cambiate per mantenere la colorazione
originaria.
In mancanza di prescrizioni sugli altri problemi, alcuni
costruttori di semafori stanno valutando se inviare agli
enti proprietari di strade comunicazioni in cui declinano
ogni responsabilità (articolo Il Sole 24 Ore del
05.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Regolamento edilizio unico, città ancora in
ordine sparso. Tra un Comune e un altro spesso mutano anche
le definizioni.
Urbanistica. Ampie differenze nelle nozioni di superficie,
volume e distanze.
Tutti i Comuni dovranno adeguare i
propri regolamenti edilizi alle definizioni che troveranno
posto nel nuovo regolamento edilizio tipo; per alcuni sarà
più semplice, per altri più complicato. Dipende dalla
“distanza” che separa l’attuale regolamento edilizio del
singolo Comune dalla bozza di regolamento unico già diffusa.
L’articolo 17-bis del decreto legge 133/2014 (il cosiddetto
Sblocca Italia) ha previsto che Governo, Regioni e Autonomie
locali elaborino un testo standard, per mettere fine alla
babele dei regolamenti edilizi diversi uno dall’altro,
vigenti negli oltre 8mila Comuni.
La sua approvazione è un tassello del più grande mosaico
dell’agenda per semplificazione per il triennio 2015-2017,
che punta molto anche sull’unificazione delle diverse
procedure in campo edilizio. L’approvazione del regolamento
tipo è in ritardo sul calendario dell’agenda: il via libera
ai Comuni doveva essere dato entro lo scorso mese di
novembre.
Al momento una prima serie di definizioni è già
stata messa a punto e approvata nel tavolo tecnico a cui
partecipano, oltre al dipartimento della Funzione pubblica
anche il ministero Infrastrutture e tutte le Autonomie. La
versione finale del regolamento dovrà poi essere approvata
in Conferenza unificata, una volta completata la redazione
di tutte le parti del regolamento. Poi i Comuni dovranno
adottare il regolamento unico entro i termini che saranno
stabiliti con gli accordi in sede di conferenza unificata.
L’adozione è inderogabile: il regolamento tipo costituisce
livello essenziale delle prestazioni concernenti la tutela
della concorrenza e i diritti civili e sociali da applicare
con uniformità su tutto il territorio nazionale.
Le definizioni
Il gruppo tecnico è arrivato a una definizione condivisa dei
parametri edilizi, dopo aver sentito anche i rappresentanti
degli Ordini professionali e delle imprese del settore. Il
capitolo del regolamento riguardante le definizioni è
particolarmente importante: esse stabiliscono le distanze
tra edifici, le loro altezze e gli altri parametri da tenere
presente nella progettazione e nella realizzazione di case,
capannoni e ogni altra opera edilizia. Mettere d’accordo
tutte le regioni su 42 descrizioni non è stato un percorso
sempre in discesa. Si è trattato di fare una sintesi delle
descrizioni contenute nei singoli regolamenti vigenti, dove
sotto un’identica voce sono definiti fenomeni diversi. La
distanza maggiore è quella relativa alla nozione di
superficie.
Anche se formalmente potrebbe essere sufficiente sostituire
il nuovo al vecchio testo, nell’applicazione concreta ogni
Comune dovrà lavorare anche di taglia e cuci per raccordare
le pratiche in essere con le nuove, e, forse, non tutti i
Comuni saranno contenti di vedere eccessivamente compressa
la loro autonomia. L’operazione coinvolgerà sostanzialmente
tutti i Comuni: è difficile che ce ne sia qualcuno in cui le
vecchie e le nuove definizioni coincidano.
Le attuali distanze
L’aspetto comune ai regolamenti di un campione di città
capoluogo di provincia prese in esame nella scheda a fianco
è il maggior dettaglio che le definizioni dei parametri
edilizi presenta oggi rispetta alle definizioni standard che
saranno adottate; spesso non coincidono neanche le
denominazioni. Difficile, tuttavia, elaborare un indicatore
sintetico per ordinare i regolamenti in base a quanto ognuno
di essi si discosta dal futuro standard. È possibile invece
cogliere le differenze per le singole voci.
Le descrizioni
di superficie coperta a Bologna, Cagliari e Roma non sono
proprio coincidenti con quella del regolamenti tipo, ma si
discostano per pochi particolari. Nelle altre città la
distanza aumenta: soprattutto a Palermo, Torino e Venezia,
dove ora le descrizioni del parametro elencano le diverse
parti dell’immobile le cui superfici concorrono a formare
quella coperta.
Anche l’esame delle altre tipologie di superficie mostra che
la necessità di adattamento alle nuove descrizioni delle
grandezze varia da città a città. A Milano la definizione di
superficie lorda è molto minuziosa ed elenca anche gli
elementi che vi rientrano, mentre il regolamento vigente non
definisce la superficie utile. Anche per le altre
definizioni lo scarto differisce da Comune a Comune. Nel
caso del volume totale, per esempio, dalla definizione
futura Bologna si discosta poco, mentre Napoli, Bari e
Palermo sono molto più lontane.
È probabile che, in molti casi, i criteri per la
determinazione quantitativa dei parametri che ora sono parti
importanti delle definizioni possano essere riportati in
testi allegati ai nuovi regolamenti. Con l’approvazione del
testo completo del regolamento in conferenza unificata,
saranno decisi anche i margini di libertà dei Comuni sui
singoli punti, definizioni comprese (articolo Il Sole 24 Ore del
04.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Rosso sì, ma non per la polizza. Il semaforo non
legge la mancata copertura assicurativa.
CIRCOLAZIONE STRADALE/ Per il ministero dei
trasporti la norma non lo permette.
Passare con il semaforo rosso può costare caro al
trasgressore. Ma alla multa per mancato rispetto della
lanterna non potrà unirsi pure quella ben più grave per
mancanza della copertura assicurativa del veicolo. Non lo
permette la norma.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
21.03.2016 n.
1787 di prot..
Il contrasto dei furbetti
dell'assicurazione parte in salita nonostante tutte le buone
intenzioni sbandierate dal legislatore.
In questi anni si
sono infatti stratificati numerosi interventi normativi ma
gli effetti concreti sono sempre modesti. In conseguenza
delle modifiche che sono state introdotte dalla legge di
Stabilità 2012, l'art. 193 del codice della strada prevede
che l'accertamento della mancanza di copertura assicurativa
obbligatoria del veicolo possa essere effettuato anche
utilizzando alcuni dispositivi omologati per il
funzionamento in modo completamente automatico. Ovvero
autovelox, varchi ztl e altri strumenti poco diffusi. In
questo caso il trasgressore che viola le norme di
comportamento e non è assicurato incorre in una duplice
sanzione.
L'altra procedura di contrasto dei furbetti del tagliando
assicurativo è invece quella prevista dall'art. 31 del dl
1/2012, convertito nella legge 27/2012, non ancora operativa
per la mancanza degli adempimenti previsti dall'art. 31 che
prefigura una procedura di accertamento della violazione in
via autonoma. La legge di Stabilità 2016, infine, conferma
questo trend.
Per quanto riguarda il controllo della mancata copertura
assicurativa, della revisione e del trasporto irregolare di
cose sui mezzi a motore una piccola modifica all'art. 201
del codice della strada ad avviso degli estensori permetterà
il controllo automatico di queste importanti infrazioni da
remoto. Ma solo tra qualche anno, ovvero quando saranno
disponibili attrezzature specificamente omologate per questo
particolare tipo di accertamenti.
Il ministero con il parere del primo giorno di primavera
conferma queste indicazioni evidenziando in particolare che
i dispositivi per il controllo delle infrazioni semaforiche
non permettono di controllare la mancata copertura
assicurativa. Manca la norma di riferimento
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: La
verifica dell’anomalia risulta del tutto conforme al
paradigma procedimentale previsto dagli articoli citati ed
in particolare dall’art. 88, comma 1-bis, del d.lgs. n.
163/2006, che consente l’istituzione di una commissione ad
hoc per l’“esame delle giustificazioni prodotte” in tale
sede dell’offerente, ferma rimanendo la competenza della
stazione appaltante (rappresentata dal RUP) a decidere
definitivamente sulla congruità o meno dell’offerta.
---------------
7.3.1. Il thema decidendum si restringe quindi
all’esame dei primi due motivi di ricorso con i quali si
fanno valere vizi astrattamente idonei ad inficiare l’intera
procedura svolta, rispetto ai quali la ricorrente conserva
l’interesse strumentale alla ripetizione totale della gara
(primo motivo), ovvero del solo sub-procedimento di verifica
di anomalia nei confronti di tutte le offerte (secondo
motivo).
7.4. Con il primo motivo, la ricorrente contesta
l’illegittima composizione della commissione di gara, per
violazione dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 163 del
2006, a causa del fatto che il commissario di polizia locale
Au.Va. (componente tecnico sia della Commissione
giudicatrice che di quella nominata per l’esame
dell’anomalia dell’offerta) avrebbe svolto “per il comune
di Treviso l’incarico di rappresentante e responsabile dei
servizi di vigilanza del Palazzo di Giustizia di Treviso,
svolti sino ad oggi anche dalla polizia municipale di
Treviso”.
Secondo la ricorrente anche un altro membro della
commissione (la dott.ssa La.Te.) verserebbe nella stessa
situazione di incompatibilità.
7.4.1. La censura non merita accoglimento.
Ed invero, né il Commissario Va. né la dott.ssa Te. hanno
svolto alcuna “funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto di cui si tratta”
(art. 84, comma 4, cit.), avendo partecipato entrambi al
procedimento di affidamento di un contratto di appalto
diverso da quello per cui vi è causa (l’appalto di
vigilanza, tele vigilanza e telesorveglianza di alcuni
immobili del Comune).
Del pari, non integra alcuna causa d’incompatibilità ai
sensi dell’art. 84, comma 4, cit. il fatto che il
Commissario Va. abbia anche svolto funzioni di sorveglianza
dell’ingresso del palazzo di giustizia in questione,
trattandosi all’evidenza di funzioni ricomprese nei compiti
d’istituto del predetto Commissario.
7.5. Quanto al secondo motivo di ricorso, diretto a
censurare il sub-procedimento di verifica dell’anomalia,
deve rilevarsi che, come emerge dai verbali del 4 e
08.08.2015, esso è stato attivato dal RUP e condotto da una
commissione con una formazione diversa da quella della
Commissione giudicatrice, in quanto composta dall’ing. R.M.
(RUP), dal Commissario Va. (Componente tecnico), dal dott.
L.B. (segretario dalla Commissione).
Dal verbale del 24.08.2015, emerge infine che la valutazione
della congruità dell’offerta presentata da Si. è stata
definitivamente effettuata dal RUP, ai sensi dell’art. 88,
comma 7, del d.lgs. n. 163/2006.
7.5.1. Tanto premesso, il fatto che sia stato quest’ultimo a
svolgere, con l’ausilio di un’apposita commissione, la
verifica dell’anomalia risulta del tutto conforme al
paradigma procedimentale previsto dagli articoli citati ed
in particolare dall’art. 88, comma 1-bis, del d.lgs. n.
163/2006, che consente l’istituzione di una commissione
ad hoc per l’“esame delle giustificazioni prodotte”
in tale sede dell’offerente, ferma rimanendo la competenza
della stazione appaltante (rappresentata appunto dal RUP) a
decidere definitivamente sulla congruità o meno dell’offerta
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 08.04.2016 n. 363 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione
di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase
del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida
e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001
) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non
può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista
di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Con il secondo motivo di ricorso si contesta il merito sia
dell’ordine di demolizione sia del diniego di sanatoria: lo
stesso è, in parte, inammissibile e, in parte,
infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte
in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in
quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei
termini, sicché il ricorrente non può tardivamente
rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del
diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via
derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un
nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo
lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi
procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse,
potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni
non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
---------------
L’ordine di demolizione è atto dovuto e non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso
dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella
specie, non può giammai legittimare.
----------------
... per l'annullamento del provvedimento del 13.02.2010 prot.
616 a firma del responsabile dell'ufficio tecnico del Comune
di Campodipietra con il quale il Comune ha respinto la
richiesta di sanatoria, nonché di ogni atto prodromico o
consequenziale, compresa l'ordinanza di demolizione del
05.11.2008 prot. 5148;
...
Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 38/2001 a mente del
quale: <<Quando la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente
o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge
27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale>>.
In sostanza, secondo il ricorrente, il Comune non avrebbe
considerato che la demolizione parziale delle opere difformi
comporterebbe pregiudizio anche delle porzioni di esso
regolarmente assentite, in quanto queste sarebbero
strutturalmente compenetrate con le prime.
Il motivo è, in primo luogo, inammissibile, in quanto esso
non può che riferirsi all’ordine di demolizione che,
tuttavia, parte ricorrente non ha impugnato nei termini (il
provvedimento in questione è del 05.11.2008, mentre il
ricorso è stato notificato, come detto, in data 16.04.2010),
con la conseguenza che ogni doglianza non può che appuntarsi
sul diniego di sanatoria, essendo il ricorrente decaduto
dalla possibilità di far valere in via diretta eventuali
vizi del provvedimento molitorio.
Né l’addotto vizio dell’ordine di demolizione potrebbe
essere invocato come causa di illegittimità del successivo
diniego di sanatoria, in quanto la denunciata violazione
riguarda le modalità di reazione al rilevato abuso ovvero un
profilo specificamente riguardante l’ordine di demolizione
non suscettibile di riverberarsi sul diniego che, come si
preciserà ulteriormente con riguardo al secondo motivo,
costituisce il risultato di un procedimento autonomo.
Quand’anche poi si ipotizzasse l’ammissibilità di una tale
censura, essa sarebbe comunque infondata, atteso che secondo
la giurisprudenza, anche di questo Tribunale, <<L'ingiunzione
di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase
del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida
e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001
) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso;
pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non
può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista
di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001>> (cfr.
ex multis: TAR Molise, 04.12.2015, n. 455; da ultimo
anche TAR Lazio 4 febbraio 2016, sez. I-quater, n. 1677).
Con il secondo motivo di ricorso, il sig. -OMISSIS-
contesta il merito sia dell’ordine di demolizione sia del
diniego di sanatoria, rilevando, con riferimento al primo,
che le violazioni contestate al sig. -OMISSIS- (1. modifica
sostanziale dei prospetti, con diversa imostazione delle
falde; 2. modifica del corpo scala che non risulta dai
prospetti; 3. realizzazione di un porticato con pilastri in
muratura e copertura in legno; 4. due piccoli locali
destinati a deposito) non integrerebbero abusi, mentre, con
riferimento al secondo, che la motivazione di esso non
sarebbe coincidente con quella dell’ordinanza demolitoria,
evidenziando quindi un’illegittima contraddittorietà.
Il motivo, nelle due censure in cui si articola è, in parte,
inammissibile e, in parte, infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte
in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in
quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei
termini, sicché il ricorrente non può tardivamente
rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del
diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via
derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un
nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo
lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi
procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse,
potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni
non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
Con specifico riferimento alle violazioni rilevate con il
provvedimento di diniego, poi, il ricorrente nemmeno le
contesta nella loro oggettiva sussistenza, limitandosi a
negare che le stesse costituiscano violazioni della
normativa edilizia, non avvedendosi che le rilevate
difformità attengono alle altezze, alla distanza dalle altre
costruzioni, alla volumetria e al lotto minimo integrando
violazioni tipiche e anche gravi della normativa edilizia.
Né parte ricorrente contesta la circostanza, rilevata nel
provvedimento di diniego di sanatoria, che le opere
realizzate fossero difformi sia alla disciplina edilizia
vigente al momento in cui esse sono state realizzate sia a
quella in vigore quando è stata proposta la domanda di
sanatoria, in violazione del c.d. principio della doppia
conformità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001. Tale
disposizione prevede che: <<In caso di interventi
realizzati in assenza di permesso di costruire, o in
difformità da esso….il responsabile dell’abuso, o l’attuale
proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda>>.
Nel caso di specie è stata, invece, accertata la sussistenza
di difformità edilizie tanto al tempo della loro
realizzazione quanto a quella della proposizione
dell’istanza di condono, con la conseguenza che il diniego
di condono costituiva un atto dovuto (ex multis: TAR
Veneto, sez. I, 20.11.2015, n. 1239).
Con riguardo a tale ultimo profilo, e si giunge così allo
scrutinio del terzo motivo di censura, la valutazione
demandata agli organi comunali sulla sanatoria edilizia non
presuppone, come sostiene parte ricorrente, la comparazione
di ipotetici interessi antagonisti e, cioè, tra l'interesse
pubblico primario all'ordinato sviluppo del territorio con
quello secondario del privato alla regolarizzazione edilizia
del manufatto abusivo, essendo piuttosto intesa
all'obiettivo riscontro della conformità dell'opera con la
disciplina legale.
Tali considerazioni valgono, ovviamente, anche per l’ordine
di demolizione che è atto dovuto e che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso
dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella
specie, non può giammai legittimare (cfr. ex multis
da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII, 17.03.2016, n.
1454).
Peraltro, a quanto appena rilevato si aggiunge nella
fattispecie che il sig. -OMISSIS- non ha mai provveduto ad
integrare la documentazione dell’istanza di sanatoria,
sebbene il Comune ne abbia a più riprese sollecitato l’invio
per poter procedere al riesame dei provvedimenti impugnati,
secondo quanto prescritto dall’ordinanza cautelare n.
143/2010 di questo Tribunale, con ciò sottraendosi ad un
onere fissato nel suo stesso interesse.
In definitiva il ricorso deve essere respinto
(TAR Molise,
sentenza 08.04.2016 n. 171 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Consiglio di Stato ha reso il parere sul decreto sulla
conferenza di servizi (Schema di decreto legislativo
recante norme per il riordino della disciplina in materia di
conferenza dei servizi, in attuazione dell’articolo 2 della
legge 07.08.2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”).
I punti principale del parere del Consiglio di Stato sulla
conferenza dei servizi.
1. La norma di delega e lo schema di
decreto legislativo
La delega contenuta nell’art. 2 della legge n. 124 del 2015
mira a riformare integralmente la conferenza di servizi, il
principale istituto di semplificazione in caso di
procedimenti complessi, che richiedono una valutazione
contestuale tra plurimi interessi, sia pubblici sia privati,
in vista di un risultato finale unitario.
La delega si fonda su alcuni principi innovativi (accanto ad
altri confermativi della disciplina vigente), fra i quali:
• la riduzione delle ipotesi in cui la conferenza di servizi
è obbligatoria;
• la possibilità di limitare l’obbligo di presenziare alle
riunioni della conferenza ai soli casi di procedimenti
complessi;
• la partecipazione in conferenza di un rappresentante
unico, anche per le amministrazioni statali;
• l’espressa introduzione del potere di autotutela;
• le nuove modalità di superamento del dissenso, che assume
ora la forma di un’opposizione dinanzi alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri.
Lo schema si compone di due Titoli:
• il Titolo I opera la completa riformulazione degli
articoli da 14 a 14-quinquies della legge 07.08.1990, n.
241;
• il Titolo II contiene, invece, le disposizioni di
coordinamento fra tale disciplina generale e la normativa di
settore che regola lo svolgimento della conferenza di
servizi.
2. Il contenuto del parere reso dal
Consiglio di Stato: aspetti generali.
• L’importanza della formazione, della comunicazione
istituzionale, del monitoraggio.
Il Consiglio di Stato rileva che la disciplina della
conferenza di servizi è stata modificata in tutte le
legislature e da quasi tutti i Governi dal 1990 ad oggi;
auspica che il futuro decreto legislativo si riveli più
efficace dei molteplici interventi legislativi precedenti,
ma ritiene altresì necessario chiedersi se, dopo tanti
tentativi, la soluzione non possa risiedere anche in
interventi ulteriori e di tipo diverso rispetto a quello
dell’(ennesima) novella della legge n. 241.
Il parere auspica che, oltre alla semplificazione
procedimentale conseguibile con il nuovo testo, si debba
perseguire una semplificazione sostanziale, che si
concretizzi in politiche pubbliche capaci di regolare e
graduare i diversi interessi, allo scopo di rendere più
agevole la loro composizione.
È necessario poi adottare misure ‘non normative’ di
sostegno alla riforma:
- la prima riguarda il ‘fattore umano’, che ricopre
un ruolo fondamentale per il successo della riforma.
Occorrono amministratori professionalmente ‘capaci’ e
in grado di condurre il processo decisionale verso decisioni
corrette, tempestive e non incentrate solo su profili
giuridico-amministrativi: appare dunque indispensabile un
programma formativo ad hoc, che ben potrebbe essere
affidato alla supervisione della riformata Scuola nazionale
dell’amministrazione (SNA);
- occorre altresì che il Governo si impegni in un’opera di
comunicazione istituzionale delle potenzialità dei nuovi
strumenti e di diffusione della cultura del cambiamento,
rivolta agli amministratori, ma anche agli operatori
privati;
- è necessario, infine, che la fase di implementazione della
riforma in atto venga accompagnata da adeguate misure di
monitoraggio delle prassi applicative, ricorrendo allo
strumento della verifica di impatto della regolamentazione (VIR).
3. La partecipazione del privato alla
conferenza di servizi.
Il parere rileva l’opportunità di reintrodurre in modo
espresso nel nuovo testo la possibilità per il privato di
partecipare attivamente ai lavori della conferenza, con
pieno accesso ai relativi atti (facoltà che è invece
prevista dall’attuale art. 14-ter).
4. I rapporti fra la nuova conferenza di
servizi e le valutazioni ambientali (VIA e VAS).
Si suggerisce di operare un più adeguato raccordo fra la
disciplina della conferenza di servizi e la disciplina
speciale in tema di valutazioni ambientali (VIA e VAS), in
particolare estendendo le previsioni di cui al nuovo art. 14
anche alle ipotesi di progetti sottoposti a VIA statale
(mentre l’attuale formulazione esclude in modo espresso tale
possibilità).
5. La possibilità di far eseguire
l’istruttoria da organismi privati.
Il parere ritiene utile riproporre la previsione di cui
all’attuale art. 14-ter, secondo cui l’amministrazione
procedente può far eseguire l’attività istruttoria
prodromica alle decisioni della conferenza anche da altri
organi della P.A. o da istituti universitari, ponendo i
relativi oneri economici a esclusivo carico del privato
richiedente che vi consenta.
6. Tempi certi e responsabilizzazione del
privato e della P.A.
Il Consiglio di Stato condivide la ratio
acceleratoria sottesa alla formulazione del nuovo art.
14-bis (Conferenza semplificata); occorre però, al contempo,
responsabilizzare anche il privato richiedente imponendo la
presentazione di istanze complete e ben istruite.
7. Conferenza in modalità ‘sincrona’
e ‘asincrona’, ‘semplificata’ e ‘simultanea’:
un necessario chiarimento.
Il parere raccomanda di chiarire se sussista una
distinzione, ovvero un rapporto di specialità fra le ipotesi
di conferenza “in forma simultanea” e quelle “in
modalità sincrona”.
8. Il ‘rappresentante unico’ delle
amministrazioni statali: alcuni necessari chiarimenti.
Una delle principali innovazioni della riforma è il
rappresentante unico delle amministrazioni statali. La
Commissione speciale esprime il proprio favore per una
disciplina che appare bilanciata, prevedendo:
- da un lato, una regolazione flessibile del rapporto tra
rappresentante unico e amministrazioni statali;
- dall’altro, la possibilità di partecipazione e di
intervento, ma senza diritto di voto, delle altre
amministrazioni.
Il parere rappresenta però l’esigenza:
- di specificare chi dispone la nomina del rappresentante
unico a livello periferico (per quello centrale c’è il
Presidente del Consiglio);
- di evitare che il rappresentante unico (nell’ambito di
decisioni assunte a maggioranza) risulti sistematicamente in
minoranza;
- di chiarire meglio quanti sono i rappresentanti unici per
gli enti, o i livelli, locali.
9. Il ritiro in autotutela della
determinazione conclusiva.
Il parere condivide l’impostazione secondo cui
l’amministrazione rimasta inerte durante la conferenza di
servizi non possa poi sollecitare l’adozione del ritiro in
autotutela della determinazione conclusiva (art. 14-quater).
Occorrerebbe, tuttavia, temperare tale soluzione nei casi in
cui la richiesta di autotutela non si fondi su ragioni di
opportunità, bensì su ragioni di legittimità.
10. La funzionalizzazione delle modalità di
componimento del dissenso.
Per quanto riguarda l’art. 14-quinquies, circa i rimedi per
le amministrazioni dissenzienti, il parere raccomanda al
Governo di:
- reintrodurre l’obbligo di un dissenso che sia espresso in
sede di conferenza di servizi, pertinente, motivato e
costruttivo;
- valutare se sia funzionale risolvere sempre al livello
centrale la procedura di componimento e se ciò corrisponda
davvero ai principi di sussidiarietà e del ‘minimo mezzo’.
11. Le modifiche al T.U. edilizia: rapporti
con la disciplina del silenzio-assenso.
Per quanto riguarda l’art. 2 dello schema di decreto,
recante modifiche al T.U. edilizia del 2001, il Consiglio di
Stato invita a valutare se sia sempre indispensabile indire
una conferenza di servizi anche nelle ipotesi in cui si
potrebbe fare applicazione nuovo articolo 17-bis della legge
n. 241 del 1990 (in tema di silenzio-assenso tra
amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici).
12. Il coordinamento con la disciplina in
tema di autorizzazione paesaggistica.
In relazione all’art. 6 dello schema di decreto, il parere
raccomanda di introdurre correttivi per evitare il rischio
che il parere del Soprintendente sia espresso a ridosso
dello spirare del termine di conclusione della conferenza (Consiglio
di Stato, Commissione speciale,
parere 07.04.2016 n. 890 - tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La Corte di Giustizia interviene su alcuni ambiti di
carattere sostanziale del diritto degli appalti: limiti
dell’avvalimento; unitarietà dell’offerta; ripetizione di
gara in caso di mancato esame di offerta ammissibile.
●
La normativa europea in materia di avvalimento negli appalti
pubblici deve essere interpretata nel senso che: in primo
luogo è riconosciuto il diritto di qualunque operatore
economico di fare affidamento, per un determinato appalto,
sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura
dei suoi legami con questi ultimi, purché sia dimostrato
all’amministrazione aggiudicatrice che il candidato o
l’offerente disporrà effettivamente delle risorse di tali
soggetti che sono necessarie per eseguire detto appalto;
in secondo luogo, non è escluso che l’esercizio di tale
diritto possa essere limitato, in circostanze particolari,
tenuto conto dell’oggetto dell’appalto in questione e delle
finalità dello stesso.
È quanto avviene, in particolare, quando le capacità di cui
dispone un soggetto terzo, e che sono necessarie
all’esecuzione di detto appalto, non siano trasmissibili al
candidato o all’offerente, di modo che quest’ultimo può
avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo
partecipa direttamente e personalmente all’esecuzione di
tale appalto.
● In tema di
avvalimento, l’art. 48, paragrafi 2 e 3, della direttiva
2004/18 deve essere interpretato nel senso che, tenuto conto
dell’oggetto di un determinato appalto e delle finalità
dello stesso, l’amministrazione aggiudicatrice può, in
circostanze particolari, ai fini della corretta esecuzione
dell’appalto, indicare espressamente nel bando di gara o nel
capitolato d’oneri regole precise secondo cui un operatore
economico può fare affidamento sulle capacità di altri
soggetti, purché tali regole siano connesse e proporzionate
all’oggetto e alle finalità di detto appalto.
●
I principi di parità di trattamento e di non discriminazione
degli operatori economici, enunciati all’art. 2 della
direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che,
in circostanze come quelle di cui al procedimento
principale, ostano a che un’amministrazione aggiudicatrice,
dopo l’apertura delle offerte presentate nell’ambito di una
procedura di aggiudicazione di appalto pubblico, accetti la
richiesta di un operatore economico, che abbia presentato
un’offerta per l’intero appalto in questione, di prendere in
considerazione la sua offerta ai fini dell’assegnazione solo
di determinate parti di tale appalto.
●
I medesimi principi di parità di trattamento e di
non discriminazione, devono essere interpretati nel senso
che richiedono l’annullamento e la ripetizione di un’asta
elettronica alla quale un operatore economico che aveva
presentato un’offerta ammissibile non sia stato invitato, e
ciò anche se non può essere accertato che la partecipazione
dell’operatore escluso avrebbe modificato l’esito dell’asta.
----
Con la
sentenza 07.04.2016 n. C-324/14 la Corte di
Giustizia, Sez. I, torna ad affrontare alcune delicate
questioni interpretative in ambiti sostanziali del diritto
degli appalti.
In primo luogo, vengono dettate una serie di
interessanti precisazioni in tema di avvalimento.
Per un verso, dopo aver ribadito la generalità dell’istituto
e della relativa applicabilità (con conseguente libertà
dell’offerente di stabilire vincoli con i soggetti sulle cui
capacità fa affidamento e di scegliere la natura giuridica
di tali vincoli), si precisa come l’offerente stesso sia in
ogni caso tenuto a dimostrare di disporre effettivamente dei
mezzi di tali soggetti che non gli appartengono in proprio e
che sono necessari per l’esecuzione di un determinato
appalto.
Per altro verso, dopo aver ribadito la regola generale a
mente della quale l’amministrazione aggiudicatrice non può
imporre condizioni espresse che possano ostacolare
l’esercizio del diritto di avvalimento, si detta una
possibile eccezione: l’esercizio di tale diritto può essere
limitato in circostanze particolari, in cui non è da
escludere a priori che l’amministrazione aggiudicatrice, ai
fini della corretta esecuzione dell’appalto di cui trattasi,
possa indicare espressamente, nel bando di gara o nel
capitolato d’oneri, regole di dettaglio, le quali devono
essere connesse e proporzionate all’oggetto e alle finalità
di detto appalto.
In secondo luogo, vengono dettate alcune regole
applicative dei principi fondamentali, noti sotto la dizione
di parità di trattamento e non discriminazione.
Per un verso, tali principi escludono che, a fronte
dell’offerta presentata da un operatore economico per
l’intero appalto in questione, la stazione appaltante possa
prendere in considerazione la stessa offerta ai fini
dell’assegnazione solo di determinate parti di tale appalto.
Viene quindi ribadito altresì il principio di
immodificabilità dell’offerta.
Per altro verso, tali principi impongono l’annullamento e la
ripetizione di un’asta elettronica alla quale un operatore
economico che aveva presentato un’offerta ammissibile non
sia stato invitato, e ciò anche se non può essere accertato
che la partecipazione dell’operatore escluso avrebbe
modificato l’esito dell’asta. Tale statuizione appare
connessa, sul versante sostanziale, con quanto affermato
pochi giorni prima dalla Grande sezione, sul versante
processuale, in relazione all’obbligo di esaminare tutti i
ricorsi, incidentale e principale, proposti dalle imprese
partecipanti alla gara d’appalto, cui consegue il
superamento dell’orientamento (a suo tempo fatto proprio
dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2011),
circa l’esame prioritario del ricorso incidentale escludente
(commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
1) Gli articoli 47, paragrafo 2, e 48,
paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al
coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, letti
in combinato disposto con l’articolo 44, paragrafo 2, di
tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che:
– riconoscono il diritto di qualunque operatore economico di fare
affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di
altri soggetti, a prescindere dalla natura dei suoi legami
con questi ultimi, purché sia dimostrato all’amministrazione
aggiudicatrice che il candidato o l’offerente disporrà
effettivamente delle risorse di tali soggetti che sono
necessarie per eseguire detto appalto, e
– non è escluso che l’esercizio di tale diritto possa essere
limitato, in circostanze particolari, tenuto conto
dell’oggetto dell’appalto in questione e delle finalità
dello stesso. È quanto avviene, in particolare, quando le
capacità di cui dispone un soggetto terzo, e che sono
necessarie all’esecuzione di detto appalto, non siano
trasmissibili al candidato o all’offerente, di modo che
quest’ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il
soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente
all’esecuzione di tale appalto.
2) L’articolo 48, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2004/18
deve essere interpretato nel senso che, tenuto conto
dell’oggetto di un determinato appalto e delle finalità
dello stesso, l’amministrazione aggiudicatrice può, in
circostanze particolari, ai fini della corretta esecuzione
dell’appalto, indicare espressamente nel bando di gara o nel
capitolato d’oneri regole precise secondo cui un operatore
economico può fare affidamento sulle capacità di altri
soggetti, purché tali regole siano connesse e proporzionate
all’oggetto e alle finalità di detto appalto.
3) I principi di parità di trattamento e di non
discriminazione degli operatori economici, enunciati
all’articolo 2 della direttiva 2004/18, devono essere
interpretati nel senso che, in circostanze come quelle di
cui al procedimento principale, ostano a che
un’amministrazione aggiudicatrice, dopo l’apertura delle
offerte presentate nell’ambito di una procedura di
aggiudicazione di appalto pubblico, accetti la richiesta di
un operatore economico, che abbia presentato un’offerta per
l’intero appalto in questione, di prendere in considerazione
la sua offerta ai fini dell’assegnazione solo di determinate
parti di tale appalto.
4) I principi di parità di trattamento e di non
discriminazione degli operatori economici, enunciati
all’articolo 2 della direttiva 2004/18, devono essere
interpretati nel senso che richiedono l’annullamento e la
ripetizione di un’asta elettronica alla quale un operatore
economico che aveva presentato un’offerta ammissibile non
sia stato invitato, e ciò anche se non può essere accertato
che la partecipazione dell’operatore escluso avrebbe
modificato l’esito dell’asta.
5) In circostanze come quelle di cui al procedimento
principale, le disposizioni dell’articolo 48, paragrafo 3,
della direttiva 2004/18 non possono essere interpretate alla
luce di quelle dell’articolo 63, paragrafo 1, della
direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la
direttiva 2004/18. |
APPALTI:
Appalti pubblici, rinvio alla Corte Ue sempre
legittimo. Procedura. Non conta la regola amministrativa.
Nessun freno ai rinvii pregiudiziali
alla Corte Ue. Se è in gioco il diritto dell’Unione, i
giudici nazionali, in caso di dubbi interpretativi o
applicativi, devono sospendere il procedimento interno e
chiamare in aiuto Lussemburgo. Poco importa, quindi, se le
regole processuali amministrative interne impongano di
rinviare una questione all’adunanza plenaria del Consiglio
di Stato.
Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue nella
sentenza
05.04.2016 (causa C-689/13), su rinvio del Consiglio di giustizia
amministrativa per la regione siciliana alle prese con una
procedura di aggiudicazione di appalti.
La società di
gestione dell’aeroporto civile di Trapani aveva indetto una
gara. La ditta “sconfitta” aveva impugnato il provvedimento
di aggiudicazione, ma la società vincitrice aveva eccepito
il difetto di interesse perché la ricorrente non aveva i
requisiti per poter vincere l’appalto. Il tribunale aveva
annullato l’aggiudicazione e condiviso l’assenza di
interesse della ricorrente.
Il Consiglio di giustizia
amministrativa per la regione siciliana ha chiamato in aiuto
la Corte Ue sia per l’interpretazione della direttiva 89/665
che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici
di forniture e di lavori, modificata dalla 2007/66, sia
dell’articolo 267 del Trattato sul funzionamento della Ue
che fissa le regole per i rinvii pregiudiziali.
Punto centrale è se sia ammissibile una norma interna che
impedisca a una sezione di un organo giurisdizionale di
ultima istanza di rivolgersi agli eurogiudici, obbligando la
sezione a rivolgersi all’Adunanza plenaria se intende
discostarsi da un principio già affermato dalla stessa
plenaria. Evidente la contrarietà al Trattato Ue. Il diritto
interno –osserva Lussemburgo- «non può impedire a un
organo giurisdizionale nazionale di avvalersi» del rinvio
pregiudiziale, alla base del sistema di cooperazione tra
giudici interni e Corte Ue. Non solo. Gli organi
giurisdizionali nazionali, per assicurare l’effetto utile
dell’articolo 267 del Trattato, devono applicare subito il
diritto Ue in modo conforme alla giurisprudenza della Corte
e disapplicare di propria iniziativa le norme contrarie
senza attendere “la previa rimozione legislativa” o altri
procedimenti interni.
Di qui la conclusione che i giudici devono applicare i
principi stabiliti nella sentenza Fastweb e, quindi,
valutare sempre nel merito se l’appalto è stato legittimo.
Questo anche se il ricorso di un offerente, interessato a
ottenere l’aggiudicazione dell’appalto, sia dichiarato
irricevibile per le norme processuali interne che prevedono
un esame prioritario del ricorso incidentale presentato da
chi si è aggiudicato l’appalto (articolo Il Sole 24 Ore del
06.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sui ricorsi l'esame è di rigore.
Appalti/sentenza della corte di giustizia
europea.
È sempre obbligatorio esaminare il ricorso contro
l'aggiudicazione di un appalto, anche se è stato proposto da
chi non avrebbe dovuto partecipare alla gara; incompatibile
la regola applicata in Italia per cui si valuta soltanto il
ricorso di chi è legittimato a partecipare alla gara.
È quanto ha stabilito la
sentenza
05.04.2016 (causa C-689/13)
della Corte Ue in merito alla compatibilità del
principio giurisprudenziale italiano secondo cui il giudice
può valutare la richiesta di annullamento solo se proposta
da soggetto che avrebbe potuto partecipare alla gara.
In una gara bandita nel 2012 la seconda classificata aveva
infatti impugnato l'aggiudicazione al Tar Sicilia e
l'aggiudicataria, con ricorso incidentale, aveva eccepito la
carenza dei requisiti di partecipazione alla gara del
secondo classificato e richiesto la sua esclusione.
Il Tribunale amministrativo regionale aveva accolto le
argomentazioni di entrambe le parti, annullando
l'aggiudicazione al primo classificato e non riconoscendo
alcun diritto alla seconda classificata. La stazione
appaltante ha poi proceduto ad affidare l'appalto con
procedura negoziata, ovviamente facendo scattare i ricorsi
al Consiglio di giustizia amministrativa siciliana di
entrambi i soccombenti.
Il Collegio siciliano ha chiesto
alla Corte europea di pronunciarsi in via pregiudiziale dal
momento che in Italia vige la regola dettata dall'Adunanza
plenaria del Consiglio di stato n. 4 del 07.04.2011, che
impone al giudice di esaminare per primo il ricorso
incidentale escludente (cioè quello proposto dal vincitore
dell'appalto in «risposta» al ricorso principale proposto
dalla società concorrente esclusa e teso a sancire
l'inammissibilità di quest'ultimo) e, in caso di
accoglimento, di omettere l'esame del ricorso presentato dal
secondo classificato. Nel caso di specie, quindi, il Tar
Sicilia non avrebbe dovuto esaminare il ricorso del secondo
classificato ma limitarsi alla pronuncia sul ricorso
incidentale proposto dall'aggiudicatario che quindi sarebbe
rimasto titolare del contratto oggetto della gara e
dell'aggiudicazione.
Il collegio europeo dà ragione al Tar Sicilia riprendendo i
principi affermati nella sentenza C-100/12 Fastweb, di
analogo contenuto, in cui si affermò la necessità di
esaminare non soltanto il ricorso relativo all'offerta
dell'escluso che ha proposto il ricorso principale
(eventualmente dichiarando che costui non ha interesse a
proporre ricorso) ma anche quello concernente l'offerta
dell'aggiudicatario, eventualmente annullando
l'aggiudicazione: cosa che, in effetti, ha disposto,
correttamente, il Tar Sicilia.
Se quindi la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
seguito fino ad oggi un approccio «formale» (se il
ricorrente non ha titolo per partecipare alla gara, non ha
neppure titolo per contestare l'aggiudicazione a favore di
un'altra impresa), la Corte di giustizia ha scelto un
approccio «nel merito», chiedendo quindi a tutti i
giudici nazionali di valutare sempre e comunque la
legittimità dell'aggiudicazione di un appalto pubblico a
prescindere alla legittimazione a partecipare alla gara.
Va peraltro notato che nel nuovo codice appalti da
approvarsi entro il 18 aprile, si prevede che i vizi
inerenti la carenza dei requisiti soggettivi,
economico-finanziaria e tecnico-professionali sono
considerati immediatamente lesivi e sono ricorribili dinanzi
al Tar soltanto nei trenta giorni successivi alla
pubblicazione dell'elenco dei soggetti ammessi, non potendo
rilevare nelle successive fasi della procedura
(articolo ItaliaOggi del 06.04.2016).
----------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) L’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della
direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che
coordina le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici
di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva
2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
dell’11.12.2007, deve essere interpretato nel senso che osta
a che un ricorso principale proposto da un offerente, il
quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un
determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso
a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione
in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono
tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro
offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di
norme processuali nazionali che prevedono l’esame
prioritario del ricorso incidentale presentato da detto
altro offerente.
2) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso
che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti
in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che,
relativamente a una questione vertente sull’interpretazione
o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un
organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non
condivida l’orientamento definito da una decisione
dell’adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare
la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire
la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale.
3) L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso
che, dopo aver ricevuto la risposta della Corte di giustizia
dell’Unione europea ad una questione vertente
sull’interpretazione del diritto dell’Unione da essa
sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea ha già fornito una risposta
chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo
giurisdizionale di ultima istanza deve essa stessa fare
tutto il necessario affinché sia applicata tale
interpretazione del diritto dell’Unione. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d’ufficio l’ingaggio illegittimo.
Cassazione. Reato per il dirigente comunale che proroga la
convenzione senza il via libera degli organi competenti.
Abuso d’ufficio per il dirigente del
Comune che proroga la convenzione con un centro, senza il
via libera degli organi competenti. Il reato scatta anche in
virtù dell’ingiusto vantaggio procurato a cinque persone
ingaggiate per l’occasione al di fuori di ogni criterio di
trasparenza e per due contratti di collaborazione prorogati.
La Corte di
Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza
04.04.2016 n. 13426) esclude che l’abuso si possa
giustificare, come nel caso esaminato, con l’intento di non
perdere dei fondi europei. Il ricorrente, infatti, aveva
motivato la proroga della convenzione con la finalità di
assicurare il completamento di un progetto affidato al
centro in modo da garantirsi un finanziamento Ue.
In realtà
per la Cassazione il comportamento del dirigente è
intenzionalmente doloso e nell’abuso d’ufficio il dolo
essere desunto anche da elementi che sono la spia della
macroscopica illegittimità dell’atto compiuto. Mentre non
serve la prova dell’accordo collusivo con la persona che si
intende favorire: l’intenzionalità del vantaggio può
prescindere dalla volontà di “aiutare” specificamente quel
privato interessato alla singola vicenda.
Nel concreto c’era
stato il conferimento di cinque nuovi contratti, non
richiesti neppure dal centro interessato, a persone scelte
discrezionalmente e pagate con denaro pubblico. Al progetto
europeo aveva, infatti, aderito solo la Regione molto tempo
dopo le determinazioni illegittime del dirigente, ma mai il
Comune. Inoltre si trattava di un progetto pagato in gran
parte dall’ente che intendeva “sottoscriverlo”.
Il
ricorrente aveva comunque firmato le proroghe in violazione
delle regole sul riparto delle attribuzione (Dlgs 267/2000)
che riserva agli organi di indirizzo del Comune le scelte
fondamentali. A questo si era unito l’ingiusto vantaggio
conseguito da sette persone (articolo Il Sole 24 Ore del
05.04.2016).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito
precisate.
2. Le censure, per quanto formalmente raggruppate sotto un
unico motivo,
in realtà si riferiscono sia al profilo oggettivo sia al
profilo soggettivo del reato di
abuso di ufficio.
3. Per quanto attiene al profilo oggettivo, le doglianze
insistono sul fatto che
illogicamente la sentenza impugnata non avrebbe considerato
la natura degli atti
adottati dal ricorrente, qualificabili come di mera proroga
di provvedimenti
preesistenti.
3.1. La sentenza impugnata rappresenta innanzitutto che le
due determine
dirigenziali del LU. (la n. 21-bis del 30.06.2004 e
la n. 29 del 29.09.2004):
a) comportarono un sensibile incremento di
organico del
soggetto destinatario dei provvedimenti, il Centro Risorse
Donne, che passò da
tre a sette unità, in assenza di qualunque previsione
contenuta in atti degli
organi comunali, e persino di specifiche richieste della
responsabile del Centro, la
quale si limitò a richiedere l'assunzione di un operatore
esperto in lingua inglese;
b) facevano riferimento non più al progetto europeo RECITE II-E.N.R.E.C., cui il
Comune di Taranto aveva formalmente aderito con delibera del
Commissario
Straordinario del 13.12.1999, e che era
definitivamente cessato alla data
del 30.06.2004, bensì al progetto europeo Interreg III
CASDES-WEFnet, cui,
però, la Regione Puglia, quale "soggetto referente", aderirà
solo successivamente
alla determine, in data 28.10.2004, che non risulta mai
oggetto di formale
delibera di adesione da parte del Comune di Taranto, e che
addossava una quota
consistente del costo complessivo al singolo ente aderente;
c) non contenevano
alcuna indicazione dei fondi necessari ad assicurare la
copertura del progetto,
limitandosi a richiamare «entrate terze», esterne al
bilancio, senza precisare
quali fossero.
Rileva, poi, che le violazioni delle regole procedurali sul
riparto di
attribuzioni tra gli organi del Comune, indicate dal capo di
imputazione negli art.
42, 48, 107, 169, 175, 183 e 191 d.lgs. n. 267 del 2000, e
che riservano agli
organi di indirizzo le scelte fondamentali, non hanno avuto,
nel caso di specie,
valenza meramente endoprocedimentale, ma si sono poste «in
evidente e diretto
rapporto causale con l'ingiusto vantaggio arrecato ai
beneficiari delle determine
medesime e con il correlativo danno che ne è scaturito a
carico del Comune».
Osserva, quindi, che «all'ingiustizia delle determine
adottate dall'imputato, e
tra loro strettamente correlate [...] si somma l'ingiustizia
della percezione degli
emolumenti da parte dei soggetti indicati nel capo d'accusa
[i cinque neoingaggiati
ed i due prorogati]».
3.2. Questi essendo i presupposti di fatto, la cui
ricostruzione non è oggetto
di puntuali contestazioni nel ricorso, corretta risulta
essere la conclusione
raggiunta.
Il delitto di abuso di ufficio, infatti,
postula l'avvenuta
violazione di una
norma di legge o di regolamento e l'ingiustizia del danno o
del vantaggio
procurato a sé o ad altri, ma non una duplicità di
violazioni di legge. Come
osserva un significativo orientamento giurisprudenziale,
l'integrazione del reato
di abuso d'ufficio, se richiede una duplice distinta
valutazione di ingiustizia, sia
della condotta (che deve essere connotata da violazione di
norme di legge o di
regolamento), sia dell'evento di vantaggio patrimoniale (che
deve risultare non
spettante in base al diritto oggettivo), non presuppone,
però, che l'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale derivi da una violazione di norme
diversa ed autonoma
da quella che ha caratterizzato l'illegittimità della
condotta, qualora -all'esito
della predetta distinta valutazione- l'accrescimento della
sfera patrimoniale del
privato debba considerarsi contra ius (così Sez. 6, n. 48913
del 04/11/2015,
Ricci, Rv. 265473, nonché Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, Rv.
262793).
Nella specie, la sentenza impugnata ha individuato le norme
violate nelle
disposizioni di legge del testo unico sugli enti locali in
tema di ripartizioni di
competenze tra gli organi comunali, l'ingiustizia del
vantaggio nel conferimento ex novo o nella proroga di incarichi di collaborazione
retribuita in difetto di ogni
potere in materia e sulla base di criteri di selezione dei
beneficiati assolutamente
arbitraria, l'ingiustizia del danno nell'assunzione di una
spesa a carico del
Comune in assenza di qualunque deliberazione degli organi
competenti.
Deve perciò escludersi che, con riferimento al profilo
dell'elemento obiettivo
del reato di abuso di ufficio, la decisione della Corte di
appello sia censurabile per
violazione di legge o vizio di motivazione.
4. Con riferimento al profilo soggettivo, le censure
deducono che la sentenza
impugnata è sostanzialmente priva di motivazione o fondata
su «mere ed
apodittiche supposizioni», pur essendo necessaria per legge
la certezza che la
volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a
procurare il vantaggio
patrimoniale o il danno ingiusto, che la prova del dolo non
può essere desunta
dalla sola illegittimità degli atti adottati dall'imputato,
e che, in realtà, le
determine adottate dal LU. avevano la finalità
pubblicistica di portare a
compimento il lavoro del Centro Risorse Donne per garantirsi
gli importi del
finanziamento europeo.
4.1. Occorre premettere in proposito che, secondo un
orientamento
giurisprudenziale condiviso dal Collegio, la prova del dolo
intenzionale,
necessaria per l'integrazione della fattispecie di abuso di
ufficio, può essere
desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità
dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento
dell'accordo collusivo
con la persona che si intende favorire, in quanto
l'intenzionalità del vantaggio
ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente
quel privato
interessato alla singola vicenda amministrativa (cfr., tra
le più recenti: Sez. 6, n.
14038 del 02/10/2014, dep. 2015, De Felicis, Rv. 262950, non
specificamente
massimata sul punto; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014,
Dragotta, Rv. 260233;
Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290).
4.2. Nella vicenda in esame, pur mancando la prova di un
accordo collusivo
tra soggetti beneficiati e pubblico ufficiale, la pluralità
di violazioni di regole
giuridiche e, in particolare, il conferimento di ben cinque
contratti di
collaborazione retribuita con l'impiego di denaro pubblico a
persone scelte al di
fuori di ogni criterio di leggibilità e di competenza
professionale (persino la
responsabile del Ce.Ri.Do. si era limitata a
chiedere esclusivamente
l'assunzione di un operatore esperto in lingua inglese)
rendono immune da vizi la
valutazione della sentenza impugnata che ha ritenuto
sussistente il dolo
intenzionale richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
Tale rilievo, anzi, esclude la plausibilità della
prospettazione difensiva,
peraltro allegata in termini generici, secondo cui il LU. avrebbe agito nel
modo accertato al solo fine di realizzare l'interesse
pubblico di portare a
compimento il lavoro del Ce.Ri.Do. per garantirsi
gli importi del
finanziamento europeo. Invero, la finalità di assicurare il
completamento del
progetto affidato al Ce.Ri.Do. non può comunque
spiegare la
stipulazione di cinque contratti di collaborazione con
persone scelte al di fuori di
ogni criterio obiettivamente verificabile. |
APPALTI:
L'offerta zero non vale.
Cds: è inammissibile in una gara.
In una gara di appalto pubblico è inammissibile un'offerta
pari a zero anche se relativa a una sottovoce di prezzo
dell'offerta stessa.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato con la
sentenza
01.04.2016 n. 1307, della
Sez. III, in cui viene
affrontata la questione dell'ammissibilità di un'offerta
economica pari a zero, anche nell'ipotesi in cui tale
offerta riguardasse una delle sottovoci di prezzo in cui la
stazione appaltante aveva impostato l'offerta che i
concorrenti avrebbero dovuto inviare.
Sul tema si registra fino a oggi un duplice orientamento del
Consiglio di stato sia a favore della legittimità sia
propenso a dichiarare l'illegittimità dell'offerta pari a
zero.
La sentenza aderisce a quest'ultimo orientamento ritenendo
che l'offerta economica in cui alcune voci sono uguali a
zero debba essere considerata alla stregua di una «mancata
offerta in quanto non conforme alla lex di gara»; da ciò la
conseguenza che deve ritenersi inammissibile.
Nel merito la stazione appaltante aveva stabilito che
l'offerta fosse formulata con riferimento a cinque categorie
di apparecchiature, cui corrispondeva un relativo sub
punteggio.
La formula di valutazione presupponeva un valore positivo
per ciascuna voce e sub voce, facendo intendere che per
quanto bassissima, l'offerta dovesse essere, comunque,
superiore allo zero.
L'impresa esclusa che ha proposto ricorso ha invece scelto
di indicare il punteggio zero per tre voci su cinque
dell'offerta. Questo comportamento viene quindi censurato
dal Consiglio di stato che conferma la legittimità
dell'esclusione.
La motivazione dei giudici fa riferimento al fatto che,
avendo la stazione appaltante deciso di scomporre l'offerta
in voci e sub-voci la commissione era vincolata e non poteva
intervenire in alcun modo, come in subordine aveva richiesto
il ricorrente, essendo precluso ogni intervento manipolativo
sulle offerte, salvo i casi di errore materiale. Come è
noto, infatti, la stazione appaltante deve attenersi
rigorosamente ai criteri di ammissione e di aggiudicazione
predeterminati nel bando di gara e ciò in quanto si deve
evitare qualsiasi parzialità nelle operazioni di gara
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016).
---------------
MASSIMA
1. - L’appello non merita accoglimento.
Tutti i motivi formulati dall’appellante tendono a
dimostrare, con varie argomentazioni, l’ammissibilità
dell’offerta, potendo la Commissione ricorrere ad
un'applicazione della formula matematica secondo criteri di
ragionevolezza e in virtù del favor partecipationis,
in modo da conseguire un risultato utile, ossia sostituendo
il prezzo zero con un valore minimo senza snaturare
l'offerta migliore, in ossequio ai principi della massima
partecipazione alle gare, di ragionevolezza e
proporzionalità, di tassatività delle cause di esclusione.
Tali argomenti non sono condivisibili.
2. - La questione che si sottopone all’esame del Collegio ha
dato luogo in giurisprudenza a due diverse soluzioni.
Un indirizzo ha giudicato ammissibile l'offerta, esponendo
argomenti cui si è ispirata la tesi dell’appellante (Cons.
St., sez. VI, 17.09.2009 n. 5583, sez. V, n. 3435 del 2007 e
sez. VI, n. 8146 del 2004, ivi citate).
L’altro indirizzo, invece, ha ritenuto inammissibile
l'offerta (cfr. Cons. St., sez. V, 16.07.2010 n. 4624; sez.
III, 15/01/2013, n. 177).
2.1. - Il Collegio ritiene convincente l’orientamento già
espresso da questa Sezione col richiamato precedente n. 177
del 15.01.2013, concernente un’ipotesi analoga.
2.2. - Invero,
l'offerta economica in cui alcune voci sono uguali a zero va
considerata alla stregua di una “mancata offerta” in
quanto non conforme alla lex di gara e, pertanto, è
inammissibile.
2.3. - Il disciplinare della gara in questione, dopo avere
elencato le voci dell’offerta, all’art. 8B prevede che tutti
i punteggi parziali siano attribuiti secondo la formula
proporzionale con l’attribuzione del punteggio più alto
all’offerta più bassa, ovvero al ribasso più alto, e
proporzionalmente punteggi inferiori alle altre offerte.
L’art. 7.3 e l’allegato 4 al disciplinare prevedono che
l’offerta indichi, oltre al prezzo della gestione per il
primo anno (in termini unitari), per gli anni successivi il
“canone base di gestione”, il “canone per i
materiali consumabili” (in termini percentuali), il “prezzo
per la sola gestione”, “un’offerta per il collaudo”,
“un’offerta per i controlli funzionali” ( in termini
unitari).
Per il “canone base”, il “canone consumabili”
e il “prezzo per la gestione” si prevede che
l’offerta sia formulata con riferimento a cinque categorie
di apparecchiature, cui corrisponde un relativo sub
punteggio.
La formula di valutazione presuppone un valore positivo per
ciascuna voce e sub voce, ossia che per quanto bassissima,
l’offerta sia, comunque, superiore allo zero.
La ricorrente ha scelto di indicare il punteggio zero per
tre voci dell’offerta, disattendendo la previsione del
disciplinare; pertanto, andava esclusa.
2.4. - Poiché la stazione appaltante aveva ritenuto, in
quanto a suo avviso rilevante, di scomporre l’offerta in
voci (e alcune in sub-voci) e indicato il criterio di
valutazione, la Commissione era vincolata al rispetto di
tale regola.
E’ principio consolidato quello secondo cui è precluso alla
Commissione l’intervento manipolativo sulle offerte, salvo i
casi di errore materiale.
Il rispetto rigoroso dei criteri di ammissione e
aggiudicazione predeterminati dalla Stazione appaltante ha
la funzione di evitare che si possano determinare parzialità
nelle operazioni, sicché l'integrazione da parte della
Commissione giudicatrice degli elementi tecnici ed economici
di valutazione stabiliti dalla lex specialis è
consentita solo eccezionalmente, a condizione che:
a) non siano modificati i criteri di valutazione stabiliti
da detta lex specialis;
b) non sia influenzata la preparazione delle offerte;
c) non siano introdotte discriminazioni a danno dei
concorrenti
(Consiglio di Stato, sez. V, 06/05/2015, n. 2267).
In definitiva,
il rispetto rigoroso delle regole di gara rappresenta la
garanzia migliore di attuazione dei principi di legalità,
buon andamento, imparzialità, par condicio e
trasparenza e va, ad avviso del Collegio, osservato anche in
situazioni come quella in esame (che non ricade nelle
ipotesi eccezionali sopra ricordate) in cui la correzione
infinitesimale di alcune voci dell’offerta non comporterebbe
un sostanziale stravolgimento del suo valore economico, ma
comporterebbe una diversa graduatoria definitiva.
Va tenuto presente, tra l’altro, che anche l’offerta di
altra concorrente esclusa è stata formulata in modo analogo
a quella della ricorrente; l’accoglimento della tesi della
società appellante non rispetterebbe il principio di parità
di trattamento, né l'obbligo di trasparenza che ne deriva,
né il principio di affidamento (erroneamente invocato solo a
proprio favore).
In tale quadro, è evidente che recede anche l’invocato
principio della massima partecipazione.
2.5. - E’ irrilevante, inoltre, il fatto che la lex
specialis non precludesse espressamente di formulare una
siffatta offerta, considerato altresì che la Commissione di
gara non ha introdotto una non prevista clausola di
esclusione o di incompatibilità, bensì ha giustamente
sanzionato, in conformità al disposto dell'art. 46, co.
1-bis, del codice dei contratti (introdotto dall'art. 4, co.
2, lett. d, del d.l. 13.05.2011 n. 70 conv. con l. n. 106
del 2011) il difetto di un elemento essenziale dell'offerta
economica per come strutturata dalla stazione appaltante, la
cui essenzialità è resa specificamente manifesta proprio
dall'approntamento della formula matematica di valutazione.
2.6. – Per quanto sin qui detto, in assenza nella lex
specialis di previsioni favorevoli alla prospettazione
della società, non è configurabile un preteso dovere
dell'Amministrazione di "correggere" il valore nullo
in applicazione del principio di conservazione degli atti di
gara o di ragionevolezza.
A tal proposito,
giova ribadire che non è dato alla Commissione alcun potere
di modifica delle offerte in base a non codificati e
soggettivi criteri di ragionevolezza, dovendo essa limitarsi
ad accertare eventuali inosservanze delle regole di gara.
2.7. - Quanto al motivo con cui si denuncia l’omessa
pronuncia circa la mancata attivazione del soccorso
istruttorio, il Collegio osserva che, comunque, la censura
non è fondata.
Il soccorso istruttorio è applicabile solo alle
dichiarazioni carenti, non in caso di offerta economica
carente: dopo la sua presentazione, l’offerta non è
modificabile dalla parte; né, a maggior ragione, la stazione
appaltante potrebbe sollecitarne la modifica.
3. - Infine, la società appellante chiede di deferire la
questione di diritto all’Adunanza Plenaria, considerato il
contrasto giurisprudenziale esistente.
Il Collegio non ritiene opportuna la rimessione all’Adunanza
plenaria essendo la decisione conforme al più recente
indirizzo interpretativo espresso sull’argomento da questa
stessa Sezione e condiviso per le argomentazioni sopra
svolte (Sez. III, n. 177/2013); né potendosi considerare
consolidato l’orientamento interpretativo di segno contrario
invocato dall’appellante.
Nel processo amministrativo le ipotesi di deferimento della
causa all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sono solo
due, e cioè quella facoltativa di cui all'art. 99, comma 1,
c.p.a., che ricorre quando la Sezione riscontri un contrasto
di giurisprudenza reale o potenziale e non intende seguire
l'indirizzo consolidato, e quella obbligatoria di cui
all'art. 99, comma 3, c.p.a., quando la Sezione intende
rimettere in discussione un principio di diritto già
enunciato dall'Adunanza plenaria. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In materia di ordine di
rimozione e smaltimento rifiuti abbandonati su area privata,
il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi
dall’orientamento consolidato secondo cui il legislatore delegato ha
inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva
partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali
destinatari del provvedimento conclusivo.
Di conseguenza, la
preventiva, formale comunicazione dell'avvio del
procedimento costituisce un adempimento indispensabile al
fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con gli interessati e -diversamente da
quanto ha affermato il TAR- non si può applicare il
temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa
legge.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Puglia – sede
staccata di Lecce, Sezione I n. 3210/2015, resa tra le
parti, concernente ordine di rimozione e smaltimento rifiuti
abbandonati su area privata.
...
Il primo motivo dell’appello è fondato.
Viene in questione il citato comma 3 dell’art. 192 del
decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale stabilisce: “Fatta
salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255
e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è
tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o
allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato
dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il
Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati
ed al recupero delle somme anticipate”.
Il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi
dall’orientamento consolidato (cfr. per tutte Cons. Stato,
sez. V, 25.08.2008, n. 4061; Id., sez. II, parere 21.06.2013, n. 2916; Id., sez. V, 22.02.2016, n.
705), secondo cui, in materia, il legislatore delegato ha
inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva
partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali
destinatari del provvedimento conclusivo. Di conseguenza, la
preventiva, formale comunicazione dell'avvio del
procedimento costituisce un adempimento indispensabile al
fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con gli interessati e -diversamente da
quanto ha affermato il TAR- non si può applicare il
temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa
legge.
Nel caso di specie, è indiscusso che l’avviso di avvio del
procedimento non sia stato comunicato alla parte
destinataria dell’ordinanza sindacale, che ha visto leso il
proprio diritto alla partecipazione procedimentale.
Da ciò l’illegittimità del provvedimento impugnato, con
assorbimento dei motivi ulteriori dell’appello, tenuto conto
dei principi elaborati dall’Adunanza plenaria di questo
Consiglio di Stato con la sentenza 27.04.2015, n. 5.
Dalle considerazioni che precedono discende che, come già
detto, l’appello è fondato e va pertanto accolto. In riforma
della sentenza di primo grado, ne segue l’accoglimento del
ricorso introduttivo con annullamento dell’atto impugnato e
rimessione degli atti all’Autorità amministrativa, che
provvederà anche tenendo conto dei principi affermati
dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (con le
ordinanze n. 21 del 25.09.2013 e n. 25 del 13.11.2013), dalla Corte di giustizia dell’Unione europea
(con la sentenza 04.03.2015 in causa C-534/13) e dalla
sezione V del Consiglio di Stato (con la sentenza 25.02.2015, n. 933).
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante:
fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ.,
sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti,
Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
Gli argomenti
di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal
Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e
comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno
diverso (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.04.2016 n. 1301 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti, una riforma rivedibile. Più trasparenza
sulle trattative e rigore nei controlli.
Il parere del Consiglio di stato sul regolamento
con il nuovo codice dei contratti pubblici.
Valutare la reintroduzione del limite del 30% per il
subappalto; rendere vincolante la qualificazione delle
imprese di costruzioni con il sistema delle attestazioni Soa
evitando la qualificazione gara per gara; garantire più
concorrenza e trasparenza nelle trattative private sotto
soglia Ue e nelle gare informali nei contratti esclusi; più
rigore sui requisiti morali; approvare tempestivamente e in
maniera coordinata i 50 provvedimenti attuativi previsti dal
nuovo codice, sotto la guida della cabina di regia della
presidenza del Consiglio.
Sono questi alcuni dei numerosi rilievi contenuti nel
corposo
parere 01.04.2016 n. 855, favorevole con osservazioni, emesso dal Consiglio di stato (di 228 pagine)
riguardante lo schema di nuovo codice dei contratti pubblici
(Schema di decreto legislativo recante disposizioni per
l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione,
sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli
enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare) sul quale si attendono adesso i pareri delle commissioni
parlamentari (il via libera definitivo dovrà avvenire il 18
aprile).
Nel documento i giudici rilevano la presenza di
numerosi «refusi, aporie e duplicazioni di norme», mancanze
di coordinamento e di abrogazione di norme ancora in vigore,
oltre a scelte di merito in alcuni casi non coerenti con la
delega della legge n. 11/2016.
Per quel che riguarda i
numerosi provvedimenti attuativi contemplati nel nuovo
codice, l'auspicio è che si arrivi a un varo tempestivo,
ordinato e coordinato per evitare incertezze. Per fare
questo il Consiglio di Stato individua nella cabina di regia
della presidenza del Consiglio l'organo più idoneo al
coordinamento di questa delicatissima fase.
Successivamente
il parere suggerisce anche di raccogliere in testi unici
(del Mit e dell'Anac) gli atti attuativi emanati. Nel merito
il parere ritiene che vi potrebbero essere norme in
violazione del divieto di gold plating (ad esempio il limite
del 30% per le opere specialistiche e il divieto di utilizzo
dell'avvalimento nei contratti per il settore dei beni
culturali), nonché disposizioni che devono essere recepite
in modo più rigoroso (la disciplina dei contratti esclusi
per i quali non viene più inserito l'obbligo di consultare
almeno 5 operatori nelle gare informali).
Il parere ritiene
inoltre in contrasto con la delega [lettera ii) dell'art. 1,
comma 1, della legge 11] la riduzione del numero dei soggetti
da invitare alle procedure negoziate senza bando di gara al
di sotto delle soglie Ue (oggi almeno 10 o 5, a seconda
delle sub-soglie), portati a cinque o a tre. Per i
magistrati di palazzo Spada è poi necessario ridurre
«rapidamente» il numero delle stazioni appaltanti:
occorrono «amministrazioni» di adeguate dimensioni, con un
corpo di dipendenti specificamente dedicato, formato e
costantemente aggiornato.
Per rendere effettivo il
principio della centralità e qualità della progettazione il
Consiglio di Stato invita ad emanare celermente i
provvedimenti attuativi sui livelli di progettazione e i
requisiti dei progettisti, ma anche a citare espressamente i
casi in cui non si affidano i lavori sulla base del progetto
esecutivo. Sul tema della qualificazione il parere chiede di
rendere esplicito che sopra i 150 mila euro la Soa è
obbligatoria e non è dato procedere con qualificazione gara
per gara.
Sui requisiti morali dei concorrenti il parere invita ad un
maggior rigore ampliando le condanne penali ad effetto
escludente e ripescando fattispecie escludenti previste dal
vecchio codice. Sul subappalto si invita il governo a
reintrodurre il limite del 30%, previsto invece solo per le
opere superspecialistiche, Per i «settori speciali»
il parere apprezza la scelta di estendere ad essi le norme
sulla nomina delle commissioni giudicatrici, sulla
trasparenza degli atti e sul dibattito pubblico (disciplina
che in via generale deve essere subito resa obbligatoria).
Sulla disciplina degli affidamenti in house si invita
ad un attento coordinamento con la normativa in itinere
sulle società pubbliche. Sui criteri di aggiudicazione il
parere evidenzia come non sia del tutto corretto fare
riferimento alla sola nozione dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, dal momento che nella direttiva ci si
riferisce a un criterio più ampio comprendente anche i
criteri basati sul rapporto/qualità prezzo e quelli fondati
sul prezzo più basso.
Per il Consiglio di stato è poi discutibile la scelta di
avere inserito il rating di legalità nell'offerta
economicamente più vantaggiosa dal momento che si tratta di
requisito soggettivo del concorrente
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante.
Al fine di ritenere configurabile il
mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa
esecuzione di opere edilizie sono irrilevanti le modifiche
-recentemente apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del
2014, convertito dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, nell'estendere la
categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al
frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con
esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie
o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano
immutate la volumetria complessiva e la originaria
destinazione d'uso.
E si deve, in particolare, osservare che, per il caso della
trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un
immobile da deposito ad uso residenziale, viene in rilievo
il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1, del richiamato
d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di mutamento d'uso
urbanisticamente rilevante.
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3. - Il ricorso è inammissibile, perché proposto al di fuori
dei limiti fissati dall'art. 325, comma 1, cod. proc. pen..
Esso è infatti basato su censure che -al di là della loro
intestazione formale- non sono sostanzialmente riferite a
violazioni di legge, ma a pretesi vizi della motivazione. Le
censure sono, inoltre, del tutto generiche, perché nel
ricorso non si indicano gli elementi concreti sulla base dei
quali la conforme valutazione dello stato di fatto operata
dal Gip e dal Tribunale dovrebbe essere disattesa.
Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, deve
comunque rilevarsi che -contrariamente a quanto sostenuto
nel ricorso- il Tribunale ha evidenziato, sulla base di
numerosi convergenti indizi, sia l'illegittimità
macroscopica del permesso di costruire rilasciato sia, in
ogni caso, l'evidente non conformità delle opere realizzate
a tale permesso.
È sufficiente qui richiamare, innanzitutto, il profilo che
il Tribunale ha ritenuto assorbente, ovvero la destinazione
del nuovo immobile realizzato a civile abitazione, in
violazione dell'accordo del 22.05.2003, con il quale si era
autorizzato l'indagato a demolire un fabbricato adibito a
deposito e a ricostruire un altro immobile avente uguale
tipologia, nonché identici volume e superficie coperta.
E sul punto deve essere richiamato il principio, più volte
affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
al fine di ritenere configurabile il mutamento di
destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere
edilizie sono irrilevanti le modifiche -recentemente
apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del 2014, convertito
dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del d.P.R. n. 380
del 2001, il quale, nell'estendere la categoria degli
interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o
accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere,
se comportante variazione di superficie o del carico
urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la
volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso
(sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E si deve, in particolare, osservare che,
per il caso della trasformazione, attraverso opere interne
ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale,
viene in rilievo il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1,
del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale
costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante"
ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità
immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non
accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale
da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità
immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale
tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis)
turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c)
commerciale; d) rurale.
E non possono essere qui prese in considerazione le
asserzioni svolte dalla difesa sul punto, secondo cui dagli
atti non emergerebbe che il fabbricato preesistente fosse un
deposito agricolo. Si tratta, infatti, di rilievi puramente
fattuali, puntualmente smentiti dal Tribunale e, comunque,
inammissibili in sede di legittimità.
Né possono essere condivise le considerazioni -anche esse
puramente fattuali- svolte dalla difesa relativamente alla
reale consistenza dell'immobile effettivamente realizzato,
perché la stessa è stata constatata dalla polizia
giudiziaria e dal consulente tecnico del pubblico ministero
e risulta ampiamente confermata dalla documentazione
fotografica in atti. Del resto, la linea difensiva
dell'indagato muove, sul punto, dall'erroneo presupposto che
la volumetria rappresentata da piani che saranno interrati o
seminterrati -e che, peraltro, non risultano tali allo stato
in cui si trovano i lavori- non dovrebbe essere considerata
ai fini del computo volumetrico totale.
Si tratta, in ogni caso, di valutazioni che potranno essere
oggetto di definitivo approfondimento in sede di merito. Ed
anzi la ragione giustificativa della previsione
dell'articolo 325, comma 1, cod. proc. pen. nel senso di
limitare alla sola violazione di legge il ricorso per
cassazione avverso il riesame del sequestro probatorio,
risiede proprio nell'esigenza -rilevante ai fini
dell'economia processuale- di evitare che il giudizio di
merito sulla responsabilità penale possa essere anche
parzialmente anticipato in sede cautelare (ex plurimis,
sez. 3, 09.07.2015, n. 41211; sez. 3, 17.01.2013, n. 24824)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
31.03.2016 n. 12904 -
tratto da www.lexambiente.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Sindaco e consigliere regionale, non c'è
incompatibilità. Ordinanza del
Tribunale di Vallo della Lucania.
In Campania essere contemporaneamente sindaco di un comune
con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e consigliere
regionale non implica incompatibilità delle due cariche.
Lo ha sancito il TRIBUNALE di Vallo della Lucania, con
ordinanza 31.03.2016, che ha
rigettato il ricorso presentato contro il comune di Novi
Velia e la Prefettura di Salerno, per ottenere la pronuncia
di incompatibilità tra le cariche di sindaco del comune
stesso e consigliere regionale.
La sentenza ha rigettato la ricostruzione giuridica proposta
dai ricorrenti, secondo la quale il consiglio comunale nel
non deliberare l'incompatibilità del sindaco-consigliere
regionale avrebbe violato l'articolo 65 del dlgs 267/2000,
ai sensi del quale la carica di sindaco non può cumularsi a
quella di consigliere regionale.
Secondo i ricorrenti, a evitare l'incompatibilità non
potrebbe essere d'aiuto la legge regionale della Campania
16/2014. Infatti, l'articolo 1, comma 212, di tale
disposizione prevede esclusivamente un'ipotesi di
ineleggibilità a consigliere regionali per i sindaci dei
comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, compresi
nel territorio regionale; dunque, di conseguenza, nei comuni
con popolazione inferiore dovrebbe continuare a considerarsi
operante l'incompatibilità prevista dall'ordinamento degli
enti locali.
Anche perché, sebbene la legge regionale sia
attuativa dell'articolo 3 della legge 165/2004 a sua volta
contenente disposizioni di attuazione dell'articolo 122,
comma primo, della Costituzione che rimette alle regioni la
specifica individuazione e la disciplina dei casi di
incompatibilità, tuttavia la Costituzione determina i limiti
della potestà legislativa regionale nei principi
fondamentali stabiliti con legge della repubblica. Secondo i
ricorrenti, i principi impongono l'incompatibilità laddove
si ravvisino situazioni che possano compromettere il buon
andamento e l'imparzialità dell'amministrazione ovvero il
libero espletamento della carica elettiva.
L'ordinanza ritiene esattamente l'opposto. La materia
dell'elezione dei consiglieri regionali, secondo il giudice,
non è riservata alla potestà legislativa esclusiva statale,
ma a quella concorrente regionale, proprio per il combinato
disposto dell'articolo 122 della Costituzione e
dell'articolo 3 della legge 165/2004. Spetta, quindi, al
legislatore regionale disciplinare le cause di
ineleggibilità ed incompatibilità concernenti il presidente
regionale, gli assessori e i consiglieri.
L'ordinanza
aggiunge che, poiché la legge regionale 16/2014 prevede la
sola causa di ineleggibilità per i sindaci di comuni con
oltre 5.000 abitanti eletti consiglieri regionali, o,
simmetricamente, per i consiglieri regionali eletti sindaci
sempre in comuni con oltre 5.000 abitanti, nel caso di
specie nessuna causa ostativa al mantenimento delle cariche
di consigliere regionale e di sindaco si era verificata,
perché si tratta di un comune con popolazione inferiore ai
5.000 abitanti.
Nella sostanza, la lettura data dall'ordinanza del Tribunale
di Vallo della Lucania è nel senso che la normativa
regionale, coperta dall'articolo 122 della Costituzione,
prevale sul punto rispetto alle previsioni dell'articolo 65
del dlgs 267/2000. La soluzione non appare, tuttavia, del
tutto consolidata. Infatti, occorre tenere presente che se
la disciplina elettorale regionale è rimessa alla potestà
concorrente delle regioni, l'articolo 117, comma 2, lettera
p), della Costituzione riserva alla legislazione esclusiva
dello Stato la legislazione elettorale degli enti locali.
Dunque, un problema di coordinamento tra l'articolo 65 del dlgs
267/2000 e le disposizioni regionali in tema di
ineleggibilità e incompatibilità certamente si pone
(articolo ItaliaOggi dell'08.04.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
CONSIGLIERI REGIONALI:
Pure la regione può adottare atti politici.
Sentenza del Tribunale amministrativo ligure.
Anche le regioni possono adottare atti politici, in quanto
tale prerogativa non è appannaggio esclusivo del governo
della Repubblica.
Questo è il principio contenuto nella
sentenza
30.03.2016 n. 297 del
TAR Liguria, Sez. I.
La delicata vicenda ha preso le mosse
dal rinvio a giudizio di un consigliere regionale per il
reato di peculato continuato in concorso con il capogruppo
consiliare.
I fatti erano correlati ai rimborsi delle spese sostenute
nell'ambito dello svolgimento delle proprie funzioni
istituzionali. L'interessato ha chiesto alla regione di
essere dichiarato immune dalle accuse, invitandola a
proporre conflitto di attribuzioni nei riguardi dello Stato.
Ciò sul presupposto che il ricorrente avesse svolto
un'attività di rilevanza costituzionale, come tale
insindacabile dal giudice penale ed eventualmente da quello
contabile.
La regione Liguria tuttavia non ha battuto ciglio sulla
sollecitazione del suo componente, il quale si è poi rivolto
al giudice amministrativo impugnando il silenzio, deducendo
che l'Ente aveva l'obbligo di pronunciarsi sull'argomento.
Il Tar ha invece affermato in primo luogo che tale obbligo
non sussiste e in secondo luogo che la decisione della
Regione di sollevare o meno un conflitto dinanzi al giudice
delle leggi ai sensi dell'art. 134 Cost. rientra nella sfera
degli atti politici, come tale oggetto di riserva assoluta e
rimessa alla discrezione politica e non certo alla funzione
amministrativa.
Quindi il consigliere regionale non si trovava nella
posizione di sindacare la determinazione del Consiglio circa
la sua immunità. A dispetto di quanto sostenuto dal
ricorrente i giudici di primo grado non hanno peraltro
condiviso la tesi che faceva rientrare l'atteggiamento
silente dell'amministrazione nel novero degli atti di alta
amministrazione.
Il collegio giudicante ha concluso che, a voler seguire il
filo conduttore del ragionamento contenuto nel ricorso, si
correva il rischio di trasferire in sede contenziosa il
confronto politico, il che condurrebbe a comprimere (anziché
a tutelare) l'autonomia degli organi elettivi dalle
ingerenze degli altri poteri dello Stato
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2016).
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MASSIMA
Il ricorrente ha svolto la funzione di consigliere della
regione Liguria dal 2005 al 2015, ed in relazione a tale
incarico ne è stato chiesto il rinvio al giudizio del
tribunale di Genova per il delitto di peculato continuato in
concorso con il capogruppo consiliare per avere:
- esposto la somma di euro 7.902,74 quale rimborso dovuto
per le attività istituzionali degli anni 2010 e 2011, mentre
si trattava di spese personali non inerenti alla carica
ricoperta;
- esposto la somma di euro 4,20 quale rimborso dovuto per
l’attività istituzionale in data 04.03.2011, trattandosi
invece di spese personali non inerenti l’attività ricoperta;
- esposto la somma di euro 7.610,28 quale rimborso dovuto
per l’attività istituzionale 2012, trattandosi invece di
spese personali non inerenti l’attività ricoperta.
Egli si è difeso nel corso delle indagini preliminari e
nella fase successiva agli atti del PM di cui agli artt. 416
e seguenti del cpp osservando di essersi attenuto alle
direttive del consiglio, ed in particolare a quelle emanate
dal capogruppo consiliare del raggruppamento politico di
appartenenza, essendo questi il soggetto avente la qualifica
di pubblico ufficiale rilevante per la configurazione della
contestata fattispecie di cui all’art. 314 cp.
Non è noto quale sia stato il rilievo attribuito nel corso
dell’udienza preliminare a tali difese, ma in questa sede il
ricorrente lamenta il silenzio serbato dall’amministrazione
regionale sulla sua richiesta di essere dichiarato immune
dalla accuse mosse per avere egli svolto un’attività di
rilevanza costituzionale, come tale insindacabile dal
giudice penale ed eventualmente da quello contabile.
La ricostruzione contenuta nel ricorso muove dalla
collocazione della regione nel disegno costituzionale dei
poteri dello Stato, richiama le innovazioni apportate alla
materia della riforma costituzionale del 2001 e conclude con
l’affermazione dell’obbligo in capo alla regione Liguria di
tutelare la propria autonomia politica ed organizzativa
dagli altri poteri dello Stato. In tale contesto la
resistente sarebbe risultata inadempiente rispetto alle
prescrizioni che derivano dalle disposizioni costituzionali
denunciate allorché non ha riscontrato la significazione e
diffida notificata: essa avrebbe infatti dovuto dar corso
all’impulso così ricevuto e proporre il conflitto di
attribuzioni avanti alla corte costituzionale al fine di
conseguire il dovuto rispetto alla propria autonomia
autorizzativa a fronte dell’ingerenza dell’autorità
giudiziaria.
Così riassunte le censure, il ricorso va innanzitutto
dichiarato ricevibile, posto che la giurisprudenza della
corte costituzionale (sentt. 10.04.2003, n. 116 e
30.01.2004, n. 58) ha chiarito che la legge ha inteso
svincolare la proposizione dei ricorsi quale è quello in
esame dall’osservanza dei termini decadenziali, così da
favorire la decisione delle questioni di natura
politico-costituzionale che vengono proposte.
L’oggetto di tali contese fuoriesce per lo più dall’ambito
che caratterizza le controversie ordinariamente rimesse alla
decisione dei giudici, sì che già la legge 31.03.1877, n.
3761 in termini di conflitti di attribuzione aveva sottrarre
la loro deduzione dall’osservanza delle cadenze che invece
sono imposte per le liti comuni. In tal senso l’omessa
indicazione di ogni termine da parte della legge 11.03.1953,
n. 87 ha il preciso significato indicato, cosa che induce a
disattendere l’eccezione di tardività formulata dalla
regione Liguria.
Nel merito si può osservare che la descrizione degli assetti
costituzionali richiamati può prescindere dalle innovazioni
che la riforma introdotta dalla legge costituzionale
20.04.2012, n. 1 ha apportato alla legge fondamentale, posto
che l’art. 6 della novella ha postergato all’esercizio 2014
l’efficacia delle norme introdotte, e così ad un’epoca
successiva alle condotte contestate. Tale riforma ha
prestato particolare attenzione alla finanza della cosa
pubblica, sì che in qualche misura l’autonomia regionale
potrà essere in futuro posposta rispetto a “…l’equilibrio
dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico…”;
tuttavia la norma transitoria citata esclude la possibilità
di conoscere la presente fattispecie anche nell’ottica della
novella costituzionale citata.
Ciò premesso, l’enunciazione delle doglianze muove da un
profilo che non può essere condiviso dal tribunale,
derivando da ciò l’inammissibilità del ricorso.
Il presupposto dell’esposizione in diritto è infatti nel
senso che a seguito della diffida del consigliere Ga.
la regione Liguria avrebbe dovuto esprimersi con un atto
ufficiale di proposizione del conflitto di attribuzioni
insorto tra lo Stato (il tribunale di Genova) ed essa
regione (art. 134 cost.), ovvero denegando la sussistenza
della violazione ascritta dalla magistratura: tale
determinazione costituirebbe un atto di alta
amministrazione, sì che il silenzio denunciato sarebbe
giustiziabile avanti al tribunale amministrativo adito, non
dovendosi con ciò fare applicazione dell’art. 7, primo
comma, ultimo capoverso, del d.lvo 02.07.2010, n. 104 che
esclude il potere del giudice amministrativo di sindacare
gli atti politici.
La differenziazione tra gli atti politici e quelli di
alta
amministrazione è stata oggetto di riflessioni si può dire
sin dall’individuazione della nozione di Stato di diritto,
essendo sempre risultata necessaria l’enucleazione di una
sfera di attribuzioni riservata alla politica nella quale
gli altri poteri non possono intromettersi.
Tale vicenda ha avuto risvolti particolari nell’ordinamento
italiano, attese le alterne vicende conosciute nel tempo dai
rapporti tra i poteri statuali.
La Costituzione vigente ha scandito in modo preciso gli
ambiti di attribuzione delle funzioni riconosciute, ma anche
il disegno così delineato nel 1948 è stato toccato dai
mutamenti occorsi nella società italiana. Va notato al
riguardo che la possibilità di esercitare un sindacato
giudiziale sugli atti politici ovvero di altra
amministrazione è stata regolata per molto tempo dal testo
unico sul consiglio di Stato del 1924, a cui è stata data
con gli anni una lettura sempre più aderente al testo
costituzionale.
In oggi sono intervenuti dapprima la legge istitutiva dei
tribunali amministrativi regionali e successivamente il
codice del processo amministrativo che si sono tuttavia
limitati a ribadire l’inammissibilità delle impugnazioni
avverso gli atti politici, demandando alla giurisprudenza la
delimitazione del mutevole confine tra le due ipotesi.
La distinzione operata tra le due ipotesi è nel senso che
l’atto politico è sostanzialmente libero nel fine da
individuare, mentre quello di alta amministrazione si
colloca all’interno dell’esercizio di una funzione
ampiamente discrezionale, che deve tuttavia svolgersi in un
ambito finalistico predeterminato dalla normativa.
In giurisprudenza sono stati ricompresi tra i provvedimenti
impugnabili, perché esercizio dell’attività di alta
amministrazione, la soppressione di un’ambasciata italiana,
la scelta per la provvista delle alte cariche pubbliche, la
nomina di un difensore civico, l’atto governativo di
superamento dell’esito di una conferenza dei servizi (art.
14-quater della legge 07.08.1990, n. 241), la nomina del
presidente di un conservatorio di musica, la conferma o la
mancata conferma del direttore generale di un’azienda
sanitaria, la nomina e la revoca degli assessori regionali;
un esame delle ipotesi considerate induce a ritenere che si
tratta comunque di determinazioni che restano nell’ambito
della funzione amministrativa, quella cioè che deve
provvedere alla gestione della cosa pubblica in nome dei
cittadini o di parte di essi affinché la vita associata
risulti il più possibile desiderabile.
Se ne conclude sul punto che
le norme non possono descrivere
con precisione tutte le ipotesi che la realtà sottopone alla
funzione pubblica, sì che in alcuni casi è opportuno che
talune autorità, in genere di vertice, abbiano una sfera di
discrezionalità particolarmente ampia per conformare al
meglio le situazioni giuridiche allo stato effettivo delle
cose.
Diversa è stata l’individuazione della categoria degli atti
politici, che sono previsti dall’ordinamento per la libertà
dei fini che li caratterizza, e nell’ordinamento attuale
sono più strettamente legati alla natura elettiva diretta od
indiretta degli organi titolati alla loro adozione.
In giurisprudenza
(in termini la già citata decisione
10.4.2003, n. 116 della corte costituzionale)
è stato
chiarito che la commistione di funzioni che induce ad
individuare l’atto politico si rinviene in special modo
allorché un soggetto dotato di attribuzioni pubbliche
interviene in un ambito di possibile pertinenza di altro
ente, anch’esso titolare di mansioni di generale interesse.
Poste tali premesse va condivisa la narrativa del ricorso
nella parte in cui sottolinea che
la giurisprudenza ha via
via limitato lo spazio assegnato dall’ordinamento agli atti
politici: si è registrato con ciò l’ampliamento del
perimetro che la giurisdizione ha ritenuto di sua
competenza, in quanto organo deputato al controllo
dell’esercizio di un potere amministrativo che non può
sottrarsi alle previsioni degli artt. 24 e 113 cost.
Non di meno la Costituzione individua degli spazi di azione
in cui gli organi più elevati dello Stato o degli enti
previsti dalla norma fondamentale si esprimono liberi nei
fini, perseguendo gli interessi di maggior rilievo per la
collettività: al riguardo è possibile operare un istruttivo
rinvio alla decisione 29.05.2014, n. 2792 del consiglio di
Stato nella parte in cui ha distinto l’attività (di alta
amministrazione) di una commissione istituita per legge
nell’ambito del ministero della marina mercantile incaricata
di fornire pareri su un contenzioso diplomatico insorto con
uno stato estero, e l’atto ministeriale (politico) di
accoglimento o diniego del parere stesso.
In tale fattispecie la funzione di verifica dell’interesse
nazionale eventualmente da tutelare viene demandata dapprima
ad un organo tecnico che pondera l’interesse nazionale alla
composizione della controversia ed alle eventuali modalità
per giungere a ciò, mentre il ministro deve apprezzare in
modo insindacabile come dar tutela al naviglio nazionale nei
confronti di uno stato straniero.
Il caso qui in esame riguarda invece i rapporti più delicati
tra un potere statuale e quello regionale: il tribunale di
Genova ha aperto il procedimento nei confronti
dell’interessato svolgendo la funzione costituzionalmente
garantita di determinare in modo definitivo (proscioglimento
o condanna) il potere di giudizio attribuitogli.
La Regione Liguria ha a sua volta una sfera intangibile di
attribuzioni che la Costituzione riconosce e tutela al fine
dar corpo ai principi di autonomia (artt. 5 e 114 cost.) che
costituiscono un fondamento dell’ordinamento vigente; in tal
senso è stato chiarito (corte costituzionale 01.10.2003, n.
303) che la regione ha una posizione ordinamentale
differente dal comune, posto che solo il primo dei due enti
citati ha la capacità esser parte avanti la corte
costituzionale al di fuori di quanto accade nel corso dei
comuni giudizi già instaurati; soltanto lo Stato e la
regione possono chiedere la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una legge che ritengono lesiva delle
rispettive attribuzioni, ovvero possono adire la corte ai
sensi dell’art. 134 cost.
La vicenda rientra pertanto in un ambito simile a quello
definito recentemente dalla corte costituzionale (sent.
07.07.2015, n. 137) allorché ha operato la ricognizione di
quali sono i presupposti necessari per ritenere sussistente
il conflitto tra i poteri, sì che la soluzione di tali
vertenze o l’eventuale decisione di proporle non può
rientrare tra gli atti di alta amministrazione.
Ed a tale proposito non può ritenersi che la formulazione
letterale dell’art. 7 del cpa citato limiti al solo governo
della Repubblica la possibilità di adottare degli atti
liberi nei fini che si sottraggono al controllo del giudice,
posta la condivisibilità sul punto delle argomentazioni
spese dal ricorrente stesso sulla rilevanza costituzionale
delle regioni. Tali enti sono infatti abilitati a promuovere
i conflitti previsti dal ricordato art. 134 cost., ma la
loro decisione in tal senso non è sindacabile in questa
sede, trattandosi di un ambito rimesso alla discrezione
politica e non alla funzione amministrativa.
Oltre a ciò la conclusione assunta circa l’impossibilità per
un consigliere regionale di sindacare la determinazione del
consiglio di cui egli fa parte di adire o di non adire la
corte costituzionale ai sensi dell’art. 134 cost. si lascia
preferire in forza di un’altra considerazione.
La maggior parte delle comuni attività giurisdizionali
presuppone la sussistenza della situazione di
controinteresse, ovvero –per giungere al concreto- la
possibilità che l’eventuale determinazione del consiglio o
di altri organi regionali di adire la corte costituzionale
sia contestata in causa da altri soggetti. Così opinando si
giungerebbe al trasferimento in sede contenziosa del
confronto politico, una situazione la cui configurabilità è
stata sempre negata dalla giurisprudenza (ad esempio Tar
Puglia, Lecce, 28.11.2013, n. 2388) allorché si tratta
dell’impugnazione da parte dei consiglieri comunali delle
deliberazioni dell’organo di cui essi stessi fanno parte.
La tesi esposta porterebbe quindi a conseguenze opposte a
quelle che sembra desiderare il ricorrente, che intende
invece tutelare l’autonomia degli organi elettivi dalle
ingerenze degli altri poteri dello Stato.
E’ poi rinvenibile un’ulteriore discrasia nella narrativa
contenuta nell’atto di impugnazione, nella parte in cui il
ricorrente allega l’opportunità di ampliare la sfera delle
attribuzioni del giudice amministrativo al fine di
conculcare quelle del giudice penale; il collegio rileva
allora che, volendolo, la regione Liguria avrebbe potuto
opporre avanti alla corte costituzionale la sua riserva di
potestà a fronte dell’attività del giudice penale, sì che in
tale caso la sede investita sarebbe stata idonea a
pronunciarsi in materia.
Quel che non può condividersi è invece l’allegazione della
sussistenza di un obbligo della regione di pronunciarsi
sull’argomento che è oggetto di riserva assoluta degli
organi politici dell’ente dotato delle prerogative stabilite
dalla Costituzione.
In conclusione il ricorso è inammissibile e le spese vanno
compensate attesa la complessità della natura del
contendere. |
PATRIMONIO:
Le piogge eccezionali non giustificano l’incuria.
Se il pluviale è difettoso resta comunque la responsabilità.
Danni da eventi atmosferici. La Cassazione interviene sulle
colpe del condominio.
Caso fortuito o forza maggiore
devono essere tali da interrompere davvero qualsiasi nesso
tra cosa ed evento. E quindi anche il condominio può essere
chiamato in causa per il risarcimento dei danni dovuti sì a
eventi atmosferici straordinari ma i cui effetti sono stati
facilitati dall’incuria. Insomma, tempi duri per gli
amministratori di condominio disattenti alla manutenzione.
Questo il senso
della
sentenza 24.03.2016 n. 5877
della Corte di Cassazione, Sez. III civile.
L’articolo 2051 del Codice civile, infatti, che ammette la
possibilità di andare esenti da responsabilità, qualora il
«custode» provi il caso fortuito ovvero la forza maggiore,
per risultare operativa necessita di un fattore causale
esterno di una tale intensità da risultare idoneo a impedire
qualsivoglia «nesso eziologico» tra la cosa e l’evento
lesivo.
Quindi, quando l’apporto esterno sia tale da integrare, in
astratto, gli elementi tipici del caso fortuito o della
forza maggiore, ma, tuttavia, vengano in rilievo condotte
colpose del custode (in questo caso il condominio)
potenzialmente idonee a interrompere o aggravare la
componente causale estranea, queste possono fondare delle
ipotesi di responsabilità esclusiva o concorrente.
Peraltro, lo stato di profondo dissesto idrogeologico in cui
versa l’intero Paese, impone un doveroso rigore negli
accertamenti giudiziali, in considerazione del fatto che
stante la frequenza di eventi alluvionali a carattere
calamitoso, a oggi, gli stessi risultano tutt’altro che
imprevedibili.
Il ragionamento della Cassazione probabilmente imporrà una
più cauta riflessione per tutti quei danni conseguenza dei
rilevanti fenomeni atmosferici. La Corte ha quindi ribaltato
la sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva negato
il risarcimento del danno subito da un privato. Che
conveniva in giudizio il condominio nel quale deteneva in
locazione due locali (nonché il Comune), chiedendo che
venissero condannati al risarcimento del danno subito in
conseguenza dell’allagamento degli ambienti dopo un violento
temporale, per cui vi erano state delle infiltrazioni dovute
sia all’esondazione di un vicino sottopasso –causata dal
mancato funzionamento delle elettropompe all’uopo installate– che alla fuoriuscita di acqua da un tubo pluviale del
condominio.
Il Tribunale di Milano, e successivamente, la Corte
d’appello rigettavano la domanda. Per la Cassazione il
giudice d’appello avrebbe ritenuto, sbagliando, ininfluente
la verifica in merito al corretto funzionamento degli
impianti, data la loro acclarata inadeguatezza.
La Corte ha quindi chiarito che «La possibilità di invocare
il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi
ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al
soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità
da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e
l’evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato
una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare
l’evento», pertanto, vista la responsabilità del condominio
(e del Comune), tenuti alla manutenzione, il giudice di
merito «avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della
fattispecie, allo scopo di valutare se, come e in quale
percentuale l’esecuzione dei lavori a regola d’arte e il
regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero
stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre
l’entità dei danni», specie in rapporto allo stato attuale
del territorio che impone: «criteri di accertamento
improntati a un maggior rigore, poiché è chiaro che non si
possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni
fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più
frequenti».
Gli amministratori di condominio dovranno quindi, anche in
casi analoghi, dimostrare rigorosamente la corretta
manutenzione delle cose in custodia (articolo Il Sole 24 Ore del
05.04.2016). |
PATRIMONIO: Danni da alluvione:
danni da alluvione a carico del Comune non che non fa
manutenzione delle fogne.
La possibilità di invocare il fortuito
(o la forza maggiore) deve ritenersi ammessa nel solo caso
in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante
abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout
court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di
tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta
da sola sufficiente a determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza
ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da
uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in
astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della
forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di
specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte
astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità
del soggetto che invoca l'esimente in questione.
---------------
Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in
relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A.,
che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da
parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui
la P.A. realizzi e mantenga un'opera pubblica trova un
limite nell'obbligo di osservare, a tutela della incolumità
dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le
specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti
detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e
prudenza, con la conseguenza che dall'inosservanza di queste
disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità
della responsabilità della stessa pubblica amministrazione
per i danni arrecati a terzi.
---------------
La s.r.l. "La Ch. di Is."
convenne dinanzi al Tribunale di Milano il condominio "Gi.
di Lissone", il comune di Lissone e le compagnie
assicuratrici Helvetia e Sasa, chiedendone la condanna al
risarcimento dei danni subiti in seguito all'allagamento
(verificatosi in occasione di un forte temporale, sia per
esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni
da un tubo pluviale del condominio) di due locali condotti
in locazione da essa attrice.
Espose, in particolare, la società che, tra le cause
dell'allagamento, un particolare rilievo aveva assunto il
mancato funzionamento delle elettropompe che il comune aveva
installato proprio al fine di prevenire l'evento poi
verificatosi.
Il giudice di primo grado respinse sia la domanda della
società, sia quella proposta in corso di giudizio dal
condominio nei confronti del comune per omessa o carente
manutenzione della fognatura.
...
Quanto alla responsabilità del comune di Lissone risulta in
fatto accertato -come si legge nella motivazione della
pronuncia oggi impugnata:
- che i locali di proprietà dell'odierna ricorrente rimasero
seriamente danneggiati a seguito dell'allagamento causato da
un forte temporale, di carattere eccezionale;
- che la capacità di smaltimento delle elettropompe era da
ritenersi comunque insufficiente rispetto all'intensità
della precipitazione;
- che, conseguentemente, l'accertamento circa il mancato
funzionamento delle pompe stesse (circostanza allegata
dall'attrice in prime cure) doveva ritenersi ininfluente ai
fini del decidere, proprio in conseguenza della loro
insufficienza allo smaltimento della eccezionale
precipitazione.
Di qui, la riconduzione dell'evento di danno al caso
fortuito.
La questione giuridica sulla quale questa Corte è chiamata a
pronunciarsi consiste, pertanto, nello
stabilire se un fenomeno di pioggia intensa e persistente,
tale da assumere i connotati di una pioggia definita dalla
Corte d'appello come di eccezionale intensità, alla luce
degli acquisiti dati pluviometrici, possa costituire o meno
un evento riconducibile alla fattispecie del fortuito,
idoneo di per sé ad interrompere il nesso di causalità, in
considerazione del suo carattere di straordinarietà ed
imprevedibilità -
quesito al quale la Corte d'appello ha dato risposta
affermativa.
La questione non è nuova nella giurisprudenza di questa
Corte.
La sentenza 11.05.1991, n. 5267, relativa alla diversa
fattispecie di un contratto di deposito nei magazzini
generali, ebbe già ad affrontare il problema della
possibilità di riconoscere la natura di caso fortuito in
riferimento ad un allagamento provocato da intense
precipitazioni atmosferiche; e, sia pure con le diversità
evidenti rispetto alla fattispecie per la quale è ancor oggi
processo, questa Corte osservò che "per
caso fortuito deve intendersi un avvenimento imprevedibile,
un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente
nella serie causale come fattore determinante in modo
autonomo dell'evento. Il carattere eccezionale di un
fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria
anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di per sé
solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude
la prevedibilità in base alla comune esperienza".
La successiva sentenza 22.05.1998, n. 5133, emessa in un
giudizio avente ad oggetto un risarcimento danni per
allagamento di un negozio conseguente all'invasione delle
acque a seguito di abbondanti piogge, affermò che "possono
integrare il caso fortuito precipitazioni imprevedibili o di
eccezionale entità", rilevando che l'evento
imprevedibile costituisce caso fortuito e non determina
responsabilità.
In tempi più recenti, la sentenza 09.03.2010, n. 5658
-emessa in un giudizio di risarcimento danni nei confronti
dell'ANAS per allagamenti conseguenti alla tracimazione
delle acque ed alla cattiva manutenzione dei sistemi di
smaltimento delle acque piovane- ha affermato che
è certamente vero "che una pioggia di eccezionale
intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad
eventi di danno come quello in questione; ma non è affatto
vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque
un caso fortuito".
Con quest'ultima pronuncia, in particolare, è stato
precisato che, per potersi condividere la
decisione del giudice di merito che in quell'occasione aveva
respinto la domanda di risarcimento dei danni, l'ANAS "avrebbe
dovuto dimostrare che le piogge in questione erano state da
sole causa sufficiente dei danni nonostante la più
scrupolosa manutenzione e pulizia da parte sua delle opere
di smaltimento delle acque piovane; il che equivale in
sostanza a dimostrare che le piogge in questione erano state
così intense (e quindi così eccezionali) che gli allagamenti
si sarebbero verificati nella stessa misura pure essendovi
stata detta scrupolosa manutenzione e pulizia".
La sentenza in esame ha poi aggiunto che,
ove fosse stato provato che la manutenzione e la pulizia
sarebbero state idonee almeno a ridurre l'entità degli
allagamenti, si sarebbe dovuto fare applicazione della
previsione di cui all'art. 1227, coma 1, c.c..
Ritiene questo Collegio che vada confermato
tale, più recente orientamento, con le necessarie
precisazioni richieste dalla specificità del caso in esame.
La possibilità di invocare il fortuito (o
la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo
caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto
danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da
interrompere tout court il nesso eziologico tra la
cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere
considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a
determinare l'evento.
E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza
ed intensità, protrattosi nel tempo e con modalità tali da
uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in
astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della
forza maggiore, salva l'ipotesi -predicabile nel caso di
specie- in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte
astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità
del soggetto che invoca l'esimente in questione.
Applicando tale principio al caso di specie, è evidente
l'errore in cui è caduta la sentenza impugnata la quale,
trascurando del tutto ogni accertamento in ordine al
funzionamento delle pompe di smaltimento (che si assume da
parte ricorrente non funzionanti) sulla scorta dell'erronea
considerazione della loro insufficienza a smaltire l'intero
flusso delle acque (senza interrogarsi né sulla possibilità
e sulla efficacia causale di uno smaltimento anche solo
parziale, né su eventuali responsabilità amministrative
circa le caratteristiche stesse delle pompe di filtraggio),
ha tuttavia attribuito, sic et simpliciter, il
carattere del fortuito determinante alla pioggia torrenziale
che si era abbattuta sul territorio, omettendo altresì di
considerare le rilevanti perplessità espresse dal ctu circa
il reale stato di manutenzione della fognatura (ff. 11-12
della relazione, riportata in ricorso al foglio 26).
La Corte d'appello, di converso, ha ritenuto -sulla base di
un sillogismo evidentemente privo delle necessarie premesse-
che anche un sistema di deflusso che fosse stato realizzato
e avesse funzionato nel pieno rispetto di tutte le norme
tecniche e di ordinaria diligenza non sarebbe stato idoneo a
contenere la furia delle acque e ad evitare il danno.
E' tale affermazione ad apparire, nella sostanza, sfornita
di motivazione, mentre è evidente che l'accertamento di una
sicura responsabilità in capo all'ente tenuto alla
manutenzione avrebbe dovuto imporre un più accurato esame
della fattispecie, allo scopo di valutare se, come ed in
quale percentuale l'esecuzione dei lavori a regola d'arte e
il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero
stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre
l'entità dei danni.
Questa Corte ha già in più occasioni
riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di
manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e
la conseguente insindacabilità da parte del giudice
ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi
e mantenga un'opera pubblica trova un limite nell'obbligo di
osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e
dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche
disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta
attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza,
con la conseguenza che dall'inosservanza di queste
disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità
della responsabilità della stessa pubblica amministrazione
per i danni arrecati a terzi
(tra le altre, Cass. 09.10.2003, n. 15061 e 11.11.2011, n.
23562).
E' appena il caso di aggiungere, infine, che ogni
riflessione, declinata in termini di attualità, sulla
prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere
alluvionale, certamente impone, oggi, in considerazione dei
noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro
Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior
rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare
come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che
stanno diventando sempre più frequenti e, ormai, tutt'altro
che imprevedibili
(Corte di Cassazione, Sez. III
civile,
sentenza 24.03.2016 n. 5877). |
APPALTI SERVIZI: Sui
servizi di pulizia costi non congelabili. Appalti. Il Tar:
obbligatoria la clausola d’adeguamento automatico dei
prezzi.
Sono nulle le clausole contrattuali che
limitano la revisione periodica dei prezzi negli appalti dei
servizi di pulizia:
lo sottolinea il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, nella
sentenza 24.03.2016 n. 1556,
decidendo una controversia tra il ministero dell’Istruzione
e un consorzio di cooperative.
Il caso specifico riguarda i servizi di pulizia mediante
l’impiego, presso istituti scolastici della regione
Campania, di ex lavoratori socialmente utili: l’impresa
esecutrice ha chiesto l’adeguamento dei corrispettivi
dell’appalto in forza dell’articolo 115 del codice degli
appalti pubblici (Dlgs 163/2006). In particolare
quell’articolo prevede che i contratti a esecuzione
periodica e continuativa, relativi a servizi o forniture,
devono contenere una clausola di revisione periodica del
prezzo, revisione che viene operata sulla base di
un’istruttoria condotta dall’amministrazione attraverso dati
rilevati dal mercato.
Questa norma è di tipo imperativo, cioè si inserisce di
diritto anche nei contratti in cui manchi una pattuizione
del genere o addirittura vi sia un patto contrario: ciò per
evitare che i pubblici appaltatori subiscano in proprio
quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che,
incidendo sull’utile stimato al momento della formulazione
dell’offerta, potrebbero indurre l’appaltatore stesso a
svolgere i servizi e le forniture a condizioni peggiori
rispetto quanto pattuito, addirittura causando
un'interruzione del rapporto.
Di qui la necessità della clausola di revisione prezzi, che
opera attraverso un procedimento istruttorio con cui viene
determinata l’entità del compenso revisionale. Peraltro il
meccanismo di rilevazione del costo dei servizi, previsto
dall’articolo 6 della legge 537/1993, non è stato
concretamente attuato e di conseguenza, si applica il
cosiddetto indice Foi (famiglie operai e impiegati)
calcolato mensilmente dall’Istat. Il Tar ha quindi
condannato l’amministrazione della pubblica istruzione al
pagamento in favore dell’appaltatore del compenso
revisionale, con importo da determinarsi a cura
dell’amministrazione stessa.
Con lo stesso ricorso l’appaltatore ha chiesto anche il
rimborso di maggiori oneri sostenuti in conseguenza
dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente
maggior retribuzione del personale impiegato nell’appalto.
Sul punto, tuttavia, il Tar ha ritenuto di non potersi
esprimere, essendo questa una materia di competenza del
giudice ordinario. Si tratta infatti di incrementare
l’importo contrattuale aggiungendo un’ora ulteriore di
lavoro.
In altri termini, ci si rivolge al giudice amministrativo
quando si discute di una revisione periodica e di un
adeguamento del prezzo degli appalti di servizi o forniture,
facendo valere le variazioni di andamento del mercato dei
costi e dei fattori produttivi. Se invece cambiano le
condizioni negoziali originariamente pattuite e si discute
del rimborso di maggiori oneri derivanti da una circostanza
estranea all’andamento del mercato dei costi del servizio
occorre rivolgersi al giudice ordinario (articolo Il Sole 24 Ore del
07.04.2016).
---------------
MASSIMA
Il Collegio, confermando l’orientamento di questa
Sezione, dal quale non ha motivo di discostarsi, deve, in
via preliminare, osservare che la proposta domanda di
riconoscimento delle somme spettanti in virtù dell’art. 115
del d.lgs. n. 163/2006, previo accertamento della nullità
della clausola negoziale limitativa della revisione
periodica dei prezzi prescritta da tale norma, rientra nella
giurisdizione esclusiva dell'adito giudice amministrativo
(cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015, n.
1462 e n. 1475).
Ed invero, l'art. 244 del d.lgs. n. 163/20063 prevede che
"il codice del processo amministrativo individua le
controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo in materia di contratti pubblici" e
l'art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm.
stabilisce che "sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo le controversie relative al
divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici di lavori,
servizi, forniture, relative alla clausola di revisione del
prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti
ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui
all'articolo 115 del decreto legislativo 12.04.2006 n.
163".
Tanto premesso in punto di giurisdizione, nel merito, la
suindicata domanda è fondata per le ragioni di seguito
esposte.
Ai sensi dell’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, “tutti i
contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a
servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione
periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base
di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili
dell'acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di
cui all'articolo 7, comma 4, lett. c, e comma 5”.
La giurisprudenza amministrativa è ormai costante
nell'affermazione secondo cui l'art. 115 citato (che
riprende la formulazione già contenuta nell'art. 6 della l.
n. 537/1993) è una norma imperativa, che si sostituisce di
diritto ad eventuali pattuizioni contrarie (o mancanti) nei
contratti pubblici di appalti di servizi e forniture ad
esecuzione periodica o continuativa (cfr.,
ex multis, Cons.
Stato, n. 2461/2002; n. 916/2003; n. 3373/2003; n.
3994/2008): ciò, in quanto la clausola di revisione
periodica del corrispettivo di tali contratti ha lo scopo di
tenere indenni gli appaltatori delle amministrazioni
pubbliche da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della
produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata
al momento della formulazione dell'offerta, potrebbero
indurre l'appaltatore a svolgere i servizi o ad eseguire le
forniture a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito
o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con
inevitabile compromissione degli interessi pubblici.
Per evitare tali inconvenienti, il legislatore ha, quindi,
disposto l'inserimento obbligatorio della clausola di
revisione prezzi ed ha contemporaneamente delineato il
procedimento istruttorio attraverso cui la stazione
appaltante deve determinare l'entità del compenso
revisionale.
Peraltro, è noto che le disposizioni del previgente art. 6
della l. n. 537/1993 non sono state completamente attuate,
visto che, ad esempio, non ha mai concretamente funzionato
il meccanismo di rilevazione del costo dei beni e servizi,
cosicché si applica normalmente il c.d. indice FOI fissato
dall'ISTAT (cfr. Cons. Stato n. 3373/2003; n. 2461/2002; n.
4801/2002).
Può, pertanto, affermarsi che, per i contratti ad esecuzione
periodica o continuativa –relativi a servizi e forniture–
stipulati da amministrazioni pubbliche, la regola ordinaria
è quella per cui la revisione prezzi spetta senza alcun
margine di alea a danno dell'appaltatore.
Nella fattispecie oggetto di gravame devono ritenersi
applicabili i principi sopra richiamati, atteso che
la
clausola contenuta nell’art. 12, comma 2, del contratto
normativo (“la revisione dei prezzi … potrà essere
effettuata subordinatamente ed entro i limiti di eventuali
incrementi degli stanziamenti annuali di bilancio”) e
recepita nel susseguente contratto attuativo risulta
irrefutabilmente arbitraria nell’an e limitativa nel
quantum
dell’adeguamento periodico del corrispettivo, contraria,
come tale, alla norma imperativamente prescrittiva del
compenso revisionale tramite apposita statuizione
contrattuale.
Conseguentemente, è da ritenersi operante, per effetto
sostitutivo automatico, la clausola revisionale prevista
dall'art. 115 del d.lgs. n. 163/2006.
Con riferimento al quantum revisionale, il meccanismo legale
di aggiornamento del canone degli appalti pubblici di
servizi e delle pubbliche forniture prevede che la revisione
venga operata a seguito di una istruttoria condotta dai
dirigenti responsabili della acquisizione dei beni e servizi
sulla base dei dati rilevati e pubblicati semestralmente
dall'ISTAT sull'andamento dei prezzi dei principali beni e
servizi acquisiti dalle amministrazioni appaltanti, ma
l'insegnamento giurisprudenziale consolidato ha chiarito che
–a fronte della mancata pubblicazione di tali dati da parte
dell'ISTAT– l’adeguamento dei corrispettivi debba essere
calcolato utilizzando l'indice (medio del paniere) di
variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati
(c.d. indice FOI) mensilmente pubblicato dal medesimo ISTAT
(cfr., ex multis, Cons. Stato, n. 2461/2002).
Quanto al maggior costo sostenuto per il personale impiegato
per l'espletamento del servizio di pulizia, che –come
argomentato da parte ricorrente– incide sull’economia del
contratto nella misura dell’85%, ritiene il Collegio che il
relativo importo debba essere riconosciuto in base agli
incrementi desumibili dalle tabelle ministeriali, in
rapporto ai valori economici previsti dalla contrattazione
collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, alle norme in materia previdenziale e
assistenziale, ai diversi settori merceologici ed alle
differenti aree territoriali.
Alla stregua delle superiori considerazioni, la domanda in
esame va accolta per quanto di ragione, con conseguente
condanna dell’amministrazione resistente al pagamento, in
favore del C.N.S. e del Consorzio Stabile Mi., del
compenso revisionale ex 115 del d.lgs. n. 163/2006.
Detto compenso revisionale andrà determinato, ai sensi
dell’art. 34, comma 4, c.p.a., su proposta
dell’amministrazione resistente, secondo i predetti principi
di diritto, e tenendo conto sia delle fatture emesse dalla
parte ricorrente ai fini del calcolo della rivalutazione dei
canoni sulla base delle variazioni dell’indice FOI rilevato
dall’ISTAT, sia delle fatture già saldate dalla stazione
appaltante, nonché decurtando le somme già forfetariamente e
parzialmente riconosciute a titolo di adeguamento dei
corrispettivi.
L’importo così determinato andrà maggiorato degli interessi
moratori che –ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 231/2002–
decorreranno dal giorno successivo alla scadenza del termine
per il pagamento fino all’effettivo soddisfo (cfr. TAR
Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015, n. 1475 cit.).
La proposta di determinazione a cura dell’amministrazione
resistente e il pagamento, in favore dei ricorrenti,
dell’importo dovuto a titolo di compenso revisionale
dovranno avvenire entro il termine che si fissa, quanto alla
proposta, in 40 giorni decorrenti dalla comunicazione o, se
anteriore, notificazione della presente decisione, e, quanto
al pagamento, in 40 giorni dalla notizia dell’accettazione
della proposta.
Venendo ora alla domanda di rimborso dei maggiori costi
sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di
lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del
personale impiegato in appalto, il Collegio, confermando
l’orientamento già fatto proprio dalla Sezione in casi
omologhi a quello dedotto nel presente giudizio, ritiene di
dover declinare la giurisdizione di questo adito giudice
amministrativo in favore della giurisdizione del giudice
ordinario (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII, 23.10.2015, n. 5000,
05.11.2015, n. 5131).
Al riguardo, giova, in primis, chiarire gli esatti termini
della controversia.
Il Collegio rileva, in particolare, che, stando alla
prospettazione dei ricorrenti:
- in seguito all’accordo sindacale stipulato il 30.07.2007, l’orario di lavoro della manodopera adibita
all’esecuzione dell’appalto, costituita da ex lavoratori
socialmente utili (LSU) o di pubblica utilità (LPU), sarebbe
stato innalzato da 35 a 36 ore settimanali;
- ciò avrebbe comportato il proporzionale aumento della
retribuzione media mensile pro capite da € 1.544,08 a €
1.588,20;
- in capo al gestore del servizio di pulizia affidato,
all’obbligo contrattuale “di assicurare, in ogni caso, il
mantenimento dei livelli occupazionali … del personale ex LSU ed ex LPU esistenti alla data di stipula del …
contratto” (art. 4, comma 6, del contratto normativo del 28.12.2006) –così come, appunto, quello imposto dal
citato accordo sindacale del 30.07.2007– avrebbe dovuto
corrispondere il diritto di percepire un compenso
commisurato all’andamento della spesa per la manodopera, non
potendo, quest’ultimo, tradursi in un fattore a discapito
del gestore medesimo.
Rileva, altresì, il Collegio che la copertura dei maggiori
costi derivanti dall’incremento dell’orario di lavoro in
corso di appalto rinviene la propria disciplina negoziale
nell’art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo del 28
dicembre 2006: “L’importo contrattuale … –recita,
segnatamente, la clausola in parola– rimane fisso ed
invariabile per l’intera durata del contratto anche in
presenza di variazione del numero di lavoratori. Le ore
erogate infatti non subiranno variazioni in diminuzione.
Tale importo non deve considerarsi comunque garantito per
l’assuntore stante la facoltà per il contraente di avvalersi
di quanto stabilito dall’art. 11 del r.d. n. 2443/1923. Il
contraente, pertanto, potrà richiedere all’assuntore di
incrementare l’importo contrattuale stesso fino a
concorrenza del limite di 1/5 … alle stesse condizioni,
termini e corrispettivi del presente contratto normativo e
del contratto attuativo … L’assuntore curerà di assicurare,
in ogni caso, il mantenimento dei livelli occupazionali e
retributivi del personale ex LSU ed ex LPU esistenti alla
data di stipula del presente contratto; le economie
rivenienti dalle cessazioni del personale a qualunque titolo
verificatesi nell’arco temporale di durata del contratto,
nonché quelle maturate, per effetto delle precedenti
cessazioni, a decorrere dalla stipula del presente
contratto, saranno utilizzate per il progressivo adeguamento
contrattuale del personale dalle attuali 35 ore settimanali
fino ad un massimo di 40 ore pro capite, per migliorare la
qualità dei servizi prestati ovvero per far fronte, con le
ore aggiuntive, alle predette cessazioni, alle quali,
comunque, non potrà far seguito alcuna nuova assunzione di
unità lavorative”.
Ciò posto, il Collegio ritiene che la controversia, così
come dianzi inquadrata, esuli dal novero di quelle riservate
dall’art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, c.p.a. alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le quali
ineriscono alla “clausola di revisione del prezzo” ed al
“relativo provvedimento applicativo nei contratti ad
esecuzione continuativa o periodica, nell’ipotesi di cui
all’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163”.
La clausola e il provvedimento di revisione periodica
disciplinati dal menzionato art. 115 del d.lgs. n. 163/2006
concernono, infatti, –come desumibile anche dal richiamo al
precedente art. 7, commi 4, lett. c, e 5– l’adeguamento del
prezzo degli appalti di servizi e forniture rispetto
all’andamento di mercato dei costi dei fattori produttivi
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.01.2013, n. 465; TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 23.09.2014, n. 2328; TAR
Lombardia, Milano, sez. I, 26.01.2015, n. 293),
‘ceteris rebus sic stantibus’, ossia ferme restando le
condizioni negoziali originariamente pattuite dalle parti in
ordine alla natura ed alla quantità delle prestazioni
dovute.
La domanda in esame, a differenza di quella già scrutinata
ed accolta, ha, invece, per oggetto il totalmente distinto
profilo del rimborso dei maggiori oneri economici derivanti
da una circostanza estranea all’andamento di mercato dei
costi del servizio affidato e, segnatamente, consistente
nell’incremento dell’orario di lavoro della manodopera in
corso di appalto; profilo che attiene, quindi, alla
variazione del quantum delle prestazioni richieste al
gestore, nonché all’incidenza della stessa sulla remuneratività del corrispettivo
ab origine pattuito, e che
non può, come tale, considerarsi attratto all’orbita di
giurisdizione esclusiva dell’adito giudice amministrativo,
essendo inammissibile una estensione analogica della
eccezionale norma istitutiva di quest’ultima (art. 133,
comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., sulla cui natura
tassativa, cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.07.2014, n.
4015; TAR Abruzzo, L’Aquila, 12.02.2015, n. 88; 14.05.2015, n. 391; più in generale, nel senso del
carattere ‘particolare’ delle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cfr.
Corte cost., 06.07.2004, n. 204).
In realtà, la fattispecie in scrutinio rientra pacificamente
nella giurisdizione del giudice ordinario.
Essa sussegue, infatti, allo spartiacque rappresentato dalla
stipula del contratto affidato ed afferisce alla fase della
sua esecuzione, così da attingere, in via diretta e
immediata, posizioni di diritto soggettivo scaturenti da un
rapporto negoziale ‘iure privatorum’, perfezionato ed
efficace, e cioè posizioni di diritto soggettivo che, in
quanto tali, si incanalano nell’alveo naturale della
cognizione del giudice ordinario, chiamato a verificare la
conformità delle regole convenzionali e delle relative
condotte attuative alla normativa civilistica (cfr. Cass.
civ., sez. un., 23.12.2003, n. 19787; 05.04.2005 n.
6992; 18.10.2005 n. 20116; 07.11.2008, n. 26792; 05.04.2012, n. 5446; 23.11.2012, n. 20729;
08.07.2015, n. 14188; Cons. Stato, sez. V, 28.12.2006, n.
8070; 17.10.2008, n. 5071; 25.07.2012, n. 4224; 16.01.2013, n. 236; 30.07.2014, n. 4025; 31.12.2014, n. 6455; TAR Campania, Napoli, sez. VII,
05.06.2009, n. 3110; sez. VIII, 25.10.2012, n. 4228; TAR
Abruzzo, Pescara, 14.07.2009 n. 511; 23.11.2011,
n. 642; 28.01.2013, n. 44; 12.04.2013, n. 217;
L’Aquila, 22.04.2014, n. 361; TAR Lombardia, Milano,
sez. III, 24.11.2010, n. 7346; 02.04.2015, n. 868;
TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 07.12.2011, n. 2932; TAR
Toscana, Firenze, sez. I, 12.12.2011, n. 1925; TAR
Molise, Campobasso, 08.02.2012, n. 20; 17.02.2012, n. 63; 19.03.2014, n. 174; 28.11.2014, n.
653; TAR Basilicata, Potenza, 09.03.2012, n. 114; 08.11.2013, n. 704; TAR Calabria, Reggio Calabria,
05.06.2012, n. 407; TAR Valle d’Aosta, Aosta, 19.07.2012, n. 70; TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.10.2012, n.
8755; 13.12.2012, n. 10379; sez. III, 02.05.2013,
n. 4399; Latina, 19.07.2013, n. 648; TAR Emilia Romagna,
Parma, 20.12.2012, n. 364; TAR Piemonte, Torino, sez.
I, 21.12.2012, n. 1389 e n. 1390; 06.02.2015, n.
259; TAR Liguria, Genova, sez. II, 16.05.2014, n. 769;
12.02.2015, n. 173; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 13.02.2015, n. 571).
Più in dettaglio, investe pretese patrimoniali ingenerate
dalla modifica quantitativa del contenuto delle obbligazioni
gravanti su ciascuna delle parti –quale, da un lato,
l’incremento del monte ore della manodopera impiegata e,
quindi, delle prestazioni erogate dall’impresa appaltatrice
e, d’altro lato, la proporzionale maggiorazione del compenso
dovuto dalla stazione appaltante–, nonché l’interpretazione
e l’applicazione della disciplina convenzionale dettata per
tale ipotesi (art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo
del 28.12.2006).
Ebbene, l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del
c.d. ius variandi, ossia del diritto potestativo di
avvalersi di simili modifiche alla quantità (o anche alla
qualità) delle prestazioni affidate, così come,
specularmente, il diritto dell’appaltatore di esigere
l’adeguamento del corrispettivo in proporzione alle
modifiche stesse non si correlano –come, invece, inferito
dai ricorrenti– ad un potere dell’amministrazione di tipo autoritativo, ma si esplicano a guisa di diritti soggettivi
nell'ambito di un rapporto paritetico.
Pertanto, la
controversia originata dall’esercizio del ius variandi è da
intendersi esulante dalla giurisdizione del giudice
amministrativo, atteso che la modifica, quantitativa o
qualitativa, delle prestazioni contrattuali rientra
nell'ambito della fase negoziale di esecuzione del contratto
già affidato e stipulato, devoluta –come illustrato– alla
cognizione del giudice ordinario (cfr. TAR Campania, Napoli,
sez. V, 07.02.2014, n. 897).
In questo senso, Cass. Civ., SS.UU., 05.04.2012, n. 5446
ha, più in generale, ribadito che appartengono al giudice
amministrativo le controversie che attengono alla fase
preliminare –antecedente e prodromica alla stipula del
contratto pubblico– di formazione della volontà
dell’amministrazione e di scelta del contraente privato in
base alle regole della c.d. evidenza pubblica; mentre sono
devolute al giudice ordinario le controversie che radicano
le loro ragioni nella serie negoziale successiva, a partire
dalla stipula del contratto pubblico fino alle vicende del
suo adempimento, e che riguardano la disciplina dei rapporti
instaurati in forza del contratto medesimo e sono, quindi,
volte all’accertamento dei diritti e degli obblighi da esso
scaturenti, nonché delle condizioni di sua validità ed
efficacia.
Alla luce delle considerazioni svolte, con riguardo alla
domanda di rimborso dei maggiori costi per incremento
dell’orario di lavoro della manodopera impiegata in appalto,
deve essere, conseguentemente, dichiarato il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo, appartenendo la
giurisdizione al giudice ordinario.
In conclusione, alla luce di quanto sopra esposto, il
ricorso in epigrafe deve essere accolto limitatamente alla
domanda di adeguamento periodico dei corrispettivi
dell’appalto di pulizia eseguito, con conseguente
accertamento della nullità della clausola contrattuale
limitativa di esso e condanna dell’amministrazione
resistente al pagamento delle somme da determinarsi a tale
titolo, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a.; con riguardo
alla proposta domanda di rimborso dei maggiori costi
sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di
lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del
personale impiegato in appalto, va dichiarato il difetto di
giurisdizione di questo adito giudice amministrativo,
appartenendo la giurisdizione al giudice ordinario.
La riproposizione della relativa domanda è disciplinata
dell’art. 11 del decreto legislativo 02.07.2010 n. 104. |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il più recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di
Stato, l’istanza di accertamento di conformità non incide
sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione in
precedenza emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione
materiale, con la conseguenza che la medesima ordinanza può
essere portata ad esecuzione in caso di rigetto
dell’istanza, dopo la maturazione del relativo termine di
adempimento che riprende a decorrere dalla conoscenza del
diniego.
---------------
4. RITENUTA, per contro, l’infondatezza dell’eccezione di
improcedibilità dell’appello nella sua interezza, sollevata
dall’appellato Comune di Bolzano sotto il profilo che la
mera presentazione di istanza di sanatoria per i vari abusi
contestati, successivamente all’impugnazione dell’ordinanza
di demolizione e ripristino, renderebbe quest’ultima
inefficace e, quindi, improcedibile l’impugnazione per
sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, secondo il più
recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di Stato,
l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità dell’ordinanza di demolizione in precedenza
emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione materiale,
con la conseguenza che la medesima ordinanza può essere
portata ad esecuzione in caso di rigetto dell’istanza, dopo
la maturazione del relativo termine di adempimento che
riprende a decorrere dalla conoscenza del diniego (v., ex
plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 02.02.2015, n. 466)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.03.2016 n. 1204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Schema di decreto legislativo recante “modifiche e
integrazioni al Codice dell’Amministrazione Digitale di cui
al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi
dell’articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia
di riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche”
(Consiglio di Stato, Commissione speciale,
parere 23.03.2016 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Danni da burocrazia:
sul risarcimento danni per i tempi lunghi della burocrazia
se la condotta della Pa è colposa.
Nel caso in cui venga introdotta, avanti
al giudice ordinario, una domanda risarcitoria, ai sensi
dell'art. 2043 c.c., nei confronti della P.A. per
illegittimo esercizio di una funzione pubblica, il giudice
deve procedere, in ordine successivo, alle seguenti
indagini:
a) in primo luogo, deve accertare la sussistenza di un evento
dannoso;
b) deve, poi, stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come
ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse
rilevante per l'ordinamento (a prescindere dalla
qualificazione formale di esso come diritto soggettivo);
c) deve, inoltre, accertare, sotto il profilo causale, facendo
applicazione dei criteri generali, se l'evento dannoso sia
riferibile ad una condotta della P.A.;
d) infine, deve verificare se detto evento dannoso sia imputabile a
responsabilità della P.A., considerando che tale imputazione
non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo
dell'illegittimità del provvedimento, richiedendosi, invece,
una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della
colpa che, unitamente al dolo, costituisce requisito
essenziale della responsabilità aquiliana.
Si deve peraltro
precisare, in proposito:
a) sotto il profilo oggettivo-causale, che laddove si deduca
la lesione di un interesse legittimo pretensivo per il
ritardo nel rilascio di un provvedimento abilitativo, e
l'autorizzazione richiesta, dopo l'annullamento in sede di
giurisdizione amministrativa di un illegittimo diniego, sia
poi effettivamente rilasciata sulla base della situazione
originaria senza che siano intervenuti mutamenti nelle
circostanze rilevanti, il giudizio prognostico circa la
fondatezza dell'istanza della parte non può che ritenersi,
ovviamente, positivo;
b) sotto il profilo dell'elemento soggettivo, che pur
essendo sempre necessaria l'imputabilità del fatto alla
pubblica amministrazione a titolo di dolo o di colpa (non
desumibile dalla sola illegittimità del provvedimento),
tuttavia, «allorché la illegittimità del provvedimento
derivi dal vizio di violazione di legge per mancata
osservanza di prescrizioni dettate da norme giuridiche e non
risultino fatti positivi escludenti la colpa nel caso
concreto, il giudice deve ritenere provato l'elemento
psichico della condotta», in guanto allorché a cagionare
l'illegittimità di un provvedimento (illegittimità che è
elemento essenziale della fattispecie risarcitoria) sia il
vizio di violazione di legge, in senso stretto, la colpa
specifica è comprovata, salvo che non resti positivamente
esclusa da elementi acquisiti alla causa che non consentano
di muovere all'amministrazione alcun rimprovero, neppure
sotto il profilo della colpa generica, per non avere fatto
applicazione della normativa, ovvero siano comprovate cause
di giustificazione.
---------------
La motivazione del
provvedimento impugnato è insufficiente e contraddittoria.
La corte di merito ha correttamente individuato i principi
di diritto da applicare alla fattispecie, ai quali ha inteso
dichiaratamente conformarsi, e cioè quelli indicati
inizialmente da Cass., SSUU, Sentenza n. 500 del 22.07.1999,
e sostanzialmente tenuti fermi dalla giurisprudenza
successiva (si veda, per tutte, Sez. 3, Sentenza n. 12282
del 27.05.2009: «nel caso in cui venga introdotta, avanti
al giudice ordinario, una domanda risarcitoria, ai sensi
dell'art. 2043 c.c., nei confronti della P.A. per
illegittimo esercizio di una funzione pubblica, il giudice
deve procedere, in ordine successivo, alle seguenti
indagini:
a) in primo luogo, deve accertare la sussistenza di un evento
dannoso;
b) deve, poi, stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come
ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse
rilevante per l'ordinamento (a prescindere dalla
qualificazione formale di esso come diritto soggettivo);
c) deve, inoltre, accertare, sotto il profilo causale, facendo
applicazione dei criteri generali, se l'evento dannoso sia
riferibile ad una condotta della P.A.;
d) infine, deve verificare se detto evento dannoso sia imputabile a
responsabilità della P.A., considerando che tale imputazione
non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo
dell'illegittimità del provvedimento, richiedendosi, invece,
una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della
colpa che, unitamente al dolo, costituisce requisito
essenziale della responsabilità aquiliana; in applicazione
di tale principio, la S.C., ha cassato con rinvio la
sentenza impugnata che aveva omesso, ai fini
dell'accoglimento della domanda risarcitoria formulata sulla
scorta di un interesse pretensivo al conseguimento di
un'autorizzazione commerciale, nella specie negata, di
procedere -sul piano oggettivo-causale- al giudizio
prognostico circa la fondatezza o meno dell'istanza di
parte, da condurre in relazione alla normativa applicabile,
e di compiere, sul piano soggettivo, il doveroso controllo
sull'imputazione almeno colposa della condotta del pubblico
funzionario, non avendo ritenuto, invece, sufficiente, per
l'affermazione della responsabilità risarcitoria dell'ente
comunale, l'intervenuto annullamento del diniego del
nulla-osta presupposto in sede di giurisdizione
amministrativa»).
Si deve peraltro precisare, in proposito:
a) sotto il profilo oggettivo-causale, che laddove si deduca
la lesione di un interesse legittimo pretensivo per il
ritardo nel rilascio di un provvedimento abilitativo, e
l'autorizzazione richiesta, dopo l'annullamento in sede di
giurisdizione amministrativa di un illegittimo diniego, sia
poi effettivamente rilasciata sulla base della situazione
originaria senza che siano intervenuti mutamenti nelle
circostanze rilevanti, il giudizio prognostico circa la
fondatezza dell'istanza della parte non può che ritenersi,
ovviamente, positivo;
b) sotto il profilo dell'elemento soggettivo, che pur
essendo sempre necessaria l'imputabilità del fatto alla
pubblica amministrazione a titolo di dolo o di colpa (non
desumibile dalla sola illegittimità del provvedimento),
tuttavia, «allorché la illegittimità del provvedimento
derivi dal vizio di violazione di legge per mancata
osservanza di prescrizioni dettate da norme giuridiche e non
risultino fatti positivi escludenti la colpa nel caso
concreto, il giudice deve ritenere provato l'elemento
psichico della condotta», in guanto allorché a cagionare
l'illegittimità di un provvedimento (illegittimità che è
elemento essenziale della fattispecie risarcitoria) sia il
vizio di violazione di legge, in senso stretto, la colpa
specifica è comprovata, salvo che non resti positivamente
esclusa da elementi acquisiti alla causa che non consentano
di muovere all'amministrazione alcun rimprovero, neppure
sotto il profilo della colpa generica, per non avere fatto
applicazione della normativa, ovvero siano comprovate cause
di giustificazione (Cass., Sez. L, Sentenza n. 7733 del
23.04.2004)
(Corte di Cassazione,
Sez. III civile,
sentenza 22.03.2016 n. 5621). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Privacy, esposto con diritto all’anonimato. Tar
del Lazio. Bocciata la richiesta di accesso alle
segnalazioni inviate al Garante.
L’accesso alle segnalazioni inviate
al Garante della privacy su presunte violazioni nel
trattamento dei dati personali farebbe venir meno il potere
di controllo alternativo e le forme di tutela affidati dal
legislatore a questo tipo di strumenti di garanzia, posto
che chi li utilizza ha lo stesso diritto alla riservatezza
riconosciuto ai lavoratori che rilasciano dichiarazioni agli
ispettori del lavoro.
Il TAR Lazio-Roma –sentenza
18.03.2016 n. 3364, Sez. I-quater– ha bocciato così il ricorso di una titolare di
agenzia di elaborazione dati che aveva chiesto al Garante di
accedere a un esposto-denuncia su un presunto trattamento
illecito dei “dati sensibili” nella propria attività.
Il
Garante, che aveva archiviato il caso avendo accertato
l’assenza di violazioni al Codice in materia di protezione
di dati personali (Dlgs 196/2003), aveva respinto la
richiesta poiché gli atti non avevano danneggiato la
ricorrente e questa non aveva «alcun interesse diretto,
concreto e attuale» a difendersi. La ricorrente sosteneva
invece di aver diritto a conoscerli come soggetto
interessato dai controlli, e che così avrebbe potuto
chiedere ai responsabili di risarcirle i danni subiti per
un’ispezione domiciliare, oltre a verificare l’ipotesi di
calunnia.
I giudici hanno spiegato che in questi casi il diritto
d’accesso va bilanciato con le forme di tutela riconosciute
dal legislatore agli strumenti alternativi a garanzia della
protezione dei dati personali quali il «reclamo
circostanziato», la «segnalazione» e il «ricorso» (articolo
141, Codice privacy), garantendo l’«anonimato di chi,
esercitando un diritto espressamente previsto
dall’ordinamento, si pone quale stimolo dei poteri di
accertamento e di controllo, anche a mezzo di ispezioni,
propri del Garante...».
Per il Tar, anche per le
segnalazioni vale l’indirizzo generale del Consiglio di
Stato che tutela la privacy nei controlli sui contratti di
lavoro (sentenza 5779/2014) per cui la «riservatezza di chi
rende dichiarazioni in sede ispettiva assume una peculiare
rilevanza, onde scongiurare eventuali ritorsioni o indebite
pressioni da parte del soggetto nei cui confronti sono state
rese le dichiarazioni, ma anche, (e, ritiene il Collegio,
soprattutto) per preservare, su di un piano più ampio, il
generale interesse ad un compiuto controllo delle attività
oggetto di ispezione...».
Quindi, anche se il diritto d’accesso prevale su quello alla
riservatezza quando la conoscenza degli atti è necessaria
alla difesa dei propri interessi giuridici (comma 7,
articolo 24, legge 241/1990), in questi casi «esiste, sullo
sfondo, un preminente interesse dell’ordinamento giuridico,
quale la tutela dei dati personali come declinata nei
diversi mezzi pure previsti dal legislatore, che è
altrettanto meritevole di essere preservato nella sua
integrità ed effettività», posto che le segnalazioni,
insieme ai ricorsi e ai reclami, garantiscono al potere di
controllo del Garante «la più completa ed esauriente
esplicazione…» a prescindere dall’esito.
Non può dunque
essere ammesso l’invocato diritto a identificare chi segnala
presunti abusi poiché «si risolverebbe, di fatto, in un
depotenziamento di questo utile strumento posto a tutela di
un bene giuridico considerato di particolare rilievo, quali
sono, appunto, i “dati personali”» (articolo Il Sole 24 Ore del
07.04.2016).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è infondato.
E’ principio consolidato che il giudizio in materia di
accesso ai documenti di cui all’art. 25, legge 07.08.1990,
n. 241, anche se si atteggia come impugnatorio -dovendo
essere presentato il ricorso nel termine perentorio di 30
giorni ed essendo rivolto contro l’atto di diniego o il
silenzio diniego formatosi sulla relativa istanza- è, in
sostanza, rivolto ad accertare la sussistenza o meno del
titolo all’accesso nella specifica situazione alla luce dei
parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o
minore correttezza o completezza delle ragioni addotte
dall’Amministrazione per giustificare il diniego, tanto è
vero che, anche nel caso di impugnativa del silenzio
diniego, la parte resistente potrebbe anche dedurre in
giudizio le ragioni che precludono all’interessato di avere
copia o di visionare i relativi documenti richiesti.
Come sopra esposto, alle richieste di accesso presentate
dalla parte ricorrente, l’Autorità resistente ha opposto,
dapprima la sussistenza di ragioni per il differimento, e
poi, con la nota impugnata, la carenza di un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti
di cui è stato chiesto l'accesso.
Ed invero, è indubitabile che le norme introdotte dalla
legge 241 nel 1990, come successivamente integrate e
modificate, consentono l’esercizio del c.d. «diritto di
accesso», ovvero il diritto di prendere visione e di
estrarre copia di documenti amministrativi, a tutti coloro
che l’art. 22, legge in esame, definisce «interessati»,
ovvero a tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è
chiesto l'accesso.
Il successivo art. 25, secondo comma, dispone, ancora, che
la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata, e
deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il
documento e che lo detiene stabilmente.
Con norma speculare ai principi dianzi riportati, l’art. 2,
d.P.R. 12.4.2006, n. 184, recante la disciplina applicativa
in materia di accesso, prevede che “Il diritto di accesso ai
documenti amministrativi è esercitabile nei confronti di
tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto
privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario,
da chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è richiesto l'accesso. Il
diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti
amministrativi materialmente esistenti al momento della
richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica
amministrazione, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera
e), della legge, nei confronti dell'autorità competente a
formare l'atto conclusivo o a detenerlo stabilmente. La
pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in
suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso.”
Il delineato quadro normativo fa ritenere al Collegio che
l’interesse all’accesso deve evidenziare la sua
strumentalità rispetto alla sussistenza di un’ulteriore
situazione soggettiva cui l’ordinamento riconosce tutela
(“per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”,
giusta l’art. 22, legge n. 241 del 1990, sopra richiamato)
che deve essere necessariamente, a sua volta, d’interesse
legittimo o di diritto soggettivo, onde evitare che,
attraverso il ricorso a tale mezzo di tutela si determini,
di fatto, l’accesso indifferenziato alla attività
amministrativa, mentre invece la struttura normativa come
sopra indicata porta ad escludere che il diritto di accesso
comporti un indiscriminato potere esplorativo né, tantomeno,
un generalizzato potere di vigilanza sull’operato delle
Amministrazioni.
Tanto precisato, e venendo all’oggetto della richiesta
ostensiva presentata dalla ricorrente, emerge con limpida
evidenza che l’interesse alla stessa sotteso, ancorché
diretto, concreto e attuale, va circoscritto, in sostanza,
alla conoscenza del nominativo dell’autore della
segnalazione che ha dato avvio al procedimento ispettivo
eseguito a suo carico, onde rivalersi dei danni
asseritamente patiti in conseguenza di ciò, atteso che
invece, sul versante prettamente amministrativo, il
procedimento si è concluso favorevolmente con una
archiviazione, non essendo emerse violazioni della
disciplina rilevante in materia di protezione dei dati
personali suscettibili di costituire oggetto di specifici
interventi da parte dell’Autorità.
Così circoscritto l’interesse all’accesso alla conoscenza
del dato di cui sopra si è detto (nominativo dell’autore
della segnalazione ricevuta dall’Ufficio del garante)
la
questione giuridica da porsi è quella della prevalenza
comunque del diritto alla ostensione rispetto alla tutela,
non tanto della riservatezza di un terzo che, peraltro,
nemmeno è parte del presente giudizio, ma, più in radice,
delle forme di tutela che il legislatore ha posto a presidio
del diritto alla protezione dei dati personali, attraverso
la garanzia dell’anonimato di chi, esercitando un diritto
espressamente previsto dall’ordinamento, si pone quale
stimolo dei poteri di accertamento e di controllo, anche a
mezzo di ispezioni, propri del Garante per la protezione dei
dati personali.
E’ il caso, invero, dei procedimenti avviati sulla base di
segnalazioni, ai sensi dell’art. 141, lett. b), che il
d.lgs. n. 196/2003 annovera tra le forme di tutela del
diritto alla protezione dei dati personali, cui il Collegio
ritiene possano essere estesi i principi elaborati dalla
giurisprudenza amministrativa in materia affine a quella
oggetto della presente controversia.
Esiste, infatti, un orientamento assunto dal Consiglio di
Stato (ancorché in occasione di controversie su una
differente tipologia di procedimento, ma i cui tratti sono
assimilabili per i fini di interesse; cfr. Sez. VI, n.
5779/2014), secondo cui l’esigenza di tutela della
riservatezza di chi rende dichiarazioni in sede ispettiva
assume una peculiare rilevanza, onde scongiurare eventuali
ritorsioni o indebite pressioni da parte del soggetto nei
cui confronti sono state rese le dichiarazioni, ma anche,
(e, ritiene il Collegio, soprattutto) per preservare, su di
un piano più ampio, il generale interesse ad un compiuto
controllo delle attività oggetto di ispezione (nella specie,
si trattava dell’attività ispettiva sulla regolarità dei
rapporti di lavoro).
Se, infatti, il bilanciamento tra diritto di accesso per la
difesa e cura dei propri interessi, da un lato, e diritto di
riservatezza del terzo, dall’altro, è stato risolto dal
legislatore con la prevalenza alla tutela del diritto di
accesso, quando questo sia strumentale alla cura o difesa di
propri interessi giuridici (art. 24, co. 7, legge n.
241/21990), non può essere trascurato che, nel caso di
specie esiste, sullo sfondo, un preminente interesse
dell’ordinamento giuridico, quale la tutela dei dati
personali come declinata nei diversi mezzi pure previsti dal
legislatore, che è altrettanto meritevole di essere
preservato nella sua integrità ed effettività.
Come si evince dall’incipit della nota oggetto di
contestazione, il Garante ha precisato che l’attività
istruttoria in merito al trattamento dei dati personali
effettuato dalla ricorrente in qualità di titolare
dell’Agenzia “Il fi. ro.”, era stata avviata d’ufficio e
sulla base di una segnalazione.
Si tratta, dunque, di un caso in cui l’attività
amministrativa è stata sollecitata facendo legittimo ricorso
ad uno strumento (la segnalazione) che costituisce una
precisa forma di tutela, a prescindere dal fatto che poi il
procedimento si sia concluso, per la ricorrente, con una
archiviazione.
Ed invero, il potere di controllo, che il Garante può
esercitare anche in via del tutto autonoma, ottiene la più
completa ed esauriente esplicazione anche con l’esercizio
dei mezzi di tutela posti dall’art. 141, d.lgs. 196/2001,
tra cui, le segnalazioni che possono essere presentate in
mancanza di elementi tali da consentire la presentazione di
un ricorso o di un reclamo circostanziato.
Pertanto, ammettere che la conoscenza del nominativo del
segnalatore costituisca un diritto indefettibile del
soggetto che tratta dati personali, che, in ragione di ciò,
si ricorda, è sottoposto al permanente potere di controllo
del Garante circa la regolarità e conformità a legge di tale
trattamento si risolverebbe, di fatto, in un depotenziamento
di questo utile strumento posto a tutela di un bene
giuridico considerato di particolare rilievo, quali sono,
appunto, i “dati personali”. |
LAVORI PUBBLICI:
Delegato e delegante ambedue legittimati. Tar
sulle occupazioni illegittime.
Ai fini dell'individuazione del soggetto obbligato alla
restituzione del bene e al risarcimento del danno derivante
da illegittima occupazione, la delega al compimento delle
operazioni espropriative delle aree ai fini della
realizzazione delle opere di urbanizzazione non priva
entrambi i soggetti (delegato e delegante) della
legittimazione passiva.
Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con la
sentenza 17.03.2016
n. 528.
Inoltre i giudici amministrativi calabresi hanno evidenziato
che solo nei casi in cui vi è sostituzione amministrativa,
l'ente sostituto andrà ad agire ai fini dell'esecuzione
dell'opera non in rappresentanza dell'amministrazione
sostituita, ma per competenza propria e spendendo il proprio
nome di persona giuridica diversa.
Pertanto si assumeranno
di fronte all'espropriato o al titolare del bene occupato
tutti gli obblighi relativi al pagamento dell'indennità o
all'eventuale ristoro dei danni, è ovvio che ciò non vale
nel caso in cui si affidi in concessione ad altro soggetto
l'esecuzione dei lavori, attribuendo, altresì, al
concessionario l'espletamento delle attività relative al
procedimento di espropriazione che si renda necessario.
E i
giudici catanzaresi hanno sottolineato come a ciò sia
conseguente che, in tal caso, la legittimazione passiva
nelle controversie promosse dall'espropriato per la
determinazione delle indennità o del risarcimento del danno
si impone a detto concessionario ovvero all'affidatario, e
non anche all'ente territoriale, pur se beneficiario delle
opere.
In ossequio anche a un ormai orientamento giurisprudenziale,
l'ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica
italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile
trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di
un'opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio
demaniale necessario, tende ad escludere decisamente la
possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico
della p.a., «poiché una tale pronuncia postula l'avvenuto
trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito,
dalla sfera giuridica del ricorrente, originario
proprietario, a quella della p.a. che se ne è illecitamente
impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in
diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo
risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal
primo protocollo addizionale della convenzione europea dei
diritti dell'uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell'uomo (si veda: Cons. stato, sez. IV,
03.10.2012 n. 5189)»
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016).
---------------
MASSIMA
Nel merito, occorre muovere dal mancato perfezionamento
della procedura espropriativa nel termine dato nel decreto
di occupazione d’urgenza e dall’irreversibile trasformazione
del bene occupato.
L’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica
italiana, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile
trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di
un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio
demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal
senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una
condanna puramente risarcitoria a carico
dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula
l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto
illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario
proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente
impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in
diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo
risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal
primo protocollo addizionale della convenzione europea dei
diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica rappresenta un
impedimento alla possibilità di restituire l’area
illegittimamente appresa, e ciò indipendentemente dalle
modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di
acquisizione del terreno
(cfr. C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V,
02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità, in ogni caso, di un passaggio
intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del
bene da parte dell’ente espropriante
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015 n. 5172 e 16.11.2007
n. 5830; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 28.11.2014 n.
2029; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, secondo la legislazione vigente, è
costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327, al
cui testo si rinvia.
In applicazione di tale disposizione, affinché l’interesse
primario della parte lesa possa essere soddisfatto, deve
perciò imporsi ad ANAS s.p.a. di attivarsi presso il
Prefetto di Cosenza, nella qualità di “autorità che ha
occupato il terreno” attribuito in uso speciale ad ANAS
s.p.a. per finalità di interesse pubblico (cfr. comma 5
dell’art. 42-bis), entro trenta giorni dalla comunicazione
e/o notificazione della presente sentenza, allo scopo di
rinnovare la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione del fondo
per cui è causa, adottando, all’esito di essa, un
provvedimento col quale lo stesso, in tutto od in parte, sia
alternativamente:
a) acquisito non retroattivamente al patrimonio
indisponibile dello Stato;
b) restituito in tutto od in parte al legittimo proprietario
entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto
esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se ad interessare è l’intero compendio
occupato, o solo parte di esso, disponendo la restituzione
del fondo rimanente entro novanta giorni, previo ripristino
dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni,
sia corrisposto al proprietario il valore venale del bene,
nonché un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale,
forfetariamente liquidato nella misura del venti per cento
del medesimo valore venale, detratte le somme già erogate al
proprietario, maggiorate dell’interesse legale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno
condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data
dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente
motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione;
- dovrà essere notificato al proprietario e comporterà il
passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute ovvero del loro
deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R.
08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei
registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente
e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi
dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché
comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti,
mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo
interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su
autorizzazione scritta da parte di questi ed inoltre che
tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di
conformazione alla presente decisione potranno formare
oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso,
tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da
emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore del
ricorrente ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro
pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per
cento annuo sul valore venale dell’intero bene occupato per
tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre
dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione. |
VARI:
Perdita punti. Il diabete non è una scusa.
Chi perde tutti i punti patente deve rifare l'esame di
scuola guida. Non serve a nulla lamentare malattie
invalidanti poi in caso di mancato superamento delle prove.
Si resta a piedi come tutti.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con
sentenza
09.03.2016 n. 473.
Un utente stradale incappato in una serie
di sanzioni per condotta di guida negligente è stato
invitato dalla motorizzazione alla revisione della patente
ex art. 128 Cds.
A seguito del mancato superamento dell'esame teorico il
ministero ha quindi disposto la revoca della licenza di
guida e l'interessato ha proposto ricorso ai giudici
amministrativi censurando le motivazioni dell'atto, in
relazione alla sua patologia diabetica.
Il collegio ha rigettato il ricorso condannando
l'interessato anche al pagamento delle spese. L'iter logico
argomentativo della motorizzazione è corretto. Se un autista
perde tutti i punti patente deve sottoporsi alla revisione
della sua licenza di guida.
Al superamento delle prove mediche consegue anche un esame
teorico sull'abilità alla guida. Chi viene bocciato a scuola
guida poi resta a piedi
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016). |
APPALTI:
Impresa esclusa, danni al cv.
Tar sulle gare.
Scatta il risarcimento del danno al curriculum per l'impresa
ingiustamente esclusa dall'appalto. E ciò perché fra le
varie voci da ristorare a carico dell'amministrazione c'è
anche la perdita della possibilità, patita dall'azienda, di
incrementare il suo avviamento che la gara pubblica avrebbe
garantito, in quanto particolarmente importante nel settore
di riferimento. Senza dimenticare la lesione subita
all'immagine e al prestigio nel comparto imprenditoriale.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.03.2016 n. 2966, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lazio-Roma.
L'estromissione dell'azienda partecipante integra la
violazione dei principi di imparzialità e correttezza:
nessun errore scusabile può invocare l'amministrazione
perché non ha provveduto a dare tempestiva esecuzione agli
obblighi che scaturivano da pronunce di giudici.
Il danno curriculare scatta in quanto specificazione della
perdita di chance e non risulta compreso nel mancato utile
d'impresa. Per chi opera nel settore degli appalti pubblici
la partecipazione alla gara è un vantaggio valutabile sul
piano economico perché accresce la competitività sul
mercato. L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita
di un operatore economico, va infatti oltre l'esecuzione
dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti.
Il fatto stesso dell'esecuzione dei lavori rappresenta per
la società aggiudicataria che opere nei lavori pubblici una
nuova vittoria da esporre nel palmares, a prescindere dal
lucro che l'impresa si ripromette di ricavare per effetto
del corrispettivo pagato dalla stazione appaltante. E ciò al
di là dell'impossibilità di riutilizzare altrove maestranze
e attrezzature destinate al servizio non aggiudicato.
Deve invece essere disattesa la domanda di risarcimento del
danno esistenziale perché mancano le prove di un danno
all'onorabilità della società dopo il provvedimento
illegittimo. All'amministrazione che aveva bandito la gara
non resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 06.04.2016). |
APPALTI:
Gare, risarcito il curriculum.
Scatta il risarcimento del danno al curriculum per l'impresa
ingiustamente esclusa dall'appalto. E ciò perché fra le
varie voci da ristorare a carico dell'amministrazione c'è
anche la perdita della possibilità, patita dall'azienda, di
incrementare il suo avviamento che la gara pubblica avrebbe
garantito, in quanto particolarmente importante nel settore
di riferimento. Senza dimenticare la lesione subita
all'immagine e al prestigio nel comparto imprenditoriale.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.03.2016 n. 2966, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lazio-Roma.
Vantaggio economico.
L'estromissione dell'azienda partecipante integra la
violazione dei principi di imparzialità e correttezza:
nessun errore scusabile può invocare l'amministrazione
perché non ha provveduto a dare tempestiva esecuzione agli
obblighi che scaturivano da pronunce di giudici. Il danno
curriculare scatta in quanto specificazione della perdita di
chance e non risulta compreso nel mancato utile
d'impresa.
Per chi opera nel settore degli appalti pubblici la
partecipazione alla gara è un vantaggio valutabile sul piano
economico perché accresce la competitività sul mercato.
L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un
operatore economico, va infatti oltre l'esecuzione
dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti.
Il fatto stesso dell'esecuzione dei lavori rappresenta per
la società aggiudicataria che opere nei lavori pubblici una
nuova vittoria da esporre nel palmares, a prescindere dal
lucro che l'impresa si ripromette di ricavare per effetto
del corrispettivo pagato dalla stazione appaltante. E ciò al
di là dell'impossibilità di riutilizzare altrove maestranze
e attrezzature destinate al servizio non aggiudicato.
Deve invece essere disattesa la domanda di risarcimento del
danno esistenziale perché mancano le prove di un danno
all'onorabilità della società dopo il provvedimento
illegittimo. All'amministrazione che aveva bandito la gara
non resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2016).
---------------
MASSIMA
3. Nel caso all’odierno esame, quanto al comportamento
tenuto dall’Amministrazione resistente, le richiamate
pronunce del giudice amministrativo chiaramente accertano
l’illegittimità dell’esclusione del RTI dalla gara in esame;
dalla narrativa in fatto si evince, altresì, il protrarsi
dell’inerzia della p.a. che reiteratamente ometteva di
prestare esecuzione ai provvedimenti giudiziari suddetti e
di aggiudicare il servizio in gara all’odierna ricorrente,
restando ingiustificatamente inerte.
Quanto all’elemento soggettivo, si rammenta come,
secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, al
privato non sia chiesto un particolare sforzo probatorio per
dimostrare la colpa dell’Amministrazione, potendo egli
invocare l’illegittimità del provvedimento quale presunzione
(semplice) della colpa, ed anche allegare circostanze
ulteriori, idonee a dimostrare che non si è trattato di un
errore non scusabile
(da ultimo Cass., n. 23170 del 2014 e Cons. Stato, sez. III,
10.09.2014, n. 4618; in termini, Cons. Stato, Sez. VI,
25.01.2008, n. 213; 03.06.2006, n. 3981; 09.03.2007, n.
1114; 09.06.2008, n. 2751).
Nessuna circostanza idonea ad integrare l’errore scusabile è
stata per contro addotta dalla intimata Presidenza del
Consigli, desumendosi, viceversa, nella vicenda controversa,
la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e di
buona amministrazione nel non aver provveduto a dare
tempestivamente e fattivamente esecuzione agli obblighi
discendenti dalle ripetute pronunce giurisdizionali.
4. Appare dunque evidente che la domanda risarcitoria
avanzata dalla società ricorrente è fondata e va senz’altro
accolta nell’an, salvo determinare concretamente le
voci di danno da riconoscersi a Seap.
Occorre in proposito considerare che,
in materia di risarcimento del danno da lesione di interessi
legittimi pretensivi, nel caso di accoglimento della domanda
risarcitoria proposta dal partecipante ad una pubblica gara
illegittimamente pretermesso (nella specie si trattava di
una gara per l’affidamento di un incarico professionale),
questi ha diritto all’integrale risarcimento dei danni
subiti, a fronte della colpa dell’Amministrazione nel
preferirgli un altro concorrente, qualora risulti accertato
che, se la gara si fosse svolta regolarmente, ne sarebbe
risultato vincitore. Nella quantificazione del danno, il
giudice dovrà tener conto di tutte le circostanze del caso
concreto e liquidare sia il danno emergente che il lucro
cessante (quali le spese sostenute per partecipare alla
gara, il mancato guadagno per non aver potuto svolgere
l’attività professionale ed il mancato incremento del
curriculum professionale)
(Corte di Cassazione, sez. III civile, 08.06.2015, n.
11794).
La domanda sul quantum del richiesto risarcimento è
dunque fondata e la pretesa risarcitoria dovrà essere
commisurata al danno da mancata aggiudicazione del servizio
de quo, la quale si pone in rapporto di diretta
causalità con l’illegittima esclusione della società dalla
gara e con la mancata tempestiva esecuzione delle pronunce
giurisdizionali sopra richiamate, nei termini che di seguito
si vanno ad esporre.
4.1 Preliminarmente va rilevato che Seap agisce uti
singula rispetto al RTI SEAP ADORMARE nel quale, per
effetto degli accordi intercorsi tra mandante e mandataria,
le attività oggetto del servizio e i relativi corrispettivi
venivano ripartiti secondo il seguente criterio di riparto:
SEAP 58%, ADORMARE 42%.
Ne discende che, posto uguale a € 1.417.141,26 il valore
complessivo dell’offerta formulata dal RTI predetto nella
gara controversa, pari all’importo a base d’asta al netto
del ribasso praticato (del 29,685%), maggiorato delle spese
per gli oneri di sicurezza e per il costo del personale, la
quota corrispondente alla ricorrente dovrà computarsi nella
misura pari al 58% dell’offerta come sopra proposta, ossia
in € 821.941,931.
4.2
Quanto alla prima voce di danno concernente il danno
emergente, va premesso che i costi sostenuti per la
partecipazione alla gara sono risarcibili all’impresa che
lamenti la illegittima esclusione dall’appalto.
Ed invero la partecipazione alle gare di
appalto comporta, inevitabilmente, per le imprese, dei
costi, che, ordinariamente, restano a carico dell’impresa
medesima, sia in caso di aggiudicazione, che di mancata
aggiudicazione; detti costi di partecipazione si connotano
come danno emergente solo allorché l’impresa subisca
un’illegittima esclusione, venendo in tale evenienza in
considerazione la pretesa del contraente a non essere
coinvolto in trattative inutili
(Cons. St., sez. III, 14.12.2012, n. 6444; Tar Bari, sez. I,
06.10.2011, n. 1466).
Ritiene tuttavia il Collegio che
tali costi debbano peraltro essere contenuti nell’ambito dei
costi diretti subiti ai fini della partecipazione, e non
anche degli oneri afferenti al mancato utilizzo dei mezzi
dedicati alle peculiarità dei servizi appaltati, perché
rientranti nella valutazione della voce del lucro cessante,
né di quelli legati al mancato abbattimento delle spese
generali in ragione dell’inattività dell’impresa, perché non
direttamente connessi e non di facile determinazione.
Tuttavia nel caso di specie i costi sostenuti per la
partecipazione alla gara sono oggetto di mera allegazione da
parte di Seap e non anche di documentazione a fini di prova,
e pertanto non possono essere riconosciuti alla ricorrente
quale componente del risarcimento per equivalente del danno
da illegittima esclusione dalla gara in questione.
4.3
Quanto al danno curriculare, che la ricorrente
lamenta in dipendenza della mancata acquisizione
dell’appalto che il RTI aveva titolo ad acquisire e
consistente nel pregiudizio dallo stesso subito a causa del
mancato arricchimento del curriculum professionale
(Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751),
ritiene il Collegio che esso debba essere riconosciuto in
virtù di una autonoma considerazione e non possa viceversa
considerarsi incluso nel mancato utile d’impresa, anche
tenuto conto della dedotta impossibilità per il RTI di
utilizzare “aliunde” le attrezzature e le maestranze
deputate all'espletamento del servizio non aggiudicato.
4.3.1 Si osserva al riguardo che, in linea di massima,
deve ammettersi che l'impresa ingiustamente privata
dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare anche la
perdita della specifica possibilità concreta di incrementare
il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum
professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio
professionale, al di là dell'incremento degli specifici
requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole
gare
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.05.2011 n. 1681; sez. IV,
27.11.2010 n. 8253; sez. VI, 11.01.2010 n. 20; sez. VI,
21.05.2009 n. 3144; sez. VI, 09.06.2008 n. 2751; sez. IV,
06.06.2008 n. 2680; sez. V, 23.07.2009 n. 4594; sez. V,
12.02.2008 n. 491; sez. IV, 29.07.2008 n. 3723; nonché TAR
Lazio, sez. III, 02.02.2011 n. 974 e TAR Sicilia, Catania,
Sez. IV, 07.01.2010 n. 3).
4.3.2 E infatti, come la Sezione ha già avuto modo di
osservare,
tale voce di danno, costituente una specificazione del danno
per perdita di chance, si correla necessariamente
alla qualità di impresa operante nel settore degli appalti
pubblici; e, più in particolare, al fatto stesso
dell’esecuzione di uno di questi tipi di contratto, a
prescindere dal lucro che l'impresa stessa si riprometta di
ricavare per effetto del corrispettivo pagato dalla stazione
appaltante. Questa qualità imprenditoriale può ben essere
fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente
valutabile, in quanto idonea ad accrescere la capacità
competitiva sul mercato e, quindi, la chance di
aggiudicazione di ulteriori e futuri appalti: l'interesse
alla vittoria di un appalto, nella vita di un operatore
economico, va infatti oltre l'interesse all'esecuzione
dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti.
Alla mancata esecuzione di un'opera pubblica
illegittimamente appaltata si ricollegano, pertanto,
indiretti nocumenti all'immagine della società, al suo
radicamento nel mercato, all'ampliamento della qualità
industriale o commerciale dell'azienda, al suo avviamento;
ulteriormente dovendosi prendere in considerazione la
lesione arrecata al più generale interesse pubblico al
rispetto della concorrenza, in conseguenza dell'indebito
potenziamento di imprese concorrenti che operino sul
medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate
aggiudicatarie della gara
(Tar Lazio, sez. I, 02.08.2011, n. 6907).
4.3.3
Circa la quantificazione del risarcimento, considerato che
gli effetti dell’illegittima esclusione e della conseguente
mancata aggiudicazione
riguardano il solo territorio dell’isola di Lampedusa, dei
porti di Licata e Mazara del Vallo e dell’isola di
Pantelleria,
si ritiene equo, in applicazione del criterio ex art. 1226
c.c., riconoscere una somma pari al 2% dell’offerta
economica
del RTI, per la quota riferibile a Seap Srl.
4.4 Viceversa,
va disattesa la pretesa al maggiore danno con riguardo al
c.d. “danno esistenziale”, in quanto nella
vicenda controversa non risulta essere stato leso il diritto
all’immagine, al buon nome e all’onorabilità aziendale della
ricorrente, e che si concretizza nella considerazione che un
soggetto ha di sé e della reputazione di cui gode
(Cons. Stato, Sez. V, 12/02/2008, n. 491),
considerato che il provvedimento di esclusione, impugnato
con il primo ricorso, è stato annullato dalle richiamate
decisioni del giudice amministrativo, mentre la mancata
realizzazione del servizio in questione non può concretare,
in sé, un motivo di svalutazione o di detrazione
dell’impresa nel mondo degli affari.
4.5 Venendo alla seconda voce di danno, non vi è dubbio che
alla ricorrente vada riconosciuto integralmente l’utile
conseguibile e non conseguito per effetto della mancata
aggiudicazione dell’appalto in ragione dell’illegittima
esclusione dalla gara.
E invero,
tutte le volte che si tratti di quantificare il lucro
cessante da mancata esplicazione di un’attività
d’impresa, pari al mancato utile ritraibile, vanno
determinati, sulla base dell’offerta presentata dalla
società, gli utili attesi dall’intera iniziativa per il
periodo di riferimento, e però diminuiti dei redditi sotto
qualunque forma conseguiti dalla società nel medesimo
periodo, per l‘impiego alternativo dei mezzi propri
necessari al progetto mancato; e tanto, in applicazione del
criterio dell’aliunde perceptum, vale a dire
dell’utile alternativo che l’impresa può avere acquisito
svolgendo attività alternative rispetto a quella che avrebbe
dovuto eseguire, ove avesse ottenuto il servizio in appalto
(Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; Tar Lazio, sez.
III-ter, 23.07.2010, n. 28158).
Tuttavia, nel caso in esame rileva la dedotta impossibilità
per il RTI di utilizzare “aliunde” le attrezzature e
le maestranze deputate all'espletamento del servizio non
aggiudicato, essendo evidente che, se l’ambito territoriale
del servizio de qua afferente il solo territorio dell’isola
di Lampedusa, dei porti di Licata e Mazara del Vallo e
dell’isola di Pantelleria, è stato affidato ad un’impresa
(il Consorzio Comap), lo stesso contratto non può,
ovviamente, esser stato eseguito da altra impresa (Seap
Srl), la quale si è pertanto trovata nell’impossibilità di
utilizzare le relative risorse aziendali all’uopo
predisposte, e tanto giustifica l'integrale riconoscimento
del danno per mancato utile d'impresa, ragguagliato
all'intero utile che allo stesso ricorrente sarebbe derivato
dall'esecuzione dell'appalto in questione .
Quanto alla determinazione del danno da mancato utile,
il Collegio ritiene che all'impresa danneggiata possa essere
riconosciuto un risarcimento che si reputa equo determinare
nel 10% del valore dell'appalto,
per la quota riferibile a Seap,
anche perché la ricorrente non ha dato dimostrazione del
fatto che il margine di utile sarebbe stato maggiore di
quello presunto
(cfr. CGARS, 05.10.2010, n. 1236).
Né, al riguardo, vale indagare sulla possibilità di diverso
utilizzo delle risorse umane e strumentali da parte della
ricorrente in quanto il Collegio mostra di condividere
quella giurisprudenza che reputa illogico ed ingiusto
caricare sul danneggiato le conseguenze negative della
mancata prova di un fatto estintivo o modificativo della
pretesa, quale è la compensazione per aliunde perceptum
(CGARS, 21.09.2010, n. 1226; Tar Lazio, sez. II-ter,
13.12.2011, n. 9729)
5.
Sugli importi complessivamente dovuti alla società a titolo
di risarcimento del danno va calcolata la rivalutazione
monetaria (trattandosi di un debito di valore) dalla data
della maturazione del diritto (e cioè dalla data
dell’aggiudicazione al Consorzio Comap) fino alla
pubblicazione della presente sentenza.
Su tale somma sono, poi, dovuti gli interessi compensativi
(conseguenti alla mancata disponibilità della somma in cui
viene liquidato il debito di valore) da computarsi:
- sulla somma non rivalutata (sulla base del tasso degli
interessi legali vigente al momento della maturazione del
rateo del credito) per il periodo intercorrente fra
l'aggiudicazione e la pubblicazione della presente sentenza;
- ed, invece, sull'importo rivalutato, per il periodo dalla
pubblicazione della sentenza fino al saldo effettivo a
favore della ricorrente. |
VARI:
Parere. Si è a piedi da tempo? Scuola guida.
Non basta la valutazione positiva del medico per tornare a
guidare dopo tanti anni senza mani sul volante. Occorre
anche rifare gli esami tecnici di scuola guida.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere 02.03.2016 n. 596.
Un automobilista incorso nei rigori della guida in stato di
ebbrezza ha superato positivamente i controlli medici
richiedendo un duplicato della patente scaduta di validità
da qualche anno. Contro il conseguente diniego della
motorizzazione, con imposizione dell'obbligo di sottoporsi
nuovamente all'esame di scuola guida l'interessato ha
proposto censure gerarchiche ma senza successo.
Come specificato in diverse circolari ministeriali il
titolare di una patente di guida che non utilizza
l'abilitazione per un periodo superiore a tre anni può
essere legittimamente sottoposto a revisione tecnica della
licenza di guida.
Si tratta di un provvedimento cautelare che si fonda
sull'art. 128 del codice stradale
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016).
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MASSIMA
Considerato:
- I provvedimenti di revisione della patente, finalizzati
alla verifica della permanenza dei requisiti di idoneità
psicofisica alla guida, sono adottati dall’Ufficio della
motorizzazione sulla base del potere-dovere ad esso
conferito dall’art. 128 del decreto legislativo 30.04.1992,
n. 285 (codice della strada), che discende dal compito
istituzionale dell’Amministrazione di tutela della sicurezza
della circolazione stradale e di prevenzione degl’incidenti.
Nel caso di specie l’Ufficio della motorizzazione ha
ritenuto necessario richiedere l’accertamento dell’idoneità
tecnica alla guida del ricorrente; il ricorso gerarchico
proposto dal ricorrente avverso tale provvedimento è stato
respinto e tale reiezione costituisce l’oggetto del ricorso
straordinario.
- La Sezione preliminarmente osserva che
la revisione disposta dagli Uffici della motorizzazione non
ha finalità sanzionatoria, ma soltanto cautelare, e può
fondarsi su qualunque circostanza ritenuta tale da
ingenerare nell’autorità competente, sulla base di una
valutazione discrezionale, dubbi sull’idoneità alla guida
del soggetto in esame.
- Ciò premesso, la Sezione ritiene infondate le censure
proposte; ciò in considerazione della natura cautelare del
provvedimento adottato in relazione all’interesse pubblico
della sicurezza della circolazione stradale, risultando
attendibile la valutazione dei comportamenti tenuti dal
ricorrente svolta dal competente ufficio
dell’Amministrazione.
Tale valutazione è stata fondata sul lungo lasso di tempo
trascorso dal momento di scadenza di validità della patente
(indipendentemente dall’allegazione del ricorrente secondo
la quale egli avrebbe continuato a svolgere attività di
guida) e sui provvedimenti prefettizi di sospensione della
patente adottati fra il 1999 e il 2007, ai quali fa
riferimento la decisione sul ricorso gerarchico, adottata in
data 24.03.2015, che è stata impugnata con il ricorso in
epigrafe.
Tali comportamenti costituiscono presupposti ragionevolmente
sufficienti a determinare la misura precauzionale della
verifica della permanenza dei requisiti di idoneità alla
guida mediante nuovo esame.
- Le censure proposte, pertanto, sono infondate e,
conseguentemente, il ricorso in esame deve essere respinto.
Resta assorbita la domanda di sospensiva. |
EDILIZIA PRIVATA:
Non assimilabili tipologie eterogenee.
Oneri di urbanizzazione ai raggi X.
Laddove il comune introduca nell'ambito della zonizzazione
destinazioni particolari, come quella a impianti sportivi,
deve tenere conto della relativa tipologia ai fini della
determinazione dei parametri per la quantificazione degli
oneri di urbanizzazione, non potendo procedere ad assimilare
tipologie edilizie del tutto eterogenee.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. del
TAR Toscana con la
sentenza
29.02.2016 n. 372.
I giudici amministrativi fiorentini erano chiamati
ad esprimersi circa l'annullamento del provvedimento di un
comune nella parte in cui con riferimento a una istanza di
sanatoria edilizia presentata da una srl, richiedeva il
«versamento dell'oblazione di cui [ai sensi di legge]» e il
«versamento degli oneri di cui agli artt. 119-121 della Lrt
1/2005 (...)»; nonché di ogni altro atto amministrativo,
presupposto, inerente, conseguente e/o comunque connesso,
ove lesivo; nonché, per l'annullamento del permesso di
costruire in sanatoria rilasciato dal comune nella parte in
cui determinava l'oblazione e gli oneri di urbanizzazione
dovuti dalla Srl; nonché, per l'annullamento, ove lesiva,
della delibera del consiglio comunale recante approvazione
nuovo regolamento per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e del costo di costruzione, e dunque per
l'accertamento della minore somma dovuta dalla ricorrente in
ordine all'istanza di sanatoria de qua e, conseguentemente,
per l'accertamento del diritto della ricorrente ad ottenere
il rimborso della maggiore somma indebitamente corrisposta
dalla medesima, oltre interessi.
Secondo i giudici toscani,
quanto alla contestazione della somma richiesta a titolo di
oblazione per le opere oggetto di sanatoria questa abbia
rilevanza penale. Trattasi, infatti, di strutture che, in
quanto destinate a soddisfare bisogni non meramente
provvisori e transeunti, non possono ritenersi precarie
(Consiglio di stato, sez. VI, 01/12/2014, n. 5934). E che,
inoltre, nemmeno possono considerarsi come opere accessorie
rispetto ad un bene principale in quanto si tratta di
elementi che nel loro insieme concorrono a costituire
(ciascuno per la propria funzione) il complesso sportivo.
Nella sentenza in commento si sottolineava inoltre, come, ai
sensi dell'art. 16, comma 4, del dpr 380 del 2001, l'incidenza
degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è
stabilita dal consiglio comunale in relazione, fra l'altro,
alle destinazioni di zona previste dagli strumenti
urbanistici vigenti.
Pertanto, poiché circa la contestazione
relativa alle somme richieste a titolo di contributo di
urbanizzazione, che la destinazione ad impianti sportivi, ai
giudici amministrativi non appariva in alcun modo
assimilabile a quella turistico ricettiva ai fini della
determinazione degli oneri, essendo diverso il carico
urbanistico indotto dalle due tipologie di uso del
territorio
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il sottoscala abusivo in zona vincolata blocca la
sanatoria. Tar Liguria.
Perfino un sottoscala abusivo può bloccare la concessione
del permesso di costruire in sanatoria se l'immobile si
trova in zona vincolata. Anche le aree interrate, infatti,
possono influire negativamente sui valori paesaggistici
tutelati dalla Soprintendenza.
Ma i locali che costituiscono
mere pertinenze dei vani abitabili non hanno un vero impatto
sul territorio e dunque se il comune nega il titolo
abilitativo al proprietario dell'immobile deve motivare in
modo adeguato la sua decisione, altrimenti il provvedimento
è annullato.
Così la
sentenza
11.02.2016 n. 140 del TAR Liguria, Sez. I.
Nel mirino degli uffici finiscono due vani interrati: c'è
anche un locale deposito accanto al sottoscala. Non c'è
dubbio che anche i volumi sotto il piano di campagna possano
risultare in contrasto con le norme dettate a tutela del
paesaggio, che puntano a impedire l'alterazione dello stato
dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture
edilizie.
Il punto è invece stabilire se i locali
costituiscono o meno semplici volumi tecnici: bisogna dunque
accertare se i vani «incriminati» sono dotati di un certo
grado di autonomia o invece sono del tutto accessori alle
zone abitabili dell'immobile. E ciò perché nel secondo caso
la rilevanza paesaggistica deve escludersi: le opere abusive
realizzate dal proprietario, nelle specie, non incidono sul
carico urbanistico e sono prive di impatto visivo
(articolo ItaliaOggi del 09.04.2016).
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MASSIMA
4) Le censure dedotte con il secondo motivo di ricorso
sono intese a rimarcare sia i caratteri sostanziali delle
opere abusive (tali da renderle, ad avviso della ricorrente,
suscettibili di regolarizzazione sotto il profilo
paesaggistico ed edilizio) sia, sotto profili diversi da
quelli esaminati in precedenza, le pretese carenze
motivazionali del provvedimento impugnato.
Sostiene la ricorrente, infatti, che le opere realizzate nel
compendio di proprietà, non compromettendo alcun valore
paesaggistico, sarebbero qualificabili alla stregua di “abusi
minori” che, in quanto tali, possono essere
regolarizzati ai sensi dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n.
42/2004.
Essa lamenta che, in ogni caso, l’amministrazione ha omesso
di valutare l’effettiva incidenza di tali opere sui valori
paesaggistici tutelati.
4.1) Per quanto riguarda i locali interrati costruiti al di
sotto del fabbricato principale, occorre preliminarmente
rammentare che,
secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, anche
i volumi sotterranei sono considerati rilevanti dal punto di
vista paesaggistico e, pertanto, possono essere in contrasto
con le previsioni intese ad impedire l’alterazione dello
stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove
strutture
(cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 02.09.2013, n.
4348).
Altra giurisprudenza ha precisato, però, che la rilevanza
paesaggistica di un volume interrato non sussiste qualora
esso, per le sue caratteristiche, possa essere qualificato
come mero volume tecnico
(cfr., fra le ultime, TAR Umbria, sez. I, 26.04.2014, n.
356).
Proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono,
infatti, tali volumi sono inidonei ad introdurre un impatto
sul territorio eccedente la costruzione principale
(TAR Campania, Napoli, sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Ciò premesso, gli elementi in atti non consentono di
stabilire con certezza se i locali interrati in questione
possiedano effettivamente le caratteristiche proprie dei “volumi
tecnici”, intesi quali opere prive di autonomia e aventi
funzione meramente accessoria-pertinenziale rispetto ai
volumi abitabili.
La questione, peraltro, non è stata approfondita
dall’amministrazione che, stante l’incompletezza degli
elementi riferiti nell’istanza di sanatoria, avrebbe dovuto
svolgere più approfonditi accertamenti in ordine alla
funzione e alla natura dei locali in questione.
Tanto più che le volumetrie sotterranee abusivamente
realizzate dalla ricorrente, pur esistenti nella realtà
fisica, non incidono sul carico urbanistico e sono prive di
impatto visivo nonché della capacità di incidere
significativamente sull’assetto del territorio.
Anche sotto questo profilo, pertanto, la motivazione
dell’atto non è idonea ad esplicitare adeguatamente le
ragioni del diniego.
4.2)
Rimane da vagliare la legittimità del diniego di sanatoria
nella parte relativa al forno, avente dimensioni di metri
2,00 x 2,40 e altezza di metri 1,80.
Si tratta di un’opera di ridotto ingombro, non idonea a
determinare nuove superfici utili o nuovi volumi, nonché
priva di autonoma rilevanza urbanistica, poiché è funzionale
all'abitazione principale cui accede ed insiste su una
superficie già integralmente pavimentata.
Deve ritenersi, in conseguenza, che la stessa non risulti
pregiudizievole per il territorio né idonea ad introdurre un
impatto paesaggistico eccedente la costruzione principale
(cfr., in analoga fattispecie, TAR Puglia, Bari, sez. I,
25.09.2014, n. 1124).
Il manufatto in questione, pertanto, appare riconducibile
alla categoria degli “abusi minori” che, pur essendo
stati realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
sono suscettibili di regolarizzazione.
5) In conclusione, il provvedimento impugnato è inficiato
sotto il profilo del difetto di motivazione nelle parti in
cui respinge l’istanza di sanatoria avente per oggetto
l’intervento sul box, la costruzione dei due locali
interrati e le opere di sistemazione delle aree esterne; il
diniego di sanatoria del forno, invece, è illegittimo per
violazione dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del
2004. |
EDILIZIA PRIVATA:
Cani, il box non si sana.
Niente sanatoria per il box dei cani sorto a ridosso del
confine con la villetta del vicino. E ciò perché è la stessa
natura del titolo edilizio concesso ex articolo 36 del testo
unico a escludere che il rilascio possa essere subordinato
alla realizzazione di altre opere edilizie: l'accertamento
di conformità, infatti, presuppone che il manufatto sia già
diventato conforme alla disciplina urbanistica con i lavori
realizzati nelle more.
È quanto emerge dalla
sentenza
09.02.2016 n. 163, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Condizioni igieniche
Accolto il ricorso del confinante che blocca il ricovero per
animali domestici «condonato» dal vicino. È lo stesso Comune
a riconoscere che le distanze legali previste dal codice
civile siano state fatte proprie dal piano regolatore
generale dell'ente locale.
Il proprietario del box ammette
di aver costruito a meno di mezzo metro dal confine e
s'impegna a far arretrare il manufatto nella domanda del
titolo edilizio necessario a mettersi in regola. Ma ormai è
troppo tardi: una volta emersa l'irregolarità,
l'amministrazione non poteva non tenerne conto in sede di
sanatoria.
Il Comune, poi, non accerta se il box è adeguato dal punta
di vista delle condizioni igienico-sanitarie, visto che deve
ospitare animali domestici. E non risulta acquisito dal
proprietario il necessario studio di inserimento ambientale:
è ragionevole ritenere che il latrato dei cani possa
disturbare i vicini. Che infatti bloccano il progetto e si
fanno pagare le spese di giudizio dal Comune
(articolo ItaliaOggi del 06.04.2016).
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MASSIMA
Osserva il Collegio come una prima questione si incentri
sulla compatibilità dell’intervento edilizio con le
prescrizioni di cui all’art. 28 delle n.t.a. del piano
regolatore comunale.
La «relazione tecnica» allegata
all’istanza di sanatoria aveva evidenziato che “…L’aspetto
urbanistico della presente sanatoria è caratterizzato dalla
possibilità di sanare il box per cani utilizzando la quota
di edifìcabiltà “una tantum” prevista nelle “zone
residenziali edificate B1” in cui, come nella fattispecie,
la superficie costruita alla data di adozione dello
strumento urbanistico vigente era maggiore
dell’edificabilità ammessa dall’indice di utilizzazione
fondiaria …” e che “…Tale possibilità oltre che per gli
ampliamenti della superficie utile abitabile è ammessa anche
per la creazione di servizi alle unità immobiliari
esistenti. Nella fattispecie si ritiene che il box per il
ricovero e la detenzione dei cani di proprietà del sig. Ca.It. sia una superficie di vero e proprio servizio
…”, indicazioni poi fatte proprie dal titolo edilizio
impugnato (“…Accertata la conformità urbanistica di cui
all’art. 28 delle NTA, che ammette la creazione di opere
pertinenziali, che concede, per tutti i fabbricati esistenti
alla data dell’adozione del PRG vigente, un incremento di
superficie utile per il miglioramento dell’abitabilità e per
la creazione di servizi delle singole unità immobiliari.
Verificato che dal conteggio presentato dal tecnico risulta
un incremento di superficie spettante di diritto sull’intero
fabbricato pari al 15% […] il manufatto risulta essere stato
realizzato in aderenza ad un fabbricato già esistente ed
autorizzato da regolare Concessione Edilizia …”).
Le
ricorrenti, tuttavia, assumono non ammissibile l’opera in
questione perché fonte di rumore ed esalazioni maleodoranti,
produttiva di incremento di «superficie non residenziale»
anziché di «superficie utile», localizzata in aderenza ad un
fabbricato accessorio e non al fabbricato principale,
assentita senza il prescritto studio di inserimento
ambientale e indebitamente giustificata dall’addotta
esigenza di assicurare un idoneo ricovero agli animali
domestici del proprietario.
La questione è fondata nei limiti che si indicheranno.
L’art. 28 delle n.t.a. del piano regolatore comunale
disciplina le «zone residenziali edificate (B1)» e prevede
al loro interno le «sottozone B1», stabilendo che vi sono
ammessi “…tutti gli usi esistenti, compatibilmente con le
prescrizioni del Piano Comunale per il Commercio, a
condizione che quelli non residenziali non presentino
inconvenienti tali da contrastare con il carattere
dell’edificio o degli edifici circostanti o da impedire il
normale svolgimento delle funzioni abitative (ad esempio:
fonti di rumore, esalazioni nocive o maleodoranti ...) come
previsto per le zone A …”, con la possibilità di un
“…ampliamento “una tantum”, da realizzare in aderenza al
fabbricato esistente, per il quale è richiesto uno studio di
inserimento ambientale, da estendere alla strada, alla
piazza o comunque alla zona in cui è localizzato l’edificio
(per un raggio di 50 m. almeno), che dimostri la sua
compatibilità ambientale. L’incremento una tantum è previsto
per il miglioramento dell’abitabilità delle singole unità
immobiliari o per la creazione di servizi nella misura di:
20% per unità immobiliari fino ad 80 mq di Su …”.
Orbene, la
circostanza che venga espressamente consentita la “creazione
di servizi” rende evidente che l’ampliamento una tantum non
è inderogabilmente circoscritto alla «superficie utile» ma
può riguardare anche la «superficie non residenziale»,
benché il parametro di incremento venga commisurato, nella
sua misura massima, alle dimensioni della parte abitabile;
correttamente, dunque, si è ritenuta realizzabile la
struttura destinata al ricovero di animali domestici.
Né il
vincolo della costruzione in “aderenza al fabbricato
esistente” può intendersi nella fattispecie violato, giacché
la ratio di evitare la disordinata collocazione sul
territorio di nuovi manufatti viene salvaguardata dallo
stretto contatto di dette opere con strutture preesistenti,
quantunque connotate da funzione accessoria (in questo caso
si tratta di autorimesse).
Illegittimamente, invece, si è
concessa la sanatoria nonostante l’istanza del sig. Ca. si
fosse limitata a dichiarare soddisfatte le necessarie
esigenze sanitarie, ambientali e di benessere, omettendo la
produzione del prescritto “studio di inserimento ambientale,
da estendere alla strada, alla piazza o comunque alla zona
in cui è localizzato l’edificio”, indagine che avrebbe anche
consentito di verificare la concreta adozione delle misure
utili a garantire l’insussistenza di condizioni
incompatibili con l’ordinario svolgimento delle funzioni
abitative, in relazione –come prevede l’art. 28 n.t.a.– a
possibili fonti di rumore o di esalazioni maleodoranti;
sotto questo profilo, relativo ad una carenza di carattere
istruttorio, si presenta di conseguenza fondata la censura
delle ricorrenti, le quali imputano all’Amministrazione
comunale di avere acriticamente condiviso le generiche
conclusioni del sig. Ca., nonostante la disciplina
urbanistica imponesse in parte qua un accertamento puntuale
e determinasse anche la sfera territoriale (non meno di 50
metri) interessata dalla verifica.
Né una deroga a detta
prescrizione poteva naturalmente derivare dalla normativa a
tutela del benessere animale (legge reg. n. 5/2005), in sé
inidonea ad esonerare dall’osservanza delle regole che
attengono al governo del territorio.
E’ fondata anche la censura con cui le ricorrenti adducono
che la sanatoria avrebbe dovuto essere negata a fronte
dell’ammissione del privato di avere edificato in violazione
del limite di distanza legale dal confine di proprietà e del
dichiarato impegno a rimediare a tale irregolarità (dalla
«relazione tecnica» risulta che “…Il box in oggetto è
realizzato a circa 34 cm. dalla recinzione che definisce il
confine catastale di proprietà; non avendo l’autorizzazione
della proprietà confinante per costruire a tale distanza si
prevede di arretrare la copertura del manufatto fino a mt.
1,50 da detta recinzione (vedi elaborato grafico). In tal
modo si ritiene soddisfatta e rispettata la distanza minima
dal confine del nuovo manufatto da sanare imposta dal Codice
Civile (Art. 873) …”).
Per costante giurisprudenza, invero,
non è ammissibile il rilascio di un titolo abilitativo in
sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 che venga
subordinato alla esecuzione di opere edilizie, anche se gli
ulteriori interventi sono finalizzati a ricondurre
l’immobile abusivo nell’alveo della compatibilità con gli
strumenti urbanistici, giacché ciò contrasta ontologicamente
con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità,
i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere
e la loro integrale conciliabilità con la disciplina
urbanistica (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
04.06.2014 n. 3066); del resto, la stessa
Amministrazione comunale ha riconosciuto come le distanze
legali previste dal codice civile siano state fatte proprie
dal piano regolatore locale (v. nota prot. n. 16186 del 21.12.2009), sì che –una volta emersa l’irregolarità–
non se ne poteva sicuramente prescindere in sede di rilascio
del titolo edilizio in sanatoria.
Né induce a diverse
conclusioni l’obiezione secondo cui il precedente
proprietario dell’area delle ricorrenti avrebbe a suo tempo
acconsentito (nel 1979) a che il confinante edificasse in
deroga alle distanze legali, in quanto –a tacer d’altro–
quella autorizzazione privata si riferiva unicamente a garages, non a ricoveri per animali domestici.
Quanto, poi, al denunciato silenzio degli atti progettuali
allegati all’istanza di sanatoria circa le necessarie misure
di tutela igienico-sanitaria –in relazione anche al
disposto dell’art. 34 del Regolamento comunale di Polizia
urbana e rurale (“…I proprietari di cani e di altri animali
o coloro che li abbiano ricevuti in custodia sono
responsabili degli insudiciamenti cagionati … Gli stessi
devono, inoltre, garantire le condizioni igienico-sanitarie
del luogo in cui vivono gli animali e di chi vive nelle
vicinanze …”)–, il Collegio rileva in effetti la genericità
delle indicazioni in tal senso contenute nella «relazione
tecnica» del 15.09.2009.
Oltre all’affermazione
secondo cui “…Le acque della copertura sono raccolte da una lattoneria in lamiera d’acciaio e canalizzate verso la
fognatura bianca esistente …”, nulla viene specificato circa
le modalità di smaltimento delle deiezioni degli animali e
delle sostanze liquide legate alla pulizia; profili, questi,
che non possono essere rimessi unicamente ad una verifica da
effettuare nell’uso quotidiano della struttura di ricovero e
alla responsabilità che grava sul proprietario dei cani, ma
che necessariamente assumono rilievo in sede di rilascio del
titolo edilizio relativo al manufatto a tale funzione
destinato.
Né, d’altra parte, l’Amministrazione risulta
avere operato in sede istruttoria per accertare
l’adeguatezza delle misure eventualmente predisposte dal
privato.
Non persuade, invece, la doglianza imperniata sul divieto di
cui all’art. 37 del Regolamento comunale di Polizia urbana e
rurale (“Nel centro abitato è vietato costruire ricoveri
per animali quali pollai, stalle, canili, porcili e simili.
E’ altresì vietato l’allevamento di animali da stalla e da
cortile”).
Si tratta di prescrizione necessariamente
riferita ad allevamenti e ricoveri relativi all’esercizio di
attività di impresa, non ai box che, senza fini di lucro e
per le sole finalità del proprietario, ospitino animali
domestici o di compagnia, tanto più che le disposizioni
contenute negli artt. 36 e 36-bis recano norme in materia di
custodia dei cani che sottintendono la loro presenza in
luoghi di residenza non isolati.
Circa, infine, la lamentata incoerenza dell’azione
amministrativa del Comune di Vergato, che dopo l’ingiunzione
di demolizione del precedente manufatto avrebbe omesso di
sanzionare il nuovo abuso del sig. Ca. e avrebbe
ingiustificatamente tollerato la presenza del manufatto
sine titulo fino alla presentazione della relativa
istanza di sanatoria, il Collegio osserva come il protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione non vizi ex se il
successivo permesso di costruire in sanatoria, il cui
presupposto è costituito unicamente dalla conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistico-edilizia (oltre
al versamento di contributi vari). Il tardivo agire
dell’ente locale, insomma, non incide sulla legittimità di
un atto il cui rilascio non è soggetto a scadenza, neppure
quando si sarebbe potuto da tempo ingiungere al proprietario
la demolizione delle opere edilizie eseguite in assenza di
titolo abilitativo.
In conclusione, il ricorso va accolto per la mancata
acquisizione del prescritto “studio di inserimento
ambientale”, per la violazione della distanza legale ex
art. 873 cod. civ. (fatta propria dal piano regolatore
comunale) e per l’omesso accertamento dell’adeguatezza del
manufatto quanto alle condizioni igienico-sanitarie da
assicurare per una simile destinazione d’uso. Dal che
l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria n.
445/A - prot. n. 16010 del 17.12.2009. |
PATRIMONIO:
Tar Brescia. Strade strette, no ai camion.
Il comune può vietare la circolazione ai camion nelle strade
troppo strette. E se aumenta il traffico e il disagio nella
viabilità alternativa pazienza. Almeno fino alla
realizzazione di nuove infrastrutture.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con
l'ordinanza
02.02.2016 n. 111.
Un comune lombardo
ha interdetto il traffico ai mezzi pesanti su una strada
troppo stretta, incrementando la circolazione dei camion
sulle strade vicine.
Contro questa decisione gli abitanti interessati
dall'aumento dello smog hanno proposto ricorso al Tar
evidenziando una serie di carenze tecniche delle loro
strade.
Ma senza successo. Il collegio ha infatti incaricato la
provincia di verificare le scelte comunali e i tecnici hanno
confermato la logicità delle scelte. Anche se la decisione
di indirizzare il traffico pesante su strade non
completamente adeguate sembra censurabile, spiegano i
giudici, è certamente una scelta opportuna vietare
completamente il traffico pesante in una via dove due camion
non potrebbero transitare per ragioni dimensionali
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016).
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MASSIMA
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bagnolo Mella con ordinanza del comandante
della Polizia Locale n. 73 del 29.09.2014, che segue
analoghi provvedimenti, ha modificato in via sperimentale e
provvisoria la viabilità di via Urne di Sopra e via Porzano,
prevedendo in particolare il transito su tali strade dei
mezzi pesanti fino alla realizzazione della bretella viaria
tra la SP45-bis e la SP7.
2. I ricorrenti, che abitano nella zona interessata dalle
nuove disposizioni, contestano la decisione del Comune,
evidenziando che:
(a) la condizione delle strade sopra indicate non sarebbe idonea a
consentire il traffico dei mezzi pesanti, non essendo stati
realizzati gli interventi suggeriti in uno studio della
Provincia del dicembre 2013;
(b) in realtà, la nuova soluzione viabilistica è destinata a
rimanere in vigore per un lungo periodo, e dunque la
rappresentazione dei fatti sarebbe fuorviante;
(c) non sarebbero rispettate le indicazioni del PGT sulla viabilità
nelle aree residenziali, né le norme tecniche sulla
costruzione delle strade.
3. Un nuovo intervento sulla viabilità è stato poi disposto
dal sindaco mediante ordinanza n. 45 del 25.05.2015. Le
disposizioni di questo provvedimento assorbono anche quelle
dell’ordinanza n. 73/2014, e confermano, in via definitiva,
l’interdizione di via Gramsci ai mezzi pesanti e la
deviazione di questi ultimi verso le strade di interesse dei
ricorrenti.
4. Questo TAR con ordinanza n. 502 del 10.04.2015 ha
disposto una verificazione a carico del responsabile
dell’Area Tecnica della Provincia di Brescia, con facoltà di
delega, per chiarire la compatibilità delle soluzioni
viabilistiche descritte nell’ordinanza n. 73/2014 con le
indicazioni contenute nello studio provinciale del dicembre
2013.
5. Successivamente, con ordinanza n. 1822 del 05.10.2015,
questo TAR ha reiterato l’istruttoria, chiedendo di
specificare:
(a) se mezzi pesanti possano attualmente transitare in condizioni
di sicurezza sulle strade indicate negli atti impugnati;
(b) quali interventi di adeguamento siano necessari per migliorare
il livello di sicurezza, anche con riferimento alle
indicazioni contenute nello studio del dicembre 2013;
(c) se vi siano soluzioni alternative praticabili con minori rischi
e disagi;
(d) se il ritorno dei mezzi pesanti su via Gramsci comporti un
peggioramento delle condizioni di sicurezza.
6.
Dalla relazione,
sottoscritta dall’arch. Lu.Za. e dal geom. Gi.Ba.Fr.,
funzionari tecnici della Provincia, e depositata il
24.12.2015,
emergono in particolare le seguenti valutazioni e
indicazioni:
(a) il transito con mezzi pesanti sulle strade indicate negli atti
impugnati può svolgersi in sicurezza, ma a condizione che
siano risolte alcune criticità, puntualmente descritte nella
relazione;
(b) un paragrafo della relazione è dedicato ai suggerimenti per
migliorare il livello di sicurezza sulle predette strade;
(c) non è stato possibile valutare con precisione la praticabilità
di percorsi alternativi, con deviazione del traffico verso
direttrici esterne all’abitato, in particolare per quanto
riguarda la misura dei rischi e dei disagi;
(d) la carreggiata di via Gramsci presenta un restringimento, con
annullamento delle banchine. Nel caso di transito
contemporaneo di due mezzi pesanti in direzioni opposte si
determina un rallentamento del traffico, che penalizza la
funzionalità della strada ma non la sicurezza. Vi è però il
rischio che i mezzi pesanti, anziché rallentare,
preferiscano sormontare il marciapiede, creando una
situazione di pericolosità grave.
7. Sulla base di questi elementi,
la decisione del Comune di indirizzare il traffico pesante
su via Urne di Sopra e via Porzano, fino alla realizzazione
della bretella viaria tra la SP45-bis e la SP7, non appare
censurabile, in quanto la presenza di questo tipo di
traffico in via Gramsci potrebbe esporre gli utenti della
strada a rischi maggiori.
8. È peraltro evidente che la nuova organizzazione della
viabilità richiede tempestivi interventi di sistemazione dei
percorsi su cui è stato deviato il traffico pesante.
L’aspettativa dei ricorrenti alla sicurezza della viabilità
nei pressi delle rispettive abitazioni, se non può essere
tutelata con la sospensione dei provvedimenti impugnati, è
invece fondata e meritevole di attenzione per quanto
riguarda gli interventi di sistemazione e messa in sicurezza
suggeriti nella relazione della Provincia. |
INCARICHI PROFESSIONALI: L’incarico
professionale va provato.
Il professionista
che chiede il pagamento dei compensi per la propria
prestazione deve provare che gli è stato conferito
l’incarico.
Contratti. Niente compenso per la prestazione se
l’architetto non è in grado di dimostrare il conferimento
del lavoro anche se la commissione è stata eseguita.
Lo ribadisce la
Corte d’appello di Lecce, Sez. distaccata di Taranto
(presidente Alessandrino, relatore Cosenza), con la
sentenza
01.02.2016.
Con decreto del 2001 il giudice aveva ingiunto a una Srl di
pagare 74 milioni di lire a un architetto; la somma era
stata richiesta quale compenso per l’opera che il
professionista affermava di aver svolto su commissione della
società.
Il Tribunale aveva poi revocato il provvedimento
monitorio, accogliendo l’opposizione che la Srl aveva
presentato in base all’articolo 645 del Codice di procedura
civile. Contro la sentenza di primo grado il professionista
ha quindi proposto appello, contestando la valutazione delle
prove effettuata dal Tribunale.
Nel respingere l’impugnazione, la Corte osserva,
innanzitutto, che «manca la prova scritta della commissione»
e non risultano anticipazioni di «spese e/o acconti sul
compenso ex articolo 2234 del Codice civile». Tant’è che
l’ordine professionale, nel rilasciare il proprio parere di
congruità sui compensi richiesti, aveva tenuto conto solo
della relazione presentata dall’architetto, precisando che
non era stata esibita alcuna lettera d’incarico. Ciò impone
-prosegue il giudice d’appello- di «valutare rigorosamente
la prova orale espletata» in primo grado.
Secondo la Corte, le testimonianze assunte dal Tribunale
dimostrano che l’architetto aveva senz’altro svolto le
«attività di cui invoca il compenso»; tuttavia, tali prove
non consentono di ritenere che la Srl «sia stata la
committente dell’opera» di cui il professionista ha chiesto
il pagamento. La Corte conferma quindi la sentenza del
Tribunale e condanna l’appellante al pagamento delle spese
del grado, che liquida in tremila euro.
La decisione è conforme alla giurisprudenza della Corte
suprema. Secondo il giudice di legittimità, il
professionista che chiede il pagamento della propria
prestazione d’opera deve dimostrare -si legge nella
sentenza 1244 del 2000- «l’avvenuto conferimento del
relativo incarico, in qualsiasi forma idonea a manifestare,
chiaramente e inequivocamente, la volontà di avvalersi della
sua attività e della sua opera» da parte del cliente.
Infatti, l’obbligo di eseguire una prestazione d’opera
professionale intellettuale scaturisce da un contratto
(articolo 2230 del Codice civile), che presuppone uno
scambio di consensi tra committente e professionista.
Il che
-conclude la Cassazione- «costituisce, prima ancora che un
principio regolatore dei contratti di prestazione d’opera
intellettuale, un principio regolatore dell’intera materia
contrattuale» (articolo Il Sole 24 Ore del
04.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
No alla doppia pubblicità per il medesimo
impianto.
Non si possono autorizzare due insegne di esercizio per lo
stesso complesso produttivo. Specialmente se la seconda
installazione viene realizzata sul retro dello stabile in
perfetta aderenza al traffico autostradale, con evidenti
finalità commerciali.
Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza
09.12.2015 n.
1315.
Il titolare di una impresa ha richiesto all'Anas nulla osta
alla collocazione di una insegna di esercizio anche nel
retro dello stabile, nella parte che si affaccia sul tratto
autostradale. Contro il conseguente diniego l'interessato ha
proposto ricorso al Tar ma senza successo.
A parere dell'Anas il posizionamento di una seconda insegna
di esercizio, oltre a quella affissa in prossimità
dell'ingresso allo stabile, denota un evidente interesse
pubblicitario del richiedente, specificamente vietato
dall'art. 23 del codice stradale.
Anche se nessuna disposizione limita numericamente le
insegne di esercizio, prosegue la sentenza, è evidente che
il manufatto per poter essere qualificato come tale, impone
che sia strettamente attiguo all'esercizio cui si riferisce
e che la stessa insegna sia, nel contempo, «funzionale e
diretta a identificare l'ubicazione della sede della stessa
impresa».
In pratica quindi siccome una insegna di esercizio visibile
dall'autostrada è consentita solo ove non presenti alcun
contenuto pubblicitario, se l'ingresso non è rivolto al
fronte autostradale meglio desistere con le richieste di
autorizzazione
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sul punto è dirimente constatare che
l'art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della
Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi
forma di pubblicità lungo le autostrade e le strade
extraurbane principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata
nell’intento di introdurre un divieto all’installazione
lungo le strade, o in vista di esse, di impianti
pubblicitari che possano confondersi con la segnaletica
stradale, o arrecare disturbo visivo a chi circola su di
esse, con conseguente pericolo per la sicurezza della
circolazione.
1.2 Va, altresì, rilevato come
l'articolo 47, primo comma, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495
(Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice
della strada) qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta
in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da
simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali
di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a
cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
1.3 Ne consegue che
sebbene nessuna delle disposizioni sopra riportate preveda
che l’insegna di un esercizio commerciale debba essere
unica, è parimenti evidente che quest’ultima, per poter
essere qualificata come tale, impone che sia strettamente
contigua all’esercizio commerciale cui inerisce e sia, nel
contempo, funzionale e diretta a identificare l’ubicazione
della sede della stessa impresa.
1.4 Anche recenti pronunce (Cons. Stato Sez. IV, 25.11.2013,
n. 5586) hanno avuto modo di precisare che
la nozione di insegna di esercizio deve essere intesa in
senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei
soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte
dall'art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve
esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita
l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito (Cons. Stato Sez. IV, 27.04.2012, n.
2480) che
un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è consentita
solo ove non presenti alcun contenuto riconducibile a
finalità pubblicitarie.
1.5 E’ allora evidente che
verificare se una determinata insegna integri il divieto di
pubblicità di cui all’art. 23 sopra citato impone un esame
in concreto sulle caratteristiche della singola insegna e,
ciò, al fine di individuare quale sia la funzione che si
intenda perseguire con l’installazione del singolo manufatto
e, quindi, se quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un
intento meramente pubblicitario.
1.6 Nel caso di specie è dirimente constatare come sia stata
la stessa parte ricorrente a rilevare che l’insegna in
questione è collocata sulla facciata dell'esercizio, rivolta
verso la strada, senza che sulla stessa facciata sia
presente un’entrata dell’esercizio.
1.7 E’ allora evidente che, seppur l’insegna in questione
abbia le caratteristiche proprie di un’insegna di esercizio,
ai sensi dell’art. 47 del DPR 16.12.1992 n. 495, la sua
installazione è stata posta in essere per realizzare un
intento pubblicitario, diretto nei confronti degli
utilizzatori della strada prospiciente.
Dette conclusioni sono confermate dal fatto che l’insegna in
questione, non solo duplica l’insegna di esercizio già
esistente, ma in quanto posizionata su un lato in cui non vi
è l’entrata dell’impresa, non aggiunge alcuna informazione
ulteriore circa l’identificazione della stessa impresa che,
in quanto tale, è già resa dall'altra insegna d'esercizio.
1.8 Ne consegue che risulta integrato il divieto di
installazione di strumenti pubblicitari in prossimità delle
strade, circostanza che consente di ritenere infondate le
argomentazioni di parte ricorrente.
In definitiva il ricorso è, pertanto, infondato e va
respinto. |
TRIBUTI:
Pertinenziali anche i terreni non «graffati» al
catasto.
Un terreno posto a
servizio di un edificio è pertinenza anche se non è
“graffato” al catasto.
Agevolazioni. La Ctr Lombardia ribadisce: contano
destinazione del terreno e volontà del titolare.
Lo stabilito la Ctr
Lombardia-Milano con la
sentenza
05.01.2016 n. 14/19/2016 (presidente Craveia,
relatore Monfredi).
Un notaio aveva rogato un atto di vendita di un terreno
dagli acquirenti qualificato come pertinenza di un edificio
che avevano in precedenza acquistato e per il quale avevano
ottenuto le agevolazioni fiscali “prima casa”. In base a
tale dichiarazione avevano versato l’imposta di registro al
3% e le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa.
L’ufficio aveva però ritenuto che l’acquisto del terreno non
potesse beneficiare di quelle agevolazioni, perché esso non
era censito al catasto urbano unitamente al bene principale:
non era cioè “graffato” al fabbricato abitativo, ma censito
autonomamente. Per questo era stato emesso avviso di
liquidazione, per il recupero delle maggiori imposte dovute.
Il notaio rogante aveva allora proposto ricorso e la Ctp
aveva annullato l’atto.
Ma l’ufficio aveva proposto appello chiedendo alla Ctr
Lombardia di ritenere legittimo l’avviso di liquidazione che
si basava sul dato oggettivo e documentale della mancata
“graffatura” dell’immobile qualificato pertinenza.
Secondo l’Agenzia, contrariamente a quanto vale per i beni
classificati C/2, C/6 e C/7, con riferimento ai terreni, le
circolari dell’amministrazione finanziaria (del 12.08.2005 e del 29.05.2013) prevedono che il proprietario
deve formalizzare catastalmente la sua scelta di destinare
funzionalmente e durevolmente il bene a servizio di altro
principale. Se non lo fa dimostra la sua volontà di non
destinare il terreno a servizio del fabbricato.
Anche i giudici di secondo grado hanno tuttavia disatteso le
tesi dell’ufficio, affermando che le circolari non possono
derogare alla legge.
Secondo la Ctr, infatti, la normativa in materia di imposta
di registro non prevede alcuna limitazione tassativa
rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale
di un fabbricato ai fini fiscali. Contiene invece solo
un’elencazione esemplificativa e indica due requisiti
necessari, uno oggettivo e uno soggettivo: la destinazione
durevole al servizio o ad ornamento del bene principale; e
la volontà del titolare del diritto reale sulla cosa
principale di effettuare tale destinazione.
La “graffatura” rappresenta di certo manifestazione non
equivoca di questa volontà. Ma non può al contrario
sostenersi che la mancata “graffatura” escluda
automaticamente e insuperabilmente tale volontà, perché una
tale interpretazione non sarebbe conforme alla normativa
primaria e non è previsto dal codice civile alcun obbligo di
formalizzare la scelta in sede catastale.
Nel caso al loro esame, inoltre, i giudici rilevavano che le
caratteristiche dimensionali del terreno erano in tutto
compatibili ed in linea con i limiti fissati dall’articolo 5
del Dm 02.08.1962 perché un’area scoperta potesse
considerarsi pertinenza di un’abitazione non di lusso.
L’annullamento dell’avviso di liquidazione è stato dunque
confermato con condanna dell’Agenzia al pagamento delle
spese (articolo Il Sole 24 Ore del
04.04.2016). |
VARI:
Nella targa. È un falso cambiare una lettera.
Chi modifica una lettera della targa con del nastro adesivo
nero incorre nel reato di falsificazione del supporto. Anche
se la nuova lettera è visibilmente alterata infatti non si
tratta di un falso innocuo perché lo stesso è in grado di
impedire una immediata identificazione del veicolo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la
sentenza 01.10.2015 n. 39804.
Un autista emiliano ha pensato di immettersi in autostrada
camuffando con del nastro adesivo una lettera C in una O.
Denunciato dalla polizia stradale è stato quindi condannato
per falsificazione della targa da parte del tribunale di
Bologna, con conferma della decisione in sede d'appello.
A parere della Cassazione questa condanna è corretta perché
alterare una targa non rappresenta un falso innocuo.
Al contrario questo comportamento impedisce l'immediata
identificazione del veicolo a chiunque possa essere
interessato ad annotare l'iscrizione posteriore del mezzo a
motore. In buona sostanza la falsificazione è conclamata
anche se il metodo di alterazione è molto rudimentale
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: VALUTAZIONE POSTUMA DELLA COMPATIBILITÀ
PAESAGGISTICA DEGLI INTERVENTI EDILIZI MINORI E SUA
RILEVANZA IN SEDE PENALE.
L’art. unico, comma 36, L. n. 308 del 2004 (con previsioni
trasfuse nell’art. 181, commi 1-ter e quater e,
successivamente,
nell’art. 167, commi 4 e 5, D.Lgs. n. 42 del
2004,), derogando al principio enunciato dall’art. 146,
D.Lgs. n. 42 del 2004, dell’impossibilità di rilascio di una
autorizzazione paesaggistica successiva alla realizzazione
dei lavori, ha introdotto la possibilità di una valutazione
postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni
interventi minori, all’esito della quale -pur restando
ferma l’applicazione detta sanzione amministrativa
pecuniaria
di cui all’art. 167, D.Lgs. n. 42 del 2004- non si
applicano le sanzioni penali stabilite per il reato
contravvenzionale
contemplato dall’art. 181, comma 1,
D.Lgs. n. 42 del 2004: ciò vale per i lavori, realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica,
che non abbiano determinato creazione di superfici utili
o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati
o per l’impiego di materiali in difformità
dall’autorizzazione
paesaggistica, ovvero per i lavori configurabili
quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria, ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sul tema dei rapporti
intercorrenti
tra la c.d. valutazione di compatibilità paesaggistica
(introdotta dalla normativa del 2004 in tema di condono
ambientale), e la sua possibile rilevanza ai fini
dell’applicabilità
o meno delle sanzioni penali previste dal c.d. decreto
Urbani.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza
con cui il Tribunale, nella veste di giudice
dell’esecuzione,
ha rigettato l’incidente di esecuzione proposto da T.D.,
Ma.Ch. A., F.D., C.S. e G.R., con il quale si chiedeva la
revoca
dell’ordine di demolizione del manufatto edilizio, destinato
ad albergo, realizzato in località sottoposta a vincolo
paesaggistico ex D.M. 25.03.1966, nonché l’ordine
di rimessione in pristino dei luoghi disposta a seguito
della
sentenza definitiva per reati edilizi e paesaggistici emessa
dal medesimo Tribunale in data 27.10.2011, divenuta
irrevocabile il 10.07.2013, con la quale era stata
riconosciuta,
per quanto qui di interesse, la penale responsabilità
di F.D., Ma.Ch.An., M.A., G.R., C.S. e T.D. per i reati di
cui all’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, e art.
181,
comma 1-bis, D.Lgs. n. 42 del 2004 -F.D. e M.C.A. quali
committenti, C.S. quale progettista e direttore dei lavori,
T.D. quale legale rappresentante della società costruttrice,
M.A. quale responsabile dell’Area Urbanistica del Comune
di C. e G.R. quale responsabile del procedimento- per la
realizzazione in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e
in assenza della necessaria autorizzazione paesaggistica
regionale
di “un manufatto edilizio a destinazione alberghiera,
integralmente diverso, per caratteristiche planivolumetriche
e di utilizzazione, dal relativo progetto approvato dalla
Commissione Edilizia”.
Il giudice dell’esecuzione aveva
respinto l’istanza, considerata l’illegittimità della
concessione
in sanatoria rilasciata in data 13.06.2013 dal Comune
di C., contenente anche un parere di “compatibilità
paesaggistica”
dell’autorità regionale. Contro l’ordinanza proponevano
ricorso per cassazione gli interessati, in particolare
sostenendo l’esercizio da parte del giudice di una potestà
riservata alla pubblica amministrazione ed agli organi di
giustizia amministrativa, in riferimento al controllo sugli
atti
amministrativi, connesso all’improprio ruolo di supplenza
svolto nel caso di specie dai giudici del tribunale che
hanno
ritenuto che non fosse possibile il rilascio postumo di una
autorizzazione paesaggistica nel caso di specie e che il
provvedimento sarebbe ulteriormente viziato perché privo
della doppia conformità.
Tale sindacato, secondo gli
interessati,
si sovrappone al merito della P.A. e costituisce
un’ingerenza dei giudici penali nelle competenze della
stessa;
secondo la difesa il giudice dell’esecuzione non avrebbe
alcun potere di disapplicare l’atto successivo se non
quando lo stesso sia stato emanato nonostante sia
espressamente
vietato e non quando si possano essere realizzate
delle mere invalidità, la cui valutazione spetta al giudice
amministrativo; pertanto il giudizio sulla doppia conformità
della sanatoria in sede esecutiva non sarebbe ammissibile.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare osservando, come
corretto
fosse stato l’esito del giudizio di merito, adeguatamente
motivato e corretto sotto il profilo dell’interpretazione
normativa, avendo il tribunale accertato che:
1) l’opera
non rientra tra quelle cd. minori per le quali è consentita
l’autorizzazione paesaggistica postuma, considerati i lavori
quali descritti nei capi di imputazione della sentenza da
eseguire e tenuto altresì conto che la realizzazione di un
seminterrato
comporta sempre un aumento della superficie
utile;
2) che l’accertamento di conformità non rientra nelle
ipotesi di cui all’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in
quanto
per realizzare tale conformità sono stati previsti altri
interventi,
per cui ha concluso considerando tale provvedimento tamquam non esset, in quanto illegittimo, perché avente
ad oggetto interventi non rientranti nella definizione di
“opere minori” ed implicanti interventi edilizi di
completamento
successivi, e ha valutato non revocabile l’ordine di
demolizione e di rimessione in pristino dello stato dei
luoghi.
L’ordinanza impugnata risultava perciò immune dai vizi
di legittimità, essendo provvista di una motivazione
adeguata
ed avendo fornito una corretta interpretazione delle
norme di legge, avuto a riferimento le disposizioni di cui
agli artt. 146 e 167, D.Lgs. n. 42 del 2004 (v., in senso
conforme
al principio di cui in massima: Cass., Sez. III, 23.02.2010, n. 7111, C.B., in CED, n. 246202)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.09.2015 n.
38556 - Urbanistica
e appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: PUNIBILE LA MANCATA APPOSIZIONE DEL CARTELLO
ANCHE SE LA STESSA NON SI PROTRAE DALL’INIZIO SINO
ALLA FINE DEI LAVORI EDILIZI.
È punibile ai sensi dell’art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380
del
2001 la mancata apposizione del cartello a prescindere
dalla circostanza che tale mancanza si protragga dall’inizio
dei lavori edilizi sino alla fine degli stessi; ed invero,
attesa la ratio cui la previsione è informata, rientrano
nella previsione sanzionatoria anche omesse apposizioni
del cartello non coincidenti con tutto l’arco di esecuzione
dei lavori stessi, essendo solo necessario che le
stesse abbiano luogo prima che i lavori siano terminati.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza
in esame concerne un tema invero non molto frequente
nella giurisprudenza di legittimità, riguardante la
configurabilità
del reato consistente nella mancata apposizione del
cartello di cantiere.
La vicenda processuale trae origine
dalla
sentenza che aveva condannato gli imputati per il reato
di cui all’art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, in
relazione
all’omessa esposizione nel cantiere della tabella indicante
gli estremi degli atti autorizzativi e la descrizione
dell’intervento
edilizio in corso. Contro la sentenza proponevano ricorso
per cassazione gli imputati, in particolare sostenendo
per quanto qui di interesse che la ratio della norma
consiste
nella sanzionabilità della mancanza del cartello ab origine
e per un lasso apprezzabile di tempo e non anche ove il
cartello, originariamente apposto (come nella specie), sia
stato successivamente rimosso, non venendo in tal caso
intaccato il bene giuridico protetto; e nella specie il
Tribunale
non aveva appurato quale fosse stato il lasso temporale
di protratta assenza del cartello.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, così chiarendo come l’assunto
secondo
cui la norma punirebbe unicamente la mancanza del
cartello che si protragga dall’inizio dei lavori edilizi
sino alla
fine degli stessi non trova rispondenza nel dettato
normativo
che, anzi, attesa la ratio cui la previsione è informata,
ben può includere anche omesse apposizioni del cartello
non coincidenti con tutto l’arco di esecuzione dei lavori
stessi solo essendo necessario che le stesse abbiano luogo
prima che i lavori siano terminati.
E, nella specie, la
sentenza
aveva dato atto del fatto che il cantiere era ancora attivo
e i lavori ancora in corso nel momento in cui venne
constatata
l’assenza del cartello e che, in ogni caso, nessuna traccia
dello stesso - secondo la difesa asseritamente esposto ab origine ma poi danneggiato e solo successivamente
riposizionato,
venne rinvenuta al momento del sopralluogo
(in precedenza, nel senso che la mancata apposizione del
cartello è penalmente sanzionata a condizione che detto
obbligo sia espressamente previsto dai regolamenti edilizi
o dalla concessione: Cass., SS.UU., 29.05.1992, n.
7978, P.M. in proc. Aramini ed altro, in CED, n. 191176;
Sez. III, del 04.06.2013, n. 29730, Stroppini ed altri,
rv.
255836; Id., Sez. III, 15.10.2009, n. 46832, T. ed
altro, in CED, n. 245613; Id., Sez. III, 07.04.2006, n.
16037 B., in CED, n. 234330) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 22.09.2015 n. 38380
- Urbanistica e
appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
IMPUGNAZIONE AL TAR DEL DINIEGO DEL CONDONO
EDILIZIO ED INSUFFICIENZA AD ESCLUDERE L’ESECUTIVITÀ
DELLA DEMOLIZIONE.
L’impugnazione davanti al TAR del provvedimento di diniego del condono
non è sufficiente per poter disporre la sospensione
dell’esecuzione
dell’ingiunzione a demolire, dovendo, in
ogni caso, l’interessato prospettare quali sono gli elementi
concreti sulla base dei quali possa ritenersi concretamente
probabile l’emanazione entro breve tempo
di un provvedimento amministrativo o giurisdizionale
contrario all’ordine di demolizione.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla idoneità e sufficienza
della mera impugnazione davanti al Giudice amministrativo
del provvedimento con cui l’amministrazione comunale
opponga il proprio diniego al rilascio del c.d. condono
edilizio.
La vicenda processuale segue all’impugnazione
del provvedimento del G.I.P. presso il Tribunale, in
funzione
di giudice dell’esecuzione, con la quale veniva rigettata
l’istanza
di revoca e/o sospensione dell’ordine di demolizione
delle opere abusive realizzate. Contro l’ordinanza proponeva
ricorso per cassazione l’interessato, in particolare
sostenendo
che il mancato accertamento da parte del giudice
sull’applicabilità in concreto delle norme sul condono
edilizio
e l’erronea affermazione di irrilevanza della prospettata
pendenza di un procedimento giurisdizionale amministrativo
avverso il diniego espresso dall’autorità amministrativa
alla domanda di condono edilizio.
La tesi è stata ritenuta manifestamente infondata dalla
Cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di
cui
in massima, ha ricordato la sua consolidata giurisprudenza
secondo cui l’ordine di demolizione può essere revocato
esclusivamente se risulta assolutamente incompatibile con
atti amministrativi o giurisdizionali resi dall’autorità
competente
e che abbiano conferito all’immobile altra destinazione
o abbiano provveduto alla sua sanatoria (Cass. pen.,
Sez. III, n. 17066 del 04.04.2006 - dep. 18.05.2006,
S., in CED, n. 234321), mentre può essere sospeso solo
quando sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di
elementi
concreti, che, nell’arco di brevissimo tempo, sia
adottato dall’autorità amministrativa o giurisdizionale un
provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con
l’ordine di demolizione, non essendo sufficiente una mera
ed ipotetica possibilità che si potrebbe verificare in un
tempo
lontano ed incerto, e, in particolare la semplice pendenza
della procedura amministrativa o giurisdizionale (ex plurimis:
Cass. pen., Sez. III, n. 16686 del 05.03.2009 - dep.
20.04.2009, M., in CED, n. 243463).
Quanto, poi, alla
insufficienza
della mera impugnazione al TAR per giustificare
la sospensione dell’ingiunzione a demolire, la Cassazione,
già in precedenza, ha giudicato inidonea a tal fine la
semplice presentazione di un ricorso al TAR dopo oltre
dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza che
ebbe
a disporre l’ordine di demolizione (Cass. pen., Sez. III, n.
42978 del 17.10.2007 - dep. 21.11.2007, P., in
CED, n. 238145) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
ordinanza 27.05.2015 n. 22105 - Urbanistica e
appalti n. 8-9/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Violare il «blocco» è abusivismo. Trasporto
rifiuti. La Cassazione equipara sospensione dall’Albo e
omessa iscrizione.
I
trasportatori di rifiuti devono essere autorizzati dall’Albo
gestori ambientali che, dopo oltre vent’anni di attività, è
ora disciplinato dal Dm 120/2014. In difetto, anche se i
rifiuti sono trasportati da chi li produce (come le imprese
edili), scatta il reato di gestione illecita di rifiuti, con
pesanti sanzioni penali previste dal Codice ambientale (Dlgs
152/2006). L’iscrizione all’Albo è requisito per svolgere le
attività di raccolta e trasporto rifiuti ed è titolo per
esercitarle.
Alla mancata iscrizione, la Corte di Cassazione (III Sez. penale,
sentenza 09.04.2015 n. 14273) equipara
la sospensione dell’iscrizione: per il periodo della sua
durata fa venir meno l’efficacia del titolo.
Dunque, il trasporto deve ritenersi non autorizzato: non
conta la mancanza fisica dell’iscrizione, ma gli effetti
autorizzatori ad essa connessi, che sono sospesi (e dunque
mancanti) per tutta la durata del provvedimento.
Per scoprire le violazioni è determinante il controllo su
strada. A questi fini, sui veicoli occorre avere il
formulario di identificazione del trasporto e copia del
provvedimento di iscrizione all’Albo, con gli estremi
identificativi degli automezzi che possono operare e i
rifiuti che questi possono trasportare. I rifiuti sono
individuati col Cer (Codice europeo dei rifiuti) presente
nell’Elenco indicato nella parte quarta, allegato D, Dlgs
152/2006.
Il formulario non è richiesto per il trasporto dei rifiuti
urbani effettuato dal gestore del servizio pubblico per il
tratto dal cassonetto all’impianto indicato nell’atto di
concessione. Ma, se l’impianti è fuori dal territorio
comunale, sul mezzo deve esserci copia di tale atto di
concessione.
L’Albo è operativo dal 1994 ed è è articolato in un Comitato
nazionale (presso il ministero dell’Ambiente) e in Sezioni
territoriali (presso le Camere di commercio dei capoluoghi
di regione e di provincia autonoma). Il Comitato deve fare
in modo che le norme siano applicate dappertutto in modo
uniforme e decide sui ricorsi dalle imprese contro le
delibere delle Sezioni. I rapporti tra Albo e imprese sono
telematici. Sul sito
www.albogestoririfiuti.it, per ogni
impresa, si hanno: dati anagrafici,
categorie e classi di iscrizione,
tipologie dei rifiuti gestiti e i relativi codici
dell’Elenco, numeri di targa dei veicoli.
Il passaggio alle regole attuali è stato reso più morbido da
una serie di deliberazioni del Comitato. Si sono poi
aggiunte le più recenti: le n. 2, 3 e 4 del 03.09.2014, con la modulistica per l’iscrizione all’Albo,
rispettivamente con procedura ordinaria e semplificata
(anche per il rinnovo dell’iscrizione);
la n. 5 del 03.09.2014, sulle variazioni
dell’iscrizione all’Albo della dotazione dei veicoli;
la n. 6 del 09.09.2014, col modello di attestazione
dell’idoneità dei veicoli; la n. 7 del 25.11.2014,
sulle variazioni che prevedono il trasferimento
dell’iscrizione ad altro soggetto giuridico; la n. 8 del 25.11.2014, che introduce il foglio notizie per
l’iscrizione all’Albo, con procedura ordinaria, nelle
categorie 1, 4 e 5; la n. 1 del 22.05.2015, sui
controlli a campione sulle dichiarazioni sostitutive di
certificazione e di atto notorio ai sensi del Dpr 445/2000
rese ai fini dell’iscrizione all’Albo; le n. 2 del
16.09.2015 e n. 3 del 15.10.2015, sull’accorpamento delle
categorie di iscrizione; la n. 4 del 18.12.2015,
sull’iscrizione di aziende speciali, consorzi di comuni e
società di gestione dei servizi pubblici; la n. 1 del
10.02.2016, sulla gestione telematica delle domande e delle
comunicazioni tra Albo e impresa (si veda l’articolo a
fianco)
(articolo Il Sole 24 Ore del
05.04.2016).
---------------
MASSIMA
3.11 ricorso è fondato.
4. La vicenda storica è chiara e non oggetto di
contestazione.
4.1. Il Be. è titolare di un'impresa individuale che
esercita attività di gestione, raccolta e trasporto di
rifiuti speciali non pericolosi, ed è iscritta all'Albo
nazionale dei gestori ambientali. L'iscrizione è stata però
sospesa con decorrenza dal 13/02/2013 perché il Be. aveva
provveduto a regolarizzare la domanda di aggiornamento
dell'iscrizione senza apporvi le necessarie marche da bollo.
La circostanza era emersa nel corso di un controllo su
strada del 21/05/2014 all'esito del quale la Polizia
Municipale aveva provveduto a sequestrare l'autocarro con
provvedimento convalidato e reiterato dal Gip ma annullato
con l'ordinanza impugnata.
4.2. Secondo i giudici del riesame la sospensione
dell'iscrizione all'Albo non equivale alla sua assenza e non
può integrare gli estremi del reato ipotizzato che si
consumerebbe -affermano- solo in assenza
dell'autorizzazione, non quando l'autorizzazione esiste ma è
solo sospesa.
5. Il rilievo non è fondato.
5.1. L'art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006 sanziona, tra
le altre, la condotta di chi effettua un'attività di
raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed
intermediazione di rifiuti
«in
mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione (...)
di cui all'art. 212».
5.2. L'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali
è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e
trasporto dei rifiuti e costituisce titolo per l'esercizio
di tali attività (art. 210, commi 5 e 6, d.lgs. 152 del
2006).
5.3. La sospensione dell'iscrizione comporta il venir meno,
per tutto il periodo della durata, dell'efficacia del titolo
necessario per poter esercitare le attività per le quali
l'impresa è stata iscritta.
5.4. Sicché lo svolgimento "medio tempore"
dell'attività (in questo caso) di trasporto di rifiuti deve
ritenersi effettuato in mancanza di autorizzazione,
dovendosi aver riguardo, a tal fine, non alla mancanza
fisica dell'iscrizione, bensì agli effetti autorizzatori
connessi all'iscrizione, sospesi (e dunque mancanti) per
tutta la durata del relativo provvedimento.
5.5. Tale interpretazione non è mai stata messa in
discussione da questa Suprema Corte che si è solo
interrogata se il mancato o ritardato pagamento del diritto
annuale di iscrizione all'albo operi automaticamente oppure
necessiti l'adozione di uno specifico provvedimento (per la
necessità di un apposito provvedimento di sospensione, Sez.
3, n. 9490 del 29/01/2009, Scocca, Rv. 243113; per
l'automatismo della sospensione, Sez. 3, n. 26923 del
04/05/2004, Baglio, Rv. 229454; Sez. 3, n. 24467 del
15/07/2007, Bertagna, Rv. 236887).
5.6. La specifica questione non rileva in questo
procedimento poiché la condotta è stata tenuta in epoca
successiva alla adozione della deliberazione di sospensione
dell'iscrizione.
5.7. Non hanno rilievo, in questa sede, le considerazioni
difensive in ordine alla effettiva conoscenza del
provvedimento di sospensione e alle ragioni per le quali il
Belletti non aveva provveduto a regolarizzare la domanda,
trattandosi di questioni che esulano dalla cognizione
devoluta a questa Suprema Corte.
5.8. Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere
annullato senza rinvio, con conseguente ripristino
dell'efficacia del decreto del Gip. |
EDILIZIA PRIVATA: L’ACCERTAMENTO POSTUMO DI COMPATIBILITÀ NON VALE
A ESTINGUERE IL REATO DI ABUSIVO INTERVENTO SU BENI
CULTURALI.
Per il reato di abusivo intervento su beni culturali,
previsto
e punito dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 169, il bene
tutelato è esclusivamente l’interesse strumentale al
preventivo controllo da parte dell’autorità preposta alla
tutela dei beni culturali, mentre la condotta configura
una concreta offesa dell’interesse amministrativo tutelato,
senza che l’accertamento postumo di compatibilità
col vincolo culturale o l’autorizzazione in sanatoria
rilasciata
dalla autorità preposta possa valere a estinguere il reato o
a escluderne la punibilità.
Ne consegue che
l’accertamento postumo di compatibilità rilasciato dalla
Soprintendenza competente non vale a estinguere il
reato contestato od a escluderne la punibilità.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, della natura giuridica del reato di abusivo
intervento su beni culturali, previsto e punito dal D.Lgs.
n.
42 del 2004, art. 169.
La vicenda processuale che ha fornito
l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue
alla sentenza di condanna emessa per il reato di opere
illecite su bene culturale, ritenuto consumato al momento
dell’accertamento dell’intervento sul bene, escludendosi
qualsiasi rilievo alla circostanza che, successivamente, i
lavori
di restauro sul manufatto fossero stati autorizzati dal
punto di vista amministrativo con una nota con cui la
Soprintendenza
competente comunicava la definitiva archiviazione
del procedimento.
La Corte d’Appello richiamava
la giurisprudenza della Cassazione che esclude che
l’accertamento
postumo di compatibilità con il vincolo culturale
rilasciato dalla predetta Soprintendenza né l’autorizzazione
in sanatoria rilasciata dall’Autorità preposta esplichino
effetto
estintivo o escludano la punibilità del reato di abusivo
intervento su beni culturali. Contro la sentenza proponeva
ricorso per Cassazione l’imputato, sostenendo che tale
affermazione
era illegittima, in quanto l’accertamento postumo
era stato svolto dal Comune con il riconoscimento della
conformità dei lavori agli strumenti urbanistici vigenti
concedendo
l’autorizzazione in sanatoria, laddove la Soprintendenza
aveva riconosciuto l’inidoneità della condotta a porre
in pericolo il bene tutelato.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare
soffermandosi
sulla circostanza che si trattasse di intervento di
minima offensività, affermazione esclusa dalla stessa
tipologia
degli interventi eseguiti (demolizione del pavimento,
creazione di un vano sottotetto, realizzazione di aperture,
etc.). La Corte non ha inteso sottovalutare la complessità
di un tema che ha travagliato a lungo dottrina e
giurisprudenza.
Il principio di offensività nel diritto penale, secondo
cui non sussiste reato senza una effettiva offesa (sotto
forma
di lesione o di messa in pericolo) del bene protetto, è
infatti fondato su una precisa interpretazione dell’art. 49
c.p., comma 2, e confermato dai principi consacrati
nell’art.
25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost., commi 1 e 3.
Tuttavia,
puntualizzano gli Ermellini, la giurisprudenza formatasi
con riferimento alla materia edilizia e paesaggistica (v.,
ad esempio: Cass. pen., Sez. III, n. 10641 del 07.03.2003, S., in CED, n. 224355, secondo cui il reato
paesaggistico
non viene integrato da qualsiasi opera o attività compiuta
senza il preventivo rilascio dell’autorizzazione da parte
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, atteso che
anche in presenza di un reato formale e di pericolo presunto
è riservata al giudice la verifica dell’offensività
specifica
della condotta tenuta, con valutazione ex ante e che perciò
deve essere diretta ad accertare non già se vi sia stato un
danno al paesaggio ed all’ambiente, bensì se il tipo di
intervento
fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico
tutelato), non trova applicazione al reato di abusivo
intervento
su beni culturali (v., in senso conforme: Cass. pen.,
Sez. III, n. 46082 del 15.12.2008, F. e altro, in CED,
n. 241785) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.03.2015 n. 9784
- Urbanistica e appalti n.
5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nei procedimenti preordinati all’emanazione di
ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova
applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter
procedimentale in ragione della natura vincolata del potere
repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile
quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto
dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della
stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della
legge 11.02.2005 n. 15.
---------------
3.3. Le ulteriori censure dedotte in appello non possono
essere accolte, poiché:
- quanto alle garanzie partecipative non vi è motivo per
discostarsi dalla concorde giurisprudenza, per la quale “nei
procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edili abusive non trova applicazione
l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in
ragione della natura vincolata del potere repressivo
esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia
apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi
legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n.
241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge
11.02.2005 n. 15” (Cons. Stato, Sez. IV, 06.02.2013, n.
666; cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011, n. 3398);
ciò che nella specie è altresì avvalorato dalla
considerazione che, secondo la ricorrente, la partecipazione
al procedimento di cui si tratta sarebbe stata utile per
prospettare la rilevanza delle intervenute domande di
condono che, per quanto sopra considerato, non può essere
ritenuta;
- per la stessa ragione non hanno rilievo l’asserzione del
vizio di ultrapetizione della sentenza, la censura,
riproposta nel presente grado, sull’interesse
all’impugnazione del verbale di accertamento
dell’inottemperanza e la ribadita ritualità della
presentazione dei motivi aggiunti ai sensi dell’art. 43 cod.
proc. amm., in quanto motivi basati sulla non accolta
deduzione del vizio della mancata considerazione delle
domande di condono;
- non sussiste, di conseguenza, neppure l’asserito difetto
di istruttoria e di motivazione dei provvedimenti
repressivi, riscontrandosi anche che l’impugnata ordinanza
di demolizione è basata sugli accertamenti della Polizia
municipale e sulla connessa relazione tecnica di
sopralluogo, nonché recante la compiuta descrizione delle
opere abusive
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
l’esame della questione è anzitutto necessario richiamare la
differente natura dei due istituti, dell’istanza
di sanatoria, ovvero di richiesta dell’accertamento della
così detta doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001, e della domanda di condono edilizio di cui
alle leggi n. 47/1985, n. 724/1994 e n. 326/2003, che, nella
prospettazione della ricorrente, appaiono assimilate a
sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del
procedimento in atto per la sanzione dell’opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che dalla
presentazione della domanda di accertamento di conformità
ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 non possono trarsi le
medesime conseguenze della domanda di condono poiché
“…i presupposti dei due procedimenti di sanatoria –quello di
condono edilizio e quello di accertamento di conformità
urbanistica– sono non solo diversi ma anche antitetici,
atteso che l’uno (condono edilizio) concerne il
perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo
di un manufatto in contrasto con le prescrizioni
urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro
(sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n.
380/2001) l’accertamento ex post della conformità
dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo
abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione
formale)”.
Per tali osservazioni alla fattispecie dell’accertamento di
conformità non può applicarsi la sospensione dei
procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire
dall’art. 44 della legge n. 47/1985, come richiamato dalle
successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n.
724/1994 e dell’art. 32 della legge n. 326/2003”, poiché,
come anche precisato, “A seguito della presentazione della
domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47”
(attuale art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) “…non perde
efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente
emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica
previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e
44 l. n. 47/1985 con riferimento alle domande di condono
edilizio".
---------------
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione
sull’erroneità della ricostruzione per cui la presentazione
dell’istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001
successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe
la necessaria formazione, anche sub specie di
silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a
superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell’impugnativa, cosicché l’Amministrazione sarebbe tenuta,
in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento
sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere,
poiché questa giurisprudenza “si è formata in tema di
condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi”, non potendo trovare
applicazione tali principi “al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che,
prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia
conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di
una disciplina preesistente”, per cui “Sostenere…che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento”.
---------------
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo
grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per
cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l’efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del
diniego.
---------------
3. L’appello è infondato nel merito essendo da respingere i
motivi, dirimenti per la decisione della controversia,
relativi alla rilevanza della presentazione nel 2004 delle
sopra citate quattro domande di condono (di cui sopra sub.
2.a) e dell’intervenuta presentazione dell’istanza ex art.
36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (sopra sub. 2.b).
...
3.2. La presentazione dell’istanza ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2011.
3.2.1. Per l’esame della questione è anzitutto necessario
richiamare la differente natura dei due istituti,
dell’istanza di sanatoria, ovvero di richiesta
dell’accertamento della così detta doppia conformità ex
art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, e della domanda di
condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n.
724 del 1994 e n. 326 del 2003, che, nella prospettazione
della ricorrente, appaiono assimilate a sostegno
dell’asserzione della conseguente inefficacia del
procedimento in atto per la sanzione dell’opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il
Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per
discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della
domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime
conseguenze della domanda di condono poiché “…i
presupposti dei due procedimenti di sanatoria –quello di
condono edilizio e quello di accertamento di conformità
urbanistica– sono non solo diversi ma anche antitetici,
atteso che l’uno (condono edilizio) concerne il
perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo
di un manufatto in contrasto con le prescrizioni
urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro
(sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n.
380/2001) l’accertamento ex post della conformità
dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo
abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)”
(TAR Lazio, sezione I-quater, 11.01.2011, n. 124 e
22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR Campania-Napoli,
sezione VI, 03.09.2010, n. 17282 in quest’ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie dell’accertamento di
conformità non può applicarsi la sospensione dei
procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire
dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato
dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge
n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 326 del 2003”
(Tar Lazio, sezione I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché,
come anche precisato, “A seguito della presentazione
della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47”
(attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) “…non perde
efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente
emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica
previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e
44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono
edilizio; …” (Tar Lazio, sezione I-quater, 24.01.2011,
n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione,
con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull’erroneità
della ricostruzione per cui la presentazione dell’istanza di
sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente
alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria
formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di
un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa, cosicché
l’Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare
un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo
termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza “si è
formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI,
26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi”, non potendo trovare
applicazione tali principi “al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che,
prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia
conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di
una disciplina preesistente”, per cui “Sostenere…che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento”.
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo
grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per
cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l’efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del
diniego.
3.2.2. In questo contesto nella vicenda in esame si rileva
che:
- l’ordinanza di demolizione è stata notificata il
19.03.2012; l’istanza di accertamento di conformità è stata
presentata il 12.04.2012; l’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione è stata proposta successivamente, il 10.05.2012;
il 13.06.2012 si è formato il silenzio-rigetto sull’istanza
di sanatoria, come riscontrato con l’ordinanza cautelare di
rigetto, n. 904 del 22.06.2012, adottata in primo grado e
non impugnata; il 12.09.2012 è stato emanato il verbale di
accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di
demolizione notificato il 12 ottobre successivo;
- ne emerge perciò:
a) che la ricorrente ha impugnato l’ordinanza di demolizione dopo
la presentazione dell’istanza di accertamento della
conformità, manifestando con ciò interesse all’annullamento
dell’ordinanza nonostante la previa presentazione
dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e non
valendo perciò l’asserita improcedibilità dell’impugnazione
per sopravvenuta carenza di interesse, rilevata in
giurisprudenza quando l’impugnazione del provvedimento
sanzionatorio precede la presentazione dell’istanza di
sanatoria per conformità;
b) che il silenzio-rigetto dell’istanza non è stato impugnato, non
di per sé né per via dell’impugnazione dell’ordinanza
cautelare di primo grado che l’ha riscontrato;
c) che all’esito di tutto ciò l’ordinanza di demolizione ha
riacquistato piena efficacia risultando dovuto il
consequenziale accertamento dell’inottemperanza
all’ordinanza stessa
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sentenza impugnata del TAR fonda l’accoglimento del ricorso
di primo grado sulle seguenti considerazioni:
- secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione
dell’istanza di sanatoria, ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001
successivamente alla ordinanza di demolizione, comporta la
necessaria formazione, anche sub specie di silenzio rigetto,
di un nuovo provvedimento che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa;
- che, nell’ipotesi di rigetto anche tacito dell’istanza di
sanatoria l’amministrazione è in ogni caso tenuta, anche nel
medesimo contesto documentale e con rinvio ai pregressi
elementi istruttori e motivazionali, ad adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per
adempiere.
Il ricorso è stato accolto perché l’ordine di acquisizione
impugnato traeva il suo presupposto dall’inottemperanza ad
un pregresso ordine di demolizione da intendersi superato a
seguito della presentazione della successiva istanza di
sanatoria dichiarata improcedibile.
Il ricorso in appello del comune è fondato.
La consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza
impugnata si è formata in tema di condono edilizio, ossia di
richiesta che trova il suo fondamento in una norma di
carattere legislativo, che, innovando alla disciplina
urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e
per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi
commessi.
Quei principi non possono trovare applicazione al caso di
specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi
dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi
di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si
definisce doppia conformità, limita la valutazione
dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
---------------
1. L’odierno appellato sig. Ba.Al. ha adito il Tribunale
amministrativo regionale per la Campania per l’annullamento
del provvedimento prot. n. 1266 del 07.03.2013, con il quale
il responsabile del servizio assetto del territorio del
Comune di Casapesenna ha dichiarato acquisite di diritto al
patrimonio del medesimo comune l’opera edilizia abusiva
(consistente in due fabbricati abusivi) e la relativa area
di sedime, site in via .., n. 5 e n. 7 in catasto fg. 8
p.lle 652/A e 652/b, stante l’accertata inottemperanza
all’ordine di demolizione n. 18 dell’08.11.2012 come da
verbale prot. n. 172/P.M. del 04.03.2013.
2. Nella sentenza impugnata si dà atto che il sig. Ba. aveva
impugnato il predetto ordine di demolizione con ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica dell’08.03.2013
e aveva inoltrato, dopo la notifica in data 09.11.2012
dell’ordine di demolizione, posto a base della gravata
acquisizione, istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 in data 27.12.2012.
La sentenza impugnata dà altresì atto che il Comune di
Casapesenna aveva opposto che l’istanza di sanatoria era
stata dichiarata improcedibile con provvedimento n. 27 del
02.01.2013 in quanto priva di documentazione e di aver ivi
invitato il ricorrente a presentare nuova istanza corredata
di documentazione.
3. La sentenza impugnata fonda l’accoglimento del ricorso di
primo grado sulle seguenti considerazioni:
- secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione
dell’istanza di sanatoria, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001
successivamente alla ordinanza di demolizione, comporta la
necessaria formazione, anche sub specie di silenzio
rigetto, di un nuovo provvedimento che vale comunque a
superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell’impugnativa;
- che, nell’ipotesi di rigetto anche tacito dell’istanza di
sanatoria l’amministrazione è in ogni caso tenuta, anche nel
medesimo contesto documentale e con rinvio ai pregressi
elementi istruttori e motivazionali, ad adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per
adempiere.
Il ricorso è stato accolto perché l’ordine di acquisizione
impugnato traeva il suo presupposto dall’inottemperanza ad
un pregresso ordine di demolizione da intendersi superato a
seguito della presentazione della successiva istanza di
sanatoria dichiarata improcedibile.
4. Il Comune di Casapesenna ha proposto ricorso in appello
deducendo un unico complesso motivo così epigrafato:
error in procedendo; error in iudicando;
violazione dell’art. 112 del Cod. pro. Civ.; erroneità nella
ricostruzione dei termini fattuali della vicenda sostanziale
e nella sua valutazione giuridica; contraddittorietà; errata
determinazione del thema decidendum; errata
determinazione del thema probandum.
5. Il ricorso in appello è fondato.
6. La consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la
sentenza impugnata si è formata in tema di condono edilizio
(Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta
che trova il suo fondamento in una norma di carattere
legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica
vigente, consente, a determinate condizioni e per un
limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi
commessi.
7. Quei principi non possono trovare applicazione al caso di
specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi
dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi
di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si
definisce doppia conformità, limita la valutazione
dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini
suddetti non può essere effettuata in via meramente
interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni
concezione sull’esercizio del potere, e richiede
un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in
ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti
del rapporto.
8. Per completezza di esposizione il Collegio non può non
rilevare che, nella ricostruzione della vicenda effettuata
dal giudice di primo grado, del tutto irrilevante si è
rivelata la circostanza che il ricorrente abbia impugnato
l’ordinanza di demolizione con ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica.
D’altro canto dalla sentenza impugnata non emerge che tale
provvedimento sia stato sospeso, con la conseguenza che esso
poteva costituire idoneo presupposto per l’adozione del
provvedimento di acquisizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2014 n. 2307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 04.04.2016 |
ã |
IN EVIDENZA |
Il
titolare del permesso di
costruire, il committente e il
costruttore
sono responsabili della conformità delle opere alla
normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché,
unitamente al direttore dei lavori, a quelle del
permesso ed alle modalità esecutive stabilite dal medesimo
(art. 29, d.P.R. n. 380/2001).
Anche nel caso
di D.I.A. (o S.C.I.A.)!! |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
procedimento penale per costruzioni prive di concessione o
assistite da concessione illegittima, la violazione anche di
norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà
in tema di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni
legittima i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile,
essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che
dà luogo all'azione di risarcimento del medesimo.
---------------
Il titolare del permesso di
costruire, il committente e il costruttore
sono responsabili della conformità delle opere alla
normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché,
unitamente al direttore dei lavori, a quelle del
permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo
(art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a
carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di
garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura
anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n.
380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo
abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti
urbanistici.
A maggior ragione non lo è in caso di
intervento realizzato direttamente in base a denunzia di
inizio di attività, atto non pubblico
proveniente dal privato e non dalla pubblica
amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni
che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel
caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione
del programma progettuale ed è dunque riconducibile
all'ideazione del committente.
---------------
2. Il ricorso è inammissibile perché generico, proposto per
motivi non consentiti dalla legge e manifestamente
infondato.
3. L'imputato risponde del reato di cui agli artt. 40, cpv.,
110, cod. pen., 44, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380
perché, quale proprietario committente, in concorso con due
pubblici ufficiali del Comune di Castiglione della Pescaia
(che avevano archiviato il procedimento amministrativo
finalizzato all'accertamento dell'abuso edilizio, così
concorrendo alla sua realizzazione), con i progettisti, i
direttori dei lavori e il titolare dell'impresa esecutrice
degli stessi, aveva ristrutturato, mediante soprelevazione e
suddivisione di due unità immobiliari, il villino di sua
proprietà, sito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
in assenza di valido titolo edilizio essendo illegittima la
D.I.A. perché in contrasto con la normativa in materia di
distanze tra fabbricati (art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 e 26
delle N.T.A. del P.R.G.), posto che la soprelevazione era
stata realizzata ad una distanza inferiore a 10 metri
rispetto al fabbricato adiacente.
3.1. Il Giudice di primo grado, dopo aver sottolineato come,
in realtà, l'intervento edilizio dovesse piuttosto
qualificarsi alla stregua di una vera e propria nuova
costruzione (in considerazione della realizzazione di un
piano in più nel quale ospitare un nuovo appartamento, della
costruzione di cantine e di un terrazzo, della radicale
variazione della sagoma), attenendosi alla rubrica, aveva
comunque evidenziato che il «manufatto presentava una
ovvia imponenza con muro parapetto, pilastri orizzontali e
verticali» ed una loggia certamente computabile ai fini
delle distanze alla luce sia degli strumenti urbanistici del
2007, che del PRG del 2009 secondo il quale non dovevano
essere computati ai fini delle distanze solo gli elementi
decorativi, i balconcini, le pergole e i porticati (e ciò a
prescindere dal fatto che l'opera, realizzata in epoca
precedente al 2009, non era comunque conforme nemmeno alle
definizioni del nuovo PRG).
3.2. In sede di appello l'imputato si è a lungo soffermato
sulla natura dell'intervento (ristrutturazione) e sulle sue
caratteristiche oggettive, oltre che su altri temi, alcuni
dei quali del tutto superflui alla luce degli odierni motivi
di ricorso.
In alcun modo, però, era stato devoluto alla Corte
territoriale il tema, esclusivamente fattuale, della natura
della "loggia" realizzata a seguito della
soprelevazione e della sua attitudine a incidere sul calcolo
delle distanze, oggetto del secondo motivo di ricorso.
E' pur vero che la sentenza impugnata affronta il tema
ricostruendo il fatto (la descrizione della "loggia")
e interpretando le norme ad esso applicabili, ma è
altrettanto vero che il ricorrente, negletto il secondo
argomento -indubbiamente più acconcio a questa fase di
legittimità- si avventura nella diversa ricostruzione del
fatto attraverso ampi, quanto inammissibili richiami alle
prove raccolte nella fase di merito.
3.3. Gli altri vizi denunziati con il primo motivo di
ricorso, altro non sono se non la riedizione, per molti
versi alla lettera, dei corrispondenti motivi di appello,
affastellati in modo generico e confuso (si eccepisce, per
esempio, la illegittimità della costituzione della parte
civile, sotto lo stesso capitolo dedicato alla insussistenza
dell'elemento psicologico del reato), senza alcuna
considerazione per gli argomenti spesi nella sentenza
impugnata per confutarli.
3.4. E' sufficiente ribadire che, come anche ricordato dalla
Corte di appello, nel procedimento penale
per costruzioni prive di concessione o assistite da
concessione illegittima, la violazione anche di norme
civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema
di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni legittima
i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile, essendo
in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo
all'azione di risarcimento del medesimo
(Sez. 3, n. 5190 del 15/03/1991, De Bigontina, Rv. 187094;
Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009, Vespa, Rv. 245270; Sez. 3,
n. 21222 del 04/04/2008, Chianese, Rv. 240044).
3.5. Inoltre, il titolare del permesso di
costruire, il committente e il costruttore sono responsabili
della conformità delle opere alla normativa urbanistica,
alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei
lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a
carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di
garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura
anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n.
380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo
abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti
urbanistici (Sez.
3, n. 27261 del 08/06/2010, Caleprico, Rv. 248070).
A maggior ragione non lo è in caso di
intervento realizzato direttamente in base a denunzia di
inizio di attività, atto non pubblico
(Sez. 3, n. 41480 del 24/09/2013, Zecca, Rv. 257690)
proveniente dal privato e non dalla pubblica
amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni
che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel
caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione
del programma progettuale ed è dunque riconducibile
all'ideazione del committente.
3.6. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.03.2016 n. 10106). |
Sulle conseguenze di una D.I.A. mendace: |
EDILIZIA PRIVATA: Risulta maggioritaria
la tesi che riconosce la natura dichiarativa della d.i.a., la
quale, con specifico riferimento alla disciplina urbanistica
è stata descritta da autorevole dottrina come un istituto
che non dà origine ad un provvedimento amministrativo in
forma tacita e che consiste in una dichiarazione del privato
alla quale, sussistendo le richieste condizioni ed in
assenza di un intervento inibitorio a carattere vincolato
dell'amministrazione comunale, la legge riconosce gli
effetti corrispondenti a quelli tipici del permesso di
costruire e, cioè, l'abilitazione alla realizzazione delle
opere progettate.
Il ventennale dibattito sulla natura giuridica della d.i.a.
ha interessato, ovviamente, anche la giurisprudenza
amministrativa, anch'essa caratterizzata da opinioni
difformi, tanto che, come ricordato in ricorso, la
questione è stata sottoposta all'esame dell'Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato la quale, con articolata
motivazione, ha escluso che la denuncia di inizio attività
sia un provvedimento amministrativo a formazione tacita e
che dia luogo ad un titolo costitutivo, essendo, invece, un
atto privato volto a comunicare l'intenzione di
intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Chiarisce l'Adunanza Plenaria, ponendosi in evidente
sintonia con l'indirizzo dottrinario precedentemente
ricordato, che «il denunciante è,
infatti, titolare di una posizione soggettiva originaria,
che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella
legge, sempre che ricorrano i presupposti normativi per
l'esercizio dell'attività e purché la mancanza di tali
presupposti non venga stigmatizzata dall'amministrazione con
il potere di divieto da esercitare nel termine di legge,
decorso il quale si consuma, in ragione dell'esigenza di
certezza dei rapporti giuridici, il potere vincolato di
controllo con esito inibitorio e viene in rilievo il
discrezionale potere di autotutela».
---------------
La
relazione di accompagnamento alla d.i.a. edilizia ne
costituisce parte integrante ed essenziale ed ha natura di
certificazione per quanto riguarda sia la descrizione dello
stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli
eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile
interessati dall'intervento, sia la rappresentazione delle
opere che si intende realizzare e l'attestazione della
conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al
regolamento edilizia.
La richiamata decisione, oltre a riproporre orientamenti già
consolidati, ha dunque chiarito, riproponendo le
argomentazioni prospettate in una precedente pronuncia, che
la natura di certificazione deve essere riconosciuta
anche alla parte progettuale della relazione allegata alla
d.i.a., così superando precedenti posizioni difformi.
Va peraltro rilevato che la suddetta sentenza
individua chiaramente la d.i.a. come atto del
privato che esclude la necessità di un titolo di
legittimazione, rilevando che il potere di verifica
dell'amministrazione «non è finalizzato all'emanazione di
un provvedimento di consenso all'esercizio dell'attività, ma
al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza
di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni
normativi stabiliti per l'attività in questione. Con la DIA,
quindi, al principio autoritativo si sostituisce il
principio dell'autoresponsabilltà dell'amministrato, che è
legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza
dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore».
Ciò posto, osserva il Collegio che
le
conclusioni cui è pervenuta la sentenza 35795/2012 appaiono
pienamente convincenti, in quanto frutto di un'accurata
analisi della natura dell'istituto della d.i.a. edilizia e
della normativa che la disciplina, all'esito della quale
viene giustamente riconosciuta alla condotta del
professionista abilitato una specifica rilevanza
pubblicistica in ragione della assunzione di responsabilità
cui è chiamato, in considerazione «del particolare
affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica
che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso
che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai
controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di
legalità e correttezza dell'intervento».
---------------
5. Il ricorso è solo in parte fondato.
La Corte territoriale ha ritenuto corretta la qualificazione
giuridica della condotta di alterazione della d.i.a.
effettuata dal giudice di prime cure, riconoscendo la natura
di atto pubblico della denuncia di inizio attività,
rilevando che gli interventi ad essa soggetti
s'intenderebbero autorizzati, decorso il termine di trenta
giorni per formazione del silenzio-assenso, nell'ambito di
quanto prospettato nella denuncia stessa, la quale assume la
forma e la sostanza di atto autorizzatorio, assurgendo al
rango di atto pubblico.
A sostegno di tale soluzione interpretativa i giudici del
gravame richiamano una decisione di questa Corte emessa nel
medesimo procedimento in ambito di incidente cautelare (Sez.
V n. 35153, 17.05.2007, non massimata) ed escludono che
possa ritenersi la natura privatistica della denuncia sulla
base della sua provenienza in quanto, una volta uscita dalla
sfera del privato e presentata allo sportello unico
corredata dagli elaborati di progetto e della relazione di
asseveramento, essa determina l'avvio di una sequenza
procedimentale che, all'esito di positivi riscontri sulla
sussistenza delle condizioni di legge da parte del
responsabile dell'ufficio tecnico comunale, dà luogo ad un
provvedimento implicito di assenso all'esecuzione dei lavori
ed acquista rilievo pubblicistico, come emergerebbe anche
dal tenore letterale dell'art. 23, comma 5, d.P.R. 380/2001,
ove è stabilito che «la sussistenza del titolo è provata
con la copia della denuncia di inizio attività da cui
risulti la data di ricevimento della denuncia, l'elenco di
quanto presentato a corredo del progetto, l'attestazione del
professionista abilitato, nonché gli atti di assenso
eventualmente necessari».
La decisione di questa Corte richiamata nella sentenza
impugnata giunge alle medesime conclusioni, affermando che
la d.i.a. assume, in conseguenza del silenzio-assenso che
viene a formarsi dopo trenta giorni dalla sua presentazione,
la forma e la sostanza del provvedimento autorizzativo che
l'autorità non ha emesso, assurgendo, così, al rango di atto
pubblico.
Di diverso avviso è, invece il ricorrente, per le ragioni
sintetizzate in premessa.
Assume conseguentemente rilievo determinante
l'individuazione della natura giuridica della denuncia di
inizio attività.
6. Come è noto, l'istituto della d.i.a. è stato introdotto
dalla legge 07.08.1990, n. 241 ed è disciplinato
dall'articolo 19 della legge medesima che ha subito, nel
tempo, numerose modifiche, tra le quali va ricordata quella
ad opera dell'articolo 49, comma 4-bis, della L. 122/2010 di
conversione del d.l. 31.05.2010, n. 78, con il quale si è
proceduto all'introduzione della S.C.I.A., segnalazione
certificata di inizio attività (secondo l'interpretazione
autentica dell'art. 19 legge 241/1990 fornita dal dl.
70/2011, convertito nella Legge 106/2011, le disposizioni in
esso contenute si applicano alle d.i.a. in materia edilizia
disciplinate dal Testo Unico, con esclusione dei casi in cui
esse siano, in base alla normativa statale o regionale,
alternative o sostitutive del permesso di costruire).
Si tratta, pertanto, di un istituto di carattere generale il
quale prevede, salvo eccezioni espressamente indicate, che
ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato,
comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli
richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale,
commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti
richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto
generale e non sia previsto alcun limite o contingente
complessivo o specifici strumenti di programmazione
settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito
da una dichiarazione (ora segnalazione) dell'interessato
corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni
e dell'atto di notorietà, nonché dalle attestazioni ed
asseverazioni richieste.
Per ciò che concerne la disciplina edilizia, la relativa
procedura è regolata dagli articoli 22 e 23 del d.P.R.
380/2001. Sulla base delle disposizioni richiamate,
restano attualmente soggetti a d.i.a. esclusivamente
gli interventi edilizi eseguibili con d.i.a. alternativa o
sostitutiva del permesso di costruire in base a leggi
statali o regionali, mentre i richiami riguardanti le altre
tipologie di interventi soggetti a d.i.a. devono ora
intendersi riferiti alla s.c.i.a.
La particolarità dell'istituto della d.i.a. ha indotto
dottrina e giurisprudenza ad interrogarsi, in più occasioni,
sull'esatta qualificazione della sua natura giuridica,
giungendo a conclusioni non univoche anche in considerazione
del fatto che, strettamente correlata a tale questione, vi è
anche quella della tutela del terzo.
7. In termini estremamente sintetici e generali, le due
principali soluzioni adottate propendono una per la
natura meramente dichiarativa della d.i.a., mentre
l'altra attribuisce all'istituto una natura
provvedimentale. Nel primo caso, quindi, si
tratterebbe di una mera dichiarazione del privato alla quale
la legge, in presenza di determinate condizioni, attribuisce
la produzione di particolari effetti, mentre, nel secondo,
la dichiarazione darebbe luogo alla formazione di un
provvedimento tacito o implicito quale conseguenza del
decorso del termine fissato per l'attività di verifica
imposta alla RA.
Tra le due tesi risulta maggioritaria
quella che riconosce la natura dichiarativa della d.i.a., la
quale, con specifico riferimento alla disciplina urbanistica
è stata descritta da autorevole dottrina come un istituto
che non dà origine ad un provvedimento amministrativo in
forma tacita e che consiste in una dichiarazione del privato
alla quale, sussistendo le richieste condizioni ed in
assenza di un intervento inibitorio a carattere vincolato
dell'amministrazione comunale, la legge riconosce gli
effetti corrispondenti a quelli tipici del permesso di
costruire e, cioè, l'abilitazione alla realizzazione delle
opere progettate.
8. Il ventennale dibattito sulla natura giuridica della
d.i.a. ha interessato, ovviamente, anche la giurisprudenza
amministrativa, anch'essa caratterizzata da opinioni
difformi, tanto che, come ricordato in ricorso, la questione
è stata sottoposta all'esame dell'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 15,
29.07.2011) la quale, con articolata
motivazione, ha escluso che la denuncia di inizio attività
sia un provvedimento amministrativo a formazione tacita e
che dia luogo ad un titolo costitutivo, essendo, invece, un
atto privato volto a comunicare l'intenzione di
intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Chiarisce l'Adunanza Plenaria, ponendosi in evidente
sintonia con l'indirizzo dottrinario precedentemente
ricordato, che «il denunciante è,
infatti, titolare di una posizione soggettiva originaria,
che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella
legge, sempre che ricorrano i presupposti normativi per
l'esercizio dell'attività e purché la mancanza di tali
presupposti non venga stigmatizzata dall'amministrazione con
il potere di divieto da esercitare nel termine di legge,
decorso il quale si consuma, in ragione dell'esigenza di
certezza dei rapporti giuridici, il potere vincolato di
controllo con esito inibitorio e viene in rilievo il
discrezionale potere di autotutela».
Nel confutare gli argomenti prospettati a sostegno
dell'opposta tesi sulla natura provvedimentale della d.i.a.,
il Consiglio di Stato prende in esame anche la specifica
disciplina urbanistica, indicata, per la sua peculiarità,
come significativa, evidenziando che il titolo II del d.P.R.
380/2001 indica, tra i «titoli abilitativi», tanto la
denunzia di inizio di attività quanto il permesso di
costruire, gli artt. 22 e 23 considerano la d.i.a. come
abilitante all'intervento edificatorio e, nell'art. 22, ne
delineano l'ambito di operatività rispetto al permesso di
costruire, mentre nell'art. 38, il comma 2-bis formula una
sostanziale equiparazione tra l'accertamento
dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del
titolo per gli interventi edilizi soggetti a d.i.a. e quelli
eseguiti in base a permesso annullato e, infine, l'art. 39,
comma 5-bis, consente l'annullamento straordinario della
d.i.a. da parte della Regione, inducendo così a ritenere che
la denuncia sia considerata dal legislatore come un titolo
passibile di annullamento.
Tali evenienze non sono tuttavia considerate determinanti
dal giudice amministrativo, il quale osserva che
un primo elemento ostativo all'accoglimento
dell'opzione ermeneutica che riconosce alla d.i.a. natura
provvedimentale quale conseguenza del silenzio-significativo
con effetto autorizzatorio è dato dal fatto che essa
eliminerebbe ogni differenza sostanziale tra la d.i.a. ed il
silenzio-assenso, che la legge specificamente distingue
anche nel caso della disciplina urbanistica, la quale
differenzia il permesso di costruire perfezionatosi con il
silenzio-assenso rispetto alla d.i.a. ed alla s.c.i.a..
Ulteriori elementi indicativi sono poi individuati, ad
esempio, nel tenore letterale dell'art. 19 legge 241/1990,
il quale sostituisce, in presenza di determinati
presupposti, ogni autorizzazione, comunque denominata, con
una dichiarazione del privato ad efficacia legittimante
immediata o differita, così contrapponendo l'istituto della
d.i.a. al provvedimento amministrativo di stampo
autorizzatorio, mentre i dubbi sollevati per il fatto che la
scelta tra autorizzazione preventiva e controllo successivo
sia rimessa, nella materia edilizia alla normativa regionale
o addirittura all'iniziativa del privato (il riferimento è
all'art. 22 del d.P.R. 380/2001) vengono ritenuti fugati
dall'indirizzo giurisprudenziale che riconosce la
possibilità di tecniche di tutela efficaci ed adeguate anche
in caso di configurazione della d.i.a. come modello di
liberalizzazione.
9. Alla luce delle considerazioni sinteticamente richiamate
non vi è dunque motivo per porre in dubbio la natura
meramente dichiarativa della d.i.a. e, tenendo conto di tale
scelta interpretativa già maggioritaria ed ormai avallata
dall'autorevole intervento del giudice amministrativo,
occorre rilevare quali conseguenze penali derivino in casi
quale quello preso in considerazione nella sentenza
impugnata.
Va osservato, a tale proposito, che l'art. 21, comma 2,
legge 241/1990 specifica che con la denuncia o con la
domanda di cui agli articoli 19 e 20 l'interessato deve
dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di
legge richiesti e che, in caso di dichiarazioni mendaci o di
false attestazioni, il dichiarante è punito, salvo che il
fatto costituisca più grave reato, con la sanzione prevista
dell'articolo 483 cod. pen.
Il riferimento, come è dato desumere dal tenore letterale
della disposizione, riguarda chiaramente la dichiarazione
del privato e non anche la documentazione che
necessariamente l'accompagna e che, per quanto riguarda la
disciplina urbanistica, è costituita, in base a quanto
stabilito dall'art. 23, comma 1, del Testo Unico, dagli
elaborati progettuali e dalla relazione di asseverazione del
professionista abilitato, rispetto alla quale il comma 6 del
medesimo articolo ribadisce, in caso di falsità, l'obbligo
di denuncia, già previsto in linea generale dall'art. 331
cod. proc. pen., prevedendo anche quello di informazione del
consiglio dell'ordine di appartenenza.
L'art. 29, comma 3, del medesimo T.U. stabilisce inoltre
che, per le opere realizzate dietro presentazione di
denuncia di inizio attività, il progettista assume la
qualità di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 cod. pen.,
ricordando, ancora una volta, l'obbligo di segnalazione in
caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui
all'articolo 23, comma 1.
10. Sul tema la giurisprudenza di questa Corte si è
ripetutamente pronunciata, elaborando, in più occasioni,
principi che sono stati ribaditi anche recentemente (Sez.
III n. 35795, 17.04.2012, cui si rinvia anche per i puntuali
richiami ai precedenti) ricordando che la
relazione di accompagnamento alla d.i.a. edilizia ne
costituisce parte integrante ed essenziale ed ha natura di
certificazione per quanto riguarda sia la descrizione dello
stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli
eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile
interessati dall'intervento, sia la rappresentazione delle
opere che si intende realizzare e l'attestazione della
conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al
regolamento edilizia.
La richiamata decisione, oltre a riproporre orientamenti già
consolidati, ha dunque chiarito, riproponendo le
argomentazioni prospettate in una precedente pronuncia (Sez.
III n. 23072, 08.06.2011, non massimata), che
la natura di certificazione deve essere riconosciuta
anche alla parte progettuale della relazione allegata alla
d.i.a., così superando precedenti posizioni difformi.
Va peraltro rilevato che la suddetta sentenza
individua chiaramente la d.i.a. come atto del
privato che esclude la necessità di un titolo di
legittimazione, rilevando che il potere di verifica
dell'amministrazione «non è finalizzato all'emanazione di
un provvedimento di consenso all'esercizio dell'attività, ma
al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza
di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni
normativi stabiliti per l'attività in questione. Con la DIA,
quindi, al principio autoritativo si sostituisce il
principio dell'autoresponsabilltà dell'amministrato, che è
legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza
dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore».
11. Ciò posto, osserva il Collegio che le
conclusioni cui è pervenuta la sentenza 35795/2012 appaiono
pienamente convincenti, in quanto frutto di un'accurata
analisi della natura dell'istituto della d.i.a. edilizia e
della normativa che la disciplina, all'esito della quale
viene giustamente riconosciuta alla condotta del
professionista abilitato una specifica rilevanza
pubblicistica in ragione della assunzione di responsabilità
cui è chiamato, in considerazione «del particolare
affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica
che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso
che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai
controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di
legalità e correttezza dell'intervento».
La vicenda esaminata nella sentenza impugnata riguarda la
materiale aggiunta di un testo sulla d.i.a. già presentata.
Una simile condotta, ad avviso del Collegio, una volta
esclusa la natura provvedimentale della d.i.a. non può
configurare il delitto di cui all'art. 476 cod. pen., in
quanto il deposito presso l'ufficio competente a riceverla
non le attribuisce natura di atto pubblico, mantenendo essa
l'originaria caratteristica di mera dichiarazione corredata
dalla relazione di asseverazione e dagli elaborati
progettuali aventi valore di certificazione che ne
costituiscono parte integrante. Va peraltro osservato che la
decisione di questa Corte richiamata dai giudici del gravame
ed emessa nell'ambito del medesimo procedimento (Sez. V n.
35153/2007, cit.) non assume alcun rilievo determinante, in
quanto le conclusioni cui perviene si fondano sull'ormai
minoritario indirizzo interpretativo confutato dal giudice
amministrativo e sul richiamo ad altra decisione (Sez. V n.
8684, 26.02.2004) che riguarda, però, questione in parte
diversa (modifica, ad opera di funzionari comunali, di
domande di condono e sostituzione della documentazione
allegata).
La riconducibilità delle condotte contestate all'ipotesi di
cui all'art. 476 cod. pen. veniva infatti ritenuta, in quel
caso, per il fatto che i documenti presentati dal privato,
venendo recepiti dall'amministrazione, ricevono un contenuto
aggiuntivo per effetto delle successive integrazioni di
fonte pubblicistica e per tale nuovo profilo, che presenta
indubbia autonomia funzionale, sono qualificabili come atti
pubblici, ma nel caso esaminato l'elemento qualificante era
rappresentato dall'apposizione del timbro del protocollo e
sul conseguente rilievo assunto dalla soppressione della
documentazione ove lo stesso era stato apposto.
La stessa sentenza, inoltre, afferma testualmente che «è
fuor di dubbio che una scrittura privata o un altro
documento, non costituente "ab origine" atto pubblico, non
possa essere considerato tale in virtù del collegamento
funzionale con l'atto cui esso mette o concorre a mettere
capo ovvero assuma natura di atto pubblico, quasi che
subisca una mutazione genetica, per il solo fatto che venga
consegnato alla pubblica amministrazione, per effetto
dell'inserimento di esso in una "pratica" il cui esito è
costituito da un determinato provvedimento».
Deve dunque rilevarsi che, nella fattispecie, la materiale
alterazione della d.i.a. mediante l'aggiunta manoscritta di
una frase indicante lavori diversi da quelli originariamente
dichiarati riguarderebbe, per quanto è dato desumere dal
tenore del provvedimento impugnato, la sola descrizione
dell'intervento, non viene tuttavia chiarito se l'intervento
modificativo del testo abbia interessato parti del documento
aventi, come si è detto in precedenza, valore di
certificazione cosicché, esclusa la configurabilità del
falso in atto pubblico di cui all'art. 476 cod. pen., si
rende necessario l'annullamento dell'impugnata decisione sul
punto affinché il giudice del rinvio, accertato
preliminarmente in fatto, attraverso il diretto esame della
d.i.a. e della documentazione che ne costituisce parte
integrante, nella parte descrittiva delle opere da
realizzare, qualifichi diversamente la condotta contestata
alla luce dei principi in precedenza richiamati.
Il primo motivo di ricorso è dunque fondato e
l'accoglimento del motivo consente di ritenere
assorbita la questione prospettata nel secondo
motivo di ricorso (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.10.2013 n. 41480 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere edilizie soggette a DIA e relazione di
accompagnamento.
Integra il reato di falsità ideologica
in certificati (art. 481 cod. pen.) non solo la
falsificazione della dichiarazione di inizio attività
(cosiddetta DIA) ma anche quella riguardante la relazione di
accompagnamento alla stessa, avendo essa natura di
certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale
dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli
esistenti sull'area o sull'immobile interessati
dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si
intende realizzare e all'attestazione della loro conformità
agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
---------------
L'art. 481 cod. pen. punisce la condotta
di colui il quale ponga in essere una falsità ideologica in
certificati commessa nell'esercizio di una professione
forense, sanitaria o di altro servizio di pubblica
necessità.
In relazione a tale previsione
sanzionatoria il Collegio
ribadisce anzitutto il principio secondo il quale:
-- il progettista o, comunque, il tecnico
abilitato che predispone la relazione di accompagnamento,
all'interno del procedimento che la legge prescrive per la
presentazione della DIA in materia edilizia, assume la
qualifica di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ex art. 359 cod. pen..
L'art. 481 cod. pen. prevede, però, che
la falsa attestazione dei fatti dei quali l'atto sia
destinato a provare la verità sia contenuta all'interno di
un "certificato" e da ciò discende la necessità di
individuare se la relazione di accompagnamento alla DIA
edilizia abbia o meno natura di "certificato".
Sui punto la giurisprudenza di questa Corte ha affermato,
con consolidato orientamento, che
costituisce "certificazione" la descrizione dello
stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare.
---------------
L'art. 29, 3° comma, del T.U. n. 380/2001
dispone che "Per le opere realizzate dietro presentazione
di denuncia di inizio attività, il progettista assuma la
qualità di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 cod. pen. In caso
di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui
all'art. 23, comma 1, l'amministrazione ne dà comunicazione
al competente ordine professionale per l'irrogazione delle
sanzioni disciplinari".
Le previsioni anzidette devono essere lette in necessaria
correlazione con quelle poste dai precedente art. 23, il
quale prescrive che la DIA deve essere accompagnata da una
relazione del progettista:
- "che asseveri la conformità delle opere da realizzare
agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti"
(comma 1);
- che il dirigente o responsabile dell'ufficio tecnico
comunale, "in caso di falsa attestazione del
professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e
il consiglio dell'ordine di appartenenza" (comma 6);
- che, ultimato l'intervento, "il progettista o un
tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale
... con il quale si attesta la conformità dell'opera ai
progetto presentato con la denuncia di inizio attività"
(comma 7).
Il progettista, dunque, ha un duplice
obbligo:
a) redigere una relazione preventiva in cui si assume
l'onere di "asseverare" tra l'altro la conformità
delle opere agli strumenti urbanistici approvati e la
mancanza dì contrasto con quelli adottati e con i
regolamenti edilizi;
b) rilasciare al termine dei lavori (ove non lo faccia altro
tecnico abilitato) un certificato di collaudo circa la
conformità di quanto realizzato al progetto iniziale.
E, quanto al primo aspetto di detta condotta doverosa, è
stato esattamente osservato che il termine
"asseverare" ha il significato di "affermare con
solennità", e cioè di porre in essere una dichiarazione
di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei
confronti dei terzi quanto alla verità ed alla affidabilità
del contenuto. Il progettista si pone come "persona
esercente un servizio di pubblica necessità" proprio
perché assume una posizione di particolare rilievo in un
procedimento (quello di DIA) che prevede la sostituzione con
una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione
amministrativa comunque denominata.
La principale caratteristica della DIA, infatti, consiste
nella sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali
in tema di autorizzazione con uno schema diverso ispirato
alla liberalizzazione delle attività economiche private, con
la conseguenza che per l'esercizio delle stesse non è più
necessaria l'emanazione di un titolo di legittimazione.
A seguito della denuncia, il potere di verifica di cui
dispone l'amministrazione -a differenza di quanto accade nel
regime a previo atto amministrativo- non è finalizzato
all'emanazione di un provvedimento di consenso all'esercizio
dell'attività, ma al controllo, privo di discrezionalità,
della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato
rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in
questione.
Con la DIA, quindi, al principio
autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità
dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via
autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti
dalla normativa in vigore.
Il ricorso al procedimento della DIA, conseguentemente,
porta con sé una peculiare assunzione di
responsabilità, in relazione al particolare affidamento che
l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il
progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione
si sostituisce, in via ordinarla, ai controlli dell'ente
territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza
dell'intervento.
Proprio in considerazione di questo
affidamento la condotta del professionista abilitato assume
una specifica rilevanza pubblicistica (art. 29, comma 3, del
T.U. n. 380/2001) che si connette alle previsioni dei commi
1 e 6 del precedente art. 23.
Il 6° comma dell'art. 23, in particolare, dispone che,
in caso di "falsa attestazione" del
professionista, il funzionario comunale ha l'obbligo di
inoltrare segnalazione informativa all'autorità giudiziaria,
sicché è evidente che la "falsa attestazione" in
parola, riferita dal comma 6 alla "assenza di una o più
delle condizioni stabilite", risulta strettamente
correlata alle prescrizioni poste dal 1° comma del medesimo
art. 23, ove la relazione del progettista integra la
dichiarazione stessa di inizio attività, che è atto dotato
di piena autonomia.
Dalla delineata costruzione della DIA, come atto
fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e
riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto
qualificato, discende che la relazione
asseverativa del progettista, sulla quale si fonda
dell'intermediazione dei potere autorizzatorio dell'attività
dei privato da parte della pubblica amministrazione, assume
valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi
"certificativo".
In conclusione, sulla base dell'assetto
normativo vigente ed alla stregua delle argomentazioni
dianzi svolte, deve ribadirsi il principio secondo il quale:
-- la relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che
costituisce parte integrante ed essenziale della
dichiarazione stessa di inizio dell'attività) ha natura di 'certificato'
per quanto riguarda: sia la descrizione dello stato
attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli
eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile
interessati dall'intervento, sia la rappresentazione
delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della
conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al
regolamento edilizio.
---------------
Nella fattispecie in esame, l'imputato:
-- nella relazione allegata alla DIA del 28.08.2003 ha
descritto la prevista realizzazione di opere di manutenzione
straordinaria e non di conservazione dello status quo
di un edificio ormai sostanzialmente diruto: in tal
modo -secondo la giurisprudenza costante di questa Corte- ha
reso una falsa "certificazione" riferita alla
descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da
realizzare.
Irrilevante è la circostanza della mancata esecuzione dei
lavori denunziati (dovuta al fatto che, in seguito ad un
controllo della DIA, il responsabile del procedimento aveva
richiesto una relazione integrativa), poiché il reato deve
ritenersi consumato con la presentazione della denuncia;
-- nella successiva relazione allegata alla
richiesta di permesso di costruire ha inquadrato le opere da
realizzare nella tipologia della 'ristrutturazione' a
fronte di una situazione di fatto ove la realizzabilità di
un intervento siffatto era vietata proprio dallo stato di
rudere del fabbricato.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, invero,
la ricostruzione su ruderi costituisce
sempre 'nuova costruzione', in quanto il concetto di
ristrutturazione edilizia postula necessariamente la
preesistenza di un organismo edilizio dotato delle murature
perimetrali, strutture orizzontali e copertura. In mancanza
di tali elementi strutturali non é possibile valutare
l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed
i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di
un'area non edificata.
Nella specie si é fatto surrettiziamente
ricorso alla tipologia della "ristrutturazione"
perché la realizzazione di una nuova costruzione
residenziale non era consentita in area classificata come
zona agricola dallo strumento urbanistico vigente.
---------------
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Bologna, con sentenza
dell'11.02.2011, ha confermato la sentenza 01.02.2007 del
Tribunale di Ravenna - Sezione distaccata di Lugo, che aveva
affermato la responsabilità penale di Pa.Um. in ordine al
delitto di cui:
-- agli artt. 81 cpv. e 481 cod. pen. [poiché -quale
geometra progettista- in relazione ad un intervento edilizio
di ricostruzione di un manufatto:
a) asseverava falsamente, in una DIA presentata al Comune di
Lugo il 28.08.2003, che gli eseguendi lavori avrebbero
riguardato la manutenzione straordinaria di un fabbricato
che però era già semidemolito nel 2002 e che tale intervento
non si poneva in contrasto con gli strumenti urbanistici,
che invece non consentivano nuove costruzioni in area
classificata come agricola;
b) in una successiva domanda di permesso di costruire per
ristrutturazione, presentata il 19.12.2003, attestava
falsamente resistenza del medesimo edificio ormai ridotto
allo stato di rudere]; e lo aveva condannato alla pena
(interamente condonata) di euro 516,00 di multa, concedendo
li beneficio della non menzione.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cessazione il
Pa., il quale -sotto i profili della violazione di legge e
del vizio di motivazione- ha dedotto:
-- la insussistenza del reato di falso ideologico correlato
alla DIA, per la mancanza di ogni intento fraudolento, in
quanto la DIA presentata avrebbe rappresentato lo stato di
fatto realmente esistente al momento della sua redazione e
la procedura semplificata sarebbe stata utilizzata "perché
i lavori che ci si apprestava ad eseguire erano
essenzialmente diretti a conservare lo status quo, per poi,
in un secondo momento, attraverso l'apertura di una nuova
pratica edilizia ad hoc, poter procedere ah ristrutturazione
ed al recupero dell'edificio";
-- la inconflgurabilità, in ogni caso, del reato di cui
all'art. 481 cod. peri., riferito alla DIA, poiché la
relazione ad essa allegata non avrebbe natura di "certificato",
in quanto "non è destinata a provare la oggettiva verità
di ciò che in essa é stato affermato e, per la parte
progettuale, essa manifesta una semplice intenzione e non
registra una realtà oggettiva";
-- la insussistenza anche dei reato di cui all'art. 481 cod.
pen. riferito alla successiva richiesta di permesso di
costruire, poiché il fabbricato era comunque ancora
esistente "nei suoi tratti essenziali che lo
identificavano come tale" e nella richiesta stessa
veniva dato conto dei crollo parziale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perché
articolato in fatto e manifestamente infondato.
2.
L'art. 481 cod. pen. punisce la condotta
di colui il quale ponga in essere una falsità ideologica in
certificati commessa nell'esercizio di una professione
forense, sanitaria o di altro servizio di pubblica
necessità.
In relazione a tale previsione
sanzionatoria il Collegio
-tenuto conto di quanto espressamente disposto dall'art. 29,
3° comma, del d.P.R. n. 380/2001, nonché della elaborazione
giurisprudenziale già svolta da questa Corte-
ribadisce anzitutto il principio secondo il quale:
-- il progettista o, comunque, il tecnico
abilitato che predispone la relazione di accompagnamento,
all'interno del procedimento che la legge prescrive per la
presentazione della DIA in materia edilizia, assume la
qualifica di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ex art. 359 cod. pen.
[vedi Cass.: sez. V, 04.10.2010, n. 35615, D'Anna;
24.02.2010, n. 7408, Frigé; nonché sez. III 16.07.2010, n.
27699, Coppola; 19.01.2009, n. 1818, Baldessari].
3. L'art. 481 cod. pen. prevede, però, che
la falsa attestazione dei fatti dei quali l'atto sia
destinato a provare la verità sia contenuta all'interno di
un "certificato" e da ciò discende la necessità di
individuare se la relazione di accompagnamento alla DIA
edilizia abbia o meno natura di "certificato".
Sui punto la giurisprudenza di questa Corte ha affermato,
con consolidato orientamento, che
costituisce "certificazione" la descrizione dello
stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare
[Cass.: sez. V, n. 35615/2010, D'Anna; sez. III, n.
27699/2010, Coppola.
3.1 Tesi non convergenti sono state espresse, invece, quanto
alla parte progettuale della relazione allegata da DIA
edilizia.
In relazione a tale parte del documento si era sostenuto,
infatti, che essa rifletterebbe non una realtà oggettiva ma
una semplice intenzione dell'interessato di realizzare le
opere in essa descritte ed ancora inesistenti e, per quanto
riguarda l'eventuale attestazione dell'assenza di vincoli,
solamente un giudizio espresso dal dichiarante, come tale
non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri
[vedi Cass., sez. V: n. 7408/2010, Frigè; 03.05.2005, n.
24562, Mazzoni; 26.04.2005, n. 23668, Giordano; sez. III, n.
27699/2010, Coppola].
A divergenti conclusioni é pervenuta, invece, questa Sezione
-con la più recente sentenza 08.06.2011, n. 23072, Lacorte-
ove, in adesione alle argomentazioni svolte nella sentenza
19.01.2009, n. 1818, Baldessari, è stato evidenziato che,
dalla lettura coordinata e sistematica della normativa di
riferimento (art. 23, commi 1 e 6, e art. 29, comma 3, del
d.P.R. n. 380/2001), emerge un ''sostanziale affidamento"
riposto dall'ordinamento sulla relazione tecnica che
accompagna Il progetto e sulla sua veridicità, atteso che "quella
relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli
dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e
correttezza dell'intervento". In tale prospettiva la
relazione dei tecnico abilitato costituisce un atto non solo
idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio
dell'attività, ma anche dotato di piena autonomia e di
valore pubblicistico, assumendo valore sostitutivo del
titolo edilizio abilitante e quindi certificativo.
3.2 Quanto alla dichiarazione dl conformità delle opere da
realizzare agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti -a fronte dell'orientamento secondo il quale
si tratterebbe soltanto di un mero giudizio del dichiarante-
la stessa è stata ricondotta, invece, all'attività
certificativa già da Cass., sez. III, n. 27699/2010,
Coppola.
4. Ribadisce il Collegio le argomentazioni svolte nella
sentenza n. 23072/2011, Lacorte.
In tale sentenza è stato condivisibilmente evidenziato che
l'art. 29, 3° comma, del T.U. n. 380/2001
dispone che "Per le opere realizzate dietro presentazione
di denuncia di inizio attività, il progettista assuma la
qualità di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 cod. pen. In caso
di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui
all'art. 23, comma 1, l'amministrazione ne dà comunicazione
al competente ordine professionale per l'irrogazione delle
sanzioni disciplinari".
Le previsioni anzidette devono essere lette in necessaria
correlazione con quelle poste dai precedente art. 23, il
quale prescrive che la DIA deve essere accompagnata da una
relazione del progettista:
- "che asseveri la conformità delle opere da realizzare
agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti"
(comma 1);
- che il dirigente o responsabile dell'ufficio tecnico
comunale, "in caso di falsa attestazione del
professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e
il consiglio dell'ordine di appartenenza" (comma 6);
- che, ultimato l'intervento, "il progettista o un
tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale
... con il quale si attesta la conformità dell'opera ai
progetto presentato con la denuncia di inizio attività"
(comma 7).
Il progettista, dunque, ha un duplice
obbligo:
a) redigere una relazione preventiva in cui si assume
l'onere di "asseverare" tra l'altro la conformità
delle opere agli strumenti urbanistici approvati e la
mancanza dì contrasto con quelli adottati e con i
regolamenti edilizi;
b) rilasciare al termine dei lavori (ove non lo faccia altro
tecnico abilitato) un certificato di collaudo circa la
conformità di quanto realizzato al progetto iniziale.
E, quanto al primo aspetto di detta condotta doverosa, è
stato esattamente osservato che il termine
"asseverare" ha il significato di "affermare con
solennità", e cioè di porre in essere una dichiarazione
di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei
confronti dei terzi quanto alla verità ed alla affidabilità
del contenuto. Il progettista si pone come "persona
esercente un servizio di pubblica necessità" proprio
perché assume una posizione di particolare rilievo in un
procedimento (quello di DIA) che prevede la sostituzione con
una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione
amministrativa comunque denominata.
La principale caratteristica della DIA, infatti, consiste
nella sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali
in tema di autorizzazione con uno schema diverso ispirato
alla liberalizzazione delle attività economiche private, con
la conseguenza che per l'esercizio delle stesse non è più
necessaria l'emanazione di un titolo di legittimazione.
A seguito della denuncia, il potere di verifica di cui
dispone l'amministrazione -a differenza di quanto accade nel
regime a previo atto amministrativo- non è finalizzato
all'emanazione di un provvedimento di consenso all'esercizio
dell'attività, ma al controllo, privo di discrezionalità,
della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato
rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in
questione.
Con la DIA, quindi, al principio
autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità
dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via
autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti
dalla normativa in vigore.
Il ricorso al procedimento della DIA, conseguentemente,
porta con sé una peculiare assunzione di
responsabilità, in relazione al particolare affidamento che
l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il
progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione
si sostituisce, in via ordinarla, ai controlli dell'ente
territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza
dell'intervento.
Proprio in considerazione di questo
affidamento la condotta del professionista abilitato assume
una specifica rilevanza pubblicistica (art. 29, comma 3, del
T.U. n. 380/2001) che si connette alle previsioni dei commi
1 e 6 del precedente art. 23.
Il 6° comma dell'art. 23, in particolare, dispone che,
in caso di "falsa attestazione" del
professionista, il funzionario comunale ha l'obbligo di
inoltrare segnalazione informativa all'autorità giudiziaria,
sicché è evidente che la "falsa attestazione" in
parola, riferita dal comma 6 alla "assenza di una o più
delle condizioni stabilite", risulta strettamente
correlata alle prescrizioni poste dal 1° comma del medesimo
art. 23, ove la relazione del progettista integra la
dichiarazione stessa di inizio attività, che è atto dotato
di piena autonomia.
Dalla delineata costruzione della DIA, come atto
fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e
riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto
qualificato, discende che la relazione
asseverativa del progettista, sulla quale si fonda
dell'intermediazione dei potere autorizzatorio dell'attività
dei privato da parte della pubblica amministrazione, assume
valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi
"certificativo".
4.1 In conclusione, sulla base dell'assetto
normativo vigente ed alla stregua delle argomentazioni
dianzi svolte, deve ribadirsi il principio secondo il quale:
-- la relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che
costituisce parte integrante ed essenziale della
dichiarazione stessa di inizio dell'attività) ha natura di 'certificato'
per quanto riguarda: sia la descrizione dello stato
attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli
eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile
interessati dall'intervento, sia la rappresentazione
delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della
conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al
regolamento edilizio.
5. Nella fattispecie in esame, l'imputato:
-- nella relazione allegata alla DIA del 28.08.2003 ha
descritto la prevista realizzazione di opere di manutenzione
straordinaria e non di conservazione dello status quo
di un edificio ormai sostanzialmente diruto: in tal
modo -secondo la giurisprudenza costante di questa Corte- ha
reso una falsa "certificazione" riferita alla
descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da
realizzare.
Irrilevante è la circostanza della mancata esecuzione dei
lavori denunziati (dovuta al fatto che, in seguito ad un
controllo della DIA, il responsabile del procedimento aveva
richiesto una relazione integrativa), poiché il reato deve
ritenersi consumato con la presentazione della denuncia;
-- nella successiva relazione allegata alla
richiesta di permesso di costruire ha inquadrato le opere da
realizzare nella tipologia della 'ristrutturazione' a
fronte di una situazione di fatto ove la realizzabilità di
un intervento siffatto era vietata proprio dallo stato di
rudere del fabbricato.
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, invero,
la ricostruzione su ruderi costituisce
sempre 'nuova costruzione', in quanto il concetto di
ristrutturazione edilizia postula necessariamente la
preesistenza di un organismo edilizio dotato delle murature
perimetrali, strutture orizzontali e copertura. In mancanza
di tali elementi strutturali non é possibile valutare
l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed
i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di
un'area non edificata
[vedi Cass., Sez. III: 21.10.2008, n. 42521, Valeri;
24.09.2008, n. 36542, Verdi; 23.01.2007, Meli; 13.01.2006,
Polverino, 0402..2003, Pellegrino e 20.02.2001, Perfetti;
nonché C. Stato, Sez. IV: 26.02.2008, n. 681; 15.09.2006, n.
5375 e C. Stato, Sez. V: 28.05.2004, n. 3452; 15.04.2004, n.
2142; 01.12.1999, n. 2021; 04.08.1999, n. 398; 10.03.1997,
n. 2401].
Nella specie si é fatto surrettiziamente
ricorso alla tipologia della "ristrutturazione"
perché la realizzazione di una nuova costruzione
residenziale non era consentita in area classificata come
zona agricola dallo strumento urbanistico vigente.
6. Quanto alla individuazione dello stato
di 'rudere' del manufatto, i giudici del merito,
con argomentazioni puntualmente riferite agli elementi di
prova raccolti (in particolare al sopralluogo effettuato dai
vigili edilizi il 16.01.2004), hanno
accertato che il tetto non era più esistente e si
intravvedevano solo tracce di muri perimetrali.
Il ricorso si limita a confutare tale ricostruzione della
vicenda senza alcuna specificazione tecnica, svolgendo
censure in fatto del provvedimento impugnato.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui
singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio
non sono proponibili -però- nel giudizio di legittimità,
quando la struttura razionale della decisione sia sorretta,
come nella specie, da logico e coerente apparato
argomentativo, esteso a tutti gli elementi di prova
acquisiti, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a
sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua
di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il
riesame nel merito dei provvedimento impugnato
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
19.09.2012 n. 35795
- tratta da www.lexambiente.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 04.04.2016, "Secondo
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 30.03.2016 n. 2278). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 13 dell'01.04.2016, "Legge
europea regionale 2016. Disposizioni per l’adempimento degli
obblighi della Regione Lombardia derivanti dall’appartenenza
dell’Italia all’Unione europea" (L.R.
30.03.2016 n. 8). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Antimafia – Domanda di iscrizione alle white
list – Circolare ministeriale (ANCE di Bergamo,
circolare 01.04.2016 n. 85). |
VARI:
Oggetto: Omicidio stradale - pene più severe per i
conducenti professionali (ANCE di Bergamo,
circolare 01.04.2016 n. 84). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Validità dei provvedimenti dell’Albo Nazionale
Gestori Ambientali e modalità di compilazione del formulario
di identificazione rifiuti (ANCE di Bergamo,
circolare 01.04.2016 n. 82). |
VARI:
OGGETTO: Interventi di ristrutturazione edilizia – Bonus
mobili per giovani coppie (Agenzia delle Entrate,
circolare 31.03.2016 n. 7/E). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI:
Project financing: le linee guida dei Commercialisti
(IPSOA, 31.03.2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Project Financing e partenariato pubblico privato: aspetti
normativi e linee guida operative (Consiglio
Nazionale dei Dottori Commercialisti ed egli Esperti
Contabili, marzo 2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. L. Maddalena,
Il
punto sul danno da ritardo -
Rassegna monotematica di giurisprudenza
(aggiornata ad aprile 2014) (tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. La disciplina del danno da ritardo:
dalla l. 18.06.2009, n. 69 al codice del processo
amministrativo. 2. Le prime aperture della giurisprudenza
amministrativa sul danno da ritardo mero. 3. Lo stato
attuale della giurisprudenza. 3.1. La risarcibilità del
danno da ritardo mero: un principio solo in parte acquisito
dalla giurisprudenza. 3.2. L’onere della prova e la
possibilità di ricorrere alla liquidazione equitativa. 3.3.
Recenti orientamenti sulla possibilità di trattare la
domanda risarcitoria in camera di consiglio, congiuntamente
alla domanda di cui all’art. 117 c.p.a. 3.4. La
determinazione dei danni risarcibili. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' NAZIONALE CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Appalti pre-commerciali per la sanità e l'energia.
Non seguono il codice dei contratti. Chiarimenti dell'Anac.
La procedura dell'appalto pre-commerciale, caratterizzata
dall'aleatorietà dei risultati e dall'esclusione
dall'applicazione delle regole del codice dei contratti
pubblici, è strumento di particolare efficacia nei settore
della sanità e dell'efficienza energetica; caratteristiche
peculiari sono l'aleatorietà dei risultati e il
cofinanziamento da parte del privato.
Lo ha affermato
l'Autorità nazionale anticorruzione con il
comunicato del
Presidente 09.03.2016 (Oggetto: ambito
oggettivo degli appalti pubblici pre-commerciali e
disciplina di riferimento) che prende in esame i cosiddetti appalti pre-commerciali, quegli appalti pubblici esclusi
dall'applicazione delle procedure di affidamento previste
dal codice dei contratti pubblici, che tipicamente hanno ad
oggetto servizi di ricerca e sviluppo tecnologico.
L'Anac chiarisce che fra tutti i servizi di ricerca e
sviluppo gli appalti pre-commerciali si distinguono per
alcune peculiarità: la condivisione dei rischi e dei
benefici alle condizioni di mercato tra acquirente pubblico
e soggetti aggiudicatari per lo sviluppo di soluzioni
innovative, non già presenti sul mercato; la clausola di non
esclusiva, in funzione della quale la stazione appaltante
non riserva al suo uso esclusivo i risultati derivanti dalle
attività di ricerca e sviluppo e il cofinanziamento da parte
delle imprese aggiudicatarie.
L'aleatorietà del
raggiungimento dello scopo obiettivamente e intrinsecamente
aleatorio (non deve sussistere certezza dell'effettiva
riuscita della ricerca) e non possono essere diretti alla
realizzazione di soluzioni la cui ripetibilità è assicurata
dall'esistenza di soluzioni offerte dal mercato già prima
dell'indizione della gara; essi devono essere rivolti,
infatti, allo sviluppo di una soluzione non disponibile o
non pienamente disponibile sul mercato.
Più precisamente,
con l'appalto pre-commerciale la ricerca è mirata a un
progetto altamente innovativo, più difficile da gestire
rispetto a situazioni nelle quali l'elemento della
innovatività è presente ma assai limitato; si tratta, dice
l'Anac, di appalti che si realizzano «in un progresso
scientifico ottenuto nei vari campi delle scienze naturali o
sociali nelle tre aree della ricerca e sviluppo, ovvero:
ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo sperimentale».
Non rientrano invece nella categoria di appalto
pre-commerciale quei servizi di ricerca e sviluppo che sono
svolti in modo permanente e sono funzionali all'esercizio
delle attività ordinarie della pubblica amministrazione,
come i servizi di consulenza, di formazione e ausili che
soggiacciono all'applicazione delle ordinarie regole del
codice previste per gli appalti di servizi.
Il comunicato
del presidente dell'Anac, Raffaele Cantone chiarisce che la
procedura di appalto pre-commerciale non può essere ammessa
allorché l'appalto risulti finalizzato in prevalenza
all'acquisto di forniture o lavori di ricerca e sviluppo e
non già di servizi di R&S, nell'ambito dei quali l'oggetto
della prestazione è rappresentato dallo svolgimento di
attività di ricerca e sperimentazione o quando il valore dei
prodotti oggetto delle attività di ricerca sia prevalente,
cioè superiore al 50% del valore dell'appalto del servizio
di R&S. In questo casi, si devono applicare le regole
ordinarie.
Invece per gli appalti pre-commerciali si devono
applicare i principi comunitari di apertura alla
concorrenza, non discriminazione, economicità, efficacia,
concorrenza, parità di trattamento e imparzialità,
trasparenza e pubblicità e proporzionalità
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI: Revisore ed eletto? Deve essere pagato.
Dalla Corte dei conti, no all'incarico gratuito.
Il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti
dalle pubbliche amministrazioni ai soggetti titolari di
cariche elettive, previsto dall'art. 5, c. 5, del dl n.
78/2010, non si applica agli incarichi che la legge rende
obbligatori, quali i componenti dei collegi dei revisori dei
conti degli enti locali.
È questo il principio che viene
fuori dalla lettura della
deliberazione
31.03.2016 n. 11 che la
sezione delle autonomie della Corte dei conti ha pubblicato
ieri, facendo chiarezza sulle disposizioni di contenimento
della spesa pubblica contenute nella norma sopra evidenziata
e alla luce dell'interpretazione autentica fornita con
l'art. 35, comma 2-bis, del dl n. 5/2012.
Come noto, nel 2010
il legislatore varò una serie di norme che stringevano i
cordoni della borse dell'alveo della pubblica
amministrazione. Tra queste, quella che prevede la gratuità
dello svolgimento dell'incarico conferito dalle p.a. nei
confronti dei titolari di cariche elettive, che può dar
luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute.
Sulla scorta di questa norma, un comune ha chiesto alla
Corte la corretta procedura da adottare, posto che un suo
revisore svolge la funzione di consigliere comunale in altro
ente locale.
Su questa prospettiva, la Corte ha ricordato
come, con il dlgs 138/2011, sia cambiato il sistema di
reclutamento dell'organo di revisione, passando da una
nomina intuitu personae ad un'estrazione da un albo tenuto
presso tutte le prefetture, fermo restando il possesso di
specifici requisiti professionali. Oltre a questo profilo,
la Corte sottolinea che l'art. 35, comma 2-bis, dl 5/2012
prevede che il carattere onorifico della partecipazione agli
organi collegiali è previsto «per gli organi diversi dai
collegi dei revisori dei conti e sindacali e dai revisori
dei conti».
Una disposizione che, si sottolinea, conferisce
una connotazione specifica assoluta a tali incarichi.
Connotazione che trova ragione e fondamento nella disciplina
legale del conferimento e dello svolgimento dei predetti
incarichi compresa, per i revisori, la determinazione del
loro compenso ex art. 241 Tuel.
In definitiva, il revisore
dei conti di un comune, nominato successivamente sia
all'entrata in vigore dell'art. 5, comma 5, del dl 78/2010
che al nuovo sistema di reclutamento degli organi di
revisione negli enti locali, ha diritto a percepire il
compenso professionale determinato dall'articolo 241 Tuel,
anche nel caso svolga una funzione elettiva in altro ente
locale
(articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).
---------------
MASSIMA
Questione di massima sulla corretta interpretazione della
disciplina vincolistica contenuta nell'art. 5, comma 5, d.l.
n. 78/2010.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla
questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di
controllo per il Veneto con deliberazione n. 569/2015/QMIG,
pronuncia il seguente principio di diritto: “La
disciplina vincolistica contenuta nell'art. 5, comma 5,
decreto–legge n. 78/2010 si riferisce a tutte le ipotesi di
incarico, comunque denominato.
Tuttavia, in forza di un’interpretazione sistematica che
tenga conto della norma di interpretazione autentica di cui
all’ art. 35, co. 2-bis del d.l. 09.02.2012, n. 5
(convertito dalla legge 04.04.2012, n. 35) è possibile
configurare una eccezione al principio di tendenziale
gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle pubbliche
amministrazioni ai titolari di cariche elettive.
Tale eccezione è da intendersi riferibile alla sola
tipologia di incarichi obbligatori ex lege espressamente
indicati dalla predetta norma (collegi dei revisori dei
conti e sindacali e revisori dei conti).
Il revisore dei conti di un Comune, nominato successivamente
sia all'entrata in vigore dell'art. 5, comma 5, del d.l. n.
78/2010 sia al nuovo sistema di nomina dell'organo di
revisione degli Enti locali, ha diritto a percepire il
compenso professionale ai sensi dell'art. 241 del TUEL nel
caso in cui sia Consigliere comunale in altra Provincia”. |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo limato. No
all'applicazione quando si tratta di debiti pregressi.
Dai giudici contabili emiliani i paletti
sullo scambio tasse-lavori di pubblica utilità.
Le forme di riduzione di imposte e tasse locali in cambio di
lavori eseguiti per la collettività, meglio note come
«baratto amministrativo», non possono riguardare debiti
pregressi che i cittadini hanno maturato nei confronti
dell'ente locale.
Inoltre, è necessario che sussista un rapporto di stretta
inerenza tra le riduzioni dei tributi che il comune può
deliberare e le attività di valorizzazione del territorio e
che queste siano concesse per un periodo limitato. Infine,
le agevolazioni possono essere indistintamente concesse ad
associazioni di cittadini che singoli utenti amministrati.
È quanto ha reso noto l'interessante
parere 23.03.2016 n. 27
emanato dalla Sezione regionale di controllo della Corte dei
conti per l'Emilia Romagna, con il quale, per la prima volta
sul panorama consultivo, si interviene a chiarire ambito e
portata delle disposizioni innovative contenute all'articolo
24 del decreto legge n. 133/2014, che disciplina le misure di
agevolazione della partecipazione delle comunità locali in
materia di tutela e valorizzazione dei territori.
Come noto, con tale disposizione, i comuni possono definire,
con apposita regolamentazione, interventi di decoro urbano,
pulizia e manutenzione di aree verdi, strade o beni immobili
inutilizzati, su progetti presentati da cittadini singoli o
associati, al fine di vedersi riconosciuta una esenzione o
una riduzione sui tributi inerenti il tipo di attività posta
in essere.
In risposta al comune di Bologna, la Corte emiliana ha
pertanto precisato che il «baratto amministrativo» può aver
luogo solo con un atto deliberativo dell'ente locale che
fissi i criteri e le modalità di svolgimento, secondo la
«traccia» che il legislatore ha messo nero su bianco nel
citato articolo 24 del dl n. 133/2014.
È altresì pacifico,
poi, che per la concessione di esenzioni o riduzioni deve
sussistere un rapporto di stretta inerenza tra queste e le
attività di cura e manutenzione del territorio. Detto in soldoni, un'attività di pulizia e manutenzione di un'area
verde andrà ad incidere sull'ammontare della tariffa rifiuti
e non certo sul canone di occupazione degli spazi pubblici.
Non è altresì possibile, poi, che la regolamentazione del
baratto si protragga «sine die». Come prescrive la legge,
infatti, l'esenzione o la riduzione del pagamento dei
tributi locali può essere concessa solo per un periodo
definito di tempo e per determinate attività, in ragione
«dell'esercizio sussidiario della stessa attività». Inoltre,
precisa il parere, anche se la norma, nell'indicare i
destinatari dei benefici, utilizza l'avverbio
«prioritariamente» per le comunità di cittadini, nulla vieta
che l'ente locale possa permettere anche a singoli cittadini
la concessione del baratto, dietro la presentazione di un
progetto valido.
Sulla specificità dell'oggetto del baratto, ovvero la
temporanea riduzione o esenzione di imposte locali, la Corte
è stata categorica. In dettaglio, il minor gettito è quello
che viene già definito negli stanziamenti dei bilanci di
previsione degli enti che hanno adottato il baratto
amministrativo. In nessun caso è pertanto ammissibile che si
possa consentire la riduzione di tasse ed imposte locali
afferenti a esercizi finanziari precedenti.
In primo luogo, perché difetterebbe il requisito
dell'inerenza tra agevolazione tributaria e tipologia di
attività svolta dai cittadini amministrati. Poi, perché una
simile prospettiva determinerebbe effetti pregiudizievoli
sugli equilibri di bilancio dell'ente, in considerazione che
i debiti tributari dei cittadini vengono iscritti tra i
residui attivi dell'ente
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016). |
TRIBUTI:
Stop al «baratto» senza regolamento. Tasse
locali. Corte dei conti dell’Emilia.
Il baratto amministrativo deve
essere disciplinato dall'apposito regolamento comunale e non
può riguardare i debiti pregressi dei contribuenti.
Lo ha chiarito la
Corte dei Conti Emilia Romagna con il
parere 23.03.2016 n. 27, definendo i contorni di applicabilità
dell'articolo 24 del Dl 133/2014, che consente ai comuni di
deliberare riduzioni o esenzioni di tributi a fronte di
interventi per la riqualificazione del territorio, da parte
di cittadini o associazioni. Si tratta di uno strumento che
consente ai cittadini che non riescono a far fronte al
pagamento dei tributi comunali di ottenere sconti prestando
ore di lavoro in favore della comunità.
Sul nuovo istituto è intervenuto l'IFEL (fondazione dell'Anci)
con due note del 16.10.2015 (si veda Il Quotidiano Enti
Locali & Pa del 20/10/2015) e del 22.10.2015 (si veda
Il Quotidiano Enti Locali & Pa del 27/10/2015), che vengono
ora prese in esame dalla Corte dei Conti Emilia Romagna
considerando corretta solo la prima versione, la più
restrittiva.
I giudici contabili evidenziano in primo luogo che il
principio dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria
è derogabile solo in forza di una disposizione di legge, che
nel caso del baratto amministrativo è l'articolo 24 del Dl
133/2014. L'agevolazione tributaria può essere quindi
applicata entro limiti ben circoscritti, attraverso
l'adozione di un apposito regolamento comunale ai sensi
dell'articolo 52 del Dlgs 446/1997.
Pertanto, non è possibile
introdurre il baratto amministrativo con una semplice
delibera di Giunta ma occorre seguire la via regolamentare,
con l'ulteriore conseguenza che la delibera deve essere
approvata entro il termine fissato per l'adozione del
bilancio, altrimenti ha efficacia a partire dall'anno
successivo.
Inoltre, dal punto di vista del contenuto del regolamento, è
necessario che lo stesso individui “criteri” e “condizioni”
in base ai quali i cittadini, singoli o associati, possano
presentare progetti relativi ad interventi di
riqualificazione del territorio. Interventi che possono
riguardare solo ed esclusivamente quelli previsti dalla
legge, tra cui “la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento
di aree verdi, piazze, strade, ovvero interventi di decoro
urbano” e “la valorizzazione di una limitata zona del
territorio”.
Deve poi sussistere un rapporto di stretta inerenza tra le
esenzioni e/o le riduzioni di tributi che il comune può
deliberare e le attività che i cittadini possono realizzare.
Infine, i giudici contabili precisano che non è possibile
utilizzare il baratto amministrativo per i debiti pregressi
dei contribuenti, trattandosi di un'ipotesi che: 1) non
rientra nell'ambito di applicazione della norma, difettando
il requisito dell'inerenza tra l'agevolazione tributaria e
l'attività posta in essere dal cittadino; 2) potrebbe
determinare effetti pregiudizievoli sugli equilibri di
bilancio, considerato che si tratta di debiti ormai
confluiti nella massa dei residui attivi dell'ente.
In definitiva la Corte dei Conti Emilia Romagna delinea un
modello di baratto amministrativo disatteso dalla maggior
parte dei Comuni, specie da quelli che hanno individuato
nelle morosità pregresse (anche incolpevoli) l'oggetto
principale del nuovo istituto. Comuni che ora dovrebbero
rivedere le proprie scelte, se non vogliono rischiare di
essere chiamati a rispondere di danno erariale
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.03.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La p.a. morosa non può assumere.
Decisione della corte dei conti umbra.
Divieto di procedere ad assunzioni a qualsiasi titolo e con
qualsivoglia tipologia contrattuale, per le amministrazioni
pubbliche che registrano un indice dei tempi medi di
pagamento superiore a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a
decorrere dal 2015.
Questo è il principio di diritto affermato dalla Corte dei
conti, sezione Umbria (parere
12.11.2015 n. 148), in risposta al parere del Comune di Terni.
Quest'ultimo infatti chiedeva alla Corte dei conti se ai
fini dell'assunzione, tramite concorso, di personale non
amministrativo dei servizi scolastici ed educativi, tra le
«limitazioni assunzionali vigenti» rientrava anche quella
prevista dall'articolo 41, 2° comma, del dl 66/2014 (mancato
rispetto per l'anno 2014 dell'indicatore dei tempi medi nei
pagamenti).
Ricordano i giudici della Corte di conti che la ratio del legislatore, quale traspare dalla formulazione
letterale della norma citata («nel rispetto delle
limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti»), deve
essere intesa nel senso che la facoltà di «indire le
procedure concorsuali per il reclutamento a tempo
indeterminato di personale in possesso di titoli di studio
specifici abilitanti o in possesso di abilitazioni
professionali necessarie per lo svolgimento delle funzioni
fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei
servizi educativi e scolastici, con esclusione del personale
amministrativo, oltre alle condizioni espressamente
richiamate nella richiesta di parere ossia: l'esaurimento
delle graduatorie vigenti, l'assenza di figure professionali
idonee tra le unità soprannumerarie «destinatarie dei
processi di mobilità», debba svolgersi nel rispetto di tutte
le limitazioni (anche di natura finanziaria) previste dalla
normativa vigente in materia di assunzione di personale.
Tra dette limitazioni non può ritenersi esclusa quella
prevista dall'art. 41, comma 2, del dl 66/2014, convertito
in legge 89/2014, che sanziona con il divieto di procedere
ad assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsivoglia
tipologia contrattuale, nell'anno successivo a quello di
riferimento, le amministrazioni pubbliche che non rispettano
i tempi di pagamento
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).
---------------
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a. morose assumono.
In merito all'articolo pubblicato ieri su ItaliaOggi a pag.
39 dal titolo «La p.a. morosa non può assumere», che
commenta la decisione n. 148 della sezione Umbria della
Corte dei conti, adottata in data 11 novembre, e riferita
all'art. 42, comma 2, del decreto legge numero 66 del 2014
(c.d. decreto Renzi o decreto Irpef/80 euro), si precisa che
tale norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Suprema
corte con sentenza 01/22.12.2015, pubblicata in G.U. n.
52 del 30/12/2015, per cui è venuto meno il divieto di
procedere ad assunzioni di personale per le amministrazioni
che presentano un indice dei tempi medi di pagamento
superiore a 60 giorni.
Ci scusiamo con i lettori per
l'imprecisione
(articolo ItaliaOggi del 02.04.2016). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Convocazioni, atto dovuto. Al presidente spettano solo le
verifiche formali. Obbligatorio
riunire il consiglio salvo che non si tratti di oggetto
illecito.
Che cosa deve intendersi per «convocazione del consiglio da
parte di un quinto dei consiglieri», prevista dall'art. 39,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?
L'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
prescrive che il presidente del consiglio comunale è tenuto
a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti
giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il
sindaco, inserendo all'ordine del giorno le questioni
richieste.
La giurisprudenza prevalente in materia ha affermato che, in
caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di
un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio
comunale spetta soltanto la verifica formale che la
richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti
legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché
spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica
circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle
questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto
che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea, in
nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno»
(Tar Piemonte, sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Pertanto,
in base a tale consolidato orientamento giurisprudenziale,
le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il
consiglio comunale può omettere la convocazione
dell'assemblea sono la carenza del prescritto numero di
consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o
manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del
consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia
o meno di competenza del consiglio comunale occorre aver
riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente
elencati dal comma 2 dell'art. 42 del Tuel, ma anche alle
funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo
di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità,
quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba
necessariamente sfociare nell'adozione di un provvedimento
finale. Il consiglio comunale ha, infatti, un potere
generale di indirizzo e di controllo politico-amministrativo
sull'attività del comune, nel cui ambito rientra pure quello
di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato della
giunta (conforme, Tribunale di giustizia amministrativa di
Trento n. 20/2010 del 14.01.2010, che ha ritenuto legittima
la richiesta di convocazione del consiglio comunale da parte
di un quinto dei consiglieri).
La norma pare, quindi,
configurare un obbligo del presidente del consiglio comunale
di procedere alla convocazione dell'organo assembleare, per
la trattazione da parte del consiglio delle questioni
richieste, senza alcun riferimento alla necessaria adozione
di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
Nella
fattispecie in esame, il regolamento del consiglio comunale
stabilisce che i consiglieri comunali hanno diritto di
iniziativa su ogni argomento sottoposto alla deliberazione
del consiglio e esercitano tale diritto, tra l'altro,
mediante la presentazione di proposte di deliberazione. Le
disposizioni regolamentari, inoltre, ribadiscono l'obbligo
sancito dall'articolo 39, comma 2, e dall'art. 43, comma 1,
del Tuel di riunire il consiglio, in un termine non
superiore ai 20 giorni, quando lo richiedano un quinto dei
consiglieri. Nel caso di specie l'attenzione va, quindi,
trasferita alla natura degli argomenti per i quali è
richiesto l'inserimento all'ordine del giorno da parte dei
consiglieri, al fine di verificarne l'eventuale estraneità
alle competenze del collegio.
In tal senso, ferma restando la generale responsabilità del
consiglio comunale, nell'ipotesi in esame potrà sempre
essere esercitata dal segretario comunale la funzione,
prevista dallo statuto comunale e dal regolamento
consiliare, di esprimere il proprio parere sulla competenza
del consiglio a trattare l'argomento
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione è tenuto
a procedere nei confronti del RUP a seguito di una
segnalazione che contesti il modo e la scelta delle ditte
invitate a una procedura in economia?
IL CASO: il Responsabile del servizio
manutenzioni ha affidato, mediante trattativa privata,
previo invito a cinque imprese, il secondo lotto dei lavori
di completamento della pubblica illuminazione di una strada.
L'affidamento è stato disposto a favore dell'impresa già
aggiudicataria del primo lotto, che ha effettuato un ribasso
inferiore al 7%.
Un'impresa che, pochi mesi prima, era rimasta aggiudicataria
di lavori analoghi per un ribasso superiore al 50%, non
essendo stata invitata alla trattativa in questione ha
presentato al RPC una segnalazione di irregolarità per
quanto concerne la formazione, a cura del RUP, dell'elenco
ditte, e per quanto concerne l'affidamento da parte del
Responsabile del servizio manutenzioni a favore dell’impresa
già aggiudicatarie del primo lotto.
(Risponde l’Avv. Nadia Corà)
A fronte di segnalazioni da parte di dipendenti comunali o,
come nel caso di specie, da parte di terzi, il RPC è tenuto
ad aprire un procedimento volto a verificare la consistenza
della segnalazione pervenuta. Il RPC, laddove risulti la
fondatezza della segnalazione, è tenuto a dar corso
all’apertura del procedimento disciplinare e/o alla
trasmissione degli atti alle Autorità competenti (ad es. al
Nucleo/OIV, alla Procura CdC, alla Procura della Repubblica)
per l’accertamento dei profili di responsabilità di
rispettiva competenza (responsabilità dirigenziale,
erariale, penale).
Nel caso di specie, la segnalazione proveniente dall’impresa
esclusa dall'elenco ditte, e già aggiudicataria, pochi mesi
prima, di lavori analoghi con un ribasso superiore del 50%,
deve essere oggetto di attenta analisi da parte del RPC,
tenuto conto che, laddove la segnalazione risulti fondata,
il danno per il Comune, derivante da impossibilità di
conseguire un’offerta economicamente migliore, dovrebbe
considerarsi sussistente, e la colpa grave del RUP e del
Responsabile del settore manutenzioni difficilmente potrebbe
essere esclusa.
Tanto va rilevato in considerazione del fatto che, in questo
caso, il RUP e il Responsabile del settore manutenzioni non
potevano non conoscere l’interesse alla partecipazione
dell'impresa segnalante che, con la sua partecipazione,
avrebbe potuto consentire al Comune una più che probabile
economia di spesa, tenuto conto del ribasso di oltre il 50%
già offerto su lavori analoghi pochi mesi prima.
Si evidenzia, inoltre, che nel caso di specie, trattandosi
di un secondo lotto di lavori, non c'è dubbio che esso
avrebbe dovuto essere affidato unitamente al primo e,
laddove l'affidamento unitario avesse determinato il
superamento della soglia per consentire la trattativa
privata, il RUP e il Responsabile avrebbero dovuto disporre
l'affidamento mediante procedura aperta, potendosi in
astratto configurare un’artificiosa suddivisione
dell'appalto al solo fine di consentire una procedura in
deroga all'evidenza pubblica. Né, ad escludere quanto in
precedenza detto, vale l’eventuale circostanza che soltanto
il primo lotto sia stato inserito nel piano triennale dei
lavori pubblici ai fini della programmazione, circostanza,
questa, che non fa venire meno l’unicità dell’intervento.
In definitiva, il RPC, indipendentemente dall'eventuale
errore di programmazione, deve verificare se sono stati
violati il divieto di artificioso frazionamento delle opere
e il divieto di affidamento a trattativa privata di un
secondo lotto funzionale, ribaditi da numerose deliberazioni
dell’Autorità di Vigilanza. Il RPC deve altresì esaminare le
concrete modalità di svolgimento della procedura di
trattativa privata e, in particolare, i tempi che sono stati
stabiliti per la presentazione delle offerte al fine di
verificare se sono stati così ristretti da rendere
praticamente quasi impossibile la partecipazione,
esaminando, a tal fine, il numero delle offerte
effettivamente pervenute al protocollo del Comune rispetto
al numero delle imprese invitate.
In tal caso va ricordato che, realizzando la violazione
delle regole della concorrenza e della trasparenza, un
vulnus all’obbligo di servizio del dirigente preposto,
per “danno alla concorrenza”, vi è l'obbligo di
segnalazione alla Procura regionale della Corte dei conti
(tratto dalla newsletter 31.03.2016 n. 143 di http://asmecomm.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Corresponsione, da parte del Comune, degli onorari al
proprio legale. Necessità o meno che la parcella sia vistata
dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati. Passività
pregresse.
1) La parcella del legale è svincolata
dalla liquidazione compiuta dal giudice; pertanto il
difensore della parte vittoriosa potrebbe richiedere un
compenso diverso da quello liquidato giudizialmente.
2) Quanto alla maggior somma richiesta dal legale al proprio
cliente si tratta di verificare se tali importi
costituiscano somme conseguenti alla sentenza o di maggiore
parcella legata ad attività ulteriori non conosciute né
conoscibili dal giudice.
3) L'Ente locale prima di procedere al pagamento della
parcella presentata dal proprio difensore ha il dovere di
esaminare la documentazione relativa all'attività svolta dal
difensore per valutarne la congruità.
4) Circa quale sia la corretta procedura per l'imputazione
in bilancio dei maggiori oneri relativi ad una parcella
professionale presentata, a conclusione di un giudizio,
dall'avvocato incaricato della difesa del Comune si
contrappongono la teoria la quale afferma che la maggiore
spesa tra quanto originariamente impegnato dall'Ente e
l'importo finale della parcella presentata dal
professionista costituisce debito fuori bilancio e quella
che, invece, ritiene sufficiente, per sanare la maggiore
spesa, effettuare un impegno residuale nell'esercizio in cui
viene richiesto il pagamento (teoria delle passività
pregresse).
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere
in merito alle spese da corrispondere al legale che lo ha
assistito in una causa giudiziale ed a come le stesse
debbano essere contabilizzate.
Più in particolare, riferisce che il giudice d'appello ha
condannato le controparti alla rifusione delle spese di lite
per entrambi i gradi di giudizio in favore
dell'amministrazione comunale. A seguito di un tanto il
legale ha emesso la relativa fattura di importo
corrispondente alle spese come liquidate dal giudice,
maggiorate di una ulteriore somma. Precisa l'Ente che quanto
richiesto dal legale è di importo superiore alla cifra
impegnata all'origine della causa dall'amministrazione
comunale. Tale somma, rispetto al preventivo di massima
rilasciato dall'avvocato in sede di attribuzione
dell'incarico e sulla cui base era stato fatto l'impegno di
spesa, era stata adeguata in corso di causa agli importi
come successivamente comunicati dal difensore del Comune.
[1]
Atteso un tanto, l'Ente chiede se vada riconosciuto l'intero
importo richiesto dal legale; se la parcella dell'avvocato
debba o meno essere vistata dal Consiglio dell'Ordine degli
Avvocati e se la maggiore somma da liquidare, rispetto a
quella già impegnata, costituisca passività pregressa.
Sentito il Servizio finanza locale, per la parte di relativa
competenza, si esprimono le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si osserva che, ai sensi dell'articolo
91, comma 1, c.p.c., il giudice, con la sentenza che chiude
il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al
rimborso delle spese a favore dell'altra parte, liquidandone
l'ammontare insieme con gli onorari di difesa.
In linea generale si rileva, altresì, che la parcella del
legale è svincolata dalla liquidazione compiuta dal giudice.
Il difensore della parte vittoriosa potrebbe richiedere un
compenso diverso da quello liquidato giudizialmente. A
sostegno di un tanto depone l'articolo 2 del D.M. 08.04.2004, n. 127 (Regolamento recante determinazione degli
onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli
avvocati per le prestazioni giudiziali, in materia civile,
amministrativa, tributaria, penale e stragiudiziali', il
quale recita: 'Gli onorari e i diritti sono sempre dovuti
all'avvocato dal cliente indipendentemente dalle statuizioni
del giudice sulle spese giudiziali' nonché l'articolo 61,
secondo comma, del r.d.l. 27.11.1933, n. 1578, il
quale prevede espressamente la possibilità che venga
richiesto al cliente un onorario maggiore di quello
liquidato a carico della parte soccombente.
[2]
Quanto alla maggior somma richiesta dal legale al proprio
cliente si tratta di verificare se tali importi
costituiscano somme conseguenti alla sentenza o di maggiore
parcella legata ad attività ulteriori non conosciute né
conoscibili dal giudice.
Nel primo caso, si tratta di somme che non possono essere
liquidate dal giudice al momento della pronuncia essendo
esse consequenziali alla stessa. Tra queste spese rientrano,
ad esempio, quelle per la carta bollata adoperata e per i
diritti relativi alla pubblicazione della sentenza nonché
quelle relative al rilascio di copie o alla eventuale
apposizione della formula esecutiva. Vi rientrano, altresì,
quelle che la parte affronta per la registrazione della
sentenza le quali, sebbene successive alla pronuncia, ne
dipendono direttamente e non possono non seguire le sorti
delle spese del giudizio. Come affermato dalla
giurisprudenza, tali spese 'rientrano automaticamente tra
quelle conseguenti alla decisione, senza che sia necessaria
al riguardo un'espressa statuizione del giudice'.
[3]
Tali
somme vanno ricomprese tra le spese di lite e sono dovute al
legale che le ha sostenute. Dette somme, oltretutto, vanno
poste a carico della parte soccombente proprio in quanto
spese conseguenti alla sentenza.
[4]
Nel caso in cui, invece, l'importo richiesto dall'avvocato
costituisca una maggiore parcella, rispetto a quanto
liquidato dal giudice, al fine di valutare se lo stesso sia
o meno dovuto dal cliente, bisogna, in primis, valutare se,
all'inizio dell'incarico, l'amministrazione abbia stipulato
un contratto sul compenso con l'avvocato, e quale tenore
abbia lo stesso. Qualora, manchi tale accordo sopperiscono i
criteri di legge.
[5]
A tale ultimo riguardo, si ricorda che
la legge 31.12.2012, n. 247 (Nuova disciplina
dell'ordinamento della professione forense) stabilisce,
all'articolo 13, che la pattuizione dei compensi è libera e
indica una serie di tipologie di accordi utilizzabili dalle
parti.
Il comma 6 dell'indicato articolo prevede, poi, che,
'quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso
non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di
mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione
giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione
professionale è resa nell'interesse di terzi o per
prestazioni officiose previste dalla legge' si fa
riferimento ai parametri indicati nel decreto emanato dal
Ministero della Giustizia, su proposta del Consiglio
Nazionale Forense, ogni due anni.
[6]
Per quanto riguarda l'acquisizione del visto del Consiglio
dell'Ordine degli Avvocati competente sulla parcella del
legale, si osserva che la Corte dei Conti, sezione regionale
di controllo per la Lombardia, intervenuta di recente con
proprio parere posto su analogo quesito,
[7]
ha affermato
che: «L'ente locale prima di procedere al pagamento della
parcella presentata dal proprio difensore ha il dovere di
esaminare la documentazione relativa all'attività svolta dal
difensore per valutarne la congruità. Detta valutazione di
congruità (a prescindere che venga svolta dall'Avvocatura
dello Stato come nella particolare fattispecie prevista
dall'art. 18, comma 1, del D.L. 25/03/1997, n. 67,
convertito, con modificazioni, nella Legge 23/05/1997, n.
135) risponde all'esigenza di garantire una "attenta e
prudente gestione della spesa pubblica", pertanto deve
tenere conto, "da un lato dell'incertezza dell'esatta
individuazione delle voci che potrebbero concorrere alla
determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità
dovute agli avvocati per l'esercizio della loro attività
professionale e dei relativi parametri legali, dall'altro
della necessità di scongiurare il rischio di annoverare
nella parcella spese oggettivamente superflue o non
proporzionali all'opera prestata" (C. Conti, sez. reg.
Piemonte del. n. 35/2011). Inoltre, anche quando non è
richiesto dalla legge il parere dell'Avvocatura dello Stato,
la valutazione di congruità deve "riguardare, non solo la
conformità della parcella alla tariffa forense, ma anche il
rapporto fra l'importanza e delicatezza della causa e le
somme spese per la difesa (C. Conti, sez. reg. Piemonte del.
n. 35/2011 che richiama Corte di Cassazione, Sezione Lavoro,
sent. 23.01.2007, n. 1418)».
[8]
Per completezza espositiva si fa presente che la legge
247/2012, all'articolo 13, comma 9, relativo alla disciplina
dei compensi spettanti agli avvocati, prevede che: 'In
mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi
può rivolgersi al consiglio dell'ordine affinché esperisca
un tentativo di conciliazione. In mancanza di accordo il
consiglio, su richiesta dell'iscritto, può rilasciare un
parere sulla congruità della pretesa dell'avvocato in
relazione all'opera prestata'.
Passando a trattare dell'ultima questione posta, ovvero
quale sia la corretta procedura per l'imputazione in
bilancio dei maggiori oneri relativi ad una parcella
professionale presentata, a conclusione di un giudizio,
dall'avvocato incaricato della difesa del Comune, si rileva
come tale questione sia stata esaminata dalla giurisprudenza
contabile e dalla dottrina nel precedente sistema di
contabilità basato sul principio della competenza
finanziaria 'semplice', prima dell'entrata in vigore del
decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 e, con
riferimento alla Regione Friuli Venezia Giulia, della legge
regionale 17.07.2015, n. 18. I principi in quella sede
elaborati sono stati esplicitati in un parere rilasciato
dallo scrivente Ufficio (prot. n. 15066 del 26.09.2007) al quale si rinvia.
[9]
In questa sede preme riportare
succintamente i due diversi orientamenti formatisi
sull'argomento alla luce dei pronunciamenti avutisi più di
recente da parte della giurisprudenza nonché in
considerazione delle evoluzioni normative che condizionano
la soluzione della questione posta.
In particolare, si contrapponevano la teoria la quale
affermava che la maggiore spesa tra quanto originariamente
impegnato dall'Ente e l'importo finale della parcella
presentata dal professionista costituisce debito fuori
bilancio e quella che, invece, riteneva sufficiente, per
sanare la maggiore spesa, effettuare un impegno residuale
nell'esercizio in cui viene richiesto il pagamento (teoria
delle passività pregresse)
[10].
Premessa l'attuale permanenza della duplicità di
ricostruzione della fattispecie, si ritiene interessante
riportare l'orientamento espresso, sull'argomento, dalla
Corte dei Conti, sezione di controllo della regione Friuli
Venezia Giulia.
[11]
In particolare, essa dopo aver
ripercorso entrambe le ricostruzioni, ha espressamente
ritenuto di non volersi discostare dall'orientamento,
ampiamente seguito in seno alla Corte dei Conti, che
riconduce la fattispecie all'istituto del debito fuori
bilancio.
Al contempo, tuttavia, la Corte compie una serie
di considerazioni sull'onere di diligenza che l'Ente
pubblico deve osservare, non solo al momento del
conferimento dell'incarico al professionista ma anche
durante tutto il periodo di svolgimento dell'incarico
professionale, che si ritengono interessanti, specie in
relazione al comportamento tenuto dal Comune nella
fattispecie in esame.
In particolare, la Sezione friulana
afferma che: 'La difficoltà di determinazione ex ante della
parcella, infatti, giustificata dall'imprevedibilità
dell'evoluzione del procedimento contenzioso, non significa
impossibilità assoluta di pervenire ad un preventivo
ancorato a parametri certi, in considerazione delle
caratteristiche di difficoltà e di impegno professionali
richiesti'.
La Magistratura contabile afferma, ancora, che:
«È infatti [...] necessario che l'Ente verifichi
periodicamente l'andamento della causa e adotti i
conseguenti provvedimenti di revisione dei relativi impegni.
In sostanza, l'Ente deve amministrare il proprio
contenzioso, informando -anche in questo ambito- il suo
operato a canoni di prudenza, accortezza, veridicità,
attendibilità, proporzionalità ed equilibrio, nel preminente
interesse di evitare 'sopravvenienze passive'».
Sulla scia di tali ultime considerazioni si pone anche un
recente parere della Corte dei Conti, sezione regionale di
controllo per la Campania,
[12]
nel quale si afferma che:
«L'obbligo di procurarsi un congruo preventivo del
corrispettivo, oltre a gravare sulla p.a. e discendere da
principi di sana gestione contabile, è oggi un espresso
obbligo gravante sullo stesso professionista per effetto
dell'art. 9, D.L. n. 1 del 2012: tale norma ha abrogato le
tariffe professionali e ha stabilito che "Il compenso per le
prestazioni professionali è pattuito al momento del
conferimento dell'incarico professionale. Il professionista
deve rendere noto al cliente il grado di complessità
dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa
gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla
conclusione dell'incarico [...]".
In altri termini: l'ente,
da un lato, è tenuto in sede d'incarico a concordare nel
titolo il corrispettivo affinché il suo ammontare risulti
definito o, quantomeno, sufficientemente determinabile, di
modo che, a scadenza, la liquidazione dell'onorario e della
spesa trovi preventiva e sufficiente provvista nella
contabilità dell'ente, evitando la formazione di debiti
fuori bilancio. Per contro, in caso d'impegni "irrisori",
sarebbero state violate le norme contabili che presidiano la
corretta imputazione in bilancio della spesa; il titolo e la
fattispecie generativa dell'obbligazione, inoltre,
riguarderebbero integralmente un esercizio precedente nel
quale l'ammontare della spesa non è stato correttamente
rilevato.
Per tale ragione, in tali circostanze, l'unica
procedura contabile adottabile è una formale delibera di
riconoscimento del debito fuori bilancio, che consente la
verifica sull'utilità del patrocinio, e d'attivare il
controllo in relazione a possibili profili di responsabilità
erariale, stante l'obbligo di trasmissione delle delibere di
riconoscimento dei debiti fuori bilancio alla Corte dei
conti. Il procedimento di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio è lo strumento giuridico per riportare
un'obbligazione giuridicamente perfezionata all'interno
della sfera patrimoniale dell'ente, ricongiungendo il debito
insorto con la volontà amministrativa; il procedimento mira
a consentire al Consiglio di vagliare la legittimità del
titolo e a reperire modalità di copertura finanziaria.
La
possibilità di procedere alla contabilizzazione del maggior
debito per maggiori costi sopravvenuti tramite un mero
adeguamento dello stanziamento in bilancio, dev'essere
collegabile, anche nel contesto dei nuovi principi
contabili, a cause oggettive e imprevedibili e non a
pregresse, soggettive, sottovalutazioni della spesa.
Da ultimo, si riportano le recenti considerazioni espresse
dalla Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la
Lombardia, nel parere del 20.05.2015, n. 200, ove si
afferma che: «L'impegno di spesa per prestazioni
professionali a tutela dell'ente può dirsi assunto
correttamente quando in presenza di un eventuale maggior
onere (emergente dall'imprevedibile lunga durata della
causa), al fine di garantire la copertura finanziaria,
l'ente adegua lo stanziamento iniziale integrando
l'originario impegno di spesa. Ne consegue che se l'importo
legittimamente impegnato si riveli insufficiente, la
differenza non realizza automaticamente un debito fuori
bilancio, ex art. 194, comma 1, lett. e), TUEL. Detta
indicazione è confermata nella nuova disciplina
sull'armonizzazione dei sistemi contabili, ove all'Allegato
4/2, D.Lgs. n. 118 del 2011, si afferma che "gli impegni
derivanti dal conferimento di incarico a legali esterni, la
cui esigibilità non è determinabile, sono imputati
all'esercizio in cui il contratto è firmato, in deroga al
principio della competenza potenziata, al fine di garantire
la copertura della spesa"; poi si aggiunge "al fine di
evitare la formazione di debiti fuori bilancio, l'ente
chiede ogni anno al legale di confermare o meno il
preventivo di spesa sulla base della quale è stato assunto
l'impegno e, di conseguenza, provvede ad assumere gli
eventuali ulteriori impegni"».
Volendo fare una sintesi di quanto sopra espresso, specie in
considerazione del fatto che il Comune, come riferito, si è
fatto rilasciare, in sede di attribuzione dell'incarico, un
preventivo di massima da parte dell'avvocato e ha,
successivamente, adeguato tale importo agli incrementi
comunicatigli dal legale in corso di causa e motivati da
lungaggini processuali o complessità della causa
successivamente intervenute, e del fatto che l'eccedenza di
spesa rispetto a quanto già impegnato, secondo quanto
riferito, risulta essere di non eccessiva entità, parrebbero
potersi ritenere integrati i presupposti per considerare
tale maggiore spesa quale 'passività pregressa' con
conseguente possibilità per l'Ente di procedere ad adottare
un ulteriore impegno di spesa a copertura della minima
eccedenza rispetto all'impegno contabile precedente.
---------------
[1] Il legale aveva, infatti, comunicato all'Ente che
l'importo di massima pattuito poteva essere oggetto di
variazione in relazione alla durata prolungata del processo
nonché in connessione alla complessità e impegno della causa
da instaurare.
[2] In questo senso si veda, altresì, Cassazione civile,
sez. I, sentenza del 22.04.2010, n. 9633.
[3] TAR Sicilia, Catania, sez. II, sentenza del 27.07.2015,
n. 2052. Nello stesso senso, tra le altre, TAR Sicilia,
Catania, sez. II, sentenza del 27.02.2015, n. 618 e sez. III,
del 25.03.2015, n. 854; Tribunale Salerno, sez. III,
sentenza dell'11.05.2015.
[4] In questo senso si vedano Cassazione civile, ordinanza
del 29.07.2010, n. 17698; Tribunale de L'Aquila, sentenza
dell'08.06.2013.
[5] Nel caso in esame si rientra in questa seconda ipotesi,
attesa l'assenza di un contratto ad hoc tra le parti sulla
determinazione del compenso. Secondo quanto riferito dal
Comune, al momento del conferimento dell'incarico, è stato
predisposto dal legale un 'preventivo di massima' cui hanno
fatto seguito, nel corso del giudizio, degli adeguamenti
degli importi legati, tra l'altro, alla complessità e durata
della causa.
[6] Attualmente il riferimento è al D.M. 10.03.2014, n. 55.
[7] Corte dei Conti, sez. reg. contr. Lombardia, parere del
20.05.2015, n. 200.
[8] Si ricorda che, ai sensi dell'articolo 29, comma 1,
della legge 247/2012 il consiglio, tra l'altro, 'dà pareri
sulla liquidazione dei compensi spettanti agli iscritti' [lett.
l)]. L'articolo 14, primo comma, del R.D.L. 1578/1933 nel
declinare le competenze dei Consigli degli ordini, alla
lett. d), prevede che essi 'danno il parere sulla
liquidazione degli onorari di avvocato nel caso preveduto
dall'art. 59 e negli altri casi in cui è richiesto a termini
delle disposizioni vigenti'.
[9] Si segnala, altresì, un parere dell'ANCI dell'01.05.2013
che distingue, sulla falsariga di quanto contenuto nel
parere reso dallo scrivente Ufficio 15066/2007, i casi in
cui la somma da liquidare ad un professionista per maggiori
spese integri un debito fuori bilancio dai casi in cui è
possibile procedere all'integrazione ed alla liquidazione a
saldo della somma ulteriore non precedentemente impegnata.
[10] Con l'espressione di 'passività pregresse' o arretrate
si suole fare riferimento a quelle spese che riguardano
debiti per cui si è proceduto a regolare impegno
(amministrativo, ai sensi dell'articolo 183 TUEL) ma che,
per fatti non prevedibili, di norma collegati alla natura
della prestazione, hanno dato luogo ad un debito in assenza
di copertura (mancanza o insufficienza dell'impegno
contabile ai sensi dell'articolo 191 TUEL). Così Corte dei
Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione
del 22.07.2013, n. 339.
[11] Corte dei Conti, sez. regionale controllo Friuli
Venezia Giulia, deliberazione del 17.01.2012, n. 25.
[12] Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la
Campania, parere del 25.03.2015 (17.03.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
APPALTI: Piccoli appalti senza scorciatoie.
Giustizia amministrativa. L’analisi del nuovo Codice dei
contratti nel parere del Consiglio di Stato.
No alla
semplificazione eccessiva dei piccoli appalti, attenzione
alle deroghe per l a protezione civile, giusta la scelta di
abbandonare il regolamento attuativo unico per accogliere la
sfida della «soft law» affidata all’Anac. E poi il
suggerimento di prevedere un congruo periodo transitorio per
il passaggio dal vecchio al nuovo sistema, allungando anche
da uno a due anni il tempo massimo per introdurre dei
correttivi con un nuovo decreto del governo.
Con il
parere
01.04.2016 n. 855 di oltre 200 pagine il Consiglio di Stato “fa
le pulci” al testo del
nuovo codice dei contratti varato dal
governo
(Schema di
decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La disamina parte dalla constatazione dei tempi
stretti in cui la commissione governativa ha redatto il
testo: una corsa che ha comportato «inevitabili refusi,
incoerenze e difetti». Palazzo Spada riconosce però che la
riforma del Codice degli appalti rappresenta «una sfida
storica». Affidata a un «delicato equilibrio», che punta a
ottenere un «codice snello», ma che deve anche garantire
controlli efficaci.
In tre punti, per Palazzo Spada, la bozza del decreto è
andata oltre i limiti della delega. Si tratta dei passaggi
relativi alla riduzione delle imprese da invitare nei
piccoli appalti, alle deroghe alle procedure di gara per la
protezione civile e al débat public sulle grandi opere che
va reso «subito obbligatorio».
Un chiarimento importante
arriva sulla natura delle linee guida generali proposte
dall’Anac e adottate dal Mit: sono o un vero e proprio
regolamento. Si chiarisce così il valore cogente di questo
provvedimento, che alcuni avevano messo in dubbio. Arriva poi
anche l’invito a «perseguire con determinazione» l’obiettivo
della «riduzione del numero delle stazioni appaltanti», ma
«salvaguardando meglio» le Pmi.
Si chiede poi «maggior
rigore» nella disciplina dei requisiti morali dei
concorrenti attraverso l’ampliamento del novero delle
condanne penali per cui si è esclusi dalle gare
(articolo Il Sole 24 Ore
del 02.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Bonus mobili, raddoppio senza cumulo. Per lo stesso immobile
è impossibile «moltiplicare» lo sconto d’imposta valido per
quest’anno.
Agevolazioni. Le istruzioni per fruire della detrazione al
50% collegata agli acquisti dopo una ristrutturazione e
quella destinata alle giovani coppie.
La legge di
Stabilità 2016 raddoppia i bonus per l’acquisto di mobili e
arredi. Infatti la legge 208/2015 ha prorogato per
quest’anno la detrazione del 50% delle spese sostenute (fino
a 10mila euro) per l’acquisto di mobili e di grandi
elettrodomestici -di classe non inferiore ad A+, nonché di
classe A per i forni e le apparecchiature per le quali è
prevista l’etichetta energetica- che sono destinati
all’arredo dell’immobile oggetto di ristrutturazione.
La
proroga va in parallelo con la conferma, anche quest’anno,
dell’agevolazione fiscale per gli interventi di recupero del
patrimonio edilizio, con una detrazione del 50% (65% per gli
interventi antisismici) per un massimo di 96mila euro.
Come detto, la legge di Stabilità ha potenziato ed esteso lo
sconto fiscale per i mobili: per le giovani coppie, coniugi
o conviventi, di cui uno almeno abbia meno di 35 anni (o
compia 35 anni quest’anno) c’è la possibilità di detrarre in
dieci anni il 50% della somma impiegata per l’acquisto di
mobili destinati all’abitazione principale. La casa deve
essere stata acquistata, a titolo oneroso o gratuito, nel
2015 o nel 2016. In questo caso il bonus mobili ha un
plafond di 16mila euro.
Il nuovo bonus mobili è destinato a favorire le giovani
coppie in possesso, nel 2016, dei requisiti soggettivi
previsti dalla legge. In caso di coniugi non importa la data
del matrimonio; la convivenza invece deve durare da almeno
tre anni e deve essere attestata dalla stato di famiglia.
La casa può essere acquistata dalla coppia o da uno dei
partner, in questo caso l’agenzia delle Entrate -nella
circolare 31.03.2016 n. 7/E- richiede che il proprietario sia il
partner under 35.
L’acquisto può essere stato effettuato anche lo scorso anno,
visto che la normativa fiscale dà tempo 12 mesi per adibire
l’immobile ad abitazione principale. La destinazione, per
gli acquisti 2016, deve avvenire, comunque, entro il termine
della presentazione della dichiarazione dei redditi 2017,
relativa al 2016.
L’agenzia chiarisce che l’acquisto dei mobili può avvenire
in qualsiasi momento nel 2016, purché la casa acquistata
quest’anno sia destinata -come detto- ad abitazione
principale entro il termine per la dichiarazione dei redditi
2017 (2 ottobre). Per gli acquisti di case nel 2015 la
destinazione ad abitazione principale deve avvenire entro il
31.12.2016.
Il bonus mobili per giovani coppie è calcolato, come detto
prima, su un importo complessivo di 16mila euro: l’acquisto
può essere effettuato da entrambi i partner o da uno solo
dei componenti, anche da colui che ha superato i 35 anni.
L’acquisto deve essere effettuato con bonifico o con carta
di debito o di credito: non è richiesto il bonifico
utilizzato per le ristrutturazioni edilizie (la regola vale
anche per il bonus mobili ”generale”).
La circolare delle Entrate 7/E chiarisce che per la
«medesima unità abitativa», non si può beneficiare sia della
detrazione Irpef del 50% per l'acquisto di mobili da parte
delle giovani coppie, sia di quella generale, sempre del
50%, utilizzabile da tutti i contribuenti Irpef.
L'incompatibilità vale anche per acquisti di mobili diversi,
necessari per arredare case acquistate quest'anno (o nel
2015), adibite ad abitazione principale entro il 02.10.2017 (o entro il 31.12.2016) e contemporaneamente
soggette a lavori di ristrutturazione quest'anno. Cioè vale
anche se sono rispettate tutte le condizioni delle due norme agevolative.
La normativa prevede genericamente che la nuova detrazione
Irpef del 50% per l'acquisto di mobili da parte delle
giovani coppie non sia cumulabile con quella generale
utilizzabile da tutti i soggetti Irpef (persone fisiche, i
professionisti e i soci delle società di persone). Come è
accaduto per altre agevolazioni (ad esempio, per la
detrazione del 36-50% sugli interventi di recupero del
patrimonio edilizio e quella del 55-65% sul risparmio
energetico qualificato) l'incumulabilità vale sicuramente
per lo stesso acquisto agevolato (risoluzione 05.07.2007,
152/E).
Ad esempio, se una giovane coppia compera un arredo
su una casa che ha acquistato quest'anno, nella quale fa
fare, entro la fine del 2016, delle manutenzioni
straordinarie detraibili al 50%, non può beneficiare della
doppia detrazione del 50%, quella per le giovani coppie e
quella generale.
Oltre a questa regola, però, secondo l'agenzia delle Entrate
l'incompatibilità delle due agevolazioni è molto più ampia,
in quanto «non è consentito fruire di entrambe le
agevolazioni per l'arredo della medesima unità abitativa».
Quindi, una giovane coppia non potrà acquistare, ad esempio,
16mila euro di mobili per arredare la propria abitazione
principale di proprietà e acquistare anche 10mila euro di
altri mobili per la stessa abitazione, previo lavori di
recupero edilizio agevolabili al 50%.
Ma l'agenzia va oltre e afferma che se la coppia o uno solo
dei componenti beneficia, «anche parzialmente, del bonus
mobili e grandi elettrodomestici, per acquisti effettuati
dal 06.06.2013 al 31.12.2016, non potrà altresì
beneficiare del bonus mobili giovani coppie per l'arredo del
medesimo immobile». L'incompatibilità, quindi, non riguarda
solo «l'arredo della medesima unità abitativa», ma anche, da
un lato, l'acquisto di grandi elettrodomestici
(beneficiando, anche parzialmente, del bonus generale),
dall'altro lato, l'acquisto di mobili, usufruendo della
nuova detrazione per le giovani coppie.
Queste ultime, comunque, potranno beneficiare di entrambe le
agevolazioni, nel rispetto delle relative prescrizioni, se i
mobili (o i grandi elettrodomestici) acquistati saranno
destinati all'arredo di unità abitative diverse (articolo Il Sole 24 Ore
del 02.04.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti elettrici ai rivenditori senza l'acquisto
obbligatorio.
In arrivo il ritiro uno-contro-zero dei tecnorifiuti più
piccoli presso i rivenditori specializzati. Sarà un obbligo
per tutti i distributori al dettaglio di apparecchiature
elettriche ed elettroniche con superficie di vendita di
almeno 400 mq, una facoltà per i distributori con superficie
inferiore e per i distributori che effettuano vendite a
distanza.
Chi dovrà (o vorrà) aderire al sistema di ritiro
dei «Raee» (acronimo di rifiuti da apparecchiature
elettriche ed elettroniche) dovrà rispettare una serie di
requisiti di carattere informativo, organizzativo e
burocratico per garantire ai cittadini la consegna gratuita
e semplice dei prodotti giunti a fine vita e al sistema il
deposito sicuro dei Raee preliminare alle successive
attività di raccolta e trattamento a norma di legge.
È
quanto prevede il dm firmato qualche giorno fa dal ministro
dell'ambiente e che dovrebbe essere ufficializzato nelle
prossime settimane.
Lo schema di regolamento dà attuazione
all'articolo 11, comma 4, della normativa-madre in materia
di Raee, ovvero il dlgs n. 49/2014 attuativo della direttiva
2012/19/Ue, e chiama in causa le imprese della distribuzione
per quanto riguarda il ritiro dei tecnorifiuti fino a 25 cm
(smartphone, tablet, chiavette usb, cuffie audio, ebook
reader...), provenienti dai nuclei domestici, attraverso la
predisposizione nei punti vendita di un luogo di ritiro ad
hoc, con contenitori facilmente fruibili e adeguatamente
segnalati.
«L'obbligo discende dal fatto che si è deciso di
imporre ai rivenditori di svolgere un compito sussidiario
rispetto agli organismi pubblici preposti alla raccolta dei
rifiuti», spiega a ItaliaOggi Davide Rossi, direttore
generale di Aires (associazione italiana retailer
elettrodomestici specializzati), «i quali si sono dimostrati
inefficaci nel convogliare i Raee dalle case dei cittadini
alla filiera del recupero e dello smaltimento. Detto questo,
il decreto poteva essere ancora più penalizzante per le
nostre imprese e apprezziamo che il ministero ci abbia
almeno dato ascolto su alcuni punti di semplificazione»
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016). |
APPALTI:
Riforma appalti, servirà un anno di test.
Con la riforma del codice degli appalti «si va verso una
maggiore discrezionalità della pubblica amministrazione, che
deve essere bilanciata da una maggiore trasparenza e da
maggiori controlli, il testo all'esame delle commissioni,
con piccole correzioni, va nella giusta direzione».
Lo ha
detto il presidente dell'Anac Raffaele Cantone a margine di
un incontro di Confcooperative sulla riforma del codice
degli appalti (Schema di decreto legislativo recante
disposizioni per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di
concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure
d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua,
dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché
per il riordino della disciplina vigente in materia di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture
-
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
«Certo nel momento dell'applicazione avrà dei
problemi fisiologici come tutte le novità. Del nuovo codice
dovremo valutare l'applicazione in non meno di un anno,
pensare che possa avere effetti di qualunque tipo in tempi
più brevi è impossibile. Chiaramente», ha concluso Cantone,
«potrà funzionare solo con la collaborazione di tutti gli
operatori. Siamo passati da una fase di grande entusiasmo ma
ora vedo un po' di eccesso di depressione, aspettiamo il
tempo sufficiente di capire».
«La riforma degli appalti può
determinare subito una crescita del Pil pari al +1% l'anno
che una volta a regime potrà salire fino al +3%», ha
affermato Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative.
Mentre per Massimo Stronati, presidente Federlavoro e
Servizi Confcooperative, le misure «se pienamente
attuate, porterebbero a un notevole alleggerimento del
carico burocratico, senza far venire meno i necessari
controlli»
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Fondo salario calcolato sul valore medio dei
presenti.
La riduzione del fondo del salario accessorio prevista dal
comma 236 dell'ultima legge di stabilità deve essere operata
sulla base del confronto tra il valore medio dei presenti
nell'anno di riferimento (dedotte le unità per le quali è
programmata la cessazione e aggiunte quelle assumibili in
base alla normativa vigente) e il valore medio dei presenti
nell'anno 2015.
Lo precisa la
circolare 23.03.2016 n. 12 della Ragioneria generale dello
stato, che, sebbene formalmente
indirizzata alle amministrazioni statali, fornisce
importanti chiarimenti anche agli enti locali circa
l'impatto di molte delle disposizioni contenute nella legge
208/2015 (si veda anche ItaliaOggi del 30/3).
Fra queste, appunto il comma 236, ai sensi del quale, nelle
more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi della
legge Madia, «l'ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento economico accessorio
del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna
delle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs
165/2001 non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015 ed è comunque automaticamente
ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale
in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi
della normativa vigente».
Di fatto, si tratta di un meccanismo analogo a quello
introdotto dall'art. 9, comma 2-bis, del dl 78/2010. L'unica
differenza (a parte la parametrazione del tetto al 2015
anziché al 2010), è rappresentata dal fatto che il calcolo
della riduzione proporzionale del fondo dovrà ora essere
effettuato «tenendo conto del personale assumibile ai sensi
della normativa vigente». Tale inciso ha posto fin da subito
un rilevante dubbio interpretativo, non essendo chiaro se il
legislatore intendesse fare riferimento alla al personale in
astratto reclutabile o a quello effettivamente assunto.
Al riguardo, la circolare chiarisce che la riduzione «andrà
operata, sulla base del confronto tra il valore medio del
personale presente in servizio nell'anno di riferimento ed
il valore medio dei presenti nell'anno 2015. In particolare,
i presenti al 31/12 dell'anno di riferimento scaturiranno
dalla consistenza iniziale del personale all'1/1 alla quale
andranno dedotte le unità per le quali è programmata la
cessazione ed aggiunte quelle assumibili in base alla
normativa vigente (tra cui, per esempio, quelle relative a
facoltà assunzionali non esercitate e riferite ad annualità
precedenti oggetto di proroga legislativa)».
Tuttavia, viene espressamente richiesta una «verifica finale
dell'effettivo andamento», il che lascia ancora qualche
incertezza sull'effettiva quantificazione del taglio.
Infine, per quanto concerne la ripartizione del budget
assunzionale tra le varie componenti (aree e dirigenti) in
presenza di fondi diversificati, ove non fosse possibile
fare riferimento ad atti formali di programmazione dei
fabbisogni, si potrà utilizzare un criterio di attribuzione
delle risorse proporzionale rispetto a quelle risultanti
dalla cessazione del relativo personale, tenendo conto, in
ogni caso, anche delle indicazioni di cui alla circolare n.
12/2011
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016). |
APPALTI: Gare, garantire la par condicio. Da prevedere misure per
evitare vantaggi ai consulenti p.a..
Lo stabilisce lo schema di decreto legislativo che contiene
la riforma del codice degli appalti.
Garantire la par condicio fra i concorrenti anche con
l'esclusione del soggetto che ha partecipato alla
predisposizione di documenti o atti di gara che vengono
utilizzati per l'affidamento del contratto; necessario,
però, prevedere adeguate misure per evitare asimmetrie
informative a vantaggio dei consulenti della stazione
appaltante che intendono partecipare alla gara.
È quanto
stabilisce lo
schema di decreto legislativo contenente il
nuovo codice dei contratti pubblici sul quale
parlamento, consiglio di stato e conferenza unificata si
devono esprimere con i loro pareri
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
La materia della partecipazione alla gara e dei cosiddetti
conflitti di interesse, viene affrontata dal codice
all'articolo 67 con una disposizione che afferma il
principio generale di garanzia della par condicio; per cui
se un candidato o un offerente o un'impresa collegata a un
candidato o a un offerente hanno fornito consulenze,
relazioni o altra documentazione tecnica che sia poi stata
utilizzata nella pianificazione e nello svolgimento della
procedura di aggiudicazione dell'appalto, la stazione
appaltante deve adottare «misure adeguate per garantire che
la concorrenza non sia falsata dalla partecipazione del
candidato o dell'offerente stesso».
Subito dopo, la norma qualifica come misura adeguata la
comunicazione agli altri candidati e agli altri offerenti
delle informazioni pertinenti scambiate nel quadro della
partecipazione del candidato o dell'offerente alla
preparazione della procedura; analogamente la norma
definisce come misura adeguata a garantire la par condicio
fra i concorrenti la comunicazione a tutti i partecipanti
alla gara delle informazioni ottenute a seguito di tale
partecipazione.
Infine, è definita come misura di trasparenza e concorrenza
anche la fissazione di termini adeguati per la ricezione
delle offerte, nel presupposto che se l'offerente ha un
lasso di tempo adeguato per studiare gli elementi e
predisporre l'offerta automaticamente potrebbe colmare il
gap di asimmetria informativa con il concorrente
«privilegiato» dal precedente rapporto con la committenza.
In sostanza, sembrerebbe che con la completa trasparenza e
diffusione delle informazioni in possesso del soggetto che
ha in precedenza partecipato ad una procedura o ad una fase
procedimentale connessa a quella oggetto di appalto, si
riuscirebbe a annullare situazioni di violazione della par
condicio. Una conclusione che in passato la giurisprudenza
europea e nazionale non sempre aveva sposato, andando spesso
a valutare caso per caso a seconda delle situazioni.
La norma prevede poi anche il caso in cui non si riesca a
garantire il rispetto della par condicio fra i concorrenti:
in questa ipotesi la regola sarà l'esclusione dalla gara ma
al soggetto escluso in base alla sua «posizione
privilegiata», si dovrà dare la possibilità, entro i dieci
giorni successivi, di provare che avere partecipato alla
preparazione della procedura di aggiudicazione non
costituisce elemento tale da alterare la concorrenza.
Nello
schema di decreto è però presente un'altra norma che
affronta la stessa tematica: l'articolo 24, comma 7,
stabilisce per il soggetto che sia stato affidatario
dell'incarico di progettazione l'assoluto divieto di
partecipare, anche attraverso società controllate o
collegate, alla gara per l'affidamento dei lavori o della
concessione. Si tratterà di casi evidentemente rari visto
che l'appalto integrato è stato sostanzialmente azzerato;
rimarrebbero gli affidamenti a contraente generale e le
concessioni e i Ppp (partenariati pubblici e privato).
Va rilevato che la norma non riporta più la possibilità di
dimostrare di non avere conseguito vantaggi concorrenziali
rispetto agli altri concorrenti (oggi contenuta al comma
8-bis dell'articolo 90 del codice)
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti, periodo transitorio di 3 mesi. Proposta
di Cantone, ok di Delrio - Ance: bene, ma servono ancora
correzioni.
La riforma. Il vecchio regolamento resterà in vita in attesa
delle linee-guida generali dell’Anac.
C’è una novità sostanziale nel percorso
di approvazione del nuovo codice degli appalti. Nel testo
definitivo che sarà approvato dal Consiglio dei ministri
entro il 18 aprile sarà inserito un periodo transitorio di
tre mesi in cui continuerà a essere vigente il vecchio
regolamento del 2010. Questo consentirà all’Autorità
anticorruzione guidata da Raffaele Cantone di varare le
linee guida generali di soft law che completano il codice
evitando periodi di “vuoto”.
È quanto emerso ieri
nel corso di un convegno organizzato dall’Ance sul
nuovo
codice: la proposta dell’inserimento di un periodo
transitorio è arrivata direttamente da Cantone e ha ricevuto
subito una disponibilità del ministro delle Infrastrutture,
Graziano Delrio.
In questa direzione andrebbe anche il
parere del Consiglio di Stato di imminente trasmissione.
D’accordo anche il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis,
che nella sua relazione iniziale al convegno aveva messo in
guardia dai pericoli che possono nascondersi in una serie di
dettagli normativi che hanno però un grande impatto sul
mercato e sulla vita delle imprese.
Sul subappalto, per esempio, De Albertis ha chiesto di
eliminare la responsabilità solidale dell’appaltatore nel
caso in cui il subappaltatore sia pagato direttamente dalla
stazione appaltante e di spostare al momento dell’inizio
lavori l’obbligo di indicazione da parte delle imprese
partecipanti alla gara della “terna” di possibili
subappaltatori, oggi previsto al momento dell’offerta.
De Albertis ha anche chiesto di eliminare il riferimento al
requisito dei «lavori analoghi» per le opere di importo
superiori a 20 milioni, proponendo semmai di sostituirlo con
il requisito di «un fatturato pari a 2,5 volte l’importo a
base d’asta». Tra le modifiche più rilevanti chieste
dall’Ance anche l’innalzamento da 1 a 2,5 miliardi della
soglia fino alla quale è possibile utilizzare il criterio di
aggiudicazione del massimo ribasso.
Una criticità è anche
l’eliminazione dei meccanismi di esclusione automatica
sotto soglia. Il giudizio complessivo dell’Ance sul nuovo
codice resta comunque positivo
(Schema
di decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare).
Cantone ha invitato la platea a «non passare
dall’entusiasmo alla depressione», sostenendo la fase,
difficile ma necessaria, della prima attuazione del nuovo
codice. Cantone ha mandato ieri alle commissioni
parlamentari una nota che ripercorre le correzioni più
rilevanti proposte dall’Anac anche in sede di audizione.
Cantone ha poi ribadito al convegno Ance alcuni chiarimenti
necessari: il rating reputazionale per le imprese che deve
essere una competenza esclusiva dell’Anac (senza ambigue
sovrapposizioni con le funzioni esercitate dalle Soa), un
chiarimento per eliminare le possibili sovrapposizioni fra
accordo bonario e collegio consultivo tecnico,
l’introduzione di un potere sanzionatorio dell’Anac (o un
potere di ordine) nei confronti dei concessionari che non
rispettino la quota dell’80% di lavori da affidare a terzi,
la previsione di una «quantomeno parziale vincolatività»
degli atti di regolazione flessibile dell’Anac (bandi-tipo,
linee-guida, capitolati e contratti-tipo).
Per Delrio il settore degli appalti «è molto delicato, perché viene da anni di malattia» e «non ci sarebbe stato
bisogno di riscrivere codice degli appalti se tutto fosse
andato bene».
Con riferimento al codice Delrio ha ammesso
che i decreti attuativi «anche per me sono troppi» ma ha
detto che «stiamo facendo un lavoro di pulizia» (articolo Il Sole 24 Ore del
31.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Periodo transitorio per il codice.
Un breve periodo transitorio di 1-2 mesi per il Codice
appalti in attesa che arrivino le linee guida da parte dell'Anac.
La richiesta, formalizzata dal presidente dell'Autorità
anticorruzione, Raffaele Cantone, in audizione in parlamento
lo scorso 17 marzo, è stata di fatto accolta dal ministro
per le infrastrutture e i trasporti, Graziano Delrio.
«Il
governo non ha nessun problema a introdurre un regime
transitorio in attesa delle linee guida per il nuovo Codice
appalti», ha dichiarato il ministro nel corso di un convegno
organizzato dall'Ance sulla riforma. «Il nostro obiettivo
era di essere pronti il 18 aprile», ha detto il ministro. «Se il presidente dell'Anac chiede un mese di tempo per le
linee guida non c'è nessuna opposizione da parte nostra per
una riforma così importante».
In audizione davanti alle
commissioni riunite di Camera e Senato, Delrio ha ribadito
la disponibilità ad accogliere le numerose richieste di
modifica dello
schema di dlgs (approvato in via preliminare
dal consiglio dei ministri il 3 marzo scorso) [Schema di
decreto legislativo recante disposizioni per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture -
Atto del Governo n. 283 sottoposto a parere parlamentare]
fatte
pervenire dagli operatori e dalla stessa Anac.
«Il nuovo
codice degli appalti è un salto in avanti enorme rispetto al
passato ma serve prudenza, ci siamo dati un anno per
continuare a lavorarci. Siamo pronti ad ascoltare,
intervenire e migliorare», ha dichiarato il ministro. Sulle
clausole sociali, per esempio, Delrio si è detto pronto a
introdurre correttivi. «Cercheremo di dare una versione
non ambigua e che sia sostenibile secondo il ministero del
lavoro, anche dal punto di vista costituzionale e della
normativa europea», ha detto.
Il problema delle clausole sociali, volte a promuovere
stabilità occupazionale e salvaguardia delle
professionalità, nei bandi di gara ad alta intensità di
manodopera, era stato sollevato in audizione dallo stesso
Cantone che aveva sottolineato come la norma del codice, nel
lasciare alle stazioni appaltanti «ampia discrezionalità»
sul loro inserimento, non dia piena attuazione alla legge
delega n. 11/2016 che invece promuove la tutela
occupazionale
(articolo ItaliaOggi del 31.03.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di
Codice dei contratti pubblici (Schema di decreto
legislativo recante disposizioni per l'attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture).
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I punti principali del parere del Consiglio di Stato sullo
schema di codice dei contratti pubblici.
Contesto ordinamentale: il vecchio codice
I contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture
sono una voce significativa della spesa pubblica, con la
duplice implicazione di costituire una leva importante della
politica economica e sociale di un Paese, e di essere
particolarmente sensibili a pratiche corruttive e fenomeni
di inquinamento del mercato da parte della criminalità
organizzata.
Nella disciplina dei contratti pubblici occorre coniugare
apertura del mercato, flessibilità e semplificazione
burocratica con la tutela dei valori di trasparenza e lotta
alla corruzione e criminalità organizzata.
La materia dei contratti pubblici è trasversale e
conseguentemente il nuovo codice deve inserirsi
armonicamente nel tessuto del vigente ordinamento, in
termini di coerenza del linguaggio e uniformità degli
istituti giuridici.
Finora in Italia i contratti pubblici relativi a lavori
servizi e forniture sono stati regolati dal d.lgs. n.
163/2006 (codice dei contratti pubblici) e dal d.P.R. n.
207/2010 (regolamento di esecuzione e attuazione del
codice), oltre a una serie di altri atti normativi, primari
o secondari, per specifici settori.
Il codice del 2006 (che a sua volta recepiva due direttive
comunitarie e sostituiva la c.d. legge Merloni) è stato sino
ad oggi modificato da 52 atti normativi nazionali e da sei
regolamenti comunitari. Solo in tre casi si è trattato dei
fisiologici decreti legislativi correttivi (nell’arco del
primo biennio); nel solo anno 2012 il codice è stato
modificato con otto atti normativi, di cui sette decreti
legge; nell’anno 2014 è stato modificato da nove atti
normativi di cui otto decreti legge.
Il quadro normativo previgente conta, solo sommando codice e
regolamento generale, 630 articoli e 37 allegati. Senza
contare normative settoriali (appalti della difesa, beni
culturali, servizi segreti), norme isolate sparse, e,
soprattutto le leggi regionali sui contratti pubblici, che
possono essere veri e propri “codici” per le Regioni
a statuto speciale e le Province autonome di Trento e
Bolzano.
La Corte costituzionale è stata ripetutamente chiamata a
dirimere i conflitti di competenza legislativa tra Stato,
Regioni e Province autonome in materia di appalti.
Nel corso degli anni si sono sovrapposte norme e regimi
transitori, con incertezza delle regole, aumento del
contenzioso e dei costi amministrativi per le imprese,
soprattutto piccole e medie.
Numerosi gli interventi interpretativi del giudice
amministrativo e dell’ANAC: la sola adunanza plenaria del
Consiglio di Stato ha reso 48 decisioni in funzione
nomofilattica dal 2010 ad oggi.
Il quadro normativo anteriore al nuovo codice sconta, oltre
alla complessità delle fonti, una complessità soggettiva
(sono state censite oltre 32.000 stazioni appaltanti) e
procedurale (numerose procedure di gara atipiche rispetto ai
modelli comunitari).
Infine, complesso è il quadro del contenzioso, essendo
competenti sugli appalti pubblici, in diversi ambiti e sotto
diverse angolazioni, il giudice amministrativo, il giudice
civile, quello penale e quello contabile, senza contare gli
interventi della Corte costituzionale e della Corte di
giustizia dell’Unione europea. Non sempre è chiaro l’ambito
di reciproca competenza e si genera così ulteriore
contenzioso.
Contesto ordinamentale: le nuove direttive
Le tre nuove direttive comunitarie (23, 24 e 25 del 2014)
sugli appalti pubblici fanno parte della strategia Europa
2020 e perseguono obiettivi ambiziosi:
- rendere più efficiente l’uso dei fondi pubblici;
- garantire la dimensione europea del mercato dei contratti
pubblici di lavori servizi e forniture, incentivando la
concorrenza e tutelando anche le piccole e medie imprese;
- l’uso strategico degli appalti pubblici, come strumento di
politica economica e sociale;
- lotta alla corruzione attraverso procedure semplici e
trasparenti, e certezza del quadro regolatorio.
Le tre nuove direttive perseguono gli obiettivi fissati
attraverso importanti novità:
- per la prima volta, una disciplina sistematica delle
concessioni di beni e servizi;
- strumenti di aggiudicazione innovativi e flessibili;
- strumenti elettronici di negoziazione e aggiudicazione;
- utilizzo generalizzato di forme di comunicazione
elettronica;
- centralizzazione della committenza;
- criteri di sostenibilità ambientale e sociale
nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti;
- rafforzata tutela dei subappaltatori;
- introduzione del documento unico europeo di gara;
- disciplina dei conflitti di interesse;
- risoluzione dell’appalto, anche a distanza notevole di
tempo, per stigmatizzare gravi violazioni commesse in sede
di aggiudicazione.
Contesto ordinamentale: la legge delega
La legge delega n. 11 del 2016 prevede una operazione di
codificazione settoriale, mediante recepimento delle tre
direttive e al contempo riordino dell’intera disciplina.
La legge delega n. 11 del 2016 impone semplificazione e
accelerazione delle procedure salvaguardando al contempo
valori fondamentali quali la trasparenza, la prevenzione
della corruzione e della infiltrazione della criminalità
organizzata, la tutela ambientale e sociale.
La legge delega n. 11 del 2016 va oltre il recepimento delle
tre direttive, introducendo ulteriori strumenti e istituti
inediti, che, se ben declinati, potranno portare effettiva
trasparenza e efficienza in un mercato non immune da
vischiosità burocratica e illegalità.
La legge n. 11 del 2016 costituisce delega “lunga” e
puntuale, per un totale di 71 principi, rispetto ai quattro
principi della delega contenuta nella legge n. 62 del 2005,
sulla base della quale fu varato il previgente codice degli
appalti pubblici.
La legge delega impone una drastica riduzione dello stock
normativo, perciò esige un codice snello, abbandona il
modello del regolamento di esecuzione e introduce strumenti
attuativi di soft law.
La legge delega pone il divieto di gold plating,
ossia di oneri burocratici non essenziali.
La legge delega fissa obiettivi di qualità della regolazione
intesa in senso formale (codificazione e semplificazione
normativa) e sostanziale (semplificazione burocratica).
La legge delega contiene essa stessa alcune regole più
severe rispetto a quelle comunitarie, in funzione di valori
di trasparenza e concorrenza, quali la centralizzazione
obbligatoria della committenza, la qualificazione
obbligatoria delle stazioni appaltanti, la istituzione di un
albo dei commissari di gara, la separazione tra
progettazione e esecuzione, i criteri reputazionali per gli
operatori economici, il conto corrente dedicato, regole di
rigore per gli appalti della protezione civile e per le
concessioni autostradali, il dibattito pubblico sulle grandi
opere.
La legge delega disegna una governance efficace e
efficiente del settore, attraverso la nuova cabina di regia
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il
rafforzato ruolo dell’ANAC che coniuga i compiti di autorità
anticorruzione e di vigilanza e regolazione del mercato
degli appalti pubblici.
Il recepimento delle tre direttive costituisce occasione e
sfida per un ripensamento complessivo del sistema degli
appalti pubblici in Italia, in una nuova filosofia che
coniuga flessibilità e rigore, semplificazione ed efficienza
con la salvaguardia di insopprimibili valori sociali e
ambientali.
La “sfida storica” del nuovo codice appalti è
affidata a un delicato equilibrio in cui è assolutamente
indispensabile tenere insieme “il combinato disposto”
degli istituti previsti. Perciò:
- il codice “snello” deve essere tempestivamente
seguito da atti attuativi chiari, tempestivi, coordinati tra
loro;
- le stazioni appaltanti avranno maggiore discrezionalità,
ma devono essere poche, ben organizzate e qualificate;
- se aumentano gli appalti sotto soglia, per la previsione
dei lotti, e se le regole del sotto soglia sono più
flessibili, occorrono controlli rigorosi e una tutela
giurisdizionale efficace.
Il nuovo codice e il parere del Consiglio
di Stato
Il “codice degli appalti pubblici” e delle
concessioni è il primo codice di diritto amministrativo
elaborato nella presente legislatura, così auspicabilmente
riaprendo una “stagione di codici”, necessari in
funzione di semplificazione e chiarezza del quadro
regolatorio.
Il codice potrebbe avere un “nome di battesimo”
meglio rispondente ai suoi obiettivi ambiziosi, ed essere
denominato “codice dei contratti pubblici”.
Il codice è stato elaborato in via preliminare in poco più
di un mese. Il Governo ha meritoriamente optato per
un’attuazione della delega in un solo tempo, entro il
18.04.2016.
I tempi stretti per il recepimento della delega (meno di tre
mesi) hanno dettato una tabella di marcia veloce al Governo
e agli organi consultivi.
Il Consiglio di Stato ha ricevuto lo schema di codice il
07.03.2016 e ha reso il suo parere in venticinque giorni,
nei quali è stata istituita (il 12 marzo) una Commissione
speciale di diciannove Magistrati, che ha ripartito i suoi
lavori in cinque sottocommissioni, ciascuna coordinata da un
Presidente di sezione. La Commissione speciale si è riunita
in sede plenaria nell’adunanza del 21 marzo; il parere è
stato successivamente redatto e infine pubblicato il 1°
aprile.
L’apporto consultivo del Consiglio di Stato si è mosso lungo
tre direzioni:
- esame di questioni di carattere generale;
- esame dei singoli articoli con formulazione di
osservazioni puntuali e di agevole recepimento;
- esame dei singoli articoli con formulazione di
osservazioni che richiedono maggior tempo e dovranno essere
affidate ai decreti correttivi.
Dopo il varo del codice, il Consiglio di Stato potrà dare il
proprio apporto consultivo per l’elaborazione dei decreti
correttivi e degli atti attuativi, o rispondendo a specifici
quesiti sulla nuova disciplina.
L’elaborazione di un codice richiede ordinariamente tempi
molto lunghi. I tempi stretti di redazione hanno comportato
inevitabili refusi, incoerenze e difetti, che potranno
essere in parte rimediati da subito attraverso il
recepimento dei pareri, in parte mediante gli altri
strumenti apprestati dall’ordinamento (avvisi di rettifica,
errata corrige, decreti correttivi).
A fini di maggior chiarezza il codice andrebbe corredato da
tabelle di corrispondenza delle sue disposizioni a quelle
delle direttive e del previgente codice.
Quanto più il codice riuscirà a essere chiaro e completo,
tanto più esso avrà raggiunto gli obiettivi di
semplificazione del quadro regolatorio, di certezza delle
regole, di prevenzione e riduzione del contenzioso.
Il codice e il sistema delle fonti del
diritto sovraordinate o pariordinate: rapporto con
direttive, legge delega, leggi regionali
Un primo gruppo di problemi di carattere generale attiene
alla collocazione del codice nel sistema delle fonti del
diritto di rango sovranazionale e costituzionale e delle
fonti di rango primario: rispetto delle direttive
comunitarie, rispetto della legge delega sotto il duplice
profilo della mancata o inesatta attuazione, rispetto delle
competenze legislative regionali.
Il primo problema generale è il rapporto tra direttive,
legge delega e codice, quanto al divieto di gold plating
(inserimento di oneri aggiuntivi rispetto al livello minimo
prescritto dalle direttive).
Tale divieto va riferito agli oneri burocratici fini a sé
stessi, non alle prescrizioni poste a tutela di valori
costituzionali ritenuti più pregnanti del valore
competitività, quali la tutela del lavoro, della salute,
dell’ambiente, la trasparenza e prevenzione della corruzione
e delle infiltrazioni criminali.
La legge delega, che pone il divieto di gold plating
nel recepimento delle direttive, può essa stessa derogarvi a
tutela di detti valori.
Anche il codice può, in circostanze eccezionali, derogare al
divieto di gold plating, dandone conto con adeguata
motivazione (nella scheda di analisi di impatto della
regolamentazione). Si giustificano così alcune opzioni di
maggior rigore (ad esempio in materia di subappalto, o
concessioni), già fatte dal codice.
Il Consiglio di Stato invita il Governo a valutare, in certi
ambiti, la possibilità di una disciplina di maggior rigore a
tutela di fondamentali valori: in tema di appalti sotto
soglia, subappalto, contratti esclusi.
Il divieto di gold plating dovrà essere rispettato
anche in sede di adozione degli atti attuativi del codice.
Il mancato o incompleto recepimento di alcuni punti della
legge delega costituisce una scelta politica del Governo,
non sindacabile in sede di parere di legittimità; con il
warning che l’omessa attuazione della delega non potrà
essere rimediata mediante i decreti correttivi.
È mancato il completo recepimento dei principi di delega
relativi ai conti correnti dedicati, alle concessioni del
servizio idrico, agli obblighi di esternalizzazione e avvio
tempestivo delle nuove gare per le concessioni nuove.
La complessità della delega e i tempi stretti per la sua
attuazione hanno determinato nel codice alcune imprecisioni,
che vanno corrette per fugare dubbi di eccesso di delega.
Dubbi di violazione della delega sorgono con riguardo alla
gara informale negli appalti sotto soglia con un numero
minimo di tre concorrenti, in luogo del minimo di cinque
fissato dalla delega, alla disciplina degli appalti della
protezione civile e a quella del dibattito pubblico.
Le competenze legislative dello Stato e delle Regioni
(ordinarie e speciali) nonché delle Province autonome di
Trento e Bolzano, in materia di contratti pubblici, vanno
verificate alla luce sia del vigente art. 117 Cost. che del
futuro (in itinere) art. 117 Cost.
È sconsigliabile l’elaborazione di una norma codicistica che
delinei tale riparto di competenza tra Stato e Regioni (che
compete alla Costituzione), e in subordine va impiegata una
formulazione elastica, compatibile sia con il vigente che
con il futuro art. 117 Cost.
La nuova disciplina delle Commissioni di gara può ascriversi
alla competenza esclusiva statale, nella prospettiva del suo
carattere pro concorrenziale e di tutela della trasparenza.
Il codice e la qualità della regolazione
formale e sostanziale
Un secondo gruppo di questioni di carattere generale attiene
ai profili della codificazione nella prospettiva dei
parametri, anche internazionali, di better regulation,
e ai rapporti tra codice e suoi atti attuativi.
Il codice va analizzato anzitutto secondo i parametri della
qualità formale della regolamentazione.
Sotto il profilo della completezza del riordino, si chiede
che si riproducano e/o abroghino tutte le fonti previgenti,
secondo il primato dell’abrogazione espressa su quella
tacita; andrà (prima o poi) riordinata nel codice anche la
legislazione di contabilità di Stato, ormai “ultranovantenne”.
Si auspica (futura) stabilità normativa, dovendosi evitare
modifiche continue delle disposizioni sugli appalti; a tal
fine, non essendo sufficiente, se non come monito morale ed
esegetico, la clausola di riserva di codice, andrebbero de
iure condendo utilizzati strumenti quali la legge annuale
sugli appalti, o apposite sessioni parlamentari.
Il codice deve rispettare il canone della chiarezza formale,
declinata come:
- chiarezza del linguaggio utilizzato, univoco e coerente
con l’intero ordinamento giuridico nazionale;
- chiarezza dei singoli articoli, che devono essere snelli e
sintetici; “peccano” per eccesso l’art. 3 del codice,
con 83 definizioni, enumerate arrivandosi fino alla lettera
vvvv), e il comma 7 dell’art. 93, articolato in sei lunghe
frasi a loro volta composte di numerosi periodi sintattici;
- coerenza interna del codice, quanto a rinvii interni,
definizioni, rubriche degli articoli;
- coerenza esterna del codice, con definizioni e norme
contenute in altre discipline settoriali, vigenti o in corso
di approvazione, quali il codice dell’amministrazione
digitale, della trasparenza, la disciplina delle società
pubbliche, il codice dei beni culturali, il codice penale,
il testo unico del casellario giudiziale, la legge quadro
sul procedimento amministrativo.
Il codice e i suoi atti attuativi. Natura
degli atti attuativi di soft law
Il codice va analizzato anche secondo il parametro della
qualità sostanziale della regolamentazione.
Si condivide l’abbandono del modello dell’unico regolamento
di attuazione, che sinora non ha dato buona prova (per iper
regolamentazione di dettaglio e tempi lunghi di adozione).
Si esprime preoccupazione per l’attuazione del codice
affidata a oltre 50 atti attuativi, analiticamente censiti.
Anche gli atti attuativi dovranno attenersi al divieto di
gold plating.
Sarà necessario un costante monitoraggio e verifica di
impatto della nuova disciplina codicistica, anche per i
futuri correttivi.
Si richiede che la cabina di regia istituita presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri elabori un piano di
azione della fase attuativa del codice, coordinando gli
interventi di competenza dei diversi Ministeri, assicurando
la tempestiva e ordinata attuazione, e evitando
sovrapposizioni e duplicazioni.
La cabina di regia dovrà avere un ruolo cruciale anche per
il monitoraggio e la verifica di impatto del codice.
Una seria verifica di impatto richiede un tempo minimo di
due anni: il termine per l’adozione dei correttivi, fissato
in un anno, appare troppo breve, e si auspica che il
Parlamento possa portarlo a due anni.
Si ipotizza un doppio ruolo dei decreti correttivi: un
correttivo in senso “atecnico” per emendare da subito
errori inevitabili stante la complessità dell’attuazione
della delega e i tempi stretti; uno o più correttivi in
senso “tecnico” dopo un congruo e effettivo periodo
di monitoraggio e verifica di impatto della
regolamentazione.
Gli atti attuativi, dopo l’adozione, devono essere raccolti
in testi unici da ciascuna Autorità competente (in
particolare MIT e ANAC).
Nella fase attuativa il Consiglio di Stato potrà esplicare
la sua funzione consultiva mediante risposta a quesiti
specifici o parere sui singoli atti attuativi.
Il delicato tema della natura giuridica della c.d. soft
law, va affrontato analizzando le tre tipologie di linee
guida previste dalla delega, tutte, secondo la delega,
giustiziabili davanti al giudice amministrativo.
I decreti ministeriali contenenti le linee guida adottate su
proposta dell’ANAC, e sottoposti a parere delle commissioni
parlamentari, sono veri e propri regolamenti, che seguiranno
lo schema procedimentale disegnato dall’art. 17, legge n.
400 del 1988 (ivi compreso il parere del Consiglio di
Stato).
Le linee guida “vincolanti” dell’ANAC, sono (non
regolamenti, bensì) atti di regolazione di un’Autorità
indipendente, che devono seguire alcune garanzie
procedimentali minime: consultazione pubblica, metodi di
analisi e di verifica di impatto della regolazione,
metodologie di qualità della regolazione, compresa la
codificazione, adeguata pubblicità e pubblicazione, se del
caso parere (facoltativo) del Consiglio di Stato.
Le linee guida non vincolanti dell’ANAC avranno un valore di
indirizzo a fini di orientamento dei comportamenti di
stazioni appaltanti e operatori economici.
Nel “regolamento di confini” tra materie assegnate
alle linee guida ministeriali e alle linee guida dell’ANAC,
la qualificazione, attenendo a requisiti e status
soggettivi, è tipicamente affidata a regole generali e
astratte che completano le norme di rango primario, e
dovrebbe essere affidata a fonte regolamentare, quali sono i
decreti ministeriali. La competenza dell’ANAC troverebbe
comunque piena esplicazione attraverso il potere di
proposta, essendo la proposta un atto tipico che
predetermina il contenuto del provvedimento finale.
La disciplina transitoria
Un ultimo, ma non per ordine di importanza, problema di
carattere generale è quello della fase transitoria. Essendo
molteplici gli atti attuativi del codice che dovranno
sostituire l’attuale, pressoché unico, regolamento generale,
è auspicabile che detto regolamento non sia abrogato con
effetto immediato, il che creerebbe un vuoto normativo, ma
dalla data di adozione dei singoli atti attuativi (che
opereranno una ricognizione delle disposizioni sostituite) e
comunque con una “ghigliottina” allo scadere di due
anni (circa) dall’entrata in vigore del codice.
Questioni specifiche maggiormente rilevanti
Riguardo alle disposizioni più rilevanti dell’articolato, il
Consiglio di Stato ha richiesto che:
Ø sia espunta la previsione che fa salve speciali
disposizioni vigenti per amministrazioni, organismi e organi
dello Stato dotati di autonomia finanziaria e contabile,
apparendo generica, eccentrica, non conforme alle direttive
e alla legge delega (art. 1);
Ø la regola di riparto di competenze legislative tra Stato e
Regioni sia flessibile e coerente sia con il vigente che con
il futuro art. 117 Cost. (art. 2);
Ø le definizioni siano chiare, leggibili, coerenti con gli
articoli specifici (art. 3);
Ø l’in house sia meglio coordinato con la disciplina (in
itinere) sui limiti alla costituzione delle società
pubbliche (artt. 5 e 192);
Ø vi sia prudenza nel tasso di semplificazione degli
affidamenti sotto soglia e dei contratti esclusi, che
potrebbe esitare in una riduzione eccessiva di concorrenza e
trasparenza; alla gara informale si invitino almeno cinque
concorrenti (artt. 4 e 36);
Ø l’obiettivo, innovativo e centrale, della riduzione del
numero delle stazioni appaltanti, attraverso la loro
qualificazione e centralizzazione obbligatorie, sia
perseguito con determinazione, mediante una celere adozione
degli atti attuativi, e salvaguardando meglio le piccole e
medie imprese nei confronti della grande committenza (artt.
37-41);
Ø la disciplina dei requisiti morali dei concorrenti abbia
maggior rigore, mediante ampliamento del novero delle
condanne penali ad effetto escludente e mediante ripescaggio
di altre fattispecie escludenti previste dal vecchio codice
(art. 80);
Ø la disciplina dei requisiti reputazionali non sia punitiva
degli operatori che esercitano in modo legittimo e non
emulativo o pretestuoso il diritto di difesa in giudizio
(art. 84);
Ø il soccorso istruttorio sia chiaro nei suoi presupposti e
limiti, e non sia mai oneroso (art. 83);
Ø la qualificazione degli operatori economici sia affidata a
principi codicistici e regole attuative (di natura
sostanzialmente regolamentare) chiare; il sistema SOA sia
ripensato all’esito della revisione straordinaria affidata
all’ANAC (artt. 83 e 84);
Ø sia chiaro il coordinamento tra codice appalti e codice
della disciplina antimafia (art. 80);
Ø la disciplina dell’avvalimento, sia completata con la
previsione del contratto di avvalimento, mentre è corretta
la mancata riproduzione dei divieti di avvalimento plurimo,
frazionato, e infra-ATI (art. 89);
Ø il preferenziale criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa non sia vanificato da fughe elusive nel criterio
del prezzo più basso, e sia garantito per tutti i servizi a
contenuto intellettuale (art. 95);
Ø nella disciplina delle offerte anomale si ripristinino
garanzie procedimentali minime della fase di verifica in
contraddittorio, e si valuti il ripristino dell’esclusione
automatica per le offerte anomale sotto soglia; si
ripristini la facoltà di estendere la verifica di anomalia
anche a offerte che non superano la soglia matematica di
anomalia (art. 97);
Ø il principio di tendenziale separazione tra progettazione
e esecuzione non sia eluso mediante contratti atipici di
partenariato pubblico-privato (art. 180);
Ø le deroghe alla gara pubblica in caso di eventi di
protezione civile siano di stretta interpretazione e
limitate allo stretto necessario; sia circoscritto il
presupposto della previsione di un evento imminente, che non
può che essere una previsione fondata su parametri
scientifici e riferita alla probabile oltre che imminente
verificazione dell’evento; siano abrogate espressamente le
previgenti regole derogatorie specifiche dettate per singoli
eventi (artt. 63 e 163);
Ø per gli appalti nei settori speciali, sia chiaro e
definito il regime derogatorio; mentre è corretta
l’estensione di disposizioni di maggior rigore a tutela
della trasparenza, della partecipazione e della concorrenza,
sia chiarito l’ambito della disciplina applicabile alla fase
di esecuzione (artt. 114 ss.);
Ø nelle concessioni il rischio sia l’effettivo elemento
differenziale dall’appalto; si valuti il completamento
dell’attuazione della delega in tema di concessioni
autostradali (ivi compresi il divieto di proroga e l’avvio
tempestivo delle procedure di gara) e obblighi di
esternalizzazione (artt. 164, 165, 177, 178);
Ø nella cornice generale del partenariato pubblico-privato
siano chiari la definizione, l’ambito, la portata del
rischio e l’ambito della progettazione a carico del partner
privato (art. 180);
Ø il precontenzioso sia disciplinato con modalità chiare,
per evitare che si generi un “contenzioso sul
precontenzioso” (art. 211);
Ø la decisione dell’ANAC resa in sede precontenziosa
sull’accordo delle parti, che vincola le parti, sia
impugnabile entro un termine breve, e si preveda che il
giudice valuterà la condotta della parte soccombente ai fini
della lite temeraria (art. 211);
Ø si rimoduli il potere dell’ANAC di sollecito
dell’autotutela delle stazioni appaltanti, trasformandolo da
potere sanzionatorio a potere impugnatorio secondo il
modello AGCM (controllo collaborativo) (art. 211);
Ø l’immediata impugnazione degli atti di ammissione e
esclusione dalle gare sia accompagnata da tempi certi di
conoscenza e accesso agli atti; si valuti una riduzione
della misura del contributo unificato; non si sopprima la
tutela cautelare nel rito superspeciale (artt. 204, 29, 76);
Ø il dibattito pubblico sia da subito obbligatorio, e si
chiarisca l’ambito dei soggetti ammessi al dibattito, mentre
è corretta l’estensione dell’istituto ai settori speciali
(art. 22).
Altre questioni specifiche
Riguardo alle disposizioni più rilevanti dell’articolato, il
Consiglio di Stato ha richiesto che:
Ø non si restringano eccessivamente i tempi per la verifica
preventiva di interesse archeologico (art. 25);
Ø nella scansione delle fasi delle procedure di affidamento,
si elimini ogni riferimento all’aggiudicazione provvisoria e
definitiva, da qualificare, più propriamente, e
rispettivamente, come proposta di aggiudicazione e
aggiudicazione tout court (art. 32);
Ø non si eludano le regole dello stand-still
nell’avvio di urgenza dell’esecuzione del contratto (art.
32);
Ø sia chiaro l’uso delle espressioni sotto soglia, sopra
soglia, pari alla soglia (art. 35 e articoli che lo
richiamano);
Ø nella scelta delle procedure sia meglio chiarito il
rapporto tra regola (procedure aperte e ristrette) e
eccezioni (procedure negoziate con e senza bando, dialogo
competitivo, partenariato per l’innovazione) (art. 59);
Ø nella procedura negoziata senza bando per ragioni di
estrema urgenza a causa di eventi imprevedibili non si
menzionino tipi nominati, quali le bonifiche e la protezione
civile, che non possono essere ipotesi aggiuntive, ma solo
esemplificative (art. 63);
Ø nel dialogo competitivo non sia ricopiata la vecchia
definizione non più attuale (artt. 3 e 64);
Ø nella disciplina dell’albo dei commissari di gara si
fissino per legge i principi sui requisiti dei commissari
(artt. 77 e 78);
Ø siano meglio precisati i presupposti per la partecipazione
alle gare e per la prosecuzione dei contratti in caso di
sottoposizione dell’operatore economico a procedure
concorsuali (art. 110);
Ø sia espressamente motivato nell’AIR il divieto di
avvalimento per gli appalti nel settore dei beni culturali
(art. 146);
Ø nella cessione di immobili pubblici in cambio di opere sia
meglio circoscritta e garantita la possibilità di
trasferimento della proprietà del bene pubblico prima del
completamento dei lavori (art. 191);
Ø nella disciplina del contraente generale siano più chiari
deroghe e rinvii alla disciplina generale, e si valuti la
competenza transitoria sul sistema di qualificazione (artt.
194 ss.);
Ø le discipline transitorie contenute nel codice siano tutte
accorpate in un unico articolo finale (art. 216);
Ø sia integrato l’elenco delle abrogazioni espresse con una
puntuale ricognizione del quadro normativo vigente (art.
217) (Consiglio di
Stato, Commissione Speciale,
parere
01.04.2016 n. 855
- tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il Cds boccia la riforma Scia. Ignoti i procedimenti
soggetti ai diversi istituti di verifica.
Palazzo Spada: al buio segnalazione, silenzio-assenso,
autorizzazione e comunicazione.
Parere negativo del consiglio di stato sullo schema di dlgs
relativo alla Scia approvato lo scorso 20.01.2015 dal
consiglio dei ministri. In quanto manca, la «precisa
individuazione» dei procedimenti soggetti a Scia, a silenzio-assenso, ad autorizzazione espressa e a comunicazione
preventiva. Tale individuazione viene espressamente rinviata
a successivi decreti legislativi ma, almeno dal punto di
vista ricognitivo, è uno degli oggetti principali della
delega.
Dopo che la Conferenza unificata del 03.03.2016
aveva espresso parere favorevole all'intesa sul decreto
legislativo che riforma la «Scia» arriva adesso il parere
negativo del Consiglio di stato espresso dall'adunanza della
commissione speciale (parere 30.03.2016 n. 839).
La
conclusione per il Consiglio di stato è che il testo del
decreto legislativo vada riscritto recependo i rilievi
presentati e che il nuovo testo le venga sottoposto per un
nuovo parere.
Individuazione procedimenti soggetti a Scia. La commissione
speciale del Consiglio di stato evidenzia che lo schema del dlgs sulla Scia, sceglie di non esercitare una parte
importante della delega: manca, infatti, la «precisa
individuazione» dei procedimenti soggetti a Scia, a silenzio-assenso, ad autorizzazione espressa e a comunicazione
preventiva, che viene espressamente rinviata ai successivi
decreti legislativi ma che, almeno dal punto di vista
ricognitivo, appare come uno degli oggetti principali della
delega.
Sarebbe stato auspicabile che l'attuazione della
delega, preferibilmente con un unico decreto legislativo,
non prescindesse dalla pur non facile opera di ricognizione
e classificazione dei procedimenti, di indiscutibile utilità
per il cittadino chiamato a orientarsi tra le nuove
potenzialità della liberalizzazione delle attività
economiche e il permanente potere di intervento delle
pubbliche amministrazioni, con le sue diverse tipologie.
Un'opera che dovrà essere portata a termine, a tempo debito,
tenendo conto, comunque, dei «princìpi del diritto
dell'Unione europea relativi all'accesso alle attività di
servizi» e di quelli di «ragionevolezza e proporzionalità»,
al fine di tracciare un percorso riconfigurativo del
complesso delle norme regolatrici dei rapporti tra poteri
delle pubbliche amministrazioni e attività private.
I
«regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti
solo se giustificati da motivi imperativi di interesse
generale, nel rispetto dei princìpi di non discriminazione,
di proporzionalità», costituendo il regime autorizzatorio
l'eccezione, che deve essere adeguatamente motivata.
Silenzio-assenso e comunicazione preventiva.
Un'altra parte della delega che non risulta esercitata è
quella relativa alla disciplina generale del silenzio
assenso e della comunicazione preventiva, di cui alla parte
finale del comma 1 dell'articolo 5 della legge n. 124 del
2015.
Ad essa, sostiene la commissione del Consiglio di stato, non
si fa alcun riferimento nello schema di decreto legislativo
(nemmeno nel titolo), ancorché anch'essa sia espressamente
prevista come oggetto della delega. Manca, in particolare,
la previsione dell'obbligo di comunicazione ai soggetti
interessati dei «termini entro i quali l'amministrazione
è tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio
dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda».
I giudici del Consiglio di stato invitano, pertanto, il
Governo a valutare l'opportunità di intervenire, almeno
limitatamente ai suddetti aspetti, integrando la modulistica
e prevedendo la conoscibilità dei detti elementi per il
tramite dei siti istituzionali delle pubbliche
amministrazioni
(articolo ItaliaOggi del 02.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
I punti principali del parere del Consiglio di Stato sullo
schema di “decreto scia” [Schema di decreto
legislativo recante attuazione della delega di cui
all’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)].
---------------
1. Le raccomandazioni generali sulla
riforma di cui alla legge n. 124 del 2015
Il Consiglio di Stato riprende le considerazioni generali
sulla importanza di una “riforma organica” della pubblica
amministrazione di cui alla legge n. 124 del 2015 e sulla
necessità di una ‘visione nuova’ della pubblica
amministrazione, già esposte nel parere del 18.02.2016 (n.
343/2016), sul “decreto trasparenza”, e ribadisce
soprattutto:
• la rilevanza cruciale dell’implementazione della riforma,
anche dopo l’approvazione dei decreti attuativi;
• l’importanza, in particolare, della creazione di una
cabina di regia per l’attuazione ‘in concreto’, che
curi anche gli strumenti ‘non normativi’ di
intervento (quali: la formazione dei dipendenti incaricati
dell’attuazione, la comunicazione istituzionale a cittadini
e imprese sui loro nuovi diritti, l’adeguata
informatizzazione dei procedimenti, etc.);
• l’importanza della “manutenzione” della riforma,
attraverso una fase di monitoraggio e verifica dell’impatto
delle nuove regole, nonché con la definizione, se del caso,
di decreti correttivi, o di quesiti attuativi da porre al
Consiglio di Stato.
2. La SCIA si riferisce ad attività ‘libere’
e non richiede alcun intervento preventivo della p.a.
Il parere opera una ricostruzione dell’evoluzione
dall’istituto della SCIA e ne ricava indicazioni di
principio, che possono indirizzare la successiva attività
attuativa e interpretativa. Si conferma che le attività
soggette a SCIA:
• sono ‘libere’, ‘consentite direttamente dalla
legge’ in presenza dei presupposti normativamente
stabiliti, senza più spazio per alcun potere di assenso
preventivo della p.a.;
• sono ‘conformate’ dalle leggi amministrative, e
quindi sottoposte a successiva verifica dei requisiti da
parte delle autorità pubbliche, entro un termine stabilito.
3. Le parti della delega non esercitate
Il Consiglio di Stato rileva il mancato esercizio di due
profili della delega:
- la ricognizione dei procedimenti soggetti a SCIA, a
silenzio-assenso, ad autorizzazione espressa e a
comunicazione preventiva (indicata, invece, tra gli oggetti
principali della delega). Tale “precisa individuazione”
–richiesta dalla delega– va assolutamente effettuata con
successivo decreto;
- la previsione dell’obbligo di comunicare ai soggetti
interessati i “termini entro i quali l’amministrazione è
tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio
dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda”.
Tale adempimento può svolgersi già con il decreto in
oggetto.
4. L’opportunità di novellare direttamente
l’art. 19 della legge n. 241 del 1990
Il Consiglio di Stato suggerisce di introdurre le
innovazioni della disciplina generale in materia di SCIA non
in un decreto a sé, ma novellando direttamente l’articolo 19
della l. n. 241: la concentrazione della disciplina dello
stesso istituto nella stessa legge la rende più sistematica
e più facilmente conoscibile.
5. Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti
tra cittadini e pubbliche amministrazioni: i rapporti si
consolidano dopo 18 mesi
Il parere ritiene che la legge n. 124 del 2015 abbia
introdotto un ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra
cittadino e pubblica amministrazione, prevedendo un limite
massimo di 18 mesi all’intervento “in autotutela”,
dopo il quale si consolidano le situazioni dei privati.
Secondo il Consiglio di Stato, il legislatore del 2015 ha
fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti
a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse
dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere
pubblico nell’interesse dei cittadini, valorizzando il
principio di affidamento.
Tale ‘regola generale’ si rinviene nel nuovo testo
dell’art. 21-nonies della legge n. 241.
6. Le applicazioni di tale ‘nuovo
paradigma’ in materia di SCIA
Il ‘nuovo paradigma’ si applica anche alla SCIA, ma
in modo diverso.
Difatti, per la SCIA non può parlarsi di ‘autotutela’
in senso tecnico, poiché essa costituisce un provvedimento ‘di
secondo grado’ ed esso appare impossibile per la SCIA,
dove il provvedimento iniziale manca del tutto.
Il nuovo art. 21-nonies detta piuttosto, per la SCIA, la ‘disciplina
di riferimento’ per l’esercizio del potere ex post
dell’amministrazione: un potere inibitorio, repressivo o
conformativo da esercitarsi solo motivando sulle ragioni di
interesse pubblico e sugli interessi dei destinatari e dei
controinteressati oltre che, ovviamente, entro un termine
comunque non superiore a 18 mesi per adottare il
provvedimento definitivo.
7. Le perduranti esigenze di coordinamento
per il legislatore delegato
Questo importante principio generale impone un’opera di
raccordo con il resto della disciplina in materia di SCIA,
per fugare i dubbi interpretativi che iniziano a emergere in
dottrina e in giurisprudenza.
Tale intervento può essere fornito sia con una integrazione
dello schema in esame sia con un successivo provvedimento.
Tra le varie questioni, il Consiglio di Stato segnala la
necessità di precisare:
- quale sia il dies a quo per la decorrenza dei
diciotto mesi dell’art. 21-nonies;
- se il limite temporale massimo di cui all’art. 21-nonies
debba applicarsi o meno anche all’intervento in caso di
sanzioni per dichiarazioni mendaci ex art. 21, comma 1,
della l. n. 241;
- che, in fase di prima applicazione della riforma, il
termine generale dell’art. 21-nonies debba valere per tutti
i provvedimenti, anche precedenti all’entrata in vigore
della legge n. 124, sembrando infondata l’interpretazione di
una sorta di ‘rimessione in termini’
dell’amministrazione ad opera della riforma;
- che la regola generale dell’art. 21-nonies si applichi
anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti di “annullamento”,
ma di “revoca”, “risoluzione”, “decadenza”
o analoghe;
- quale sia la esatta delimitazione della (unica)
fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall’art.
21-nonies, comma 2-bis.
8. Il ‘principio di concentrazione e di
esaustività della modulistica’
Il parere ritiene molto rilevante la previsione di “moduli
unificati e standardizzati” per la SCIA, da pubblicare
sui siti istituzionali delle amministrazioni destinatarie
delle segnalazioni, che ne indichino esaustivamente i
contenuti tipici, ma anche tutta la documentazione da
allegare.
Se ne ricava, a livello interpretativo, un ‘principio di
concentrazione e di esaustività della modulistica’, che
impone che:
- i moduli siano effettivamente ‘unificati’ ed ‘esaustivi’,
e non rinviino di fatto ad altri formulari presso altre
amministrazioni;
- si introduca un chiaro divieto di richiesta di
documentazione ulteriore rispetto a quella indicata dai
moduli unificati: tutta la documentazione necessaria deve
essere indicata ‘a monte’ nel modulo unificato; eventuali
richieste istruttorie potranno solo evidenziare la mancata
corrispondenza degli allegati presentati con quelli previsti
in quella sede, non chiedere ulteriori documenti non
indicati ex ante.
9. L’importanza di una ‘SCIA unica’
Il parere esprime il suo apprezzamento per la scelta di
regolare la fattispecie, finora non normata, di attività
soggette a SCIA che, tuttavia, per il loro svolgimento,
necessitano di “altre SCIA, comunicazioni, attestazioni,
asseverazioni e notifiche” (cd. SCIA ‘plurima’).
La disciplina si ispira correttamente alla “concentrazione
dei regimi” delle SCIA presupposte presso la SCIA
finale. Resta, invece, ancora non risolto il caso in cui la
SCIA abbia come presupposto non soltanto ‘requisiti di
fatto’, bensì uno o più provvedimenti di autorizzazione.
Il Consiglio di Stato configura tre diverse opzioni, in
parte anche cumulabili fra loro, che consistono in:
- escludere espressamente tali fattispecie dalla SCIA,
concentrandosi solo sulla cd. ‘SCIA pura’;
- considerare anche i casi di ‘SCIA non pura’ e
imporre esplicitamente che la presentazione della SCIA possa
avvenire soltanto una volta acquisito l’atto autorizzativo
presupposto, ‘a cura del privato’;
- prevedere che la presentazione della SCIA attivi un
meccanismo per l’ottenimento dell’autorizzazione ‘a cura
dell’amministrazione ricevente’, rinviando però l’avvio
dell’attività al momento di tale ottenimento (trasformando
di fatto, in questi casi, la ‘segnalazione di inizio di
attività’ in una sorta di ‘richiesta di inizio di
attività’, che potrebbe essere un modello complementare
rispetto a quello della ‘SCIA pura’).
Tutte e tre queste soluzioni richiedono comunque un
intervento sul decreto in oggetto: la scelta fra queste (e
la preferenza tra i rispettivi vantaggi e svantaggi) va
lasciata alla potestà normativa del Governo, che deve tener
conto delle esigenze pratiche dei destinatari della riforma
(Consiglio di Stato, Commissione Speciale,
parere 30.03.2016 n. 839 - tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il risarcimento del danno da ritardo, con particolare
riferimento all’onere della prova in materia di elemento
soggettivo.
La sussistenza del danno da ritardo non
può presumersi iuris tantum, in relazione al mero
“superamento” del termine fissato per l’adozione del
provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato
deve, ex art. 2697 c.c., provarne i presupposti sia di
carattere oggettivo (sussistenza del danno e del suo
ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di
carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).
La prova dell’elemento soggettivo della fattispecie
risarcitoria deve considerarsi raggiunta a fronte della
dimostrazione di un esito favorevole del procedimento (con
conseguimento da parte del privato del bene della vita
richiesto) e a fronte di una palese ed oggettiva
inosservanza dei termini procedimentali, non giustificata da
parte dell’Amministrazione, né in sede procedimentale né in
sede giudiziale, con riferimento a difficoltà oggettive di
tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare
trattato.
---------------
Con la
sentenza 25.03.2016 n. 1239 (in commento) la V
Sez. del Consiglio di Stato ha ribadito principi consolidati
nella giurisprudenza amministrativa in relazione alla
riconducibilità della fattispecie del danno da ritardo a
quella di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente
applicazione rigorosa del principio dell’onere della prova
in capo al danneggiato, circa la sussistenza di tutti i
presupposti oggettivi e soggettivi dell’illecito (si veda
ex multis Cons. St., sez. V, 13.01.2014, n. 63; sez. IV,
07.03.2013, n. 1406; sez. IV, 04.05.2011, n. 2675; nonché,
più di recente, sez. V, 10.02.2015, n. 675, che ha precisato
come nell'azione di responsabilità per danni il principio
dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697, primo
comma, c.c., opera con pienezza e non è temperato dal metodo
acquisitivo proprio dell'azione di annullamento).
Si trattava, nel caso in esame, di un procedimento di VIA
per l’autorizzazione ad un ampliamento di un impianto di
smaltimento e recupero di rifiuti non pericolosi, conclusosi
con un ritardo di 154 giorni rispetto al termine indicato
dall’art. 20 del Codice dell’ambiente, ritardo calcolato
tenuto conto dell’interruzione del procedimento, dovuta alla
comunicazione ex art. 10-bis l. 241/1990.
In particolare, la sentenza in commento ha rilevato che, nel
caso di specie, dovesse ritenersi raggiunta la prova
dell’elemento soggettivo della colpa in capo alla PA
procedente, una volta dimostrato l’esito favorevole del
procedimento e l’oggettiva inosservanza dei termini del
procedimento, senza che l’amministrazione avesse, né in sede
procedimentale né giudiziale giustificato tale ritardo con
riferimento a difficoltà oggettive di tipo tecnico o
organizzativo rispetto al concreto affare trattato.
Quanto alla selezione dei danni risarcibili, la sentenza ha
fatto riferimento al mancato guadagno dell’imprenditore,
dimostrata in via presuntiva con riferimento alla differenza
tra l’utile risultante dal bilancio del 2012 e quello
derivante dal trattamento della maggiore quantità di
rifiuti, secondo la richiesta autorizzazione.
Occorre subito premettere che la fattispecie di danno da
ritardo in esame è quella per tardiva adozione di
provvedimento favorevole, con preventivo accertamento della
spettanza del bene della vita richiesto. La VIA, infatti,
ancorché il relativo procedimento si era tardivamente
concluso, era stata favorevole all’interessato, e
l’autorizzazione all’ampliamento conseguentemente concessa.
Tale forma di tutela risarcitoria sostanzialmente coincide
–come rilevato dalla stessa sentenza– con il risarcimento
dell’interesse legittimo pretensivo (cfr. Cons. St., sez. V,
13.01.2014, n. 63).
Da essa va, dunque, distinta la diversa e controversa figura
del danno da mero ritardo, con la quale, secondo
un’opinione, minoritaria in giurisprudenza, si potrebbero
risarcire i danni derivanti dal puro e semplice superamento
dei termini di conclusione del procedimento, a prescindere
dall’accertamento della spettanza del bene della vita finale
(si rinvia sul punto alla
rassegna monotematica a cura dell’Ufficio studi: il punto
sul danno da ritardo).
La fattispecie del danno da ritardo mero, infatti, muove dal
presupposto che il ritardo nella conclusione di un qualunque
procedimento è sempre un 'costo', dal momento che il
fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella
predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari
relativi a progetti imprenditoriali, condizionandone la
relativa convenienza economica; in questa prospettiva ogni
incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si
traduce nell'aumento del c.d. "rischio amministrativo"
(sulla risarcibilità del danno da ritardo mero, le prime
pronunce che si sono occupate della questione, per lo più
sotto forma diobiter dicta, sono le seguenti: C.g.a.,
sez. giurisdizionale, 04.11.2010 n. 1368; Cons. St., sez. V,
28.02.2011 n. 1271; C.g.a., sez. giur., 24.10.2011, n. 684;
v. inoltre più di recente: Cons. St., sez. III, 31.01.2014,
n. 468; sez. IV, 04.09.2013, n. 4452; sez. V, 21.06.2013, n.
3405; Tar Lecce, sez. III, 15.01.2014, n. 112; Tar L'Aquila
19.12.2013, n. 1064).
Secondo la giurisprudenza prevalente, tuttavia, come si è
detto, inquadrandosi la fattispecie nell’ambito del 2043
c.c. come risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo,
per accedere alla tutela risarcitoria occorre che vi sia una
lesione che incida sul bene della vita finale, il quale
funge da sostrato materiale dell'interesse legittimo e che
non consente di configurare la tutela di interessi c.d.
procedimentali puri, di mere aspettative o di ritardi
procedimentali (Cons. Stato, sez. V, 29.12.2014, n. 6407; v.
inoltre in generale sulla riconducibilità della fattispecie
all’art. 2043 c.c.: Cons. St., sez. V, 10.02.2015, n. 675;
sez. V, 21.11.2014, n. 5757; sez. V, 16.04.2014, n. 1860;
sez. V, 13.01.2014, n. 63; sez. IV, 28.05.2013, n. 2899;
sez. IV, 07.03.2013, n. 1406; sez. V, 21.06.2013, n. 3408).
E’ dunque pregiudiziale, per l’accoglimento della domanda
risarcitoria, l’accertamento della spettanza del bene della
vita richiesto dall’istante.
Pertanto, solo quando il procedimento sia da concludere con
un provvedimento favorevole per il destinatario o se
sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato
avrebbe dovuto ottenerlo, il solo ritardo nell’emanazione di
un atto è elemento sufficiente per configurare un danno “ingiusto”,
con conseguente obbligo di risarcimento (Cons. St., sez. V,
29.12.2014, n. 6407; sez. V, 13.01.2014, n. 63).
Va, tuttavia, rilevato che in altra isolata occasione, la
giurisprudenza ha invece valorizzato l’aspetto della
spettanza del bene della vita al fine della prova del nesso
di causalità tra il fatto illecito e l’evento dannoso,
configurando di contro il danno ingiusto come lesione
dell'interesse legittimo al rispetto dei termini
procedimentali (Cons. Stato, sez. VI, 14.11.2014, n. 5600).
Quanto alla questione dell’onere della prova, la sentenza si
pone in linea di continuità con la giurisprudenza
amministrativa ampiamente prevalente, secondo la quale
spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova
dell'esistenza di tutti i presupposti del danno da ritardo.
Infatti, se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno
subito e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo
di allegare circostanze di fatto precise, non potendosi, in
assenza di ciò, fare ricorso alla valutazione equitativa del
danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone
l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del
pre-giudizio subito, né può essere invocata una consulenza
tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato
assolvimento dell’onere di allegazione e prova da parte del
privato (il principio è stato per la prima volta affermato
da Cons. St., sez. V, 28.02.2011, n. 1271; v. inoltre ex
multis più di recente: Cons. St., sez. IV, 22.10.2015,
n. 4823; sez. III, 10.04.2015, n. 1839; sez. V, 10.02.2015,
n. 675; sez. IV, 18.11.2014, n. 5663; sez. V, 21.06.2013, n.
3405; sez. V, 21.06.2013, n. 3407).
Solo in rari casi, infatti, la giurisprudenza ha ammesso il
ricorso alla valutazione equitativa del danno (cfr. Tar
Latina (Lazio), sez. I, 28.11.2012, n. 892; Tar Bari
(Puglia), sez. III 04.05.2012 n. 923).
In particolare, per quanto alla prova dell’elemento
soggettivo, la giurisprudenza sostiene che essa non possa
derivare dal mero superamento del termine di conclusione del
procedimento (Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5143),
dovendosi dimostrare che il difettoso funzionamento
dell'apparato pubblico sia riconducibile ad un comportamento
gravemente negligente o ad una intenzionale volontà di
nuocere, in palese contrasto con i canoni di imparzialità e
buon andamento dell'azione amministrativa ovvero ad un
colpevole atteggiamento dilatorio addebitale a negligente
comportamento dell'apparato amministrativo (Cons. St., sez.
IV, 04.09.2013, n. 4452; Tar Napoli, sez. III, 03.07.2015,
n. 3580).
In particolare, si afferma che la colpa dell'amministrazione
possa essere riconosciuta solo in situazioni di
inescusabilità, in un contesto di circostanze che palesi
negligenza e imperizia, e di intenzionalità di agire in
violazione delle regole di buona amministrazione (Cons. St.,
sez. III, 06.05.2013, n. 2452 e con riferimento al danno da
ritardo Cons. St., sez. V, 17.06.2015, n. 3047).
Si segnala, in particolare, Tar Liguria, sez. II,
08.01.2016, n. 4, secondo la quale, la sola violazione del
termine massimo di durata del procedimento amministrativo di
per sé non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la
particolare complessità della fattispecie o il
sopraggiungere di evenienze non imputabili
all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa.
La sentenza in esame, tuttavia, ha –come si è detto-
ritenuto provata la colpa della amministrazione, con una
sorta di inversione dell’onere della prova, in quanto essa
non aveva giustificato, né in sede procedimentale né
giudiziale, le ragioni del ritardo.
In tema, si veda anche Cons. St., sez. IV, 07.04.2015, n.
1770, secondo il quale la colpa dell'Amministrazione va
esclusa in presenza di non contestate ragioni impeditive o
quantomeno scusanti al rilascio del provvedimento richiesto.
Infine, quanto alla tipologia di danni risarcibili,
trattandosi di una fattispecie di danno da ritardo previo
accertamento della spettanza del bene della vita, essi vanno
ricondotti alla perdita subita e al mancato guadagno, in
relazione appunto al bene della vita tardivamente
conseguito.
Nel caso di specie è stato liquidato unicamente il danno da
mancato guadagno.
Per quanto riguarda, invece, la prova del danno emergente,
la giurisprudenza ha recentemente rilevato che spetta
all'istante dimostrare, tra l'altro, che la mancata adozione
del provvedimento ha provocato nel suo patrimonio pregiudizi
che non si sarebbero verificati ove l'atto fosse stato
tempestivamente emanato (Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n.
5143)
E’ evidente, invece, che tali rigorosi oneri di allegazione
non si rinvengano nel caso in cui la pretesa al danno da
ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo
sia formulata in termini di indennizzo da mero ritardo di
cui all'art. 2-bis, comma 2, l. n. 241 del 1990, introdotto
dall’art. 28, d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con
modificazioni nella l. 09.08.2013, n. 98 ancorché in via
sperimentale e circoscritto solo ad alcune tipologie di
procedimenti (con estensione del rito speciale sancito
dall’art. 117 c.p.a.).
In tali casi, il ristoro è configurabile per il solo decorso
del termine, anche in casi di situazioni fortuite, di forza
maggiore, errore scusabile e prescinde anche dall'elemento
della colpa (Cons. St., sez. IV, 13.10.2015, n. 4712)
(tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Secondo
la giurisprudenza della Sezione, il solo ritardo
nell'emanazione di un atto è elemento sufficiente per
configurare un danno “ingiusto”, con conseguente obbligo di
risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo
di un interesse pretensivo dell'amministrato, quando tale
procedimento sia da concludere con un provvedimento
favorevole per il destinatario o se sussistano fondate
ragioni per ritenere che l'interessato avrebbe dovuto
ottenerlo.
E’ pur vero che un consistente
indirizzo giurisprudenziale riconnette l’accertamento del
danno da ritardo ovvero del danno derivante dalla tardiva
emanazione di un provvedimento favorevole, da un lato
al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, per
l'ontologica natura delle posizioni fatte valere,
dall'altro, in ossequio al principio dell'atipicità
dell'illecito civile, alla fattispecie dell'art. 2043 c.c.
per l'identificazione degli elementi costitutivi della
responsabilità.
Di conseguenza, l'ingiustizia e la sussistenza stessa del
danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris
tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo
nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole,
ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli
elementi costitutivi della relativa domanda.
In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei
presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del
suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia
di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del
danneggiante): in sostanza, il mero "superamento" del
termine fissato ex lege o per via regolamentare alla
conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo,
ma non integra "piena prova del danno".
--------------
3. Pertanto, il nucleo della contestazione della Regione
appellante si incentra sulla responsabilità civile
riconosciuta dal TAR e discendente dal cd. danno da ritardo.
In proposito, deve rammentarsi che secondo la giurisprudenza
della Sezione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato,
sez. V, 13.01.2014, n. 63), il solo ritardo nell'emanazione
di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno “ingiusto”,
con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di
procedimento amministrativo lesivo di un interesse
pretensivo dell'amministrato, quando tale procedimento sia
da concludere con un provvedimento favorevole per il
destinatario o se sussistano fondate ragioni per ritenere
che l'interessato avrebbe dovuto ottenerlo.
Nel caso in esame, in primo grado il TAR ha rilevato
espressamente che, dalle memorie depositate in prime cure
successivamente, è sopravvenuto il decreto di VIA favorevole
al richiesto ampliamento e tale circostanza non è contestata
in sede di appello, con conseguente acquisita prova del
danno ingiusto.
E’ pur vero che un consistente indirizzo giurisprudenziale
riconnette l’accertamento del danno da ritardo ovvero del
danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento
favorevole, da un lato al danno da lesione di
interessi legittimi pretensivi, per l'ontologica natura
delle posizioni fatte valere, dall'altro, in ossequio
al principio dell'atipicità dell'illecito civile, alla
fattispecie dell'art. 2043 c.c. per l'identificazione degli
elementi costitutivi della responsabilità.
Di conseguenza, l'ingiustizia e la sussistenza stessa del
danno non possono, in linea di principio, presumersi
iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al
ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo
favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c.,
provare tutti gli elementi costitutivi della relativa
domanda (si veda ex multis Consiglio di Stato, sez.
IV, 04.05.2011, n. 2675).
In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei
presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del
suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia
di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del
danneggiante): in sostanza, il mero "superamento" del
termine fissato ex lege o per via regolamentare alla
conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo,
ma non integra "piena prova del danno".
Nel caso in esame, tuttavia, a fronte della dimostrazione di
un esito favorevole del provvedimento finale, che ha
consentito al privato l’ottenimento del bene della vita,
ovvero l’ampliamento dell’attività economica da esso
gestita, e a fronte di una palese ed oggettiva inosservanza
dei termini procedimentali non giustificata da rilievi da
parte dell’Amministrazione, in sede procedimentale, ovvero
in sede giudiziale, di difficoltà oggettive di tipo tecnico
o organizzativo rispetto al concreto affare trattato, deve
considerarsi raggiunta la prova dell’elemento soggettivo
della fattispecie risarcitoria.
D’altra parte, la spessa Regione appellante, in appello,
muove contestazioni legate ad una mancata considerazione
degli elementi di cui all’art. 1227 c.c. che è del tutto
generica e priva di concreti appigli fattuali.
Peraltro, in un caso come quello di specie, in cui è
dimostrato l’esito favorevole del provvedimento finale, che
ha consentito al privato l’ottenimento del bene della vita,
e l’oggettiva inosservanza dei termini procedimentali non si
vede come possa in altro modo il privato che aspiri al
risarcimento del danno dimostrare l’elemento colpa della
P.A.
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.03.2016 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Il Collegio, al fine di verificare la sussistenza
dell’interesse ad agire, ritiene necessario focalizzare le
due condizioni dell’azioni (legittimazione ad
agire ed interesse ad agire) alla luce degli arresti
della giurisprudenza amministrativa in materia di
impugnazione di piani di governo del territorio.
Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad
impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti
con l'area interessata ad un intervento edilizio in ragione
della semplice "vicinitas", trovandosi, il terzo in una
situazione di stabile collegamento con la zona interessata
dall'edificazione, senza che sia necessario dimostrare
ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato
alla tutela giurisdizionale, giacché tale situazione vale a
differenziare una posizione di interesse qualificato
rispetto al "quisque de populo".
La citata giurisprudenza è stata integrata da pronunce che
contemperano il criterio della “vicinitas” con quello
dell'interesse ad agire, affermandosi che la legittimazione
attiva sussiste ogni qual volta le previsioni del piano
territoriale, pur concernenti un'area non di appartenenza
del ricorrente, incidano negativamente sul bene di proprietà
o in godimento del vicino sì da comprometterne la fruizione
o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall'approvazione e
dall'esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al
ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai
molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua
sfera giuridica.
Ai fini del radicamento delle condizioni dell’azione è
necessario che per i vicini si verifichi una specifica
lesione alla loro sfera giuridica, che si concretizza e si
attualizza immediatamente -e quindi a prescindere dalla
richiesta e dal rilascio del titolo edilizio- nella
sussistenza di un pregiudizio di natura economico
patrimoniale comunque derivante per il bene.
---------------
1.- Oggetto principale del presente giudizio sono i
provvedimenti con i quali il Comune di Castel di Sangro, in
accoglimento delle istanza delle cooperative
controinteressate, ha approvato una variante al P.E.E.P.
approvato nel 1995.
I ricorrenti, quali assegnatari di una porzione del lotto U6
del P.E.E.P. lamentano che l’invocata variante arrecherebbe
un pregiudizio alle potenzialità edificatorie del lotto loro
assegnato e ancora da edificare, in termini di riduzione di
dimensioni, volumetria e superficie coperta realizzabile.
2.- In via preliminare, il ricorso va dichiarato in parte
improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse nei
confronti del ricorrente Sa.Pe., il quale ha dichiarato di
non avere più interesse alla decisione del ricorso nel
merito, per aver effettuato la cessione volontaria al Comune
della quota di proprietà delle particelle 1077, 1078 e 1079
e per aver raggiunto con l’ente locale un accordo
transattivo.
In simili casi, non avendo né il potere di procedere
d’ufficio né quello di sostituirsi al ricorrente nella
valutazione dell’interesse ad agire, il giudice è tenuto
alla declaratoria dell’improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse (v., ex multis,
Cons. giust. amm. Reg. Sic. 05.09.2008 n. 708).
3.- Con riferimento agli altri ricorrenti, il Collegio, al
fine di verificare la sussistenza dell’interesse ad agire,
ritiene necessario focalizzare le due condizioni
dell’azioni (legittimazione ad agire ed
interesse ad agire) alla luce degli arresti della
giurisprudenza amministrativa in materia di impugnazione di
piani di governo del territorio.
Secondo un preciso orientamento la legittimazione ad
impugnare va riconosciuta ai proprietari di fondi confinanti
con l'area interessata ad un intervento edilizio in ragione
della semplice "vicinitas", trovandosi, il terzo in
una situazione di stabile collegamento con la zona
interessata dall'edificazione, senza che sia necessario
dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse
qualificato alla tutela giurisdizionale, giacché tale
situazione vale a differenziare una posizione di interesse
qualificato rispetto al "quisque de populo" (Cons.
Stato Sez. VI 26.07.2001 n. 4123; idem 15.06.2010 n. 3744;
Cons. Stato Sez. V 07.05.2008 n. 2086; Cons. Stato Sez. IV
17.09.2012 n. 4926; idem 30.11.2009 n. 7491; 16.03.2010 n.
1535; 20.05.2004 n. 3263).
La citata giurisprudenza è stata integrata da pronunce che
contemperano il criterio della “vicinitas” con quello
dell'interesse ad agire, affermandosi che la legittimazione
attiva sussiste ogni qual volta le previsioni del piano
territoriale, pur concernenti un'area non di appartenenza
del ricorrente, incidano negativamente sul bene di proprietà
o in godimento del vicino sì da comprometterne la fruizione
o il valore.
Così, si è detto, occorre che dall'approvazione e
dall'esecuzione delle scelte urbanistiche derivi al
ricorrente un pregiudizio certo e concreto in relazione ai
molteplici aspetti e ai vari interessi costitutivi della sua
sfera giuridica (Cons. Stato Sez. IV 24.12.2007 n. 6619;
22.06.2006 n. 3947; idem 10.06.2004 n. 3755; 05.09.2003 n.
4980; 09.11.2010 n. 8364).
Ai fini del radicamento delle condizioni dell’azione è
necessario che per i vicini si verifichi una specifica
lesione alla loro sfera giuridica, che si concretizza e si
attualizza immediatamente -e quindi a prescindere dalla
richiesta e dal rilascio del titolo edilizio- nella
sussistenza di un pregiudizio di natura economico
patrimoniale comunque derivante per il bene
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 23.03.2016 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’istituto
dell’esercizio dei poteri sostitutivi, apprestato
dall’ordinamento come ulteriore strumento di tutela avverso
la mancata conclusione di un procedimento che deve essere
attivato d’ufficio o su istanza di parte, comporta il mero
trasferimento (o l’attribuzione) ad altro organo
dell’esercizio di un potere a provvedere, salva restando la
piena titolarità del potere medesimo nell’organo sostitutivo
e pertanto configura un fenomeno di esercizio concorrente di
potere, che viene meno con l’adozione della determinazione
da parte di uno dei due organi (sostituto o sostituito).
Ciò in quanto, l’adozione della determinazione soddisfa
l’obbligo di conclusione del procedimento e fa venir meno la
materia e la causa stessa del provvedere.
Pertanto, finché non interviene una determinazione da parte
dell’uno o dell’altro organo, entrambi, pur dopo
l’attribuzione del potere al sostituto, conservano l’obbligo
di provvedere.
Ne consegue che l’adozione del permesso di costruire in
sanatoria da parte del responsabile dell’area tecnica
determinava l’automatica decadenza del potere sostitutivo in
capo al segretario comunale.
---------------
8.- Passando all’esame del ricorso nel merito, con il primo
motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2,
comma 9-bis e 9-ter, della legge n. 241 del 1990, deducendo,
nella sostanza, l’incompetenza del responsabile dell’ufficio
tecnico ad adottare il permesso di costruire in sanatoria,
una volta che la Giunta comunale aveva attribuito il potere
sostitutivo al segretario comunale.
Il motivo non merita accoglimento.
L’art. 2, comma 9-bis, della legge 241 del 1990 prevede che:
<<L'organo di governo individua, nell'ambito delle figure
apicali dell'amministrazione, il soggetto cui attribuire il
potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell'ipotesi di
omessa individuazione il potere sostitutivo si considera
attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al
dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario
di più elevato livello presente nell'amministrazione. Per
ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale
dell'amministrazione è pubblicata, in formato tabellare e
con collegamento ben visibile nella homepage, l'indicazione
del soggetto a cui è attribuito il potere sostitutivo e a
cui l'interessato può rivolgersi ai sensi e per gli effetti
del comma 9-ter. Tale soggetto, in caso di ritardo, comunica
senza indugio il nominativo del responsabile, ai fini della
valutazione dell'avvio del procedimento disciplinare,
secondo le disposizioni del proprio ordinamento e dei
contratti collettivi nazionali di lavoro, e, in caso di
mancata ottemperanza alle disposizioni del presente comma,
assume la sua medesima responsabilità oltre a quella
propria>>.
Il successivo comma 9-ter, della legge 241 del 1990 dispone,
altresì, che: <<Decorso inutilmente il termine per la
conclusione del procedimento o quello superiore di cui al
comma 7, il privato può rivolgersi al responsabile di cui al
comma 9-bis perché, entro un termine pari alla metà di
quello originariamente previsto, concluda il procedimento
attraverso le strutture competenti o con la nomina di un
commissario>>
Il procedimento per l’attribuzione del potere sostitutivo è
diretto a indurre l’amministrazione a concludere il
procedimento amministrativo, stante la previsione di cui al
comma 1 dell’art. 2, legge 241 del 1990, secondo la quale
“ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad
un'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, le
pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo
mediante l'adozione di un provvedimento espresso”.
In caso di mancata conclusione del procedimento
amministrativo con un provvedimento espresso l’interessato
può chiedere al soggetto cui è attribuito il potere
sostitutivo di provvedere alla conclusione del procedimento.
Si tratta ora di verificare se l’ufficio competente in via
ordinaria conservi, pur dopo la nomina e l’individuazione
del sostituto, il potere di provvedere in senso pieno.
L’istituto dell’esercizio dei poteri sostitutivi, apprestato
dall’ordinamento come ulteriore strumento di tutela avverso
la mancata conclusione di un procedimento che deve essere
attivato d’ufficio o su istanza di parte, comporta il mero
trasferimento (o l’attribuzione) ad altro organo
dell’esercizio di un potere a provvedere, salva restando la
piena titolarità del potere medesimo nell’organo sostitutivo
e pertanto configura un fenomeno di esercizio concorrente di
potere, che viene meno con l’adozione della determinazione
da parte di uno dei due organi (sostituto o sostituito). Ciò
in quanto, l’adozione della determinazione soddisfa
l’obbligo di conclusione del procedimento e fa venir meno la
materia e la causa stessa del provvedere.
Pertanto, finché non interviene una determinazione da parte
dell’uno o dell’altro organo, entrambi, pur dopo
l’attribuzione del potere al sostituto, conservano l’obbligo
di provvedere.
Ne consegue che l’adozione del permesso di costruire in
sanatoria da parte del responsabile dell’area tecnica arch.
Va. determinava l’automatica decadenza del potere
sostitutivo in capo al segretario comunale
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 23.03.2016 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A norma dell’art. 11, comma 1, d.p.r. 06.06.2001,
n. 380 (che riproduce il contenuto dell’art. 4, comma 1,
della legge 28/01/1977, n. 10) il permesso di costruire può
essere rilasciato ai soggetti che hanno la disponibilità
giuridica dell'area e la titolarità di un diritto reale o di
obbligazione che dia facoltà di eseguire le opere, con la
conseguenza che l'interessato è tenuto a fornire la
documentazione idonea a comprovare il suo diritto, che il
Comune è tenuto ad esaminare al fine di accertarne
l’idoneità a dimostrare il requisito della legittimazione
soggettiva.
Il comma 3 del medesimo articolo 11 del d.p.r. 380/2001
precisa che <<il rilascio del permesso di costruire non
comporta limitazione dei diritti dei terzi>>.
Costituisce ius receptum che i rapporti tra vicini hanno
natura e rilevanza privatistica e non devono interessare il
Comune, che non è tenuto ad effettuare complessi ed
approfonditi accertamenti sull'esistenza e validità di
diritti reali, essendovi appunto la clausola di salvaguardia
generale, prevista dall'art. 11, comma 3, del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, che fa salvi i diritti dei terzi quando
vi sia dubbio sul titolo privatistico di un immobile.
---------------
10.- Con un’ulteriore doglianza la parte ricorrente lamenta
l’illegittimità del permesso di costruire 1426/2014 a causa
dell’omessa verifica da parte del Comune della sussistenza
da parte dell’istante di un titolo idoneo su parte dell’area
oggetto degli interventi edilizi.
Il percorso argomentativo seguito dal ricorrente non è privo
di suggestione tant’è che in sede cautelare il Collegio ha
ritenuto di aderirvi. Tuttavia, un attento e più
approfondito esame della questione porta ad un diverso
approdo interpretativo, alla stregua di quanto segue.
A norma dell’art. 11, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380
(che riproduce il contenuto dell’art. 4, comma 1, della
legge 28/01/1977, n. 10) il permesso di costruire può
essere rilasciato ai soggetti che hanno la disponibilità
giuridica dell'area e la titolarità di un diritto reale o di
obbligazione che dia facoltà di eseguire le opere, con la
conseguenza che l'interessato è tenuto a fornire la
documentazione idonea a comprovare il suo diritto, che il
Comune è tenuto ad esaminare al fine di accertarne
l’idoneità a dimostrare il requisito della legittimazione
soggettiva.
Il comma 3 del medesimo articolo 11 del d.p.r. 380/2001
precisa che <<il rilascio del permesso di costruire non
comporta limitazione dei diritti dei terzi>>.
Costituisce ius receptum che i rapporti tra vicini hanno
natura e rilevanza privatistica e non devono interessare il
Comune, che non è tenuto ad effettuare complessi ed
approfonditi accertamenti sull'esistenza e validità di
diritti reali, essendovi appunto la clausola di salvaguardia
generale, prevista dall'art. 11, comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che fa salvi i diritti dei terzi quando vi sia
dubbio sul titolo privatistico di un immobile (ex multis:
Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5223).
Invero, nel caso di specie la titolarità del diritto di
proprietà sull’immobile distinto in catasto al foglio 26,
part. 1819 (ex part. 879) risulta controversa, tant’è che
nell’atto pubblico rogato dal notaio avente ad oggetto il
negozio di donazione della particella in questione in favore
di Lu.Ri., all’art. 4, la parte donante e la parte
donataria <<riconoscono espressamente di essere state
preventivamente avvertite>> dal notaio: della <<opportunità
di far precedere la presente stipula dalla sentenza
dichiarativa dell’acquisto per usucapione>>; <<della
circostanza che la dichiarazione della parte donante di
essere “proprietaria per possesso pacifico, continuo e
ininterrotto ultraventennale” non può, in alcun modo essere
oggetto di verifica da parte di me notaio>>.
Di fronte all’allegazione di tale atto pubblico di
donazione, depositato dalla ricorrente a giustificazione
della legittimazione ad ottenere il rilascio del titolo
edilizio in sanatoria, al Comune non era esigibile alcun
ulteriore accertamento o complesso approfondimento in ordine
alla titolarità del diritto di proprietà dell’area.
Se, osserva il Collegio, ai sensi dell'art. 2700 c.c.,
l'atto pubblico forma piena prova solo della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, delle
dichiarazioni rese dalle parti o dei fatti che agli attesti
avvenuti in sua presenza, ma non è piena prova della
veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni, osserva,
altresì, il Collegio che non poteva comunque richiedersi al
Comune di dirimere la controversia insorta tra le parti in
ordine alla titolarità del diritto reale su parte dell’area
e all’effettivo acquisto per usucapione, trattandosi di
questione che involge diritti soggettivi, da risolvere
davanti al giudice ordinario, presso il quale, peraltro,
come comprovato dalla certificazione del Tribunale di
Avezzano, almeno alla data del 13.05.2015, non risultava
pendente alcun contenzioso tra Ma.Ce. e Lu.Ri..
In conclusione, non è censurabile l’operato del Comune che,
sulla base della allegazione dell’atto pubblico di
donazione, riteneva legittimata la controinteressata a
presentare la richiesta di permesso di costruire, il cui
rilascio a norma dell’articolo 11, comma 3, del d.p.r.
380/2001 non può comunque comportare una limitazione dei
diritti dei terzi, con la conseguenza che resta
impregiudicata la facoltà dell’odierno ricorrente di
avanzare le sue pretese innanzi all’autorità giudiziaria
ordinaria
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 23.03.2016 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO - SICUREZZA LAVORO: Incolumità, palla ai professori. I responsabili e i
dirigenti garantiscono la sicurezza.
SCUOLA/ La Cassazione sulle iniziative da assumere se gli
edifici sono pericolanti.
È responsabilità penale specifica dei docenti delle scuole
incaricati come responsabili del servizio prevenzione e
protezione, nonché dei dirigenti degli enti locali addetti
all'edilizia scolastica, garantire l'incolumità degli
edifici scolastici.
Per queste ragioni, la Corte di Cassazione, IV Sez. penale,
con la
sentenza 22.03.2016 n. 12223,
ha confermato la sentenza di condanna in appello di
funzionari e dirigenti della Provincia di Torino e dei
docenti responsabili della prevenzione della protezione del
Liceo Darwin di Rivoli, ove avvenne il 22.11.2008 il
crollo nel quale perse la vita Vi.Sc., col ferimento
di 16 altri studenti.
La sentenza fa chiarezza su punti da sempre controversi
della disciplina della sicurezza negli edifici e luoghi di
lavoro. La Cassazione considera assodato che spetti alla
Provincia, quale ente proprietario degli immobili
scolastici, assumere direttamente le iniziative necessarie
per svolgere attività di controllo, manutenzione preventiva
e riparazione, senza dovere allo scopo aspettare
segnalazioni della scuola.
Tuttavia, rileva la sentenza, la scuola, nonostante sia
priva di poteri decisionali e di spesa in merito agli
interventi di manutenzione edilizia, di per sé non può
restare esente da responsabilità e, con sé, gli incaricati
della prevenzione e della sicurezza. I quali hanno in ogni
caso l'obbligo di adottare ogni misura per l'incolumità,
come del resto indicato nel decreto ministeriale 382/1998 e
nella circolare 119/1999.
Nella sostanza, tanto i dirigenti e funzionari della
provincia quanto i docenti del Liceo Darwin hanno violato la
diligenza specifica richiesta hanno violato i doveri posti
in capo a quello che la Cassazione definisce «l'agente
modello», cioè il soggetto «ideale», in grado di svolgere
pienamente e al meglio il compito affidatogli. Nelle difese,
i funzionari e dirigenti, nonché i docenti della scuola,
secondo la Cassazione non hanno operato così da rendere il
danno che poi si è verificato come «prevedibile» ed
«evitabile», nonostante vi fossero chiari indizi tecnici.
Né, a discolpa, potevano appellarsi all'assenza di una
preparazione scientifica adeguata al caso specifico.
Infatti, spiega la IV Sezione, l'agente modello adegua la
propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità
scientifica e se non dispone di tali conoscenze ha l'obbligo
di acquisirle, oppure di utilizzare le conoscenze di
professionisti terzi o, ancora, di «segnalare al datore di
lavoro la propria incapacità a svolgere adeguatamente la
funzione alla quale è incaricato».
Responsabilità particolare dei dirigenti degli uffici
tecnici di edilizia scolastica provinciali succedutisi negli
anni, poi, non è tanto non aver effettuato personalmente
sopralluoghi e rilievi, del resto impossibili da chiedere
dato l'elevato numero degli edifici, ma non aver provveduto
a un'adeguata mappatura degli edifici, per valutarne i
rischi connessi.
La sentenza oltre a mettere in rilievo le rilevanti
responsabilità dei dirigenti provinciali e dei docenti
incaricati della prevenzione, indirettamente mette il dito
sulla piaga sempre aperta dello stato degli edifici
scolastici in Italia, molti dei quali in condizioni di
pericolosità. Sul punto, molte sono le contraddizioni
dell'ordinamento. Infatti, per esempio, la Cassazione esorta
i responsabili ad avvalersi delle competenze altrui, se
privi delle conoscenze scientifiche: ma nella pubblica
amministrazione incarichi di consulenza sono sostanzialmente
tutti fonte di danno erariale.
Ma, cosa ancora più
rilevante, le province sono rimaste titolari delle
competenze sull'edilizia scolastica, pur essendo stati
falcidiati i loro bilanci con tagli che le destinano al
dissesto e nel personale. Essere nei panni di dirigenti
dell'edilizia scolastica, date queste premesse, non è
impresa facile
(articolo ItaliaOggi del 02.04.2016).
---------------
MASSIMA
9. Con motivo comune le difese degli imputati Ma., Pi. e
Tu., richiamando il contenuto dell'art. 18, comma 3, del
decreto legislativo n. 81 del 2008 sostengono che avrebbero
dovuto essere mandati esenti da ogni responsabilità per gli
eventi di cui è causa. Significativamente la questione è
posta sia da imputati ritenuti responsabili in quanto
funzionari della Provincia che da altri che rivestivano,
invece, il ruolo di RSPP.
Tale norma che ha trasfuso l'art, 4 comma 12, del decreto
legislativo n. 626 del 1994 prevede che gli obblighi
relativi agli interventi strutturali e di manutenzione
necessari per assicurare, ai sensi del presente Decreto
Legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici
assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici
uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed
educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per
effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e
manutenzione.
In tale caso gli obblighi previsti dal presente Decreto
Legislativo, relativamente ai predetti interventi, si
intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari
preposti agli uffici interessati, con la richiesta de/loro
adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che
ne ha l'obbligo giuridico.
Va osservato a riguardo che nella specie è
pacifico che il liceo Darwin dipendesse per gli interventi
strutturali e di manutenzione dalla Provincia, mentre "datore
di lavoro" era da intendersi l'istituzione scolastica,
soggetto che non possiede poteri decisionali e di spesa. Non
può pertanto dubitarsi della posizione di garanzia dei
funzionari della Provincia cui gravava l'obbligo degli
interventi di manutenzione straordinaria dell'edificio.
Ciò tuttavia non comporta che la scuola resti esente da
responsabilità anche nel caso in cui abbia richiesto
all'Ente locale idonei interventi strutturali e di
manutenzione poi non attuati, incombendo comunque al datore
di lavoro (e per lui come si vedrà al RSPP da questi
nominato) l'adozione di tutte le misure rientranti nelle
proprie possibilità, quali in primis la previa
individuazione dei rischi esistenti e ove non sia possibile
garantire un adeguato livello di sicurezza, con
l'interruzione dell'attività.
Ulteriore conferma si rinviene nel decreto ministeriale n.
382 del 1998 e nella circolare ministeriale n. 119 del 1999
che prevede l'obbligo per l'istituzione
scolastica di adottare ogni misura idonea in caso di
pregiudizio per l'incolumità dell'utenza. Si configura
insomma una pregnante posizione di garanzia in tema di
incolumità delle persone. Tale obbligo è stato palesemente
violato a causa della mancata valutazione della
inadeguatezza dell'edificio sotto il profilo della sicurezza
a causa della presenza del vano tecnico sovrastante il
controsoffitto.
10. Quanto, in particolare, al ruolo ed ai
connessi profili di responsabilità della figura del RSPP, va
osservato che
(Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 254094)
svolge una delicata funzione di supporto
informativo, valutativo e programmatico ma è priva di
autonomia decisionale: esse, tuttavia coopera in un contesto
che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e
competenze.
Tale figura non è destinataria in prima persona di obblighi
sanzionati penalmente; e svolge un ruolo non operativo, ma
di mera consulenza. L'argomento non è tuttavia di per sé
decisivo ai fini dell'esonero dalla responsabilità penale.
In realtà, l'assenza di obblighi penalmente sanzionati si
spiega agevolmente proprio per il fatto che il servizio è
privo di un ruolo gestionale, decisionale. Tuttavia quel che
importa è che il RSPP sia destinatario di obblighi
giuridici; e non può esservi dubbio che, con l'assunzione
dell'incarico, egli assuma l'obbligo giuridico di svolgere
diligentemente le funzioni che si sono viste.
D'altra parte, il ruolo svolto dal RSPP è parte inscindibile
di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative
sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro e la sua
attività può ben rilevare ai fini della spiegazione causale
dell'evento illecito.
Gli imputati, nella veste di RSPP, erano astretti, come si è
sopra esposto, all'obbligo giuridico di fornire attenta
collaborazione al datore di lavoro individuando i rischi
lavorativi e fornendo le opportune indicazioni tecniche per
risolverli. Le singole posizioni dei tre imputati sono state
a riguardo debitamente evidenziate (cfr. pag. 68
dell'impugnata sentenza).
Né può censurarsi la gravata sentenza nella parte in cui ha
ritenuto che gli imputati in questione avessero posseduto le
competenze adeguate alla natura dei rischi presenti per
poter adempiere in primis al loro obbligo di preliminare
adeguata valutazione dei rischi, trattandosi comunque di
professionisti qualificati, dotati di ampia esperienza nel
campo.
Né può farsi genericamente valere la presenza di altri
titolari della posizione di garanzia perché la compresenza
di più titolari della posizione di garanzia non è evenienza
che esclude, per ciascuno, il contributo causale nella
condotta incriminata (cfr. Sez. 4 n. 1194 del 15/11/2013 Rv.
258232).
11. Con riferimento alle ulteriori problematiche sottese
all'odierna vicenda, vanno richiamati i
principi individuati da questa Corte di legittimità
(cfr. ex plurimis Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Rv.
247015) ed i criteri utilizzati per
verificare la prevedibilità dell'evento e anche quelli
riguardanti l'evitabilità del medesimo; nel senso che anche
per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un
evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per
evitarlo è necessario individuare criteri di misura
oggettivi.
La giurisprudenza e la dottrina dominanti
si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza
esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo
verrebbe premiata l'ignoranza di chi non si pone in grado di
svolgere adeguatamente un'attività di natura eminentemente
tecnica) o dall'uomo più esperto (che condurrebbe a
convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall'uomo
normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si
rifanno invece a quello del c.d. "agente modello" (homo
ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale
in grado di svolgere al meglio, anche in base all'esperienza
collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili
e le conseguenze evitabili.
Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende
un'attività, tanto più se di carattere tecnico, ha l'obbligo
di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza
porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei
limiti del possibile nel caso di attività pericolose
consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura "oggettiva"
della colpa diversa dal concetto di misura "soggettiva"
della colpa che non rileva nel presente giudizio.
È stato sottolineato che la necessità di individuare un
modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei
casi (per es. l'attività medico chirurgica) nei quali
difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre
più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici.
L'agente modello, si è detto, va di volta
in volta individuato in relazione alle singole attività
svolte e "lo standard della diligenza, della perizia e
della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che
"svolga" la stessa professione, lo stesso mestiere, lo
stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell'agente
reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera
quest'ultimo".
Il parametro di riferimento non è quindi
ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di
specialisti o di ricerche eseguite in laboratori
d'avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente
viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto. Non può
infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di
eccellenza possono conoscere e attuare ma, d'altro canto,
neppure possono essere convalidati usi scorretti e
pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di
dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare
l'esigenza di non consentire livelli non adeguati di
sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia
che il movente economico si ponga alla base delle scelte.
Utilizzando quindi tale criterio dell'agente modello quale
-lo si ribadisce- agente ideale in grado di svolgere al
meglio il compito affidatogli; in questo giudizio si deve
tener conto non solo di quanto l'agente concreto ha
percepito ma altresì di quanto l'agente modello avrebbe
dovuto percepire valutando anche le possibilità di
aggravamento di un evento dannoso in atto che non possano
essere ragionevolmente escluse.
L'addebito soggettivo dell'evento richiede comunque non
soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile ma altresì che
lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle
regole cautelari idonee a tal fine, non potendo essere
soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con
valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque
essere evitato. A questi criteri si è attenuta la Corte di
merito che si è posta il problema dell'osservanza delle
regole cautelari in relazione alla situazione percepibile
con l'osservanza delle regole di cautela esigibili nella
fattispecie dall'agente modello e non in relazione -come
sostanzialmente sostenuto da parte di alcuni ricorrenti-
alla preparazione professionale degli agenti concreti
negando l'esistenza della colpa perché i medesimi non
avevano la preparazione scientifica necessaria.
Detta tesi è da ritenere erronea perché
agente modello è colui che adegua la propria condotta alle
conoscenze disponibili nella comunità scientifica e che, se
non dispone di queste conoscenze, adempie all'obbligo -se
intende svolgere un'attività che comporta il rischio di
eventi dannosi- di acquisirle o di utilizzare le conoscenze
di chi ne dispone o, al limite, di segnalare al datore di
lavoro la propria incapacità di svolgere adeguatamente la
propria funzione.
Insomma se un soggetto riveste una
posizione di garanzia per una funzione di protezione del
garantito deve operare per assicurare la protezione
richiesta dalla legge al fine di evitare eventi dannosi e
non può addurre la propria ignoranza per escludere la
responsabilità dell'evento dannoso. Ove si accedesse ad una
diversa impostazione, chiunque, anche se inesperto e
incapace, potrebbe svolgere un'attività che comporta rischi
di eventi dannosi e che richiede, per il suo svolgimento,
conoscenze tecniche o scientifiche adducendo la sua
ignoranza nel caso in cui questi eventi dannosi in concreto
si verifichino.
I ricorsi degli imputati nel resto sono a riguardo peraltro
articolati con numerosi riferimenti a dati fattuali e,
sostanzialmente, propongono una lettura alternativa del
compendio probatorio effettuata, nella maggior parte dei
casi, attraverso il confronto tra i contenuti della sentenza
di primo grado e quella impugnata.
Va in proposito ricordata la consolidata giurisprudenza di
questa Corte orientata nel senso di ritenere che il
controllo sulla motivazione demandato al giudice di
legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa
previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e
coerenza dell'apparato argomentativo con riferimento a tutti
gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può
risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione o l'autonoma scelta di
nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla
ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio,
limitatamente alla pronunce successive alle modifiche
apportate all'art. 606 cod. proc. pen. dalla L. n. 46 del
2006, Sez. 3 n. 12110, 19.03.2009; Sez. 6 n. 23528,
06.07.2006; Sez. 6 n. 14054, 20.04.2006; Sez. 6 n. 10951,
29.03.2006).
Si è altresì precisato che il vizio di motivazione ricorre
nel caso in cui la stessa risulti inadeguata perché non
consente di riscontrare agevolmente le scansioni e gli
sviluppi critici che connotano la decisione riguardo a ciò
che è stato oggetto di prova ovvero impedisce, per la sua
intrinseca oscurità od incongruenza, il controllo
sull'affidabilità dell'esito decisorio, sempre avendo
riguardo alle acquisizioni processuali ed alle
prospettazioni formulate dalle parti (Sez. 6 n.7651,
25.02.2010).
Ancor più efficacemente si è specificato come il sindacato
del giudice di legittimità sul discorso giustificativo della
decisione impugnata sia circoscritto alla verifica
dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da
evidenti errori di applicazione delle regole della logica o
fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli
appartenenti alla collettività o connotati da vistose e
insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili
con "atti del processo", specificamente indicati dal
ricorrente, che siano dotati autonomamente di forza
esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione
disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al
suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da
rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 n.
15801, 19.04.2010, Sez. 6 n. 38698, 22.11.2006).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha sviluppato un
percorso argomentativo del tutto coerente e logico,
confrontandosi adeguatamente -come già sopra sottolineato
con la sentenza assolutoria di primo grado.
Con riferimento alla prevedibilità dell'evento (unica
questione su cui sostanzialmente le due sentenze di merito
divergono, avendo il primo giudice ritenuto che non si era
in presenza di segni di dissesto agevolmente riconoscibili)
la Corte territoriale ha in primo luogo posto in evidenza
-come già ricordato- come quello che la sentenza di primo
grado definiva un semplice "controsoffitto", aveva
invece la funzione di costituire il solaio di un cosiddetto
vano tecnico della estensione di circa 1000 mq., e del peso
di circa otto tonnellate, che, come tale doveva sostenere
oltre il peso proprio, di per sé molto rilevante, anche il
sovraccarico dei servizi presenti, del materiale che nel
tempo si era ivi accumulato, nonché l'eventuale peso del
personale della manutenzione, che sicuramente vi aveva fatto
accesso, quanto meno per la sostituzione dei tubi di scarico
del piano superiore.
Agli imputati è stato quindi dì fatto addebitato di aver
ignorato l'esistenza dei detto vano che presentava numerose
varie criticità e difetti, nonostante l'accertata presenza
di una botola che ne consentiva agevolmente l'accesso.
In particolare la sentenza impugnata ha sottolineato come il
detto accesso, previa apertura della botola non costituiva
un eccesso di scrupolo, ma una doverosa necessità per tutti
gli imputati, onde adempiere agli obblighi giuridici
connessi alle rispettive funzioni. L'apertura della botola
avrebbe consentito di verificare lo stato del vano tecnico
ed di evidenziarne le già ricordate problematiche (cfr.
pagg. 34 e ss. della impugnata sentenza).
...
13. Vanno da ultimo
esaminate alcune questioni specifiche poste in particolare
dal ricorrente Mo., anche se riecheggiate anche in altri
ricorsi.
Sostiene in particolare il Mo. che nulla gli potrebbe essere
addebitato per aver emesso un'apposita direttiva volta ad
effettuare dei sopralluoghi finalizzati ad accertare la
necessità di eventuali interventi. Sul punto la gravata
sentenza ha ritenuto l'assoluta genericità di detta
direttiva.
Detta affermazione -confutata dal ricorrente- va tuttavia
calata nell'ambito dell'intero compendio motivazionale della
gravata sentenza che ha sottolineato che pur essendo
evidente che i funzionari e dirigenti della Provincia di
Torino non avrebbero potuto svolgere personalmente tutti i
controlli, agli stessi doveva comunque essere addebitata la
mancata adeguata mappatura degli edifici al fine della
valutazione di tutti i "rischi" verificabili,
incombente questo rientrante nei precipui obblighi di
controllo e di interevento su tutte le fonti di insicurezza.
E che tale fosse la presenza del "controsoffitto" di
cui si discute è di palmare evidenza alla luce delle
caratteristiche dello stesso quali in precedenza rammentate,
della sua risalenza nel tempo, elementi questi che, come
icasticamente affermato dalla difesa della parte civile nel
corso del giudizio di appello e riportato nella sentenza
impugnata (cfr. pag. 15) lo rendevano una vera e propria "bomba
ad orologeria", innescata e sovrastante l'aula $ G del
liceo Darwin, a fronte della quale per quasi mezzo secolo,
nessun intervento era stato operato.
Altra questione posta è quella relativa alla individuazione
quale "luogo di lavoro" del vano tecnico. Il motivo è
manifestamente infondato, atteso che nella
nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della
sussistenza dell'obbligo di attuare le misure
antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui viene svolta e
gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di
lavoro, indipendentemente dalle finalità -sportive, ludiche,
artistiche, di addestramento o altro- della struttura in cui
essa si svolge e dell'accesso ad essa da parte di terzi
estranei all'attività lavorativa
(cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, Rv. 258435).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dalla
circostanza che il vano tecnico in questione era accessibile
e che allo stesso si era concretamente fatto in passato
accesso da parte degli operai per la sostituzione dei tubi,
non può tralasciarsi che esso costituiva anche il
controsoffitto dell'aula sottostante (nonché di numerosi
altri locali) , aula in cui si svolgeva costantemente
attività lavorativa anche in senso stretto.
E' stata posta altresì questione in ordine alle effettive
cause di morte dello studente Vi.Sc., individuate dai
giudici di merito nel colpo da questi subito alla testa ove
era stato attinto da uno dei tubi di ghisa abbandonati nel
vano tecnico. Anche detto accertamento è stato compiuto dai
giudici di merito sulla base delle risultanze peritali per
cui si rimanda alle osservazioni svolte in precedenza.
La questione tuttavia non ha la rilevanza che gli viene
attribuita atteso che non modifica sostanzialmente il
decorso causale dell'evento, in ogni caso immediata
conseguenza del crollo del solaio, cui ha sicuramente
contribuito quale concausa il sovraccarico del materiale ivi
lasciato. La presenza di detto materiale, icto oculi
accertabile rafforza per altro verso le argomentazioni in
ordine alla prevedibilità e prevedibilità dell'evento come
sopra formulate. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Sulla
Via «ex post» parola alla Corte Ue. Ambiente. Il Tar Marche
ha rimesso ai giudici comunitari la decisione sulla
valutazione resa per impianti già realizzati.
Il Tar Marche investe la Corte di
Giustizia Ue con la questione pregiudiziale relativa alla
«Via postuma». In sintesi, si tratta della possibilità di
esperire il procedimento di valutazione di impatto
ambientale per un impianto già realizzato, ma mai sottoposto
a verifica di assoggettabilità a Via (screening). Il che ha
comportato l’annullamento dell’autorizzazione.
La delicata questione scaturisce da una vicenda sorta per un
impianto di biogas con potenza nominale di 999 KWe ed è
stata sollevata dal TAR Marche con
ordinanza 22.03.2016 n. 185. La soluzione del
quesito sottoposto alla cognizione dei giudici di Strasburgo
non mancherà di avere conseguenze importantissime.
Infatti, il Tar Marche chiede se sia compatibile con il
diritto comunitario un procedimento di screening (ed
eventualmente di Via) implementato dopo la realizzazione
dell’impianto, qualora l’autorizzazione sia stata annullata
dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a verifica
di assoggettabilità a Via, poiché esclusa in base a
normativa interna (regionale) in contrasto con il diritto
comunitario.
Le norme comunitarie prese a riferimento dal giudice
amministrativo nazionale sono l’articolo 191 Tfue e
l’articolo 2 della direttiva 2011/92/Ue che paiono disporre
per il carattere preventivo della Via.
Tuttavia, il dubbio è sorto poiché la giurisprudenza della
Corte Ue (oggetto di puntuale ricognizione da parte
dell’ordinanza marchigiana), anche se non recentissima,
sembrerebbe non escludere a priori la possibilità di porre
rimedio al mancato esperimento dello screening.
Un dubbio ulteriormente amplificato in ragione di un’altra
pronuncia comunitaria, ma di segno contrario alle precedenti
che, puntualmente censita dal Tar Marche (sentenza
03.07.2008 C-215/06, Commissione contro Irlanda, punto 51)
ravvisa come contrastante con il diritto Ue una norma
generale che permetta la realizzazione successiva della
procedura di Via, ribadendone così la natura preventiva.
In questa ondivaga situazione, il Tar marchigiano nella sua
ordinanza non manca però di prendere posizione sul caso
specifico e ritiene che l’annullamento sottoposto alla sua
cognizione potrebbe essere assimilabile all’annullamento
dell’autorizzazione per illegittimità, per la quale anche la
normativa nazionale (articolo 29, comma 5, decreto
legislativo n. 152/2006) prevede la possibilità di ripetere
la Via annullata. Il che sarebbe coerente con la
giurisprudenza europea più rigorosa.
Non solo, l’esperimento postumo della procedura di Via
potrebbe non essere in contrasto con le norme Ue, alla luce
della sentenza comunitaria 07.01.2004 (C-201/02 – Wells)
dove al punto 69 afferma che «a tale proposito spetta al
giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la
possibilità di revocare o di sospendere un’autorizzazione
già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto a una
valutazione dell’impatto ambientale, conformemente a quanto
richiesto dalla direttiva 85/337» (articolo Il Sole 24 Ore
del 03.04.2016).
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MASSIMA
1 Va premesso che il Collegio ritiene che il giudizio
debba essere sospeso al fine di richiedere alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea una decisione in ordine alla
compatibilità comunitaria dell’esperibilità della verifica
di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale
(art. 4, c. 2, direttiva 2011/92/UE) e, conseguentemente,
alla VIA, relativamente ad un impianto già realizzato.
Nel caso in esame, ciò è avvenuto a seguito di annullamento
giurisdizionale dell’autorizzazione concessa in assenza di
verifica di assoggettabilità a VIA. Le autorizzazioni
concesse illegittimamente in assenza di verifica di
assoggettamento a valutazione di impatto ambientale sono
state oggetto di diverse sentenze di annullamento di questo
Tribunale (Tar Marche 559/2013, 659/2013, 61/2014, 64/2014,
707/2014, 377/2015 e 486/2015), alcune delle quali, come
quella oggetto del presente ricorso, confermate in appello,
e hanno riguardato il periodo di vigenza delle leggi Regione
Marche 20/2011 e 3/2012, fino alle modifiche introdotte
dalla successiva legge regionale 30/2012.
1.1 Riguardo la normativa nazionale e regionale applicabile,
va premesso che all’epoca dell’adozione del provvedimento
autorizzativo successivamente annullato (autorizzazione
regionale n. 52/EFR del 25.06.2012 ), la normativa nazionale
prevedeva la verifica di assoggettabilità alla VIA solo per
gli impianti per la produzione di energia elettrica (e di
vapore e acqua calda) con potenza termica complessiva
superiore a 50 MW (v. punto 2-a dell'allegato IV alla parte
seconda del d.lgs. 152/2006).
1.2 In dichiarata attuazione di quanto previsto dalla legge
nazionale, la legge regione Marche 20/2011 (in vigore dal
09.11.2011) prevedeva l’esenzione della verifica di
assoggettabilità a VIA per gli “Impianti termici, inclusi
quelli a celle a combustibile, per la produzione di energia
elettrici vapore e acqua calda alimentati a biomasse, a oli
combustibili vegetali o a biodiesel, di potenza termica
nominale inferiore ad 3 MW”.
1.3 Come già accennato, l’archiviazione del procedimento di
verifica di assoggettabilità a VIA, sulla base dell’entrata
in vigore della legge appena richiamata, e quindi la mancata
sottoposizione a verifica di assoggettabilità a valutazione
di impatto ambientale ha portato all’annullamento
dell’autorizzazione rilasciata dalla Regione Marche, con
l’impianto già in funzione, che è stato successivamente
spento, con avvio della procedura di verifica di
assoggettabilità di cui al combinato disposto dell'art. 23 e
segg. d.lgs. 152/2006 e dell'art. 12 e segg. della L.R.
3/2012.
1.4 La legge Regione Marche 20/2011 è stata modificata dalla
legge regionale 3/2012 (quest’ultima legge, che confermava
l’esenzione da verifica di assoggettabilità a VIA sulla base
di soglie numeriche, come già accennato è stata dichiarata
incostituzionale, per tale parte, dalla sentenza 22.05.2013
n. 93 della Corte Costituzionale).
Infine quest’ultima legge è stata modificata dalla legge
Regione Marche 19.10.2012 n. 30, con la quale la Regione ha
provveduto ad introdurre modifiche sia all’art. 3 che
all’allegato C della legge regionale 3 del 2012, recanti
l’esplicita previsione della necessità di tener conto, caso
per caso ed indipendentemente dalle soglie dimensionali, di
tutti i criteri di selezione dei progetti indicati negli
allegati della direttiva. La nuova procedura di VIA è stata
effettuata secondo le previsioni di cui sopra, nonché
secondo quelle della normativa nazionale.
2 Sempre con riguardo alla normativa nazionale, l’art. 15,
c. 4, del DL 25.06.2014 n. 91 recava la previsione che, nei
casi in cui dovessero essere sottoposti a verifica di
assoggettabilità postuma, anche a seguito di annullamento
dell'autorizzazione in sede giurisdizionale, impianti già
autorizzati e in esercizio per i quali tale procedura era
stata a suo tempo ritenuta esclusa sulla base delle soglie
individuate nell'Allegato IV alla parte seconda del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, e nella legislazione
regionale di attuazione la procedura di verifica di
assoggettabilità fosse svolta a norma dell'articolo 6, comma
7, lettera c), del predetto decreto legislativo, ferma
restando la prosecuzione dell'attività fino all'adozione
dell'atto definitivo da parte dell'autorità competente e,
comunque non oltre il termine di centottanta giorni dalla
data di entrata in vigore del decreto. La norma non è stata
convertita in legge, per cui non ha trovato applicazione.
2.1 Per completezza, sempre con riguardo alla normativa
nazionale, con la modifica all'art. 6, comma 7-c, del d.lgs.
152/2006 introdotta dall'art. 15, comma 1-c, del già citato
DL 24.06.2014 n. 91 è stata prevista l'introduzione di nuove
soglie mediante decreto ministeriale, con la precisazione
che nel frattempo la valutazione circa la verifica di
assoggettamento doveva essere effettuata caso per caso sulla
base dei criteri stabiliti nell'allegato V alla parte
seconda del d.lgs. 152/2006.
Come è noto, in precedenza la Commissione Europea aveva
avviato la procedura d’infrazione di infrazione 2009/2086
per non conformità delle norme nazionali (Parte Seconda del
D.Lgs. 152/2006) con la direttiva VIA 2011/92/UE
relativamente, tra l’altro, alla procedura di verifica di
assoggettabilità a VIA. Con il decreto ministeriale n. 52
del 30.03.2015 sono state emanate le “Linee guida
nazionali destinate a ridefinire i criteri e le soglie per
determinare l’assoggettamento alla procedura di verifica dei
progetti dell’Allegato IV del D.Lgs. 152/2006”, portando
all’archiviazione della procedura in data 19.11.1015. Il
decreto però non è applicabile ratione temporis al
giudizio in esame per cui la sua conformità alla direttiva
non è oggetto del presente giudizio.
3 Ne consegue, ad avviso del Collegio, che
nell’ordinamento interno italiano non è attualmente presente
alcuna norma che disciplini la valutazione di impatto
ambientale cosiddetta postuma, ad impianto realizzato. Per
gli impianti già autorizzati, l’art. 29, comma 1, del d.lgs.
n. 152/2006 stabilisce semplicemente che i provvedimenti di
autorizzazione o approvazione adottati senza la previa
valutazione di impatto ambientale sono annullabili per
violazione di legge, come avvenuto nel caso in esame.
In caso di realizzazione degli impianti senza la previa
sottoposizione alle fasi di verifica di assoggettabilità o
di valutazione, il medesimo art. 29 del d.lgs. n. 152/2006
dispone, al comma 4, che l’autorità competente, valutata
l'entità del pregiudizio ambientale arrecato e quello
conseguente alla applicazione della sanzione, dispone la
sospensione dei lavori e può disporre la demolizione ed il
ripristino dello stato dei luoghi e della situazione
ambientale a cura e spese del responsabile, o, in caso di
inottemperanza, d'ufficio.
Il successivo comma 5 prevede che “in caso di
annullamento in sede giurisdizionale o di autotutela di
autorizzazioni o concessioni rilasciate previa valutazione
di impatto ambientale o di annullamento del giudizio di
compatibilità ambientale, i poteri di cui al comma 4 sono
esercitati previa nuova valutazione di impatto ambientale”.
3.1 Con riguardo alla posizione del giudice interno, recenti
pronunce hanno affermato la compatibilità comunitaria, della
VIA successiva alla realizzazione dell’impianto. Essa non
sarebbe in contrasto con le indicazioni provenienti dalla
giurisprudenza comunitaria, la quale si preoccupa di
chiarire quali conseguenze derivino dalla mancata previa
effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità
alla VIA.
Si è argomentato che l’omissione comporta, in generale, la
sospensione o l'annullamento dell'autorizzazione, salvo casi
eccezionali in cui risulti preferibile per l'interesse
pubblico che gli effetti del provvedimento siano conservati,
ma il vero vincolo per le autorità e i giudici nazionali è
che le conseguenze della violazione del diritto comunitario
siano cancellate (Corte Giust. 28.2.2012 C-41/11,
Inter-Environnement Wallonie, punto 63). La sospensione o
l'annullamento sono quindi soluzioni giuridiche strumentali,
il cui scopo è consentire l'applicazione del diritto
comunitario, anche attraverso l'effettuazione della
valutazione non eseguita in precedenza, o in alternativa
attraverso il risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano
subito pregiudizi a causa dell'omissione (Corte Giust.
14.03.2013 C-420/11, Leth, punto 37; Corte Giust. 07.01.2004
C-201/02, Wells, punto 65).
Si è quindi ritenuta, sulla base delle predette
argomentazioni, la possibilità di effettuare in un secondo
momento l'esame necessario per escludere la verifica di
assoggettabilità alla VIA (Tar Brescia 04.06.2015 n. 795: in
questo caso la verifica di assoggettabilità è stata
successiva ma ha avuto esito negativo,per cui l’impianto non
è stato sottoposto a VIA). Al contrario, il giudice di
appello, in casi analoghi al presente, sembra avere escluso
possibilità di una VIA postuma, seppure con riferimento alla
possibilità di mantenere in esercizio gli impianti (in
particolare, in sede cautelare Cons. Stato Sez. IV
19.02.2014 n. 798, che, in un caso simile a quello in esame,
ordinava l’astensione “da qualsiasi attività comportante
l’ulteriore prosieguo della realizzazione e/o dell’esercizio
dell’impianto per cui è causa (fermo e impregiudicato, come
è ovvio, l’iter procedimentale della VIA. nel frattempo
chiesta dalla società odierna appellante, che non è però
sufficiente a legittimare ad oggi l’operatività
dell’impianto, in considerazione della nota e consolidata
giurisprudenza –anche europea– che non ammette una VIA ex
post)”.
Anche nella sentenza Cons. Stato, sez. III, 05.03.2013, n.
1324 si è affermato il necessario carattere preventivo della
VIA, in una decisione che però non riguardava un caso di VIA
cosiddetta postuma, ma l’annullamento di un’autorizzazione
per l’omesso svolgimento della procedura di VIA.
4 Il problema riguarda quindi l’esperibilità
della Valutazione di Impatto Ambientale ad impianto già
realizzato nel caso di annullamento dell’autorizzazione per
mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a VIA.
4.1 L’art. 191
TFUE definisce i principi della politica dell’Unione Europea
in materia ambientale e in particolare, al punto 2, afferma
che “La politica dell'Unione in materia ambientale mira a
un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità
delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione". Essa
è fondata sui principi della precauzione e dell'azione
preventiva, sul principio della correzione, in via
prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente,
nonché sul principio "chi inquina paga".
L’art. 2 della direttiva 2011/92/UE (e, in precedenza,
l’art. 2 della direttiva 85/337/CEE) stabilisce che gli
Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché,
prima del rilascio dell’autorizzazione, per i progetti per i
quali si prevede un significativo impatto ambientale, in
particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro
ubicazione, sia prevista un’autorizzazione e una valutazione
del loro impatto.
4.2 Pur in presenza di una chiara enunciazione del carattere
preventivo della VIA, la giurisprudenza della Corte di
Giustizia citata in precedenza sembra non escludere del
tutto la possibilità di rimediare al mancato esperimento
dalla procedura. E’ però ben noto come, in un’altra
sentenza, la Corte di Giustizia si sia espressa per la
contrarietà al diritto comunitario di una norma generale che
permettesse la realizzazione della VIA a posteriori (Corte
giust. 03.07.2008, causa C-215/06 Commissione contro
Irlanda), ribadendo la natura preventiva della procedura di
VIA (in particolare punto 51).
5 Con riguardo alla posizione del Collegio sul tema, si
tratta di valutare se nel caso in esame ci si trovi di
fronte a circostanze eccezionali che permettano
l’esperimento a posteriori della procedura di VIA, (in
presenza, si ripete, di autorizzazioni annullate a causa
della mancata sottoposizione a a verifica di
assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale in
ragione di norme contrarie al diritto comunitario).
La posizione del Tribunale è che tale possibilità non appare
in contrasto con il diritto comunitario, dovendo essere
valutato in particolare quanto contenuto nella sentenza
07.01.2004 C-201/02, Wells. Ne consegue che, dopo
l'annullamento dell’autorizzazione, deve essere consentita
l’applicazione del diritto comunitario, anche attraverso
l'effettuazione della valutazione non eseguita in
precedenza. Va altresì valutato che la fattispecie all’esame
del Tribunale è assimilabile all’annullamento
dell’autorizzazione per illegittimità, per la quale anche la
normativa interna (art. 29, c. 5, d.lgs 152/2006) prevede la
possibilità di ripetere la VIA annullata.
Ciò appare coerente con quanto stabilito dalla già citata
sentenza Corte giust., 03.07.2008, causa C-215/06 Wells, che
nella parte finale (69) afferma “A tale proposito spetta
al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda
la possibilità di revocare o di sospendere un'autorizzazione
già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto ad
una valutazione dell'impatto ambientale, conformemente a
quanto richiesto dalla direttiva 85/337”.
5.1 Anche la stessa, già citata, sentenza Corte giust.,
03.07.2008, causa C-215/06, che afferma come tale
possibilità dovrebbe essere subordinata alla condizione che
essa non offra agli interessati l’occasione di aggirare le
norme comunitarie o di disapplicarle, e che rimanga
eccezionale, nella parte in cui richiama la già citata
sentenza Wells, afferma che la valutazione dell’impatto
ambientale può essere effettuata, ad esempio revocando o
sospendendo un’autorizzazione già rilasciata al fine di
effettuare una tale valutazione, nel rispetto dei limiti
dell’autonomia procedurale degli Stati membri (59).
Tale posizione sembra assimilabile al caso in esame, dove le
autorizzazioni contrarie al diritto comunitario sono state
annullate dal giudice nazionale, portando alla riedizione
dell’intero procedura, partendo dalla verifica di
assoggettabilità alla VIA, l’esperimento di quest’ultima e,
infine, eventuale adozione della successiva autorizzazione
(che deve essere ancora rilasciata).
6 Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio ritiene
necessaria la rimessione alla Corte di Giustizia UE della
questione interpretativa alla base dell’odierno ricorso: “Se,
in riferimento alle previsioni di cui all’art. 191 del TFUE
e all’art. 2 della direttiva 2011/92/UE, sia compatibile con
il diritto comunitario l’esperimento di un procedimento di
verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto
ambientale (ed eventualmente a VIA) successivamente alla
realizzazione dell’opera, qualora l’autorizzazione sia stata
annullata dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a
verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto
ambientale, in quanto tale verifica era stata esclusa in
base a normativa interna in contrasto con il diritto
comunitario”.
6.1 Considerato che il primo del ricorso introduttivo
all’esame del Tribunale deduce appunto l’impossibilità di
esperire la cosiddetta VIA postuma, per violazione della
normativa comunitaria appena citata, in tutta evidenza la
soluzione della questione interpretativa proposta è
necessaria per la soluzione della controversia, ai sensi del
capo I, par. 14, della nota informativa (2011/C 160/01),
pubblicata nella G.U.C.E. C 160/1 del 28.05.2011.
6.2 La giurisprudenza nazionale citata nella presente
ordinanza è reperibile al
seguente indirizzo web.
6.3 Tutto ciò premesso, il Collegio, vista la “Nota
informativa riguardante le domande di pronuncia
pregiudiziale da parte dei giudici nazionali ora vigente”
(2011/C 160/01), pubblicata nella G.U.C.E. C 160/1 del
28.05.2011, propone alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea il seguente quesito pregiudiziale.
6.4 “Se, in riferimento alle previsioni
di cui all’art. 191 del TFUE e all’art. 2 della direttiva
2011/92/UE, sia compatibile con il diritto comunitario
l’esperimento di un procedimento di verifica di
assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (ed
eventualmente a VIA) successivamente alla realizzazione
dell’impianto, qualora l’autorizzazione sia stata annullata
dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a verifica
di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale, in
quanto tale verifica era stata esclusa in base a normativa
interna in contrasto con il diritto comunitario”.
6.5 Alla luce di quanto suesposto, quindi, il Collegio
sospende il giudizio e rimette la predetta questione
interpretativa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
6.6 Ai sensi dell’art. 80 del d.lgs. n. 104/2010, spetterà,
perciò, alla parte più diligente proseguire il presente
giudizio presentando apposita istanza di fissazione entro
novanta giorni dalla comunicazione della decisione della
Corte di Giustizia. |
APPALTI: Ricorsi, 10 giorni per i vizi.
In aggiunta ai 30 per le impugnazioni.
Ai fini dell'impugnativa di una aggiudicazione, se emergono
vizi relativi a atti diversi da quelli comunicati dalla
stazione appaltante, il termine per ricorrere al Tar decorre
dalla conoscenza degli atti rimasti ignoti fino a quel
momento, ma può essere incrementato di soli dieci giorni.
E'
quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, nella
sentenza 21.03.2016 n. 1143 rispetto alla disciplina
prevista dal codice dei contratti pubblici vigente (articoli
79 e 120).
La prima norma (art. 79) stabilisce l'onere di comunicare a
tutti i partecipanti alla gara la cosiddetta «decisione di
aggiudicazione», consentendo l'accesso ai candidati non
aggiudicatari l'accesso agli atti del procedimento entro
dieci giorni.
La seconda norma prevede che l'impugnazione deve avvenire
nel termine abbreviato di trenta giorni, decorrente dalla
ricezione della comunicazione in questione. La Corte di
giustizia chiarì (causa C-161/13), che nel caso in cui
emergano vizi riferibili ad atti diversi da quelli
«comunicati», dal giorno in cui l'interessato abbia avuto
piena ed effettiva conoscenza, proprio in esito all'accesso,
degli atti e delle vicende fino ad allora rimasti non noti.
La conseguenza di questa pronuncia è stata che il giudice
italiano ha concluso che, nel caso in cui sorga l'interesse
ad impugnare atti (e a censurare condotte e vizi di
legittimità) conosciuti in occasione dell'accesso, il
termine dei trenta giorni «slitti in avanti» e quindi sia
prorogato di un numero di giorni pari a quello che si è reso
necessario per acquisire la piena conoscenza degli atti in
questione.
Siccome, però, il termine per effettuare
l'accesso è stato fissato dal codice in soli dieci giorni
per esigenze di celerità, la sentenza precisa che il
cosiddetto «termine breve» (30 gg.) per l'impugnazione degli
atti e provvedimenti che non siano stati trasmessi
unitamente alla comunicazione della decisione di
aggiudicazione e che costituiscono oggetto dell'accesso, può
essere incrementato, al massimo, di dieci giorni.
Ciò fermo restando che se la pubblica amministrazione
rifiuta illegittimamente di consentire l'accesso, il termine
non inizia a decorrere; gli atti non visionati non si
consolidano ed il potere di impugnare, dell'interessato
pregiudicato da tale condotta amministrativa, non si «consuma»
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2016).
---------------
MASSIMA
1. L’appello è infondato.
Con il primo mezzo di gravame l’appellante società Di.
lamenta violazione dell’art. 179 del D.lgs. n. 163 del 2006
ed eccesso di potere giurisdizionale per lesione del diritto
di difesa, deducendo che erroneamente il Giudice di primo
grado ha ritenuto che il ricorso fosse irricevibile per
tardività.
La doglianza non merita accoglimento.
1.1. Il D.Lgs. n.163 del 2006 (codice dei contratti
pubblici) stabilisce:
- all’art. 79, che l’Amministrazione deve comunicare a tutti
i partecipanti alla gara la c.d. ‘decisione di
aggiudicazione’; e che (comma 5-quater) ai candidati non
aggiudicatari va consentito l’accesso agli atti del
procedimento entro dieci giorni dalla predetta
comunicazione;
- ed all’art. 120 (quinto comma), che le impugnative avverso
gli atti delle procedure di affidamento di pubblici lavori,
servizi e forniture devono essere proposte nel termine
abbreviato di trenta giorni, decorrente dalla ricezione
della comunicazione in questione.
Ora, secondo l’orientamento di una parte
della giurisprudenza, dal combinato disposto delle due norme
citate (art. 79 ed art. 120) non risultava del tutto chiaro
se il termine per l’impugnazione dovesse essere fatto
decorrere in ogni caso dalla data di avvenuta comunicazione
dell’aggiudicazione; ovvero dalla data di avvenuta
conoscenza degli altri atti (relativi al procedimento di
aggiudicazione) a seguito dell’accesso documentale
(C.S., III, sentenze n. 2407 del 24.04.2012 e n. 1428 del
14.03.2012).
La vicenda che ha condotto alla soluzione della questione è
nota (cfr.: C.S., III, ord. n. 790 dell’11.02.2013 di
rimessione all’Ad.Pl.; C.S. Ad.Pl., ord. n. 14 del
20.05.2013 e Corte di Giustizia CE, Sez. V, 08.05.2014, in
causa C-161/13, nonché Corte di Giustizia CE, III Sezione,
28.01.2010 in causa C-406/08); e per essa non resta che
rinviare alla ricostruzione effettuata dalla sentenza n.
4432 del 2014 di questa Sezione.
In questa sede è sufficiente sottolineare
che la Corte di Giustizia ha infine chiarito al riguardo
-con decisione della V Sezione, 08.05.2014, in causa
C-161/13- che l’art. 120 cit. dev’essere
interpretato nel senso che il termine di trenta giorni per
l’impugnativa del provvedimento di aggiudicazione non
decorre sempre e comunque dal momento della comunicazione di
cui all’articolo 79 cit.; ma, nel caso in cui emergano vizi
riferibili ad atti diversi da quelli ‘comunicati’,
dal giorno in cui l’interessato abbia avuto piena ed
effettiva conoscenza, proprio in esito all’accesso, degli
atti e delle vicende fino ad allora rimasti non noti.
Da ciò la giurisprudenza
(C.S., VI, ord. 11.02.2013, n. 790; C.S., III, 28.08.2014 n.
4432) ha tratto la conclusione che nel caso
in cui sorga l’interesse ad impugnare atti (e/o a censurare
condotte e vizi di legittimità) conosciuti in occasione
dell’accesso, il termine decadenziale breve (di trenta
giorni) “slitta in avanti” (rectius: dev’essere
prorogato; va incrementato) di un numero di giorni pari a
quello che si è reso necessario per acquisire la piena
conoscenza degli atti (delle condotte e dei profili di
illegittimità) in questione.
E poiché, come si è visto, il termine per
effettuare l’accesso è stato fissato dal Legislatore in soli
dieci giorni (e ciò in ragione delle esigenze di celerità
che caratterizzano il procedimento in materia di affidamento
di lavori, forniture e servizi pubblici), la giurisprudenza
ha affermato (cfr.
C.S., III, 28.08.2014 n. 4432) che nelle
pubbliche gare d’appalto il c.d. ‘termine breve’ per
l’impugnazione degli atti e/o provvedimenti che non siano
stati trasmessi unitamente alla comunicazione della
decisione di aggiudicazione e che costituiscono oggetto
dell’accesso (id est: degli atti non immediatamente
conosciuti in occasione della comunicazione dell’intervenuta
aggiudicazione) può essere incrementato, al massimo, di
dieci giorni (fermo restando, beninteso, che se la P.A.
rifiuta illegittimamente di consentire l’accesso, il termine
non inizia a decorrere; gli atti non visionati non si
consolidano ed il potere di impugnare, dell’interessato
pregiudicato da tale condotta amministrativa, non si ‘consuma’).
Ora, nella fattispecie dedotta in giudizio la società Di. è
stata informata dell’avvenuta aggiudicazione in data
22.12.2014, ed in tale occasione Le è stata altresì
comunicata la immediata disponibilità dell’Amministrazione a
consentire l’accesso alla documentazione inerente il
procedimento amministrativo.
E poiché per fare ciò la Di. aveva a disposizione -come
stabilito dall’art. 76 cit.- un periodo di dieci giorni, è
evidente che il termine decadenziale di trenta giorni poteva
‘slittare’, al più, fino al 01.02.2015.
Ma il ricorso è stato notificato in data 04.02.2015, sicché
la sua tardività risulta incontrovertibilmente evidente.
1.2. A nulla varrebbe rilevare che la comunicazione del
22.12.2014 riguardava l’aggiudicazione ‘provvisoria’
e non quella ‘definitiva’.
1.2.1. Ciò che rileva, infatti, è che con tale atto
l’Amministrazione ha fissato nel 22.12.2014 la data iniziale
per l’effettuazione, a domanda, dell’accesso; e dunque
(seppur indirettamente) il ‘dies a quo’ per il
computo del termine (di dieci giorni) entro cui (poter)
utilmente condurre tale attività conoscitiva.
Sicché è evidente che proprio da tale data andavano (e
vanno) computati i dieci giorni ‘in più’ (rispetto
agli ‘ordinari’ trenta giorni) per proporre
l’impugnazione.
D’altra parte, nello stabilire che l’accesso va effettuato
entro dieci giorni dalla ‘comunicazione’ di cui
all’art. 79 cit. (c.d. ‘comunicazione di aggiudicazione’),
il comma 5-quater del predetto articolo non si riferisce
esclusivamente e specificamente alla comunicazione
dell’aggiudicazione ‘definitiva’, ma a qualsiasi
comunicazione, e dunque -in ipotesi- anche alla
comunicazione avente ad oggetto l’intervenuta ‘aggiudicazione
provvisoria’.
E poiché l’Amministrazione si è determinata nel senso di
comunicare alle ditte escluse l’intervenuta aggiudicazione
provvisoria, informandole contestualmente della circostanza
che la documentazione relativa al procedimento era
immediatamente ‘accessibile’ e disponibile (id est:
era già, fin dal momento di detta comunicazione,
disponibile), non appare seriamente revocabile in dubbio che
il ‘dies a quo’ per il computo del termine (di dieci
giorni) entro cui effettuare l’accesso documentale era (e
non poteva che essere) proprio quello della ricezione della
comunicazione in questione.
Sicché la tardività dell’accesso e, in conseguenza, del
ricorso avverso gli atti impugnati (conoscibili fin dal
23.12.2014 ed “accessibili” per i successivi dieci
giorni) è confermata sotto ogni profilo.
1.3. Non resta pertanto che concludere per la correttezza e
condivisibilità della statuizione con cui il Giudice di
primo grado ha affermato che il ricorso è irricevibile. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In materia di immissioni acustiche, affinché la fattispecie
assurga al livello di fatto penalmente rilevante (art. 659,
comma 1, c.p.) e non rimanga confinata entro i limiti di
interesse esclusivamente civilistico delle immissioni sonore
disciplinate, nell'ambito dei conflitti di vicinato,
dall'art. 844 cod. civ., è indefettibilmente necessario che
la condotta sia, ancorché solo astrattamente, idonea ad
arrecare disturbo non a singoli, ancorché diversi, soggetti,
ma ad un numero indeterminato di persone.
Siffatta verifica
è il frutto di un accertamento di fatto rimesso
all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è
tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di
specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio
convincimento su altri elementi probatori in grado di
dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete.
---------------
Or.Ma. e To.Ma. hanno presentato ricorso a
questa
Corte di cassazione per l'annullamento della sentenza con la
quale il
Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Casarano -dichiarata la loro penale
responsabilità in ordine al reato di cui agli artt. 110 e
659, comma 1, cod.
pen., per avere, in concorso fra loro e nelle rispettive
qualità di direttore
responsabile e di amministratore unico delle società che
gestisce una
struttura alberghiera ubicata in Torre San Giovanni di Ugento, cagionato, con
immissioni acustiche, molestie alle occupazione ed al riposo
delle persone-
li ha condannati, concesse le attenuanti generiche e
ritenuta la recidiva per il
Torricella, alla pena di giustizia, subordinando la
concessione della
sospensione condizionale della pena all'avvenuto
risarcimento del danno
patito dalla costituita parte civile entro il termine di sei
mesi dal passaggio in
giudicato della sentenza di condanna.
Ad avviso dell'Or. la sentenza impugnata sarebbe
viziata, sotto il
profilo della violazione di legge, per averlo il Tribunale
ritenuto responsabile
delle molestie, sebbene egli non svolgesse nell'ambito della
attività
alberghiera alcun compito connesso all"animazione", settore
al quale era
preposto un responsabile.
Il ricorrente ha, altresì, lamentato la contraddittorietà e
la manifesta
illogicità della motivazione della sentenza, poiché nella
stessa è affermata la
sua penale responsabilità, sebbene le emergenze istruttorie
segnalino per
una verso la assenza di diffusività delle denunziate
molestie, in quanto le
stesse sono state lamentate da una sola persona, e per altro
verso la
contenuta entità delle immissioni non idonee a cagionare le
lamentate
molestie, così come testimoniato dagli appartenenti all'Arma
dei Carabinieri
intervenuti suoi luoghi e successivamente sentiti in
dibattimento.
Il ricorrente lamenta anche il fatto che il giudicante, il
quale ha irrogato
una sanzione pecuniaria di non elevato importo, abbia
ritenuto di dovere
concedere il beneficio della sospensione condizionale della
pena,
pregiudicando il condannato in relazione ad altre eventuali
ulteriori fruizioni
del beneficio.
E', infine, censurata la sentenza nella parte in cui il
ricorrente è stato
condannato al risarcimento del danno in favore della
costituita parte civile,
senza che siano stati chiariti i criteri di determinazione
della somma
liquidata.
Quanto al To., questi ha prioritariamente censurato
la sentenza
nella parte in cui, pur avendo il giudicante sostenuto che
non erano emersi
elementi quanto alla responsabilità in ordine alla
violazione dell'art. 659, comma 2, cod. pen., in dispositivo
non ha pronunziato formula ampiamente
assolutoria relativamente a tale fattispecie di reato.
Ha, poi, dedotto, con altro motivo di ricorso, la violazione
di legge per
avere il Tribunale ritenuto sussistere il reato di cui
all'art. 659, comma 1,
cod. pen., sebbene non sia stata provata la diffusività
della dedotte molestie.
Il ricorrente ha, ancora, lamentato il fatto che sia stata
affermata la sua
penale responsabilità, sebbene egli, nella sua qualità di
amministratore unico
della società che gestisce l'albergo, non abbia dato alcun
apporto causale
alla commissione del reato.
Infine, anche il To. lamenta la quantificazione
dell'ammontare del
risarcimento del danno liquidato in favore della costituita
parte civile in
assenza di qualsivoglia prova di esso, nonché la
subordinazione della
sospensione condizionale della pena, peraltro non richiesta,
all'avvenuto
pagamento in favore della detta parte civile della somma
liquidata a titolo
risarcitorio.
...
Con riferimento alla imputazione concernente la violazione
del comma
primo dell'art. 659 cod. pen., rileva la Corte, trattandosi
di una tipica
fattispecie di reato di pericolo presunto, che può dirsi
integrata l'ipotesi
contravvenzionale de qua anche soltanto sulla base della
mera idoneità della
condotta ad arrecare disturbo (Corte di cassazione, Sezione
I penale, 02.12.2011, n. 44905), non essendo necessario che la
molestia in
questione si sia effettivamente realizzata (Corte di
cassazione, Sezione I
penale, 07.01.2008, n. 246).
Va però ribadito il costante orientamento secondo il quale,
affinché la
fattispecie assurga al livello di fatto penalmente rilevante
e non rimanga
confinata entro i limiti di interesse esclusivamente
civilistico delle immissioni
sonore disciplinate, nell'ambito dei conflitti di vicinato,
dall'art. 844 cod. civ.,
è indefettibilmente necessario che la condotta sia, ancorché
solo
astrattamente, idonea ad arrecare disturbo non a singoli,
ancorché diversi,
soggetti, ma tale idoneità deve essere potenzialmente
riferita ad un
numero indeterminato di persone (Corte di cassazione,
Sezione I penale, 28.02.2012, n. 7748).
Ciò posto, considerato che l'accertamento di detta idoneità,
costituendo
essa un elemento della materialità del reato,
è strettamente
necessario ai
fini della verifica della sussistenza della fattispecie
penalmente rilevante, e
pur tenuto conto del rilievo che, secondo un condivisibile
orientamento
ancora di recente ribadito da questa stessa Sezione, una
siffatta verifica è il
frutto di un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento
del giudice di
merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente
sull'espletamento di
specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio
convincimento su
altri elementi probatori in grado di dimostrare la
sussistenza di un fenomeno
in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica
quiete (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 16.03.2015, n. 11031),
va
precisato che
esso deve, comunque, basarsi su dati obbiettivamente
rilevati -ancorché
non necessariamente con strumentazioni tecniche ma anche
sulla base delle
coerenti risultanze sensoriali dei testi escussi- del cui
apprezzamento il
giudicante deve dare conto, tanto più ove si tratti di dati
non strumentali,
nella motivazione del suo provvedimento
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.03.2016 n. 10478). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In
relazione al disposto dell’art. 8 del DPR 160/2010, la
variante semplificata resta subordinata dal comune
procedente ad una concreta verifica di inesistenza o di
insufficienza di aree destinate all’insediamento di impianti
produttivi.
Anche di recente il Consiglio di Stato ha ribadito il
carattere eccezionale della procedura, “la quale non può
essere surrettiziamente trasformata in una modalità
“ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico
generale: pertanto, perché a tale procedura possa
legittimamente farsi luogo, occorre che siano
preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i
presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche
l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad
insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di queste,
laddove per “insufficienza” deve intendersi, in costanza
degli standard previsti, una superficie non congrua (e,
quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da
realizzare”.
---------------
Nel merito il ricorso è fondato, in relazione all’assorbente
censura sul grave difetto motivazionale che ha
caratterizzato l’intero corso della procedura di variante
impugnata.
Va in primo luogo puntualizzato che, a fronte della
presentazione in data 16.1.2013 del progetto da parte della
società contro interessata Va.Im., volto “al recupero
funzionale ed alla ristrutturazione edilizia” del
fabbricato da adibire a “farmacia, studi medici e
residenziale in variante al PRG ed al piano
particolareggiato”, il dirigente dell’Area Servizi alla
Città ed al Territorio del comune di Giulianova aveva
espresso in data 08.05.2013 parere negativo per alcuni
profili di contrasto con la strumentazione vigente, generale
ed attuativa.
Ciò nonostante, senza rendere alcun specifico richiamo a
tale parere negativo, il Responsabile del SUAP ha disposto
la convocazione della conferenza di servizi ex art. 8 del
DPR 160/2010, sulla scorta di motivazione generica basata
sul fatto che “l’intervento di cui sopra consentirà la
riqualificazione del tessuto urbano dell’area in oggetto”.
Vale la pena di evidenziare che gli esiti della conferenza
–terminata nell’unica seduta del 03.06.2013- sono riportati
nel sintetico verbale in pari data, con cui si esprime
parere favorevole alla variante urbanistica “sotto il
profilo urbanistico ed edilizio”. Sulla scorta del
parere favorevole acquisito dalla Provincia di Teramo e
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in data
02.09.2013 dal comune di Giulianova, il consiglio comunale
ha poi dato séguito all’intervento rilevando che “l’attuazione
del progetto come proposto genera a favore di questo ente
una quota di plusvalenza pari ad euro 100.416,00”, così
approvando ai sensi dell’art. 8 del DPR 160/2010 il progetto
per il recupero funzionale e la ristrutturazione edilizia
del fabbricato “polifunzionale” in via Gramsci.
Trattasi di istruttoria e di motivazione del tutto
inadeguata, proprio in relazione al disposto dell’art. 8 del
DPR 160/2010, secondo cui la variante semplificata resta
subordinata dal comune procedente ad una concreta verifica
di inesistenza o di insufficienza di aree destinate
all’insediamento di impianti produttivi.
Anche di recente il Consiglio di Stato (da ultimo VI sez.,
sentenza 08.01.2016 n. 27) ha ribadito il carattere
eccezionale della procedura, “la quale non può essere
surrettiziamente trasformata in una modalità “ordinaria” di
variazione dello strumento urbanistico generale: pertanto,
perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo,
occorre che siano preventivamente accertati in modo
oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla
norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico
di aree destinate ad insediamenti produttivi ovvero
l’insufficienza di queste, laddove per “insufficienza” deve
intendersi, in costanza degli standard previsti, una
superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine
all’insediamento da realizzare (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
15.07.2011, nr. 4308; id., 25.06.2007, nr. 3593; id.,
03.03.2006, nr. 1038)”.
Nel caso di specie, nessun cenno istruttorio è stato operato
in ordine alla verifica in concreto sull’esistenza o meno,
in ambito civico, di spazi destinati ad insediamenti
produttivi (il ricorrente si è peraltro anche soffermato sul
punto, specificando –senza avversaria confutazione- gli
ambiti territoriali che a suo dire postulerebbero ampie
disponibilità dello strumento urbanistico in tal senso).
La stessa difesa del comune si è appellata al fatto che,
soprattutto in presenza di strutture già esistenti e
bisognose di ampliamento, gli spazi da reperire sarebbero
quelli all’interno dei luoghi ove preesiste l’insediamento,
risultando inutile riscontrare l’esistenza di spazi in altra
parte del territorio difficilmente utilizzabili, con
improbabili (se non impossibili) traslochi di tutta
l’attività commerciale o professionale in atto.
Ora, in disparte il fatto che qualsiasi margine di
adattabilità della verifica al progetto presentato non può
mai prescindere dallo strumento vigente, il quale non può
essere oggetto di modifiche per adeguarlo alle esigenze del
proponente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, nr. 3593/2007), va
anche detto che nella specie non si tratta nemmeno di un
insediamento preesistente. L’immobile in questione era
dismesso dopo un risalente utilizzo ad ufficio fiscale, per
cui l’attività economica programmata (farmacia e studi
medici), che giustifica gli ampliamenti della vecchia
struttura, risulta di nuova istituzione.
Resta pertanto inconferente il richiamo alle difficoltà di
trasloco dell’attività in corso verso siti urbanisticamente
dedicati (di cui il Comune non si è interessato nemmeno di
controllarne estensione e/o vicinanza), dovendosi piuttosto
rilevare la non appropriatezza, logica prima ancora che
giuridica, di un sistema che dovesse consentire al
proprietario di turno di qualsiasi immobile dismesso, ovvero
finora adibito a tutt’altro utilizzo, di poter approntare in
loco “a piacimento” un rilevante insediamento
economico-produttivo, pur in assenza di idoneità urbanistica
dell’area e pur in presenza di zone alternative, altrove
localizzate nello stesso Comune.
Né può condividersi il tentativo delle parti resistenti di
riportare l’iniziativa in questione ad un ampliamento della
farmacia già presente in zona. In realtà tale esercizio –e
l’immobile nel quale viene svolta l’attività- nulla ha
direttamente a che vedere con l’iniziativa edilizio/
urbanistica dell’immobile da ristrutturare e da ampliare.
Che poi il gestore della farmacia abbia deciso (come pare)
di spostarsi presso la nuova struttura polifunzionale poco
cambia al riguardo, trattandosi di una semplice adesione
logistica alla struttura polifunzionale, magari per
intercettare più agevolmente la clientela proveniente dagli
studi medici.
Nel caso di specie, si è visto poi come ad inizio
istruttoria sia stato raccolto un parere negativo reso dal
competente Ufficio del Comune, che aveva registrato un
contrasto del progetto con i vigenti statuti urbanistici
generali ed attuativi. Almeno tale circostanza avrebbe
dovuto sensibilizzare gli organi procedenti verso una
verifica ancor più rigorosa, non solo sull’esistenza o meno
di aree idonee in territorio civico, ma finanche
sull’impatto dell’insediamento nei riguardi dell’equilibrio
urbanistico del Comune; ma di contro, nessuna specifica
argomentazione del SUAP, della conferenza e del consiglio
comunale è intervenuta al riguardo, neppure per chiarire
(almeno) le ragioni in base alle quali tale parere poteva
essere disatteso, essendosi limitato l’Organo consiliare ad
evidenziare solo gli asseriti profitti economici dell’ente
che sarebbero scaturiti con nuovo insediamento.
In buona sostanza è mancato in radice qualsiasi
approfondimento istruttorio e motivazionale. Di tanto si è
avveduto lo stesso patrono del comune che, a proposito della
motivazione evanescente esternata dal consiglio comunale, ha
inteso difendersi affermando che nella specie si sarebbe
trattato di una semplice adesione alla proposta della
conferenza dei servizi, così che vi sarebbe stato una sorta
di rinvio ob relationem alle ragioni che avrebbero
indotto la conferenza stessa al parere positivo sul
progetto. Detta tesi manifesta però tutta la sua debolezza,
di fronte al fatto che, come in precedenza evidenziato,
anche nei lavori (e nel “verbalino”) della conferenza
nessuna motivazione sostanziale risulta rintracciabile.
Né ovviamente le sopravvenute variazioni riduttive del
progetto possono aver in qualche modo alleviato i profili
vizianti sopra evidenziati, atteso che risulta del tutto
indifferente ai fini qui in rilievo il minore ingombro
esterno del fabbricato. Va piuttosto affermata in via
consequenziale l’illegittimità derivata anche degli atti
ampliativi (permesso di costruire ed autorizzazione unica)
rilasciati dal comune sul progetto modificato, e ritualmente
impugnati con motivi aggiunti.
Del tutto generica risulta infine la domanda risarcitoria
avanzata con i motivi aggiunti, domanda di cui va pertanto
disposta la reiezione.
In conclusione, il ricorso ed i motivi aggiunti trovano
accoglimento, per gli assorbenti profili sopra evidenziati,
e per l’effetto si annullano gli atti impugnati
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 10.03.2016 n. 132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comune non blocca l'antenna.
Il Comune non può bloccare i lavori per la mega-antenna per
cellulari perché le stazioni radio base sono assimilate
dalla legge a opere di urbanizzazione primaria: non devono
dunque rispettare le norme sulle distanze per i comuni
manufatti edilizi. E in ogni caso quando l'amministrazione
locale nega il titolo edilizio richiesto per incompatibilità
con il regolamento deve motivare il rigetto indicando la
norma violata.
È quanto emerge dalla
sentenza 03.03.2016 n. 1146, del TAR
Campania-Napoli, Sez. VII.
Sono stati, quindi, frettolosi i tecnici dell'ente che hanno
giudicato l'impianto per la telefonia mobile non conforme al
regolamento edilizio. Anzitutto la stazione radio base della
compagnia deve essere considerata un impianto di pubblica
utilità. L'unica struttura a restare fuori terra, inoltre,
sarebbe l'antenna vera e propria, dal momento che tutte le
altre opere di valore edilizio e urbanistico sono interrate.
A riconoscerlo è lo stesso provvedimento di diniego adottato
dall'ente quando dà atto che le armature del basamento sono
al di sotto del piano campagna
(articolo ItaliaOggi del 31.03.2016).
---------------
MASSIMA
3.1 Nel merito le censure sono fondate in quanto le
ragioni ostative addotte dall’amministrazione per rigettare
l’istanza non risultano validamente legittime.
Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente
deduce che all’impianto di telecomunicazione realizzato non
si applicano le norme sulle distanze previste per le
costruzioni in genere.
Il motivo è fondato.
Occorre precisare che in base all’art. 86,
co. 3, del d.lgs. n. 259 del 2003, gli impianti in questione
sono assimilati alle opere di urbanizzazione primaria; nel
caso di specie l’impianto fuori terra consisterebbe poi
nella sola antenna in quante non risultano ulteriori opere
edilizie che abbiano rilevante valore edilizio-urbanistico
essendo quelle già compiute interrate (la circostanza
dedotta nel ricorso e non specificamente contestata dal
Comune viene confermata nel provvedimento impugnato ove si
dà conto che le armature del basamento sono al di sotto del
piano campagna).
Trattandosi dunque di impianto di pubblica utilità privo di
annesse e significative opere edilizie il Collegio ritiene,
in accordo con l’indirizzo prevalente nella giurisprudenza,
che non sia applicabile la normativa sulle distanze previste
per i comuni manufatti edilizi
(cfr. Tar Napoli sez. VII, 2461/2013
“la realizzazione delle SRB non deve rispettare i limiti
dalle strade previsti per le ordinarie costruzioni edilizie,
trattandosi di opere assimilate alle infrastrutture di
urbanizzazione primaria”).
3.2 Deve poi essere accolta la doglianza relativa alla
supposta carenza del titolo di locatario relativamente alle
presentazione delle istanze pregresse.
In disparte di ogni altra considerazione,
è pacifico che al momento della presentazione della denegata
istanza di sanatoria la Telecom fosse locatrice del terreno
interessato dall’impianto; ne consegue la piena
legittimazione alla presentazione della relativa istanza ex
art. 36 DPR 380/2001, il cui rigetto costituisce oggetto del
presente processo.
3.3 Viene poi censurato il diniego nella parte in cui viene
contestato dagli uffici comunali il contrasto con il
regolamento comunale in materia di installazione di impianti
di telecomunicazioni.
La doglianza è fondata.
La motivazione del diniego non riporta la disposizione
violata né l’oggetto della predetta incompatibilità
regolamentare. Sotto tale aspetto la motivazione dunque è
assolutamente generica e inidonea a sostenere il rigetto
della sanatoria.
3.4 La contestazione relativa poi alle modalità di
presentazione della domanda (mancata compilazione sul modulo
regionale) non ha alcun pregio in quanto
il legislatore non richiede a pena di nullità la
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità in
una forma determinata.
Infine,
non costituiscono valido motivo di rigetto, la mancata
indicazione dei siti sensibili nelle vicinanze e l’omesso
calcolo dell’oblazione in quanto si tratta di informazioni e
dati già disponibili all’amministrazione e che, in ogni
caso, possono essere oggetto di integrazione istruttoria
all’interno del procedimento.
3.5 Non può infine avere ingresso nel thema decidendum
la deduzione avanzata dai controinteressati secondo cui la
Telecom avrebbe ottenuto solo dopo la realizzazione delle
opere la deroga regionale (decreto n. 4 del 13.06.2014) alla
distanza della Ferrovia (e dunque non vi sarebbe la doppia
conformità urbanistica ex art. 36 DPR 380/2001).
Tale rilievo è infatti assente nel provvedimento impugnato;
si tratterebbe -a prescindere dunque dall’ulteriore e
logicamente successiva questione se la sanatoria operi con
efficacia ex tunc- di inammissibile integrazione
postuma della motivazione del provvedimento in sede
giudiziale (cfr. Cons. Stato n. 3488/2015), peraltro
proveniente non dalla parte pubblica, ma da una parte
privata, totalmente priva di potestà pubblicistica in
materia.
3.6 Ugualmente inammissibili -in quanto rientranti nel
medesimo divieto di integrazione postuma- sono le deduzioni
della difesa comunale, svolte in giudizio, relative alla
vicinanza dell’impianto a siti sensibili; tale questione non
rilevata dagli uffici comunali competenti, se fondata, potrà
essere eventualmente sollevata dagli uffici comunali in sede
di riedizione del potere.
4. In conclusione, per le ragioni esaminate, il ricorso
viene accolto. Restano assorbite le ulteriori censure stante
il carattere esaustivo di quelle analizzate. |
EDILIZIA PRIVATA: Va
disattesa la censura laddove la ricorrente si duole della
violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento,
la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7
della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come
già ripetutamente affermato dalla Sezione e dal giudice
d'appello, dalla ineluttabilità della sanzione repressiva
comminata dal Comune, anche a cagione dell'assenza di
specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai
presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il
fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul
piano decisionale si poneva all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro,
appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
---------------
In primo luogo, va disattesa la censura articolata con il
quarto motivo con il quale la ricorrente si duole della
violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento,
la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7
della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come
già ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., tra le
tante, sentenze n. 1847 del 30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d'appello (cfr. Cons. Stato,
sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277), dalla ineluttabilità
della sanzione repressiva comminata dal Comune di Pozzuoli,
anche a cagione dell'assenza -come di seguito meglio
evidenziato- di specifici e rilevanti profili di
contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto
che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché
alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva
all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro,
appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In secondo luogo, deve osservarsi che con il provvedimento
impugnato il Comune di Pozzuoli ha contestato alla
ricorrente di aver eseguito in assenza di alcun titolo in
area paesaggisticamente vincolata una palazzina di due piani
della superficie di 100 mq. con antistante tettoia di 30 mq.
oltre a un altro manufatto in muratura della superficie di
20 mq. e ne ha ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27
del D.P.R. n. 380 del 2001
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato,
e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo edilizio che la
legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi
di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il
provvedimento di demolizione.
---------------
Risulta legittima la disciplina di settore applicata (id est
art. 27 DPR 380/2001) la quale sanziona con la demolizione
la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree
assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità e siffatta misura resta applicabile sia che
venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di
interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle
sole zone di inedificabilità assoluta.
In altri termini, non è richiesto un supplemento di
motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria.
Resta poi fermo (cfr. censura con la quale parte ricorrente
lamenta che l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3
anni dalla realizzazione dell’intervento) che non è
“configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto”: e ciò, ancora
una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida,
come qui accade, su di un territorio particolarmente
protetto in cui la presenza dell’interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa.
---------------
Con il primo motivo la ricorrente lamenta che per
l’intervento edilizio realizzato non sarebbe stato
necessario il permesso di costruire bensì la sola DIA
trattandosi di un intervento di risanamento conservativo e/o
ristrutturazione edilizia di un preesistente vetusto comodo
rurale con la conseguenza che il Comune non avrebbe potuto
adottare la misura rispristinatoria.
Segnatamente, si
sarebbe trattato di un intervento di parziale demolizione e
ricostruzione del preesistente manufatto senza determinare
alcun aumento dell’originario volume.
Il motivo non può essere accolto.
Parte ricorrente non ha fornito alcun elemento probatorio
dal quale possa trarsi la conclusione della affermata
legittima preesistenza dei manufatti in questione (ossia del
fatto che essi risalgano al periodo nel quale per realizzare
nuove opere non era necessario munirsi preventivamente del
titolo edilizio e di quello paesaggistico).
In argomento la giurisprudenza ha affermato che l'onere di
fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso
edilizio incombe sull'interessato, e non
sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia
non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di
demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Il Comune di Pozzuoli avendo, dunque, rilevato l’esistenza
di un’intera palazzina di due piani con annessa tettoia
oltre a un manufatto in muratura di 20 mq. ne ha
legittimante ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27
del D.P.R. n. 380. Si tratta, infatti, di opere soggette a
permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli
articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 oltre che
all’autorizzazione paesaggistica, stante l’idoneità, per
caratteristiche e dimensioni, a concretare una significativa
trasformazione dello stato dei luoghi in zona
paesaggisticamente vincolata.
Da quanto precede deriva che l’intervento realizzato non può
essere, come vorrebbe la ricorrente, derubricato da
intervento di nuova costruzione a intervento di risanamento
conservativo o ristrutturazione edilizia con conseguente
mitigazione del trattamento sanzionatorio che avrebbe dovuto
esaurirsi, al più, nell'applicazione delle misure di cui
all'articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001.
Viceversa, risulta legittima la disciplina di settore
applicata (id est art. 27 del medesimo testo unico) la quale
sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di
nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali,
regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate,
a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta
applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta
esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia
limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar
Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del
07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già
evidenziate emergenze, ben lumeggiate nel provvedimento
impugnato, un supplemento di motivazione: nel modello legale
di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa"
l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria. Resta poi fermo (cfr.
censura con la quale parte ricorrente lamenta che
l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3 anni dalla
realizzazione dell’intervento) che non è “configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente, che il tempo non può
legittimare in via di fatto” (cfr. Cons. Stato sezione
quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta
sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013, n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del
07.06.2012): e ciò, ancora una volta, soprattutto ove
l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un
territorio particolarmente protetto in cui la presenza
dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi
è (e resta) in re ipsa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione
non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di
un'istanza ex art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel
sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa
desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la
presentazione dell'istanza ex art. 36 determina
inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di
demolizione all'evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che,
pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica
vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione dell'accertata conformità
dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia
al momento della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo
dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto
dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquisterà la sua
efficacia.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità,
ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, in tempo
successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione,
incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità
dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione,
ma non si riverbera sulla legittimità del precedente
provvedimento di demolizione.
---------------
In aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale,
più volte fatto proprio da questo Tribunale, il silenzio
dell'Amministrazione sulla richiesta di concessione in
sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in
sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a
dire costituisce un'ipotesi di silenzio-significativo al
quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento
esplicito di diniego.
Pertanto, il silenzio-diniego formatosi a seguito del
decorso del termine di 60 giorni può essere impugnato nel
prescritto termine decadenziale, senza però la possibilità
di dedurre vizi formali propri degli atti, quali difetti di
procedura o mancanza di motivazione, non sussistendo
l'obbligo di emanare un atto scritto, ripetitivo degli
effetti di reiezione della istanza, disposti dal sopra
richiamato art. 36.
Il diritto di difesa dell'interessato, tuttavia, non viene
ad essere vulnerato dall'anzidetta limitazione all'attività
assertiva, ben potendo egli dedurre (e validamente provare)
che l'istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento
per la sussistenza della prescritta doppia conformità
urbanistica delle opere abusivamente realizzate: operazione
del tutto scevra da valutazioni discrezionali e
riconducibile a mero accertamento comparativo.
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Infondata è poi, per come prospettata, la censura secondo
cui l'ordine demolitorio perderebbe tout-court efficacia per
effetto della successiva presentazione, in data 19.05.2011, dell'istanza di accertamento di conformità, tenuto
conto che "in tema di opere abusive, non può incidere sulla
legittimità del provvedimento di demolizione il mancato
esame di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36
del D.P.R. n. 380 del 2001 presentata successivamente i cui
effetti l'amministrazione dovrà autonomamente valutare"
(così, C.d.S., Sez. IV, 19.02.2008, n. 849).
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione
non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di
un'istanza ex art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel
sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa
desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la
presentazione dell'istanza ex art. 36 determina
inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di
demolizione all'evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che,
pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica
vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia
dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione dell'accertata conformità
dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia
al momento della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo
dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto
dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquisterà la sua
efficacia.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità,
ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, in tempo
successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione,
incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità
dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione,
ma non si riverbera sulla legittimità del precedente
provvedimento di demolizione (cfr. TAR Campania, VI Sezione,
24.09.2009 n. 5071).
A maggior ragione inconferente, attesa l'autonomia dei
relativi procedimenti, deve ritenersi la dedotta pendenza
della domanda di compatibilità paesaggistica ex artt. 167 e
181 e del d.lgs. n. 42 del 2004, inidonea a refluire sulla
legittimità della sanzione qui avversata, comminata ai sensi
e per gli effetti di cui all'articolo 27 del testo unico
sull'edilizia.
Le considerazioni fin qui svolte esplicano una diretta
incidenza anche in relazione agli ulteriori motivi di
censura articolati in via aggiuntiva con atto depositato in
data 26.11.2011 e riferiti al provvedimento di
reiezione implicita dell'istanza di accertamento di
conformità inoltrata, ai sensi e per gli effetti di cui agli
artt. 36 e/o 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, in data 19.05.2011.
Ed, invero, la ricorrente ripropone qui il proprio
costrutto, sopra già disatteso, secondo cui l'intervento
eseguito, riconducibile alla tipologia del risanamento
conservativo e/o ristrutturazione edilizia non valutabile in
termini di volumi, non sarebbe soggetto a permesso di
costruire. Proprio muovendo da siffatta premessa, assume,
infatti, che il procedimento di sanatoria attivato con la
citata istanza del 19.05.2011 dovrebbe essere ricondotto alla
distinta fattispecie di cui all'articolo 37 del D.P.R. n.
380 del 2001, che non contemplerebbe ipotesi di silenzio-significativo, di talché l'inerzia serbata
dall'Amministrazione intimata andrebbe qualificata come
silenzio inadempimento. Ove il Comune avesse, pertanto,
inteso avvalersi del disposto di cui all'articolo 36 cit.,
tale atto legale implicito dovrebbe ritenersi, per ciò solo,
illegittimo.
Sul punto, in disparte l'articolazione in forma ipotetica
della domanda impugnatoria qui in rilievo, è sufficiente
fare rinvio alle considerazioni già sopra svolte, da
intendersi integralmente richiamate, in ordine alla
insussistenza di conferenti argomenti (e soprattutto di
pertinenti elementi probatori) a sostegno di tale assunto ed
alla conseguente necessità di qualificare l'opera in
addebito come nuova costruzione soggetta a permesso di
costruire, con conseguente sussunzione del procedimento di
sanatoria attivato dalla ricorrente sotto l'egida
dell'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001.
In aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale,
più volte fatto proprio da questo Tribunale, occorre
soggiungere che il silenzio dell'Amministrazione sulla
richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta
di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale
tipico di rigetto, vale a dire costituisce un'ipotesi di
silenzio-significativo al quale vengono collegati gli
effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta,
06.06.2008, n. 2691,
03.04.2006, n. 1710 e 14.02.2006 n. 598; sezione
quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar Campania-Napoli,
questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010, n. 17306,
15.07.2010, n. 16805, 25.05.2010, n. 8779, 17.03.2008, n. 1364 e
07.09.2007, n. 7958; sezione settima,
24.06.2008, n. 6118 e 07.05.2008, n. 3501; sezione
ottava, 15.04.2010, n. 1981; Sezione staccata di
Salerno, sezione seconda, 04.04.2008, n. 478; Tar
Liguria, sezione prima, 24.06.2007, n. 1114; Tar
Lombardia, Milano, sezione seconda, 21.03.2006, n. 642;
Tar Piemonte-Torino, sezione prima, 08.03.2006, n. 1173;
Tar Sicilia-Catania, sezione prima, 17.10.2005, n.
1723).
Natura provvedimentale che non è smentita dalla
qualificazione operata dall'art. 43 della L.R. Campania n.
16 del 2004 (peraltro successivamente abrogato dall'art. 4,
comma 1, lettera n), della L.R. 05.01.2011, n. 1, a
decorrere dal 150° giorno successivo a quello della sua
pubblicazione) in ordine al silenzio serbato dalle
amministrazioni comunali (sulle ripetute domande di
accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del
2001) che "non può riverberare sulla disciplina processuale,
di esclusiva competenza statale, posta per la tutela
giurisdizionale contro il silenzio della pubblica
amministrazione", fermo che "la previsione di cui alla norma
regionale si limita, di fatto, a prevedere e disciplinare un
rimedio alternativo, meramente amministrativo (attivabile
d'ufficio o a cura di parte), avverso la mancata pronuncia
delle amministrazioni comunali sulle richieste di
accertamento di conformità, senza con ciò interferire sulla
qualificazione giuridica del silenzio impugnabile in sede
giurisdizionale e sul relativo rito azionabile" (cfr., in
tali espliciti sensi, sempre questa Sezione n. 8779 del 25.05.2010 e, per implicito, Cons. Stato n. 598 del 2006
cit.).
Pertanto, il silenzio-diniego formatosi a seguito del
decorso del termine di 60 giorni può essere impugnato nel
prescritto termine decadenziale, senza però la possibilità
di dedurre vizi formali propri degli atti, quali difetti di
procedura o mancanza di motivazione, non sussistendo
l'obbligo di emanare un atto scritto, ripetitivo degli
effetti di reiezione della istanza, disposti dal sopra
richiamato art. 36.
Il diritto di difesa dell'interessato, tuttavia, non viene
ad essere vulnerato dall'anzidetta limitazione all'attività
assertiva, ben potendo egli dedurre (e validamente provare)
che l'istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento
per la sussistenza della prescritta doppia conformità
urbanistica delle opere abusivamente realizzate: operazione
del tutto scevra da valutazioni discrezionali e
riconducibile a mero accertamento comparativo.
In ossequio alle divisate coordinate di riferimento il
ricorso per motivi aggiunti non può, dunque, essere accolto
siccome imperniato sul presunto obbligo di provvedere e sul
difetto di motivazione del silenzio rigetto; inoltre, sotto
diverso profilo, non può essere condivisa l’affermazione
della conformità dell'opera realizzata alle prescrizioni
dello strumento urbanistico e del P.T.P. vigenti anche in
ragione del fatto -più volte evidenziato- che viene qui in
rilievo l'esecuzione di abusivi interventi di nuova
costruzione in zona vincolata e non già di un intervento di
risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia (al
riguardo, è sufficiente rammentare che le disposizioni del
codice dei beni culturali –d.lgs. n. 42/2004 cfr. artt. 146
e 167– precludono il rilascio di autorizzazioni
paesaggistiche in sanatoria quando siano stati realizzati
nuovi volumi).
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni il
ricorso, per come integrato dai motivi aggiunti, va respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Deroghe all'operatività del vincolo legale.
L'esclusione dell'operatività del
vincolo paesaggistico per le aree rientranti nella
previsione dell'art. 142, comma secondo, lett. c), del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, riguarda esclusivamente quelle aree che,
nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, alla data
del 06.09.1985 ricadevano nei centri edificati perimetrati
ai sensi dell'art. 18 della L. 22.10.1971, n. 865
(cosiddetti "territori costruiti"), con conseguente divieto
per le amministrazioni comunali di ampliare detta disciplina
derogatoria ricomprendendovi anche zone non edificate
(nella specie la Corte ha ritenuto integrato il reato
paesaggistico, nonostante il rilascio da parte del comune di
permessi di costruire in assenza dell'autorizzazione
paesaggistica, necessaria trattandosi di territorio non
costruito).
---------------
Il ricorso è
fondato.
Relativamente al reato di cui al capo b) l'assoluzione si
fonda sulla premessa che la normativa del P.U.T.T. (Piano
Urbanistico Tematico Territoriale) non fosse applicabile
trattandosi di "territorio costruito", come emergeva dalla
stessa relazione del consulente tecnico del pubblico
ministero.
La decisione, ancorché apparentemente avallata dalla
consulenza del pubblico ministero, è frutto di un'errata
interpretazione della norma e conseguentemente della nozione
di "territorio costruito" risultante dalla legge e dallo
stesso comma 5 dell'art. 103 delle norme di attuazione del
Piano Urbanistico Tematico, il quale comma richiama
sostanzialmente il contenuto del D.Lgs. n. 490 del 1999,
art. 146. Quest'ultima norma a sua volta riproduce la L. n.
431 del 1985, art. 1 ed anticipa il contenuto del D.Lgs. n.
42 del 2004, art. 142.
Per comprendere i termini della questione è pertanto
opportuno analizzare la normativa applicabile alla
fattispecie. Il D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146, comma 2,
vigente all'epoca della lottizzazione, stabiliva che: "Le
disposizioni previste dal comma 1 non si applicano alle aree
che alla data del 06.09.1985:
a) sono delimitate negli strumenti urbanistici come zone A)
e B);
b) limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali
di attuazione, sono delimitate negli strumenti urbanistici,
a norma del D.M. 02.04.1968, n. 1444, come zone diverse
da quelle indicate alla lettera A) e, nei comuni sprovvisti
di tali strumenti, ricadono nei centri edificati perimetrati
a norma della L. 22.10.1971, n. 865, art. 18".
Il legislatore del 1999, con la norma citata, dopo avere
indicato le zone vincolate, confermando la previgente
previsione di analogo tenore contenuta nella L. n. 485 del
1981, al comma 2 ha contemplato alcune eccezioni, escludendo
l'operatività del vincolo legale per tutte le aree che alla
data del 06.09.1985 (di entrata in vigore della "legge Galasso",
pubblicata nella G.U. del 22.08.1985) si trovassero in
determinate condizioni.
La deroga si riferiva a tre ipotesi:
- la prima riguardava le zone delimitate dagli strumenti
urbanistici come zone A e B;
- la seconda si riferiva alle
porzioni di territorio ricomprese nei programmi pluriennali
di attuazione vigenti a tale data, individuate negli
strumenti urbanistici, ai sensi del D.M. 02.04.1968, n. 1444,
come zone diverse dalle prime due;
- la terza riguardava i
comuni sprovvisti di tali strumenti e concerneva le aree
ricadenti nei centri edificati, perimetrati ai sensi della
L. 22.10.1971, n. 865, art. 18.
Al riguardo va ricordato brevemente che la L. n. 765 del
1967, introducendo la L. urbanistica n. 1150 del 1942, art.
41-bis, aveva stabilito che "tutti i comuni, nella formazione
di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli
esistenti, dovessero osservare limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati,
nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi" (c.d. standards urbanistici).
Tali limiti e
rapporti sarebbero stati definiti per zone territoriali
omogenee, con un decreto del Ministro per i lavori pubblici,
poi effettivamente emanato nel 1968, con il n. 1444. Il
decreto in parola, all'art. 2, delinea sotto un profilo
funzionale sei tipologie di zone omogenee, ognuna
individuata con una lettera (da A a F) e caratterizzata da
una distinta destinazione urbanistica e potenzialità
edificatoria. Ciò consentiva e consente ai comuni di dare
piena applicazione a quanto previsto dall'art. 7 della legge
urbanistica all'epoca vigente, che prescriveva che il piano
regolatore generale suddividesse in zone l'intero territorio
comunale, ognuna con la propria connotazione tipologica e
funzionale, individuando, tra le altre, quelle
contraddistinte da particolari caratteristiche storielle,
paesistiche ed ambientali, per le quali avrebbe dovuto anche
individuare i relativi vincoli.
Ciò precisato, va ricordato
che le zone A) vengono definite dal D.M. del 1968 come "le
parti del territorio interessate da agglomerati urbani che
rivestono carattere storico, artistico o di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree
circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per
tali caratteristiche, degli agglomerati stessi"; le zone B)
sono invece quelle porzioni di territorio "totalmente o
parzialmente edificate, diverse dalle zone A): si
considerano parzialmente edificate le zone in cui la
superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore
al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e
nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq".
In questo ambito, pertanto, l'art. 146 intendeva escludere
in assoluto l'operatività della tutela legale per tutte
quelle zone già completamente o fortemente edificate ed
urbanizzate (zone B), rispetto alle quali le eventuali
valenze paesaggistiche risultavano sostanzialmente già
cristallizzate; nonché per quelle zone in relazione alle
quali gli strumenti urbanistici avessero già autonomamente
proceduto ad una ricognizione degli elementi di rilievo
storico, paesistico ed ambientale ed alla individuazione del
relativo regime vincolistico (zone A).
Più articolata era ed è la seconda ipotesi di esclusione,
che prende in considerazione le quattro rimanenti zone
omogenee (C, D, E ed F), ove non si riscontrano i caratteri
delle prime due, poiché ancora in larga parte inedificate o
destinate ad insediamenti abitativi e commerciali, oppure
industriali o latamente produttivi, ovvero per i quali sia
previsto un utilizzo agricolo o, ancora, la realizzazione di
impianti ed attrezzature di interesse generale.
Con
riferimento a queste zone il legislatore dell'epoca (la
normativa non è cambiata perché l'art. 142 codice urbani
attualmente vigente riproduce sostanzialmente il contenuto
dell'art. 146 ora in esame) ha sancito dunque
l'inapplicabilità della tutela legale solo per quelle
porzioni di territorio aventi una destinazione urbanistica
diversa dalle zone A) e B) che alla data di entrata in
vigore della "Galasso" risultassero incluse in programmi
pluriennali di attuazione (PP.PP.AA.). Questi ultimi
rappresentano uno strumento di programmazione
economico-temporale introdotto nel nostro ordinamento
dall'art. 13 della cosiddetta "legge Bucalossi" o "legge
suoli" (L. n. 10 del 1977).
La norma anzidetta aveva
disposto che l'attuazione degli strumenti urbanistici
generali dovesse avvenire sulla base di piani pluriennali,
aventi validità temporale variabile dai tre ai cinque anni,
la cui funzione era quella di delimitare le aree e le zone -incluse o meno in piani particolareggiati o in piani
convenzionati di lottizzazione- nei quali dovevano
realizzarsi, anche a mezzo di comparti, le previsioni di
detti strumenti e le relative urbanizzazioni. La funzione di
questi programmi era pertanto quella di individuare, anche
cronologicamente, le fasi di attuazione del piano regolatore
generale, evitando uno sviluppo urbano a "macchia d'olio"
che, lasciato alla sola iniziativa dei privati avrebbe reso
più disorganica ed onerosa la realizzazione dei nuovi
insediamenti e delle relative opere urbanizzative.
La loro
funzione era anche quella di imporre la realizzazione delle
previsioni di P.R.G. ("...debbono realizzarsi.."), tanto che
lo stesso art. 13 consentiva al Comune di espropriare le
aree incluse nei P.PA. qualora nei tempi dagli stessi
indicati gli aventi titolo non avessero presentato istanza
di concessione edilizia.
Proprio per tale ragione, sia la "legge Galasso", che il
D.Lgs. n. 490 del 1999, che il nuovo codice Urbani hanno
inteso salvaguardare l'attività programmatoria già posta in
essere dai Comuni alla data del 06.09.1985, senza condizionare
con la nuova forma di tutela legale interventi pianificatori
già stabiliti in specifici ambiti territoriali.
La terza ipotesi di esclusione della tutela legale
contemplata dall'art. 146, comma 2, faceva invece
riferimento a quelle parti di territorio che, sempre alla
data di entrata in vigore della "Galasso", nei comuni
sprovvisti di strumenti urbanistici, generali o
particolareggiati, ricadessero nei "centri edificati", così
come perimetrali in applicazione della L. n. 865 del 1971,
art. 18. Quest'ultima disposizione aveva imposto alle
amministrazioni comunali non dotate di strumenti urbanistici
di individuare le aree edificate o urbanizzate, mediante
"delimitazione dei centri edificati con deliberazione
adottata dal consiglio comunale".
La stessa norma chiariva
che "il centro edificato è delimitato, per ciascun centro o
nucleo abitato, dal perimetro continuo che comprende tutte
le aree edificate con continuità ed i lotti interclusi. Non
possono essere compresi nel perimetro dei centri edificati
gli insediamenti sparsi e le aree esterne, anche se
interessate dal processo di urbanizzazione".
Ne discende
che, anche in questo caso, la norma non ha inteso applicare
la tutela legale con riferimento ad aree il cui assetto
urbanistico fosse sostanzialmente già definito, similmente a
quanto già disposto per le zone B), nell'ipotesi prima
analizzata. Dal tenore letterale della norma dianzi
richiamata, vigente all'epoca del fatto, appare palese che
l'esclusione si riferiva alle zone già antropizzate.
La perimetrazione consiliare, nei casi in cui era consentita
ossia per i comuni sprovvisti di pianificazione
territoriale, doveva essere effettuata in base alla L. n.
865 del 1971, art. 18, e riguardare centri già edificati
alla data di entrata in vigore della legge "Galasso". In
altre parole la deliberazione consiliare poteva individuare
aree già edificatela non poteva considerare, al fine di
escludere le autorizzazioni previste dalla legge,
"territorio costruito" zone dell'ambito comunale non
edificate.
La deroga si giustificava per le zone già
costruite o in procinto di esserlo in base a programmi
validi all'epoca della Legge Galasso, ma non per le zone non
ancora edificate. Per queste ultime non v'era l'esigenza di
sottrarle alla normativa paesaggistica proprio perché non
ancora edificate. Se il piano non era attuato cadeva la
ragione della deroga ed il vincolo si riespandeva, in quanto
l'operatività della deroga posta dalla L. n. 431 del 1985,
art. 1, comma 2, e poi dal D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146,
presupponeva l'attualità del piano. Tale effetto non poteva
essere eluso con una proroga o una rinnovazione (cfr. su
questi temi Cass. n. 11716 del 2001; n. 1151 del 2000).
La disciplina normativa dianzi richiamata è stata
sostanzialmente riprodotta nelle norme attuative del Piano
Urbanistico Tematico Paesaggistico della Regione Puglia.
Invero, il comma 5 dell'art. 1.03 delle norme tecniche di
attuazione di tale piano dispone testualmente: che le norme
contenute nel Piano non "Trovano applicazione all'interno
dei territori costruiti che vengono, anche in applicazione
della L. n. 431 del 1985, art. 1 così definiti:
1) Aree tipizzate dagli strumenti urbanistici vigenti come
zone omogenee "A" e "B";
2) Aree tipizzate negli strumenti urbanistici come zone
omogenee "C" o come zone turistiche, direzionali,
artigianali, industriali, miste se, alla data del 06.06.1990 incluse in uno strumento urbanistico esecutivo
(Piano Particolareggiato o piano di lottizzazione)
regolarmente presentato e, inoltre le aree incluse, anche se
in percentuale in Programmi Pluriennali di Attuazione
approvati alla stessa data;
3) aree che, ancorché non tipizzate come zone omogenee "B"
dagli strumenti urbanistici vigenti: o ne abbiano di fatto
le caratteristiche (ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968
vengono riconosciute come regolarmente edificate (o con
edificato già sanato ai sensi della L. n. 431 del 1985) e
vengono perimetrale su cartografia catastale con specifica
deliberazione del Consiglio Comunale; o siano intercluse
all'interno del perimetro definito dalla presenza di maglie
regolarmente edificatele vengono perimetrate su cartografia
catastale con specifica deliberazione del Consiglio
comunale".
Come appare palese le norme tecniche di attuazione del PUTT
riproducono sostanzialmente le tre ipotesi di deroga
previste dalla legge nazionale, la quale peraltro non poteva
essere derogata da norme tecniche regionali. Quindi, anche
in base alla normativa contenuta nel Piano, la deliberazione
Comunale poteva perimetrare le zone già costruite alla data
del 06.06.1990, ma non considerare edificate zone che
non lo erano al fine di sottrarle all'applicazione delle
norme di attuazione del Piano.
Richiamata la normativa
applicabile alla fattispecie, si osserva, da un lato, che
trattasi di suolo agricolo non edificato, sito in prossimità
di un bosco e non nel perimetro urbano continuo come
delineato dalla L. n. 865 del 1971, art. 18, prima
richiamata e dall'altro, che la perimetrazione richiamata
dal tribunale sarebbe stata effettuata con deliberazione del
01.06.del 2005, integrativa di una precedente
deliberazione del 2003 e, quindi, in epoca successiva al
mese di giugno del 1990, termine ultimo fissato nel piano
per la programmazione edificatoria esclusa dal rispetto
della normativa paesaggistica.
Il difensore dei ricorrenti nella memoria difensiva, dopo
avere premesso che l'area in questione sarebbe stata
"pacificamente" inclusa nel "territorio costruito" con la
deliberazione anzidetta, sostiene che il pubblico ministero
non censura la sentenza che ha preso atto dell'esistenza
della deliberazione, ma la legittimità stessa della
deliberazione. Il che secondo il difensore sarebbe
inammissibile.
Il rilievo non è esatto. Invero, il pubblico ministero
sostiene che con la deliberazione comunale prima richiamata
il Consiglio Comunale aveva si considerato la zona in
questione esclusa dall'obbligo dell'autorizzazione, ma non
perché perimetrata in base al punto 3 del comma 5
dell'articolo 1.03 delle norme tecniche di attuazione del
Piano Urbanistico Territoriale Tematico e Paesaggistico, ma
perché si era ritenuto,peraltro per errore, che essa fosse
già inclusa in un piano pluriennale, ossia perché si era
ritenuto che fosse operativa la deroga di cui al punto due
della legge e delle norme tecniche,senza peraltro
considerare che tale deroga era comunque divenuta inefficace
perché il piano pluriennale non era stato attuato.
Il
Comune, secondo il ricorrente, aveva confuso le varie
deroghe previste dal D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146 e dal
comma 5 della norma di attuazione dianzi richiamata. Per la
deroga di cui al punto 2, come sopra precisato, non occorreva
alcuna deliberazione comunale perché essa discendeva
direttamente dalla legge a seguito dell'inclusione della
zona in un piano già approvato alla data di entrata in
vigore della legge Galasso, secondo l'articolo 146 del
D.Lgs. n. 490 del 1999, o alla data del 06.06.1990,
secondo le norme tecniche del PUTT.
La deliberazione in questione aveva quindi natura meramente
ricognitiva.
In definitiva, secondo il ricorrente, la zona
in questione non era stata inserita in alcun piano
pluriennale e comunque, quand'anche fosse stata inserita, la
deroga non era più operativa perché il piano era scaduto e
l'effetto caducatorio non poteva essere eluso con una
proroga o con una rinnovazione. Al di fuori della previsione
del piano l'unica zona considerata costruita dal Consiglio
Comunale, secondo il pubblico ministero ricorrente, sarebbe
quella a Sud del cimitero.
Il tribunale aveva erroneamente interpretato sia la
deliberazione del Consiglio Comunale che la deposizione
dell'architetto Capitanio, il quale aveva elaborato il
piano. Concludendo, secondo il ricorrente, la zona in
questione non sarebbe stata considerata costruita dal
Consiglio Comunale con una deliberazione adottata ai sensi
del punto tre del comma 5 delle norme tecniche di attuazione
del PUTT già richiamate, ma sarebbe stata considerata
costruita solo perché ritenuta, peraltro erroneamente,
inclusa in un piano pluriennale che era comunque scaduto e
quindi inefficace.
Questa è la tesi esposta nel ricorso che,
come emerge implicitamente dalla stessa memoria difensiva,
era stata già prospettata nel corso del giudizio, ma non è
stata esaminata dal tribunale, il quale si è limitato ad
affermare che la zona era stata inclusa tra quelle costruite
con la dianzi menzionata deliberazione comunale senza porsi
il problema della legittimità stessa di tale inclusione e
senza confutare la diversa interpretazione della
deliberazione offerta dalla pubblica accusa.
La fondatezza
della tesi esposta dal pubblico ministero è invece accredita
non solo dalla relazione dell'architetto Capitanio redatta
ad illustrazione del Piano ed allegata al ricorso, ma anche
dalla ratio della deroga. Da tale relazione e segnatamente
dai punti 15 e 16 emerge che l'Assessore ing. Francesco
Selicato aveva chiesto all'architetto Domenico Capitanio di
chiarire i criteri in base ai quali ricomprendere in
apposite perimetrazioni i "territori costruiti".
Il Capitanio ha risposto precisando che "analizzando le aree
con criteri urbanistici, nessuna parte del territorio
comunale poteva essere considerata" costruita ai sensi del
D.M. n. 1444 del 1968, salvo la zona ubicata a sud del
cimitero". Quindi per l'architetto Capitanio, che ha redatto
il piano poteva considerarsi costruita solo la zona a Sud
del cimitero e non pure quella in questione. L'affermazione
del Capitanio è conforme alla ratio della deroga prevista
dal punto 3 del D.Lgs. n. 499 del 1990, art. 146 e delle
norme tecniche di attuazione del PUTT più volte richiamate,
giacché si potevano considerare "costruite" solo le zone già
edificate.
Invero, la perimetrazione non era richiesta per delimitare
l'intero territorio comunale, ma per definire peraltro nei
comuni sprovvisti di piano regolatore, gli ambiti già
trasformati di fatto dall'edificazione al fine di
individuare in modo netto le zone antropizzate, ormai prive
di peculiarità paesaggistiche e pertanto non meritevoli di
assoggettamento alla normativa vincolistica, e le aree
agricole. Ai fini della deroga la nozione di "territorio
costruito" era data dalla legge e non poteva essere dilatata
dal comune per comprendere zone inedificate al fine di
sottrarle alla normativa sui vincoli.
In base alle considerazioni sopra esposte
è palese la
configurabilità del reato perché si è costruito sulla base
di permessi inefficaci, in quanto privi della preventiva
autorizzazione paesaggistica che nella fattispecie era
necessaria trattandosi di territorio non costruito.
Alla stessa conclusione si perverrebbe quand'anche si
aderisse alla tesi dei prevenuti, recepita dal tribunale,
ossia se si considerasse quella in questione "zona
costruita" in base alla deliberazione più volte menzionata,
trattandosi di deliberazione chiaramente illegittima perché
in contrasto con le disposizioni normative prima citate,
giacché la perimetrazione poteva riguardare solo zone già
costruite all'entrata in vigore della legge Galasso, secondo
il D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 146, o alla data del 06.06.1990, secondo le norme tecniche di attuazione del PUTT.
In tale ipotesi non si pone il problema della
disapplicazione dell'atto amministrativo, giacché, secondo
l'orientamento assunto da questa Corte, a partire
dall'intervento delle Sezioni unite del 12.11.1993,
ricorrente Borgia, ormai consolidato,
il giudice penale è
tenuto ad accertare la conformità tra l'ipotesi fattuale
(opera eseguita o eseguendo) e la fattispecie legale
identificata dalle disposizioni legislative statali e
regionali vigenti nella materia edilizia
(Cass. Sez. 3 18.12.2002, Tanni; Cass. 21.03.2006 n. 21497; Cass.
n. 26144 del 2008). Secondo tale orientamento,
nei casi in
cui l'atto amministrativo costituisca elemento della
fattispecie penale, la sua valutazione da parte del giudice
penale non può prescindere dal rispetto dei principi di
tassatività e tipicità della norma penale.
Il giudice penale è tenuto ad esaminare l'atto con poteri e
finalità sue proprie, senza sindacare l'opportunità e il
merito amministrativo né la legittimità, ma procedendo a
valutare semplicemente, nei termini richiesti dalla stessa
fattispecie incriminatrice, la conformità dell'atto al tipo
previsto dalla disposizione penale.
Il richiamo al concetto
di disapplicazione e agli artt. 4 e 5, l. cont. amm., non
ha, dunque, ragione di essere perché totalmente estraneo
alle valutazioni di competenza proprie del giudice penale,
il quale, nel valutare la validità dell'atto amministrativo,
dove richiesto dalla norma penale, non fa altro che indagare
sulla sussistenza o meno di un elemento normativo della
fattispecie tenendo presente il bene giuridico tutelato;
attività, questa, tipica del giudizio penale, che non può
essere dunque delegata ad altro giudice.
La conformità
all'ordinamento extrapenale dell'elemento normativo, e quindi
l'indagine circa la sua validità, rileva in quanto e nella
misura in cui ciò sia richiesto dal significato impresso
alla fattispecie e ad ogni suo elemento dall'interesse
penalmente protetto, con l'effetto che la rilevanza penale
dell'atto amministrativo (o civile) viene limitata al
substrato di fatto necessario e sufficiente, in combinazione
con gli altri elementi che connotano la fattispecie
criminosa, per l'offesa del bene tutelato o, se si tratta di
elemento costitutivo di segno negativo, per l'esclusione
della stessa.
La necessità di controllare la conformità dell'opera alla
legge ed agli strumenti urbanistici si desume dalla L. n. 47
del 1985, art. 6, comma 1, riprodotto nella L. n. 47 del
1985, art. 29.
L'art. 6 ha introdotto il dovere, per chi si appresta ad
eseguire un'opera, di osservare, non solo quanto prescritto
dalla concessione, ma anche quanto prescritto dalla
normativa urbanistica e di piano. Detta norma ha posto delle
specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato anche
il contenuto. Di conseguenza il titolare del permesso di
costruire, il committente e l'esecutore non possono
considerarsi esenti da responsabilità per il semplice fatto
di avere conseguito il titolo abilitativo se questo è stato
rilasciato in contrasto con la legge o gli strumenti
urbanistici.
Tuttavia non ogni vizio dell'atto
amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice
penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a
conferire al comportamento incriminato significato "lesivo"
del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di
costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di
scardinare il principio di tassatività.
Quindi, anche a
voler prescindere dalla considerazione della originaria
volontà del legislatore del 1865, il quale sicuramente non
si poneva un problema di costruzione delle norme penali incriminatrici, appare ormai del tutto ingiustificato e
superfluo il ricorso, in materia di autorizzazioni
amministrative illegittime, agli artt. 4 e 5, L. cont. amm.,
in quanto l'esame dell'atto amministrativo che sia elemento
della singola fattispecie incriminatice effettuato alla luce
del bene giuridico tutelato non è altro che l'espressione
della piena ed autonoma cognizione del giudice penale, che
non può essere attribuita ad altro giudice o ad organo della
pubblica amministrazione
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2010 n. 27261 - tratto da e
link a www.lexambiente.it). |
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