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aggiornamento al 17.02.2016

aggiornamento all'01.02.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 17.02.2016

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IN EVIDENZA

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Aree vincolate a parcheggio, chiarimenti sul calcolo delle superfici. Cassazione: misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione.
Dal vincolo di destinazione degli spazi a parcheggio sorge un automatico diritto reale d'uso in capo all'acquirente delle unità immobiliari interne all'edificio, restando nulla ogni clausola contraria.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 04.02.2016 n. 2236.
La suprema Corte ricorda che il vincolo di destinazione è inderogabile, ma opera in favore della indifferenziata comunità dei condòmini, tanto che, se per l'attuazione di esso è necessario identificare la superficie da assoggettare all'uso normativamente previsto, secondo le misure ("non inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di costruzione") dalla stessa norma stabilite, il condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice tale identificazione, e pertanto non può ex se, con delibera, costituire il vincolo pubblicistico di destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore.
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
UN METRO QUADRATO PER OGNI DIECI METRI CUBI DI COSTRUZIONE. La Cassazione rammenta inoltre che la legge urbanistica -art. 41-sexies Legge 1150/1942- conteneva all'epoca la previsione in base alla quale "nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti (successivamente ex art. 2 l. n. 122 del 1989: dieci) metri cubi di costruzione".
La Corte di legittimità precisa che la nozione di costruzione, che è diversa da quella di volume o volumetria, suscettibile di margini di opinabilità, implica indefettibilmente il riferimento anche ai muri esterni, giacché non può concepirsi costruzione senza i muri perimetrali che la delimitano (commento tratto da www.casaeclima.com).

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2) Con i primi due motivi di ricorso viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 18 L. 765/1967 (cd L. ponte), 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e dell'art. 12 della legge 246/2005.
Parte ricorrente realisticamente ammette che la Corte di appello ha applicato un orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui
dal vincolo di destinazione degli spazi a parcheggio sorge un automatico diritto reale d'uso in capo all'acquirente delle unità immobiliari interne all'edificio, restando nulla ogni clausola contraria.
In forza di tali principi (riassunti da Cass. 23845/2013; v. poi esemplificativamente 4733/2015)
il vincolo di destinazione è inderogabile, ma opera in favore della indifferenziata comunità dei condòmini, tanto che, come è noto, se per l'attuazione di esso è necessario identificare la superficie da assoggettare all'uso normativamente previsto, secondo le misure ("non inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di costruzione") dalla stessa norma stabilite, il condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice tale identificazione, e pertanto non può, ex se, con delibera, costituire il vincolo pubblicistico di destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore (Cass. 7474/1997).
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
2.1) Parte ricorrente, dopo un'ampia ricostruzione, chiede alla Corte di Cassazione (cfr. pag. 23 in principio) il mutamento dell'orientamento consolidatosi e attacca la sentenza sulla base di due preminenti considerazioni:
a) la circostanza che dal regime creato in giurisprudenza, che può portare alla proprietà comune dell'area (v Cass. 730/2008, ma non è questo il caso), potrebbe derivare un utilizzo, da parte dei condòmini, in violazione della norma imperativa, perché essi potrebbero decidere di vendere o dare in locazione a terzi i posti auto; ovvero un paradossale non utilizzo, qualora essi, privi di autovetture lasciassero liberi gli spazi.
b) il contrasto tra il principio della destinazione ad area di parcheggio indifferenziata e la parte della sentenza in cui "accerta il diritto d'uso della sig. Ri., sull'area di parcheggio di 74,88 mq individuata quale integrazione di quella già destinata allo scopo rispetto ai parametri normativi".
2.2) La Corte reputa che
non vi siano ragioni per discostarsi dall'orientamento giurisprudenziale dominante e osserva che gli inconvenienti ipotizzati in ricorso non siano plausibile chiave per modificare l'interpretazione da tempo data alla materia.
Il legislatore ha inteso attribuire alla comunità condominiale la disponibilità di una superficie a parcheggio stabilita sulla base di una principio di rilevazione della realtà sociale che non è certo smentito dall'evoluzione di questi decenni di applicazione della Legge Ponte, giacché corrisponde a comune esperienza che quel rapporto volumi/superficie conduce semmai a insoddisfacente risposta alle esigenze condominiali. Queste ultime, inoltre, sono quanto mai mutevoli dal punto di vista soggettivo, cosicché non si può far dipendere da circostanze casuali il senso del dictum legislativo.
Va escluso inoltre che la sentenza impugnata si sia posta in contrasto con i principi generali cui si è fatto riferimento. Ancorché sia vero che al punto 3) del dispositivo si dica che viene "assegnata in uso" a Ri.Vi. l'area per parcheggio vetture di 74,88 mq da staccarsi dalla maggior proprietà del piano cantinato di Se.Fi., tale disposizione va letta unitamente alla motivazione e avendo riguardo alla domanda iniziale e al senso complessivo dei termini usati.
Ora, se si considera:
- che l'attrice chiese (sentenza pag. 5) la "restituzione a parcheggio condominiale delle aree descritte" e quindi non un attribuzione in proprietà o in uso personale;
- che la motivazione della sentenza di appello ha chiaramente parlato di area da restituire alla "sua destinazione di parcheggio condominiale, con vincolo reale";
- che essa ha stabilito la facoltà del convenuto di scegliere la porzione di mq 74,88 che avrà la funzione di assicurare l'effettività della destinazione «a uso di parcheggio
»>;
- che la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 1214/2012) ha già avuto modo di riconoscere che ove l'azione per il riconoscimento del diritto reale d'uso sia stata proposta da uno solo dei condomini, il giudice di merito può addirittura individuare un preciso spazio fisico per la sosta dei veicoli di proprietà del condòmino istante, senza che di tale decisione possa dolersi il costruttore del complesso immobiliare;
- che tutto il giudizio è stato istruito non in vista esclusiva della realizzazione del diritto del singolo, ma del rispetto della complessiva proporzione tra volume edificato e area destinata,
se ne desume che la sentenza di appello abbia solo inteso riconoscere il diritto condominiale e pronunciato in dispositivo in favore della istante, solo quale parte che ha agito per far valere un diritto proprio ma che vanta quale condòmina, il cui accertamento ridonda a beneficio di tutto il condominio; grazie al richiamo contenuto in sentenza il diritto riconosciuto può inoltre essere fatto valere anche esecutivamente dalla stessa parte attrice direttamente.
Non vi è quindi alcuna contraddizione tra quanto accertato sulla base della normativa vigente (che regola diritti sorti all'epoca) e quanto stabilito in dispositivo.
3) Il secondo motivo, come si è accennato, sollecita una rivisitazione della interpretazione consolidata, nella parte in cui non adopera l'art. 12 della L. 246/2005, che ha liberalizzato (secondo parte istante in modo "assoluto") la commerciabilità degli spazi di parcheggio.
Orbene,
è vero che la disposizione di cui all'art. 12, nono comma, della legge n. 246 del 2005 ha modificato l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942 inserendo un secondo comma all'art. 41-sexies e stabilendo che gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari. Tuttavia rimane insuperabile la lettura datane da Cass. 4264/2006, a mente della quale la nuova norma trova applicazione soltanto per il futuro, vale a dire per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari. <<L'efficacia retroattiva della norma va infatti esclusa, in quanto, da un lato, non ha natura interpretativa, per mancanza del presupposto necessario a tal fine, costituito dalla incertezza applicativa della disciplina anteriore, e, dall'altro, perché le leggi che modificano il modo di acquisto dei diritti reali o il contenuto degli stessi non incidono sulle situazioni maturate prima della loro entrata in vigore>>.
Nonostante siano trascorsi circa dieci anni da tale lettura, il legislatore non è intervenuto per modificarla, restando così rafforzate le rationes decidendi.

4) Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione artt. 978 e 979 c.c. e art. 1026 cc.
La censura contesta la ricostruzione giurisprudenziale del diritto reale d'uso sulle aree di parcheggio e chiede che esso sia legato alla vita dell'usufruttuario, restando altrimenti privo di durata e tale da espropriare il proprietario costruttore, la proprietà del quale sarebbe compromessa, in violazione della disciplina costituzionale.
La censura non merita soverchia considerazione, sol che si consideri che
il riconoscimento al condòmino del diritto reale d'uso costituisce reazione dell'ordinamento a una scelta, in parte illegittima, del proprietario costruttore. Questi avrebbe dovuto alienare l'area di parcheggio insieme alle unità abitative: avendo voluto riservarsi la proprietà si è volontariamente esposto alla limitazione posta a suo carico dalla legge urbanistica, che, nella specie, è stato necessario imporgli per via giudiziaria.
5) Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 L. 765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 c.c. - errata determinazione del calcolo dello spazio di parcheggio ex art. 18.
Parte ricorrente sostiene che la sentenza erroneamente non ha conteggiato i 32 mq di garage venduti ai signori Ca.-Ca. e i 49 mq di altro garage rimasto al ricorrente e poi trasferito a terzi unitamente agli uffici.
Si duole del fatto che la sentenza abbia ritenuto necessario che gli spazi di parcheggio siano vincolati all'uso diretto e indifferenziato degli occupanti l'edificio.
Afferma che in tal modo si nega la possibilità di trasferire con i singoli atti i posti auto agli acquirenti degli appartamenti, eventualità da ritenere legittima, con possibilità di libera rivendita.
Il quinto motivo (violazione e falsa applicazione art. 18 L. 765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e vizi di motivazione) verte sullo stesso punto attaccato nel precedente e torna a lamentare la contraddizione che sarebbe insita nell'avere affermato l'uso indifferenziato sulle aree a parcheggio e nell'avere poi assegnato alla Ricupero i 74,88 mq mancanti (profilo b). In ogni caso vi sarebbe contraddizione tra detta assegnazione individuale e il non avere considerato i metri quadrati di area che il proprietario aveva assegnato a sé e ai Ca.Ca..
Le due doglianze sono destituite di fondamento, in considerazione di quanto già spiegato sub 2.2).
Invano parte ricorrente fa leva sulla fraseologia usata nel dispositivo della sentenza. Essa non ha trasferito la titolarità della proprietà alla Ri. personalmente, come ha invece fatto il Fi. nel vendere a terzi le due aree che vorrebbe conteggiare; ha solo riconosciuto l'estendersi del diritto indifferenziato dei condomini sull'area che era stata esclusa e ha (con la imprecisa formula "assegna in uso") riconosciuto all'attrice il potere di far valere su detta area (che peraltro secondo la Corte d'appello potrà essere scelta dal convenuto ricorrente) la destinazione a parcheggio condominiale che era stata chiesta e che è stata chiaramente sancita in motivazione.
E' implicito nella giurisprudenza confermata, e invano criticata, che il costruttore non può far conteggiare nell'area vincolata i parcheggi che costruisce e aliena liberamente, senza riguardo al vincolo. Tale regime di libera vendita è compatibile con le costruzioni post 1967, ma solo quanto alle aree di parcheggio eccedenti il limite delle aree da sottoporre al vincolo legale, le quali per essere riconosciute devono essere identificabili dai singoli atti di vendita.
Per la superficie vincolata ex lege 765/1967 il proprietario, che voglia riservarsi la proprietà o cederla a terzi (v. Cass. 11261/2003), deve comunque salvaguardare con tali atti che sia rispettata la destinazione di legge, che riserva stabilmente (come sottolinea la sentenza, pag. 31) i relativi spazi all'uso delle persone che stabilmente abitano le singole unità immobiliari del fabbricato, limite che nel ricorso il Fi. non dichiara e documenta di aver posto, nei sensi di cui si è prima discusso, ai terzi da lui aventi causa.
La violazione del vincolo è implicita nella sua scelta di dividere l'area vincolata più vasta da queste piccole aree riservate e nel suo intendimento di considerare queste aree liberamente rivendibili dagli acquirenti.
6) Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 L. 765/1967 e dell'art. 9 circolare LLPP n. 3210/1967 nonché vizi di motivazione.
Viene qui riproposta la questione relativa al calcolo della superficie da destinare a parcheggio e quindi della correlata cubatura al netto o al lordo dei muri perimetrali dell'edificio.
Parte ricorrente reputa, citando la circolare ministeriale, che la cubatura debba essere computata detraendo i muri perimetrali esterni.
La censura è infondata.
Il testo normativo, che prevale sulle letture che possono aver fornito datate circolari, anteriori alla vita dell'istituto e alla sua elaborazione nel mondo giuridico, depone nel senso voluto dalla sentenza impugnata.
La legge urbanistica (art. 41-sexies Legge 1150/1942) conteneva all'epoca la previsione in base alla quale "nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti (successivamente ex art. 2 l. n. 122 del 1989: dieci) metri cubi di costruzione".
La nozione di costruzione, che è diversa da quella di volume o volumetria, suscettibile di margini di opinabilità, implica indefettibilmente il riferimento anche ai muri esterni, giacché non può concepirsi costruzione senza i muri perimetrali che la delimitano.

La doglianza va quindi respinta.
6.1) Il motivo presenta un altro profilo, concernente la mancata considerazione, nella superficie a suo tempo effettivamente vincolata, degli spazi (un'area di 33,22 mq, ricorso pag. 39) «occupati da "muro di confine", "marciapiede e gabbia cancello" e "gradini interno cortile"», manufatti considerati dalla Corte di appello quali "ostacoli fissi".
Secondo il ricorrente trattasi invece di spazi funzionali al parcheggio e come tali da conteggiare.
La questione è posta anche nel settimo motivo, in cui si deduce che questi ostacoli fissi erano descritti in progetto ed erano ormai goduti dai condòmini.
Anche questa doglianza merita il rigetto.
Con apprezzamento di merito incensurabile in sede di legittimità, la Corte di appello ha ritenuto che i manufatti non fossero da includere nel computo del parcheggio e che l'area da essi occupata fosse "superficie effettivamente non disponibile". Invano il ricorso invoca il diverso parere del consulente sulla loro funzionalità e la inclusione dei manufatti nel progetto approvato: la descrizione dei manufatti conforta l'opinione della Corte, facendola apparire congrua e logica, dunque, si ripete, non sindacabile dal giudice di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.02.2016 n. 2236).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla questione che investe i rapporti tra la sospensione di diritto disciplinata dalla c.d. legge Severino ed il divieto del terzo mandato consecutivo per il sindaco.
La sospensione di diritto dalla carica di sindaco prevista dalla legge c.d. Severino deve essere considerata ai fini dell’applicazione dell’art. 51, comma 3, del TUEL, ossia per il calcolo della durata del mandato, costituendo “causa diversa dalle dimissioni volontarie” di impedimento all’esercizio della carica.
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Premesso:
L’art. 51 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, recante testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (da adesso: TUEL), al secondo comma dispone “Chi ha ricoperto per due mandati consecutivi la carica di sindaco e di presidente della provincia non è, allo scadere del secondo mandato, immediatamente rieleggibile alle medesime cariche”.
La finalità della norma, che prevede una causa d’ineleggibilità originaria, è «di favorire il ricambio ai vertici dell’amministrazione locale ed evitare la soggettivizzazione dell’uso del potere dell’amministratore locale in modo da spezzare il vincolo personale tra elettore ed eletto e per sostituire alla personalità del comando l’impersonalità di esso ed evitare il clientelismo» (fra le tante pronunce: corte di cassazione, sezione I civile, sentenze 29.03.2013 n. 7949 e 12.02.2008 n. 3383).
Alla preclusione in parola il successivo comma 3 pone un’eccezione, consentendo un terzo mandato consecutivo “se uno dei due mandati precedenti ha avuto durata inferiore a due anni, sei mesi e un giorno, per causa diversa dalle dimissioni volontarie”.
Un’altra eccezione è stata introdotta dall’art. 1, comma 138, della legge 07.04.2014 n. 56, ai sensi del quale “Ai comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti non si applicano le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 51 del testo unico; ai sindaci dei medesimi comuni è comunque consentito un numero massimo di tre mandati”.
Ciò premesso,
il Ministero dell’interno s’interroga sulla situazione del sindaco di un Comune con popolazione superiore a tremila abitanti che, durante il secondo mandato, sia stato sospeso di diritto per essere stato condannato in primo grado per uno dei reati tipizzati dagli artt. 10 ed 11 del decreto legislativo 31.12.2012 n. 235, anche con riguardo al caso in cui la sospensione sia venuta meno in conseguenza dell’intervenuta pronuncia d’assoluzione in appello.
Nel caso concreto, poiché per effetto della predetta sospensione l’interessato aveva di fatto esercitato le funzioni di sindaco per un periodo inferiore a due anni, sei mesi ed un giorno, è sorto il dubbio se lo stesso possa legittimamente candidarsi per un terzo mandato in applicazione della deroga prevista dal menzionato art. 51, comma 3.
In altri termini, ci si chiede se la “durata” alla quale si fa riferimento nella disposizione citata debba essere intesa non in senso formale, ma come corrispondente all’arco temporale durante il quale l’organo di vertice dell’ente ha potuto effettivamente svolgere le proprie funzioni. Ciò sempre che l’interruzione derivi da cause indipendenti dalla volontà dell’amministratore, per evitare strumentalizzazioni e facili elusioni della preclusione di cui al comma 2 del medesimo art. 51.

Sulla questione, che investe i rapporti tra la sospensione di diritto disciplinata dalla c.d. legge Severino ed il divieto del terzo mandato consecutivo per il sindaco, non si rinviene nessun precedente giurisprudenziale specifico.
Nondimeno, con parere 13.04.2005 n. 1137, la prima sezione del Consiglio di Stato, prendendo in considerazione la sospensione dell’organo consiliare disposta nelle more della procedura dì scioglimento ai sensi dell’art. 141, comma 7, del decreto legislativo n. 267 del 2000, ha chiarito che «il provvedimento prefettizio, sottraendo agli organi elettivi l’amministrazione dell’ente, che è assegnata con lo stesso provvedimento ad un organo straordinario (art. 141, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000), anticipa gli effetti che si consolidano con il decreto che dispone lo scioglimento del consiglio comunale. Si determina, in tal modo, a differenza di quanto accade nei casi di impedimento personale e temporaneo del sindaco a svolgere le proprie funzioni, una situazione non dissimile da quella che si realizza nell’ipotesi di gestione commissariale conseguente allo scioglimento. Ragioni di intrinseca coerenza, congiunte alla considerazione che il fine della norma è di evitare che i poteri spettanti al vertice dell’amministrazione siano esercitati troppo a lungo dallo stesso soggetto, inducono a ritenere che il periodo della sospensione, durante la quale il sindaco perde l’effettivo esercizio delle funzioni, non concorre a concretare la durata del mandato ostativa, secondo il disposto dell’art. 51, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, della rieleggibilità».
A sua volta, la corte di cassazione, prima sezione civile, con sentenza 26.03.2015 n. 6128 ha precisato che l’ostatività prevista dall’art. 51, comma 2, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali «prescinde dall’effettivo espletamento delle funzioni di sindaco, con l’unica eccezione introdotta dallo stesso art. 51, comma 3». In tal senso, «la possibilità che durante uno dei mandati vi sia stata una gestione commissariale (tranne che non si renda applicabile la già ricordata eccezione prevista dal terzo comma dell’art. 51) non incide sull’operatività della norma».
Un riferimento alla durata effettiva del mandato sindacale è contenuto anche nella sentenza della suprema corte 04.12.2012 n. 21685, nella quale si legge: «a rendere possibile un mandato ulteriore consecutivo –significativamente individuato dalla legge come il “terzo”– l’eventualità che i due mandati precedenti abbiano avuto una durata effettiva (complessivamente) inferiore a sette anni, sei mesi e un giorno. La regola del divieto del terzo mandato consecutivo non vale invece in presenza di un “intervallo temporale” cui è, tra l’altro, ricollegabile la possibile modificazione del corpo elettorale oltre che la perdita di influenza da parte dell’ex sindaco, rimasto, per il periodo stesso, fuori della gestione amministrativa” (Cass. n. 13181 del 2007 citata, in un caso in cui candidato sindaco non si era presentato ad una delle tornate elettorali precedenti, poi risultata nulla per mancato raggiungimento del quorum del votanti)».
Ad avviso del Ministero dell’interno, dalle predette pronunce –sebbene le stesse non prendano in considerazione la sospensione di diritto dell’amministratore locale– sembrerebbe potersi desumere il principio in virtù del quale il lasso di tempo in cui alla persona sia di fatto precluso l’esercizio delle funzioni di sindaco non va computato nella durata del mandato elettorale ed assume, dunque, rilevanza per gli effetti di cui al più volte citato art. 51, comma 3; sempre che la preclusione non dipenda dalle dimissioni volontarie .per evitare che l’interessato possa aggirare il divieto posto dal comma 2 dell’art. 51, provocando un’intenzionale ed artificiosa interruzione del mandato preordinata a rendere applicabile la deroga normativa.
Sotto tale profilo si potrebbe ipotizzare che la sospensione di diritto disciplinata dalla c.d. legge Severino, non sembrando equiparabile ad un atto intenzionale quali sono appunto le dimissioni volontarie, costituisca una causa idonea a consentire un terzo mandato consecutivo, laddove, per effetto di essa, la durata di uno dei due mandati precedenti si sia ridotta a meno di due anni, sei mesi ed un giorno.
Sennonché, nel parere di cui sopra il Consiglio di Stato ha precisato che il periodo della sospensione disposta ai sensi dell’art. 141, comma 7, del decreto legislativo n. 267 del 2000 non concorre a concretare la durata del mandato ostativa della rieleggibilità, in quanto in tale evenienza si determina «a differenza di quanto accade nei casi di impedimento personale e temporaneo del sindaco a svolgere le proprie funzioni, una situazione non dissimile da quella che si realizza nell’ipotesi di gestione commissariale conseguente allo scioglimento».
Osserva il Ministero riferente che, alla luce di tale precisazione, parrebbe doversi ritenere che la sospensione prevista dal richiamato art. 141, comma 7, in tanto può essere scomputata dalla durata del mandato sindacale in quanto determina una situazione simile a quella conseguente allo scioglimento dell’ente, a differenza delle ipotesi di «impedimento personale e temporaneo» di cui, non a caso, il Consiglio di Stato fa menzione.
Il problema ermeneutico che si pone è dunque quello di verificare se la sospensione di diritto dell’amministratore locale –la quale costituisce uno stato transitorio, necessariamente limitato nel tempo e destinato a concludersi o con la definitiva cessazione dall’incarico o con la reintegrazione nelle funzioni (cfr. Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 14.02.2014 n. 730)– sia da qualificare quale «impedimento temporaneo e personale» irrilevante per gli effetti di cui all’art. 51, comma 3, del decreto legislativo n. 267 del 2000 ovvero se la stessa –determinando un’interruzione non intenzionale nell’esercizio delle funzioni di sindaco– assuma rilevanza agli effetti in parola.
Considerato:
La questione sottoposta ha per oggetto l’interpretazione dell’art. 51 TUEL, il quale prevede: “1. Il sindaco e il consiglio comunale, il presidente della provincia e il consiglio provinciale durano in carica per un periodo di cinque anni.
2. Chi ha ricoperto per due mandati consecutivi la carica di sindaco e di presidente della provincia non è, allo scadere del secondo mandato, immediatamente rieleggibile alle medesime cariche.
3. È consentito un terzo mandato consecutivo se uno dei due mandati precedenti ha avuto durata inferiore a due anni, sei mesi e un giorno, per causa diversa dalle dimissioni volontarie
”.
In particolare occorre stabilire se nell’inciso finale del terzo comma –“causa diversa dalle dimissioni volontarie”– ricada l’ipotesi del sindaco sospeso di diritto dalla carica di sindaco ai sensi degli articoli 10 ed 11 del decreto legislativo 31.12.2012 n. 235. Con la conseguenza che:
a) optando per la soluzione positiva, ossia ritenendo che la sospensione a seguito di condanna penale costituisca “causa diversa dalle dimissioni volontarie”, del periodo di sospensione si terrebbe conto ai fini del calcolo della durata del mandato;
b) optando per la soluzione negativa, ossia ritenendo che la sospensione a seguito di condanna penale non costituisca “causa diversa dalle dimissioni volontarie”, del periodo di sospensione non si terrebbe conto ai fini del calcolo della durata del mandato.
Così impostato il problema,
la Sezione ritiene che, facendo applicazione del noto principio secondo cui «in claris non fit interpretatio», la soluzione non possa che essere la prima tra quelle appena indicate, essendo palese che il significato proprio delle parole secondo la connessione tra di esse non consenta di accostare alle dimissioni volontarie dalla carica la sospensione di diritto conseguente ad una condanna penale.
L’interpretazione estensiva di una disposizione, nella specie volta ad assimilare la sospensione ope legis alle dimissioni volontarie dalla carica, può aver luogo, infatti, solo quando il testo –nelle sue componenti lessicali o sintattiche– presenti margini d’ambiguità, il che nella fattispecie in esame non è. Tra l’altro, accedere alla tesi sub b) genererebbe una grave incertezza ermeneutica, non essendo affatto chiaro come del periodo di sospensione dovrebbe tenersi conto ai fini del calcolo della durata del mandato. Se cioè nel senso di aggiungere quel periodo a quello effettivamente trascorso in carica, ovvero nel senso di ridurre proporzionalmente il periodo di tempo al di sotto del quale è possibile un terzo mandato.
La prima soluzione darebbe luogo ad una fictio iuris, equiparando la sospensione dalla carica al suo effettivo svolgimento.
La seconda soluzione importerebbe una modifica del dettato legislativo, che fissa in due anni, sei mesi e un giorno la durata minima della carica che impedisce il terzo mandato, periodo chiaramente determinato sulla base della durata legale del mandato, che è di cinque anni.
In conclusione,
deve ritenersi che la sospensione di diritto dalla carica di sindaco prevista dalla legge c.d. Severino debba essere considerata ai fini dell’applicazione dell’art. 51, comma 3, del TUEL, ossia per il calcolo della durata del mandato, costituendo “causa diversa dalle dimissioni volontarie” di impedimento all’esercizio della carica (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 01.02.2016 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla sanzione per lo sforamento del Patto di Stabilità.
La sanzione di cui all’art. 31, comma 26, lettera e), legge 12.11.2011, n. 183, come sostituito dall'art. 1, comma 439, della legge 24.12.2012, n. 228, deve ritenersi riferita specificamente ai soli amministratori in carica nel momento in cui si è verificata la violazione del Patto, non potendosi evidentemente equiparare a questi, unici responsabili dello sforamento, le posizioni degli amministratori che, in ipotesi, abbiano sostituito i primi e che dunque tale bilancio ed annesso sforamento abbiano ereditato, senza esserne neppure indirettamente responsabili.
Una diversa interpretazione incorrerebbe ovviamente in un’evidente violazione del principio di uguaglianza.

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Premesso:
1. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel richiedere il parere sul quesito in oggetto con la nota n. 3176 del 22.04.2014 (Ufficio legislativo Economia), ricorda, in via di premessa, che gli articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183 disciplinano il patto di stabilità interno e sono volti ad assicurare il concorso degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, di cui agli artt. 117, terzo comma e 119, secondo comma, della Costituzione, conformemente agli impegni assunti dal nostro Paese in sede comunitaria.
In particolare, l'art. 31 individua i soggetti sottoposti al rispetto del patto di stabilita interno e i parametri per la determinazione dello specifico obiettivo di saldo finanziario. Prevede, al comma 26 che, in caso di mancato rispetto del patto di stabilita interno, l'ente locale inadempiente nell'anno successivo a quello dell'inadempienza resta assoggettato ad alcune sanzioni tra le quali -per quanto qui d'interesse (lettera e)- l'obbligo di rideterminare le indennità di funzione ed i gettoni di presenza indicati nell’art. 82 del decreto legislative n. 267 del 2000 (TUEL), con una riduzione del 30 per cento rispetto alla data del 30.06.2010.
L’art. 31, comma 26, lettera e), prevede dunque che, in caso di mancato rispetto del patto di stabilita interno, l'ente locale inadempiente è tenuto ad operare nell'anno successivo a quello dell'inadempienza una decurtazione del 30% sull'indennità corrisposta agli amministratori calcolata sugli importi effettivamente erogati nel 2010. Il Ministero segnala che, da parte di alcuni enti locali, sono pervenute istanze volte a chiedere chiarimenti circa il corretto ambito applicativo della sanzione della decurtazione del 30% delle indennità degli amministratori, nel caso in cui sia intervenuta una sostituzione delle persone fisiche, che compongono i collegi politici interessati alla decurtazione.
In sostanza,
sulla base di una lettura testuale, la sanzione in esame sarebbe riferita all'amministratore, in quanto espressione dell'Ente inadempiente. La sanzione andrebbe applicata “oggettivamente”, indipendentemente da eventuali modifiche delle persone che rivestono la qualifica di amministratore locale.
Secondo una diversa lettura, più aderente ad un obiettivo di responsabilizzazione degli amministratori locali, la norma in esame sembrerebbe volta a sanzionare la persona, che, in qualità di amministratore in carica al momento della violazione del patto di stabilita interno, abbia avuto una qualche responsabilità, per il mancato raggiungimento degli obiettivi posti dal patto.
Da tale lettura, si trarrebbe la conclusione della necessità di non penalizzare, con la decurtazione dell'indennità, gli amministratori che, per una modifica della compagine politica (nuove elezioni, subentro, ecc.), si trovino a ricoprire incarichi politici in un ente locale, nell'anno successivo a quello in cui si é verificata la violazione del patto di stabilità, non potendosi ad essi imputare alcuna condotta pregiudizievole, che abbia determinate detta violazione.

2. Alla luce di tali considerazioni, secondo il Ministero riferente, assume particolare rilevanza l'individuazione di una linea di comportamento uniforme, anche in relazione al successivo comma 28, della stessa disposizione, secondo cui agli enti locali, per i quali la violazione del patto di stabilità interno sia accertata successivamente all'anno seguente a quello della violazione, si applicano, nell'anno successivo a quello in cui è stato accertato il mancato rispetto del patto di stabilita interno, le sanzioni di cui al comma 26. In questa fattispecie, è previsto che la rideterminazione dell’indennità venga applicata agli amministratori in carica nell'esercizio in cui è avvenuta la violazione del patto di stabilità interno.
Secondo l’Amministrazione, si tratta di un dato testuale che depone in modo significativo per una applicazione della sanzione riferita specificamente ai soli amministratori in carica nel momento della violazione del Patto. Appare dunque necessario promuovere una interpretazione omogenea ed univoca del meccanismo che individua l’amministratore a cui si applica la sanzione, coerente con la sua finalizzazione sistematica.
3. La Sezione, con la pronuncia interlocutoria sopra indicata, ha chiesto in via istruttoria di acquisire gli avvisi del Ministero dell’interno (Ufficio legislativo), della Presidenza del Consiglio (Dipartimento affari giuridici e legislativi) e della Funzione pubblica (Ufficio legislativo).
Il Ministero riferente, nel confermare l'interesse ad ottenere una risposta al quesito formulato, con la e-mail suindicata ha trasmesso la nota del DAGL n. 3169/2015, la nota del Ministero dell'interno 15224/2014 e la nota dell'Ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 562/2014.
Il Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio dei Ministri, con la nota suindicata, ricorda che la questione in esame era stata esaminata dalla Corte dei conti nella delibera 25/07/2013, n. 28 delle Sezioni Riunite per la Regione siciliana secondo cui la violazione del patto di stabilità deve “
necessariamente colpire, in ogni caso, gli amministratori in carica nell’anno in cui è avvenuta l'inottemperanza che, con le loro condotte -attive od omissive- abbiano contribuito alla stessa. Diversamente opinando, si giungerebbe ad una responsabilità oggettiva, ratione officii, che, mal conciliandosi con i principi inderogabili cui si uniforma l'ordinamento, finirebbe per sanzionare persone diverse da quelle effettivamente responsabili, cui non potrebbe muoversi alcuna censura per accadimenti pregressi, ad esse in alcun modo imputabili. L’affermazione della responsabilità degli amministratori in carica nell'esercizio in cui è avvenuta la violazione del patto di stabilità interno, prevista dall’art. 31, comma 28, si ritiene, infatti, espressione di un più generale principio di responsabilità personale, valido per qualsiasi ipotesi di inosservanza del patto di stabilità, a prescindere dal momento in cui questa venga accertata”.
Il Dipartimento ritiene pertanto che, in un’ottica di “responsabilizzazione” degli amministratori locali, in caso di violazione del patto di stabilità interno, la decurtazione operata sulle indennità di funzione e sui gettoni di presenza debba incidere sugli amministratori in carica al momento della violazione del patto.
Il Ministero dell'Interno, nel concordare pienamente con tali conclusioni,
ribadisce l'opportunità di non penalizzare, con la decurtazione dell’indennità, gli amministratori che, per una modifica della compagine politica, si trovino a ricoprire incarichi in un ente locale nell’anno successivo a quello in cui si è verificato la violazione del patto di stabilità, non potendosi ad essi imputare alcuna condotta pregiudizievole.
4. Il Capo dell'Ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione viceversa, con nota 04.12.2014 prot. 562/14/UL/P rivolta al DAGL ed all’UL del Ministero dell’Interno, ricorda che inizialmente, la fattispecie del mancato rispetto del patto di stabilità interno è stata regolata dall’articolo 7 (così rubricato) del decreto legislativo 06.09.2011, n. 149.
Per gli enti locali inadempienti, il secondo comma di questo articolo prevedeva, per l’anno successivo a quello dell’inadempimento, alcuni divieti di spesa nonché le misure della riduzione del fondo perequativo e della riduzione del 30 per cento delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza: misure a loro volta ispirate a una logica di contenimento della spesa, più che a una logica sanzionatoria.
Successivamente, la materia è stata disciplinata dall’articolo 31 della legge 12.11.2011, n. 183 (legge di stabilità per il 2012), con una duplice previsione: il comma 26, in base al quale “restano ferme le disposizioni di cui all’articolo 7, commi 2 e seguenti, del decreto legislativo 06.09.2011, n. 149”, e il comma 28, in base al quale "agli enti locali per i quali la violazione del patto di stabilità interno sia accertata successivamente all’anno seguente a quello cui la violazione si riferisce, si applicano, nell’anno successivo a quello in cui è stato accertato il mancato rispetto del patto di stabilità interno, le sanzioni di cui al comma 26. La rideterminazione delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza di cui al comma 2, lettera e), dell’articolo 7 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 149, è applicata ai soggetti di cui all’articolo 82 del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, e successive modificazioni, in carica nell’esercizio in cui è avvenuta la violazione del patto di stabilità interno”.
Il citato articolo 31, nella formulazione dianzi riportata, aveva prodotto una parziale alterazione della logica “oggettiva”, di contenimento della spesa, delle misure previste dal citato articolo 7.
Quest’ultimo, infatti, aveva concepito un complesso di misure (a carico dell’ente o dei suoi attuali amministratori), quale diretta conseguenza della violazione del patto di stabilità interno. Il comma 28 dell’articolo 31, invece, introduceva una logica “soggettiva” e sanzionatoria a carico degli amministratori “presunti responsabili” della violazione, peraltro solo nelle ipotesi in cui l'accertamento dell'inadempimento fosse successivo all’anno seguente a quello cui la violazione si riferisse.
La novella comportava numerosi problemi:
   1) quelli connessi alle garanzie procedimentali dei destinatari di simili sanzioni e alla ragionevolezza di sanzioni irrogate per fatti non necessariamente riconducibili alla condotta dei soggetti sanzionati. Va osservato, al riguardo, che una misura di contenimento della spesa può ben essere imposta indipendentemente dall’accertamento delle responsabilità con le dovute garanzie, mentre non altrettanto può dirsi per una misura sanzionatoria;
   2) le irragionevoli disparità di trattamento derivanti dal fatto che, in relazione al medesimo inadempimento, la sanzione poteva essere irrogata a soggetti diversi, individuati sulla base del momento di accertamento della violazione. Infatti: ove la violazione fosse stata accertata nell’anno successivo a quello della violazione, a subire la riduzione dell'indennità sarebbero stati -a norma del comma 26- gli amministratori in carica al momento dell’accertamento (i quali non necessariamente potevano essere considerati “responsabili” della violazione, potendo ben esservi stato un avvicendamento, a seguito di elezioni politiche, dimissioni o altro); ove, invece, la violazione fosse stata accertata successivamente all’anno seguente a quello della violazione, a subirla sarebbero stati -a norma del comma 28- gli amministratori in carica al momento della violazione. In definitiva, l’individuazione dei responsabili della sanzione -gli amministratori in carica al momento della violazione o quelli in carica al momento dell’accertamento- veniva fatta dipendere da un fatto casuale o comunque indipendente dalle responsabilità degli uni e degli altri, quale il momento dell’accertamento;
   3) i possibili effetti di disincentivo all’emersione delle violazioni, dovuti al fatto che gli amministratori in carica potevano avere interesse a ritardare l’accertamento delle violazioni;
   4) le probabili difficoltà di recupero delle somme già erogate agli amministratori non più in carica, evidenziate anche nella richiesta di parere della Ragioneria generale dello Stato.
In materia si sono poi avuti altri due interventi legislativi: l’articolo 1, comma 439, della legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), che ha sostituito il testo del comma 26 del citato articolo 31, eliminando il riferimento al citato articolo 7 e disciplinando autonomamente gli effetti conseguenti alla violazione del patto di stabilità (ma riproponendo gli stessi divieti e le stesse sanzioni); e l’articolo 1, comma 507, della legge 23.12.2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014), che ha abrogato i commi da 1 a 4 dell’articolo 7. Non è stata espressamente abrogata la disposizione del comma 28, che rinviava al citato articolo 7.
Il dato testuale e l’evoluzione complessiva della disciplina, come descritti, inducono comunque a ritenere che il secondo periodo del comma 28 dell’articolo 31 in esame, nella parte in cui fa riferimento a una norma abrogata, sia stato esso stesso implicitamente abrogato dal legislatore. Infatti, non pare sia attribuibile altro significato, se non quello di un’abrogazione implicita, al comportamento del legislatore che ben avrebbe potuto, se avesse voluto mantenere in vigore la disciplina introdotta dalla legge di stabilità 2012, sostituire il rinvio, eliminando il riferimento a una disposizione abrogata e introducendo quello alla disciplina attualmente vigente (il comma 26 del citato articolo 31).
Deve dunque ritenersi che il legislatore abbia voluto eliminare la disposizione che prevedeva la decurtazione dell’indennità a carico degli amministratori in carica al momento della violazione, nel caso di accertamento effettuato successivamente all’anno seguente alla violazione stessa. Una simile scelta legislativa appare coerente sia con l’ottica di riassetto del sistema, sia con la presumibile intenzione di eliminare le descritte aporie determinate dalla novella del 2011, che era infelicemente intervenuta su una disciplina altrimenti comprensibile e coerente. Il legislatore, dunque, ha voluto reintrodurre la logica puramente “oggettiva” e non sanzionatoria originariamente propria della norma.
Contro questa interpretazione si potrebbe osservare che il legislatore non ha espressamente abrogato la disposizione del comma 28, che qui si assume abrogata implicitamente. Indubbiamente le regole di tecnica legislativa avrebbero richiesto l’abrogazione espressa. D’altra parte, il fatto che il legislatore abbia “trascurato” la disposizione in esame -senza abrogarla, ma anche senza correggere il rinvio in essa contenuto- depone evidentemente nel senso del superamento della disposizione stessa, piuttosto che nel senso della sua sopravvivenza.
Queste conclusioni non dipendono da una sottovalutazione dell’esigenza, evidenziata da più parti, di responsabilizzare gli amministratori locali che si siano effettivamente resi responsabili dell’inadempimento.
Da un lato, infatti, come sopra osservato, non è possibile affermare in via generale un rapporto di causalità tra la condotta del singolo amministratore e la violazione del patto di stabilità. Dall’altro, quell’esigenza può essere efficacemente soddisfatta, senza sacrificare la tenuta del sistema e la ragionevolezza delle norme e senza ledere il principio di parità di trattamento, mediante il ricorso ad altri rimedi già conosciuti dall’ordinamento giuridico, quali la trasparenza amministrativa, la responsabilità politica e la responsabilità erariale.
Da quanto precede
deve trarsi la conclusione che "la misura della riduzione delle indennità vada operata sempre nei confronti degli amministratori attualmente in carica, indipendentemente dall’eventuale avvicendamento degli amministratori nelle more dell’accertamento della violazione”.
Considerato:
5. L’art. 31, comma 26, lettera e), legge 12.11.2011, n. 183, come sostituito dall'art. 1, comma 439, della legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), prevede che, in caso di mancato rispetto del patto di stabilita interno, l'ente locale inadempiente è tenuto ad operare nell'anno successivo a quello dell'inadempienza una decurtazione del 30% sull'indennità corrisposta agli amministratori calcolata sugli importi effettivamente erogati nel 2010. Il Ministero segnala che, da parte di alcuni enti locali, sono pervenute istanze volte a chiedere chiarimenti circa il corretto ambito applicativo della sanzione della decurtazione del 30% delle indennità degli amministratori, nel caso in cui sia intervenuta una sostituzione delle persone fisiche, che compongono i collegi politici interessati alla decurtazione.
Il quesito prospettato richiede di verificare, sul piano più generale, se la disposizione di cui all’art. 31, comma 26, lettera e), legge 12.11.2011, n. 183 preveda un caso di responsabilità amministrativa vera e propria e se conseguentemente tale responsabilità abbia carattere personale ovvero possa viceversa avere carattere oggettivo, come sembra concludere il solo Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione.
Il problema sembra ripetere le sue origini dalla più antica disputa in dottrina e giurisprudenza circa la natura della responsabilità amministrativa, che ha visto sostanzialmente alternarsi nel tempo due diverse concezioni, una che ne evidenziava il carattere sanzionatorio, collegato principalmente al potere riduttivo in sede di accertamento, l'altra che viceversa la riconduceva alla più ampia categoria della responsabilità civile per danno, collegata alla inosservanza di doveri di comportamento più o meno specifici precostituiti e connessi al rapporto di servizio.
La prima concezione, della natura sanzionatoria della responsabilità amministrativa, è stata definitivamente accolta sia nella riforma della Corte dei conti attuata con le Leggi nn. 19 e 20 del 19.01.1994, sia nella più recente giurisprudenza costituzionale (cfr. la sentenza della Corte Costituzionale n. 183 del 12.06.2007), la dove vi si afferma che la disciplina della responsabilità amministrativa si basa sulla colpevolezza del danneggiante e, per converso, sulla graduazione della colpevolezza effettuata in sede di accertamento.
Ed è appena il caso di ricordare le disposizioni, contenute nell’art. 58 della legge 08.06.1990, n. 142, secondo cui la "la responsabilità nei confronti degli amministratori e dei dipendenti dei comuni e delle province è personale e non si estende agli eredi", ma che "si estende agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi" (art. 1, comma 1, L. 20/1994), il che conferma la natura sanzionatoria e quindi afflittiva della responsabilità amministrativa, dal momento che se il modello fosse stato quello civilistico, avrebbe dovuto trovare applicazione il principio generale della trasmissibilità dei rapporti giuridici.
Nello stesso senso, della personalità della responsabilità amministrativa e della intrasmissibilità agli eredi delle relative sanzioni amministrative, vi sono gli artt. 3, primo comma (“Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”) e 7 (“L'obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si trasmette agli eredi”) della legge 24.11.1981, n. 689.
La disposizione di cui si chiede l’interpretazione prevede dunque una fattispecie di sicura matrice "sanzionatoria".
Infatti,
la responsabilità conseguente alla elusione del patto di stabilità, introdotta dagli artt. 20 del D.L. n. 98/2011 e 31 della L. n. 183/2011, prevede a carico degli amministratori una sanzione pecuniaria fino ad un massimo di dieci volte l’indennità di carica ed a carico del responsabile del servizio economico-finanziario, fino a tre mensilità del trattamento retributivo, al netto degli oneri fiscali e previdenziali, con ciò sottolineandosi il carattere afflittivo, e non certamente risarcitorio, della sanzione ivi comminata, determinata nel quantum senza alcun riferimento, neppure indiretto, al danno effettivamente patito dall'ente.
Oltretutto, la fattispecie in esame corrisponde esattamente ad un'ipotesi “tipizzata” di responsabilità amministrativa, cui più frequentemente ricorre la più recente legislazione, riprendendo sostanzialmente il concetto della c.d. “responsabilità formale”, che comunque la più recente giurisprudenza contabile (a partire dalla sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti n. 12/2007-QM del 27.12.2007) ammette unicamente in presenza di dolo o colpa grave.
6. Stabilito dunque che la responsabilità prevista dalle disposizioni oggetto del quesito ha carattere amministrativo, è agevole riconoscere che, tra i principi generali valevoli per tale fattispecie, vi è quello della personalità.
L’art. 1 della legge n. 20 del 1994 infatti stabilisce che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti è personale, conferendo portata generale alla disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 58 della L. 142/1990 ("La responsabilità nei confronti degli amministratori e dei dipendenti dei comuni e delle province è personale…").
Questa norma significa inequivocabilmente che ciascuno risponde per il fatto proprio, e non per fatto altrui.
Ne è corollario la conferma della "personalità" con la previsione della imputabilità dei componenti degli organi collegiali per le sole deliberazioni a cui hanno preso parte (art. 1, comma 1-ter, L. 20/1994).
Applicato al caso di specie, il principio della personalità prevale in ogni fattispecie in cui tale elemento non sia diversamente predeterminato e tipizzato.
La disposizione in esame, nello stabilire testualmente che “l'ente locale inadempiente, nell'anno successivo a quello dell'inadempienza: …. e) è tenuto a rideterminare le indennità di funzione ed i gettoni di presenza indicati nell'articolo 82 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, e successive modificazioni, con una riduzione del 30 per cento rispetto all'ammontare risultante alla data del 30.06.2010”, non indica esplicitamente a quali amministratori debbano ridursi i gettoni di presenza e le indennità di funzione.
Dunque, a tal fine, per individuare gli amministratori ai quali la norma faccia riferimento, non possono che soccorrere i principi generali di cui si è detto sopra, tra i quali vi è per l'appunto quello della personalità della sanzione amministrativa.
Pertanto,
si conviene con il Ministero dell'Interno, con la Corte dei Conti e con lo stesso Ministero riferente, che la sanzione di cui all’art. 31, comma 26, lettera e), legge 12.11.2011, n. 183, come sostituito dall'art. 1, comma 439, della legge 24.12.2012, n. 228, debba ritenersi riferita specificamente ai soli amministratori in carica nel momento in cui si è verificata la violazione del Patto, non potendosi evidentemente equiparare a questi, unici responsabili dello sforamento, le posizioni degli amministratori che, in ipotesi, abbiano sostituito i primi e che dunque tale bilancio ed annesso sforamento abbiano ereditato, senza esserne neppure indirettamente responsabili.
Una diversa interpretazione incorrerebbe ovviamente in un’evidente violazione del principio di uguaglianza
(Consiglio di Stato, Sez. II, parere 20.01.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO  IMPIEGO: Riforma dirigenti, il Tar frena. Manager a contratto da selezionare con procedura tecnica. Il Tribunale amministrativo di Lecce esclude la scelta discrezionale da parte dei sindaci.
Riforma della dirigenza messa in discussione dal Tar Puglia-Lecce.
Secondo la sentenza 21.12.2015, n. 3661, Sez. II, i dirigenti a contratto possono essere assunti solo in esito a una vera e propria procedura selettiva di natura tecnica che escluda una scelta totalmente discrezionale dell'organo di governo.
Si tratta di una decisione che si inserisce in un filone giurisprudenziale certamente non nuovo e consolidato, ma che assume una particolare valenza alla luce della legge 124/2015 e della riforma della dirigenza ivi immaginato.
L'articolo 11 della legge Madia, come confermato dallo schema di decreto legislativo riguardante gli incarichi di vertice nelle Usl, si basa tutto sulla scelta di fatto totalmente discrezionale degli organi politici.
Per i dirigenti di ruolo, in estrema sintesi, il processo di conferimento degli incarichi dirigenziali passerà per l'inserimento dei dirigenti nei ruoli, la pubblicazione di un avviso pubblico da parte delle commissioni nazionali cui si rivolgeranno gli enti che manifesteranno carenze di organico, la successiva creazione di «rose» di candidati, tra i quali, poi, potranno scegliere gli organi di governo senza alcun vincolo a graduatorie. Si tratterà di un potere di incarico totalmente discrezionale, fino a rasentare l'arbitrio.
È esattamente lo schema del quale fin qui si sono avvalsi la quasi totalità dei comuni, nell'attribuire gli incarichi «a contratto» ai sensi dell'articolo 110 del dlgs 267/2000.
Nel caso esaminato dalla sentenza del Tar Lecce, il comune di Salve ha, in effetti, pubblicato un avviso di selezione che di fatto ha attribuito esclusivamente al sindaco il potere di decidere chi assumere. L'avviso conteneva le seguenti indicazioni: «La valutazione delle domande e dei curricula, effettuata dal segretario comunale, farà riferimento alla esperienza acquisita nello svolgimento di incarichi di responsabilità nelle stesse attività, agli esiti positivi della stessa e alle altre competenze professionali. Il segretario redige una specifica relazione; il sindaco provvede alla scelta tenuto conto della stessa».
Come si nota, nella realtà, non si pone in essere nessuna selezione vera e propria: c'era solo un mandato al segretario di relazionare, che lasciava totalmente libero il sindaco di assumere chi volesse. L'aggiramento dell'articolo 110 che subordina gli incarichi a contratto a una previa «selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico» è evidente.
Infatti, non è sfuggito al Tar di Lecce. Il quale sottolinea che la procedura speciale indicata dall'articolo 110 pur non coincidendo con un concorso pubblico deve comunque considerarsi avere natura paraconcorsuale. Se così non fosse, se, cioè, si ritenesse che l'articolo 110 consenta una scelta intuitu personae, «risulterebbe assai dubbia la compatibilità costituzionale della norma de qua in riferimento all'art. 97, commi 2 e 4, Cost.», non esistendo esigenze di buon andamento e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificare assunzioni a termine dei vertici amministrativi degli enti locali per cooptazione diretta.
Il Tar, dunque, conclude affermando che occorreva predeterminare, nell'avviso pubblico, elementi selettivi esattamente «al fine di delimitare la discrezionalità tecnica della p.a. e garantire una selezione rispondente agli interessi pubblici perseguiti, di concreti e puntuali parametri di apprezzamento».
L'avviso, invece, ha limitato la selezione a una relazione del segretario, per altro risultata priva di elementi valutativi, sicché il sindaco ha scelto la persona da assumere «con discrezionalità tecnica pressoché assoluta, sì da risultare minata la trasparenza e l'imparzialità del suo operato».
Lo schema, tuttavia, della consegna al sindaco o all'organo di governo di una mera lista di «potenziali idonei» dalla quale attingere per decidere in totale discrezionalità il dirigente di ruolo al quale assegnare l'incarico è il metro utilizzato dalla legge 124/2015. L'illegittimità rilevata dal Tar Lecce non può non estendersi anche al sistema indicato dalla legge Madia e probabilmente sarà fonte di un delicato contenzioso davanti alla Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
1.- Premesso che:
- il Comune intimato indiceva, a seguito di declaratoria di nullità del contratto di lavoro subordinato del precedente istruttore direttivo contabile (dr.ssa Do.Ta.), una procedura selettiva per l’assunzione a tempo determinato, ex art. 110, comma 1, t.u.e.l., di tale figura professionale;
- la ricorrente partecipava alla procedura, la quale si concludeva tuttavia con l’assunzione della stessa dr.ssa Ta..
2. Ritenuto che:
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le valutazioni dei titoli compiute dalla p.a. nei pubblici concorsi possono essere censurate solo sotto il profilo dell’eccesso di potere per manifesta irragionevolezza o arbitrarietà (fra le ultime, Tar Piemonte, I, 29.09.2015, n. 1370), non essendo, per il resto, il processo amministrativo la sede per contrapporre giudizi di merito a quelli effettuati dalla commissione, salvo il caso in cui quest’ultimi siano chiaramente irragionevoli o arbitrari (fra le ultime, Consiglio di Stato, V, 09.07.2015, n. 3444; V, 06.05.2015, n. 2269): il che non risulta nel caso in oggetto, risultando i curricula delle candidate di pregnanza -ai fini dell’incarico de quo- tra di loro non manifestamente diseguale.
- secondo il preferibile orientamento della giurisprudenza
l’art. 110 del t.u.e.l., nel consentire agli enti locali di affidare incarichi di responsabilità dirigenziale con contratti a tempo determinato, non esonera gli enti stessi dallo svolgere procedure le quali, pur inassimilabili a un concorso pubblico in senso stretto, hanno comunque una valenza para-concorsuale: diversamente opinando, ovvero qualificando la selezione di cui all’art. 110, comma 1, t.u.e.l. quale scelta intuitu personae, risulterebbe assai dubbia la compatibilità costituzionale della norma de qua in riferimento all’art. 97, commi 2 e 4, Cost., <<dal momento che il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione comporterebbe, in quanto costitutivo di un rapporto di impiego pubblico, una aperta deroga al principio costituzionale dell’accesso tramite pubblico concorso -valevole anche per le assunzioni a tempo determinato (Corte Cost. 23.04.2013, n. 73; Consiglio di Stato sez. VI., 04.11.2014, n. 5431)- non sorretta da esigenze di buon andamento e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarla (Corte Costituzionale 13.06.2013 n. 137)>> (Tar Umbria, I, 30.04.2015, n. 192).
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l’osservanza dei principi di trasparenza, imparzialità e par condicio della selezione in parola avrebbe dunque imposto la predeterminazione, nell’avviso pubblico di che trattasi e al fine di delimitare la discrezionalità tecnica della p.a. e garantire una selezione rispondente agli interessi pubblici perseguiti, di concreti e puntuali parametri di apprezzamento: nel caso di specie, al contrario, l’avviso pubblico prevedeva criteri assolutamente generici e inidonei in merito alla valutazione dei curricula dei candidati (valutazione peraltro demandata, dall’Avviso pubblico, al Segretario Comunale, che invece si limitava a una riepilogazione sinottica degli stessi), sicché il Sindaco (il quale peraltro, come già scritto, avrebbe dovuto provvedere previa valutazione del Segretario Comunale) operava con discrezionalità tecnica pressoché assoluta, sì da risultare minata la trasparenza e l’imparzialità del suo operato (cfr. Tar Umbria cit.); né tale ordine di censure può ritenersi inammissibile, atteso l’interesse ‘strumentale’ della ricorrente, o tardivo, non venendo in rilievo clausole immediatamente e direttamente lesive dell’interesse sostanziale della medesima (laddove ogni diversa questione riguardante l’illegittimità della lex specialis della procedura di gara poteva essere proposta unitamente all’impugnazione degli atti che delle clausole dimostratesi lesive facevano diretta applicazione).
- il ricorso dev’essere pertanto accolto limitatamente alle censure formulate nell’ultimo motivo di gravame (con invalidazione, dunque, degli atti inditivi della gara e di tutti quelli conseguenti), sussistendo inoltre, attesa la natura della decisione assunta, eccezionali ragioni per compensare tra le parti le spese di giudizio.

EDILIZIA PRIVATALe norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872, 873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve applicare le richiamate norme locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale, la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni ai comuni.
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In materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione, non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima del perfezionamento di questo "iter" tale strumento urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice civile.
Infatti, «Il piano regolatore generale ha natura di atto complesso, risultando dal concorso delle volontà del Comune e della Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1, lett. a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia normativa propria dello stesso e delle prescrizioni in esso contenute ha inizio non già dalla data della sua approvazione da parte del consiglio comunale, ma da quella della pubblicazione del decreto di approvazione del Presidente della giunta regionale».
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche integrative del codice civile solo con l'approvazione del piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze legali, fino a quando non intervenga una sua nuova approvazione e salva l'applicazione delle misure di salvaguardia».
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza possibilità di efficacia retroattiva dalla data di approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra costruzioni è quella del codice civile».

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L'eccezione è infondata.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che «le norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872, 873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve applicare le richiamate norme locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale, la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni ai comuni» (Cass. n. 17692 del 2009; Cass. n. 2563 del 2009).
In particolare, si è precisato che «la vigenza o meno di una certa norma alla data rilevante in relazione al caso concreto non costituisce nuova questione di fatto, non deducibile in sede di legittimità, poiché rientra nella scienza ufficiale del giudice, il quale in sede di legittimità ha il dovere, prescindendo dalle deduzioni delle parti, di verificare se la disposizione applicata dai giudici di merito fosse effettivamente in vigore e, quindi, applicabile al caso esaminato (fattispecie relativa a distanze legali e all'accertamento della data di entrata in vigore del regolamento edilizio comunale applicato in concreto dalla corte di merito)» (Cass. n. 17692 del 2009, cit.).
Né potrebbe sostenersi che l'accertamento della normativa regolamentare applicabile nel caso di specie possa essere demandato, in via esclusiva, al consulente tecnico d'ufficio, come preteso dalla resistente, la quale ha appunto rilevato che ogni questione sarebbe preclusa perché non dedotta nei gradi di merito e perché il detto accertamento era contenuto nella c.t.u., non specificamente contestata sul punto. Il giudice deve, infatti, applicare le norme regolamentari locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, trattandosi di esplicazione del principio iura novit curia, senza che la individuazione della normativa applicabile possa essere demandata in via esclusiva al consulente tecnico d'ufficio.
Nessuna preclusione è quindi ravvisabile in ordine alla deducibilità, in questa sede e per la prima volta, di una censura inerente alla erronea applicazione di uno strumento urbanistico sulla base della mera approvazione da parte del consiglio comunale e prima del completamento del procedimento di formazione con l'approvazione da parte della regione.
7. Nel merito, i tre motivi sono fondati.
Questa Corte ha reiteratamente avuto modo di precisare che «in materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione, non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima del perfezionamento di questo "iter" tale strumento urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice civile» (Cass. n. 11431 del 2009).
Infatti,
«Il piano regolatore generale ha natura di atto complesso, risultando dal concorso delle volontà del Comune e della Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1, lett. a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia normativa propria dello stesso e delle prescrizioni in esso contenute ha inizio non già dalla data della sua approvazione da parte del consiglio comunale, ma da quella della pubblicazione del decreto di approvazione del Presidente della giunta regionale» (Cass. n. 1256 del 1997).
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche integrative del codice civile solo con l'approvazione del piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze legali, fino a quando non intervenga una sua nuova approvazione e salva l'applicazione delle misure di salvaguardia
» (Cass. n. 2149 del 2009).
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza possibilità di efficacia retroattiva dalla data di approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra costruzioni è quella del codice civile» (Cass. n. 10561 del 2011).
7.1. Nel caso di specie, poiché è documentalmente provato che la ricorrente ha realizzato l'intervento edilizio oggetto di causa sulla base di una licenza rilasciata il 06.10.1973 ed è altresì accertato, e comunque non contestato dalla resistente, che i lavori terminarono nel 1974, ai fini della individuazione della normativa regolamentare applicabile occorre fare riferimento alla data di ultimazione dei lavori.
Orbene, a tale data il regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione, del quale il giudice di primo grado e poi la Corte d'appello hanno fatto applicazione, era solo stato adottato (delibera del consiglio comunale del 16.11.1973), mentre l'approvazione dello stesso si è avuta solo con la delibera della giunta regionale del Veneto 06.10.1981, n. 5331 (documenti, questi, che la ricorrente ha puntualmente indicato con il riferimento agli allegati alla consulenza tecnica d'ufficio, riproducendoli altresì nel proprio fascicolo di parte).
Dall'esame delle menzionate delibere emerge dunque, con certezza, che alla data di inizio e di conclusione dei lavori da parte della ricorrente, il Comune di Vestenanuova era sprovvisto di un efficace strumento urbanistico; e ciò anche perché il precedente programma regolamento edilizio, approvato con delibera del consiglio comunale del 24.08.1968, non era poi stato approvato dalla giunta regionale del Veneto (delibera 17.07.1973, n. 1966).
Ne consegue che la sentenza impugnata è errata nella parte in cui ha risolto la controversia facendo applicazione di norme regolamentari non efficaci, anziché considerare, ai fini delle distanza del fabbricato dal confine, le disposizioni del codice civile, ivi compresa quella di cui all'art. 875 (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.07.2015 n. 14915).

UTILITA'

VARI: Comprare casa. Guida alle detrazioni fiscali (articolo ItaliaOggi Sette del 15.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, gennaio 2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

VARI: G.U. 16.02.2016 n. 38 "Regolamento recante norme in materia di disciplina del prestito vitalizio ipotecario, ai sensi dell’articolo 11-quaterdecies, comma 12-quinquies , del decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248, come modificato dall’articolo 1, comma 1, della legge 02.04.2015, n. 44" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 22.12.2015 n. 226).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2016, "Primo aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 03.02.2016 n. 637).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 12.02.2016 n. 35 "Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio dei depositi di gas naturale con densità non superiore a 0,8 e dei depositi di biogas, anche se di densità superiore a 0,8" (Ministero dell'Interno, decreto 03.02.2016).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'11.02.2016, "Modalità attuative dell’art. 18, comma 5-bis, della l.r. 30.11.1983, n. 86, in ordine alle rettifiche dei confini dei parchi (art. 18, comma 5-quater, l.r. 86/1983)" (deliberazione G.R. 08.02.2016 n. 4793).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 09.02.2016 n. 32 "Individuazione delle categorie merceologiche ai sensi dell’articolo 9, comma 3 del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, unitamente all’elenco concernente gli oneri informativi" (D.P.C.M. 24.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.01.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.02.2016 n. 18).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 05.02.2016, "Modifica della deliberazione n. X/2944 del 19.12.2014 disposizioni attuative quadro infrastrutture verdi a rilevanza ecologica e di incremento della naturalità (comma 2-bis e seguenti, art. 43, l.r. 12/2005)" (deliberazione G.R. 28.01.2016 n. 4762).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 30.12.2015, "Disposizioni operative per l’esercizio, la manutenzione, il controllo e l’ispezione degli impianti termici civili in attuazione della d.g.r. X/3965 del 31.07.2015 e della d.g.r. X/4427 del 30.11.2015" (decreto D.U.O. 23.12.2015 n. 11785).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Legge Collegato ambientale – Disposizioni riguardanti gli appalti pubblici (ANCE di Bergamo, circolare 12.02.2016 n. 50).

VARI: Oggetto: Nuove disposizioni legislative in materia di circolazione stradale e di divieto di fumo in auto (Ministero dell'Interno, nota 11.02.2016 n. 300/A/1001/16/101/3/3/9 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuove disposizioni operative per l’esercizio il controllo e l’ispezione degli impianti termici (ANCE di Bergamo, circolare 05.02.2016 n. 44).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Integrazioni alla disciplina regionale sulla certificazione energetica degli edifici (ANCE di Bergamo, circolare 05.02.2016 n. 43).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Per la bonifica dei siti contaminati sono ammessi i “consorzi di scopo”, ma a determinate condizioni (ANCE di Bergamo, circolare 05.02.2016 n. 41).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI: Oggetto: Il Collegato ambientale e le nuove norme per promuovere misure di green economy (ANCE di Bergamo, circolare 05.02.2016 n. 40).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Legge 01.10.2012, n. 177. Modifiche al Decreto Legislativo 09.04.2008, n. 81, in materia di sicurezza sul lavoro per la bonifica degli ordigni bellici (ANCE di Bergamo, circolare 05.02.2016 n. 39).

VARI: Indicazioni interpretative e attuative dei divieti conseguenti all’entrata in vigore del decreto legislativo 12.01.2016, n. 6, recante “Recepimento della direttiva 2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati e che abroga la direttiva 2001/37/CE”. In particolare, disposizioni in materia di tutela della salute dei minori avverso il consumo di tabacco (Ministero della Salute, circolare 04.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: OGGETTO: Unità immobiliari urbane a destinazione speciale e particolare - Nuovi criteri di individuazione dell’oggetto della stima diretta. Nuove metodologie operative in tema di identificazione e caratterizzazione degli immobili nel sistema informativo catastale (procedura Docfa) (Agenzia delle Entrate, circolare 01.02.2016 n. 2/E).

APPALTI SERVIZI: MODALITÀ DI AFFIDAMENTO DEL SERVIZIO DI ILLUMINAZIONE PUBBLICA COMUNALE (Autorità Garante della Concorrenza del Mercato, atto segnalazione 16.12.2015 n. S1240).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: J. Cortinovis, Legge di stabilità 2016: accatastamento di immobili a destinazione speciale e impianti per comunicazioni elettroniche (14.02.2016 - link a www.studiospallino.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Visita fiscale: orari, reperibilità, assenza (14.02.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
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Malattia: chi è assente negli orari di reperibilità della visita fiscale perde il trattamento economico e può essere licenziato.

PATRIMONIO: Strade: il danneggiato non deve provare l’insidia o il trabocchetto (14.02.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
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Risarcimento del danno da parte della pubblica amministrazione per omessa o insufficiente manutenzione della strada: l’onere della prova.

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Vicini rumorosi in condominio: difesa (14.02.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
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Rumori molesti ed intollerabili, la prova delle immissioni rumorose: la perizia fonometrica. Risarcimento del danno alla salute (danno biologico) e del danno esistenziale (danno morale).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Rumori del vicino di condominio: come farlo smettere (14.02.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
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Normale tollerabilità: quando le pareti sono correttamente isolate è necessario avviare la causa in tribunale se neanche la diffida legale o la richiesta bonaria dell’amministratore sortiscono effetti.

EDILIZIA PRIVATA: Distanze minime: in caso di violazione il danno è automatico (14.02.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
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Onere della prova: è già un danno in sé e per sé la violazione della distanza minima perché la servitù abusiva riduce il valore dell’edificio.

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Milleproroghe, via libera dalla Camera: tutte le novità punto per punto (10.02.2016 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: D. Minussi, Distanza fra costruzioni (08.02.2016 - link a www.e-glossa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: L. Spallino, Vas e Piani di Zonizzazione acustica nell'evoluzione della giurisprudenza amministrativa (30.01.2016 - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: J. Cortinovis, Codice comunicazioni elettroniche: dal 02.02.2016 il contributo ad ARPA (art. 93) (22.01.2016 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

APPALTI: M. A. Sandulli, Nuovi ostacoli alla tutela contro la pubblica amministrazione (legge di stabilità 2016 e legge delega sul recepimento delle Direttive contratti) (20.01.2016 - tratto da www.federalismi.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire: inizio e ultimazione dei lavori (08.12.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
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Efficacia temporale del permesso di costruire e decadenza, i lavori non ultimati nel termine., la proroga.

EDILIZIA PRIVATA: La procedura per il rilascio del permesso di costruire (21.11.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
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La concessione da parte della pubblica amministrazione del permesso di costruire: domanda, fase istruttoria, costitutiva, comunicazione.

EDILIZIA PRIVATA: L’affidamento dell’incarico di progettazione dell’opera edilizia (21.11.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
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Permesso di costruire e firma del progetto e la direzione dei lavori per fabbricati a uso civile abitazione: il caso dei geometri e periti edili.

EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione a richiedere il permesso di costruire (21.11.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
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Chi può chiedere il permesso di costruire: proprietario, possessore, usufruttuario, promissario acquirente, enfiteuta, titolari di diritti di superficie, ecc..

EDILIZIA PRIVATA: Il trasferimento di cubatura (21.11.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
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Diritto urbanistico: la disciplina del permesso di costruire.

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire: rapporto tra area disponibile e volume edificabile (21.11.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
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L’indice di fabbricabilità, volumi edilizi computabili e volumi tecnici.

EDILIZIA PRIVATA: Permessi di costruire tutti pubblicati e senza privacy (27.11.2014 - link a www.laleggepertutti.it).
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Sull’accesso agli atti amministrativi non può essere affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza di terzi titolari del permesso a costruire.

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire: i limiti all’annullamento con autotutela (13.10.2014 - link a www.laleggepertutti.it).
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Guida sulle sentenze del Consiglio di Stato e dei TAR.

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Proventi autovelox congelati. Il vincolo di destinazione resta anche se manca il decreto. Corte conti: inutilizzabili le risorse destinate all'ente proprietario della strada.
I comuni non possono toccare quella parte dei proventi autovelox da dividere a metà con l'ente proprietario della strada. Anche se manca il decreto necessario per la materiale ripartizione di queste somme il vincolo di destinazione infatti permane. E non solo per quest'anno ma anche per gli anni precedenti.

Lo ha chiarito la Corte dei Conti dell'Emilia-Romagna con il parere 10.02.2016 n. 18.
La questione della ripartizione a metà delle multe autovelox e della rendicontazione periodica sull'impiego del denaro incassato da comuni e province vede la luce con la legge n. 120/2010 che ha previsto, tra l'altro, che per tutte le violazioni dei limiti di velocità i proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
Le nuove disposizioni, secondo un parere dell'Anci del 05.06.2012, sarebbero divenute operative il 01.01.2013 a seguito alla conversione in legge del dl n. 16/2012. Ma non solo. Letteralmente l'art. 142, comma 12-quater del codice impone agli enti locali di trasmettere in via informatica a Roma, entro il 31 maggio di ogni anno, una composita relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento. Ma in assenza del sistema informatico ad hoc e di regole chiare su quanto e come dividere i proventi autovelox si naviga a vista e si procede con grande approssimazione.
Per questo motivo un comune romagnolo ha richiesto chiarimenti alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti evidenziando di aver prudentemente accantonato le risorse in specifici capitoli già da qualche anno. Ma di non aver mai versato nulla alla provincia per mancanza di regole su come versare e cosa. E chiedendo quindi di poter utilizzare le risorse inutilizzate, stante il particolare periodo di crisi economica.
I giudici contabili dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento hanno confermato che i proventi devono restare congelati. La problematicità della utilizzabilità dei proventi in argomento da parte del solo ente dal quale dipende l'organo accertatore, specifica la Corte, «in assenza del decreto interministeriale di cui all'art. 25 della legge n. 120/2010, non risulta essere stata oggetto di specifico esame».
In pratica altre sezioni regionali hanno analizzato l'impiego dei proventi delle multe stradali senza mai entrare nel dettaglio di questa callosa questione. Alla luce del quadro normativo richiamato, conclude il parere, «si ritiene sussistente e attuale, anche in assenza dell'emanazione del decreto di cui all'art. 25, comma 2, della legge 29.07.2010, il vincolo sulle entrate in argomento, per la parte destinata agli enti proprietari delle strade ove è stato effettuato l'accertamento delle violazioni». Dunque tutto congelato, almeno per ora (articolo ItaliaOggi del 13.02.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'incarico di consulenza diretta all'esterno dell'ente, camuffato da "corso di formazione del personale per futuri adempimenti amministrativi", è illegittimo e cagiona danno erariale.
Nulla quaestio in ordine alla possibilità per il personale di essere affiancato da esperti esterni nella fase di apprendimento di procedure complesse od innovative ma, nella fattispecie, tutto ciò non è avvenuto ed il rapporto si è invece concretizzato nella classica figura della consulenza esterna richiesta dalla Responsabile della Direzione Area di Coordinamento risorse, assumendosene la responsabilità per aver colposamente aggirato i limiti di spesa introdotti dal legislatore.
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A parere di questo Collegio, nella vicenda in esame si ravvisa l’esistenza di tutti i presupposti necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativo-contabile.
In primo luogo è indubitabile che all’epoca degli eventi la parte convenuta era direttamente legata all’Amministrazione comunale da un rapporto di servizio, rilevanti però nella fattispecie sono l’indagine sull’elemento soggettivo, sul nesso causale e l’individuazione della posta di danno azionabile.
1. Elemento soggettivo
Sul punto è determinante il tenore del carteggio intercorso tra la convenuta (ed altri Dirigenti interessati) e la Srl Ca. e As..
Come già rilevato, tra l’altro, è stata acquisita dalla Gdf la “scheda di richiesta corso e di input alla progettazione” per l’inserimento nel “Piano annuale della formazione del personale” di quanto richiesto.
In effetti in esito a tale scheda, né datata né sottoscritta, risulta inserito nel suddetto piano un corso denominato “tutoring finalizzato alla ricostruzione dei fondi salario accessorio” destinato secondo la scheda a n. 5/10 dipendenti di cat. D3, e che, diversamente, nel Piano salgono a n. 25.
La natura di consulenza diretta, piuttosto che di formazione del personale per futuri adempimenti amministrativi, emerge al tenore delle mail rinvenute dalla GdF (all. 2/4 nota citata).
In data 20.04.2012 al dr. Ta. viene richiesto un suo “supporto per chiarire alcuni aspetti” circa le procedure seguite dal Comune per la ricostruzione del fondo miglioramento servizi relativamente agli straordinari per l’anno 1993 ex DPR 333/1990.
Sempre nella stessa mail viene richiesto se “la procedura adottata è corretta” e se può inviare una “tabella di calcolo che ritiene valida per verificare se abbiamo effettuato correttamente i calcoli” per quanto concerne la Dichiarazione congiunta n. 14 del CCNL del 2004.
In calce a tutto questo viene trasmesso in visione al dr. Ta. un elaborato circa il Riallineamento Progressioni Orizzontali.
Successivamente in data 28.04.2012 il suddetto dr. Ta. invia al Comune del “materiale relativo alle economie di gestione che abbiamo verificato con la Provincia di Perugia e, ancor prima, con il Comune di Perugia”.
In data 19.06.2012 il Comune invia “il materiale che stiamo predisponendo per la ricostruzione dei fondi”.
Il 26.06.2012 al dr. Ta. viene chiesto “qualche altro suggerimento per recuperare nuove risorse”.
In data 03.07.2012 il Comune allega una “delibera indirizzo delegazione trattante” nel testo “rivisto dopo tel. con Assessore”.
Il 22.07.2012 il dr. Ta. trasmette “il parere relativo al Comune di Monza di cui ti ho parlato”.
Con rinvio all’ulteriore documentazione in atti, tutta di analogo tenore, si può dedurre che ben prima dell’inizio del corso, formalizzato con la citata determina del 13.06.2012, era già avviata una attività di consulenza che sfocia, tra l’altro, in un parere datato 24.11.2012, il cui incipit “in relazione al quesito posto e dopo attenta disamina degli atti tutti per come trasmessi, esprimo il seguente sintetico avviso”, contraddice la natura dell’affermato tutoraggio di n. 25 dipendenti.
In realtà, dalla scarna documentazione reperita dalla GdF (all. 2/3 nota citata) presso la Direzione risorse umane del Comune, emergono solo sette schede presenza giornaliere con una media di 5/6 dipendenti o meglio dei Dirigenti apicali interessati e non risulta nemmeno un elaborato scritto, ad uso dei soggetti da “formare”.
Tutte queste considerazioni inducono il Collegio ad escludere la natura formativa della iniziativa che non si è neanche svolta sotto la forma dell’eccepito tutoraggio.
In altri termini nulla quaestio in ordine alla possibilità per il personale di essere affiancato da esperti esterni nella fase di apprendimento di procedure complesse od innovative ma, nella fattispecie, tutto ciò non è avvenuto ed il rapporto si è invece concretizzato nella classica figura della consulenza richiesta dalla dr.ssa Ne., nella sua qualità di Responsabile della Direzione Area di Coordinamento risorse, assumendosene la responsabilità per aver colposamente aggirato i limiti di spesa introdotti dal legislatore (di cui meglio infra).
2. Nesso
In effetti, nella fattispecie nessun dubbio sussiste in ordine alla circostanza che la contestazione del danno alla dr.ssa Ne. deriverebbe dal fatto che, trattandosi di attività di consulenza e non formativa, si sarebbe dovuta applicare la normativa relativa agli incarichi esterni la quale, come noto, è costituita da molteplici fonti.
Secondo quanto riportato espressamente nell’atto di citazione, “per quanto riguarda il caso in questione, vengono in rilievo l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, che indica i presupposti di legittimità per il conferimento di incarichi; l'art. 3, comma 56, della l. n. 244/2007, che dispone che i limiti, i criteri e le modalità per l'affidamento di incarichi di collaborazione devono essere fissati con apposito regolamento, e che la violazione delle disposizioni regolamentari costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale; l'art. 1, comma 127, della l. n. 662/1996; il Regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune di Firenze.
In aggiunta, l'art. 3, comma 18, della l. n. 244/2007, abrogato dal d.lgs. n. 33/2013, ma all'epoca dei fatti in vigore, e quindi applicabile, disponeva che i contratti relativi ai rapporti di consulenza con le pubbliche amministrazioni erano efficaci a decorrere dalla data di pubblicazione del nominativo del consulente, dell'oggetto dell'incarico e del relativo compenso sul sito istituzionale dell'amministrazione, mentre l'art. 1, comma 127, della l. n. 662/1996 (anch'esso abrogato, ma anch'esso applicabile), come modificato dall'art. 3, comma 54, della l. n. 244/2007, sanzionava l'omessa pubblicazione con la responsabilità erariale del dirigente preposto.
Tra l'altro, per le consulenze si pone anche il problema del rispetto del limite dell'importo massimo stabilito dalla legge, ai sensi del d.l. n. 78/2010, convertito in legge dall'art. 1, comma 1, della l. n. 122/2010, il quale prevede, all'art. 6, comma 7, che la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza non possa essere superiore al 20% di quella sostenuta nel 2009. Il che, presumibilmente, non avrebbe consentito al Comune di Firenze di venire incontro alle richieste della Ca. e As..
In definitiva, poiché non aveva rispettato la normativa prevista dalle norme di legge e regolamentari per l'affidamento di incarichi esterni, la dott.ssa Ne. appariva essere responsabile di un danno erariale, pari all'importo pagato alla Ca. e As., asseritamente a titolo di spesa per "formazione".

In sintesi il tenore delle dichiarazioni rese alla GdF ed i riscontri documentali integrano un nesso tra il comportamento, connotato da colpa azionabile e l’erogazione contra legem delle somme in questione.
3. Danno erariale
Come sostenuto dalla Procura in citazione e come integrato in sede di discussione orale, gli esborsi patrimoniali di cui trattasi sia per la non corretta imputazione e qualificazione della prestazione resa dalla Srl esterna, sia per la successiva riscontrata “inutilità” della stessa (come detto il Comune non ha dato esecuzione alla determina n. 2013/DD/00619 del 22.01.2013 che la Dr.ssa Ne. ha adottato alla fine del rapporto con il Dr. Ta.), costituiscono una posta di danno erariale (€. 20.000,00) che deve essere integralmente imputata a carico della Dr.ssa So.Ne., sia pure in termini omnicomprensivi di interessi e di rivalutazione monetaria.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono dovuti, invece, gli interessi nella misura del saggio legale fino al momento del saldo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Toscana, sentenza 25.01.2016 n. 28).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla non conformità del regolamento comunale ai parametri normativi individuati da questa Sezione, relativamente alla mancata previsione che il conferimento dell’incarico legale debba essere comunque preceduto da procedure comparative ed adeguatamente pubblicizzato, senza distinzione tra soglie d’importo dell’affidamento.
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La Sezione ha stabilito alcuni criteri omogenei per l’esame dei regolamenti e delle delibere a carattere generale trasmesse dai Comuni in materia di affidamento di incarichi di collaborazione e di consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività,
la Sezione ha richiamato i propri precedenti pareri
in relazione ai quali individua i seguenti principi:
   1) La disciplina dettata dall’art. 3, commi da 55 a 57, della legge 244/2007 stabilisce
l’obbligo di normazione regolamentare dei limiti, criteri modalità di affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e ricerca nonché di consulenza a soggetti estranei all’amministrazione.
   2) L’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella legge n. 133/2008
unifica gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale e gli incarichi di studio e consulenza, riconducendoli all’interno della tipologia generale di collaborazione autonoma (da conferire perciò con contratti di lavoro autonomo) tutti caratterizzati dal grado di specifica professionalità richiesta. Questo tipo di collaborazione è diverso dalle collaborazioni “normali” il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente.
   3)
Quanto alla locuzione “particolare e comprovata specializzazione universitaria” questa Sezione, ha già chiarito che con essa si intende il possesso di conoscenze specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso formativo di tipo universitario basato, peraltro, su conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività professionale oggetto dell’incarico. Inoltre la specializzazione richiesta, per essere “comprovata” deve essere oggetto di accertamento in concreto condotto sull’esame di documentati curricula. Il mero possesso formale di titoli non sempre è necessario o sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste capacità professionali.
   4) Il nuovo testo dell’art. 7 del D.L. n. 165/2001, introdotto con l’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella l. n. 133/2008, qualifica poi
come presupposti di legittimità tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio.
In particolare,
il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
   5) Quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome
si richiamano le considerazioni contenute nel punto 6 del
parere 11.03.2008 n. 37 di questa Sezione sull’inapplicabilità della nuova disciplina a materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico professionale ed appalto di servizi.
   6)
Il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure selettive di natura comparativa ed adeguatamente pubblicizzata. Si è posto il problema del se ed in quali limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti pubblici.
Come già detto la materia è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri.
Deve invece affermarsi che il ricorso a procedure comparative deve essere generalizzato e che da esse può prescindersi solo in circostanze del tutto particolari, e cioè: procedura concorsuale andata deserta; unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo; assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale.

Così, anche recentemente, la Corte dei Conti in sede di controllo ha ribadito che
anche gli incarichi di consulenza legale “devono comunque essere affidati nel pieno rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e motivazione, a seguito di una procedura comparativa aperta a tutti i possibili interessati”.
   7)
L’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento del risultato.
Quest’ultima verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo dell’incarico.
   8) In ogni caso
tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere di incarico.

   9) Infine, l’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013 (c.d. “decreto trasparenza”) nel disciplinare gli “obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi dirigenziali e di collaborazione o consulenza”,
ha dettato nuove disposizioni per le pubbliche amministrazioni, tenute a pubblicare e aggiornare le informazioni relative ai titolari di incarichi amministrativi di vertice e di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, nonché di collaborazione o consulenza (la precedente disciplina, di cui all’art. 3, comma 54, della l. 24.12.2007, n. 244 -che aveva modificato l’art. 1, comma 127, della legge 23.12.1996, n. 662-, è stata abrogata dal citato d.lgs. n. 33/2013, art. 53, comma 1, lett. b).
In particolare,
è stato previsto, dal comma 1, l’obbligo di pubblicare le seguenti informazioni: estremi dell’atto; curriculum vitae; dati relativi allo svolgimento di incarichi o la titolarità di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione, o lo svolgimento di attività professionali; i compensi percepiti, comunque denominati.
Il comma 2 dell’art. 15 stabilisce inoltre, che
gli obblighi di pubblicazione e comunicazione costituiscono condizioni per l’acquisizione di efficacia dell’atto e per la liquidazione dei relativi compensi. In caso di omessa pubblicazione, il pagamento del corrispettivo determina la responsabilità del dirigente che l’ha disposto (art. 15 cit., comma 3).
Nel caso in esame,
il regolamento trasmesso dal Comune non si pone in linea con i criteri stabiliti dal
parere 11.03.2008 n. 37 e parere 06.11.2008 n. 224 di questa Sezione e parere 11.02.2009 n. 37 quanto all’inclusione nei casi di affidamento diretto dell’incarico di collaborazione autonoma dell’ipotesi in cui l’incarico per il rilascio di pareri legati per casistiche di particolare complessità, in assenza di una struttura legale interna, preveda un compenso entro una determinata soglia, con conseguente possibilità di pretermissione della necessaria procedura comparativa.
Ebbene,
è utile ricordare che detti incarichi devono comunque essere affidati nel pieno rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e motivazione, a seguito di una procedura comparativa aperta a tutti i possibili interessati.

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Questa Sezione in sede di esame del Regolamento per il conferimento di incarichi di studio, ricerca e consulenza a soggetti esterni all’Amministrazione, adottato dal Comune di Ripalta Arpina (CR), ai sensi dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge 24.12.2007, n. 244, approvato con deliberazione di Giunta comunale n. 49 del 07.08.2015 ha accertato la non conformità di alcune parti dello stesso Regolamento ai parametri normativi prefissati.
In particolare la previsione regolamentare risulta non rispondente al dettato legislativo di cui all’art. 46 del D.L. n. 112/2008 riguardo alla possibilità di prescindere dal ricorso a procedure comparative per procedere all’affidamento di incarichi esterni aventi ad oggetto il rilascio di pareri legali qualora il compenso annuo complessivo netto per questi incarichi non superi l’importo di Euro 10.000,00 (art. 8, comma 1, lett. h).
Alla luce della predetta difformità del regolamento dai criteri enunciati dalla Sezione con il
parere 11.03.2008 n. 37, parere 06.11.2008 n. 224 e parere 11.02.2009 n. 37, il magistrato istruttore ritiene che sussistano i presupposti per deferire la questione all’esame collegiale della Sezione.
DIRITTO
La legge finanziaria per il 2008 (l. 24.12.2007, n. 244) nel dettare regole alle quali gli enti locali debbono conformarsi per il conferimento di incarichi di collaborazione, di studio e di ricerca nonché di consulenze a soggetti estranei all’amministrazione, ha previsto la necessaria emanazione da parte di ciascun ente locale di norme regolamentari in materia, il cui testo deve essere trasmesso alla competente Sezione regionale della Corte dei conti entro trenta giorni dall’adozione, anche nell’ipotesi di modifiche future a testi già approvati.
Questa Sezione ha già individuato con il proprio
parere 11.03.2008 n. 37 e parere 06.11.2008 n. 224 i criteri interpretativi della nuova normativa al fine di stabilire nell’esame dei regolamenti pervenuti uniformi parametri di verifica, nonché l’alveo giuridico in cui si sostanzia la funzione di controllo della Corte dei conti.
I. Natura del controllo sui regolamenti ex comma 57 dell’art. 3 della l. n. 244/2007.
Il comma 57 dell’art. 3, della legge n. 244/2007, obbliga gli enti locali a trasmettere alla Corte dei conti in un breve termine prefissato le disposizioni regolamentari di cui si tratta. La norma in discorso non contiene alcuna previsione sulle ricadute dell’obbligo; conseguentemente, va chiarita la natura di questa forma di controllo facendo applicazione dei principi generali.
Secondo orientamento consolidato di questa Sezione, il dato testuale dell’art. 3, comma 57, della legge n. 244/2007 esclude che l’efficacia delle disposizioni regolamentari sia subordinata al loro esame da parte della Corte dei conti. Deve escludersi quindi l’effetto tipico del controllo preventivo di legittimità che, per sua natura, è integrativo dell’efficacia dell’atto. Nella logica di sistema l’obbligatoria trasmissione in termini temporali ravvicinati ad un organo di controllo esterno come la Corte dei conti va finalizzata all’esercizio di competenze desumibili dalle norme che regolano l’attività della istituzione.
Fatta questa premessa, si evidenzia che la funzione tipica delle Sezioni regionali della Corte dei conti rispetto agli enti locali è quella di esercitare un controllo di tipo “collaborativo”. In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che il legislatore è libero di assegnare alla Corte dei conti qualsiasi forma di controllo, purché questo abbia un suo fondamento costituzionale, rinvenendo, peraltro, detto fondamento in una lettura adeguatrice al nuovo assetto della Repubblica di norme originariamente dettate per lo Stato, quali gli artt. 100, 81, 97, primo comma, e 28 della Costituzione (cfr. sentenza Corte Cost. n. 179/2007).
In quest’ottica, la Sezione delle autonomie della Corte dei conti, con deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008, ha dettato le linee di indirizzo e i criteri interpretativi dell’articolo 3, commi 54-57, della legge 24.12.2007, n. 244 in materia di regolamenti degli enti locali per l’affidamento di incarichi di collaborazione, studio, ricerca e consulenza, chiarendo che la trasmissione del regolamento deve ritenersi strumentale all’esame da parte della Sezione, in un’ottica di controllo collaborativo.
In questo quadro di rapporti istituzionali l’obbligo di trasmissione alla Corte dei conti di atti e documenti da parte degli enti locali non può essere fine a se stesso ma deve essere finalizzato allo svolgimento di funzioni (cfr. in proposito la deliberazione di questa Sezione n. 11 del 26.10.2006).
La trasmissione di regolamenti deve, pertanto, ritenersi strumentale al loro esame e ad una pronuncia della Corte dei conti. Stante la natura dell’atto regolamentare, in questo caso il controllo della Corte dei conti è ascrivibile alla categoria del riesame di legalità e regolarità, dovendosi assumere a parametro delle disposizioni regolamentari lo statuto dell’ente, i criteri deliberati dal Consiglio, i limiti normativi di settore ed in particolare l’art. 7 del D.Lgv. n. 165/2001 e l’art. 110 del D.Lgv. n. 267/2000.
Va ricordato che le norme da ultimo richiamate hanno un particolare valore perché hanno positivizzato principi affermati da una giurisprudenza ormai univoca quali presupposti essenziali per il ricorso agli incarichi esterni; essi costituiscono regole di organizzazione non derogabili da disposizioni regolamentari ed in gran parte neppure da norme di rango superiore in quanto trovino fondamento in principi costituzionali.
II. Effetti del controllo sul regolamento per l’affidamento di incarichi esterni.
Fissati i parametri di raffronto per le verifiche demandate alla Corte dei conti, si debbono stabilire gli effetti del controllo.
Al riguardo va ricordato che la Corte costituzionale, ricostruendo il quadro complessivo dell’attività di controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti locali, ha ritenuto che anche il riesame di legalità e regolarità –a cui si ascrivono le verifiche previste dall’art. 1, comma 166 e seguenti, della legge n. 166/2005 per accertare il raggiungimento degli obiettivi del Patto di stabilità e degli equilibri finanziari, così come il controllo ex art. 3, comma 57, della legge n. 244/2007- va effettuato in una prospettiva non più statica (come era il tradizionale controllo di legalità regolarità), ma dinamica per consentire all’ente destinatario del controllo di adottare misure correttive conformi ai parametri normativi individuati in sede di riesame.
Strumento per raggiungere siffatto risultato in una tipologia di controllo di natura collaborativa può essere individuato nell’applicazione dei principi e dell’iter procedurale dettati dall’art. 1, comma 168, della legge n. 266/2005, norma che prevede specifiche pronunce da indirizzare all’ente controllato, rimettendo ad esso l’adozione delle necessarie misure correttive nonché la vigilanza sulla effettiva adozione delle misure stesse.
Si aggiunga che l’esame della Corte sulle norme regolamentari riguarda solo detta materia e non va perciò estesa ad altre norme, anche nella ipotesi nella quale l’ente trasmetta l’intero regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.

III. Parametri normativi che conformano il controllo sui regolamenti de quibus.
Con
parere 11.02.2009 n. 37 la Sezione ha stabilito alcuni criteri omogenei per l’esame dei regolamenti e delle delibere a carattere generale trasmesse dai Comuni in materia di affidamento di incarichi di collaborazione e di consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività,
la Sezione ha richiamato i propri precedenti
parere 11.03.2008 n. 37 e parere 06.11.2008 n. 224, in relazione ai quali individua i seguenti principi:
   1) La disciplina dettata dall’art. 3, commi da 55 a 57, della legge 244/2007 stabilisce
l’obbligo di normazione regolamentare dei limiti, criteri modalità di affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e ricerca nonché di consulenza a soggetti estranei all’amministrazione. La competenza ad adottare regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio (art. 48, terzo comma, ed art. 42, secondo comma, lett. A del T.U.E.L.).
   2) L’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella legge n. 133/2008
unifica gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale e gli incarichi di studio e consulenza, riconducendoli all’interno della tipologia generale di collaborazione autonoma (da conferire perciò con contratti di lavoro autonomo) tutti caratterizzati dal grado di specifica professionalità richiesta. Questo tipo di collaborazione è diverso dalle collaborazioni “normali” il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente.
   3)
Quanto alla locuzione “particolare e comprovata specializzazione universitaria questa Sezione, ha già chiarito con il
parere 12.05.2008 n. 28 e parere 12.05.2008 n. 29, che con essa si intende il possesso di conoscenze specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso formativo di tipo universitario basato, peraltro, su conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività professionale oggetto dell’incarico. Inoltre la specializzazione richiesta, per essere “comprovata” deve essere oggetto di accertamento in concreto condotto sull’esame di documentati curricula. Il mero possesso formale di titoli non sempre è necessario o sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste capacità professionali.
   4) Il nuovo testo dell’art. 7 del D.L. n. 165/2001, introdotto con l’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella l. n. 133/2008, qualifica poi
come presupposti di legittimità tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio.
In particolare,
il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
   5) Quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome
si richiamano le considerazioni contenute nel punto 6 del
parere 11.03.2008 n. 37 di questa Sezione sull’inapplicabilità della nuova disciplina a materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico professionale ed appalto di servizi.
   6)
Il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure selettive di natura comparativa ed adeguatamente pubblicizzata. Si è posto il problema del se ed in quali limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti pubblici.
Come già detto la materia è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri.
Deve invece affermarsi che il ricorso a procedure comparative deve essere generalizzato e che da esse può prescindersi solo in circostanze del tutto particolari, e cioè: procedura concorsuale andata deserta; unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo; assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale.

Così, anche recentemente, la Corte dei Conti in sede di controllo ha ribadito che
anche gli incarichi di consulenza legaledevono comunque essere affidati nel pieno rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e motivazione, a seguito di una procedura comparativa aperta a tutti i possibili interessati (C. Conti, sez. contr. Emilia Romagna, deliberazione 18.11.2015 n. 145).
   7)
L’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione, durata dell’incarico, modalità di determinazione del corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso, verifiche del raggiungimento del risultato.
Quest’ultima verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo dell’incarico.
   8) In ogni caso
tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere di incarico.
   9) Infine, l’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013 (c.d. “decreto trasparenza”) nel disciplinare gli “obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi dirigenziali e di collaborazione o consulenza”,
ha dettato nuove disposizioni per le pubbliche amministrazioni, tenute a pubblicare e aggiornare le informazioni relative ai titolari di incarichi amministrativi di vertice e di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, nonché di collaborazione o consulenza (la precedente disciplina, di cui all’art. 3, comma 54, della l. 24.12.2007, n. 244 -che aveva modificato l’art. 1, comma 127, della legge 23.12.1996, n. 662-, è stata abrogata dal citato d.lgs. n. 33/2013, art. 53, comma 1, lett. b).
In particolare,
è stato previsto, dal comma 1, l’obbligo di pubblicare le seguenti informazioni: estremi dell’atto; curriculum vitae; dati relativi allo svolgimento di incarichi o la titolarità di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione, o lo svolgimento di attività professionali; i compensi percepiti, comunque denominati.
Il comma 2 dell’art. 15 stabilisce inoltre, che
gli obblighi di pubblicazione e comunicazione costituiscono condizioni per l’acquisizione di efficacia dell’atto e per la liquidazione dei relativi compensi. In caso di omessa pubblicazione, il pagamento del corrispettivo determina la responsabilità del dirigente che l’ha disposto (art. 15 cit., comma 3).
Nel caso in esame,
il regolamento trasmesso dal Comune di Ripalta Arpina non si pone in linea con i criteri stabiliti dal
parere 11.03.2008 n. 37 e parere 06.11.2008 n. 224 di questa Sezione e parere 11.02.2009 n. 37 quanto all’inclusione nei casi di affidamento diretto dell’incarico di collaborazione autonoma dell’ipotesi in cui l’incarico per il rilascio di pareri legati per casistiche di particolare complessità, in assenza di una struttura legale interna, preveda un compenso entro una determinata soglia, con conseguente possibilità di pretermissione della necessaria procedura comparativa.
Ebbene,
è utile ricordare che detti incarichi devono comunque essere affidati nel pieno rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e motivazione, a seguito di una procedura comparativa aperta a tutti i possibili interessati.
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia:
1)
Accerta la non conformità del regolamento inviato ai parametri normativi individuati da questa Sezione nelle delibere richiamate in premessa, relativamente alla mancata previsione che il conferimento dell’incarico debba essere comunque preceduto da procedure comparative ed adeguatamente pubblicizzato, senza distinzione tra soglie d’importo dell’affidamento;
2) Invita l’amministrazione comunale a modificare il predetto regolamento nelle parti indicate;
3) Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al Presidente del Consiglio comunale e al Sindaco del comune di Ripalta Arpina al fine di procedere alle necessarie modifiche del regolamento.
4) Dispone che l’amministrazione comunale trasmetta entro il termine di legge di 30 giorni dalla delibera di modifica, il nuovo regolamento aggiornato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, deliberazione 21.01.2016 n. 16).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUnioni, cinque limiti sul personale. Gestioni associate. Vanno regolate le compensazioni in caso di uscita di un ente.
Con il parere 20.01.2016 n. 6 ed il parere 20.01.2016 n. 8, la Corte dei Conti della Lombardia torna sulla delicata questione del conteggio delle spese di personale e delle capacità assunzionali in caso di gestione associata delle funzioni da parte degli enti locali.
In materia di calcoli aggregati in caso di convenzione o unione, si possono individuare ben cinque limiti: il contenimento delle spese di personale in valore assoluto, il rapporto tra spese di personale e spese correnti, la capacità assunzionale, il tetto sul lavoro flessibile e il controllo sul fondo del trattamento accessorio. Il monitoraggio è già complicato all'interno del singolo ente, ma che cosa succede quando le funzioni vengono gestite in forma associata?
Il punto fermo è l'articolo 32, comma 5, del Dlgs 267/2000 in base al quale «fermi restando i vincoli previsti dalla normativa vigente in materia di personale, la spesa sostenuta per il personale dell'Unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti». Nei vincoli in materia di personale, un analogo criterio va fissato per le convenzioni, tenendo anche conto anche di quanto stabilito nel Dm Interno dell’11 settembre in materia di obiettivi di risparmio.
La disposizione ha la finalità di fissare un tetto massimo, per evitare che i singoli Comuni, una volta trasferite funzioni e spese di personale alla gestione associata, procedano con assunzioni o incrementi di spesa autonomi, senza più tener conto dei costi sostenuti dalle unioni o dalle convenzioni. Inevitabilmente, la regola generale si estende anche sulle altre limitazioni prima riassunte. Per il monitoraggio dei vincoli, la sezione Autonomie, con la delibera 8/2011, aveva sancito un metodo concreto: «Il contenimento dei costi del personale dei Comuni deve essere valutato sotto il profilo sostanziale, sommando alla spesa di personale propria la quota parte di quella sostenuta dall'unione dei Comuni». Quindi, la gestione associata ripartisce i costi di personale sui Comuni i quali devono dimostrare singolarmente di rispettare le disposizioni.
Questa modalità, se mette un paletto chiaro e definito, non permette però di gestire con flessibilità i servizi, le funzioni e il riparto della spesa tra gli enti facenti parte della gestione associata. Può infatti accadere che un Comune riceva maggiori servizi rispetto a quelli riferiti alla singola spesa di personale: di qui la possibilità di un conteggio complessivo con compensazioni di spesa. Lo prevede il comma 450 della legge 190/2014, che pare fare riferimento, però, alle sole gestioni associate obbligatorie, così come già indicato dalla stessa Corte dei conti della Lombardia (delibera 457/2015). I giudici contabili hanno aggiunto che la compensazione può operare solo in presenza di più funzioni trasferite.
Dal punto di vista operativo non ci sono dubbi. La possibilità di gestire in forma cumulata i limiti di personale, di fronte all’effettiva gestione associata delle funzioni, è la finalità del legislatore, ma è necessario prestare la massima attenzione a cosa potrebbe succedere in caso di fuoriuscita di un ente dall'unione o dalla convenzione. Quindi, sulla base delle delibere 6/2015 e 8/2015 della Corte dei conti della Lombardia, è necessario predisporre una regolamentazione delle funzioni associate tale da garantire le forme di compensazione, escludendo in ogni caso qualsiasi aumento della spesa per il personale.
Questo documento, che riassume tutti i limiti in materia di personale, è bene che venga recepito dalle singole amministrazioni. Va infine ricordato che la legge 208/2015 ha previsto il turn-over al 100% per le unioni di Comuni
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2016).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Aggiornamento modalità operative per l’acquisizione del CIG (comunicato del Presidente 10.02.2016 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Appalti, al setaccio le false dichiarazioni delle imprese. Anac. La segnalazione alle stazioni appaltanti.
Gli operatori economici che abbiano conseguito la qualificazione Soa con false dichiarazioni o documentazioni saranno segnalati dall’Anac alle stazioni appaltanti, affinché queste possano verificare se l’impresa ha utilizzato l’attestazione dopo l’iscrizione nel casellario informatico.
Il comunicato del Presidente 03.02.2016 dell’Anac pubblicato, ieri fa, riferimento all’articolo 40, comma 9-quater, del Codice dei contratti, in base al quale in caso di presentazione di falsa dichiarazione o documentazione le Soa ne danno segnalazione all’Anac che, in caso di dolo o colpa grave, dispone l’iscrizione nel casellario informatico per l’esclusione da gare e subappalti per un anno (decorso il quale l’iscrizione è cancellata).
Secondo l’Autorità, l’utilizzo delle attestazioni Soa dopo l’iscrizione nel casellario informatico configura un distinto fatto illecito, per il quale si applica l’articolo 48 del Codice appalti. La conseguenza è riferibile a tutte le ipotesi in cui l’attestazione Soa conseguita con dati falsi sia utilizzata per dimostrare il possesso dei requisiti in appalti di lavori inferiori a 150mila euro.
In questi casi, il consapevole uso di un’attestazione falsa determina l’attivazione della stazione appaltante per l’esclusione dalla gara dell’operatore economico e l’escussione della cauzione provvisoria, oltre alla segnalazione all’Anac e all’autorità giudiziaria. Perché questo avvenga la condotta dell’impresa deve essere stata dolosa, quindi accertata nel procedimento svolto dalla stessa Anac che si conclude con l’iscrizione della segnalazione nel casellario informatico.
Per consentire alle stazioni appaltanti una verifica puntuale, l’Anac verificherà le partecipazioni dell’operatore economico alle gare nell’ultimo quinquennio dal momento di adozione del provvedimento di imputabilità, e girerà alle stazioni appaltanti una comunicazione per attivare la segnalazione per l’avvio del procedimento previsto dall’articolo 48. Le stazioni appaltanti che riscontreranno la partecipazione dell’impresa che ha ottenuto l’attestazione Soa con documenti falsi dovranno riportarlo all’Anac, che attiverà l’iter per l’esclusione dalle gare per un anno.
L’esclusione sarà tuttavia possibile solo quando l’operatore economico sarà iscritto nel casellario informatico
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Obbligo di segnalazione all’Autorità previsto dall’art. 48, c.1 e c. 2, del d.l.vo 163/2206 a seguito dell’adozione di un provvedimento ex art. art. 40, comma 9-quater, del d.l.vo 163/2006, con accertamento dell’imputabilità all’o.e. con dolo della presentazione di falsa dichiarazione o di falsa documentazione ai fini della qualificazione (comunicato del Presidente 03.02.2016 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Si comunica che il Consiglio dell’Autorità, nell’ambito di una più ampia riflessione in merito agli effetti prodotti dall’adozione di un provvedimento sanzionatorio, ex art. 40, c. 9-quater, del d.l.vo 163/2006, con accertamento dell’ imputabilità con dolo all’o.e. della falsa dichiarazione o falsa documentazione resa ai fini del conseguimento dell’attestazione di qualificazione per l’esecuzione di lavori pubblici, ha ritenuto che nel caso di utilizzazione successiva dell’attestazione -affetta da falsità- si verifica un distinto ed autonomo fatto illecito, per il quale, per quanto concerne gli eventuali profili sanzionatori, ricorre l’applicazione dell’art. 48, del d.l.vo 163/2006.
Poiché l’attestazione di qualificazione è condizione necessaria e sufficiente ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti a carattere speciale richiesti ai fini della partecipazione alle gare pubbliche di lavori di importo superiore a Euro 150.000, si è ritenuto che la decadenza dell’attestazione conseguita sulla base di falsa dichiarazione o falsa documentazione, possa produrre effetti anche ai fini di quanto previsto dall’art. 48, commi 1 e 2, del d.l.vo 163/2006, in quanto contestabile all’o.e. la consapevole produzione di un’attestazione di qualificazione affetta da falsità.
In tale circostanza, nel caso di consapevole e volontaria utilizzazione di un’attestazione, affetta da falsità, si profila, infatti, la fattispecie sanzionatoria prevista dal comma 1, dell’art. 48, del d.l.vo 163/2006, con l’attivazione a carico della Stazione appaltante sia degli obblighi sanzionatori ivi previsti sia dell’obbligo di segnalazione verso l’Autorità, ove il soggetto non risulti già essere stato escluso dalla gara.
Occorrerà, tuttavia, che la condotta dell’o.e. sia già stata profilata nell’ambito del procedimento ex art. 40, comma 9-quater, del d.l.vo 163/2006, come dolosa; solo in tal caso, infatti, si ritiene possa venire in evidenza l’ipotesi sanzionatoria ex art. 48 del d.l.vo 163/2006. Si ritiene, infatti, che la nuova ipotesi sanzionabile è confinata ai soli casi di utilizzo della falsa attestazione consapevolmente conseguita con referenze false e, dunque, ai soli casi di imputabilità con dolo, ai sensi del 40, comma 9-quater, del d.l.vo 163/2006.
In tal caso, dunque, l’Autorità procederà all’analisi delle partecipazioni dell’o.e. alle gare nell’ultimo quinquennio, a decorrere dal momento di adozione del provvedimento di imputabilità ex art. 40, c. 9-quater, del d.l.vo 163/2006, e procederà all’inoltro alle S.A., che abbiano ricevuto la predette istanze di partecipazione, di una comunicazione finalizzata all’ attivazione, a cura delle medesime S.A., della segnalazione necessaria ai fini dell’avvio del procedimento ex art. 48 del d.l.vo 163/2006, che rimarrà di competenza dell’Ufficio Sanzioni di questa Autorità.

APPALTI: P.a., trasparenza sui contratti. Anac: dati da pubblicare entro il 31/1.
Entro il 31 gennaio di ogni anno devono essere pubblicati sul sito web di ogni stazione appaltante, i dati di tutti i contratti pubblici, anche affidati senza gara o con procedure in deroga; sanzioni fino a 25 mila euro per chi non adempie.

È quanto stabilisce la delibera 20.01.2016 n. 39 dell'Anac (Indicazioni alle Amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, decreto legislativo 30.03.2001 n.165 sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione e di trasmissione delle informazioni all’Autorità Nazionale Anticorruzione, ai sensi dell’art. 1, comma 32, della legge n. 190/2012, come aggiornato dall’art. 8, comma 2, della legge n. 69/2015) che disciplina sostituendo una precedente delibera dell'Avcp del 2013 gli obblighi comunicativi previsti dalla legge Severino che, all'art. 1, comma 32, primo periodo, obbliga le stazioni appaltanti alla pubblicazione, sui propri siti web istituzionali, con riferimento ai contratti pubblici delle seguenti informazioni: struttura proponente; oggetto del bando; elenco degli operatori invitati a presentare offerte; aggiudicatario; importo di aggiudicazione; tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura; importo delle somme liquidate.
L'obbligo comunicativo, per il quale ogni responsabile del procedimento potrà essere passibile di una sanzione fino a 25 mila euro in caso di violazione, precisa l'Anac, dovrà riguardare «tutti i procedimenti di scelta del contraente, a prescindere dall'acquisizione del Cig o dello SmartCig, dal fatto che la scelta del contraente sia avvenuta all'esito di un confronto concorrenziale o con affidamenti in economia o diretti e dalla preventiva pubblicazione di un bando o di una lettera di invito».
Non soltanto: la legge Severino andrà rispettata anche quando le amministrazioni agiscono in deroga alle procedure ordinarie. L'obbligo vale per le procedure dell'anno precedente aggiudicate o in corso di aggiudicazione. La delibera impone alle amministrazioni di tenere le informazioni sul sito «per un periodo di cinque anni decorrenti dal primo gennaio dell'anno successivo a quello da cui decorre l'obbligo di pubblicazione e comunque fino alla conclusione del contratto stipulato all'esito della procedura di affidamento cui fanno riferimento».
La delibera prevede che i dati siano inseriti, entro il 31 gennaio di ogni anno, nella sezione «amministrazione trasparente», sotto-sezione di primo livello «Bandi di gara e contratti» del sito web della stazione appaltante (articolo ItaliaOggi del 02.02.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Oggetto: Delibera n. 43 del 20.01.2016 avente ad oggetto “Attestazioni OIV, o strutture con funzioni analoghe, sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione al 31.01.2016 e attività di vigilanza dell’Autorità” (comunicato del Presidente 26.01.2016 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Si rende noto che nella seduta del 20.01.2016, il Consiglio dell’Autorità ha assunto la delibera in oggetto.
Con tale provvedimento, il Consiglio dell’Autorità, allo scopo di verificare l’effettiva pubblicazione dei dati previsti dalla normativa vigente, ha deciso di richiedere agli Organismi Indipendenti, o strutture con funzioni analoghe, istituiti presso gli enti di cui all’art. 11, commi 1 e 2, lettera a), di attestare al 31.01.2016 l’assolvimento di specifiche categorie di obblighi di pubblicazione.
Il termine di pubblicazione delle predette attestazioni, nella sezione “Amministrazione trasparente”, sotto-sezione di primo livello “Disposizioni generali”, sotto-sezione di secondo livello “Attestazioni OIV o di struttura analoga” dell’ente monitorato, è fissato al 29.02.2016.

ENTI LOCALINon profit, stop a soldi a pioggia. Gli enti pubblici tenuti a procedure paraconcorsuali. Obbligatorie procedure competitive per l'assegnazione di contributi ai soggetti del terzo settore. Le linee guida dell'Anac individuano i paletti per i contributi. Poteri ai dirigenti.
La determinazione 20.01.2016 n. 32 dell'Anac, contenente le linee guida per l'affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali, afferma in modo esplicito ciò che, per la verità, era già reso evidente dalla normativa sull'anticorruzione e la trasparenza (si veda ItaliaOggi di ieri).
Occorre ricordare che ai sensi dell'articolo 1, comma 16, della legge 190/2012 la «concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati» è considerata un processo amministrativo ad alto rischio di corruzione. Si parla di un flusso di denaro che secondo i dati estrapolabili dal Siope (Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici) ammontava nel 2014, solo per le amministrazioni locali, a circa 2 miliardi di euro.
Era, dunque, già chiaro che la legge 190/2012 (ma, ancor prima, con l'articolo 12 della legge 241/1990) avesse messo fuori causa la prassi diffusissima, soprattutto negli enti locali, di assegnare contributi e sovvenzioni «ad personam», da parte degli organi di governo, senza alcuna procedura realmente selettiva.
Sul punto, la delibera 32/2016 dell'Anac è tranciante: «L'attribuzione di vantaggi economici, sebbene non regolata dal Codice dei contratti, è sottoposta comunque a regole di trasparenza e imparzialità; pertanto deve essere preceduta da adeguate forme di pubblicità e avvenire in esito a procedure competitive».
Occorrono, dunque, degli avvisi pubblici che non si limitino a raccogliere le istanze dei soggetti del terzo settore, ma dettino regole per mettere in «competizione» le richieste: di conseguenza, gli enti debbono dotarsi di sistemi di valutazione delle istanze, dai quali derivi l'ammissibilità alla ripartizione dei fondi e che stabiliscano in via preventiva come giungere ad attribuire le somme oggetto della sovvenzione.
L'Anac suggerisce gli strumenti organizzativi, indicando che le amministrazioni debbono individuare preventivamente gli ambiti di intervento; gli obiettivi da perseguire; le categorie dei beneficiari; la natura e la misura dei contributi da erogare; il procedimento da seguire (con l'indicazione di modalità e termini per presentare le istanze); i criteri di valutazione delle richieste per la scelta dei beneficiari, redatti in modo tale da rispettare i principi di libera concorrenza e parità di trattamento; infine, le azioni per controllare che i contributi siano effettivamente impiegati per le finalità previste.
In estrema sintesi, l'Anac trae spunto dalla normativa su anticorruzione e trasparenza, per chiarire che ai fini dell'erogazione di contributi occorre porre in essere vere e proprie procedure «para concorsuali», in tutto assimilabili a quelle di gara, regolate dal codice dei contratti.
La delibera 32/2016, per altro, richiama la determinazione dell'ex Avcp 07.07.2011, n. 4, secondo la quale la disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari di cui alla legge 136/2010, sostenendo che tale disciplina debba applicarsi non solo agli appalti di servizi, ma anche alle sovvenzione in favore dei soggetti del terzo settore (sebbene la determinazione 4/2011 non arrivi esattamente a tale conclusione).
La necessità di erogare i contributi attraverso procedure sostanzialmente concorsuali induce a risolvere l'altro problema (non affrontato dall'Anac) riguardante la competenza a procedere. Nel momento in cui si agisce non attraverso modalità totalmente discrezionali, bensì con griglie valutative e procedimentali, si chiarisce che l'erogazione materiale diviene attività gestionale, di competenza non più degli organi di governo, ma dei dirigenti o responsabili di servizi. Del resto, questo aspetto è già disciplinato dall'articolo 4, comma 1, lettera d), che considera appartenente alla sfera di competenza degli organi di governo solo la «definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi», sicché la concreta gestione spetta alla dirigenza.
Le amministrazioni, dunque, alla luce della delibera Anac 32/2016 debbono affrettarsi a rivedere tutto il sistema di regolazione dell'erogazione dei contributi ai soggetti del terzo settore, ivi comprese anche le discipline sugli organi competenti a gestire le procedure selettive e ad adottare i provvedimenti finali (articolo ItaliaOggi del 10.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI SERVIZI: Servizi a coop e non profit, Anac dà la linea.
Ufficiali le linee guida Anac per l'affidamento di servizi agli enti del terzo settore e alle cooperative sociali. Gli enti locali, le regioni e lo stato devono procedere alla programmazione degli interventi e dei servizi sociali. La programmazione deve avvenire in forma unitaria, a livello di ambito territoriale in luogo del singolo comune, e integrata, in una logica di governance (con il coinvolgimento degli attori della società civile).

Queste le finalità delle «Linee guida per l'affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali» redatte dall'Autorità nazionale anticorruzione e pubblicate, sulla Gazzetta Ufficiale del 06.02.2016, n. 30 (determinazione 20.01.2016 n. 32).
Le amministrazioni pubbliche ricorrono frequentemente agli organismi non profit per l'acquisto o l'affidamento di servizi alla persona. Tale scelta organizzativa ha il vantaggio di promuovere un modello economico socialmente responsabile in grado di conciliare la crescita economica con il raggiungimento di specifici obiettivi sociali, quali, per esempio, l'incremento occupazionale e l'inclusione e integrazione sociale.
Programmazione interventi. Il piano di zona è adottato, di norma, attraverso un accordo di programma cui partecipano i comuni associati e organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni ed enti di patronato, organizzazioni di volontariato, enti riconosciuti delle confessioni religiose, che, attraverso l'accreditamento o specifiche forme di concertazione, concorrono, anche con proprie risorse, alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali previsto nel piano.
Il piano di zona, in particolare, nell'individuare gli obiettivi strategici e le priorità di intervento nonché gli strumenti e i mezzi per la relativa realizzazione, le modalità organizzative dei servizi, le risorse finanziarie, strutturali e professionali, i requisiti di qualità, deve prevedere l'erogazione dei servizi nel rispetto dei principi di universalità, parità di trattamento e non discriminazione.
Programmazione. La programmazione, come più volte osservato dall'Autorità, rappresenta uno strumento fondamentale per garantire la trasparenza dell'azione amministrativa, la concorrenza nel mercato e, per tali vie, prevenire la corruzione e garantire il corretto funzionamento della macchina amministrativa.
Infatti, l'assenza di un'adeguata programmazione comporta la necessità di far fronte ai bisogni emersi ricorrendo a procedure di urgenza che, oltre a rivelarsi poco rispettose dei principi che governano l'azione amministrativa e a non garantire la qualità dei servizi resi, possono originare debiti fuori bilancio. In fase di programmazione vanno individuate non solo le modalità operative di erogazione del servizio sociale, ma anche le risorse finanziarie a tal fine necessarie.
«Tali risorse finanziarie dovranno essere previste e valutate nel loro volume aggregato, per poi essere ripartite tra i vari enti associati, sulla base degli accordi assunti in sede di convenzione, e riportate nei rispettivi bilanci di previsione annuali e pluriennali» (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).

APPALTI SERVIZI: Coop sociali, appalti difficili. Gli esecutori devono essere il 30% dei lavoratori. La delibera Anac sull'affidamento di servizi al terzo settore prevede molte restrizioni.
Appalti a cooperative sociali più difficili. La determinazione 20.01.2016 n. 32 dell'Anac «Linee guida per l'affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali» prevede una serie di restrizioni agli affidamenti, alla luce di valutazioni interpretative non del tutto coerenti col sistema previsto dall'articolo 5 della legge 381/1991.
Particolare problemi emergono dalla chiave di lettura fornita dall'Anac sul fine particolare degli affidamenti «riservati» alle cooperative sociali di tipo B: il reinserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati. L'Anac ritiene che «la percentuale dei lavoratori svantaggiati debba essere riferita sia al numero complessivo dei lavoratori della cooperativa sia a quello che esegue le singole prestazioni dedotte in convenzione», perché una diversa interpretazione avvererebbe il rischio di conseguire in minima parte l'obiettivo di inclusione sociale, che giustifica gli appalti riservati.
Il suggerimento dell'Anac, però, non convince. L'articolo 4, comma 2, della legge 381/1991 fissa un requisito soggettivo delle cooperative sociali di tipo B disponendo che le persone svantaggiate definite dalla norma «devono costituire almeno il 30% dei lavoratori della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie della cooperativa stessa». Il successivo articolo 5, comma 1, consente gli affidamenti di servizi alle cooperative sociali di tipo B sotto soglia, in deroga alla normativa sui contratti pubblici a condizione che le connesse «convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate».
La locuzione utilizzata dal legislatore non collima con l'interpretazione secondo la quale un appalto alle coop di tipo B sia legittimo solo se gli esecutori della prestazione siano il 30% dei suoi lavoratori. La disciplina ha lo scopo che dalle commesse pubbliche le cooperative possano trarre i finanziamenti necessari sia per mantenere la quota del 30% di soggetti svantaggiati, presupposto per poter partecipare alle selezioni per gli affidamenti, sia per creare nuove opportunità di lavoro.
Queste, non necessariamente debbono coincidere con forme di lavoro subordinato che possano costituire il 30% del valore complessivo del costo del personale dell'appalto. L'opportunità di lavoro potrebbe essere perseguita mediante forme contrattuali estremamente flessibili, per dare prevalenza all'inclusione sociale. Dunque, il personale chiamato a nuove opportunità di lavoro potrebbe essere impiegato direttamente nella commessa per poche ore, ben inferiori al 30%.
Inoltre, visto che la legge intende favorire opportunità lavorative non connesse allo specifico appalto ma in generale, si può porre l'esempio di una cooperativa sociale di tipo b) destinataria di una commessa di attività di sfalcio erba, che non impieghi alcuno svantaggiato nello specifico servizio, però utilizzi le entrate della commessa per assumere un disabile (inidoneo all'attività di sfalcio) nell'ambito dei propri servizi amministrativi.
Lo scopo della legge 381/1991 sarebbe comunque ottenuto e la giustificazione della deroga al sistema degli appalti pubblici pienamente rispettata. È nell'indicazione del progetto di inclusione socio-lavorativa prima, nonché nella convenzione, poi, che vanno con precisione indicate le modalità con le quali la cooperativa assicura le opportunità di lavoro, in modo che poi sia possibile il monitoraggio posto a verificare che gli obiettivi di inclusione e reinserimento siano davvero rispettati, per tutta la durata dell'appalto.
Un altro problema riguarda le procedure selettive. L'Anac ricorda che per effetto della novella all'articolo 5, comma 2, della legge 381/1991 da parte dell'articolo 1, comma 610, della legge 190/2014 gli affidamenti possono essere realizzati «previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza».
L'autorità in proposito afferma che le stazioni appaltanti per i servizi ricompresi nell'allegato IIA al codice dei contratti debbono utilizzare le procedure previste dagli articoli 124, comma 6, o 125, comma 11, del medesimo codice, adempiendo agli obblighi informativi; dovranno utilizzare la procedura semplificata di cui all'articolo 27 nel caso di servizi di cui all'allegato IIB.
Tale conclusione appare, tuttavia, non condivisibile. Poiché, però, la legge 381/1991 consente di derogare alle norme sugli affidamenti, nessuna disposizione del codice dei contratti può considerarsi da applicare obbligatoriamente come disciplina di dettaglio, ma solo limitatamente a indicazioni di principio (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

APPALTI SERVIZI: Stretta sulle deroghe per gli appalti alle coop. Anac vieta di restringere i requisiti per l'ammissione alle gare.
Limiti alle procedure di affidamento di servizi sociali in deroga, ammesse solo per un arco temporale determinato; divieto di restrizione delle condizioni di acceso al mercato e di clausole «su misura» per eludere la concorrenza; necessari attenti controlli sui requisiti di moralità professionale e sulle modalità di esecuzione dei contratti.
Sono questi alcuni dei punti delle quasi 50 pagine in cui si articolano le linee guida Anac siglate da Raffaele Cantone (determinazione 20.01.2016 n. 32).
Le indicazioni dell'Anac si inseriscono in un contesto economico che vede le organizzazioni non profit muoversi in un ambito caratterizzato dall'assenza di una specifica normativa di settore che disciplini in maniera organica l'affidamento di contratti pubblici ai soggetti operanti nel cosiddetto terzo settore.
L'Anac ha deciso di fornire indicazioni operative alle amministrazioni aggiudicatrici e agli operatori del settore, per ricondurre le modalità di affidamento dei contratti al rispetto della normativa comunitaria e nazionale. Per prevenire la corruzione, l'Autorità di Cantone invia le stazioni appaltanti anche al rispetto dei principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento, libera prestazione dei servizi.
Sembra banale, ma non lo è, visto che nell'ambito dei servizi sociali molte norme prevedono la possibilità di effettuare affidamenti in deroga all'applicazione del codice dei contratti, introducendo il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali, che consentono agli organismi «del privato sociale» (le cooperative sociali e altre organizzazioni non profit) la piena espressione della propria progettualità.
Sul punto l'Anac è chiara: le deroghe possono trovare applicazione nei soli casi espressamente consentiti dalla normativa e non è dato ricorrere ad applicazioni analogiche o estensive. Ecco quindi che, per esempio, le convenzioni di cui alla legge 266/1991 con le associazioni di volontariato possono essere stipulate in deroga ai principi dell'evidenza pubblica soltanto al fine di realizzare i principi di universalità, solidarietà, efficienza economica e adeguatezza e a condizione che siano rispettati i principi di imparzialità e trasparenza.
Trattandosi, inoltre, di contratti che comunque impegnano risorse pubbliche, l'Anac ha precisato che gli affidamenti devono garantire l'economicità, l'efficacia e la trasparenza dell'azione amministrativa, oltre che la parità di trattamento tra gli operatori del settore.
Al bando, quindi, le clausole degli atti di gara che hanno l'effetto di restringere i requisiti di ammissione alle gare (spesso si è usato il «trucco» di enfatizzare chi ha già avuto esperienze analoghe in un determinato contesto territoriale o le ha al momento della pubblicazione del bando di gara).
Altro elemento segnalato dall'autorità come negativo è il fenomeno delle proroghe, che devono essere assolutamente evitate e quando strettamente necessarie, limitate nell'arco temporale e predeterminando le tariffe e le caratteristiche qualitative delle prestazioni. Molto delicato anche il profilo dei controlli in fase di esecuzione del contratto che devono essere svolti con accuratezza e nel dettaglio (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

APPALTI: Raggruppamento imprese, sui requisiti pagano tutti. Precisazione dell'Anac su soccorso istruttorio e sanzioni.
In caso di raggruppamento temporaneo di concorrenti partecipanti a un appalto pubblico la sanzione pecuniaria irrogata a seguito del «soccorso istruttorio» viene addebitata al raggruppamento nel suo complesso e si applica anche in caso di carenza dei documenti relativi alla dimostrazione dei requisiti di partecipazione alla gara.

È quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) nel parere di precontenzioso 13.01.2016 n. 35 - rif. PREC 220/15/S rispetto a una procedura aperta per l'affidamento di un appalto di servizi di assistenza tecnica nell'ambito delle attività connesse alla gestione, al monitoraggio e al controllo dei programmi operativi Fse 2007/2013 e 2014/2020.
Era accaduto che la stazione appaltante aveva rilevato la presenza di carenze documentali che anche l'Anac ha riconosciuto «essenziali» in quanto relative alla sottoscrizione dei componenti il consiglio di amministrazione della società (che sono i centri di imputazione della responsabilità del raggruppamento concorrente); alla dimostrazione dei requisiti di capacità tecnico-organizzativa, in relazione alle esperienze professionali acquisite; agli elementi essenziali del contratto di avvalimento con cui si dimostra l'effettivo prestito dei requisiti.
Nel dettaglio, con riferimento alle tre carenze, l'Autorità ha chiarito che nel caso di integrazione di elementi essenziali e indispensabili per l'identificazione dei centri di imputabilità delle dichiarazioni rese ai sensi dell'art. 38, comma 2, come la sottoscrizione delle stesse da parte di un componente del consiglio di amministrazione della società, è legittimo procedere con la richiesta di integrazione documentale da parte della stazione appaltante, attraverso il procedimento del soccorso istruttorio ex art. 46, comma 1, del Codice, e con la escussione della cauzione provvisoria a titolo di sanzione pecuniaria in caso di sanatoria effettuata in adesione al procedimento da parte dell' operatore economico.
Per quel che attiene alle carenze documentali relative alla dimostrazione dei requisiti di capacità tecnica delle concorrenti, con riferimento alla natura dei servizi svolti, l'Anac riconosce il carattere di essenzialità precisando che in caso di adesione alla procedura di soccorso istruttorio con esito positivo, deve comunque essere irrogata dalla stazione appaltante la sanzione pecuniaria.
Nel parere si specifica anche cosa succede se la procedura di soccorso istruttorio applicata per la sanatoria di elementi essenziali, inerenti le cause tassative di esclusione previste in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara, si concluda con esito negativo per insufficienza dei chiarimenti forniti: in questi casi la stazione appaltante è tenuta a escludere il concorrente con escussione della cauzione provvisoria.
Riguardo la sanzione pecuniaria ex art. 38, comma 2-bis, l'Autorità chiarisce che deve essere comminata esclusivamente al soggetto le cui dichiarazioni sono carenti e devono essere integrate e regolarizzate, «anche nel caso di presentazione dell'offerta da parte di Rti (raggruppamento temporaneo di imprese) che non costituisce soggetto diverso dai concorrenti»; in sostanza la sanzione si applica all'intero raggruppamento temporaneo di imprese (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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Requisiti generali di partecipazione - Tassatività delle cause di esclusione - Soccorso istruttorio – Sanzione pecuniaria.
Nel caso di integrazione di elementi essenziali e indispensabili per l’identificazione dei centri di imputabilità delle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 38, comma 2, come la sottoscrizione delle stesse da parte di un componente del Consiglio di amministrazione della società, è da ritenersi legittima la richiesta di integrazione documentale da parte della stazione appaltante, attraverso il procedimento del soccorso istruttorio ex art. 46, comma 1, del Codice, e la escussione della cauzione provvisoria a titolo di sanzione pecuniaria in caso di sanatoria effettuata in adesione al procedimento da parte dell’ operatore economico.
Le carenze documentali relative alla dimostrazione dei requisiti di capacità tecnica delle concorrenti, con riferimento alla natura dei servizi svolti, sono da considerarsi elementi essenziali per i quali, in caso di adesione alla procedura di soccorso istruttorio con esito positivo, deve comunque essere irrogata dalla stazione appaltante la sanzione pecuniaria.
Nel caso in cui la procedura di soccorso istruttorio applicata per la sanatoria di elementi essenziali, inerenti le cause tassative di esclusione previste in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara, si concluda con esito negativo per insufficienza dei chiarimenti forniti, la stazione appaltante dovrà procedere all’esclusione del concorrente con escussione della cauzione provvisoria;
La sanzione pecuniaria ex art. 38, comma 2-bis, è comminata esclusivamente al soggetto le cui dichiarazioni sono carenti e devono essere integrate e/o regolarizzate, anche nel caso di presentazione dell’offerta da parte di RTI che non costituisce soggetto diverso dai concorrenti.

Artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.lgs. 163/2006.

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: La conservazione digitale.
DOMANDA:
Ai fini della conservazione digitale CAD si chiede come procedere nel caso debbano essere conservate deliberazioni e determinazioni firmate digitalmente, che in seguito a pensionamento e/o avvicendamento di responsabili di servizio, possono attualmente essere scadute.
Si chiede inoltre di sapere se tutti gli atti (deliberazioni e determinazioni) devono essere marcate temporalmente
RISPOSTA:
Con riferimento alla richiesta di supporto si segue l’ordine dei quesiti:
   A) Nella fase di archiviazione e conservazione digitale, uno dei nodi problematici è rappresentato dalla obsolescenza del certificato di firma elettronica soggetto a scadenza, revoca o sospensione.
In questi casi, l’elemento da prendere in considerazione è quello relativo alla validità del certificato di firma alla data di sottoscrizione del documento: qualora, infatti, il documento sia stato sottoscritto con una firma digitale supportata da un certificato di sottoscrizione valido al tempo della produzione del documento, successivamente scaduto, la firma digitale continuerà a preservare la propria validità con riferimento ai documenti siglati prima della scadenza.
Tuttavia, essendo una circostanza fisiologica che dopo la sottoscrizione digitale il certificato di firma venga a scadenza, si ritiene opportuno che il documento venga versato in conservazione documentale prima della scadenza del certificato di firma in esso contenuto.
A tal fine, sarebbe quindi utile verificare, attraverso i verificatori on-line (resi disponibili gratuitamente dall’AgID), che i documenti vadano in conservazione con certificato di firma ancora valido.
   B) Per quanto riguarda il secondo quesito, dall’analisi della normativa vigente, non esistono disposizioni che impongano la marcatura temporale o altro strumento di validazione temporale opponibile a terzi con riguardo alle delibere e alle determine comunali.
Tuttavia, si fa presente che l’amministrazione, ai sensi di quanto disposto dall’art. 3, comma 2, del D.P.C.M. 13.11.2014 (recante le “regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici”), è tenuta a garantire l’immodificabilità e l’integrità di ogni documento informatico, con particolare riguardo a quei documenti, come le determine e le delibere comunali, per cui sussiste un obbligo di conservazione permanente.
In particolare, anche in considerazione di quanto previsto dall’art. 3, comma 4, del medesimo D.P.C.M., -che, prevedendo espressamente una serie di cautele volte ad assicurare l’immodificabilità e l’integrità del documento informatico, pone sullo stesso piano la sottoscrizione con firma digitale, la validazione temporale, la trasmissione attraverso la posta elettronica certificata e il versamento in conservazione- si ritiene che la sottoscrizione digitale del documento, anche priva di marca temporale, la sua memorizzazione in un sistema di gestione documentale e protocollo informatico e il suo immediato versamento in conservazione, siano sufficienti a garantire l’immodificabilità e integrità del documento richiesta dalla legge e ad attribuirgli pieno valore legale (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI: L'offerta di prelazione.
DOMANDA:
In relazione al disposto dell’art. 1, comma 611 e segg., della Legge 190/2014, il Comune ha, tra l’altro, disposto la cessazione di talune quote societarie, valutandole non indispensabili per il perseguimento delle proprie finalità Istituzionali.
Eseguito un procedimento di stima del valore delle azioni, vi è che le previsioni statutarie dei sodalizi interessati, ritualmente prevedono, per il caso di alienazione, il diritto di prelazione da parte degli altri soci.
Si chiede di conoscere l’autorevole avviso circa il momento nel quale il Comune deve attivare l’offerta di prelazione, opinandosi che debba precedere l’eventuale Bando di Gara per la cessione a terzi, ovvero che la prelazione stessa sia da esercitarsi successivamente alla procedura di evidenza pubblica, sulla base delle relative risultanze.
RISPOSTA:
La previsione della Legge 190/2014, che segue peraltro quella del comma 569 della Legge 147/2013, non fa altro che ribadire i principi generali di dismissione delle partecipazioni societarie non essenziali già da tempo enunciate dalla Legge finanziaria 2008.
Tali previsioni, prevedendo tra la cessazione automatica e la perdita della qualità di socio, introducono di fatto una ipotesi ulteriore di recesso ex legem oltre a quelli previsti dal Codice Civile anche se per la Magistratura Contabile delle Marche “non si appalesa pertinente il richiamo tout court all’istituto del recesso cui pure il Legislatore fa rinvio evocando -in maniera indifferenziata senza scriminare tra Società per azioni e Società a responsabilità limitata- il disposto di cui all’art. 2437-ter, comma 2 C.c.”.
L'istituto della prelazione costituisce ovviamente uno dei corollari tipici del diritto societario per quanto attiene l'alienazione delle quote o azioni. Un orientamento della giurisprudenza amministrativa, pronunciandosi sulla compatibilità di clausole di prelazione in materie assoggettate al principio di evidenza pubblica, ne ha tuttavia in generale sancito addirittura l’illegittimità, argomentando che, in caso contrario, si consentirebbe a soggetti che non hanno partecipato alle procedure stesse di divenire contraenti di un soggetto pubblico.
Occorre precisare che tale orientamento giurisprudenziale fa riferimento specificamente alle gare per l’affidamento del “servizio pubblico” nel caso in cui il socio o i soci privati, già parte della compagine sociale sia/no divenuto/i tale/i in assenza di procedura competitiva; il possesso di una quota del capitale sociale varrebbe automaticamente ad esentare lo/gli stesso/i, in occasione dell’acquisto delle azioni/quote della Società, dalla partecipazione alla gara cui sono invece tenuti tutti gli altri soggetti terzi, e ciò in deroga al superiore principio della garanzia dell’evidenza pubblica.
Nel caso in cui l’alienazione della partecipazione riguardi una “società mista” il comma 568-bis dell’art. 1 della l. 147/2013 attribuisce ora al socio privato detentore di una quota di almeno il 30% alla data di entrata in vigore dello stesso comma 568-bis (si ricorda che tale comma è stato introdotto con la l. 68/2014 di conv. del d.l. 16/2014 ed è perciò entrato in vigore il 06.05.2014) il diritto di prelazione e cioè la preferenza, a parità di condizioni, per l’acquisto della quota di partecipazione dell’amministrazione posta in vendita.
L’amministrazione che intende alienare la quota di partecipazione di cui è titolare è, quindi, tenuta, in considerazione del fatto che l’alienazione deve avvenire mediante una procedura ad evidenza pubblica, ad inserire nel bando o avviso di gara una clausola che preveda che l’aggiudicazione della gara è subordinata al mancato esercizio da parte del socio privato detentore di una quota di almeno il 30% della preferenza ad esso accordata dal citato comma 568-bis.
Il diritto di prelazione dovrà essere esercitato dal socio privato nel termine stabilito dall’amministrazione alienante e la quota posta in vendita potrà essere trasferita al socio privato solo se l’offerta del medesimo sarà pari a quella massima raggiunta mediante la gara. Il comma 613 della Legge di Stabilità 2015 ha successivamente previsto che "Le deliberazioni di scioglimento e di liquidazione e gli atti di dismissione di società costituite o di partecipazioni societarie acquistate per espressa previsione normativa sono disciplinati unicamente dalle disposizioni del codice civile ...".
Premesso che -anche in virtù dei principi di redditività del patrimonio pubblico- la procedura per l'alienazione non può che partire dalla ricerca del miglior acquirente mediante esperimento di procedura ad evidenza pubblica sia in giurisprudenza che in dottrina sono emersi orientamenti assai diversi, essenzialmente opposti circa la compatibilità tra i principi di evidenza pubblica di importazione comunitaria e la prelazione.
Aderendo all'orientamento più "possibilista" -nel caso in cui lo statuto o l'atto costitutivo prevedano in capo ai soci un diritto di "prelazione propria"- il Comune potrà/dovrà offrire in "prelazione" la propria quota alle medesime condizioni offerte in sede di gara. Maggiori problemi di compatibilità tra evidenza pubblica e prelazione sussisterebbero in caso di "prelazione impropria" sussistente quando lo statuto della spa o l'atto costitutivo della srl prevedano, con riferimento alla circolazione delle quote, il diritto di esercitare la prelazione, per un corrispettivo, diverso da quello proposto dall'alienante, determinato con criteri tali da quantificarlo in un ammontare anche significativamente inferiore a quello che risulterebbe applicando i criteri di calcolo previsti in caso di recesso (in tale ipotesi, all'Ente pubblico che dovrebbe subire tale decurtazione spetta nelle srl, ai sensi dell'art. 2469, comma 2, c.c., il diritto di recesso).
In questo caso si ritiene che la presenza di tali diritti di prelazione sia incompatibile con la natura pubblica della società e in particolare con i principi della massima redditività del patrimonio pubblico e con quello ormai inequivocabilmente affermatosi per effetto dei ripetuti interventi legislativi di favore per la privatizzazione e la dismissione delle quote. Infine permangono analoghi dubbi circa la legittima esistenza di un diritto di prelazione da parte di soci privati entrati nel consesso sociale senza essere selezionati con gara.
A tal riguardo si ritiene che, se da un lato è necessario garantire la tutela di tali soci privati (che al momento di sottoscrizione del contratto sociale hanno fatto affidamento anche sull'esistenza di un diritto di prelazione a loro favore in caso di trasferimenti di quote altrui) e la parità dei diritti rispetto agli altri soci, dall'altro, tale tutela va contemperata con le regole dell'evidenza pubblica che presiedono all'individuazione dei contraenti con la PA e l'affidamento dei servizi pubblici nel rispetto della concorrenza.
In altre parole se la clausola statutaria (che preveda un indistinto diritto di prelazione in capo a tutti i soci) risale a momento in cui già vigeva l'obbligo di esperimento di procedure ad evidenza pubblica per l'ingresso di privati o se comunque i soci privati sono entrati successivamente a tale momento, è per lo meno dubbio il fatto che tali soci privati possano reclamare un diritto di prelazione che non farebbe che perpetuare quel vantaggio competitivo illegittimo all'epoca acquisito con l'ingresso nel consesso sociale.
In realtà il problema che tali previsioni statutarie avrebbero dovuto essere successivamente modificate per renderle in linea con l'evolversi della normativa. Posto comunque che la valutazione circa la prelazione debba essere effettuata caso per caso con riferimento alla tipologia di società (strumentale, spl), della sua compagine sociale (mista con un unico socio privato, mista con più soci pubblici e privati, totalmente pubblica/in house), del diritto di prelazione previsto, a livello generale, l'esercizio del diritto di prelazione dovrà avvenire prima dopo aver selezionato la migliore offerta.
Naturalmente il bando di gara, a tutela dei partecipanti, dovrà specificare che l'aggiudicazione sarà subordinata al mancato esercizio della prelazione da parte dei soci titolari del relativo diritto (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'accordo transattivo.
DOMANDA:
L'ente ha in essere con una ditta di escavazione cave un contenzioso per una sanzione pecuniaria. Il legale rappresentante della ditta propone al comune di transare cedendo un area che nel PGT è area agricola ricadente in un parco regionale e quindi soggetta a vincoli ambientali. Gli amministratori ritengono che l'interesse pubblico sussista nell'acquisire l'area per poi cederla al parco.
La scrivente chiede la procedura corretta da espletare.
RISPOSTA:
I caratteri della transazione della pubblica amministrazione non divergono da quelli dell'istituto civilistico ex art. 1965 c.c., ovvero la convergenza delle volontà delle parti, il conflitto delle rispettive posizioni e pretese e la volontà di trovare una soluzione condivisa mediante mutue concessioni.
Premessa necessaria per addivenire alla transazione è l’esistenza di una controversia giuridica, che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata. La naturale conseguenza è che, nell’intento di far cessare la situazione di dubbio venutasi a creare tra loro, i contraenti si facciano delle concessioni reciproche. Nell'ambito delle reciproche concessioni, la pubblica amministrazione non ha la libertà del privato.
Anzitutto, essa è tenuta al rispetto del vincolo del perseguimento dell’interesse pubblico e della par condicio. In secondo luogo, la transazione pubblica è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art. 1965, co. 2 cc) e cioè quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite sono sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, con parere 1116/2009, in un caso analogo a quello di specie -transazioni su obbligazioni nascenti dall’irrogazione di sanzioni amministrative- ha precisato che "il potere punitivo dell’amministrazione e le misure afflittive che ne sono l’espressione appartengono al novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori".
Pertanto, con riferimento all’obbligazione tributaria, la Corte ha concluso che "non possa invocarsi la transazione per definire una controversia giudiziale in cui si contrapponga la legittima pretesa di un’amministrazione pubblica di esigere il pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate e l’atteggiamento resistente del privato che ha violato norme specifiche. Potrebbe semmai ipotizzarsi una proposta di accordo che investa modalità e tempi di pagamento del debito con esclusivo contenuto dilatorio, ma è senz’altro da escludere l’ammissibilità di pattuizioni, in corso di giudizio, che comportino una decurtazione del quantum dovuto e, quindi, una riduzione dell’entità delle sanzioni inflitte con l’ulteriore possibilità di coniugare il profilo dilatorio con quello remissorio".
Nella situazione prospettata dal lo scrivente Comune, sulla base dell'orientamento citato (ed univoco) della magistratura contabile, non sarebbe legittima l’attivazione di un accordo transattivo dal momento che non vi sono pretese contrapposte di dubbia fondatezza giuridica, ma un’unica pretesa inerente il diritto-dovere dell’ente pubblico di esigere la sanzione amministrativa, per cui non è ipotizzabile concretamente che le parti, pubblica e privata, risolvano la lite mediante reciproche concessioni (cessione di area agricola soggetta a vincoli ambientali). Questo è il principio generale.
Nel caso invece -ma per come il quesito è formulato non si hanno elementi sufficienti per stabilirlo- la sanzione pecuniaria non è una sanzione amministrativa, ma discende da un rapporto contrattuale tra il Comune e la ditta escavatrice (ipotesi: è in corso un contratto di appalto che stabilisce a fronte di certi inadempimenti dell'appaltatore l'obbligo per quest'ultimo di corrispondere una penale pecuniaria; la ditta contesta l'inadempimento e quindi l'applicazione della penale), avendo la controversia ad oggetto diritti disponibili, le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale, e di sostituire la somma dovuta a titolo di sanzione/penale con la cessione di un bene immobile che soddisfi un interesse pubblico e previa valutazione e stima del valore venale dello stesso (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Prima le interrogazioni. Devono essere trattate all'inizio del consiglio. Il presidente può respingere la richiesta di invertire l'ordine del giorno.
Il presidente del consiglio comunale può opporre un diniego alla richiesta, formulata da un gruppo consiliare, di invertire l'ordine del giorno di una seduta di consiglio, al fine di posporre l'esame degli atti di sindacato ispettivo?

Nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale prevede che «la trattazione delle interrogazioni avviene nella parte iniziale della seduta secondo l'ordine cronologico di presentazione».
La stessa fonte regolamentare dispone altresì che il presidente del consiglio possa modificare l'ordine di trattazione degli argomenti inseriti all'ordine del giorno anche su proposta di un gruppo consiliare e che, in caso di opposizione, la richiesta debba essere messa ai voti ed eventualmente accolta a maggioranza dei votanti.
Considerato tale quadro normativo, appare corretto il diniego opposto dal presidente del consiglio alla richiesta, formulata da un gruppo consiliare, di voler posporre la trattazione delle interrogazioni.
Ciò in quanto il regolamento del consiglio comunale prevede espressamente che la trattazione dei suddetti atti di sindacato ispettivo debba avvenire «nella parte iniziale della seduta».
Pertanto, agli atti in questione non può essere applicata la disciplina sulla modifica dell'ordine di trattazione degli oggetti dell'ordine del giorno prevista, in generale, dalla citata normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum strutturale.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale in seconda convocazione?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Il citato art. 38, va letto in combinato disposto con l'art. 273, comma 6, dello stesso Tuel il quale detta una disciplina transitoria che legittima l'applicazione, tra gli altri, dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915 , fino all'adeguamento della normativa locale ai criteri indicati dal decreto legislativo n. 267/2000. Nel caso di specie, il consiglio comunale è composto da ventiquattro consiglieri più il sindaco, pertanto sarebbe necessaria la presenza di almeno otto consiglieri al fine della validità delle sedute.
Tuttavia è stato chiesto se sia possibile applicare la disposizione recata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, in base al quale le sedute di seconda convocazione sono valide purché intervengano almeno quattro membri, salvo le eccezioni previste dalla legge e dallo statuto.
La normativa regolamentare risulta conformata all'art. 127 del T.u. 148/1915 che prevede, per la validità delle sedute di prima convocazione, la presenza della metà dei consiglieri assegnati mentre, in seconda convocazione, quella di almeno quattro membri.
Al fine di corrispondere al quesito proposto, appare utile richiamare le osservazioni formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime, ancorché illegittime, non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, in considerazione della discrasia tra le disposizioni contenute nel regolamento consiliare e le previsioni recate dal citato art. 38, comma 2, del Tuel, l'ente locale dovrà adeguare la fonte regolamentare ai criteri previsti dalla legge, anche al fine di non esporre gli atti adottati al rischio di eventuali impugnative (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016).

PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Se il Funzionario ritarda il rinnovo dei contratti di locazione stipulati ai sensi della L. 431/1998 la condotta rientra nei casi di corruzione e di illegalità disciplinati dalla L. 190/2012?
IL CASO: i funzionari e il Responsabile dell'Ufficio tecnico, hanno avviato e concluso in ritardo il procedimento volto al rinnovo contrattuale delle locazioni ex L. 431/1998, di alcune unità immobiliari del Comune cosicché i contratti di locazione sono giunti a scadenza, e gli inquilini si sono visti recapitare a casa solo i bollettini recanti il vecchio importo del canone, richiesto però a titolo di indennità di occupazione illegittima.
Inoltre, in alcuni casi il canone è stato quantificato con riferimento alla misura minima, e in altri casi con riferimento a quella massima con disparità di trattamento tra le diverse unità.

(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il caso prospettato è un chiaro esempio di cattiva gestione del potere amministrativo e di situazione illecita, costituita da una anomala gestione del patrimonio immobiliare del comune, idonea ad arrecare un pregiudizio patrimoniale che può essere anche di ingente entità, a seconda del numero degli immobili coinvolti nella vicenda del mancato rinnovo.
Si tratta di una oggettiva condotta omissiva suscettibile di determinare, in danno del comune, il mancato introito di somme a titolo di maggiori canoni e di aumenti ISTAT che sarebbero stati incassati a seguito di un tempestivo rinnovo contrattuale.
In concreto, il danno arrecabile da tale condotta può individuarsi nella differenza tra indennità di occupazione, pari al canone corrisposto dai conduttori sulla base del contratto ormai scaduto, e il diverso e maggiore canone che concretamente il comune avrebbe dovuto riscuotere sulla base del rinnovo. Ponendo in essere tale condotta, i funzionari hanno omesso di conformarsi agli obblighi originanti non solo dalla normativa di settore ma anche ai doveri del codice di comportamento.
In particolare, la non omogeneità dei canoni relativi ad alloggi con analoghe caratteristiche, superficie e località, calcolati con parametri diversificati è indice sintomatico di possibili fattispecie di illegalità e di corruzione. Sul punto, va ricordato che la gestione del patrimonio, come ribadito anche dalla deliberazione ANAC n. 12/2015, è riconducibile alle aree con alto livello di probabilità di eventi rischiosi.
Nel caso di specie, l'evento rischioso è costituito dal danno erariale ascrivibile al ritardo/omesso rinnovo mentre la configurazione, in concreto, di una fattispecie corruttiva, rilevabile anche sensi della legge 190/2012, impone che il comportamento contra legem sia stato posto in essere per un interesse personale contrario all'interesse pubblico. Circostanza che va valutata caso per caso, senza possibilità di astratte generalizzazioni.
La valutazione deve tenere conto del contesto, interno ed esterno, nel quale risulta collocata la condotta dei funzionari, nonché delle misure di prevenzione della corruzione e dell'illegalità contenute nel PTPC del Comune, della loro effettiva attuazione da parte dei funzionari medesimi, della presenza o assenza di direttive, buone prassi e, infine, della presenza o assenza controlli e monitoraggi, nonché dell'eventuale occultamento dei fatti.
Solo dopo la valutazione di tutti questi elementi, è possibile accertare, con riferimento al singolo caso, se la fattispecie integri o meno i presupposti della corruzione disciplinata dalla legge 190/2012, con l'applicazione, in caso di accertamento positivo, di tutte le conseguenze dalla stessa derivanti in ordine di responsabilità dirigenziale, disciplinare, amministrativa-erariale, e relativa alla valutazione della performance organizzativa e individuale (tratto dalla newsletter 09.02.2016 n. 136 di http://asmecomm.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Pensionati ex dipendenti enti locali. Possibilità di utilizzo con rapporto di lavoro occasionale (voucher).
Un dipendente pubblico collocato in quiescenza può essere utilizzato dall'amministrazione presso cui prestava servizio, mediante la tipologia di lavoro accessorio (voucher).
In tal caso -ha precisato il Ministero del lavoro e delle politiche sociali- non trova applicazione il divieto imposto dall'art. 25 della l. 724/1994, considerato che la prestazione accessoria ha carattere occasionale e non può comunque superare i limiti di compenso stabiliti dal legislatore.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di attivare un rapporto di lavoro accessorio occasionale (voucher) con un dipendente che sarà collocato in quiescenza dal 01.03.2016, a seguito del raggiungimento dei requisiti per la pensione anticipata di anzianità.
L'Amministrazione istante intenderebbe avvalersi di detta fattispecie lavorativa, in attesa di espletare la procedura di mobilità di comparto per la copertura del posto lasciato vacante dal dipendente interessato. L'Ente precisa altresì che lo stesso soggetto, attualmente inquadrato nell'area della polizia locale, si occuperebbe esclusivamente di pratiche di carattere amministrativo.
Sentito il Servizio sistema integrato del pubblico impiego della Direzione generale, preliminarmente si osserva che l'art. 55, comma 1, lett. d), del d.lgs. 81/2015 ha abrogato, fra le altre disposizioni, anche l'art. 70 del d.lgs. 276/2003, disciplina che in precedenza normava la materia delle prestazioni occasionali di tipo accessorio.
Il riferimento normativo attuale è ora rappresentato dall'art. 48 del d.lgs. 81/2015, che definisce la tipologia del lavoro accessorio ed il campo di applicazione.
Il comma 1 del richiamato articolo precisa che, per prestazioni di lavoro accessorio, si intendono attività lavorative che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati.
Il successivo comma 2 dispone inoltre che prestazioni di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i settori, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 euro di compenso per anno civile, rivalutati ai sensi del comma 1, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito.
Considerata la sostanziale corrispondenza -per quanto d'interesse- col tenore della disciplina prima vigente, appare utile sottolineare -come già a suo tempo rilevato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali
[1], in riferimento alla modifica al testo dell'art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, apportata dalla l. n. 92/2012- che l'evoluzione normativa ha eliminato quella serie di causali soggettive e oggettive che consentivano in precedenza il ricorso a detto istituto, sostituendolo con una disposizione che prevede essenzialmente limiti di carattere economico.
Allo stato attuale, quindi, per il committente pubblico
[2], si prevede la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio 'nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno' [3].
Pertanto, già a seguito della riforma legislativa intervenuta nel 2012, è possibile utilizzare il lavoro accessorio in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente pubblico, con qualsiasi lavoratore, nel rispetto di un compenso massimo annuale stabilito
[4].
Per quanto concerne, nello specifico, il profilo di un'eventuale incompatibilità, come rilevato dall'INPS
[5], il ricorso all'istituto del lavoro accessorio occasionale non è compatibile con lo status di lavoratore subordinato (a tempo pieno o parziale), se impiegato presso lo stesso datore di lavoro titolare del contratto di lavoro dipendente.
Tale incompatibilità non sussiste invece qualora si tratti di dipendente collocato in quiescenza.
Per quanto riguarda la categoria dei 'pensionati', lo stesso INPS ha precisato che possono beneficiare del lavoro accessorio i titolari di trattamenti di anzianità o di pensione anticipata, pensione di vecchiaia, pensione di reversibilità, assegno sociale, assegno ordinario di invalidità e pensione di invalidi civili, nonché di tutti gli altri trattamenti che risultino compatibili con lo svolgimento di una qualsiasi attività lavorativa
[6].
Per quanto qui ci occupa, si osserva che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, rispondendo ad un interpello formulato dall'ANCI su questione analoga a quella prospettata allo scrivente
[7], ha precisato che il quadro normativo relativo al lavoro accessorio va inoltre coordinato con il disposto di cui all'art. 25, comma 1, della l. 724/1994 [8].
Ad avviso del citato Ministero la richiamata previsione non sembra tuttavia trovare applicazione con riferimento al lavoro accessorio, che si connota per l'occasionalità della prestazione la quale, in ogni caso, non può superare dei limiti di compenso ben definiti dal legislatore. I limiti imposti hanno infatti già la finalità di scongiurare quei possibili fenomeni elusivi, che si è voluto contrastare introducendo particolari vincoli in ordine alla possibilità, da parte delle pubbliche amministrazioni, di avvalersi di soggetti cessati dal servizio anticipatamente.
Per completezza espositiva, si rammenta da ultimo che la fattispecie di cui si discute non rientra nemmeno tra le tipologie di attività (incarichi o cariche) vietati ai pensionati, pubblici e privati, a mente dell'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'art. 17, comma 3, della l. 124/2014
[9]. La predetta disciplina, finalizzata a evitare che soggetti in quiescenza assumano rilevanti responsabilità nelle amministrazioni, pone infatti puntuali norme di divieto, per le quali vale il criterio di stretta interpretazione, restando quindi preclusa un'interpretazione di tipo estensivo o analogico.
Si rammenta da ultimo che, rientrando anche il lavoro accessorio tra le tipologie di lavoro flessibile, restano fermi i limiti di spesa imposti dalla normativa vigente, nello specifico dall'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010.
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[1] Cfr. circolare n. 18 del 2012.
[2] L'INPS, nella circolare n. 49/2013 ha evidenziato che: 'Ai sensi della nuova disciplina, va ricompreso all'interno della nozione committente pubblico' anche l'ente locale, pertanto devono intendersi superate le precedenti indicazioni che distinguevano l'impiego dei buoni lavoro per la tipologia di committenti pubblici e degli enti locali, rispetto a un novero specifico e tassativo di attività e di prestatori.'
[3] Cfr. l'art. 48, comma 4, del d.lgs. 81/2015 che ripropone il contenuto dell'art. 70, comma 3, del d.lgs. 276/2003. Il Comune istante ha precisato che l'instaurazione del rapporto occasionale in oggetto sarebbe effettuata nel rispetto dei limiti specificati nella circolare del 10.11.2014 della Direzione generale.
[4] Vedasi l'art. 48 del d.lgs. 81/2015.
[5] Cfr. circolare n. 49 del 2013, già citata.
[6] Resta, pertanto, escluso che possa accedere alla prestazione di lavoro occasionale accessorio il titolare di trattamenti per i quali è accertata l'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa, quale il trattamento di inabilità.
[7] Cfr. interpello n. 44 del 2011.
[8] Detta norma prevede che, al fine di garantire la piena e effettiva trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa, al personale delle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 29/1993 (ora trasfuso nell'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001), che cessa volontariamente dal servizio pur non avendo il requisito previsto per il pensionamento di vecchiaia dai rispettivi ordinamenti previdenziali ma che ha tuttavia il requisito contributivo per il conseguimento della pensione anticipata di anzianità, non possono essere conferiti incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca da parte dell'amministrazione di provenienza o di amministrazioni con le quali ha avuto rapporti di lavoro o impiego nei cinque anni precedenti a quello della cessazione dal servizio.
[9] Si vedano, in proposito le circolari esplicative, emanate dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, n. 6/2014 e n. 4/2015
(05.02.2016 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il candidato fa gruppo. Ma la lista deve aver eletto un consigliere. La giurisprudenza detta le condizioni per la surroga del mancato sindaco.
In materia di costituzione di gruppi consiliari presso un ente locale, uno dei candidati alla carica di sindaco, non eletto, può essere capogruppo di quattro liste non rappresentate, già facenti parte delle sei liste allo stesso collegate?

La disciplina della materia relativa alla costituzione dei gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento del consiglio, nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed organizzativa riconosciuta in particolare dall'art. 38, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000. Pertanto le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, competendo al consiglio comunale l'eventuale interpretazione autentica di tali norme.
Peraltro, l'attività interpretativa non può essere disgiunta dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né possono essere utilizzate a sostegno di tale attività, massime giurisprudenziali che non si adattino perfettamente alla fattispecie esaminata.
Nel caso di specie, le norme statutarie e regolamentari forniscono una articolata disciplina della materia dei gruppi.
In particolare, lo statuto prevede che, per la costituzione del gruppo, è necessaria l'adesione di almeno due consiglieri, tranne che trattasi di un unico consigliere eletto in rappresentanza di una lista. Il regolamento ribadisce che ciascun gruppo è costituito da almeno due consiglieri, e, «nel caso che una lista presentata alle elezioni abbia avuto un solo consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti ad un gruppo consiliare». Inoltre stabilisce che, «con l'eccezione del gruppo misto, i gruppi consiliari possono cambiare la propria denominazione nel corso della tornata amministrativa».
Infine, prevede la possibilità della costituzione di due gruppi misti (di maggioranza e di minoranza) sulla base di quanto disposto dallo statuto e dallo stesso regolamento, il quale richiede, come evidenziato, la presenza di almeno due consiglieri. Deve poi rilevarsi che l'art. 73 del dlgs n. 267/2000, che disciplina l'elezione del consiglio nei comuni con popolazione superiore ai 15 mila abitanti, al comma 11, prevede, dopo il riparto dei seggi tra le varie liste, che il primo seggio venga assegnato al candidato sindaco non eletto, e, in caso di collegamento tra più liste, tale seggio si detrae dai seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste collegate.
Come sostenuto dal Consiglio di stato, con sentenza della V sezione, 12.12.2003, n. 8208, la normativa sopra citata «impone palesemente di dedurre in via prioritaria il seggio controverso da quelli riservati alla coalizione di riferimento, e non da quelli spettanti alla lista che lo ha presentato, e di procedere, poi all'assegnazione di quelli rimasti mediante l'individuazione dei quozienti più alti conseguiti dai candidati dalle liste collegate».
Tale principio è confermato dalla giurisprudenza più recente (si veda Tar Campania – sez. I, n. 2124/2013 del 22.04.2013) la quale ha affermato che l'interessato «è stato proclamato eletto non già quale candidato al consiglio comunale (di una lista) ma quale candidato sindaco uscito sconfitto dalla competizione, del più vasto schieramento composto da quattro liste... in conformità al già citato art. 73, comma 11».
Il candidato sindaco non eletto fa parte, quindi, del consiglio non come esponente di una lista, ma in qualità di maggior rappresentante della coalizione nella sua interezza.
Nella fattispecie in esame, il primo seggio attribuito al complesso di liste collegate, compete, pertanto, al candidato sindaco non eletto.
Tuttavia, considerato che il regolamento consente la costituzione dei gruppi unipersonali esclusivamente nei riguardi delle liste che hanno avuto eletto un consigliere, il candidato sindaco non eletto potrà costituire tale gruppo unipersonale solo qualora il seggio a esso assegnato in base al meccanismo della prededuzione sia stato ceduto da una delle liste della coalizione che attualmente non esprime alcun consigliere.
Ciò alla luce anche della citata sentenza del Tar Campania, che ammette la potenziale surroga del candidato sindaco non eletto, nei riguardi della lista collegata che abbia ottenuto il quoziente più alto in ordine decrescente. In ogni caso, non possono costituirsi gruppi di liste che non esprimono consiglieri, fatta salva la facoltà, in presenza dei relativi presupposti, di modificare la denominazione del gruppo già costituito, qualora ciò sia previsto dal regolamento (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: D.Lgs. 14.03.2013, art. 14. Obblighi di pubblicazione concernenti i componenti degli organi di indirizzo politico.
L'art. 14, comma 1, del D.Lgs. 33/2013 stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute alla pubblicazione di una serie di dati ed informazioni relativi ai titolari di incarichi politici (atti di nomina o proclamazione, curricula, compensi connessi alla carica, ecc.).
Come chiarito dall'ANAC, la pubblicazione dei dati e delle informazioni indicate alle lettere da a) ad e) del comma 1 dell'art. 14 è obbligatoria per tutti i comuni, a prescindere dal numero di abitanti. Per le sole dichiarazioni di cui alla lett. f) la pubblicazione è obbligatoria soltanto per i comuni con più di 15.000 abitanti.

Il Comune chiede un parere con riferimento agli obblighi di cui all'articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni'.
In particolare, chiede di sapere se i comuni con popolazione inferiore a mille abitanti siano esentati dall'obbligo di pubblicazione del curriculum degli amministratori.
L'art. 14, comma 1, del D.Lgs. 33/2013 recita: 'Con riferimento ai titolari di incarichi politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico, di livello statale regionale e locale, le pubbliche amministrazioni pubblicano con riferimento a tutti i propri componenti, i seguenti documenti ed informazioni:
a) l'atto di nomina o di proclamazione, con l'indicazione della durata dell'incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
d) i dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all'articolo 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano (...)
.'
Con riferimento ai descritti obblighi, l'ANAC
[1], con la delibera n. 144 del 07.10.2014, ha chiarito che tutti i comuni, indipendentemente dal numero di abitanti, sono tenuti alla pubblicazione dei dati e delle informazioni di cui alle lettere da a) ad e) del comma 1 dell'art. 14 del D.Lgs. 33/2013. Per i soli documenti indicati dalla lett. f) l'obbligo di pubblicazione si applica esclusivamente ai comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
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[1] La legge 06.11.2012, n. 190, 'Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione', di cui il D.Lgs. 33/2013 costituisce normativa di attuazione, ha stabilito, all'art. 1, comma 2, che la CiVIT (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche) opera quale Autorità nazionale anticorruzione. Successivamente, dal 31.10.2013 (con l'entrata in vigore della legge n. 125 del 2013, di conversione del decreto legge del 31.08.2013, n. 101), la CiVIT ha assunto la denominazione di "Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche" (ANAC), cui competono, tra le altre, la vigilanza e il controllo dell'effettiva applicazione e del rispetto delle regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa (02.02.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

SEGRETARI COMUNALI: Quali conseguenze ci sono per l'Ente che adotta il PTPC senza mappatura dei processi?
IL CASO: Un Comune ha approvato il piano anticorruzione senza aver potuto procedere, per mancanza di tempo e di personale, alla mappatura dei procedimenti. È possibile considerare il Piano approvato adeguato o l'Ente incorre in sanzioni?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il problema della mancanza di mappatura dei processi non attiene al profilo delle sanzioni ma al diverso profilo del funzionamento e della adeguatezza del piano anticorruzione. In altre parole, attiene alla qualità della strategia di prevenzione che, in assenza di mappatura dei processi, non può definirsi efficace perché le misure di prevenzione non possono dirsi costruite "su misura" del contesto organizzativo interno del singolo Comune.
Anche l'Anac ha evidenziato questo aspetto, rilevando che l'analisi del contesto interno, da attuare attraverso l'analisi dei processi organizzativi (mappatura dei processi), pur essendo meno critica della analisi del contesto esterno, risulta tendenzialmente non adeguata (Det. n. 12/2015). L'Anac insegna, al riguardo, che la mappatura è da intendersi come un modo "razionale" di individuare e rappresentare tutte le attività dell'ente per fini diversi e assume carattere strumentale a fini dell'identificazione, della valutazione e del trattamento dei rischi corruttivi.
L'accuratezza e l'esaustività della mappatura dei processi è un requisito indispensabile per la formulazione di adeguate misure di prevenzione e incide sulla qualità dell'analisi complessiva. L'obiettivo è che le amministrazioni e gli enti realizzino la mappatura di tutti i processi. Essa può essere effettuata con diversi livelli di approfondimento. Dal livello di approfondimento scelto dipende la precisione e, soprattutto, la completezza con la quale è possibile identificare i punti più vulnerabili del processo e, dunque, i rischi di corruzione che insistono sull'amministrazione o sull'ente: una mappatura superficiale può condurre a escludere dall'analisi e trattamento del rischio ambiti di attività che invece sarebbe opportuno includere.
In definitiva, si deve concludere nel senso che la "sanzione" conseguente alla mancata mappatura è da individuarsi nella inadeguatezza delle misure di prevenzione laddove scollegate dal contesto organizzativo.
Sennonché, la normativa sta ora concentrando l'attenzione sull'effettiva attuazione di misure in grado di incidere su un piano sostanziale (e non solo meramente formale) sui fenomeni corruttivi. Se è vero che le sanzioni, previste dall'art. 19, co. 5, lett. b), del d.l. 90/2014, attengono alla mancata «adozione dei Piani di prevenzione della corruzione, dei programmi triennali di trasparenza o dei codici di comportamento», non bisogna dimenticare che alla mancata adozione il «Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell'Autorità Nazionale Anticorruzione per l'omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici di comportamento» equipara:
a) l'approvazione di un provvedimento puramente ricognitivo di misure, in materia di anticorruzione, in materia di adempimento degli obblighi di pubblicità ovvero in materia di Codice di comportamento di amministrazione;
b) l'approvazione di un provvedimento, il cui contenuto riproduca in modo integrale analoghi provvedimenti adottati da altre amministrazioni, privo di misure specifiche introdotte in relazione alle esigenze dell'amministrazione interessata;
c) l'approvazione di un provvedimento privo di misure per la prevenzione del rischio nei settori più esposti, privo di misure concrete di attuazione degli obblighi di pubblicazione di cui alla disciplina vigente, meramente riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (tratto dalla newsletter 01.02.2016 n. 135 di http://asmecomm.it).

NEWS

VARI: Fumo, divieti light. Pochi controlli e pratiche lente. Dal Viminale circolare sulle novità del codice stradale.
Il nuovo divieto di fumo non si applica ai veicoli anche dotati di carrozzeria chiusa che comunque non possono essere considerati auto, come ad esempio i quadricicli immatricolati come moto. In ogni caso saranno pochi i controlli perché la procedura sanzionatoria è troppo cavillosa. E con il nuovo certificato assicurativo che ora può essere inviato online la polizia stradale naviga a vista.

Sono queste le indicazioni più importanti che emergono dalla nota 11.02.2016 n.
300/A/1001/16/101/3/3/9 di prot. del Ministero dell'Interno, che analizza le molteplici novità relative al codice stradale entrate in vigore nelle ultime settimane.
Con questa istruzione l'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale intende chiarire la portata delle novità introdotte dalla legge di Stabilità 2016 e dal dlgs n. 6/2016, in vigore dal 2 febbraio. Per quanto riguarda la legge 208/2015 risultano formalmente ampliati i casi di accertamento da remoto delle violazioni in materia di mancata copertura assicurativa, revisione e sovraccarico.
Di fatto però dal 1° gennaio non è cambiato nulla perché per essere immortalati da sistemi automatici con veicoli non in regola occorrerà attendere mesi, se non anni. Il tempo cioè necessario per omologare specificamente i nuovi vigili elettronici al delicato compito. Solo chi trasgredisce davanti a un autovelox o un varco ztl dunque ora rischia di collezionare anche la multa per mancata copertura assicurativa, conferma il ministero. Novità in materia di documentazione assicurativa da tenere a bordo.
Con una modifica regolamentare l'Isvap ha ammesso per le compagnie la possibilità di inviare il certificato assicurativo anche solo tramite e-mail. In questo caso in sede di controllo stradale la polizia non potrà pretendere il documento cartaceo. E neppure sanzionare l'automobilista invitandolo a presentare il tagliando a un ufficio di polizia. Ma sul punto il Viminale si riserva di diramare ulteriori istruzioni. Attenzione poi al divieto di fumo in auto, in presenza di minori e donne in gravidanza.
Il divieto riguarda solo gli autoveicoli e non moto e ciclomotori e vale solo quando il mezzo è in sosta o in movimento. Pertanto, dal tenore letterale della norma si deduce che sono escluse dall'applicazione del divieto le ipotesi relative alla fermata e all'arresto del veicolo, anche se queste fasi della circolazione consentirebbero più agevolmente agli organi di polizia stradale di accertare e contestare l'illecito.
Gli organi di polizia, infatti, devono constatare che a bordo ci siano minori (verificando anche se inferiori a dodici oppure a diciotto anni) e donne in stato di gravidanza. In generale, in caso di contestazione della violazione, l'iter sanzionatorio deve seguire le norme di cui alla legge n. 689 del 24.11.1981.
Quindi, in particolare all'accertamento delle violazioni possono procedere anche gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria. Per l'accertamento delle violazioni gli agenti possono assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica. Per quanto concerne le modalità di pagamento e la presentazione del rapporto, il viminale sottolinea che si applicano le procedure della legge n. 689/1981, come ridefinite dall'accordo prot. n. 2153 del 16.12.2004 raggiunto in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano.
Pertanto, il ricorso dovrà essere presentato entro 30 giorni (non 60 giorni come nel caso delle multe stradali) all'autorità competente secondo le modalità disciplinate dalla legislazione regionale. Infine, per quanto riguarda l'utilizzo di sigarette elettroniche a bordo degli autoveicoli, anche se tale questione non è stata affrontata dalla circolare del Ministero dell'interno, si può ritenere che il divieto non sia applicabile; infatti, il campo di applicazione della legge n. 3 del 16.01.2003 è limitato ai prodotti del tabacco (articolo ItaliaOggi del 16.02.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità province, si fa sul serio. Chiusa l'offerta, domande da aggiornare entro il 19/2. Poi saranno resi noti i posti disponibili. E i dipendenti avranno un mese per scegliere.
La mobilità provinciale entra nel vivo. Terminato alla mezzanotte del 12 febbraio il primo step della procedura, consistente nell'inserimento sul «Portale della mobilità» (www.mobilita.gov) dei posti disponibili «offerti» da regioni ed enti locali per i dipendenti soprannumerari degli enti di area vasta, si apre una seconda finestra, questa volta molto breve.
Si tratta dell'aggiornamento delle domande di mobilità che dovrà concludersi entro il 19 febbraio. A esserne interessati saranno, per esempio, le province che avevano collocato come soprannumerario personale poi riassorbito dagli enti di appartenenza e quindi per questo escluso dalle procedure di mobilità. Ma non può essere esclusa l'ipotesi opposta e, cioè, che a una ricognizione degli organici sia emerso nuovo personale provinciale sovrannumerario da includere nella procedura di mobilità.
Conclusa questa breve fase di aggiornamento, la macchina per ricollocare gli esuberi si metterà finalmente in moto perché palazzo Vidoni avrà tutti i dati per rendere pubblici sul Portale della mobilità i posti disponibili presso le regioni e gli enti locali. A quel punto i dipendenti in soprannumero avranno un mese di tempo per esprimere le proprie preferenze che diventeranno vincolanti per l'amministrazione ricevente.
Il problema del ricollocamento degli esuberi provinciali si è in questi mesi alquanto ridimensionato, visto che il numero di lavoratori interessati è passato dalla cifra monstre di 20.000 unità a circa 2.000. I conti sono presto fatti: 4.000 circa sono stati i pensionamenti, 2000 i dipendenti assorbiti dal ministero della giustizia, 6.500 circa quelli presi in carico dalle regioni a seguito del riordino delle funzioni provinciali imposto dal dl 78/2015 e 5.500 circa i lavoratori dei centri per l'impiego tutt'ora in attesa di conoscere il loro destino (andranno alle regioni o all'Anpal, la nuova agenzia per l'occupazione prevista dal Jobs act?). In totale 18.000. Ne residuano 2.000 che dovranno trovare lavoro grazie al Portale della mobilità.
Nessuno, ovviamente, sarà lasciato a casa, ma c'è già chi giura che, una volta resi noti i dati sui posti disponibili, ne vedremo delle belle. Perché i posti, qualora siano sufficienti a coprire le richieste, non è detto che siano stati uniformemente offerti sul territorio nazionale. Con il rischio di ricominciare daccapo la procedura di ricollocamento.
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Sulle assunzioni enti con le mani legate.
I comuni e le altre amministrazioni non possono attivare procedure selettive per i dipendenti in sovrannumero delle province e delle città metropolitane presenti nel portale mobilita.gov. Né avranno il potere di decidere se assumere o meno i dipendenti che abbiano esercitato la scelta di trasferirsi. Ai sensi del dm 14.09.2015, spetta ai soprannumerari esprimere le preferenze di assegnazione.
Accedendo al sistema, ciascuno dei 1957 dipendenti ancora da ricollocare potrà scegliere, in ordine di preferenza, l'ente presso il quale ricollocarsi in relazione alla funzione svolta, all'area funzionale e alla categoria di inquadramento. Gli interessati possono esprimere preferenze, oltre che per i posti disponibili presso le amministrazioni aventi sede nel proprio ambito provinciale o metropolitano, anche per quelle aventi sede nel comune capoluogo della relativa regione, nonché nell'ambito territoriale di Roma Capitale.
Laddove i soprannumerari non esprimano le preferenze, sarà il dipartimento ad assegnarli unilateralmente, tenendo conto della vacanza di organico delle amministrazioni di destinazione, fermo restando l'ambito provinciale/metropolitano o, in subordine, l'ambito regionale, come previsto anche per i soprannumerari che restino non ricollocati.
Gli enti scelti dai dipendenti non avranno alcun modo né per selezionare più richiedenti, né per denegare il trasferimento. Laddove, infatti, esprimano la preferenza per il trasferimento verso uno stesso ente più soprannumerari dei posti disponibili, non sarà l'ente a decidere quale dipendente assumere. Sarà direttamente l'applicativo web a determinare l'ordine di priorità, in attuazione dei criteri stabiliti dall'articolo 8 del dm 14.9.2015.
Una volta fatta incontrare domanda e offerta, i comuni si troveranno quindi in una posizione di totale passività. L'assegnazione finale dei dipendenti non sarà frutto di un incontro di volontà ma di un provvedimento della Funzione pubblica (articolo ItaliaOggi del 16.02.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il grosso guaio della Pec. La rivoluzione digitale rimane un miraggio. Il presidente Cnai, Di Renzo, denuncia le criticità dello strumento.
Grosso guaio con la Pec. La Posta elettronica certificata sembra non riuscire proprio ad avere una esistenza tranquilla. Nata come via italiana alla rivoluzione della comunicazione certificata, sotto le pressioni di un mondo sempre più digitale, ha visto fin dalla sua nascita sorgere tutta una serie di problemi, che ne hanno minato l'utilità e la diffusione.
«Indubbiamente la Pec è stata una scelta infelice per i modi e per la forma della sua realizzazione. Le cose, poi, non si sono certo semplificate dal 01.07.2013, ovvero dalla data che ha reso le comunicazioni tra imprese, professionisti con partita Iva e pubblica amministrazione limitate alla sola Posta elettronica certificata; non essendo più accettate le comunicazioni in forma cartacea», ricorda il presidente Cnai Orazio Di Renzo.
La rivoluzione digitale rimane comunque un miraggio, al di là degli sforzi per mantenere funzionale uno strumento limitato da alcune caratteristiche oggettive: prima fra tutte la non conformità ad alcuno standard internazionale (con la conseguenza di essere del tutto incompatibile con sistemi di comunicazioni internazionali similari).
Altra questione, non di poco conto, e probabilmente sottostimata dal legislatore, è che la Pec fonda la propria ragion d'essere sulla valenza giuridica del sistema di trasmissione dei messaggi piuttosto che sui contenuti dei messaggi stessi (oggi è ancora presente la possibilità che si verifichi il caso in cui il mittente affermi di aver inviato una data informazione e il ricevente affermi di averne ricevuta un'altra).
«I difetti della Pec sono molti, conosciuti, ma tutt'ora irrisolti. Noi come Cnai ci facciamo promotori di un'ulteriore critica. O meglio, di una segnalazione. Infatti, poco o nulla sembra si stia facendo per porre rimedio a una situazione imbarazzante: presso gli enti camerali sono registrati indirizzi di Pec non rinnovati e, di conseguenza, non più validi; con l'ovvia conseguenza di non poter essere oggetto di alcuna comunicazione telematica», sottolinea il presidente Di Renzo.
Infatti, la Camera di commercio, grazie alle sue peculiarità di ente di natura pubblicistica, riporta (o meglio dovrebbe riportare) gli estremi dettagliati e aggiornati di tutte le imprese registrate. Ivi compreso l'indirizzo di Posta elettronica certificata.
«Qui si realizza, però, il buco nero della comunicazione. Come noto le caselle Pec una volta acquisite non hanno validità perenne, ma scadenza annuale. Risulta così necessario provvedere al loro rinnovo, pena la decadenza delle stesse. Ora però abbiamo avuto modo di constatare che molte delle caselle riportate presso gli enti camerali sono inattive. Con tutti i conseguenti, enormi, disagi per le notifiche degli atti», afferma il presidente Cnai Orazio Di Renzo.
Si ricordi che la Pec assolve il ruolo di equivalente elettronico della raccomandata con ricevuta di ritorno; ovvero è una e-mail che comunica, al mittente come al destinatario, l'avvenuta (o mancata) consegna del messaggio, con l'ora e la data precisa dell'invio e della ricezione.
Il messaggio ha, però, il valore legale di una raccomandata (e, quindi, possibilità di essere impugnato come prova in un processo) solo qualora entrambe le caselle risultino certificate. Ora, nel caso in cui, presso i registri della Camera di commercio siano presenti indirizzi non validi, dovrebbe essere l'Ente camerale stesso a provvedere ai controlli e ad approntare le misure necessarie. «Qui c'è già il primo ostacolo: il controllo. La Camera di commercio dovrebbe, sistematicamente e capillarmente, controllare ogni indirizzo nel tempo; proprio per verificarne la persistente validità», sottolinea il presidente Di Renzo.
L'iter formale prevede infatti che, qualora si riscontri la non validità di un indirizzo, debba essere inviata una raccomandata con avviso di ricevimento affinché si dia comunicazione dell'inizio del procedimento di cancellazione dell'indirizzo medesimo dal relativo registro.
«Accade però che molte aziende, pur inoltrando la notifica di avvenuto ricevimento, non hanno avuto la premura di riattivare la Pec. Altre imprese poi non inviano neppure la ricevuta di ritorno, costringendo la Camera di commercio alla cancellazione d'ufficio, previa pubblicazione on-line della ragione sociale delle aziende. Un meccanismo senz'altro complesso e quanto mai macchinoso», riassume il presidente Di Renzo.
Quindi un'innovazione (la Pec) nata per snellire, aggiornare e digitalizzare l'organizzazione burocratica del Paese, rischia di rappresentare un ulteriore mostro di complicazioni per i contribuenti, le aziende e per la stessa Pubblica amministrazione. È bene, infatti, ricordare che la mancanza di una regolare e attiva casella di Posta elettronica certificata, non solo non permette le comunicazioni concernenti il registro presente presso le sedi delle Camere di commercio, ma neppure quelle riguardanti la p.a..
«Ci si trova costretti a inseguire, letteralmente, i soggetti cui si voglia notificare qualsiasi atto. Il caso più emblematico è ovviamente quello che riguarda il recupero di crediti: questione che costringe, spesse volte, a far ricorso a moli di comunicazioni mediante raccomandate postali o, addirittura, ai messi notificatori. Intasando ancora di più, se possibile, i tribunali e, ovviamente, il sistema postale», allarma il presidente Di Renzo.
La questione centrale è perché sia, a tutt'oggi, permessa una tale situazione di profonda confusione e inefficienza. «Domandiamoci: il legislatore si è accorto del vuoto normativo (e quindi di controllo) delle Pec? Non vorremmo che, pur essendosene reso conto, abbia deciso di non intervenire. In quanto il danno derivante da tale situazione è, tutto sommato, abbastanza circoscritto; e sicuramente non di grande nocumento per la p.a.», avverte il presidente Di Renzo, «preferiamo pensare che i giuristi, chiamati a redigere la legge, si siano focalizzati sugli aspetti sostanziali e probatori riguardanti la comunicazione certificata; tralasciando, forse, l'approfondimento necessario sui dettagli tecnici: quali, appunto, la scadenza annuale delle caselle e quindi i controlli su quelle registrate, ma ormai scadute. Fatto sta è che è ormai un'esigenza sempre più impellente che si metta mano in maniera seria ed organica alla digitalizzazione del Nostro paese e, in particolare, del settore burocratico e della comunicazione» (articolo ItaliaOggi del 16.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it.

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - VARIPec in tutte le imprese e le società.
Tutte le imprese individuali e le società devono avere un indirizzo Pec e devono chiederne l'iscrizione nel registro delle imprese. La Pec deve inoltre essere attiva. In caso di Pec scaduta o revocata le imprese coinvolte avranno 30 giorni per comunicare al registro delle Imprese un nuovo indirizzo Pec attivo. Decorso tale termine e effettuati gli opportuni controlli, l'ufficio trasmetterà al giudice del registro l'elenco delle imprese per le quali è possibile disporre la cancellazione della Pec.

Queste le istruzioni della Camera di commercio di Milano (nota 08.02.2016 n. 17109 di prot.) in merito alle poste elettroniche certificate delle imprese ma non più attive.
Decorso il termine di 30 giorni, l'ufficio chiederà al giudice del registro delle imprese di ordinare l'iscrizione della notizia che l'indirizzo Pec, attualmente iscritto, non è più riferibile all'impresa o alla società. Il provvedimento del giudice del registro farà sì che quest'ultima risulterà priva di un indirizzo Pec.
Tutto questo comporterà che le successive domande di iscrizione di fatti o atti, relativi all'impresa, non potranno essere più gestite. Saranno quindi «sospese» in attesa della comunicazione del nuovo indirizzo Pec e, in mancanza, verranno infine rifiutate.
In base alle indicazioni ministeriali-direttiva del ministero dello sviluppo economico e del ministero della giustizia del 13.07.2015 è applicabile anche la sanzione amministrativa prevista dagli articoli 2194 e 2630 del codice civile. È pertanto possibile iscriversi nel registro delle imprese solo con l'indirizzo Pec.
In caso contrario l'istanza verrà sospesa fino a 45 giorni nel caso di impresa individuale e fino a tre mesi nel caso di impresa societaria, al fine di consentire l'integrazione dell'istanza con la comunicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata proprio e corrispondente a una casella attiva (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZI: Differenziata, più concorrenza e meno in house providing.
Aumentare la concorrenza sulla gestione della raccolta differenziata dei rifiuti e ridurre l'in house providing. Promuovere il riciclo e la termovalorizzazione. Riformare il sistema consortile per la raccolta degli imballaggi
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Sono queste alcune delle indicazioni contenute nell'indagine condotta dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato che, dopo un anno e mezzo di istruttoria, è stata conclusa e illustrata.
L'indagine contiene una approfondita analisi del mercato, di cui si evidenziano le criticità, e anche alcune precise proposte operative. Il tutto nasce da numerose segnalazioni pervenute all'Authority, ma anche dalla necessità di attuare appieno la direttiva europea 2008/98 che prevede una quota di riciclo pari al 50% entro il 2020. La situazione italiana è infatti piuttosto distante dal resto d'Europa visto che siamo a circa il 39% (dati Eurostat 2013) contro il 65% della Germania, il 58% dell'Austria e il 55% del Belgio.
Dall'indagine emerge con chiarezza come l'ampliamento degli spazi di concorrenza si coniughi pienamente con il raggiungimento degli obiettivi ambientali. L'indagine e le segnalazioni hanno infatti evidenziato una generale propensione da parte degli enti locali ad ampliare il perimetro della privativa mediante un «eccessivo ricorso all'istituto dell'assimilazione, con conseguente limitazione delle dinamiche concorrenziali nell'offerta di servizi di gestione dei rifiuti speciali», oltre a un utilizzo dello strumento della «gestione integrata» dei rifiuti, che spesso determina «improprie estensioni della privativa, eliminando la possibilità di uno sviluppo della concorrenza nel mercato nelle fasi della filiera in cui essa può esplicarsi». Particolarmente evidenziato è l'«eccessivo e acritico ricorso al modello dell'in-house providing senza che ciò garantisca sempre l'efficienza del servizio».
Da qui, le proposte dell'Autorità per rivedere le modalità di affidamento della raccolta, privilegiando la gara laddove possibile, limitandone la durata a un massimo di cinque anni. In sostanza l'in house dovrebbe essere concesso non solo a fronte della obbligatoria verifica del pieno rispetto delle norme Ue, ma anche e soprattutto del raggiungimento del livello medio di efficienza riscontrabile nel settore (cosiddetto benchmarking di efficienza) da parte dell'affidatario diretto.
Si propone poi di ridefinire i bacini per la raccolta, in modo da differenziarli e ampliarli per le fasi a valle (trattamento meccanico-biologico e termovalorizzazione), con una gestione che disincentivi il conferimento in discarica, utilizzando meglio lo strumento dell'ecotassa per rendere economicamente più conveniente il ricorso ai Tmb, trattamenti meccanico-biologici e ai termovalorizzatori; applicare un modello di regolazione centralizzato, affidando le competenze, per esempio, all'Autorità per l'energia.
A tutto questo, secondo le indicazioni dell'Antitrust, si deve aggiungere poi una riforma del sistema consortile (Conai) che dovrebbe evolvere in un modello concorrenziale per garantire che i produttori di imballaggi rispettino il principio «chi inquina paga» (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016).

APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Un milleproroghe salva enti. Province, prorogati i precari. Niente vincoli per le fusioni. Nel passaggio alla camera il dl si è arricchito di molte positive novità per le autonomie.
Via libera alla proroga dei contratti precari negli enti di area vasta, anche in caso di sforamento del Patto 2015. Possibilità di utilizzare i risparmi derivanti dalla rinegoziazione dei prestiti anche per spesa corrente. Esenzione per un anno dal pareggio di bilancio per i comuni istituiti mediante fusione. Ennesima proroga delle gare sul gas. E ancora esenzione dai limiti di spesa per mobili e arredi, nuovi aiuti in caso di dissesto, riapertura del termini per aderire al federalismo demaniale.

Si allunga l'elenco delle misure di interesse per gli enti locali contenuti nella legge di conversione del decreto «milleproroghe» (Atto Senato n. 2237). Rispetto al testo presentato dal governo il 30.12.2015, la camera ha introdotto numerosi altri correttivi, anche pesanti.
Fra tutti, spicca, anche per la rilevanza sociale, la salvaguardia dei lavoratori precari di città metropolitane e province, che potranno rinnovare i contratti (per comprovate necessità) anche se non in regola con i vincoli di finanza pubblica. La norma vale anche per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto.
Si allunga a tutto il 2016 l'efficacia della norma del dl 78/2015 (art. 7, comma 2) che consente di utilizzare le risorse derivanti da operazioni di rinegoziazione di mutui nonché dal riacquisto dei titoli obbligazionari emessi senza vincoli di destinazione.
Buone notizie per i comuni nati da fusione, che per quest'anno saranno esenti dal pareggio di bilancio, e per quelli dissestati, che potranno contare fino al 2017 sui contributi a incremento della massa attiva della gestione liquidatoria. Vale per tutte le amministrazioni locali, invece, l'esenzione dai limiti alla spesa per mobili e arredi.
Più tempo, infine, per procedere all'affidamento con gara del servizio di distribuzione del gas naturale e per acquisire immobili statali nell'ambito del federalismo demaniale.
Sono state confermate anche le misure già previste fin dalla prima ora, come la proroga (o sospensione) degli obblighi di gestione associata delle funzioni fondamentali nei piccoli comuni, quella dei poteri prefettizi sul bilancio e quella immancabile per gli affidamenti a Equitalia (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016).

LAVORI PUBBLICI: Fino a fine luglio qualificazione facilitata per le imprese di costruzioni.
Fino a fine luglio qualificazione facilitata per imprese di costruzioni, progettisti e contraenti generali; possibile, sempre fino a fine luglio, escludere le offerte anomale automaticamente in tutte le gare sotto la soglia Ue.

È quanto prevede il decreto milleproroghe (210/2015) approvato dalla camera mercoledì (Atto Senato n. 2237).
Di rilievo è l'articolo 7 che proroga diverse disposizioni in tema di infrastrutture e lavori pubblici. In primo luogo la norma agisce sul tema dell'anticipazione contrattuale prevedendo la proroga di sette mesi, vale a dire dal 31.12.2015 al 31.07.2016, del termine fino al quale l'anticipazione del prezzo in favore dell'appaltatore, per i contratti relativi a lavori, è elevata dal 10 al 20%.
A tale riguardo e in prospettiva va segnalato incidentalmente che la bozza del decreto di riordino della materia (attuativo della legge delega 11/2016) estende a tutti i contratti (quindi anche a forniture e servizi) l'applicazione dell'anticipazione.
Un secondo intervento, sempre con una proroga di sette mesi, dal 31.12.2015 al 31.07.2016, riguarda i termini previsti dai commi 9-bis e 15-bis dell'articolo 253 del codice dei contratti pubblici. Il comma 9-bis consente in particolare alle imprese di costruzioni di dimostrare il requisito della cifra di affari realizzata con lavori svolti mediante attività diretta e indiretta, nonché dei «lavori di punta» in ciascuna categoria, prendendo in considerazione i migliori cinque anni del decennio antecedente la data di pubblicazione del bando.
Il comma 15-bis permette invece ai progettisti di qualificarsi in gara con i migliori cinque anni del decennio (fatturato globale) e con i migliori tre anni del quinquennio (personale).
Nel corso dell'esame in commissione, in sede referente, è stato poi introdotta la lettera b-bis) che prevede la medesima proroga di sette mesi, del termine previsto al comma 20-bis dell'articolo 253 del codice dei contratti pubblici fino al quale le stazioni appaltanti possono applicare le disposizioni di cui agli articoli 122, comma 9, e 124, comma 8.
Si tratta della norma, introdotta con il decreto 70/2011 e prorogata nel 2015, che consente alle stazioni appaltanti di utilizzare l'esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia per tutte le gare di lavori, forniture e servizi di importo sotto la soglia comunitaria (5,2 milioni di euro per i lavori, 209.000 per servizi e forniture) aggiudicate con il criterio del prezzo più basso (con un minimo di dieci offerte), di fatto estendendo a tutti i contratti sotto la soglia Ue quanto previsto, in via ordinaria e senza limiti di tempo, per i lavori fino a un milione di euro e per servizi e forniture fino a 100.000 euro.
Va anche qui precisato che tutta la materia potrà essere soggetta a ulteriori modifiche al momento del varo del decreto di riordino (entro il 18 aprile) e delle linee guida che Anac dovrà proporre al ministero delle infrastrutture per l'adozione con decreto ministeriale.
Il tutto dovrebbe concludersi, ragionevolmente entro l'estate e, in relazione alla disciplina transitoria che dovrà essere definita, si potrà capire quale sarà la sorte delle disposizioni che il decreto legge ha prorogato fino a fine luglio. Il procedimento sul quale è stata votata la fiducia due giorni fa contiene anche la proroga di un anno (vale a dire fino al 01.01.2017) del termine per l'entrata in vigore delle disposizioni in tema di obblighi di pubblicità relativi agli avvisi e ai bandi previsti nel codice contratti pubblici.
Prorogata anche a disciplina transitoria in base alla quale, ai fini della qualificazione come contraente generale, il possesso dei requisiti di adeguata idoneità tecnica organizzativa può essere sostituito dal solo possesso delle attestazioni rilasciate dalle società organismi di attestazione (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Immobili p.a., gare al risparmio. Parte la spending review: il governo spenderà il 10% meno. Obbligo di ricorrere alla centrale di committenza per appalti di beni e servizi in 19 settori.
Le amministrazioni statali sono obbligate dallo scorso 9 febbraio a ricorrere a centrali di committenza per il facility management, la manutenzione degli immobili pubblici e altre 17 categorie merceologiche di beni e servizi quando i loro importi annuali superino i 209 mila euro; fra sei mesi l'obbligo scatterà per tutte le altre amministrazioni.

È quanto prevede il decreto del presidente del consiglio dei ministri 24.12.2015, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 09.02.2016, n. 32, che, attuando l'articolo 9, comma 3, della legge 89/2014, individua le 19 categorie merceologiche per le quali le stazioni appaltanti devono fare ricorso inderogabilmente a uno dei 35 soggetti aggregatori della domanda che fanno capo all'anagrafe unica delle stazioni appaltanti, tenuta dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), ne fanno parte Consip, una centrale di committenza per ciascuna regione e le altre in possesso dei requisiti per l'iscrizione nell'elenco (definito con la delibera Anac del 22.07.2015, n. 58).
Nel decreto vengono definite le soglie al superamento delle quali le amministrazioni statali, centrali e periferiche, a esclusione degli istituti e scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, nonché le regioni e gli enti regionali, oltre che i loro consorzi e associazioni, e gli enti del Servizio sanitario nazionale, ricorrono a Consip o ad altro soggetto aggregatore per lo svolgimento delle relative procedure.
Si tratta del primo importante adempimento finalizzato all'attuazione della spending review in tema di approvvigionamenti di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni nel quale si stabilisce al di sopra di quali soglie determinati servizi e beni devono essere acquisiti facendo ricorso alle centrali di committenza.
Da questo provvedimento il governo si attende risparmi dell'ordine del 10% e non si tratterà di poco se i volumi riguardanti i diversi beni e servizi considerati nel decreto ammonterebbero a circa 15 miliardi (13 per la sanità e 2 per gli altri settori).
Sono 19 i settori merceologici considerati, fra cui, per quel che concerne gli immobili, cinque categorie di servizi: la vigilanza armata (soglia di 40 mila euro); facility management immobili (la soglia è quella dei 209 mila); pulizia (209 mila); guardiania (40.000); manutenzione di immobili e impianti (209 mila). Il decreto chiarisce che le soglie di rilevanza indicate per ogni singola categoria si devono intendere «come importo massimo annuo a base d'asta negoziabile autonomamente per ciascuna categoria merceologica da parte delle singole amministrazioni: fino alla soglia le amministrazioni possono bandire gare in autonomia, ma una volta superata la soglia devono fare ricorso a uno dei 35 soggetti aggregatori della domanda.
La soglia dei 40 mila era anche prevista come soglia al di sotto della quale i comuni con meno di 10 mila abitanti non potevano agire autonomamente e dovevano ricorrere alle centrali di committenza, ma con la legge di stabilità è stato previsto che dal 01.01.2016 questo limite fosse superato per cui oggi fino a 40 mila euro i piccoli comuni possono anch'essi operare senza ricorrere alle centrali di committenza.
Il decreto precisa anche come verranno individuati i soggetti aggregatori incaricati di procedere all'acquisizione dei beni e servizi citati nel dpcm e i soggetti per i quali gli appalti dovranno essere svolti; sarà il tavolo tecnico dei soggetti aggregatori a decidere chi si occuperà dei singoli appalti. All'esito dell'individuazione nel portale www.acquisitinretepa.it dovrà essere disponibile l'elenco delle iniziative in capo ad ogni soggetto aggregatore, con le tempistiche e lo stato di avanzamento delle procedure (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nel pubblico impiego tutela legata alla buona fede. La segnalazione all’Anac. L’informazione sull’illecito basata su elementi di fatto.
Il disegno di legge (Atto Senato n. 2208) approvato, in prima lettura, il 21.01.2016 mira a modificare le tutele oggi previste a favore dei whistleblowers (letteralmente “soffiatori di fischietto”) dall'articolo 54-bis del Testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001) e a estendere il meccanismo delle segnalazioni al settore privato, rimasto sino ad oggi quasi totalmente sprovvisto di una disciplina ad hoc.
Per quanto concerne il pubblico impiego, la proposta di legge, che dovrà ora essere esaminata dal Senato, stabilisce specifiche tutele per il dipendente che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, in buona fede segnali al responsabile della prevenzione della corruzione o all'Anac, ovvero denunci all'autorità giudiziaria ordinaria o alla Corte dei Conti, condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro.
In particolare, il segnalante non potrà essere «sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione». L'adozione di misure ritorsive è comunicata «in ogni caso all'Anac dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere».
Appare particolarmente innovativa, rispetto alla disciplina oggi vigente, l'introduzione del requisito della «buona fede» in un'ottica di responsabilizzazione del dipendente che, per beneficiare delle tutele, deve effettuare una «segnalazione circostanziata nella ragionevole convinzione, fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita segnalata si sia verificata», fermo restando che la buona fede è comunque esclusa qualora il segnalante abbia agito con colpa grave.
Inoltre, in modo quasi del tutto simile a quanto oggi già previsto, le tutele a favore del whistleblower non sono garantite ove venga accertata, anche sulla base di una sentenza emessa in primo grado –questa una delle novità-, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per altri reati commessi con la denuncia nonché nel caso in cui sia riconosciuta una responsabilità civile del dipendente in relazione a tali reati, nei casi di dolo o colpa grave.
Non solo. Come ulteriore deterrente alle segnalazioni inveritiere o in malafede, viene previsto che, nel caso in cui al termine del procedimento penale, civile o contabile ovvero all'esito dell'attività di accertamento dell'Anac, la segnalazione risulti infondata e non effettuata in buona fede, il dipendente è sottoposto a procedimento disciplinare dall'Ente di appartenenza che potrà persino, sulla base di quanto previsto dai contratti collettivi, licenziare per giusta causa il whistleblower.
La proposta di legge stabilisce, inoltre, specifici limiti alla rivelazione dell'identità del segnalante che -in linea di principio- deve rimanere segreta. Proprio al fine di garantire tale riservatezza, l'Anac, nell'ambito delle proprie linee guida per la presentazione e la gestione delle segnalazioni, dovrà non solo prevedere l'utilizzo di modalità anche informatiche ma, addirittura, promuovere il ricorso a sistemi crittografati.
In aggiunta, al fine di una maggior tutela del whistleblower, la riforma prevede l'introduzione di sanzioni amministrative pecuniarie ove, nell'ambito dell'istruttoria condotta dall'Anac, venga accertata l'adozione di misure discriminatorie nei confronti del segnalante oppure l'assenza di procedure per l'inoltro e la gestione delle segnalazioni o la non conformità delle stesse rispetto a quanto indicato dall'Anac.
Occorre rilevare, infine, come il disegno di legge intenda ampliare non solo il contenuto dell'attuale disciplina prevista dal Testo unico del pubblico impiego bensì anche la portata dei suoi destinatari. Le tutele si applicheranno anche ai dipendenti degli enti pubblici economici e degli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico nonché, più in generale, ai collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o di incarico, e persino ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese che forniscono beni o servizi e che realizzano opere in favore dell'amministrazione pubblica
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGOPart-time agli statali anziani. Orario di lavoro riducibile tre anni prima della pensione. Milleproroghe/ Opzione allargata ai dipendenti pubblici. Più tempo per il dm.
La conversione in legge del decreto milleproroghe (Atto Senato n. 2237) concede il part-time anche ai dipendenti pubblici prossimi alla pensione.
La modifica alla specifica disciplina transitoria (valida per il settore privato) di cui all'art. 1, comma 284, della legge 208/2015 (di stabilità per il 2016), prevede la trasformazione da tempo pieno a tempo parziale del rapporto di lavoro subordinato, con copertura pensionistica figurativa per la quota di retribuzione perduta e con la corresponsione, di una somma pari alla contribuzione pensionistica che sarebbe stata a carico del datore di lavoro relativa alla prestazione lavorativa non effettuata.
Il nuovo articolo 2-quater del dl 210/2015 concede anche più tempo per scrivere le regole pratiche per il passaggio al part-time.
Di cosa parliamo. Anche i lavoratori dipendenti del settore pubblico, esclusi dalla disposizione contenuta nella legge di stabilità, titolari di un contratto di lavoro a tempo pieno che maturano entro il 31.12.2018 il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia (66 e 7 mesi nel 2016), possono, d'intesa con l'amministrazione di appartenenza, per un periodo non superiore a 3 anni (devono quindi aver compiuto 63 anni e 7 mesi), ridurre l'orario del rapporto di lavoro in misura compresa tra il 40 e il 60%.
Ciò comporta, in pratica, una aggiunta mensile allo stipendio pari alla contribuzione (quota a carico del datore di lavoro) previdenziale a fini pensionistici (23-24% della retribuzione) relativa alla prestazione lavorativa non effettuata. Tale importo non concorre alla formazione del reddito da lavoro dipendente e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Per i periodi di riduzione della prestazione lavorativa è riconosciuta la contribuzione figurativa commisurata alla retribuzione corrispondente alla prestazione lavorativa non effettuata.
In altre parole il lavoratore part-time arriva alla pensione senza alcun danno per l'assegno Inps: come se avesse continuato a lavorare a tempo pieno.
Decreto attuativo. Sempre il comma 284 dell'articolo 1 della legge di stabilità 2016 ha rinviato ad apposito decreto del ministro del lavoro e dell'economia l'individuazione delle modalità per fruire del beneficio del part-time, fissando il termine per la sua emanazione a 60 giorni dall'entrata in vigore della legge (01.03.2016).
Ora il decreto milleproroghe (approvato in commissione e ora all'esame dell'aula della camera) sposta tale termine al 31 marzo, concedendo un mese in più per l'emanazione (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).

APPALTIOfferte anomale, esclusione automatica.
Per le stazioni appaltanti via libera alla possibilità fino al 31.07.2016 di escludere automaticamente le offerte anomale ai contratti di lavori d'importo inferiore o pari a 1 milione di euro e di servizi e forniture d'importo inferiore o pari a 100.000 euro. Per le imprese, inoltre, slitta al 31.07.2016 il termine entro il quale per la dimostrazione del requisito della cifra di affari realizzata valgono solo i migliori cinque anni del decennio antecedente la data di pubblicazione del bando di gara.

Queste alcune delle novità in materia di infrastrutture, trasporti e appalti contenute nel dl milleproroghe all'esame della camera (Atto Senato n. 2237).
Nel dettaglio, le modifiche apportate all'art. 7 relativamente alle offerte anomale, prevedono che possa slittare fino alla fine di luglio, il termine entro il quale le stazioni appaltanti potranno escludere automaticamente le offerte anomale sia ai contratti di lavori d'importo inferiore o pari a 1 milione di euro, sia di servizi e forniture d'importo inferiore o pari a 100.000 euro. A essere chiamati in causa, quindi, i cosiddetti contratti sottosoglia, cioè di importo inferiore alle soglie comunitarie previste dall'art. 28 del Codice dei contratti pubblici.
Slitta, inoltre, alla fine di luglio anche il termine entro il quale le imprese potranno usufruire di determinate condizioni per dimostrare il requisito della cifra di affari. Nel dettaglio, infatti, ai fini della qualificazione degli esecutori dei lavori per la dimostrazione, da parte dell'impresa, del requisito della cifra di affari realizzata con lavori svolti mediante attività diretta e indiretta, il periodo di attività documentabile resterà quello relativo ai migliori cinque anni del decennio antecedente la data di pubblicazione del bando di gara.
Differita, infine, al 01.01.2017 l'applicazione della disposizione che istituisce, presso il Mit un Fondo finalizzato all'acquisto diretto o indiretto di mezzi adibiti al trasporto pubblico locale e regionale anche per garantire l'accessibilità alle persone a mobilità ridotta (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).

ENTI LOCALI - VARIPatente, multe in saldo. Sconto del 30% per chi non ha documento. Circolare dell'Interno sugli effetti delle depenalizzazioni (dlgs 8/2016).
Chi verrà sorpreso ripetutamente a guidare senza patente potrà cavarsela con una multa scontata del 30%. Niente penale dunque neppure per i recidivi più scaltri che possono permettersi di regolare il conto alla cassa ma che non hanno mai conseguito una licenza di guida. L'unico rischio per questi allegri trasgressori seriali può essere rappresentato dalla confisca del veicolo in caso di ripetizione dell'illecito.

Lo ha evidenziato il Ministero dell'Interno con la nota 05.02.2016 n. 300/A/852/16/109/33/1 di prot..
Con l'avvenuta depenalizzazione della patente di guida entrata in vigore sabato scorso (dlgs 8/2016), circolare senza patente è diventato più agevole, soprattutto per chi potrà permettersi di pagare 3.500 euro di multa ad ogni ipotetico controllo, mettendo sul piatto, eventualmente, la confisca del veicolo ogni due sanzioni. Le istruzioni operative diramate dall'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale sono chiare.
Condurre un veicolo a motore senza patente ora non è più un reato. E neppure circolare con una patente straniera nonostante l'inibizione alla guida sul territorio italiano oppure scaduta per i residenti da oltre un anno. La multa per chi viene trovato in difetto ora va da 5.000 a 30.000 euro. Ovvero per chi paga in misura ridotta 5.000 euro, ulteriormente limitati a 3.500 per chi paga subito, con lo sconto entro cinque giorni (salvo che il veicolo circoli contro la volontà del proprietario).
Con il fermo amministrativo del veicolo per tre mesi. Ma se il soggetto è recidivo nel biennio potrebbe scattare la denuncia penale. Secondo il Viminale si può intendere una reiterazione dell'illecito depenalizzato, in conformità ai principi dell'art. 8-bis della legge 689/1981. Ma solo da adesso in poi e sempre che il primo illecito sia definito ovvero che il trasgressore benestante non abbia effettuato il tempestivo pagamento in misura ridotta.
In questo caso non scatterà il penale. In ogni caso a parere del ministero la ripetizione della guida senza patente, anche se non può essere valutata come reiterata per qualsiasi motivo (per esempio per avvenuto pagamento in misura ridotta della multa) determinerà sempre la confisca del veicolo (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).

VARIFumo in auto, controlli zoppi. Ok alle ispezioni visive. Più complesse quelle interne. Le verifiche giocano sul concetto di privata dimora. Una circolare dal Minsalute.
Ok alle ispezioni visive dell'auto dall'esterno per accertare il divieto di fumo nell'abitacolo in presenza di minori e di donne incinte. Le ispezioni interne, invece, potrebbero essere bloccate se si equipara la vettura alla privata dimora. Si gioca tutto sul concetto, appunto, di privata dimora l'individuazione dei poteri degli agenti accertatori della violazione del divieto di fumo in auto introdotto dall'articolo 24, comma 2, del decreto legislativo n. 6/2016.

La materia è illustrata dalla circolare 04.02.2016 del Ministero della Salute, che sul punto delle modalità di accertamento si limita a un richiamo all'articolo 13, comma 4, della legge 689/1981 e cioè la legge quadro sulle sanzioni amministrative pecuniarie. Ma vediamo di illustrare il problema.
L'articolo 24, comma 2, del decreto legislativo n. 6 del 2016, estende il divieto di fumo al conducente di autoveicoli, in sosta o in movimento, e ai passeggeri a bordo degli stessi in presenza di minori di anni diciotto e di donne in stato di gravidanza.
La circolare prende in esame le difficoltà pratiche di accertamento della violazione e si riferisce all'ipotesi infrazione commessa in un autoveicolo in movimento. Per questa ipotesi la circolare ricorda che l'accertamento potrà può essere effettuato dal personale dei corpi di polizia amministrativa locale e dagli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, secondo quanto previsto dall'articolo 13, quarto comma, della legge 24.11.1981, n. 689.
In realtà le modalità di accertamento sono disciplinate innanzitutto dal comma 1 del citato articolo 13. In base a questo primo comma gli organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro possono, per l'accertamento delle violazioni di rispettiva competenza, assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica.
Dunque l'agente di polizia municipale ha una serie di prerogative, tra cui l'ispezione di cose e luoghi diversi dalla privata dimora.
Dobbiamo, quindi, ipotizzare che un'autovettura venga fermata per contestare l'infrazione del divieto di fumo.
Occorre, quindi, innanzi tutto che l'agente accertatore abbia visto con i propri occhi la commissione dell'infrazione e che l'abbia immediatamente contestata al trasgressore.
In questo caso la parola dell'agente vale di più di quella del trasgressore, considerato che il verbale è atto che fa prova fino a querela di falso e che il trasgressore stesso non potrà superare l'efficacia probatoria del verbale neppure con un testimone.
Se l'auto è in movimento, potrebbero essere necessari ulteriori atti di accertamento.
L'art. 13, comma 1, della legge 689/1981 ammette atti di ispezioni di cose o luoghi diversi dalla provata dimora. Si deve, quindi, valutare se l'auto sia una cosa o un luogo di privata dimora.
Prendendo a prestito la giurisprudenza del giudice penale si nota che l'auto, che si trova sulla pubblica via, non è considerata privata dimora ai fini del reato di violazione di domicilio, salvo che possa desumersi un effettivo uso a fini di precaria abitazione; non lo è neppure ai fini della applicazione della disciplina autorizzativa sulle intercettazioni. Seguendo questa impostazione l'auto, che circola sulla pubblica via, sarebbe una cosa o un luogo diverso dalla privata dimora e, quindi, l'agente accertatore sarebbe legittimato a procedere alle ispezioni. Se, invece, si ritenesse che l'autovettura sia equiparabile alla privata dimora, comunque il suo interno può essere ispezionato visivamente dagli agenti accertatori dall'esterno.
Tra gli atti di accertamento sono previste anche le riprese fotografiche.
Soprattutto per le foto, ma in ogni caso non bisogna dimenticare la privacy dei trasportati. Si dovrà chiarire se nel verbale si dovrà riportare nome e cognome dei trasportati e la loro condizione (minorenne, donna in stato di gravidanza) oppure se sarà sufficiente dare atto genericamente della presenza di un passeggero appartenente alla categoria protetta.
Il comma 4 dell'articolo 13, della legge 689/1981, citato dalla circolare consente anche agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria, un'altra attività e cioè la perquisizione, ma sempre in luoghi diversi dalla privata dimora, previa autorizzazione motivata dell'autorità giudiziaria. Una ipotesi questa che potrebbe contrastare con le esigenze di immediatezza dell'accertamento (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Eco-reati a prescrizione limitata. Applicabile se la pena è l'ammenda, non se c'è l'arresto. Linee guida dalla Procura generale di Firenze, in sinergia con i Tribunali di distretto.
La prescrizione si applica alle sole contravvenzioni previste dal Testo unico ambientale (c.d. Tua, dlgs n. 152/2006), punite con la sola pena dell'ammenda ovvero con la pena dell'ammenda prevista come alternativa all'arresto. Non si applica, invece, alle contravvenzioni previste dal Tua punite con la sola pena dell'arresto o con la pena dell'arresto e dell'ammenda.

Questo è quanto si legge nelle linee guida in tema di estinzione dei reati in materia ambientale introdotte con la legge 22.05.2015, n. 68 e predisposte dalla Procura generale della Repubblica di Firenze, con il supporto e contributo di tutti i Procuratori della repubblica presso i Tribunali di distretto.
Con la legge 22.05.2015, n. 68, sono state introdotte nell'ordinamento fattispecie di aggressione all'ambiente costituite sotto forma di delitto. Il nucleo fondamentale del provvedimento è costituito dall'articolo 1, contenente un complesso di disposizioni che, in particolare, inseriscono nel codice penale un inedito titolo VI-bis (Dei delitti contro l'ambiente), composto da 12 articoli (dal 452-bis al 452-terdecies).
All'interno di questo nuovo titolo sono previsti cinque nuovi delitti, inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento del controllo, omessa bonifica. L'articolato contempla altresì una forma di ravvedimento operoso per coloro che collaborano con le autorità prima della definizione del giudizio, ai quali è garantita una attenuazione delle sanzioni previste.
Inquinamento ambientale. Ai sensi dell'art. 452-bis c.p., è sanzionato con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 10 mila a 100 mila euro, chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle acque o dell'aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.
Condizione di ammissibilità della procedura di prescrizione. Per dare avvio alla procedura di prescrizione, la legge dispone che la condotta non abbia cagionato «danno o pericolo concreto ed attuale di danno» alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.
La polizia giudiziaria è chiamata a valutare la presenza della condizione di ammissibilità, che, certamente, secondo le linee guida della Procura, si può affermare esistente nei casi di violazioni di tipo formale e nei casi in cui la situazione di illiceità possa essere eliminata ponendo in essere le prescrizioni imposte dall'organo di vigilanza.
Al contrario, qualora non sia applicabile la procedura prescrittiva. La polizia giudiziaria dovrà precisare nella comunicazione di notizia di reato le circostanze di fatto e le ragioni che impediscono di impartire le prescrizioni (articolo ItaliaOggi del 06.02.2016).

ENTI LOCALI: Ennesima proroga in vista per i bilanci degli enti.
È in arrivo una nuova proroga del termine per l'approvazione dei bilanci degli enti locali. La dead-line, attualmente fissata al 31 marzo, dovrebbe slittare al 30 aprile.
Il copione è lo stesso ormai da diversi anni, con l'esecutivo che promette «mai più rinvii», ma che poi è costretto a concederli. Il tema sarà affrontato nella prossima Conferenza stato-città e autonomie locali, in calendario per il prossimo 18 febbraio. Anche questa volta il principale problema da risolvere riguarda fondo di solidarietà comunale, ormai sempre più simile a un rebus. La quantificazione di questa posta di entrata rappresenta, infatti, una via di mezzo fra un'acrobazia e una lotteria. In queste settimane stanno circolando diverse ipotesi e metodologie di stima, in attesa che arrivino i numeri ufficiali.
Al riguardo, come sempre, regna la più assoluta incertezza: in teoria, stando a quanto previsto dalla legge 208/2015, il riparto dovrebbe essere definito al più tardi entro il 30 aprile. Peccato che, al momento, la scadenza per approvare i bilanci di previsione sia fissata al 31 marzo. Da qui l'inevitabile slittamento, come sempre accompagnato dalla promessa che sia l'ultimo. Intanto, nei giorni scorsi si sono aperti i tavoli tecnici fra Ministero dell'interno, Mef e Anci per definire i criteri di distribuzione.
Molte le incognite, dall'adeguatezza dei fondi stanziati per compensare il mancato gettito di Imu e Tasi all'impatto dei nuovi fabbisogni standard (altro oggetto misterioso) che sono in fase di elaborazione da parte della Sose. Senza dimenticare la sempre più ingarbugliata vicenda delle imposte sui terreni agricoli, per i quali l'ultima legge di stabilità ha nuovamente cambiato le regole, riesumando la vecchia circolare delle Finanze n. 9/1993 e introducendo un'esenzione piena per coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali.
Secondo l'Ifel, tale partita porterà ai comuni un'ulteriore compensazione di circa 250 milioni, di cui però non sono chiari tempi e modalità. Per chiudere i bilanci, quindi, sindaci e ragionieri devono affidarsi a calcoli quasi cabalistici, con buona pace dei principi di veridicità, attendibilità, correttezza e comprensibilità riaffermati dalla riforma della contabilizzata introdotta dal dlgs 118/2011. Senza contare che quest'ultimo impone ai comuni di accertare il fondo sulla base dei dati divulgati attraverso il sito internet istituzionale del Viminale (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

LAVORI PUBBLICI: Paletti al general contractor. Scattano i divieti: dal 13 febbraio niente direzione lavori. Con l'entrata in vigore della legge n. 11, pubblicata in G.U., salta il performance bond.
Dal 13 febbraio sarà vietato affidare la direzione lavori al contraente generale e applicare la garanzia globale di esecuzione; niente «performance bond» anche per le gare avviate prima del 13 febbraio.
Sono questi alcuni degli effetti immediati derivanti dall'entrata in vigore della legge 28.01.2016, n. 11 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 29.01.2016, n. 23.
In particolare, il primo importante elemento di novità, e di forte impatto per il settore delle grandi infrastrutture, è che dalla data di entrata in vigore della legge (13.02.2016) non è più possibile affidare al contraente generale il compito di responsabile o di direttore dei lavori.
Non solo: il divieto scatterà anche per le procedure di appalto già bandite alla data di entrata in vigore della legge, incluse quelle già espletate per le quali la stazione appaltante non abbia ancora proceduto alla stipulazione del contratto con il soggetto aggiudicatario.
Strettamente correlata a questa norma è anche un'altra disposizione della legge 11 che ha però natura di criterio di delega e quindi sarà attuata attraverso il decreto delegato che è in gestazione presso la commissione ministeriale nominata dal ministro Delrio.
Si tratta della lettera mm) del comma 1 dell'articolo 1 della legge delega che prevede la creazione, presso il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di un albo nazionale obbligatorio dei soggetti che possono ricoprire rispettivamente i ruoli di responsabile dei lavori, di direttore dei lavori e di collaudatore negli appalti pubblici di lavori aggiudicati con la formula del contraente generale.
In questa fase, o meglio dal 14 febbraio, appare evidente che se una stazione appaltante dovrà stipulare un contratto per affidamento a contraente generale non potrà assegnare allo stesso anche la direzione dei lavori, ma non sarà ancora disponibile l'albo previsto dalla legge 11. Pertanto, procederà alla scelta del direttore dei lavori con regolare procedura a evidenza pubblica con automatico ritardo dei tempi determinato dalla gestione di una gara aggiuntiva.
Va segnalato come il dato letterale della lettera mm) sembra dare per scontata la permanenza della figura del contraente generale, ancorché da molti parti si parli di abolizione della cosiddetta «legge obiettivo». Questa legge, in realtà è vigente e le norme attuative (dell'ex decreto 190) sono tutt'oggi contenute nel codice dei contratti pubblici (articoli da 161 a 194).
Il tutto dovrebbe però tornare a posto con l'altro criterio di delega (sss) che prevede l'«
espresso superamento delle disposizioni di cui alla legge 21.12.2001, n. 443, con effetto dalla data di entrata in vigore del decreto di riordino
».
In ogni caso, va considerato che le direttive Ue prevedono sempre il cosiddetto «appalto del terzo tipo» che, fin dal 1989 quando fu emanata la direttiva Ue n. 440 ha a oggetto il «fare eseguire con qualsiasi mezzo» un'opera rispondente ai bisogni dell'amministrazione: si tratta esattamente dell'oggetto contrattuale che portò nel 2001 alla definizione della nozione di affidamento a contraente generale; adesso nelle bozze del decreto delegato che circolano, le disposizioni oggi nel codice dei contratti pubblici sembrano cancellate. Rimane, invece, l'appalto del «terzo tipo», che il legislatore è obbligato a recepire.
Se ne dovrebbe dedurre che, senza le norme che erano contenute nel decreto 190, le stazioni appaltanti potranno sempre affidare a un soggetto simile al contraente generale lo stesso contenuto di prestazioni, ma senza i «paletti» che sono ancora oggi previsti nel codice dei contratti pubblici.
Dal 13 febbraio (e per le procedure già avviate anche prima di tale data) non sarà possibile chiedere, negli appalti di lavori di sola esecuzione oltre i 100 mln di euro, negli appalti integrati oltre i 75 mln di euro, nonché per gli affidamenti a contraente generale, la garanzia globale di esecuzione (il cosiddetto performance bond). Le norme relative saranno sospese fino all'emanazione del decreto delegato e poi automaticamente abrogate; nel frattempo non si potrà procedere con lo svincolo automatico delle cauzioni (fino all'80% dell'importo del contratto) (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

APPALTI SERVIZIDall'Antitrust le linee guida per affidare il servizio di illuminazione stradale.
L'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) ha emanato la segnalazione 16.12.2015 n. AS1240 circa le modalità di affidamento del servizio pubblico locale di illuminazione stradale.
La segnalazione, inviata all'Associazione nazionale comuni italiani ed all'Autorità nazionale anticorruzione, è stata rilasciata ai sensi dell'articolo 22 della legge 287/1990 che regola l'attività consultiva dell'Autorità e giunge a fronte di numerose richieste di intervento pervenute in materia.
Le considerazioni dell'Agcm sono dirette, quindi, a dettare agli enti locali coinvolti le linee guida dell'attività amministrativa nella gestione del servizio di illuminazione pubblica, da esercitare nel rispetto dei principi della concorrenza.
Il Consiglio di stato, da ultimo con sentenza numero 8232 del 2010, ha chiarito definitivamente come il servizio di illuminazione pubblica delle strade comunali rientri nella categoria dei servizi pubblici locali. Ne discende, come confermato dalla decisione numero 199/2012 della Corte costituzionale, che tale servizio debba essere affidato, previa pubblicazione da parte dei comuni della relazione di cui all'articolo 34, comma 20, del dl 179/2012 che dia conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta, tramite il ricorso in via alternativa alle seguenti tre modalità: 1) indizione di una gara pubblica per la scelta dell'affidatario; 2) indizione di una gara a doppio oggetto per la selezione competitiva di un socio privato operativo con il quale costituire una società mista; 3) ricorso all'affidamento in house, nel rispetto delle condizioni di legittimità stabilite dalle recenti sentenze della Corte di giustizia europea e riportate nelle nuove direttive europee sugli appalti pubblici (direttive Ue 23, 24 e 25 del 2014).
A fronte di questo quadro normativo comune, dalle segnalazioni pervenute l'Autorità rileva due problematiche peculiari del settore dell'illuminazione pubblica, ovvero la conformità con la normativa vigente delle Convenzioni di affidamento diretto in favore di una società del gruppo Enel (Enel Sole srl) specializzata nel servizio di gestione e manutenzione degli impianti di illuminazione pubblica e, per quanto riguarda i casi di nuovo affidamento del servizio, le modalità di acquisizione da parte degli enti locali degli impianti di proprietà di terzi.
In merito al primo punto, occorre nuovamente chiamare in causa l'articolo 34 -commi 21 e 22- del dl 179/2012. Il comma 22 prevede, infatti, che gli affidamenti diretti a società a partecipazione pubblica quotate in mercati regolamentati ed a quelle da esse controllate cessino alla scadenza prevista nel contratto di servizio o, qualora non sia stata prevista una scadenza, improrogabilmente entro il 31.12.2020.
Da ciò consegue che è necessario che i comuni distinguano tra le convenzioni di affidamento diretto assegnate a Enel Sole entro il 31.12.2004 e quelle successive, dal momento che Enel Sole, appartenendo al Gruppo Enel, risulta essere controllata dal 2004 da una società quotata. Pertanto, gli affidamenti diretti antecedenti al 31.12.2004, sebbene non conformi alla normativa europea, restano in vigore fino a scadenza naturale o, al massimo, entro il 31.12.2020 (senza possibilità di proroga).
Gli affidamenti assegnati dal 01.01.2005, ed ancora in essere alla data di entrata in vigore del dl 179/2012, devono, invece, conformarsi alle norme dell'ordinamento europeo ai sensi del comma 21 del richiamato articolo 34, con scadenza prevista al 31.12.2013 (prorogata di un anno per i soli casi in cui fossero già state avviate le procedure di affidamento, al fine di garantire la continuità del servizio), pena la revoca dell'affidamento da parte del Comune.
Per quanto riguarda il secondo punto oggetto dell'analisi da parte dell'Agcm, nella segnalazione è specificato che, per procedere con i nuovi affidamenti, i comuni coinvolti debbano precedentemente assumere la proprietà degli impianti di illuminazione: la normativa vigente prevede, a tal fine, l'acquisto bonario o il riscatto degli impianti di proprietà di terzi.
Secondo l'opinione dell'Autorità non sarebbe, invece, in linea con la normative sulla concorrenza la scelta, effettuata da alcune amministrazioni, di procedere all'acquisto degli impianti di proprietà di terzi previo affidamento alla stessa società proprietaria dei lavori di ammodernamento degli impianti di illuminazione, procedura che sarebbe suscettibile, infatti, di alterare il corretto confronto competitivo in sede di gara per l'attribuzione del servizio. Il gestore uscente, in quanto proprietario della tecnologia utilizzata per l'ammodernamento degli impianti del servizio a base di gara, si troverebbe, infatti nella condizione di competere nell'offerta in modo difficilmente replicabile da soggetti terzi.
Infine, sarebbe illegittimo, secondo l'Agcm, il ricorso alla trattativa privata per i lavori di ammodernamento impiantistico senza previa pubblicazione del bando di gara, non ricorrendo, infatti, i presupposti per l'affidamento senza gara espressamente tipizzati dall'articolo 57 del dlgs 163/2006 (Codice degli appalti) (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Processo al Tar subito digitale. I giudici non accetteranno più carta dagli avvocati. Avviso del Consiglio di stato: tirata d'orecchie in vista del debutto del rito telematico.
Processo amministrativo telematico al via da subito. Anche per gli avvocati impreparati.
Mancano infatti solo cinque mesi al 01.07.2016, data effettiva di definitivo addio alla carta per la giustizia amministrativa, ma sono ancora troppi i professionisti che depositano i propri atti solo in formato cartaceo, nonostante l'obbligo di deposito di copia informatica sia in vigore da sei anni, ovvero dall'entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
Da oggi, però, i tribunali non potranno più chiudere un occhio e il solo atto cartaceo non sarà ammesso al processo. La stretta, sugli avvocati ancora affezionati alla carta, arriva direttamente dal presidente di sezione della segreteria generale del Consiglio di stato, che ha inviato una nota, il 1° febbraio scorso, alle istituzioni dell'avvocatura e alle associazioni degli avvocati amministrativisti. Affermando che, a distanza di circa sei anni dall'entrata in vigore del codice del processo amministrativo (dlgs n. 104 del 02.07.2010), che prevede l'obbligo per gli avvocati di depositare copia in via informatica di tutti gli atti di parte e, ove possibile, dei documenti prodotti e di ogni altro atto di causa, sono ancora molti i legali che invece non depositano i propri scritti difensivi e la documentazione in formato digitale. Una situazione aggravata dal fatto che l'art. 2 della legge di Stabilità 2016 (legge n. 210/2015) ha disposto che il 01.07.2016 prenda avvio il processo amministrativo telematico, con il processo che si svolgerà integralmente con modalità digitali, esclusa ovviamente la trattazione orale in camera di consiglio e udienza pubblica.
«In questa prospettiva», si legge nella nota del Consiglio di stato, «sembra opportuno, proprio perché tutti i protagonisti di questa svolta epocale siano pronti a vincere la sfida, che anche gli avvocati che sino a ora hanno depositato solo in formato cartaceo, comincino sin da subito a depositare tutti gli atti in formato digitale, per non trovarsi il 01.07.2016 a dover affrontare contemporaneamente tante novità informatiche».
La nota di Palazzo Spada, a firma di Mario Torsello, è stata inviata al presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, a quello dell'Unione nazionale avvocati amministrativisti, Umberto Fantigrossi, al segretario della società italiana avvocati amministrativisti, Filippo Lubrano, al presidente della camera amministrativa romana, Mario Sanino, al presidente del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Roma, Mauro Vaglio, e al presidente dell'Associazione giovani avvocati amministrativisti, Paolo Clarizia (articolo ItaliaOggi del 04.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI REGIONALIQuote rosa nelle regioni. Almeno il 40% di donne tra le candidature. Dall'aula della camera l'ok definitivo alla legge sulla parità di genere.
Almeno il 40% delle candidature per i consigli regionali dovrà essere occupato da donne. A introdurre per legge le quote rosa nelle elezioni regionali è la proposta di legge sulla parità di genere approvata ieri in via definitiva dalla Camera (Atto Camera n. 3297).
Con 334 voti favorevoli, 91 contrari e 21 astenuti, l'aula di Montecitorio ha confermato in toto il testo proposto dalla senatrice del Partito democratico Giuseppina Maturani, già approvato in prima lettura da palazzo Madama l'08.09.2015 (si veda ItaliaOggi del 09.09.2015)
Il provvedimento, di un solo articolo, stabilisce il principio secondo cui le regioni, indipendentemente dalle singole leggi elettorali in vigore, nella formazione delle liste dovranno adeguarsi alla regola secondo cui i candidati di un sesso non dovranno superare il 60% del totale. Una soglia che non dovrà mai essere valicata sia in caso di elezione mediante indicazione di preferenze, sia nell'ipotesi di listino bloccato.
Se ci sono le preferenze (al massimo due), una dovrà essere riservata a un candidato di sesso diverso, pena l'annullamento delle preferenze successive alla prima. Nei listini senza preferenze, invece, i candidati dovranno essere collocati in modo alternato per sesso. La soglia del 60% non dovrà essere superata, all'interno delle candidature espresse da un singolo partito, anche qualora le regioni scelgano l'elezione attraverso collegi uninominali. Un criterio, quest'ultimo, che però potrebbe essere di difficile applicazione in caso di primarie.
L'approvazione della legge è stata accolta con soddisfazione bipartisan. Anche nell'ottica del nuovo senato delle autonomie che sarà composto da rappresentanti delle regioni e dei comuni. Con poche donne elette nei consigli regionali, la prospettiva di ritrovarsi un senato tutto al maschile è apparsa a tutti uno scenario da scongiurare in ogni modo.
«È un tassello verso la rappresentanza paritaria. Non potrà più succedere che nelle regioni italiane i consigli regionali rimangano senza adeguate rappresentanze femminili», ha commentato la senatrice Doris Lo Moro, capogruppo del Pd in commissione affari costituzionali. «È un passo avanti, perché l'uguaglianza deve partire dai livelli territoriali regionale e locale, che hanno un più immediato contatto verso i cittadini», ha osservato la deputata di Forza Italia Elena Centemero.
«Con questa legge arriva uno strumento importante per agganciare sempre più i territori e la politica regionale alla parità di genere. Un fatto che, ne sono certo, darà maggiore efficacia, concretezza ed innovazione all'azione politica delle regioni», scommette il presidente della Conferenza delle regioni e governatore dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini.
Va detto, tuttavia, che fino ad oggi, in assenza di specifici obblighi di legge, le regioni hanno applicato le quote rosa in modo assai differenziato sul territorio. Accanto a regioni che già applicano la soglia del 60% (Abruzzo, Puglia e Umbria) o che addirittura prevedono una uguale rappresentanza dei due sessi nelle liste (Veneto, Toscana, Emilia-Romagna), ve ne sono altre (la Calabria, per esempio) che si limitano a prevedere che le liste debbano comprendere candidati di entrambi i sessi.
In Basilicata, su 20 consiglieri regionali non c'è nessuna donna, in Calabria, su 31 eletti, solo un consigliere è donna, in Puglia il gentil sesso conta solo 4 seggi in consiglio su 51, in Sardegna 4 su 60. Le cose vanno meglio in Emilia-Romagna (17 donne su 50 consiglieri), Campania (11 su 51), Piemonte (12 su 50), Toscana (11 su 40) e provincia autonoma di Bolzano (11 su 35). In ogni caso, in nessuna regione la rappresentanza femminile va oltre il 34% (articolo ItaliaOggi del 04.02.2016).

EDILIZIA PRIVATATensioni sul regolamento edilizio. Delrio: siamo fermi da due mesi - L’opposizione della Lombardia. Semplificazioni. Lo schema unico nazionale delle Infrastrutture manca dell’ultimo «via libera».
Il regolamento edilizio unico è all'ultimo miglio, ma è la strada è tutta in salita.
A spingere verso questo importante obiettivo -che il governo indicava entro 2015- è il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio. Lo schema finora proposto ha il consenso quasi unanime, ma si scontra con le riserve localizzate nella regione Lombardia, con in testa i comuni, guidati da Milano. A condividere queste riserve, sostenute dall’Anci Lombardia, sono anche i costruttori edili.
«Il regolamento edilizio è pronto da due mesi», ha detto il ministro Delrio a margine dell’incontro al Senato su “Gli alberi nel cielo e il futuro delle città”. «Il lavoro è quasi concluso -ha aggiunto-. C'è un'unica opposizione di una regione su un punto specifico che stiamo cercando di superare. Sono due mesi che siamo bloccati, speriamo di concludere: siamo veramente a un passo».
Al centro della discussione, a quanto si apprende, è la parte del testo con le definizioni, standardizzate.
Si discute in particolare sulla definizione di “superficie”. La questione è sostanziale: tocca infatti interessi concreti degli enti locali poiché modifica le quantità edilizie pianificate dai Comuni nei loro Prg. Da qui l’altolà dei comuni lombardi.
Ma perché la questione nasce in Lombardia? Perché, spiegano i tecnici, la Lombardia è la regione che più di tutte ha lasciato liberi gli enti locali sui loro regolamenti. In altri territori, pianificazione e regole edilizie sono state governate in modo più stringente. All'estremo opposto, per esempio, c’è l'Emilia Romagna, tutt'ora la sola regione dove il regolamento edilizio è una realtà (da oltre un anno).
Il nodo è ciò che si include nella definizione di “superficie”. Se, ad esempio, si includono scale e androni, si otterranno case con scale e androni al minimo, per massimizzare invece le volumetrie residenziali, cioè quelle vendibili.
Se invece il regolamento edilizio considera solo la superficie abitabile, i progettisti -e i costruttori- saranno liberi di valorizzare anche le parti comuni. Quest'ultima strada, ricorda il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis, è proprio quella imboccata dalla Lombardia, e in particolare dal comune di Milano. «Questa scelta, su cui tutti sono stati d’accordo, architetti, operatori e comune -ricorda De Albertis- è stata presa perché, diversamente, si finiva per fare progetti in cui si lesinava sugli spazi comuni, con scale anguste, o con altre soluzioni improbabili».
«Noi -informa sempre De Albertis- abbiamo fatto una proposta di compromesso: indicare tre definizioni di superficie: “netta”, “lorda” -cioè comprensiva dei muri- e “costruita” -comprensiva anche delle parti comuni- lasciando poi al singolo comune la scelta di quale recepire nel suo regolamento».
Questa questione principale se ne porta dietro un’altra. Modificando la definizione di superficie, si rettifica anche la previsione edificatoria dei comuni, che -ad esempio- si potrebbero trovare, da un giorno all’altro, un 20% di volumetrie in meno nei loro Prg (per non dire dei valori delle aree). Dunque, andrebbero rifatti tutti piani. Ipotesi che, ancora una volta, vede contrario il comune di Milano, che ha appena chiuso il suo piano di governo del territorio.
Per compensare, almeno in parte, queste conseguenze, al tavolo presso il ministero delle Infrastrutture è stata anche ipotizzata una fase transitoria sufficientemente lunga e graduale per l'approdo al regolamento edilizio unico. Non solo. Per compensare i comuni che, per effetto delle nuove definizioni, subiscono un taglio della capacità edificatoria, sono stati previsti coefficienti e parametri che consentono di recuperare i dimensionamenti originali
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIBonus mobili anche sui vecchi lavori. Sì alla detrazione del 50% legata a interventi edilizi pagati dal 26.06.2012 a fine 2016.
Anche per i pagamenti effettuati nel 2016 per l’acquisto di mobili e grandi elettrodomestici detraibili dall’Irpef al 50%, è necessario aver effettuato dal 26.06.2012 al 31.12.2016 almeno un pagamento, detraibile al 50%, per un intervento di recupero del patrimonio edilizio sulla casa da arredare.

È questo il chiarimento fornito dall’agenzia delle Entrate in una risposta data a Telefisco 2016, confermando quanto precisato con circolare 11/E/2014 (risposta 5.6) di “rettifica” alla precedente circolare 29/E/2013.
Quest’ultimo provvedimento richiedeva che i lavori edili fossero «comunque terminati da un lasso di tempo sufficientemente contenuto, tale da presumere che l’acquisto sia diretto al completamento dell’arredo dell’immobile su cui i lavori sono stati effettuati». Nella successiva circolare 11/E/2014, si stabilì invece che non esisteva «alcun vincolo temporale nella consequenzialità tra l’esecuzione dei lavori e l’acquisto dei mobili» (si veda «Il Sole 24 Ore» del 16.04.2014).
Ora, a Telefisco 2016, la conferma di questa impostazione anche per gli acquisti del 2016: sono detraibili al 50% le spese sostenute per mobili e grandi elettrodomestici dal 06.06.2013 al 31.12.2016, anche se «correlate a interventi di recupero del patrimonio edilizio, le cui spese siano state sostenute a decorrere dal 26.06.2012» e fino alla fine del 2016.
Inizio dei lavori
Non è rilevante il momento in cui i lavori edili termineranno: la fine dei lavori può avvenire anche il prossimo anno (periodo non agevolato). Ma è importante verificare la data del pagamento: vi deve essere almeno un bonifico “parlante”, detraibile al 50%, per lavori edili rilevanti per il bonus mobili, dal 26.06.2013 al 31.12.2016.
I lavori sul fabbricato, inoltre, devono essere iniziati (non necessariamente pagati) prima del pagamento per i mobili e gli elettrodomestici.
Non è necessario che i lavori di ristrutturazione siano iniziati prima del 06.06.2013 o del 26.06.2013, che siano terminati prima del pagamento dei mobili o dei grandi elettrodomestici ovvero che terminino entro la fine di quest’anno. L’importante è che siano iniziati prima del pagamento per i mobili e gli elettrodomestici, perché la norma agevolativa parla di «ulteriori spese documentate e sostenute» rispetto ai lavori sul fabbricato (circolare 29/E/2013).
Mobili e interventi edili rilevanti
I lavori edili, detraibili al 50% ai sensi dell’articolo 16-bis del Tuir, che costituiscono una condizione per poter beneficiare del bonus mobili, sono le manutenzioni straordinarie (ordinarie, solo su parti comuni condominiali), i restauri e risanamenti conservativi, le ristrutturazioni edilizie, le ricostruzioni o ripristini di immobili danneggiati da eventi calamitosi e gli acquisti di abitazioni facenti parte di fabbricati completamente ristrutturati.
Anche quest’ultima spesa è rilevante, nonostante non fosse stata elencata tra gli interventi interessati nella prima versione delle Faq pubblicate il 20.01.2015 dall’agenzia delle Entrate (si veda «Il Sole 24 Ore del 21.01.2015»).
Cumulo con detrazione Iva del 50%
Il bonus mobili è usufruibile anche se ci si avvale della nuova detrazione del 50% dell’Iva pagata per «l’acquisto, effettuato entro il 31.12.2016», di abitazioni. Naturalmente, dopo l’acquisto della casa (che per la detrazione dell’Iva deve necessariamente avvenire nel 2016) e prima della fine del 2016, si deve beneficiare della detrazione del 50% per i lavori edili rilevanti per il bonus mobili.
Per il bonus Iva, la norma non pone limiti temporali alla data dei pagamenti delle fatture (che comprendono l’Iva da detrarre al 50%). Pertanto, sembrerebbero agevolabili tutti i pagamenti effettuati dal 01.01.2016 in poi, cioè anche successivamente al 31.12.2016. In realtà, secondo la risposta fornita dall’agenzia delle Entrate a Telefisco 2016, «è necessario che il pagamento dell’Iva avvenga nel periodo di imposta 2016» e non successivamente
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA- TRIBUTIFotovoltaico, fuori rendita solo i pannelli non integrati. Immobili. Dopo i chiarimenti della circolare 2/E/2016 sugli «imbullonati».
I pannelli fotovoltaici che non sono integrati con il fabbricato, non concorrono a formare la rendita catastale. Il comma 21 della legge di Stabilità 2016 (legge 208/2015) esclude dalla determinazione della rendita catastale gli impianti fissi, funzionali allo specifico processo produttivo.
A tal fine, la circolare 01.02.2016 n. 2/E (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri) dell’agenzia delle Entrate ha fornito istruzioni in ordine alla rideterminazione della rendita catastale dei fabbricati strumentali a destinazione speciale e particolare appartenenti alle categorie catastali D ed E.
La nuova norma, infatti, prevede che la determinazione della rendita di questi immobili sia effettuata con il metodo della “stima diretta” tenendo conto del valore del suolo, delle costruzioni e dei soli impianti che accrescono la qualità dell’unità immobiliare, con esclusione, appunto, delle strutture fisse ivi contenute aventi funzioni produttive.
Gli impianti fotovoltaici sono l’esempio più evidente di tale fattispecie, tenuto conto che sono infissi al fabbricato e che già l’agenzia del Territorio aveva previsto che la loro presenza comportava l’aumento della rendita catastale ove il valore del fabbricato, per effetto dell’impianto stesso, fosse aumentato di almeno il 15 per cento.
L’agenzia delle Entrate fornisce ora l’interpretazione secondo cui l’impianto fotovoltaico è ininfluente ai fini della determinazione della rendita quando non ha alcuna funzione strutturale nell’immobile. Viene precisato che sono da ricomprendere nel valore della rendita catastale i pannelli solari (ma il concetto vale anche per quelli fotovoltaici), «integrati» sui tetti o nelle pareti che non possono essere smontati senza rendere inutilizzabile la superficie cui sono connessi. Al fine di definire quando un impianto può definirsi “architettonicamente integrato”, la circolare suggerisce di riferirsi a quanto previsto dall’articolo 2, comma 1, lettera b3), del decreto del ministero dello Sviluppo economico del 19.02.2007 e, in particolare, alle tipologie specifiche 2, 3 e 8 individuate dall’allegato 3 allo stesso decreto.
Pertanto si considerano «integrati» (e quindi devono essere ricompresi nel valore della rendita) gli impianti fotovoltaici i cui moduli sono un tutt’uno con le superfici esterne degli involucri di edifici, fabbricati, strutture edilizie di qualsiasi funzione e destinazione, quali, ad esempio:
- le pensiline, pergole e tettoie in cui la struttura sia costituita dai moduli fotovoltaici e dai relativi supporti;
- le porzioni della copertura di edifici in cui i moduli fotovoltaici sostituiscono i materiali che permettono l’illuminazione naturale di uno o più vani interni;
- le finestre i cui moduli fotovoltaici sostituiscano o integrino le superfici vetrate delle finestre stesse.
In sostanza dovrebbe essere così: se i pannelli fotovoltaici sono appoggiati sul tetto, non influenzano la rendita catastale poiché il fabbricato sarebbe comunque coperto dal sole o dalla pioggia anche in assenza dei pannelli fotovoltaici. Se, invece, i pannelli funzionano anche come tetto e il sottotetto non sarebbe sufficiente a proteggere l’immobile dalle intemperie, allora devono essere inclusi nel calcolo della rendita catastale.
Quindi, si ricorda che rimangono titolari di una rendita catastale propria gli impianti fotovoltaici collocati a terra e quelli collocati sui lastrici solari di proprietà di soggetti diversi dal proprietario del fabbricato. In questa fattispecie, l’Imu continua a essere dovuta assumendo come base di calcolo la rendita originaria
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.02.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati-arbitri, giù le parcelle. Compensi tagliati del 30% per ridurre i costi dell'istituto. Ok del Consiglio di stato, degiurisdizionalizzazione in dirittura con un anno di ritardo.
Gli avvocati che svolgeranno le funzioni di arbitri percepiranno un compenso tagliato del 30%, concorrendo così a ridurre i costi dell'istituto e renderlo più appetibile. Gli arbitrati saranno assegnati ai professionisti iscritti in apposite liste, in via automatica, con rotazione, grazie ad appositi sistemi informatizzati. Gli elenchi saranno formati in base alle aree di specializzazione.
Lo prevede lo schema di decreto del ministro della giustizia «Regolamento recante disposizioni per la riduzione dei parametri relativi ai compensi degli arbitri, nonché disposizioni sui criteri per l'assegnazione degli arbitrati, a norma dell'articolo 1, commi 5 e 5-bis, del decreto-legge 12.09.2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10.11.2014, n. 162».
Il dm, che doveva essere emanato entro il 10.02.2015 (90 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del dl 132/2014 in materia di degiurisdizionalizzazione), giunge dunque con un anno di ritardo e dopo aver ottenuto il 14 gennaio scorso il via libera con osservazioni dal Consiglio di Stato (parere 27.01.2016 n. 142) si avvia alla pubblicazione in G.U..
Il dl 132/2014 ha previsto nel comma 1 dell'unico articolo del proprio Capo I («Eliminazione dell'arretrato e trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti civili pendenti») che in alcune controversie civili (si veda tabella in pagina) le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale. Il giudice, se ci sono le condizioni per procedere, dispone la trasmissione del fascicolo al presidente del Consiglio dell'ordine forense del circondario in cui ha sede il tribunale ovvero la corte di appello per la nomina del collegio arbitrale per le controversie di valore superiore a 100 mila euro e, se le parti lo decidono concordemente, di un arbitro per le controversie di valore inferiore a 100 mila euro.
Gli arbitri sono individuati, insieme dalle parti o dal presidente del Consiglio dell'ordine, tra gli avvocati iscritti da almeno cinque anni nell'albo dell'ordine circondariale che non hanno subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall'albo e che, prima della trasmissione del fascicolo, hanno reso una dichiarazione di disponibilità al Consiglio stesso.
L'articolo 3 del dm ormai in dirittura stabilisce una riduzione del 30% dei parametri relativi ai compensi in favore degli arbitri, previsti dall'art. 10 del dm Giustizia 10.03.2014. n. 55 (determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense). La riduzione, come si legge nella relazione ministeriale, mira a garantire un significativo (e dunque incentivante) effetto di calmiere sui costi che le parti devono sopportare per la remunerazione degli arbitri.
L'altro obiettivo è garantire una effettiva rotazione nell'assegnazione degli incarichi arbitrali. Il dm disciplina la formazione di un elenco degli arbitri, a cura del presidente del Consiglio dell'ordine. Nell'elenco sono iscritti, con suddivisione in aree che coprono lo spettro delle materie civili (si veda tabella in pagina) gli avvocati che hanno reso la relativa dichiarazione di disponibilità documentando le proprie competenze professionali e la sussistenza dei requisiti di anzianità e di onorabilità (iscrizione da almeno cinque anni nell'albo dell'ordine circondariale; non aver subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall'albo).
La designazione dell'arbitro da parte del presidente del Consiglio dell'ordine all'interno dell'area professionale di riferimento, o la sua sostituzione, sono operate in via automatica, con rotazione, da appositi sistemi informatizzati. Il Consiglio di stato chiede tuttavia nel parere che venga meglio specificata la situazione in cui in cui gli arbitri sono individuati concordemente dalle parti, e ciò «anche in considerazione di possibili interferenze tra concorde individuazione dalle parti e assegnazione presidenziale, con incidenza (consapevoli o meno gli interessati) sulla effettiva rotazione delle assegnazioni» (articolo ItaliaOggi del 03.02.2016).

TRIBUTI: Imbullonati, addio Imu e Tasi. Entro il 15 giugno la denuncia di variazione in catasto. FISCALITÀ LOCALE/ Circolare delle Entrate sulle novità della legge di Stabilità.
Imu e Tasi più leggere per le industrie. I macchinari imbullonati non rientrano più nel calcolo della rendita catastale e non sono più soggetti alle imposte locali. Turbine, aerogeneratori, altoforni, grandi trasformatori e altri impianti funzionali al processo produttivo, infatti, non devono essere presi in esame nel processo estimativo di industrie, centrali o stazioni elettriche e non contribuiscono più alla determinazione della rendita catastale dei fabbricati di categoria D ed E. Già da quest'anno la nuova regola comporterà una riduzione delle imposte locali, se i titolari degli immobili interessati presenteranno una dichiarazione di variazione in catasto entro il prossimo 15 giugno.

Lo afferma l'Agenzia delle entrate con la circolare 01.02.2016 n. 2/E.
Dal 1° gennaio scorso come previsto dall'articolo 1 della legge di Stabilità 2016 (208/2015) i macchinari imbullonati non concorrono alla determinazione della rendita catastale per i fabbricati a destinazione speciale iscritti nelle categorie D ed E e non sono più soggetti a imposizione. In particolare, precisa l'Agenzia, l'art. 1, co. 21, «ridefinisce l'oggetto della stima catastale per gli immobili» e prevede quali «siano gli elementi -tipicamente di natura impiantistica- da escludere da detta stima, in quanto funzionali solo allo specifico processo produttivo».
L'Agenzia, però, chiarisce che non si tratta di una norma di interpretazione autentica con effetti retroattivi per gli anni pregressi. Per assicurare un'uniformità di trattamento tra le unità immobiliari già iscritte in catasto e quelle di nuova costruzione, si dà la possibilità di presentare atti di aggiornamento catastale per ricalcolare la rendita degli immobili già censiti «attraverso lo scorporo di quegli elementi che, in base alla nuova previsione normativa, non costituiscono più oggetto di stima catastale». Gli effetti fiscali delle variazioni catastali retroagiscono al 01.01.2016, «laddove presentate in catasto entro il 15.06.2016, ancorché registrate in banca dati in data successiva al predetto termine».
Dal 2016, dunque, sono esclusi dalla stima diretta catastale macchinari, congegni, attrezzature e altri impianti, funzionali al processo produttivo. Ricorda la circolare che non devono più essere considerate «quelle componenti, di natura essenzialmente impiantistica, che assolvono a specifiche funzioni nell'ambito di un determinato processo produttivo e che non conferiscono all'immobile una utilità comunque apprezzabile, anche in caso di modifica del ciclo produttivo svolto al suo interno».
Componenti da non valutare «indipendentemente dalla loro rilevanza dimensionale». Va invece incluso nella stima catastale il suolo, vale a dire la porzione di terreno su cui ricade l'unità immobiliare. Quindi, le aree coperte, il sedime delle costruzioni costituenti l'unità immobiliare, nonché le aree scoperte, accessorie e pertinenziali. Allo stesso modo vanno valutate le costruzioni e gli elementi strutturalmente connessi come, ad esempio, impianti elettrici e di areazione, ascensori, montacarichi e scale mobili. Nel concetto di costruzioni, si legge nella circolare, rientra «qualsiasi opera edile avente i caratteri della solidità, della stabilità, della consistenza volumetrica, nonché della immobilizzazione al suolo, realizzata mediante qualunque mezzo di unione, e ciò indipendentemente dal materiale con cui tali opere sono realizzate».
Con quest'ultimo intervento legislativo viene superata del tutto la previsione contenuta nell'art. 1, comma 244, della legge di Stabilità 2015 (190/2014) che aveva indicato le modalità tecnico-estimative per la determinazione della rendita catastale delle unità immobiliari destinate alle attività industriali e aveva previsto che, nelle more dell'attuazione delle disposizioni relative alla revisione della disciplina del sistema estimativo del catasto dei fabbricati, l'art. 10 del rdl 652/1939 si applicasse in base alle istruzioni fornite dall'Agenzia del territorio con circolare 6/2012.
Questa aveva dettato le linee per individuare e valutare le componenti impiantistiche aventi rilevanza catastale. Per gli impianti eolici, per esempio, in passato l'Agenzia (circolare 14/2007) aveva ritenuto elementi costitutivi edifici, aree, generatori della forza motrice, dighe, canali adduttori o di scarico, rete di trasmissione e di distribuzione merci (articolo ItaliaOggi del 02.02.2016).

VARI: Da oggi cani e gatti sono impignorabili.
Da oggi cani e gatti impignorabili. Entra in vigore la legge n. 221 del 28/12/2015, pubblicata in G.U. n. 13 del 18/01/2016, che con l'art. 77 modifica l'art. 514 cpc, introducendo anche gli animali (n. 6-bis - 6-ter) tra i beni mobili assolutamente impignorabili.
Lo segnala in una nota l'Associazione amici veri-Associazione a tutela degli animali domestici, aderente a Confedilizia. Interessati dall'impignorabilità sono «gli animali di affezione o da compagnia tenuti presso la casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti, senza fini produttivi, alimentari o commerciali» e «gli animali impiegati ai fini terapeutici o di assistenza del debitore, del coniuge, del convivente o dei figli».
Nelle norme vigenti si ritrovano solo alcune definizioni utili per capire se un animale rientra o meno nelle due categorie impignorabili (fermo il requisito che tali animali non devono essere tenuti per fini produttivi, alimentari o commerciali).
Innanzitutto, in base alla legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, gli animali di affezione sono cani e gatti. Inoltre, in base al regolamento Ce 576/13 gli animali da compagnia sono: cani, gatti, furetti e gli invertebrati (escluse le api, i bombi, i molluschi e i crostacei); gli animali acquatici ornamentali definiti dalla direttiva 2006/88/CE; anfibi; rettili; uccelli (esemplari di specie avicole diverse da quelle di cui all'art. 2, direttiva 2009/158/CE); mammiferi (roditori e conigli diversi da quelli destinati alla produzione alimentare).
Ai sensi dell'Accordo 6/2/2003 tra minsalute e regioni in materia di benessere degli animali da compagnia e pet-therapy è animale da compagnia o affezione «ogni animale tenuto, o destinato a essere tenuto, dall'uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi o alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all'uomo, come il cane per disabili, gli animali da pet-therapy, da riabilitazione, e impiegati nella pubblicità. Gli animali selvatici non sono considerati animali da compagnia».
Tale definizione è sovrapponibile e più ampia rispetto a quella della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia di Strasburgo («ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto dall'uomo, in particolare presso il suo alloggio domestico, per suo diletto e compagnia») (articolo ItaliaOggi del 02.02.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Blocco dei dirigenti, i Comuni puntano sull’esclusione. Personale. Applicazione incerta.
Possibilità di assumere dirigenti a tempo indeterminato e non applicazione ai Comuni e alle regioni del vincolo a dichiarare indisponibili i posti dirigenziali vacanti alla data del 15.10.del 2015.
Sono questi i principali chiarimenti che l’Anci sollecita alla Funzione pubblica sulla applicazione delle disposizioni della legge di stabilità 2016 sul personale.
Disposizioni in cui le richieste dell’associazione sono state accolte per gli ampliamenti delle capacità di assunzione offerte ai Comuni nati a seguito di fusioni e alle Unioni e per la conferma delle norme dettate in questa materia per gli enti non soggetti al Patto di stabilità. Le regole ampliano gli spazi di flessibilità nelle amministrazioni di ridotte dimensioni, anche se si deve annotare lo scarso coordinamento delle misure dettate in materia di Unioni, nei cui confronti sono posti sia il tetto di spesa per le nuove assunzioni del 100% dei cessati dell’anno precedente sia il tetto della sostituzione integrale del turn-over.
I chiarimenti richiesti dall’Anci dovrebbero arrivare rapidamente, e si registrano aperture sulle interpretazioni proposte dagli enti locali.
Il dubbio principale riguarda la possibilità di effettuare assunzioni a tempo indeterminato di dirigenti da parte degli enti locali e delle regioni. Il dubbio nasce dal fatto che la legge, al comma 228, nel limitare al 25% del risparmi derivanti dalle cessazioni dell’anno precedente il tetto di spesa per le assunzioni a tempo indeterminato, stabilisce che esse riguardino il «personale di qualifica non dirigenziale». Non essendo state abrogate le disposizioni che fissavano in una misura più elevata il tetto di spesa per le nuove assunzioni, l’Anci ritiene che il nuovo limite non operi per le assunzioni dei dirigenti, per i quali sono da ritenere di conseguenza confermati i tetti più elevati previsti dalla precedente normativa.
La seconda incertezza è sull’ambito di applicazione del comma 219 che impone di considerare indisponibili gli incarichi dirigenziali non coperti alla data del 15.10.2015. Se è vero che la disposizione prevede l’applicazione a tutte le Pa, l’Anci punta a escludere dal raggio d’azione le regioni e agli enti locali. Gli argomenti non mancano.
In primo luogo, esiste una norma specifica per queste amministrazioni, il comma 221, che detta peraltro solo vincoli di principio. I principi affermati in modo consolidato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, poi, ribadiscono che i vincoli dettati a regioni ed enti locali devono lasciare loro ampia autonomia nelle modalità di applicazione. C’è poi il riferimento legislativo alle amministrazioni che hanno effettuato le razionalizzazioni previste dal Dl 95/2012, cioè le sole amministrazioni statali, e il richiamo alla dirigenza di prima e seconda fascia che esiste solamente nelle amministrazioni statali.
Si può ritenere acquisita la lettura per cui i vincoli dettati alla dirigenza non si applicano al conferimento di incarichi dirigenziali ai titolari di posizione organizzativa negli enti privi di dirigenti: il riferimento legislativo va infatti a coloro che sono inquadrati con il contratto dei dirigenti.
Rimangono aperti i dubbi sulla interpretazione della sezione autonomie della Corte dei Conti (deliberazione n. 27/2015), in base alla quale gli enti non devono avere aumentato rispetto al triennio 2011/2013 l’incidenza della spesa del personale sulla spesa corrente: una lettura che blocca le amministrazioni locali che hanno ridotto la spesa d’esercizio.
In materia di assunzioni si deve considerare acquisita la possibilità di continuare a utilizzare i resti derivanti dalla mancata integrale utilizzazione delle capacità assunzionali del triennio precedente: il riferimento del comma 228 ai soli spazi offerti per il 2016 non è infatti accompagnato dall’abrogazione della relativa disposizione.
Si deve infine ritenere certo che i Comuni cd virtuosi in cui il rapporto tra spesa del personale e spesa corrente è inferiore al 25% possano nel 2016 disporre di una capacità assunzionale che arriva al 100% dei risparmi derivanti dalle cessazioni, in quanto la disapplicazione di questo regime di favore opera solamente per gli anni 2017 e 2018
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.02.2016).

VARI: Dalle omesse ritenute alle false dichiarazioni, sanzioni pesanti. Il dlgs di depenalizzazione in vigore dal 6 febbraio cambia le regole per i datori di lavoro.
Reati cancellati ma sanzioni più onerose: è questo l'effetto prodotto dal decreto legislativo 15.01.2016 n. 8 che, in attuazione della legge delega n. 67/2014, entrerà in vigore il prossimo 6 febbraio e che degrada alcune rilevanti fattispecie criminose a illecito amministrativo.
In attesa delle prevedibili istruzioni ministeriali, ecco il quadro delle novità riguardanti la disciplina dei rapporti di lavoro.
In linea generale il decreto prevede una generica depenalizzazione di tutte le violazioni (non soltanto riferibili al mondo del lavoro ma anche ad altri e diversi settori) per le quali è prevista la sola pena della multa o dell'ammenda.
Sono pure coinvolti nel processo di depenalizzazione i reati che, nelle ipotesi aggravate, sono puniti con la pena detentiva sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria. In tal caso, le ipotesi aggravate vanno considerate fattispecie autonome di reato.
Il provvedimento fa espressamente salvi dalla trasformazione in illeciti amministrativi alcuni reati socialmente deplorevoli in materia di igiene e sicurezza (elencati nell'allegato al provvedimento) come quelli previsti dal dlgs n. 81/2008 (testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), dalla legge n. 257/1992 (norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto) e dalla legge n. 1045/1939 (condizioni per l'igiene e l'abitabilità degli equipaggi a bordo delle navi mercantili nazionali).
L'intervento di depenalizzazione, quindi, implicitamente coinvolge:
• le esternalizzazioni di manodopera e le attività di ricerca e selezione del personale disciplinate dal dlgs n. 276/2003 attuativo della legge Biagi;
• alcuni adempimenti nei riguardi degli enti e istituti previdenziali quali il rilascio di false dichiarazioni o atti fraudolenti finalizzate a ottenere prestazioni previdenziali, i trattamenti di disoccupazione in edilizia e le prestazioni economiche per malattia e per maternità;
• alcune violazioni relative alle malattie professionali previste nel Tu degli infortuni sul lavoro (dpr n. 1124/1965) tra cui, a titolo esemplificativo e non esaustivo, l'art. 139 (riguardante l'obbligo, per il medico di effettuare la denuncia delle malattie professionali) e quelle contenute negli artt. 175 e 176 (contenenti le disposizioni per la silicosi e l'asbestosi);
• le violazioni riguardanti il collocamento obbligatorio dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi previste dalla legge n. 686/1961;
• le violazioni riguardanti la parità di trattamento tra uomo e donna previste dal dlgs n. 198/2006.
Per quanto riguarda il versamento delle ritenute previdenziali, l'art. 3, comma 6, del dlgs n. 8/2016 interviene, inoltre, sostituendo il testo dell'art. 2, comma 1-bis, del dl n. 463/1983 (convertito con modificazioni nella legge n. 638/1983) che contiene le sanzioni previste in caso di omesso versamento, da parte del datore di lavoro, della quota di contributi previdenziali a carico dei lavoratori (ivi compresi quelli relativi ai co.co.co. iscritti alla gestione separata ex legge n. 335/1995).
L'originaria disposizione puniva con la reclusione fino a 3 anni e con la multa fino a 1.032 euro il datore di lavoro che operava le ritenute previdenziali previste dalla legge sulle retribuzioni dei suoi dipendenti, senza provvedere al conseguente versamento all'Inps.
Il testo novellato dal decreto distingue la sanzione in base al valore dell'omissione: se l'importo non versato resta nel limite di 10 mila euro per anno, al trasgressore si applicherà una mera sanzione amministrativa da 10 mila a 50 mila euro; viene, invece, confermata la sanzione penale della reclusione fino a 3 anni congiunta alla multa fino a euro 1.032 in caso di omessi versamenti che eccedono la soglia annua di 10 mila euro.
Si fa presente che per questa particolare violazione il datore di lavoro non è comunque punibile (né penalmente né amministrativamente) se versa quanto dovuto entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'accertamento della violazione.
Nella tabella si elencano le ipotesi di prossima depenalizzazione che, con maggiore frequenza, si possono verificare nell'ambito della gestione dei rapporti di lavoro.
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Reati non definiti, effetto retroattivo. Alle nuove sanzioni si applicano le disposizioni previste dalla legge n. 689 del 1981.
Pur entrando in vigore il prossimo 6 febbraio, le nuove sanzioni avranno efficacia retroattiva. Poiché, difatti, il dlgs n. 8/2016 interviene nell'ambito della disciplina penale, vige in proposito il principio del favor rei secondo il quale se la legge in vigore al momento in cui è commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni diverse, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo per effetto di sentenza o decreto irrevocabili.
Il secondo comma dell'art. 8 del decreto precisa, peraltro, che se i procedimenti penali per i reati così depenalizzati sono stati definiti prima del 6 febbraio con sentenza di condanna o decreto, il giudice dell'esecuzione procederà alla revoca del relativo provvedimento dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato e, per effetto dell'abolitio criminis prevista dall'art. 2 del codice penale, travolgerà anche il giudicato e gli effetti penali della condanna, adottando i conseguenti provvedimenti in ossequio a quanto previsto dall'art. 667, co. 4, del codice di procedura penale.
Per i procedimenti penali non ancora definiti al 6 febbraio p.v., invece, l'autorità giudiziaria, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, trasmetterà all'autorità amministrativa competente gli atti delle violazioni depenalizzate (salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data). In questo caso l'art. 9, comma 4, del decreto prevede che l'autorità amministrativa così interessata proceda alla notifica degli estremi della violazione al trasgressore e all'eventuale obbligato in solido entro 90 giorni dalla ricezione degli atti (per i soggetti residenti in Italia) ovvero entro 370 giorni (per i residenti all'estero).
In questi casi l'art. 9, comma 5, del decreto prevede che, per estinguere il procedimento sanzionatorio pendente, il trasgressore paghi una sanzione pari alla metà di quella edittale (oltre alle spese del procedimento) entro 60 giorni dalla notificazione della violazione. A proposito di competenza, l'art. 7, comma 1, precisa che l'autorità amministrativa deputata a irrogare le sanzioni amministrative così depenalizzate sia la stessa che poteva accertare i previgenti reati quindi, nei casi di che trattasi, le direzioni territoriali del lavoro (a breve ispettorati territoriali del lavoro); analogo discorso vale ovviamente per la trasmissione del rapporto previsto in caso di mancato pagamento ai sensi dell'art. 17 della legge n. 689/1981.
Per quanto riguarda le regole e le modalità con le quali procedere all'applicazione delle sanzioni amministrative così depenalizzate, l'art. 6 del decreto in esame richiama i principi contenuti nella legge n. 689/1981 (es. contestazione e notificazione, pagamento in misura ridotta, presentazione degli scritti difensivi, audizione, emissione dell'ordinanza, opposizione all'ordinanza-ingiunzione, pagamento rateale della sanzione, prescrizione quinquennale ecc.).
In linea generale si ritiene, inoltre, applicabile a tali sanzioni la procedura premiale della diffida obbligatoria prevista dall'art. 13 del dlgs n. 124/2004. Al riguardo, tuttavia, sarà opportuno attendere le prevedibili indicazioni che perverranno da parte della direzione generale dell'attività ispettiva del ministero del lavoro soprattutto per alcune violazioni (si pensi ad esempio alle illecite esternalizzazioni) per le quali si riscontrano profili di criticità connessi alla possibilità di sanare materialmente le inosservanze anteriormente commesse.
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La prescrizione obbligatoria.
Per tutti i reati contravvenzionali non depenalizzati si continuerà ad utilizzare l'istituto della prescrizione obbligatoria. Si tratta di un provvedimento impartito dal personale ispettivo nell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, conseguente all'accertamento di violazioni che costituiscono reato e si applica non soltanto quando l'inadempienza può essere sanata, ma anche nelle ipotesi di reato a «condotta esaurita» (vale a dire nei reati istantanei, con o senza effetti permanenti), nonché nelle fattispecie in cui il reo abbia autonomamente provveduto all'adempimento degli obblighi di legge sanzionati precedentemente all'emanazione della prescrizione.
In origine l'istituto riguardava solo i reati in tema d'igiene e sicurezza del lavoro; successivamente questo istituto è stato esteso a tutti i reati contravvenzionali in materia di lavoro e legislazione sociale puniti con la sola ammenda o con l'ammenda in alternativa all'arresto. La finalità è quella di eliminare i pericoli gravi e immediati per la sicurezza o per la salute dei lavoratori anche mediante l'individuazione in positivo delle misure atte a garantire la regolarizzazione. Le autorità legittimate ad emettere questo provvedimento sono:
- per le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza, gli organi di vigilanza delle Asl e il personale ispettivo del minlavoro;
- per le contravvenzioni in materia di lavoro e legislazione sociale, il personale ispettivo delle direzioni territoriali del lavoro.
La prescrizione è definita «obbligatoria» in quanto deve essere formulata in ogni caso venga accertata, da parte dell'organo preposto, una violazione contravvenzionale punita con l'ammenda o con l'ammenda in alternativa all'arresto. Resta l'obbligo, in capo all'accertatore, di riferire all'autorità giudiziaria la notizia di reato ai sensi dell'art. 347 cpp.
Con la prescrizione l'ispettore impartisce al contravventore, con atto scritto, le direttive per porre rimedio alle irregolarità riscontrate, fissando un termine (max. 6 mesi) per la regolarizzazione. Entro 60 gg. dalla scadenza del termine, l'organo di vigilanza verifica se la violazione è stata eliminata nei modi e nei termini indicati.
In caso di ottemperanza il procedimento sanzionatorio si chiude col pagamento, entro 30 gg., di una sanzione amministrativa pari a un quarto del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione ed il reato si estingue. In caso di non ottemperanza, viene data, entro 90 gg., comunicazione dell'inadempimento all'A.G. e al contravventore stesso e il procedimento penale (sospeso) riprende il suo corso (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.02.2016).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Siti UNESCO – Tutela – Disciplina – Previsione di una più stringente tutela – Questione di legittimità costituzionale – Inammissibilità.
Nel nostro ordinamento i siti UNESCO non godono di una tutela a sé stante, ma, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il sistema vigente, che si prefigge dichiaratamente l’osservanza dei trattati internazionali in materia (art. 132, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio), appresta anzitutto una tutela di fonte provvedimentale, laddove essi rientrino nelle categorie individuate dall’art. 136, comma 1, del codice, tra cui vi sono, appunto, i centri e i nuclei storici (lettera c) e le bellezze panoramiche o belvedere da cui si goda lo spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di apposizione di vincolo in sede di pianificazione paesaggistica (art. 134, comma 1, lettera c, del codice), come si evince anche dall’art. 135, comma 4, ove è previsto che «Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati alla tutela di fonte legale di cui all’art. 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, se e nella misura in cui siano riconducibili alle relative categorie tipologiche.
In presenza di un così articolato sistema di tutela (con effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del vincolo, sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità e trattamento sanzionatorio), una più stringente tutela paesaggistica (ad esempio, attraverso la previsione dei siti UNESCO tra i beni paesaggistici sottoposti a vincolo ex lege) non appare in alcun modo costituzionalmente necessitata, essendo riservata al legislatore la valutazione dell’opportunità di una più cogente e specifica protezione dei siti in questione e delle sue modalità di articolazione
(massima tratta da www.ambientediritto.it).
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Considerato in diritto.
1.− Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con ordinanza del 30.01.2014, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2014, ha sollevato, in riferimento all’art. 9 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), «laddove, nel prevedere la deroga al regime di autorizzazione paesaggistica per tutte le zone A e B del territorio comunale, tali classificate negli strumenti urbanistici vigenti alla data del 06.09.1985, non esclude da tale ambito operativo di deroga le aree urbane riconosciute e tutelate come patrimonio UNESCO».
2.− Con tre successive ordinanze del 13.03.2014, iscritte ai nn. 176 e 239 del registro ordinanze 2014 e al n. 86 del registro ordinanze 2015, il TAR per la Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (d’ora in avanti «codice dei beni culturali e del paesaggio» o «codice»), con riferimento agli artt. 9 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (d’ora in avanti «Convenzione UNESCO» o «Convenzione»), firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia con legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972).
Con queste ordinanze il rimettente ha anche sollevato, con riferimento ai medesimi parametri, questione di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, nella parte in cui non prevede tra i beni paesaggistici sottoposti a vincolo ex lege i siti tutelati dalla Convenzione (d’ora in avanti «siti UNESCO»), ovvero degli artt. 134, 136, 139, 140 e 141 del codice, nella parte in cui non prevedono per i medesimi siti un obbligo in capo all’amministrazione di apposizione in via provvedimentale del vincolo paesaggistico.
3.– Va disposta la riunione dei giudizi, attesa la parziale coincidenza dei parametri e dell’oggetto degli atti di rimessione.
4.– Le questioni sollevate con le ordinanze iscritte ai nn. 176 e 239 del 2014 e al n. 86 del 2015 sono inammissibili in ragione della loro alternatività irrisolta o “ancipite” (sentenze n. 248 e n. 198 del 2014, n. 87 del 2013, n. 328 del 2011, n. 230 e n. 98 del 2009; ordinanze n. 41 del 2015, n. 176 del 2013 e n. 265 del 2011).
Le ordinanze, infatti, prospettano le questioni in via alternativa e non subordinata, ed è noto che l’opzione per l’una o le altre non può essere rimessa a questa Corte (sentenze n. 248 del 2014 e n. 87 del 2013).
5.– Anche la questione sollevata con l’ordinanza iscritta al n. 102 del 2014 è inammissibile, in quanto rivolta ad ottenere una pronuncia additiva e manipolativa non costituzionalmente obbligata in una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore (sentenze n. 248 del 2014 e n. 87 del 2013; ordinanze n. 176 e n. 156 del 2013).
5.1.– Il rimettente ritiene che il sistema attuale non garantisca una protezione adeguata ai siti UNESCO, come sarebbe reso evidente dal caso del centro storico di Napoli (inserito nella lista del patrimonio mondiale nel 1995), per il quale il procedimento amministrativo volto alla dichiarazione dell’interesse paesaggistico non risulta ancora portato a compimento; censura, pertanto, l’art. 142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del codice, nella parte in cui non dispone che la deroga ai vincoli legali del comma 1 –deroga prevista per il cosiddetto territorio urbano– non operi per tali siti.
Ciò determinerebbe la violazione dell’art. 9 Cost., atteso che, in presenza del riconoscimento del valore eccezionale del bene paesaggistico con la sua inclusione nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO, la deroga lederebbe il bene paesaggio, che è un valore primario della Repubblica, assoluto e non disponibile.
5.2.– Al solo fine di argomentare la necessità di una più stringente tutela paesaggistica per i beni in oggetto, il rimettente, pur non indicando l’art. 117, primo comma, Cost. quale parametro a sostegno della questione sollevata, fa riferimento agli artt. 4 e 5 della Convenzione UNESCO.
6.− Gli artt. 1 e 2 della Convenzione forniscono la definizione dei due grandi pilastri concettuali su cui essa poggia: rispettivamente, «il patrimonio culturale», che ricomprende monumenti, agglomerati e siti, e il «patrimonio naturale», che ricomprende monumenti naturali, formazioni geologiche e fisiografiche, zone costituenti habitat di specie animali e vegetali minacciate, siti naturali o zone naturali. Queste diverse tipologie di beni (“siti” in senso lato) sono accomunate dalla circostanza di presentare un valore (storico, artistico, estetico, estetico-naturale, scientifico, conservativo, etnologico o antropologico) «universale eccezionale».
Dal canto loro, gli artt. 4 e 5 della Convenzione pongono, sì, degli obblighi in capo agli Stati firmatari, tra cui spicca, per quanto qui rileva, quello di garantire «l’identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale e naturale» situato sul loro territorio, ma lasciano anche liberi gli Stati medesimi di individuare «i provvedimenti giuridici, scientifici, tecnici, amministrativi e finanziari adeguati per l’identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e rianimazione di questo patrimonio».
6.1.–
Nel nostro ordinamento i siti UNESCO non godono di una tutela a sé stante, ma, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il sistema vigente, che si prefigge dichiaratamente l’osservanza dei trattati internazionali in materia (art. 132, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio), appresta anzitutto una tutela di fonte provvedimentale, laddove essi rientrino nelle categorie individuate dall’art. 136, comma 1, del codice, tra cui vi sono, appunto, i centri e i nuclei storici (lettera c) e le bellezze panoramiche o belvedere da cui si goda lo spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di apposizione di vincolo in sede di pianificazione paesaggistica (art. 134, comma 1, lettera c, del codice), come si evince anche dall’art. 135, comma 4, ove è previsto che «Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati alla tutela di fonte legale di cui all’art. 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, se e nella misura in cui siano riconducibili alle relative categorie tipologiche.

6.2.– In presenza di un così articolato sistema di tutela (con effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del vincolo, sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità e trattamento sanzionatorio), la soluzione invocata dal rimettente non appare in alcun modo costituzionalmente necessitata, essendo riservata al legislatore la valutazione dell’opportunità di una più cogente e specifica protezione dei siti in questione e delle sue modalità di articolazione.
Non è un caso, del resto, che con le altre ordinanze di rimessione il TAR Campania abbia individuato diverse sedi per gli interventi invocati –impregiudicata la valutazione di congruenza di ciascuno di essi con il sistema delineato dal codice– e, in definitiva, diversi meccanismi volti a realizzare l’obiettivo di apprestare una tutela rafforzata ai siti UNESCO.
La questione va dunque dichiarata inammissibile, poiché l’invocata addizione si risolverebbe in una modificazione di sistema non costituzionalmente obbligata che, in quanto tale, è preclusa a questa Corte (sentenze n. 10 del 2013 e n. 252 del 2012; ordinanze n. 255, n. 240 e n. 208 del 2012).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 134, 136, 139, 140, 141 e 142, commi 1 e 2, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), sollevate, in riferimento agli artt. 9 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia con legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972), dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con le ordinanze iscritte ai nn. 176 e 239 del registro ordinanze 2014 e al n. 86 del registro ordinanze 2015;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004, sollevata, in riferimento all’art. 9 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con l’ordinanza iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2014 (Corte Costituzionale, sentenza 11.02.2016 n. 22).

EDILIZIA PRIVATAE’ necessario il previo rilascio del permesso di costruire per le canne fumarie, rientrandosi nella categoria dei lavori di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, qualora tali strutture non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell’immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell’immobile.
Mentre l’intervento di mera sostituzione di una canna fumaria, con le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto alla precedente, va considerato di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001, soggetto quindi a dia ai sensi dell’art. 22, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001.
E’ anche vero peraltro che in taluni casi, avuto riguardo all’entità, minima, dell’intervento, si può rientrare nel campo di applicazione di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui sono interventi di manutenzione ordinaria gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
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3. L’appello è fondato e va accolto con riferimento ai motivi sub 2) e 5).
In via preliminare e in termini generali è esatto che nel caso delle canne fumarie la giurisprudenza considera necessario il previo rilascio del permesso di costruire, rientrandosi nella categoria dei lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, qualora tali strutture non si presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile e non possano considerarsi un elemento meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile; e che ritiene occorrente il permesso di costruire tutte le volte in cui venga in rilievo un intervento che, per dimensioni, altezza e conformazione, risulti incidere in modo significativo sul prospetto e sulla sagoma della costruzione sulla quale la canna fumaria è installata; mentre l’intervento di mera sostituzione di una canna fumaria, con le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto alla precedente, va considerato di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001, soggetto quindi a dia ai sensi dell’art. 22, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente perseguibilità dell’intervento compiuto in assenza di titolo in base a quanto prevede l'art. 19 della legge della Regione Lazio 11.08.2008, n. 15 -interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività, in base al quale in casi come quelli suindicati si applica una sanzione pecuniaria da un minimo di millecinquecento euro ad un massimo di 15 mila euro, in relazione alla gravità dell'abuso.
E’ anche vero peraltro che in taluni casi, avuto riguardo all’entità, minima, dell’intervento, si può rientrare nel campo di applicazione di cui all’art. 3 comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui sono interventi di manutenzione ordinaria gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
Questo è senz’altro vero in termini generali.
Peraltro, la giurisprudenza sulla necessità di un titolo edilizio in materia e sulla conseguente legittimità di un’ingiunzione di pagamento di una sanzione pecuniaria nel caso d’intervento effettuato in assenza o in difformità dal titolo edilizio previsto, non sembra poter trovare applicazione nel caso –per vero del tutto peculiare- sottoposto all’esame del collegio.
3.1. Nella fattispecie, riconosciuta, in via preliminare, e doverosamente, la non piena perspicuità della situazione di fatto quale emerge dagli atti e dai documenti di causa, con riferimento alla data dell’adozione del provvedimento impugnato (giugno 2009) sembra(va) venire in questione, come del resto era stato rilevato dal Tar nella fase cautelare (v. sopra, p. 1.), non la già avvenuta realizzazione, sine titulo, di due canne fumarie in acciaio in sostituzione delle preesistenti, quanto invece la mera sostituzione temporanea della parte terminale di una delle due canne fumarie, finalizzata a migliorare la funzionalità della stessa, e ciò in adempimento al provvedimento emesso dal Tribunale civile di Roma in data 03.03.2008 nell’ambito della controversia tra vicini cui si è fatto cenno sopra, al p. 1.; con conseguente ricaduta dell’intervento, diversamente da quanto sostiene la difesa civica, nel campo di applicazione di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), e di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, vale a dire nell’àmbito dell’attività libera.
Più in particolare, la descrizione, oggettivamente generica, dell’intervento sanzionato –posa in opera di elementi modulari in acciaio per la sostituzione di una preesistente canna fumaria presumibilmente in eternit, non chiarisce con sicurezza se si tratta della sostituzione e della rimozione delle canne fumarie per intero o se, invece, ci si riferisca soltanto all’intervento sulla parte terminale –a quanto consta- di una delle due canne fumarie, quella “fessurizzata”, in esecuzione dell’ordine del giudice civile, “essendo in corso di perfezionamento la dia per la sostituzione definitiva delle canne fumarie”. Intervento temporaneo rivolto come detto al miglioramento della funzionalità dell’impianto, in attesa della successiva sostituzione definitiva di ambedue gli impianti.
In questo contesto d’incertezza interpretativa sull’oggetto dell’ingiunzione impugnata, incertezza che la scarna documentazione in atti non fa venire meno, non sembrando d’altronde risolutiva la documentazione fotografica prodotta, appare improprio il richiamo operato dalla difesa civica all’orientamento giurisprudenziale, pacifico, per cui il verbale della polizia municipale fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza dell’atto dal pubblico ufficiale che lo ha formato, delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
Qui infatti viene in rilievo la diversa questione dell’interpretazione da attribuire all’ingiunzione impugnata, se cioè essa riguardi solo la parte terminale o la canna fumaria per intero.
Se dunque, come affermano gli appellanti, la posa in opera di elementi modulari in acciaio era da intendersi riferita non alla sostituzione integrale delle canne fumarie ma più limitatamente alla manutenzione della parte terminale della canna fumaria a scopo temporaneo di mantenimento in efficienza e di miglioramento della funzionalità dell’impianto; intervento eseguito nel 2008 in attesa dell’intervento “risolutivo” di cui alla dia del 07.09.2009 e alla comunicazione 31.08.2010 di fine lavori e certificato di collaudo; ne consegue che si fuoriesce dal campo di applicazione di cui all’art. 19 della l.r. n. 15 del 2008. E invero, diversamente da quanto sostiene la difesa civica in memoria, l’intervento sulla parte terminale della canna fumaria non può essere equiparato alla sostituzione integrale della stessa e ben può essere fatto rientrare nella manutenzione ordinaria –attività libera ex art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ben altra cosa, rispetto all’intervento sulla parte terminale della canna fumaria, risulta essere la rimozione e la successiva installazione delle due nuove canne fumarie, che risulta essere stata eseguita nel 2009 previo rituale deposito, presso il competente ufficio comunale, della dichiarazione di inizio di attività (cfr. comunicazione di fine lavori del 31.08.2010).
Di qui l’accoglimento del secondo motivo d’appello, imperniato sui vizi di travisamento dei fatti e violazione degli articoli 3 e 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3.2. Nonostante il carattere risolutivo delle osservazioni esposte sopra, non pare superfluo rilevare come sia inoltre fondato e vada accolto anche il quinto motivo d’appello, imperniato sul difetto di motivazione circa le ragioni per le quali, tra un importo minimo di sanzione applicabile di 1.500 euro e un massimo di 15.000, l’Amministrazione ha stabilito di irrogare la sanzione pecuniaria nella misura –per vero più vicina al limite superiore che a quello inferiore- di euro 10.000.
In base all’art. 19 della l.reg. n. 15 del 2008, infatti, nel caso d’interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività, la sanzione pecuniaria applicabile va da un minimo di € 1.500 a un massimo di € 15.000, in relazione alla gravità dell’abuso.
Nella fattispecie, non sono state minimamente spiegate le ragioni per le quali Roma Capitale ha deciso di applicare la sanzione nella misura di € 10.000; non risultano esplicitati i criteri utilizzati in concreto per quantificare la sanzione nella misura anzidetta. Anche il richiamo alla valutazione economica predisposta dal Servizio Urbanistica con nota n. 39613 del 04.06.2009 non spiega nulla, posto che la nota citata da ultimo si limita a richiamare la tipologia di lavori eseguiti –posa in opera di elementi modulari in acciaio per la sostituzione di una preesistente canna fumaria presumibilmente in eternit, da perseguire ai sensi dell’art. 19 della l.r. n. 15 del 2008, e si limita ad aggiungere in maniera del tutto immotivata importo € 10.000.
Sul punto la sentenza parla, in modo assai generico, di commisurazione della sanzione al valore di quanto abusivamente costruito.
Il difetto di motivazione appare in definitiva manifesto.
In conclusione l’appello va accolto e, per l’effetto, assorbiti gli ulteriori motivi dedotti e non esplicitamente esaminati, in riforma della sentenza impugnata il ricorso di primo grado va accolto e la determinazione impugnata annullata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.02.2016 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASilenzio-assenso per il nulla osta richiesto ad un Ente parco, il Consiglio di Stato rinvia all'Adunanza plenaria.
Il Consiglio di Stato, esaminando la disciplina in materia di nulla osta dell'Ente parco, preso atto che:
l’art 13, comma 1, della legge n. 394 del 1991 stabilisce che il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente parco, da rendersi entro il termine di sessanta giorni dalla richiesta, decorso il quale il nulla osta si intende rilasciato;
l’art. 20, comma 1, della legge n. 241 del 1990 prevede che nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'art. 2, commi 2 o 3, della stessa legge n. 241 del 1990, il provvedimento di diniego ovvero non procede con la convocazione della conferenza di servizi ai sensi del comma 2 dello stesso art. 20;
l'art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990 stabilisce tuttavia che la disciplina di cui allo stesso articolo non si applica agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e l'ambiente;
fra le suddette disposizioni (art. 13 legge n. 394 del 1991 e art. 20 legge n. 241 del 1990) intercorre un’antinomia, per sciogliere la quale le Sezioni del Consiglio di Stato hanno fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal modo a soluzioni opposte;
ha disposto il deferimento della questione all'Adunanza Plenaria
(commento tratto da http://camerainsubria.blogspot.it).
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1. La società To.Im. ha acquistato nel Comune di Montecompatri dei terreni, confinanti con altri destinati dal piano particolareggiato c.d. “Molare” ad area direttamente edificabile con destinazione residenziale, con possibile rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di un complesso commerciale-residenziale.
In relazione alle superfici acquistate (in parte destinate a verde pubblico, in parte edificabili, ma con diritti edificatori ceduti ai terreni confinanti), in data 05.04.2012 i proprietari dell’epoca, in seguito danti causa della società, hanno presentato un programma integrato di intervento -in variante sia del P.R.G. che del P.P.- per la variazione della destinazione da verde pubblico a residenziale e la realizzazione di un ulteriore complesso commerciale-residenziale.
L’Ente parco regionale dei Castelli romani, nel perimetro del quale ricadono alcuni dei terreni interessati dall’intervento, previo preavviso di rigetto ha negato il proprio nulla-osta con atto n. 6081 del 10.12.2013.
La società ha impugnato il provvedimento, sostenendo che questo sarebbe stato adottato decorso il termine di sessanta giorni dalla ricezione della relativa richiesta, previsto dal combinato disposto dell’art. 28, comma 1, della legge della Regione Lazio 06.10.1997, n. 29, e dall’art. 13, comma 1, della legge 06.12.1991, n. 394. Si sarebbe dunque formato il silenzio-assenso, rispetto al quale l’atto adottato dall’Ente non avrebbe i requisiti formali e sostanziali dell’atto di autotutela. Il provvedimento sarebbe inoltre viziato per vizio di motivazione, difetto di istruttoria e di motivazione.
Con sentenza 06.08.2014, n. 8744, il TAR per il Lazio, sez. II-quater, ha respinto il ricorso. Il Tribunale regionale ha ritenuto che, a fronte delle oscillazioni giurisprudenziali, fosse decisiva nel senso della necessità del provvedimento espresso, trattandosi di immobile sottoposto a vincolo ambientale e paesistico, la recente modifica apportata all’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. testo unico dell’edilizia) dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, nella legge 09.08.2013, n. 98). Nella specie, inoltre, mancherebbe tutta la documentazione necessaria, sicché anche per questa ragione il silenzio-assenso non potrebbe darsi per formato. Sarebbero inoltre infondate le ulteriori censure.
La società ha interposto appello contro la sentenza e ha anche formulato una domanda cautelare, che la Sezione ha respinto con ordinanza 19.11.2014, n. 5334.
L’appellante ricostruisce anzitutto la complessa vicenda amministrativa, che ha coinvolto una pluralità di soggetti pubblici, e ritiene non corretta la lettura che il primo Giudice avrebbe fatto di parte della documentazione versata in atti.
L’appellante deduce i seguenti motivi di ricorso:
   I) errata ricostruzione del quadro normativo vigente. Secondo la prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394 del 1991 sarebbe tuttora in vigore in quanto, in virtù del principio di specialità, non superata dalla successiva novella al comma 4 dell’art. 20 della legge 07.08.1990, n. 241;
   II) in concreto, il silenzio-assenso si sarebbe formato, perché l’Ente parco avrebbe richiesto la documentazione integrativa a termini scaduti e questa non sarebbe stata comunque idonea a congelare alcun termine, perché il nulla-osta paesaggistico richiesto dall’Ente non sarebbe stato un presupposto del parere vertendosi non in tema di rilascio di un permesso di costruire, ma di approvazione di una variante urbanistica;
   III) formatosi il silenzio-assenso, l’Ente avrebbe potuto semmai avviare un procedimento di autotutela in vista di un annullamento d’ufficio a norma dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, mentre l’atto impugnato sarebbe privo dei relativi requisiti, sostanziali e formali;
   IV) violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990. L’Ente non avrebbe preso in considerazione le controdeduzioni svolte dalla società una volta ricevuto il preavviso di diniego. Sul punto il TAR avrebbe omesso qualunque decisione;
   V) difetto di motivazione dell’atto. Il TAR si sarebbe espresso in termini non corretti sulla dedotta genericità e non pertinenza della motivazione; il diniego sarebbe motivato del tutto genericamente e denoterebbe travisamento della natura dell’intervento.
L’Ente parco si è costituito in giudizio per resistere al ricorso, senza svolgere difese.
All’udienza pubblica del 17.11.2015, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.
2. In via preliminare, il Collegio rileva che la ricostruzione in fatto, come sopra riportata e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non è stata contestata dalle parti costituite. Di conseguenza, vigendo la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., devono considerarsi assodati i fatti oggetto di giudizio.
3.
Il primo motivo dell’appello, nel quale si compendia il nucleo essenziale della controversia, consiste nel discusso avvenuto rilascio, per silenzio-assenso, del nulla-osta richiesto all’Ente parco.
Come detto, i termini della questione non sono controversi in punto di fatto. Si discute tuttavia quale sia norma applicabile alla vicenda.
La tesi dell’appellante è debba valere la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 (espressamente richiamata dall’art. 28, comma 1, della legge della Regione Lazio n. 29/1997), il quale stabilisce che “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l'intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato…”.
Il Tribunale territoriale ha ritenuto invece di dover far ricorso alla disposizione generale dell’art. 20 della legge n. 241/1990.
Questa recita: “1. Fatta salva l'applicazione dell’articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all' articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2.

4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge
”.
4. Fra le disposizioni ricordate intercorre un’antinomia, a sciogliere la quale le Sezioni di questo Consiglio di Stato hanno fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal modo a soluzioni opposte.
Un primo criterio di soluzione è stato individuato nel criterio di specialità (sez. VI, 29.12.2008, n. 6591; adesivamente, sez. VI, 17.06.2014, n. 3407).
La tesi sostiene che la speciale forma di silenzio-assenso, prevista a livello statale dall'art. 13 della legge n. 394/1991, non sia stata implicitamente abrogata a seguito dell'entrata in vigore della riforma della legge n. 241 del 90 (disposta con la legge n. 80/2005).
Infatti, il novellato art. 20 della legge n. 241/1990 avrebbe in primo luogo inteso generalizzare l'istituto del silenzio assenso, rendendolo applicabile a tutti i procedimenti a istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi, fatta salva l'applicazione delle ipotesi di denuncia di inizio attività, regolate dal precedente art. 19.
Rispetto a tale generalizzazione, il comma 4 dell'art. 20 avrebbe introdotto alcune eccezioni in determinate materie, tra cui quelle inerenti al patrimonio culturale e paesaggistico e l'ambiente, che riguardano non l'impossibilità in assoluto di prevedere speciali ipotesi di silenzio-assenso, ma l'inapplicabilità della regola generale dell'art. 20, comma 1.
In sostanza, la generalizzazione dell'istituto del silenzio assenso non potrebbe applicarsi in modo automatico alle materie indicate dall'art. 20, comma 4, ma ciò non impedirebbe al legislatore di introdurre in tali materie norme specifiche, aventi a oggetto il silenzio-assenso, a meno che non sussistano espressi divieti, derivanti dall'ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi costituzionali.
Il dato testuale del comma 4 dell'art. 20 sarebbe chiaro: "Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente ..."; l'eccezione riguarderebbe solo "le disposizioni del presente articolo" e non potrebbe essere estesa a disposizioni precedenti, aventi a oggetto il silenzio assenso, rispetto alle quali i commi 1, 2 e 3 dell'art. 20 della legge n. 241/1990 nulla avrebbero innovato.
Tali disposizioni resterebbero, quindi, in vigore e, del resto, se, come appena detto, l'art. 20, comma 4, non impedisce l'introduzione di norme speciali, dirette a prevedere il silenzio-assenso anche nelle materie menzionate dal comma 4, non potrebbe che ritenersi che eventuali norme speciali preesistenti, quali l'art. 13 della legge n. 394/1991, restino in vigore.
Tale tesi, oltre ad essere conforme al dato testuale della disposizione, si porrebbe in linea con la stessa ratio della riforma della legge n. 241/1990, che sarebbe stata quella di generalizzare l'istituto del silenzio-assenso. Sarebbe irragionevole ritenere che tale generalizzazione abbia comportato un effetto abrogante su norme, che tale istituto già prevedevano.
L'unico limite che le disposizioni speciali, quale quella di cui al citato art. 13, dovrebbero rispettare è quello derivante dai principi comunitari e costituzionali.
Tuttavia, sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, non si porrebbe in contrasto con principi costituzionali o con specifiche disposizioni comunitarie la previsione del silenzio-assenso per il rilascio del nulla osta dell'Ente parco, caratterizzato da un tasso di discrezionalità non elevato e destinato a inserirsi, in un procedimento, in cui ulteriori specifici interessi ambientali vengono valutati in modo espresso, come in concreto avvenuto nel caso di specie (autorizzazioni paesaggistiche, idrogeologiche, archeologiche).
5. Un diverso criterio di soluzione privilegia invece il canone cronologico della successione delle leggi nel tempo (sez. IV, 28.10.2013, n. 5188; implicitamente, sez. III, 15.01.2014, n. 119; sez. IV, ord. 19.11.2014, n. 5531).
Secondo questa prospettazione, entrambe le norme avrebbero la medesima natura procedimentale e verrebbero a disciplinare lo stesso istituto operante in materia di edilizia e ambienta; resterebbe, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché questo presupporrebbe un certo grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non potrebbe spingersi sino alla sostanziale identità tra le due discipline in contrasto.
In questo secondo caso, il prospettato conflitto tra due disposizioni, che, seppur con esiti opposti per l'istante, disciplinano il medesimo istituto procedimentale del silenzio-assenso, dovrebbe quindi essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due norme generali e pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore con essa incompatibile (art. 15 disp. prel. cod. civ.).
Non si potrebbe dunque far ricorso al principio di specialità, che postula l'equivalenza tra le norme stesse, ma dovrebbe necessariamente applicarsi il criterio cronologico, in base al quale la legge successiva prevale su quella precedente. Con la conseguenza che l'intervento dell'art. 20 della legge n. 241/1990, come successivamente modificato, determinerebbe che il regime del silenzio-assenso non trovi applicazione in materia di tutela ambientale: il diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre il termine fissato dalla legge precedente, risulterebbe pienamente legittimo in quanto emesso in forza di un potere non consumatosi -in quanto esplicato nella vigenza della nuova legge- ed il cui esercizio, dunque, non presupporrebbe l'annullamento in autotutela di un precedente silenzio-assenso, viceversa inesistente.
6.
Alla luce del contrasto giurisprudenziale rilevato, il Collegio ritiene opportuno sottoporre il ricorso all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, a norma dell’art. 99, comma 1, c.p.a..
Nel fare ciò,
il Collegio non può non segnalare di reputare più fondata la seconda delle alternative prospettate, quella cioè per cui, a risolvere l’antinomia fra le disposizioni richiamate, debba farsi applicazione del criterio cronologico. E ciò, non solo per coerenza con l’orientamento della Sezione, ma anche alla luce delle considerazioni che seguono.
6.1. A sostegno della propria, analoga tesi, il Tribunale regionale ha richiamato anche l’art. 30 del c.d. “decreto del fare” (decreto-legge n. 69/2013, convertito con modificazioni nella legge n. 98/2013) che, modificando la disciplina per il rilascio del permesso di costruire (art. 20, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 – c.d. testo unico dell’edilizia) con l’introdurre il silenzio-assenso sulla domanda relativa, ha fatto salvi “i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui al comma 9”. Il quale comma 9 a sua volta prevede che “qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, il termine di cui al comma 6 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso, il procedimento è concluso con l'adozione di un provvedimento espresso …”.
A questa osservazione l’appellante replica osservando che la nuova norma opera solo in tema di rilascio di permesso di costruire e non con riferimento ad ambiti di diversa natura.
Tale replica è corretta, ma trascura il rilievo che il Collegio reputa debba darsi a un’innovazione normativa che, pur essendo complessivamente rivolta ad ampliare e non a restringere le ipotesi di silenzio-assenso in materia edilizia (come rileva ancora l’appellante), ha significativamente escluso dal proprio ambito gli interventi su beni assistiti da vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. Se dunque la norma non è direttamente applicabile alla vicenda controversa, essa appare tuttavia indice non trascurabile di una linea di tendenza del sistema normativo, dalla quale non sembra lecito prescindere in sede di interpretazione e ricostruzione delle disposizioni vigenti.
6.2. Ad arricchire il quadro d’assieme, va anche rammentata la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo -per violazione dell'art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.- l'art. 1, comma 250, della legge della Regione Campania 15.03.2011, n. 4, nella parte in cui prevede che “l'autorità competente provvede entro sessanta giorni dalla ricezione della domanda. Se detta autorità risulta inadempiente nei termini sopra indicati, l'autorizzazione si intende temporaneamente concessa per i successivi giorni, salvo revoca” (sentenza 18.07.2014, n. 209).
La Corte ha ritenuto che la disposizione impugnata violasse la competenza esclusiva statale in materia di ambiente (alla quale va ascritta la disciplina degli scarichi in fognatura) in quanto determinerebbe livelli di tutela ambientale inferiori rispetto a quelli previsti dalla legge statale, segnatamente dall'art. 124, comma 7, del decreto legislativo n. 152/2006 -che fissa, invece, il termine perentorio di novanta giorni per la concessione dell'autorizzazione- e dall'art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, che esclude l'applicabilità del silenzio-assenso  alla materia ambientale.
Se ne potrebbe dedurre che la Corte legga l’art. 20, comma 4, citato, come portatore di una regola generale di governo della materia ambientale, ostativa all’applicabilità delle disposizioni sul silenzio-assenso, salve forse specifiche e motivate eccezioni, che dovrebbero però apparire chiaramente come tali e non essere affidate a un’operazione esegetica controvertibile e controversa.
6.3. Per completezza, sarà infine opportuno ricordare quella giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui
la formazione di un silenzio-assenso in materia di paesaggio o ambiente si pone in contrasto con i principi comunitari che impongono l'esplicitazione delle ragioni di compatibilità ambientale, con l'adozione di eventuali prescrizioni correttive, sulla base di un'analisi sintetico-comparativa per definizione incompatibile con un modulo tacito di formazione della volontà amministrativa (cfr. sez. V, 25.08.2008, n. 4058).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 09.02.2016 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Vietate le celebrazioni nelle scuole. Per il Tar Emilia Romagna, le religioni si possono solo insegnare.
Niente riti religiosi a scuola, né cattolici né di altre confessioni: l'esperienza religiosa va studiata, ma non praticata in aula. Diversamente si verrebbe a realizzare una condizione di parziarietà, intollerabile per la posizione di equidistanza che lo Stato si è impegnato costituzionalmente a garantire. Una recente decisione del Tar rende attuale, per il sopravvenire delle festività pasquali, il tema della legittimità delle funzioni religiose a scuola.

Il caso. La questione è giunta davanti al TAR Emilia Romagna-Bologna -Sez. I- per iniziativa di alcuni docenti, di genitori di alunni di una scuola di Bologna e di una associazione per la tutela della laicità e della aconfessionalità della scuola pubblica.
Il Tar ha dato ragione ai ricorrenti censurando lo svolgimento di un rito religioso nei locali scolastici con la sentenza 09.02.2016 n. 166.
La benedizione pasquale. Alcune parrocchie avevano ottenuto da un Istituto comprensivo bolognese l'uso di locali nei vari plessi per le funzioni di benedizione pasquale dell'anno scorso rivolte ad alunni genitori e docenti, ancorché in orario extrascolastico; evento che era stato comunicato dal dirigente scolastico con una circolare che di fatto era un invito alla partecipazione per utenti e dipendenti. Da qui il ricorso al giudice amministrativo per valutare la legittimità della delibera del consiglio di istituto.
La distinzione. Il Tar ha distinto le attività di culto religioso espresse nelle pratiche di esercizio del credo confessionale, dai momenti di valenza formativa e culturale che consistono nel diffondere elementi di conoscenza e approfondimento circa le religioni, la loro storia e le relazioni intessute con la comunità, quali contributi per arricchire il sapere dei cittadini ed assecondare il progresso della società.
In quest'ottica, allora, non v'è spazio per riti religiosi nemmeno richiamando l'ipotesi dell'art. 96 del d.lgs. n. 297/94, che consente l'uso di locali scolastici fuori dell'orario di servizio per attività che realizzino la promozione culturale, sociale e civile e la maturazione degli studenti. Gli incontri su temi anche religiosi consentono, infatti, confronti e riflessioni idonee a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o comprimere le relative scelte.
La Costituzione. Il principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato, secondo una costante lettura della Corte costituzionale, non significa indifferenza di fronte all'esperienza religiosa ma impone l'equidistanza e l'imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.
Ciò fa sì che anche la tutela di questa libertà non si risolve nell'esclusione dalle istituzioni scolastiche di tutto ciò che riguarda il credo confessionale della popolazione, purché l'attività formativa degli studenti si giovi della conoscenza di fenomeni portatori di valori non in contrasto con i principi fondanti del nostro ordinamento e non incoerenti con le comuni regole del vivere civile, non potendo la scuola essere coinvolta nella celebrazione di riti religiosi che sono essi sì attinenti unicamente alla sfera individuale di ciascuno e si rivelano quindi estranei ad un àmbito pubblico che deve di per sé evitare discriminazioni.
Le reazioni. L'Usr dell'Emilia Romagna prende le distanze dalla sentenza e con una nota del 12.02.2016 (prot. 1609, diffusa nel sito internet) proprio in relazione alle prossime celebrazioni pasquali annuncia che l'Avvocatura di Stato sta valutando le ragioni di appello (articolo ItaliaOggi del 16.02.2016).
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MASSIMA
Nel merito, va premesso che
il principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato, secondo una costante lettura della Corte costituzionale, non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa ma comporta piuttosto equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.
Ciò fa sì che anche la tutela della libertà religiosa non si risolve nell’esclusione totale dalle istituzioni scolastiche di tutto ciò che riguarda il credo confessionale della popolazione, purché l’attività formativa degli studenti si giovi della conoscenza di simili fenomeni se ed in quanto fatti culturali portatori di valori non in contrasto con i principi fondanti del nostro ordinamento e non incoerenti con le comuni regole del vivere civile, non potendo invece la scuola essere coinvolta nella celebrazione di riti religiosi che sono essi sì attinenti unicamente alla sfera individuale di ciascuno –secondo scelte private di natura incomprimibile– e si rivelano quindi estranei ad un àmbito pubblico che deve di per sé evitare discriminazioni.

Orbene, nel fornire un fondamento normativo alla decisione nella fattispecie assunta l’Amministrazione scolastica invoca le previsioni di cui all’art. 96, comma 4 (“Gli edifici e le attrezzature scolastiche possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile …”) e comma 6 (“Nell’ambito delle strutture scolastiche, in orari non dedicati all’attività istituzionale, o nel periodo estivo, possono essere attuate, a norma dell’art. 1 della legge 19.07.1991, n. 216, iniziative volte a tutelare e favorire la crescita, la maturazione individuale e la socializzazione della persona di età minore al fine di fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”), del d.lgs. n. 297 del 1994; l’Avvocatura dello Stato, in particolare, insiste sul mero atto di disposizione temporanea dell’uso dei locali, per un loro impiego estraneo alle funzioni istituzionali, sì che non si tratterebbe di iniziativa contrastante con i compiti propri dell’istituto scolastico, il quale non sarebbe in alcun modo parte delle attività da svolgersi in quei locali e non ne sarebbe neppure il promotore.
In realtà –osserva il Collegio–
la norma invocata, benché in relazione ad un’utilizzazione della struttura all’infuori dell’orario del servizio scolastico, richiede pur sempre che si tratti di “…attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile …” (comma 4), ovvero non scinde il nesso con le attribuzioni dell’istituzione che ha in uso i locali, ancorandone la destinazione al raggiungimento di obiettivi che sottintendono la piena partecipazione della comunità scolastica, oltre che della collettività in generale, in funzione di una crescita complessiva improntata all’arricchimento del loro patrimonio culturale, civile e sociale; in quest’ottica, allora, non v’è spazio per riti religiosi –riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati–, mentre ben possono esservi occasioni di incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o comprimere le relative scelte.
Che un’invalicabile linea di confine sia a tali fini costituita dalla circostanza che si tratti o meno di un atto di culto religioso è del resto confermato da una pronuncia del giudice amministrativo che, chiamato a stabilire se dovesse riconoscersi alla visita pastorale dell’Ordinario diocesano presso le comunità scolastiche un effetto discriminatorio nei confronti dei non appartenenti alla religione cattolica, ha rilevato come, alla luce della definizione contenuta nell’art. 16 della legge n. 222 del 1985, non si trattasse di attività di culto o di cura delle anime ma piuttosto di testimonianza culturale tesa ad evidenziare i contenuti della religione cattolica in vista di una corretta conoscenza della stessa, così come sarebbe stato nel caso di audizione di un esponente di un diverso credo religioso o spirituale (v. Cons. Stato, Sez. VI, 06.04.2010 n. 1911).
Nella fattispecie, al contrario, è stato autorizzato un vero e proprio rito religioso da compiersi nei locali della scuola e alla presenza della comunità scolastica, sì che non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 96, comma 4, del d.lgs. n. 297 del 1994, e neppure quella di cui al successivo comma 6, riferito al ben diverso àmbito delle iniziative disocializzazione e stimolo della maturazione degli studenti per “…fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”.
Né un fondamento normativo può l’Amministrazione scolastica rinvenire nella disposizione di cui all’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 567 del 1996 (“Le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, nell’ambito della propria autonomia, anche mediante accordi di rete ai sensi dell’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 08.03.1999, n. 275, definiscono, promuovono e valutano, in relazione all’età e alla maturità degli studenti, iniziative complementari e integrative dell’iter formativo degli studenti, la creazione di occasioni e spazi di incontro da riservare loro, le modalità di apertura della scuola in relazione alle domande di tipo educativo e culturale provenienti dal territorio, in coerenza con le finalità formative istituzionali”).
A fronte della previsione per cui “le iniziative complementari (…) si inseriscono negli obiettivi formativi delle scuole …” (comma 2) e “le iniziative integrative sono finalizzate ad offrire ai giovani occasioni extracurricolari per la crescita umana e civile e opportunità per un proficuo utilizzo del tempo libero …” (comma 3),
va ribadito che le attività di culto religioso attengono alle pratiche di esercizio del credo confessionale di ciascun individuo e restano confinate nella sfera intima dei singoli, mentre una rilevanza culturale, non lesiva della libertà religiosa e non incompatibile con il principio di laicità dello Stato –quindi non escludente quanti professano una fede religiosa diversa o sono atei–, hanno tutte le attività che, nel diffondere elementi di conoscenza e approfondimento circa le religioni, la loro storia e le relazioni nel tempo intessute con la comunità, contribuiscono ad arricchire il sapere dei cittadini e ad assecondare in tal modo il progresso della società.

ESPROPRIAZIONE: L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo.
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1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal provvedimento reso dal commissario ad acta -nominato in sede di esecuzione di un giudicato- recante, nella sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 08.06.2011, n. 327 -Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità– (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.

1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza irrevocabile del Tar per la Puglia - sede staccata di Lecce, Sezione I, n. 3342 del 19.11.2008 che, in accoglimento del ricorso proposto dalla Signora Ca.Ma.:
a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un appezzamento di terreno (di proprietà dell’istante) in giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che, sebbene avesse disposto l’occupazione d’urgenza dell’area, non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;
b) ha condannato il comune a restituire l’area, ovvero a concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.;
c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna fase ed i relativi adempimenti, formulando minute prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli accessori;
d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per l’esecuzione della decisione;
e) ha condannato il comune alla refusione delle spese di lite.
...
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA ED I SUCCESSIVI SVILUPPI PROCESSUALI.
4.1. Con ordinanza n. 3347 del 03.07.2014, la IV Sezione del Consiglio di Stato:
a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica, l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43 e poi dall’art. 42-bis, t.u. espr.;
b) ha dato atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità che in sede di esecuzione del giudicato il giudice amministrativo, direttamente o per il tramite dell’intervento del commissario ad acta, possa o meno ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art. 42-bis, ovvero limitarsi a sollecitare l’esercizio di tale potere, fissando all’uopo un termine, scaduto il quale non rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;
c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13.01.2014, nn. 441 e 442);
d) all’esplicito scopo di meglio garantire l’armonico coordinamento (ed il rispetto) dei principi della effettività della tutela giurisdizionale, da un lato, e dell’autorità del giudicato, dall’altro, ha sottoposto all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero <<se nella fase di ottemperanza –con giurisdizione, quindi, estesa al merito– ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42-bis t.u. espr.>>.
4.2. Con ordinanza dell’Adunanza plenaria -n. 28 del 15.10.2014– è stato sospeso il presente giudizio in attesa della definizione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n. 71 del 30.03.2015 -pubblicata nella G.U., 1° s.s., 06.05.2015 n. 18– la Corte costituzionale, in relazione ai vari parametri evocati, ha dichiarato in parte inammissibile, in parte infondata, ed in parte non fondata ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis.
4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito con l’istanza depositata in data 01.06.2015 dalla difesa della signora Ma. ed alla camera di consiglio dell’08.10.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI EFFETTI DELLA ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.
5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 42-bis, t.u. espr. -Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico– come introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011 convertito con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: <<1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.
5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo
.>>
5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile ricostruire (limitandosi a quanto di interesse) il quadro dei condivisibili principi che, successivamente all’ordinanza di rimessione della IV Sezione, sono stati elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71 del 2015 cit.), dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19.01.2015 e n. 22096 del 29.10.2015) e dal Consiglio di Stato (cfr. sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19.10.2015; n. 4403 del 21.09.2015; n. 3988 del 26.08.2015; n. 2126 del 27.04.2015; n. 3346 del 03.07.2014), all’interno della consolidata cornice di tutele delineata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato fenomeno delle <<espropriazioni indirette>> del diritto di proprietà o di altri diritti reali (cfr., ex plurimis e da ultimo, con riferimento all’ordinamento italiano, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 03.06.2014, Rossi e Variale; Sez. II, 14.01.2014, Pascucci; Sez. II, 05.06.2012, Immobiliare Cerro; Grande Camera, 22.12.2009, Guiso; Sez. II, 06.03.2007, Scordino; Sez. III, 12.01.2006, Sciarrotta; Sez. II, 17.05.2005, Scordino; Sez. II, 30.05.2000, Soc. Belvedere alberghiera; Sez. II, 30.05.2000, Carbonara e Ventura).
5.3.
In linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene- che viene a cessare solo in conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile) si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu
(Sez. IV, n. 3988 del 2015 e n. 3346 del 2014); dunque a condizione che:
  
I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;
   II) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;
   III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30.06.2003) perché solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il <<….giorno in cui il diritto può essere fatto valere>>;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.

5.4.
Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit. costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del 2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735 del 2015 cit.), giova evidenziare che:
a) la disposizione introduce una norma di natura eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione tradizionale che considera a tale stregua le norme limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con particolare riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un potere ablatorio.
Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un bene altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della consequenzialità logica della disciplina generale (europea e nazionale) di riferimento in materia di acquisizione coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con essa attraverso una discriminazione –pure sancita dalla legge- del trattamento giuridico di situazioni soggettive che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del valore costituzionale della funzione sociale della proprietà privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce il fondamento del potere attribuito alla P.A.), secondo un approccio metodologico basato su una visione sistemica, multilivello e comparata della tutela dei diritti, a sua volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel suo complesso, quale risultante dalla interazione fra norme (interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e sovranazionali);
b)
l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;
c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale -rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose– basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio (perché non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di alternative non può mai consistere nella generica <<…eccessiva difficoltà ed onerosità dell’alternativa a disposizione dell’amministrazione..>>), per la tutela di siffatte imperiose esigenze pubbliche;
d) sono coerenti con questa impostazione:
   I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto di acquisizione sotto il profilo della misura dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass. civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u. espr.), maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare autonome poste di danno;
   II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei conti in una vicenda che produce oggettivamente (e indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di responsabilità da accertarsi nelle competenti sedi) un aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza pubblica;
e)
per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto ordinamentale che -in ragione della sussistenza dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto tipico sull’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto- prevede per il proprietario strumenti adeguati di reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito silenzio” (artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio sospettato di illegittimità (o altro giudizio avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come verificatosi nel caso di specie), secondo le coordinate esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del 2015 (in particolare § 6.6.3.);
f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento –valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo- si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);
g) ne consegue che
la scelta che l’amministrazione è tenuta ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis, non concerne l’alternativa fra l’acquisizione autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione e la non acquisizione, in quanto la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico —cioè una mera conseguenza legale della decisione di non acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede procedimentale— ed essa non costituisce, né può costituire, espressione di una specifica volontà provvedimentale dell’autorità, atteso che, nell’adempiere gli obblighi di diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento e non agisce iure auctoritatis;
h) per concludere sul punto utilizzando un argomento esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione di acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo pagamento di una compensazione pecuniaria), introducendo pragmaticamente una regola di second best, da un lato, riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di uso routinario –causa maggiori costi, responsabilità erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della restituzione quale giusta causa di acquisizione del bene, partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta finale, motivazione esigente e rigorosa sulla impossibilità di configurare soluzioni diverse- configurandosi come una normale alternativa all’espropriazione ordinaria: in quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non rappresenta più (per usare il linguaggio della Corte di Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance structurelle dell’ordinamento italiano (rispetto a quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione adottata secondo il canone della <<buona e debita forma>> predicato dal paradigma europeo (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 09.02.2016 n. 2 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIL'obbligo di consegnare il certificato di agibilità grava ex lege sul venditore, in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ., e a ciò consegue che il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore- è giustificato, poiché l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà. di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene.
Nel caso di specie, incontestata la circostanza che al momento della stipula del contratto definitivo il promittente venditore non era in grado di consegnare il certificato di agibilità, risultava legittimo il rifiuto di stipulare dei promissari acquirenti, né gravava su questi ultimi l'onere di allegare la circostanza negativa che il certificato non potesse essere rilasciato, come erroneamente ritenuto dalla Corte d'appello, essendo nell'interesse esclusivo del promittente venditore, ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento, l'allegazione del fatto positivo e contrario, e cioè che il certificato potesse essere rilasciato.
---------------
La consegna del certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incide sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e l'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di datino emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi
.
Sulla base dei principi richiamati e di quelli in tema di inadempimento contrattuale,
non è dubitabile che l'onere di allegazione e di prova della perdurante possibilità di procurare il certificato gravi sulla parte che è tenuta alla consegna.
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1.1. - Il ricorso principale è fondato.
1.2. - Con il primo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1453-1460, 1477, terzo comma, 1490, primo e secondo comma, 2932 cod. civ., nonché vizio di motivazione. I ricorrenti si dolgono che la Corte d'appello abbia ritenuto ingiustificato il loro rifiuto di stipulare il contratto definitivo a fronte della mancata consegna del certificato di agibilità dell'immobile oggetto del trasferimento. La consegna del certificato costituiva prestazione essenziale del promittente venditore, con la conseguenza che erano privi di significato i rilievi della Corte d'appello in ordine alla mancanza assunzione di uno specifico impegno in tal senso da parte del promittente venditore, e alla mancata deduzione, da parte dei promissari acquirenti, dell'impossibilità di ottenere il certificato.
1.3 - La doglianza è fondata.
1.3.1. -
L'obbligo di consegnare il certificato di agibilità grava ex lege sul venditore, in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ., e a ciò consegue che il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore- è giustificato, poiché l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà. di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene (ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 15969 del 2000; sentenza n. 16216 del 2008).
1.3.2. -
Nel caso di specie, incontestata la circostanza che al momento della stipula del contratto definitivo il promittente venditore non era in grado di consegnare il certificato di agibilità, risultava legittimo il rifiuto di stipulare dei promissari acquirenti, né gravava su questi ultimi l'onere di allegare la circostanza negativa che il certificato non potesse essere rilasciato, come erroneamente ritenuto dalla Corte d'appello, essendo nell'interesse esclusivo del promittente venditore, ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento, l'allegazione del fatto positivo e contrario, e cioè che il certificato potesse essere rilasciato.
2. - Con il secondo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e ss., 1218 e ss. cod. civ., nonché vizio di motivazione.
I ricorrenti lamentano il mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno provocato dall'omessa consegna del certificato di abitabilità relativo all'appartamento acquistato con rogito del 05.09.2001, che Orlando si era impegnato a consegnare con scrittura privata in pari data.
La Corte territoriale, infatti, aveva condannato St.Or. a consegnare il certificato o, in alternativa, a rimborsare le spese a tal fine necessarie, ed aveva motivato il rigetto della pretesa risarcitoria sul rilievo che gli appellanti Ca.-Si. non avevano allegato che il certificato fosse stato rifiutato o non potesse essere rilasciato. Oltre all'erronea applicazione dei principi in tema di onere di allegazione, la Corte territoriale non aveva tenuto conto che Orlando non aveva contestato la circostanza che, a distanza ormai di molti anni, non era stata ottenuta l'abitabilità dell'immobile.
A tale ultimo proposito, i ricorrenti precisano che il certificato non è stato rilasciato per difetti di costruzione dell'appartamento, e che pertanto essi sono tenuti a far eseguire a loro spese i lavori necessari.
2.1. - La doglianza è fondata.
La Corte territoriale ha erroneamente escluso che l'accertata mancata consegna del certificato dà abitabilità dell'appartamento integrasse inadempimento contrattuale, ponendo a carico degli acquirenti l'onere di dimostrare che il certificato non potesse essere ottenuto.
2.1.1. - Come già evidenziato nell'esame del precedente motivo,
la consegna del certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incide sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e l'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di datino emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi
(ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 23157 del 2013).
2.1.2. - Sulla base dei principi richiamati e di quelli in tema di inadempimento contrattuale,
non è dubitabile che l'onere di allegazione e di prova della perdurante possibilità di procurare il certificato gravi sulla parte che è tenuta alla consegna.
Nel caso di specie, la parte promittente venditrice non ha dimostrato di poter onorare l'impegno, e quindi sussiste l'inadempimento e, con esso, il relativo danno (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.02.2016 n. 2438).

CONDOMINIOIl parcheggio resta condominiale. Immobili. Va restituito l’oggetto della vendita abusiva del 1987.
Sui parcheggi condominiali non si transige. E anche se sono passati molti anni dalla vendita abusiva il maltolto va restituito ai condòmini.

La sentenza 04.02.2016 n. 2236 della Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha ripercorso una complessa vicenda nata nel 1987. Quasi trent’anni per restituire uno spazio destinato a posti auto.
Due condòmini avevano citato l’acquirente dell’area contesa perché, a loro dire, il venditore (costruttore dello stabile) aveva violato il vincolo pubblico di destinazione relativo a un’area di parcheggio per autovetture nel piano cantinato del condominio, riservandosela in proprietà. La Corte d’appello aveva dato torto all’acquirente e restituito l’area, accertandone il diritto d’uso in capo ai due condòmini ricorrenti, osservando che dal vincolo di legge discende automaticamente un diritto reale d’uso in capo a chi ha comprato le unità immobiliari dell’edificio.
La Cassazione, chiamata in causa dall’acquirente “espropriato”, ha accolto la tesi della Corte d’appello, affermando anzitutto che va confermata la tesi dominante, che prevede l’attribuzione dell’area in uso comune. Poi, sul tema della liberalizzazione della commerciabilità dei parcheggi rispetto alle unità immobiliari condominiali, sorta con la legge 246/2005 ha dichiarato che è possibile «soltanto per il futuro». Quindi, dato che la sottrazione all’uso comune era avvenuta prima del 2005, va applicata la normativa precedente, Inoltre, ha osservato la Cassazione, era stata venduta l’area a parcheggio senza la relativa abitazione.
Infine, anche la libertà di vendita delle aree comunque vigente dal 1967 riguarda solo le parti eccedenti il vincolo e quindi, in base al ricalcolo effettuato, non poteva essere invocata. La Cassazione ha anche condannato l’acquirente dell’area a parcheggio a rifondere le spese di lite ai due condòmini che hanno ottenuto l’area
 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.02.2016).

URBANISTICALa Regione motivi il no alla Via. In Sardegna. Illegittima la lottizzazione di Capo Malfatano.
La discrezionalità della Regione nel decidere se sottoporre o meno alla valutazione di impatto ambientale la lottizzazione non la esonera dal motivare la scelta.
Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 04.02.2016 n. 2198, affermano, in linea con il Consiglio di Stato, l’illegittimità di una serie di atti relativi all’edificazione di una vasta area comprendente una valle, una collina, un promontorio e una costa nella zona di Capo Malfatano in Sardegna.
Un progetto di lottizzazione su vasta scala, finalizzato alla creazione di strutture turistiche, che aveva ottenuto l’autorizzazione della Regione senza una Via preventiva. Contro la decisione del consiglio Stato avevano fatto ricorso la Società iniziative turistiche agricole sarde in liquidazione (Sitas) e la stessa Regione.
Secondo i giudici la scelta di non sottoporre i piani alla Via «si poneva in radicale contrasto con la sua ontologica finalità, che era quella di accertare gli effetti ultimi dell’intero intervento sull’ambiente, nonché di valutarne la compatibilità e/o di suggerire sistemi di “minor impatto”, senza esclusione della cosiddetta opzione zero». La Sitas ha sostenuto in Cassazione che il Consiglio di Stato era andato oltre la sua competenza addossando alla Regione un obbligo di Via nel caso di interventi edilizi di grosse dimensioni, anche se non ricadenti su zone protette, creando così una norma “ex novo” e sostituendosi alla Pubblica amministrazione nel decidere sull’opportunità della Via.
Per la Cassazione però non c’è stata alcuna invasione di campo. La Suprema corte spiega che con il suo verdetto il Consiglio di Stato, non ha innovato il quadro normativo né ha negato la sussistenza del potere discrezionale della Pa di decidere se sottoporre o meno il progetto alla Via. Quello che i giudici amministrativi hanno fatto è ricordare le norme e la giurisprudenza nazionale e comunitaria da tenere presente per orientare il giudizio.
Un parere che deve essere corredato da una motivazione, se non contestuale, a posteriori, su richiesta dell’interessato. Per i giudici la motivazione a sostegno dell’esonero dalla Via è inadeguata
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.02.2016).
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MASSIMA
Col ricorso principale e con il primo motivo del ricorso incidentale la società SITAS e la Regione Autonoma della Sardegna sostengono che nel prevedere la necessità di sottoporre a V.I.A. l'intervento della SITAS, il Consiglio di Stato avrebbe illegittimamente esorbitato dai limiti della sua giurisdizione, sia applicando una norma non esistente ma creata ex novo, implicante l'obbligatorietà della sottoposizione a V.I.A. nel caso d'interventi edilizi di grosse dimensioni seppure non ricadenti in aree naturalistiche protette, e sia esercitando una non consentita giurisdizione di merito, col sostituirsi alla Pubblica Amministrazione nella valutazione discrezionale di sottoporre il progetto edilizio alla procedura d'impatto ambientale, rispetto alla quale tra l'altro l'opzione negativa avrebbe potuto per legge ravvisarsi anche nel mero protratto silenzio dell'Autorità competente ad esprimere la valutazione in questione.
L'assunto delle ricorrenti, presupposto da entrambi i profili in cui si articolano i motivi in esame, ossia l'avere il Consiglio di Stato affermato l'obbligatorietà nel caso della Valutazione d'Impatto Ambientale, è smentito dal contenuto dell'impugnata sentenza.
Tale pronuncia non include, infatti, alcuna affermazione di questo genere e perciò non innova il quadro normativo con indebita invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, ma ribadisce, in linea con le norme applicabili ratione temporis, la sussistenza del potere discrezionale tecnico-amministrativo dell'amministrazione di verifica preventiva dell'assoggettabilità o meno della progettazione a detta valutazione, chiarendo i criteri giuridici che devono orientare il relativo giudizio, alla luce della finalità perseguita dalla norma attributiva del potere, dei valori coinvolti, delle direttive e delle regole normative e giurisprudenziali interne e sovranazionali, nonché affermando la necessità che il parere in questione sia corredato di motivazione, se non contestuale, a posteriori ed a richiesta dall'interessato.
In tale contesto
la pronuncia si limita a stigmatizzare la laconicità e genericità delle argomentazioni espresse dalla PA a sostegno del diniego ed il travisamento dei presupposti di fatto assunti a base dell'espresso giudizio: in sintesi l'inadeguatezza del corredo motivazionale ed istruttorio fondanti il parere di esonero dalla VIA della progettazione, il tutto senza intaccare la sfera di potere di autodeterminazione della PA nella scelta più congrua alla cura dell'interesse pubblico e debitamente mantenendo il sindacato giurisdizionale nell'ambito del riscontro esterno della legittimità dei provvedimenti esaminati (in tema cfr. anche Cass. SU n. 9443 e 23302 del 2011; n. 3622 del 2012) conclusivamente reputati viziati da eccesso di potere, per gli evidenziati vizi intrinseci, sintomatici della loro deviazione dallo scopo della norma attributiva del potere.

APPALTI SERVIZIContro i vandali c'è urgenza. Sì a incarichi affidati direttamente.
Legittimo l'affidamento temporaneo di un appalto a trattativa privata se è necessario evitare atti di vandalismo.

Lo afferma il Consiglio di Stato, V Sez., con la sentenza 03.02.2016 n. 413 sulla scelta di un comune di affidare senza gara temporaneamente la gestione di una piscina comunale.
In primo grado il Tar aveva ritenuto che non v'era motivo di disconoscere la necessità di una diversa modalità di selezione del contraente, consentendo la concorrenzialità tra gli operatori del settore ed evitando l'affidamento senza gara.
Il consiglio di stato ribalta la decisione presa in primo grado premettendo che il sistema di scelta del contraente a mezzo di procedura negoziata senza pubblicazione del bando di cui all'art. 57, comma 2, del codice dei contratti pubblici, rappresenta un'eccezione al principio generale della pubblicità e della massima concorrenzialità tipica della procedura aperta. Ciò comporta, affermano i giudici, che i presupposti fissati dalla legge per la sua ammissibilità devono essere accertati «con il massimo rigore e non sono suscettibili d'interpretazione estensiva».
La norma del codice dei contratti prevede che l'affidamento diretto è consentito nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette, o negoziate previa pubblicazione di un bando di gara. Inoltre, le circostanze invocate a giustificazione della estrema urgenza non devono essere imputabili alle stazioni appaltanti.
Il consiglio di stato individua quindi nella fattispecie concreta oggetto del giudizio proprio quei casi previsti dalla norma e dichiara legittimo l'affidamento temporaneo della piscina comunale, in quanto la valutazione della sussistenza dell'estrema urgenza di salvaguardare la struttura, senza lasciarla inutilizzata con i rischi di vandalismi e di deterioramenti, è derivata da eventi che non possono ritenersi prevedibili e che non sono imputabili nella specie all'amministrazione.
Per il collegio, quindi, non esistono elementi di macroscopica illogicità o di irrazionalità o un travisamento dei fatti. Inoltre, anche la scelta dell'affidatario temporaneo, pure rientrante nell'ambito dei poteri discrezionali dell'amministrazione, non evidenzia l'illogicità o l'irrazionalità della stessa, tenuto conto che l'affidatario risultava essere il preferibile, potenziale, soggetto interessato, al quale affidare la gestione dell'impianto (articolo ItaliaOggi del 12.02.2016).
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MASSIMA
1. Ritiene il Collegio che la fattispecie in esame rientri nell’ambito di quelle descritte dall’art. 57 d.lgs. n. 163/2006, con conseguente fondatezza del primo motivo d’appello, restando quindi assorbito il secondo motivo d’appello per ragioni di economia processuale.
Il sistema di scelta del contraente a mezzo di procedura negoziata senza pubblicazione del bando di cui all'art. 57, comma 2, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rappresenta un'eccezione al principio generale della pubblicità e della massima concorrenzialità tipica della procedura aperta, con la conseguenza che i presupposti fissati dalla legge per la sua ammissibilità devono essere accertati con il massimo rigore e non sono suscettibili d'interpretazione estensiva (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.04.2014, n. 2255).
In base al comma 2, lett. c), di tale previsione normativa, l’affidamento diretto è consentito nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette, o negoziate previa pubblicazione di un bando di gara. Le circostanze invocate a giustificazione della estrema urgenza non devono essere imputabili alle stazioni appaltanti.
2. Nel caso in esame, il Comune di San Sebastiano al Vesuvio ha ritenuto, in via temporanea e facendo salvi gli effetti della decisione del giudizio promosso da Alba Oriens sugli atti di gara, di poter affidare la gestione dell’impianto natatorio all’appellante Circolo Posillipo.
Il Comune, compatibilmente con tale disposizione, ha evidenziato nel provvedimento contestato che tale affidamento si era reso necessario per evitare di far fronte a costi non sostenibili derivanti dal pericolo di un’eventuale “non gestione” della struttura per un tempo apprezzabile e non predeterminabile, con connessa evidente alta probabilità di danni che all’ente sarebbe potuta derivare dall’eventuale danneggiamento degli impianti.
Tale eventualità, circostanziata e verosimile, avrebbe comportato l’esigenza di dover provvedere ai lavori di manutenzione straordinaria per assicurare i relativi adempimenti, funzionali all’affidamento della struttura all’avente titolo, a seguito della procedura di gara impugnata con separato giudizio.
L’Amministrazione, nel valutare i presupposti per l’affidamento senza gara, ha valutato ragionevolmente i presupposti dell’urgenza in vista di effettuare l’affidamento provvisorio della piscina, oggetto di contestazione in questo giudizio.
La valutazione della sussistenza dell’estrema urgenza di salvaguardare la struttura, senza lasciarla inutilizzata con i rischi di vandalismi e di deterioramenti, è derivata da eventi che non possono ritenersi prevedibili e che non sono imputabili nella specie all’Amministrazione.
Non emergono dunque elementi tali da evidenziare una macroscopica illogicità, irrazionalità della stessa, ovvero un travisamento dei fatti.
2. Inoltre, anche la scelta dell’affidatario temporaneo, pure rientrante nell’ambito dei poteri discrezionali dell’Amministrazione, non evidenzia l’illogicità o l’irrazionalità della stessa, tenuto conto che il Circolo Posillipo risultava essere il preferibile, potenziale, soggetto interessato, al quale affidare la gestione dell’impianto.
Infatti, nella procedura di gara conclusa e impugnata dall’appellata Alba Oriens, hanno partecipato vari concorrenti, ma solo ed esclusivamente due di questi, Alba Oriens e il Circolo Posillipo, hanno dimostrato interesse alla gestione dell’impianto, fornendo la comprova dei requisiti dichiarati in sede di partecipazione al bando.
È ragionevole, pertanto, che nell’individuazione d’urgenza di un soggetto cui affidare in via temporanea la gestione dell’impianto natatorio sia stato preferito il Circolo Posillipo, che era già risultato aggiudicatario della predetta gara, proprio in funzione di trasparenza e di tutela della concorrenza, tenuto sempre conto che all’esito del giudizio sulla gara predetta, avrebbe dovuto subentrare il soggetto che ne sarebbe risultato legittimato.
4. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, deve essere respinto il ricorso di primo grado, in quanto infondato.

EDILIZIA PRIVATAL’Amministrazione comunale ha proceduto ad annullare il titolo edilizio a suo tempo rilasciato al ricorrente sulla base di un legittimo presupposto e cioè in ragione del fatto che il ricorrente stesso non è risultato proprietario delle aree su cui insistono le opere assentite, le quali sono invece state realizzate su terreni di proprietà dei controinteressati.
In siffatta situazione l’adozione dell’atto di autotutela si pone come esito sostanzialmente necessitato dell’attività di riesame, mancando il presupposto indefettibile per l’assentimento del titolo edilizio ai sensi dell’art. 11 del DPR n. 380 e in precedenza ai sensi dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977 (possesso di diritto reale sull’area da edificare) e ponendosi la necessità di tutela della posizione dei controinteressati, che risulterebbero altrimenti soggetti ad una sorta di espropriazione della loro proprietà se si acconsentisse a terzi l’edificazione sulla stessa.
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L’art. 4 della legge n. 10 del 1977 (e adesso l’art. 11 del DPR n. 380 del 2001) impone per il rilascio del titolo edilizio la presenza di una specifica legittimazione attiva in capo al richiedente (essere proprietario o titolare di altro diritto sui beni) e impone quindi all’Amministrazione di verificare la sussistenza di detta indefettibile legittimazione, affinché la concessione venga assentita solo a chi ha titolo per richiederla.
Ne consegue che è legittima l’adozione di atto di annullamento d’ufficio di una concessione edilizia rilasciata a favore di soggetto privo della disponibilità dell’area da edificare, stante la sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione di atti che pregiudicano gravemente diritti dominicali di terzi, costituendo interesse pubblico “la essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere adeguata tutela nell’ordinamento rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni”, rispondendo cioè all’interesse pubblico “la rimozione di atti che siano stati emessi sulla base di comportamenti invasivi delle posizioni di terzi”.

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... per l'annullamento della ordinanza del Sindaco n. 47 del 17.04.1997, notificata il 18.04.1997, recante annullamento di concessione edilizia, ed ordine di demolizione delle opere edilizie realizzate in forza di quella e di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale.
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12 – Con il secondo motivo parte ricorrente evidenzia che invero nella specie la concessione edilizia non sarebbe stata necessaria, sul rilievo che l’autorizzazione per la coltivazione della cava contiene in sé anche l’autorizzazione per la realizzazione delle opere edilizie correlate.
La censura è infondata.
È sufficiente sul punto il richiamo al dato normativo, che risulta risolutivo della questione posta, giacché la legge regionale n. 36 del 1980, invocata da parte ricorrente, chiarisce che l’autorizzazione mineraria non già assorbe i titoli edilizi ma costituisce il presupposto per il loro rilascio con riferimento alle opere connesse; si legge infatti al comma 3 dell’art. 8 della legge citata che “per le costruzioni o impianti comunque connessi con le attività autorizzate a norma della presente legge, il provvedimento di autorizzazione costituisce presupposto per il rilascio della concessione prevista dalla legge 28.01.1977, n. 10”.
13 – Da quanto sin qui esposto si evince che l’Amministrazione comunale ha proceduto ad annullare il titolo edilizio a suo tempo rilasciato al ricorrente sulla base di un legittimo presupposto e cioè in ragione del fatto che il ricorrente stesso non è risultato proprietario delle aree su cui insistono le opere assentite, le quali sono invece state realizzate su terreni di proprietà dei controinteressati.
In siffatta situazione l’adozione dell’atto di autotutela si pone come esito sostanzialmente necessitato dell’attività di riesame, mancando il presupposto indefettibile per l’assentimento del titolo edilizio ai sensi dell’art. 11 del DPR n. 380 e in precedenza ai sensi dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977 (possesso di diritto reale sull’area da edificare) e ponendosi la necessità di tutela della posizione dei controinteressati, che risulterebbero altrimenti soggetti ad una sorta di espropriazione della loro proprietà se si acconsentisse a terzi l’edificazione sulla stessa.
Ne consegue che le censure di ordine procedimentale con le quali parte ricorrente fa valere un difetto di adeguata motivazione sulle memorie procedimentali (terzo motivo) e la mancata acquisizione di parere della Commissione edilizia (quarto motivo) risultano infondate, poiché tali vizi procedimentali non incidono sulla carenza dell’indefettibile presupposto sopra evocato, in sé sufficiente a giustificare l’adozione dell’atto di autotutela.
Con il quinto motivo parte ricorrente censura la mancata adeguata motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento e con il sesto motivo stigmatizza l’esclusiva valutazione dell’interesse dei controinteressati. Anche queste censure sono infondate.
Come già rilevato, l’art. 4 della legge n. 10 del 1977 (e adesso l’art. 11 del DPR n. 380 del 2001) impone per il rilascio del titolo edilizio la presenza di una specifica legittimazione attiva in capo al richiedente (essere proprietario o titolare di altro diritto sui beni) e impone quindi all’Amministrazione di verificare la sussistenza di detta indefettibile legittimazione, affinché la concessione venga assentita solo a chi ha titolo per richiederla.
Ne consegue che è legittima l’adozione di atto di annullamento d’ufficio di una concessione edilizia rilasciata a favore di soggetto privo della disponibilità dell’area da edificare, stante la sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione di atti che pregiudicano gravemente diritti dominicali di terzi, costituendo interesse pubblico “la essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere adeguata tutela nell’ordinamento rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni”, rispondendo cioè all’interesse pubblico “la rimozione di atti che siano stati emessi sulla base di comportamenti invasivi delle posizioni di terzi” (Cons. Stato, sez. 5^, 17.04.2003, n. 2020).
Con il settimo motivo parte ricorrente invoca infine la necessità di un previo tentativo, da parte dell’Amministrazione, di rimuovere i vizi della procedura, circostanza che appare tuttavia da escludere, stante la carenza nella specie, come chiarito, dell’indeffettibile presupposto della legittimazione attiva alla richiesta del titolo, così che anche questa censura risulta infondata.
14 – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 03.02.2016 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela del paesaggio - Lavori abusivi su beni dichiarati di notevole interesse pubblico - Art. 181, c. 1-bis, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004 - Art. 44 lett. c), DPR n. 380/2001.
In tema di tutela del paesaggio, il delitto previsto dall'art. 181, comma primo-bis, lett. a), D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, è configurabile anche quando i lavori abusivi sono effettuati su beni paesaggistici dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emesso ai sensi delle disposizioni previgenti al d.lgs. n. 42 del 2004 (Sez. 3, n. 38677 del 03/06/2014, Liccardi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.02.2016 n. 3857 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'asservimento volumetrico di aree fabbricabili.
Il Consiglio di Stato ha avuto già occasione di riconoscere, con riferimento ad alcune ipotesi di concentrazione di cubatura analoghe a quella per cui è causa, il valore non già vincolante bensì “meramente indicativo” della dislocazione e del disegno di ingombro dei fabbricati contenuti in generale nei piani di lottizzazione, chiarendo come la volumetria massima edificabile ivi fissata su ciascun lotto non precluda la realizzazione di una volumetria inferiore o di nessuna volumetria, con la conseguenza che sarebbe, perciò, ben possibile, non solo non edificare affatto su alcuni lotti, ma anche -per quanto qui di interesse- concentrare su un unico lotto la quantità di volumetria prevista su lotti contigui, pur sempre nel rispetto della volumetria complessivamente conseguita, delle distanze e della destinazione d’uso dei fabbricati.
Coerentemente, infatti, sempre il Consiglio di Stato ha precisato come “il presupposto logico dell'asservimento dev'essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (per come configurato negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso, infatti, che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto”, con conseguente “possibilità di computare la superficie di un lotto vicino, ai fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura assentibile in quello asservito, … sul rilievo della indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione degli edifici, posto che l'interesse dell'amministrazione si appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra superficie edificabile e volumi realizzabili nell'area di riferimento e, cioè, dell'indice di fabbricabilità fondiaria”.

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... per l'annullamento della deliberazione n. 4 del 30.01.2014 con la quale il Consiglio Comunale del Comune di Pozzallo ha deciso di non prendere atto dell'intervenuto trasferimento di cubatura dal lotto n. 23 in favore del lotto n. 6 eseguito dalla società ricorrente e di non autorizzare, in conseguenza, la variante, valutata non essenziale, al piano di lottizzazione c.d. “
Zocco Vincenzo ed altri”;
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Per quel che concerne, poi, la legittimità della concentrazione di volumetria proposta dalla società ricorrente -relativa a terreni entrambi di proprietà di parte ricorrente (in tal senso, i rispettivi atti di compravendita annessi al ricorso)- rileva il Collegio come essa sia stata proposta dalla società ricorrente nell’esercizio della facoltà, ad essa spettante, di poter optare per soluzioni dislocative dei volumi differenti rispetto a quelle originariamente previste nel piano di lottizzazione.
Il Consiglio di Stato ha avuto, infatti, già occasione di riconoscere, con riferimento ad alcune ipotesi di concentrazione di cubatura analoghe a quella per cui è causa, il valore non già vincolante bensì “meramente indicativo” della dislocazione e del disegno di ingombro dei fabbricati contenuti in generale nei piani di lottizzazione, chiarendo come la volumetria massima edificabile ivi fissata su ciascun lotto non precluda la realizzazione di una volumetria inferiore o di nessuna volumetria, con la conseguenza che sarebbe, perciò, ben possibile, non solo non edificare affatto su alcuni lotti, ma anche -per quanto qui di interesse- concentrare su un unico lotto la quantità di volumetria prevista su lotti contigui, pur sempre nel rispetto della volumetria complessivamente conseguita, delle distanze e della destinazione d’uso dei fabbricati (in tal senso, sezione V, n. 927/2012).
Coerentemente, infatti, sempre il Consiglio di Stato ha precisato come “il presupposto logico dell'asservimento dev'essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (per come configurato negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso, infatti, che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto”, con conseguente “possibilità di computare la superficie di un lotto vicino, ai fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura assentibile in quello asservito, … sul rilievo della indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione degli edifici, posto che l'interesse dell'amministrazione si appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra superficie edificabile e volumi realizzabili nell'area di riferimento e, cioè, dell'indice di fabbricabilità fondiaria” (sezione IV, n. 2488/2006) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.02.2016 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Il comune può far da sé per disconoscere esenzioni.
Il comune può accertare ai fini Ici/Imu la non rispondenza alla realtà dei dati catastali. E così, anche senza attendere l'intervento modificativo dell'amministrazione finanziaria, disconoscere l'esenzione dal tributo.

Ad affermarlo è la Sez. V civile della Corte di Cassazione, con sentenza 29.01.2016 n. 1704.
Il caso verteva su un locale commerciale accatastato nella categoria E (immobili a destinazione particolare) in quanto situato all'interno di una stazione ferroviaria. Quest'ultima non è assoggettata al prelievo fiscale, poiché dedicata esclusivamente allo svolgimento del servizio di trasporto passeggeri.
Per evitare usi distorti dell'agevolazione, il legislatore è intervenuto con l'art. 2 del dl 262/2006, stabilendo che tra le unità censite nelle categorie E/1, E/2, E/3, E/4, E/5, E/6 ed E/9 non possono essere compresi «immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale, a ufficio privato ovvero a usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia funzionale e reddituale». Il necessario aggiornamento della classificazione di tutte le unità di categoria E ricadenti in tali ipotesi era a cura dei soggetti intestatari.
In caso di inottemperanza, sarebbe intervenuta l'Agenzia del territorio (ora Entrate). Secondo i giudici, quando il classamento non rispecchia l'effettiva destinazione d'uso dell'immobile, si può determinare «una aprioristica quanto irragionevole esenzione dall'Ici, in contraddizione con il principio costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva capacità contributiva».
Il mero accatastamento dell'immobile nel gruppo E «non può (e non poteva nemmeno prima del 2006) costituire un impedimento al riconoscimento della sua imponibilità, in particolare ove tale errato accatastamento sia stato determinato da un'omissione del contribuente», chiosa la sentenza (articolo ItaliaOggi del 02.02.2016).

APPALTI SERVIZI: Avvalimento nei concorsi di servizi. Indicare i mezzi prestati.
Nell'avvalimento dei requisiti per la partecipazione alle gare di appalto pubblico costituisce elemento essenziale del contratto l'indicazione specifica dei mezzi e dei requisiti messi a disposizione del concorrente ed è illegittimo il contratto indeterminato su questo punto.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato -Sez. III- con la sentenza 29.01.2016 n. 346 in tema di avvalimento dei requisiti di partecipazione alle gare di appalto pubblico di servizi e forniture, settori che non hanno un sistema di qualificazione come quello dei lavori.
La pronuncia approfondisce i contenuti del contratto specificando alcuni elementi che devono essere tenuti in particolare considerazione.
Si chiarisce, per esempio, che la prova dell'effettiva disponibilità delle risorse dell'ausiliario da parte dell'ausiliato necessita che il contratto si sostanzi in relazione alla natura ed alle caratteristiche del singolo requisito «e ciò soprattutto nei settori dei servizi e delle forniture, dove non esiste un sistema di qualificazione a carattere unico e obbligatorio, come accade per gli appalti di lavori, e i requisiti richiesti vengono fissati di volta in volta dal bando di gara».
I giudici, con riguardo alle prescrizioni dell'articolo 49 del codice dei contratti e della disciplina attuativa del regolamento affermano che le norme vigenti, pur finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la determinatezza di questo, non devono essere interpretate «meccanicamente né secondo aprioristici schematismi concettuali, che non tengano conto del singolo appalto e, soprattutto, frustrando la sostanziale disciplina dettata dalla lex specialis».
In altre parole si afferma che è insufficiente allo scopo assegnato all'avvalimento la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei relativi contratti, della formula legislativa, dell'articolo 49, della messa a disposizione delle «risorse necessarie di cui è carente il concorrente» o espressioni equivalenti.
In questi casi è legittima l'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento, producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).
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MASSIMA
6.4. Il tema di decisione centrale del presente giudizio, che ancora una volta torna all’attenzione di questo Consiglio, è la vexata quaestio della validità o meno, sotto il profilo della determinatezza, del contratto di avvalimento.
6.5. Senza qui di nuovo ripetere e ripercorrere, per obbligo di sintesi (art. 3, comma 2, c.p.a.), tutto il percorso interpretativo che ha caratterizzato la complessa materia, valga qui ricordare l’approdo ermeneutico al quale è pervenuta, talvolta non senza interni contrasti, la giurisprudenza di questo Consiglio.
6.6.
Benché il contratto di avvalimento non possa essere ricondotto ad alcuna specifica tipologia, tanto che ne è stata più volte ribadita la sua atipicità lasciata all’autonomia negoziale delle parti, la prova dell’effettiva disponibilità delle risorse dell’ausiliario da parte dell’ausiliato comporta, però, la necessità che il contrasto si sostanzi in relazione alla natura ed alle caratteristiche del singolo requisito, e ciò soprattutto nei settori dei servizi e delle forniture, dove non esiste un sistema di qualificazione a carattere unico ed obbligatorio, come accade per gli appalti di lavori, ed i requisiti richiesti vengono fissati di volta in volta dal bando di gara.
6.7.
Le regole dettate dall’art. 49 del d.lgs. 163/2006 e dall’art. 88 del d.P.R. 207/2010 in materia di avvalimento, pur finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la determinatezza di questo, non devono, quindi, essere interpretate meccanicamente né secondo aprioristici schematismi concettuali, che non tengano conto del singolo appalto e, soprattutto, frustrando la sostanziale disciplina dettata dalla lex specialis (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 04.12.2014, n. 5978; Cons. St., sez. III, 02.03.2015, n. 1020).
6.8. Poste queste fondamentali premesse, che si ispirano ad un criterio sostanzialistico di recente recepito anche dal d.l. 90/2014, come si accennerà esaminando, infra, il secondo motivo di appello, deve pur rammentarsi che,
per altrettanto consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, è insufficiente allo scopo assegnato all’avvalimento la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei relativi contratti, della formula legislativa della messa a disposizione delle “risorse necessarie di cui è carente il concorrente” o espressioni equivalenti, con la conseguenza che è legittima l’esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia fatto ricorso all’avvalimento producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati.
6.9.
L’esigenza di una puntuale analitica individuazione dell’oggetto del contratto di avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico nella generale previsione codicistica che configura quale causa di nullità di ogni contratto l’indeterminatezza (e l’indeterminabilità) del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle procedure contrattuali pubbliche, nella necessità di non consentire facili e strumentali aggiramenti del sistema dei requisiti di partecipazione alle gare (Cons. St., sez. V, 30.11.2005, n. 5396).
6.10.
Nelle gare pubbliche elemento essenziale dell’istituto dell’avvalimento, infatti, è la reale messa a disposizione delle risorse umane e dei beni strumentali occorrenti per la realizzazione dei lavori o dei servizi oggetto di gara, con conseguente obbligo per l’impresa ausiliata di presentare alla stazione appaltante l’elencazione dettagliata dei fattori produttivi, in modo da consentirle di conoscere la consistenza del complesso economico-finanziario e tecnico-organizzativo offerti in prestito dall’ausiliaria e di valutare la loro idoneità all’esecuzione dell’opera (Cons. St., sez. V, 28.09.2015, n. 4507).
6.11. Orbene, tutto ciò considerando, la conclusione del TAR ligure in ordine alla indeterminatezza del contratto di avvalimento va immune da censura.

EDILIZIA PRIVATA: Il mancato inizio dei lavori entro il termine di un anno decorrente dal rilascio del titolo comporta la decadenza dello stesso.
Per evitare la decadenza, l’interessato deve dimostrare di essere seriamente intenzionato a realizzare l’opera; pertanto, non ogni attività intrapresa può costituire elemento che denoti l’effettivo inizio dei lavori, giacché solo quelle attività sintomatiche di un serio proposito possono essere considerate a tal fine rilevanti.
La giurisprudenza ritiene che non possa essere considerato rilevante, affinché i lavori possano dirsi effettivamente iniziati, il compimento delle attività di approntamento del cantiere, nonché quelle di scavo e sbancamento.
Il Collegio ritiene inoltre che attività rilevanti possano essere solo quelle strettamente funzionali alla realizzazione dell’opera oggetto del titolo edilizio e, quindi, oltre ai lavori espressamente previsti dal titolo stesso, anche quei lavori che, sulle base delle risultanze di esso, risultino essere assolutamente necessari per conseguirne il risultato finale e ne costituiscano dunque attività esecutiva.

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Il Collegio non ignora che, secondo una parte della giurisprudenza, la sussistenza di una causa di forza maggiore che non consente di dare tempestivo inizio ai lavori impedisce ex se la decadenza del titolo edilizio.
E’ però preferibile ritenere, come fa altra giurisprudenza, che, anche laddove si sia in presenza del cd. factum principis o di cause di forza maggiore, l'interessato che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio per il mancato tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso; proroga che deve essere accordata con atto espresso dell'Amministrazione.
Invero, l'atto di proroga, previsto dall’art. 15, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza dell'accertamento dell'intervenuta decadenza, è atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, che presuppone l'accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell'avvio della edificazione.
Inoltre, si deve ritenere che, affinché si possa dare rilevanza ad un provvedimento che impedisca l’edificazione, è necessario che questo risulti illegittimo in quanto emesso in carenza dei presupposti previsti dalla vigente normativa. In caso contrario, quando cioè l’atto che inibisce l’esecuzione dei lavori sia conforme alla legge, la parte non può pretendere di essere ammessa al beneficio della proroga del termine.
In tal senso è il comma 2-bis dell’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale, anche se non applicabile ai fatti di causa in quanto successivo ad essi, costituisce, a parere del Collegio, chiave interpretativa della previgente normativa.
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11. Stabilisce l’art. 15, secondo comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) che <<Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita…>>.
12. Come si vede, in base questa norma, dettata in materia di permesso di costruire ma pacificamente applicabile anche alla denuncia di inizio attività, il mancato inizio dei lavori entro il termine di un anno decorrente dal rilascio del titolo comporta la decadenza dello stesso.
13. Per evitare la decadenza, l’interessato deve dimostrare di essere seriamente intenzionato a realizzare l’opera; pertanto, non ogni attività intrapresa può costituire elemento che denoti l’effettivo inizio dei lavori, giacché solo quelle attività sintomatiche di un serio proposito possono essere considerate a tal fine rilevanti.
14. La giurisprudenza ritiene che non possa essere considerato rilevante, affinché i lavori possano dirsi effettivamente iniziati, il compimento delle attività di approntamento del cantiere, nonché quelle di scavo e sbancamento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.04.2015, n. 2093; TAR Veneto, sez. II, 12.03.2015, n. 299).
15. Il Collegio ritiene inoltre che attività rilevanti possano essere solo quelle strettamente funzionali alla realizzazione dell’opera oggetto del titolo edilizio e, quindi, oltre ai lavori espressamente previsti dal titolo stesso, anche quei lavori che, sulle base delle risultanze di esso, risultino essere assolutamente necessari per conseguirne il risultato finale e ne costituiscano dunque attività esecutiva.
16. Ciò premesso, si deve osservare che le attività indicate dalla ricorrente nel primo motivo di ricorso non possono essere positivamente apprezzate al fine di affermare l’effettivo inizio dei lavori.
17. Alcune di queste attività -quali l’abbattimento della tettoia, la rimozione della pavimentazione ad essa antistante, la deviazione della fognatura e la chiusura delle finestre– non erano previste nella DIA presentata dalla ricorrente, né possono essere considerate alla stregua lavori che, sulle base delle risultanze della DIA stessa, debbano qualificarsi come assolutamente necessari ai fini della costruzione dell’edificio che ne costituisce oggetto. In proposito è sufficiente rilevare che il titolo, oltre a non prevedere la realizzazione di opere di demolizione, neppure indica l’esistenza dei manufatti sui quali sono stati effettuati gli interventi (queste circostanze sono state allegate dalla difesa dell’Amministrazione resistente e non smentite dalla ricorrente; pertanto possono considerarsi provate ai sensi dell’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.).
18. Non si può pertanto ritenere che gli interventi di cui si discute possano essere considerati alla stregua di attività esecutive del titolo edilizio conseguito dalla ricorrente, la cui realizzazione ne possa aver impedito la decadenza.
19. Analogo discorso può essere svolto con riferimento alle opere di bonifica dell’area, atteso che la DIA presentata dalla ricorrente non contemplava affatto questo interevento; ed anzi lo escludeva espressamente, visto che, in sede di integrazione documentale, il tecnico incaricato dalla parte ha depositato presso il Comune una dichiarazione che afferma l’inesistenza di elementi inquinanti in loco e, dunque, l’inutilità dell’intervento di bonifica.
20. L’esecuzione di questa attività non può pertanto aver impedito la decadenza del titolo.
21. Le altre attività indicate dalla ricorrente –quali la richiesta di allacciamento alla linea elettrica e il montaggio della gru– costituiscono evidentemente attività di mero approntamento del cantiere le quali, come si è visto, non possono ritenersi decisive ai fini che qui interessano.
22. Per queste ragioni i motivi esaminati sono infondati.
23. Con il terzo motivo, proposto in via subordinata, la ricorrente sostiene che il mancato inizio dei lavori è dipeso dal fatto che l’Amministrazione, in data 26.02.2011, ha emesso l’ordine di non dar corso ad essi; e che tale circostanza costituirebbe un elemento impeditivo oggettivo (factum principis).
Il mancato inizio dei lavori, pertanto, non denoterebbe la carenza di una seria volontà all’esecuzione dell’opera prevista nel titolo edilizio; per questa ragiona, a dire della parte, l’Amministrazione non avrebbe potuto dichiararne la decadenza.
24. Il Collegio non ignora che, secondo una parte della giurisprudenza, la sussistenza di una causa di forza maggiore che non consente di dare tempestivo inizio ai lavori impedisce ex se la decadenza del titolo edilizio (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 10.02.2012, 188).
E’ però preferibile ritenere, come fa altra giurisprudenza, che, anche laddove si sia in presenza del cd. factum principis o di cause di forza maggiore, l'interessato che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio per il mancato tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso; proroga che deve essere accordata con atto espresso dell'Amministrazione. Invero, l'atto di proroga, previsto dall’art. 15, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza dell'accertamento dell'intervenuta decadenza, è atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, che presuppone l'accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell'avvio della edificazione (cfr., TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 22.04.2015, n. 186).
25. Inoltre, si deve ritenere che, affinché si possa dare rilevanza ad un provvedimento che impedisca l’edificazione, è necessario che questo risulti illegittimo in quanto emesso in carenza dei presupposti previsti dalla vigente normativa. In caso contrario, quando cioè l’atto che inibisce l’esecuzione dei lavori sia conforme alla legge, la parte non può pretendere di essere ammessa al beneficio della proroga del termine.
26. In tal senso è il comma 2-bis dell’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale, anche se non applicabile ai fatti di causa in quanto successivo ad essi, costituisce, a parere del Collegio, chiave interpretativa della previgente normativa.
27. Nel caso concreto, la ricorrente non ha chiesto la proroga dei termini di validità della DIA da essa presentata; né ovviamente alcuna proroga le è stata concessa dall’Amministrazione.
28. Inoltre l’atto che ha disposto la sospensione dei lavori è risultato fondato nei presupposti, atteso che, come aveva rilevato l’Amministrazione stessa e contrariamente da quanto dichiarato dalla ricorrente, l’area interessata dalla DIA necessitava effettivamente di opere di bonifica.
29. Per tutte queste concorrenti ragioni non si può ritenere che l’ordine di sospensione lavori emanato in data 26.02.2011 abbia impedito la decadenza della DIA (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.01.2016 n. 201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente per la rimozione di un tratto di recinzione (abusiva) che ostruisce il passaggio pubblico di un sentiero.
L’art. 54, quarto comma, del d.lgs. n. 267 del 2000 attribuisce al sindaco il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti possono essere emanate per fronteggiare situazioni impreviste e non altrimenti fronteggiabili con gli strumenti ordinari, al fine di prevenire o eliminare gravi pericoli che minacciano primari interessi della cittadinanza.
Secondo la giurisprudenza, il potere sindacale di emettere ordinanze contingibili e urgenti presuppone necessariamente situazioni, non tipizzate dalla legge, di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione; e ciò in quanto solo in presenza di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale.
Nel caso specifico, è stato emesso un provvedimento contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 54 citato per far pronte ad una situazione che poteva essere affrontata mediante l’utilizzo dei poteri ordinari, conferiti ai comuni in materia di repressione degli abusi edilizi.
Inoltre, il provvedimento impugnato non indica assolutamente le ragioni per le quali la chiusura del sentiero possa minacciare i primari interessi dell’incolumità pubblica e dell’ordine pubblica.
Pare quindi al Collegio che l’atto sia stato emanato in assenza dei necessari presupposti.
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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 20/2010 in data 26.06.2010, spedita dall'Ufficio Postale di Traona il 12.07.2010 e ricevuta il successivo 26.07.2010, con la quale il sindaco di Civo, ai sensi dell'art. 54 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, ha ordinato alla ricorrente di ripristinare il passaggio pubblico insistente sul terreno censito in catasto a F. 25, mappale 394 mediante rimozione del tratto di recinzione posto sul tracciato del passaggio stesso nel termine di trenta giorni dalla notifica dell'ordinanza, e di ogni altro atto presupposto e/o consequenziale.
...
1. Con il provvedimento impugnato, il Comune di Civo ha ordinato alla ricorrente di rimettere in pristino un sentiero che attraversa il fondo contraddistinto al fg. 25, mapp. 394, ostruito con una recinzione di paletti in legno e rete metallica.
2. L’Amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.
3. Tenutasi la pubblica udienza in data 15.12.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
4. Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato in quanto suscettibile di accoglimento il secondo motivo di ricorso, avente carattere assorbente, con cui si deduce la violazione dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000.
5. L’art. 54, quarto comma, del d.lgs. n. 267 del 2000 attribuisce al sindaco il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
6. Le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti possono essere emanate per fronteggiare situazioni impreviste e non altrimenti fronteggiabili con gli strumenti ordinari, al fine di prevenire o eliminare gravi pericoli che minacciano primari interessi della cittadinanza.
7. Secondo la giurisprudenza, il potere sindacale di emettere ordinanze contingibili e urgenti presuppone necessariamente situazioni, non tipizzate dalla legge, di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione; e ciò in quanto solo in presenza di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale.
8. Nel caso specifico, è stato emesso un provvedimento contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 54 citato per far pronte ad una situazione che poteva essere affrontata mediante l’utilizzo dei poteri ordinari, conferiti ai comuni in materia di repressione degli abusi edilizi.
9. Inoltre, il provvedimento impugnato non indica assolutamente le ragioni per le quali la chiusura del sentiero possa minacciare i primari interessi dell’incolumità pubblica e dell’ordine pubblica.
10. Pare quindi al Collegio che l’atto sia stato emanato in assenza dei necessari presupposti.
11. Per queste ragioni il motivo in esame è fondato e il ricorso deve essere accolto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.01.2016 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al pari del permesso di costruire in deroga disciplinato dall’art. 14 del d.p.r. n. 380/2001, il permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011 determina una deroga alla disciplina ordinaria e alle previsioni degli strumenti urbanistici ed è pertanto un istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina urbanistica generale; in quanto tale, esso è applicabile esclusivamente entro i confini tassativamente previsti dal legislatore statale (quali ad es. l’inderogabilità degli standard urbanistici, la non attuabilità degli interventi di riqualificazione e aumenti di volumetria con riferimento ad edifici abusivi o situati nei centri storici o in area ad in edificabilità assoluta).
Questa particolare natura del permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011, nonché l’espresso richiamo all’art. 14 del d.p.r. 380 del 2001 operato dall’art. 5 cit., comma 11, portano quindi ad escludere che l’autorizzazione in questione possa essere rilasciata secondo il procedimento ordinario, con la conseguenza che l’assenza della previa deliberazione del Consiglio comunale sul progetto presentato dal privato vizia il procedimento stesso.
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La necessità della deliberazione del Consiglio comunale prima del rilascio da parte del dirigente competente del permesso di costruire in deroga previsto dall’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011, si rivela coerente con le attribuzioni del consiglio comunale in materia di pianificazione urbanistica e territoriale (ed eventuale deroga ad essa) previste dall’art. 42, comma 2, lett. b), del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, trattandosi di interventi che incidono sulle disposizioni urbanistiche ordinarie.
Inoltre, la preventiva deliberazione del consiglio comunale consente a tale organo di valutare la sussistenza dell’interesse pubblico all’operazione e di verificare la effettiva rispondenza del progetto all’esigenza “di razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e di “riqualificazione di aree urbane degradate”, e quindi di riscontrare se sussistono le condizioni per il riconoscimento della disciplina premiante in deroga alla disciplina urbanistica ordinaria (volumetria aggiuntiva, possibilità di delocalizzare la volumetria in area diversa, cambio di destinazione d’uso, modifiche alla sagome degli edifici).
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2.1. L’art. 5 del D.L. 13.05.2011 n. 70 (c.d. Decreto Sviluppo, convertito in L. 12.07.2011, n. 106, entrata in vigore il 13.07.2013) si inserisce nell’ambito di una serie di misure adottate per la promozione dello sviluppo economico e della competitività e mira a rilanciare l’economia nel settore dell’edilizia privata, prevedendo una specifica disciplina premiante in favore degli interventi edilizi dei privati che mirano a perseguire gli obiettivi di razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, di riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare.
2.2. Con tale obiettivo, il comma 9 dell’articolo in questione fissa i principi fondamentali ai quali il legislatore regionale dovrà attenersi nell’elaborare la propria disciplina in materia:
- in primo luogo, viene definito il contenuto della disciplina premiante in favore dei privati che intendono realizzare interventi di riqualificazione e razionalizzazione del patrimonio edilizio, prevedendo: il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente, la possibilità di delocalizzare le volumetrie, la possibilità di attuare modifiche di destinazione d’uso tra loro compatibili ed infine la possibilità di realizzare modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti;
- in secondo luogo, viene sancita la immediata applicabilità delle disposizioni premianti in questione in caso di mancata adozione da parte delle regioni della specifica disciplina nel termine di 120 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione, con la precisazione che la volumetria aggiuntiva deve essere non superiore al venti per cento del volume dell’edificio se destinato ad uso residenziale o al dieci per cento della superficie coperta per gli edifici adibiti ad uso diverso;
- con riferimento al procedimento autorizzatorio, il legislatore statale prevede che, “sino all’entrata in vigore della normativa regionale”, trovi applicazione la disciplina autorizzatoria rafforzata di cui all'articolo 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la quale richiede la previa deliberazione del consiglio comunale per il rilascio del “permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali”;
- quest’ultima deliberazione costituisce, pertanto, un elemento necessario per il rilascio del permesso di costruire ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011;
- ciò si giustifica in base alla considerazione che, al pari del permesso di costruire in deroga disciplinato dall’art. 14 del d.p.r. n. 380/2001, il permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011 determina una deroga alla disciplina ordinaria e alle previsioni degli strumenti urbanistici ed è pertanto un istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina urbanistica generale; in quanto tale, esso è applicabile esclusivamente entro i confini tassativamente previsti dal legislatore statale (quali ad es. l’inderogabilità degli standard urbanistici, la non attuabilità degli interventi di riqualificazione e aumenti di volumetria con riferimento ad edifici abusivi o situati nei centri storici o in area ad in edificabilità assoluta).
2.3. Questa particolare natura del permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011, nonché l’espresso richiamo all’art. 14 del d.p.r. 380 del 2001 operato dall’art. 5 cit., comma 11, portano quindi ad escludere che l’autorizzazione in questione possa essere rilasciata secondo il procedimento ordinario, con la conseguenza che l’assenza della previa deliberazione del Consiglio comunale sul progetto presentato dal privato vizia il procedimento stesso (TAR Piemonte, sez. II, 10.07.2015, n. 1210; TAR Piemonte, sez. II, 28.11.2013, n. 1287; TAR Pescara, sez. I, 14.11.2014, n. 450; TAR Basilicata, 19.04.2014, n. 267).
2.4. D’altra parte, ad avviso del Collegio, la necessità della deliberazione del Consiglio comunale prima del rilascio da parte del dirigente competente del permesso di costruire in deroga previsto dall’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011, si rivela coerente con le attribuzioni del consiglio comunale in materia di pianificazione urbanistica e territoriale (ed eventuale deroga ad essa) previste dall’art. 42, comma 2, lett. b), del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, trattandosi di interventi che incidono sulle disposizioni urbanistiche ordinarie.
2.5. Inoltre, la preventiva deliberazione del consiglio comunale consente a tale organo di valutare la sussistenza dell’interesse pubblico all’operazione e di verificare la effettiva rispondenza del progetto all’esigenza “di razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e di “riqualificazione di aree urbane degradate”, e quindi di riscontrare se sussistono le condizioni per il riconoscimento della disciplina premiante in deroga alla disciplina urbanistica ordinaria (volumetria aggiuntiva, possibilità di delocalizzare la volumetria in area diversa, cambio di destinazione d’uso, modifiche alla sagome degli edifici).
2.6. In relazione all’interesse pubblico alla realizzazione dell’intervento, la modifica introdotta dalla norma qui in esame assume un rilievo del tutto particolare dal momento che, mentre per il rilascio del permesso in deroga previsto dal t.u. dell'edilizia il consiglio comunale deve effettuare una comparazione tra due interessi pubblici, cioè tra l'interesse alla realizzazione di un'opera pubblica e l'interesse alla corretta attuazione delle previsioni di piano, nel rilascio del permesso in deroga previsto dal decreto sviluppo la comparazione deve avvenire tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione e quello del privato ad attuare un intervento costruttivo, che assume però rilievo pubblicistico nella misura in cui razionalizza e riqualifica aree degradate, con il solo limite che "si tratti di destinazioni tra loro compatibili e complementari".
2.7. Va anche osservato che la normativa in esame, destinata originariamente ad avere un'efficacia limitata nel tempo (cioè "sino all'entrata in vigore della normativa regionale"), è stata oggi stabilmente introdotta nell'ordinamento con l'inserimento, ad opera del D.L. 12.09.2014, n. 133 (c.d. Decreto "sblocca Italia"), del comma 1-bis all'art. 14, che, come si legge nel testo modificato dalla legge di conversione 11.11.2014, n. 164, ha previsto, per la parte che qui interessa, che "per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d'uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell'intervento di ristrutturazione ..." (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 29.01.2016 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATACondivisibile giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che l’onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di acceso non comporta la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell’atto), ma può ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere l’amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda.
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Il certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica; pertanto, il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi.
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I titoli edilizi non rientrano in alcuna delle categorie sottraibili all’accesso e che in materia di rilascio dei titoli edilizi non può essere affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati.

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... per l’annullamento della nota del Comune di Venosa prot. n. 12779 del 22.07.2015, conosciuta il 10.08.2015, recante diniego di accesso ai documenti amministrativi;
...
5. Nel merito, il ricorso è fondato in parte, alla stregua della motivazione che segue.
5.1. l’Ente intimato, con la nota impugnata, ha espressamente affermato la “improcedibilità” dell’istanza di accesso, così in buona sostanza negando la richiesta esibizione documentale, in quanto l’istanza medesima sarebbe riferita ad una “pluralità indefinita e generica di atti”.
5.2. Ritiene il Collegio, in senso contrario, che l’istanza palesi un contenuto sufficientemente determinato, riguardando in tutta evidenza il certificato di destinazione urbanistica dell’immobile censito in catasto al foglio n. 78, particella n. 1445, le autorizzazioni rilasciate per la realizzazione degli interventi edilizi descritti nell’istanza medesima, nonché il titolo di proprietà comunale di tale ultimo immobile.
Ebbene, condivisibile giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che l’onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di acceso non comporta la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell’atto), ma può ritenersi assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello scopo cui l’atto è indirizzato, così da mettere l’amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda (cfr. C.d.S., sez. VI, 27.10.2006, n. 6441; TAR Lazio, sez. II, 17.01.2012, n. 487).
6. Quanto innanzi osservato conduce all’accoglimento della spiegata domanda di annullamento della nota impugnata.
7. Non sussistono, tuttavia, i presupposti per ordinare l’esibizione di parte dei documenti richiesti.
7.1. In particolare, il certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica; pertanto, il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. II, 17.09.2009, n. 2121).
7.2. Del pari, in relazione al “titolo d’acquisto o altro titolo equipollente” dell’immobile censito in catasto al foglio n. 78, particella n. 1445, sono stati gli stessi ricorrenti ad aver precisato che: “siffatta richiesta si mostra deliberatamente non autonoma, nemmeno alternativa e subordinata, avuto riguardo ai modi e termini in cui è stata confezionata la domanda d’accesso, ma, al contrario, la stessa deve sostanzialmente considerarsi assorbita dai documenti amministrativi per il cui accesso si è trattato ai punti precedenti”.
8. Va, diversamente, ordinata l’esibizione dei titoli autorizzatori degli interventi edilizi innanzi descritti. Sul punto, rilevato che l’Amministrazione resistente, nella nota impugnata, non ha in alcun modo contestato la sussistenza di un interesse qualificato in capo agli odierni ricorrenti, va soltanto precisato che tali documenti non rientrano in alcuna delle categorie sottraibili all’accesso e che in materia di rilascio dei titoli edilizi non può essere affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati (cfr. TAR Marche, 07.11.2014, n. 923) (TAR Basilicata, sentenza 29.01.2016 n. 55 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Violazioni paesaggistiche e urbanistiche - Consistenza dell'intervento abusivo - Particolare tenuità del fatto - Valutazione dell'istanza - Criteri - Procedura di c.d. condono ambientale ex lege n. 308/2004 - Art. 181 d. Lgs. n. 42/2004 - Art. 131-bis cod. pen..
In tema di violazioni urbanistiche e paesaggistiche deve ritenersi che la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione.
Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento (Cass. Sez. 3, sentenza n. 47039 dell'08/10 - dep. 27/11/2015, ric. Derossi).
Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è, inoltre, la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).
A ciò va aggiunto, ad ulteriore rafforzamento dell'esclusione della particolare tenuità del fatto come, soprattutto per le violazioni paesaggistiche, il giudizio di tenuità dell'offesa confligga con quanto già preventivamente oggetto di valutazione legislativa laddove si è consentito l'esperimento della procedura di c.d. condono ambientale ex lege n. 308 del 2004 limitandola ai soli interventi edilizi abusivi minori, tra cui non rientra certamente quello in esame, consistente nell'esecuzione di una sopraelevazione, non essendovi peraltro elementi in atti da cui potersi desumere oggettivamente la particolare tenuità dell'offesa (e, sul punto, si noti che per il delitto di cui all'art. 181 comma 1-bis, d.Lgs. n. 42 del 2004, non è nemmeno applicabile l'art. 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n. 42 del 2004: Sez. 3, n. 37168 del 06/05/2014 - dep. 05/09/2014, Autizi).
Violazioni paesaggistiche - Demolizione di immobili abusivi o la rimessione in pristino - Omissione in sentenza della sanzione - Effetti - Nullità - Esclusione - Procedimento di correzione dell'errore materiale ex art. 130 cod. proc. pen..
L'omissione, in sentenza, di statuizioni obbligatorie a carattere accessorio e a contenuto predeterminato come la demolizione di immobili abusivi o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi per le violazioni paesaggistiche, non attenendo ad una componente essenziale dell'atto non integra una nullità ed è, pertanto, emendabile con il procedimento di correzione dell'errore materiale ex art. 130 cod. proc. pen. dal giudice che ha pronunciato la sentenza di condanna o dal giudice dell'impugnazione ove questa non sia inammissibile, con esclusione del giudice dell'esecuzione giacché carente di competenza quanto alla statuizione omessa (Sez. 3, n. 40340 del 27/05/2014 - dep. 30/09/2014, Bognanni) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2016 n. 3534 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICI: P.a., niente rimborsi legali per chi collauda i lavori.
Ai professionisti incaricati della direzione e del collaudo di lavori pubblici non spetta il rimborso delle spese legali per un giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V con la sentenza 27.01.2016 n. 279.
Nel dettaglio, la controversia verte sulla chiamata in giudizio di due professionisti da parte della Procura generale della Corte dei conti per la condanna al risarcimento del danno che essi avrebbero causato alla regione Piemonte per fatti correlati all'esecuzione di un appalto di lavori, riguardo ai quali erano stati nominati rispettivamente direttore dei lavori e collaudatore.
In merito a questo giudizio tali professionisti avevano presentato istanza alla regione Piemonte per ottenere il rimborso delle spese sostenute per il patrocinio legale. A seguito del provvedimento negativo da parte del Direttore dell'avvocatura regionale avevano impugnato la denegata richiesta, con ricorso, al Tar Piemonte che lo aveva, a sua volta, respinto. Con l'appello, allora, veniva chiesta la riforma della sentenza di primo grado lamentando la mancata assimilazione alla posizione di dipendenti pubblici dei due professionisti. Il Consiglio di stato, però, ha rigettato il ricorso. Pur riconoscendo, infatti, tra i soggetti un rapporto di servizio con la p.a. con riferimento alla responsabilità per danni cagionati nella esecuzione dell'incarico attribuito dall'ente pubblico, non è configurabile il diritto al rimborso delle spese per il giudizio.
L'art. 49, comma 1, della l.reg. Piemonte n. 34 del 1989, infatti, nel prevedere l'assistenza gratuita in giudizio qualora si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, laddove fa riferimento a un «suo dipendente», va interpretata nel senso che «l'assunzione a carico della Regione degli oneri di difesa sia riservato ai soli lavoratori dipendenti dalla Regione che siano legati ad essa da rapporto di servizio in senso proprio e non in senso lato».
È pertanto legittimo il provvedimento che ha denegato il rimborso delle spese sostenute per il patrocinio legale davanti alla Corte dei conti nei confronti dei due professionisti perché tale rimborso è consentito solo a favore dei dipendenti dell'Amministrazione (articolo ItaliaOggi del 06.02.2016).
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MASSIMA
7.2.- Tanto premesso, nel caso di specie, tenuto conto della motivazione del provvedimento impugnato (basata esclusivamente sui rilievi che i signori Do.Ma. e Gu.Sc., che erano stati nominati “direttore dei lavori” in rapporto di affidamento in appalto dei lavori di costruzione del laboratorio di cui trattasi, non potevano essere considerati dipendenti della Regione Piemonte e che il CCNL comparto Regioni-Enti locali 1999 prevedeva l’istituto del patrocinio legale unicamente a favore dei dipendenti dell’amministrazione regionale), deve ritenersi che le ragioni esposte nella sentenza impugnata e poste a base della reiezione del ricorso consistano in considerazioni e valutazioni neppure accennate in esso provvedimento o nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
La sentenza, come accennato, ha infatti respinto il ricorso introduttivo del giudizio negli assunti che l’onere di assunzione a carico del bilancio regionale della difesa dei dipendenti regionali riguardava solo i procedimenti di responsabilità civile o penale e non i procedimenti per responsabilità erariale, nonché che detto onere era condizionato all’assenza di conflitto di interessi con la regione, nel caso di specie invece sussistente.
Essa non si è quindi pronunciata sulle effettive censure contenute nel ricorso giurisdizionale con riguardo alla effettiva motivazione posta a base dell’atto impugnato, con le quali era stata dedotta l’illogicità dello stesso, individuata nella circostanza che per portare a giudizio i ricorrenti innanzi alla Corte dei Conti essi erano stati ritenuti assimilabili a dipendenti della Regione, mentre per usufruire del patrocinio legale di essa non erano più stati considerati tali.
7.3.- Pertanto, in accoglimento del motivo d’appello in esame, la sentenza impugnata va sul punto riformata.
8.- Ciò posto va rilevato che, ai sensi dell'art. 105 c.p.a., l'omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l'annullamento della decisione (con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado), ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa (Consiglio di Stato, sez. IV, 10.01.2014, n. 46).
9.- Deve quindi il collegio esaminare la prima parte del primo motivo d’appello con il quale è stato dedotto che unico presupposto della determinazione impugnata in primo grado sarebbe stata la circostanza che gli attuali appellanti, che erano stati nominati direttori dei lavori in rapporto all’affidamento in appalto dei lavori di costruzione del Laboratorio cartografico regionale, non potevano essere considerati dipendenti della Regione Piemonte.
Con detto motivo è stata affermata l’erroneità del diniego perché l’art. 49 della l.r. n. 34 del 1989, laddove prevede l’assunzione a carico della Regione degli oneri di difesa di suoi dipendenti per fatti direttamente connessi all’espletamento di un servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, non avrebbe dovuto essere interpretata in senso esclusivamente letterale ed avrebbe dovuto riscontrarsi la sussistenza, nel caso di specie, di un rapporto di servizio dei deducenti del tutto assimilabile al rapporto di dipendenza con la Regione.
Sarebbe infatti pacifico l’orientamento della Corte dei Conti e della Corte di Cassazione che avrebbero affermato che ciò che rileva non è il rapporto di dipendenza in senso proprio con l’Amministrazione, ma la sussistenza di una relazione funzionale che si stabilisce tra il soggetto privato chiamato a partecipare all’attività imputabile all’Amministrazione e questa stessa, che colloca il soggetto in una posizione di compartecipe fattivo alla attività dell’Ente pubblico.
L’applicabilità dell’istituto del patrocinio legale di cui all’art. 49 della l.r. n. 34 del 1989 sarebbe quindi estensibile, secondo gli appellanti, oltre il rapporto di dipendenza in senso stretto e dovrebbe riguardare anche il rapporto di servizio, come quello intercorso tra di essi e la Regione Piemonte all’atto dello svolgimento delle mansioni di collaudatore e di direttore dei lavori delle opere pubbliche di cui trattasi.
La tesi sarebbe confortata, oltre che dalle sentenze della Corte di Cassazione, SS.UU., n. 1377 del 2006 e n. 4060 del 1993, dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, che avrebbe riconosciuto, da ultimo con la sentenza assolutoria n. 178 del 2003 della Sezione III Giurisdizionale Centrale d’appello, la propria giurisdizione con riguardo agli incarichi svolti dagli odierni appellanti nell’assunto che essi rientrassero nel rapporto di servizio con l’Amministrazione.
Sarebbe quindi illegittimo il provvedimento impugnato perché sarebbe impossibile che i deducenti da un canto siano stati accusati di essere responsabili del danno causato all’Amministrazione (in quanto inclusi, sia pure temporaneamente nell’apparato organizzativo della Regione) e dall’altro estranei ad esso perché assolti.
9.1.- Osserva in proposito la Sezione che
è pacifico in giurisprudenza che il professionista debba ritenersi inserito in modo continuativo, ancorché temporaneo, nell'apparato organizzativo della p.A., tutte le volte in cui, assumendo particolari vincoli ed obblighi funzionali, contribuisca ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali e, cioè, tutte le volte in cui la relazione tra l'autore dell'illecito e l'ente pubblico danneggiato integri un rapporto di servizio in senso lato (Cassazione civile, sezioni unite, 22.09.2014, n. 19891; Corte Conti reg. (Puglia), sezione giurisdizionale, 27.01.2005, n. 72).
La nozione di rapporto di semplice servizio (in senso lato) è invero configurabile tutte le volte in cui il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo alla pubblica Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della medesima p.A., nella cui organizzazione, perciò, si inserisce, assumendo particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali, cui l'attività medesima, nel suo complesso, è preordinata.
Tra i soggetti in rapporto di servizio con la p.A., con riferimento alla responsabilità per danni cagionati nella esecuzione dell'incarico attribuito dall'Ente pubblico, vengono dalla giurisprudenza inclusi anche il direttore dei lavori e l'ingegnere capo per la realizzazione di un'opera pubblica, in considerazione dei compiti e delle funzioni che sono ad essi devoluti, che comportano l'esercizio di poteri autoritativi nei confronti dell'appaltatore, in quanto essi vengono funzionalmente e temporaneamente inseriti nell'apparato organizzativo della p.A. che ha loro conferito l'incarico, quali organi tecnici e straordinari della stessa.

Detto rapporto di servizio si differenzia tuttavia dai rapporti di lavoro dipendente di pubblico impiego, che implicano, oltre alla natura pubblica dell'Ente datore di lavoro, la diretta correlazione dell'attività lavorativa prestata con i fini istituzionali perseguiti, l'effettivo inserimento del lavoratore nell'organizzazione dell'Ente, l'orario predeterminato e assoggettato a controllo, la retribuzione prefissata e a cadenza mensile, nonché il carattere continuativo, professionale ed in via prevalente, se non esclusivo, delle prestazioni lavorative effettuate.
9.2.- Ciò posto va rilevato, con riguardo al caso che occupa, che l’art. 49, comma 1, della l.r. Piemonte n. 34 del 1989 stabilisce che “La Regione, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento”.
Detta disposizione, laddove fa riferimento all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio si riferisce ad un “suo dipendente”, sicché va interpretata nel senso che l’assunzione a carico della Regione degli oneri di difesa fosse riservato ai soli lavoratori dipendenti dalla Regione che fossero legati ad essa da rapporto di servizio in senso proprio e non in senso lato.
9.3.- Tanto comporta la legittimità del provvedimento impugnato, che ha denegato il rimborso delle spese sostenute per il patrocinio legale da parte degli attuali appellanti nel giudizio presso la Corte dei Conti perché esso era consentito unicamente a favore dei dipendenti veri e propri dell’Amministrazione regionale e non a vantaggio di soggetti legati ad essa da semplice rapporto di servizio in senso lato.
Nessuna contraddittorietà sussiste quindi nella circostanza che a suo tempo gli attuali appellanti siano stati oggetto di procedimento di responsabilità contabile da parte della Corte dei Conti, perché la giurisdizione di questa in materia di responsabilità si basa sul rapporto di servizio e, quindi, sussiste anche in fattispecie nelle quali è del tutto assente un rapporto lavorativo di impiego in senso stretto.

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, applicabile alla fattispecie ratione temporis, il rilascio della concessione edilizia si configura come fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri vigenti a tale momento (tabelle parametriche regionali e deliberazione del Consiglio Comunale).
Il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto per il solo rilascio della concessione, senza che neanche rilevi, ad esclusione dell’obbligo, la già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione.
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L’appello deve essere accolto anche sulla scorta di identico precedente di questa Sezione, pronunciato con la sentenza n. 1108 del 22.02.2011.
Non è contestato che il Comune di Corridonia abbia stipulato la convenzione di lottizzazione riportata in fatto l’08.06.1975 e che le relative opere di urbanizzazione siano state del tutto eseguite negli anni successivi.
L’appellata sostiene in base ad un assunto sollevato con il ricorso originario e ritenuto fondato dal TAR delle Marche, che l’obbligo del lottizzatore di realizzare in proprio le opere di urbanizzazione primaria e l’assunzione a proprio carico di quota parte delle spese occorrenti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria avrebbero ormai soddisfatto anche gli oneri cui essa era tenuta in relazione al rilascio della concessione edilizia a proprio favore.
L’assunto non può essere condiviso.
In realtà non vi è alcuna correlazione tra il titolo concessorio rilasciato alla lottizzazione “D’Amen Duilio” e quello successivamente rilasciato la signora Ma.Lu.Lu., per la realizzazione di un intervento del tutto estraneo al piano di lottizzazione risalente a vent’anni addietro.
Come è noto, ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, applicabile alla fattispecie ratione temporis, il rilascio della concessione edilizia si configura come fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il relativo contributo per oneri di urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo assentito e per le quali l’area acquista un beneficio economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri vigenti a tale momento (tabelle parametriche regionali e deliberazione del Consiglio Comunale) (ex multis, Cons. St. Sez. V, 23.01.2006, n. 159; id., 21.04.2006, n. 2258; Sez. IV 18.10.2010, n. 7565).
Il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto per il solo rilascio della concessione, senza che neanche rilevi, ad esclusione dell’obbligo, la già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione (Cons. St. sez. V, 04.05.2004, n. 2687).
Vi è inoltre da rilevare che le opere di urbanizzazione previste dal primitivo piano di lottizzazione sono state parametrate su di un determinato carico urbanistico esauritosi con la costruzione di tutti gli immobili previsti in convenzione; la concessione edilizia intervenuta per vent’anni dopo è stata rilasciata in attuazione di un successivo strumento urbanistico che ha previsto ulteriori costruzioni nell’area interessata e dunque, inevitabilmente, ulteriori necessità in materia di opere di urbanizzazione.
E’ evidente che un nuovo piano regolatore non può essere collegato ad opere di urbanizzazione preesistenti necessarie per una diversa e minore volumetria costruibile e perciò la concessione edilizia in questione, se rilasciata in esenzione degli oneri, andrebbe inevitabilmente ad aggravare opere realizzate su una determinata collettività numericamente determinata o determinabile, ma non eseguite per sopportare nuovi e maggiori carichi urbanistici non previsti e delineati dall’amministrazione comunale in epoca del tutto successiva.
Quanto preteso dalla concessionaria potrebbe realizzarsi solo attraverso l’atto di trasferimento della concessione edilizia già rilasciata per successione a titolo particolare nella proprietà dell’area, con effetto novativo del rapporto tra amministrazione concedente e concessionario privato, il che è, nella specie, da escludersi data l’autonomia delle concessioni rilasciate in attuazione del piano di lottizzazione e quella emessa in favore della Lu. rilasciate in relazione a diversi interventi edilizi.
L’appello va dunque accolto con il conseguente rigetto del ricorso originario in riforma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.01.2016 n. 260 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: La revisione dei prezzi di cui all'art. 6, l. 24.12.1993 n. 537 e all’art. 115 del codice dei contratti si applica solo alle proroghe contrattuali, come tali previste ab origine negli atti di gara ed oggetto di consenso “a monte”, ma non anche agli atti successivi al contratto originario con cui, mediante specifiche manifestazioni di volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a quello originario per quanto concerne la remunerazione del servizio, senza che sia stata avanzata alcuna proposta di modifica del corrispettivo, che pure la parte privata era libera di formulare.
La proroga del termine finale di un appalto, infatti, comporta il solo differimento del termine di scadenza del rapporto (il quale resta regolato dalla sua fonte originaria), mentre il rinnovo del contratto costituisce una nuova negoziazione con la controparte, ossia un rinnovato esercizio dell'autonomia negoziale attraverso cui vengono liberamente pattuite le condizioni del rapporto.
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3. - Vanno respinti, invece, gli ulteriori motivi coi quali, sulla base di diversi argomenti si sostiene che troverebbe applicazione la disciplina della revisione prezzi per il periodo successivo allo scadere dell’originario contratto (30.9.2007).
3.1. - L’appellante afferma che gli atti dell’INPS di affidamento del servizio di mese in mese hanno natura di proroga tecnica, volta solo a consentire la prosecuzione del rapporto, senza riesercizio dell’autonomia negoziale e senza effetti novativi, nelle more della nuova procedura di gara (poi dell’adesione alla convenzione CONSIP).
Il Collegio ritiene corretta la qualificazione operata dal TAR.
La revisione dei prezzi di cui all'art. 6, l. 24.12.1993 n. 537 e all’art. 115 del codice dei contratti si applica solo alle proroghe contrattuali, come tali previste ab origine negli atti di gara ed oggetto di consenso “a monte” (proroghe, nella specie, non previste: cfr. art. 2 del capitolato), ma non anche agli atti successivi al contratto originario con cui, mediante specifiche manifestazioni di volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a quello originario per quanto concerne la remunerazione del servizio, senza che sia stata avanzata alcuna proposta di modifica del corrispettivo, che pure la parte privata era libera di formulare (Consiglio di Stato, sez. III, 11/07/2014, n. 3585).
La proroga del termine finale di un appalto, infatti, comporta il solo differimento del termine di scadenza del rapporto (il quale resta regolato dalla sua fonte originaria), mentre il rinnovo del contratto costituisce una nuova negoziazione con la controparte, ossia un rinnovato esercizio dell'autonomia negoziale attraverso cui vengono liberamente pattuite le condizioni del rapporto (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.01.2016 n. 209 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nella specie paiono sussistere i presupposti l’ostensione degli atti amministrativi, alla luce degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990.
In particolare sussiste sicuramente l’interesse diretto, concreto e attuale previsto dall’art. 22, comma 1, lett. b), legge n. 241 cit., poiché la ricorrente chiede di prendere visione degli atti inerenti un procedimento amministrativo che ha direttamente inciso sulle sue situazioni giuridiche soggettive sia personali che proprietarie, avendo subito un sopralluogo nella sua abitazione da parte dell’autorità amministrativa.
Né sembrano rinvenibili nella specie limiti all’accesso ai sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990; quanto alla “violazione penale” che l’Amministrazione evoca nella nota depositata il 05.12.2015 essa non pare configurare un limite all’accesso: coma la giurisprudenza amministrativa ha chiarito il segreto istruttorio penale viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall’autorità amministrativa nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall’ordinamento, non già quando l’Amministrazione si limiti a presentare una denuncia all’A.G. nell’esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, com’è invece avvenuto nella specie, avendo il Comune effettuato una comunicazione di notizia di reato con riferimento alla asserita violazione da parte della ricorrente dell’ordine dell’autorità consistente nella accertata inagibilità del suo appartamento.
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... per l'annullamento del silenzio-significativo, di rigetto, serbato dal Comune di Bagno a Ripoli sull'istanza 17.09.2015, diretta ad ottenere l'accesso agli atti e documenti amministrativi del procedimento nell'ambito del quale funzionari della Polizia Municipale di Bagno a Ripoli hanno eseguito un sopralluogo all'interno dell'abitazione della ricorrente, posta in ..., via ... n. 17, il giorno 12.09.2015.
...
Il ricorso è fondato.
In data 17.09.2015 i difensori della ricorrente, muniti di specifica delega, richiedevano al Comune di Bagno a Ripoli l’accesso agli atti amministrativi, con estrazione di copia, con riferimento a “tutti i documenti e gli atti del procedimento amministrativo nell’ambito del quale funzionari della polizia municipale hanno eseguito un sopralluogo all’interno dell’abitazione di Ro.Ca., posta in ..., via ... n. 17, il giorno 12.09.2015”.
È pacifico che il Comune di Bagno a Ripoli non ha dato riscontro alla suddetta istanza di accesso agli atti, specificando l’Amministrazione nella nota depositata in giudizio il 05.12.2015 che essa è rimasta senza riscontro “per mera dimenticanza”.
Rileva tuttavia il Collegio che nella specie paiono sussistere i presupposti l’ostensione degli atti amministrativi, alla luce degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990; in particolare sussiste sicuramente l’interesse diretto, concreto e attuale previsto dall’art. 22, comma 1, lett. b), legge n. 241 cit., poiché la ricorrente chiede di prendere visione degli atti inerenti un procedimento amministrativo che ha direttamente inciso sulle sue situazioni giuridiche soggettive sia personali che proprietarie, avendo subito un sopralluogo nella sua abitazione da parte dell’autorità amministrativa; né sembrano rinvenibili nella specie limiti all’accesso ai sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990; quanto alla “violazione penale” che l’Amministrazione evoca nella nota depositata il 05.12.2015 essa non pare configurare un limite all’accesso: coma la giurisprudenza amministrativa ha chiarito il segreto istruttorio penale viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall’autorità amministrativa nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall’ordinamento, non già quando l’Amministrazione si limiti a presentare una denuncia all’A.G. nell’esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative (TAR Lazio, 2^ Sez., n. 11188/2015), com’è invece avvenuto nella specie, avendo il Comune di Bagno a Ripoli effettuato una comunicazione di notizia di reato con riferimento alla asserita violazione da parte della ricorrente dell’ordine dell’autorità consistente nella accertata inagibilità del suo appartamento.
Il Collegio evidenzia infine che, come posto in luce dalla difesa di parte ricorrente in sede di discussione orale, la documentazione versata in atti dall’Amministrazione in data 05.12.2015 non pare in effetti completamente satisfattiva della pretesa azionata, stante tra l’altro, e soprattutto, la mancanza del verbale dello svolto sopralluogo (TAR
Toscana, Sez. III, sentenza 21.01.2016 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le roulotte utilizzate come abitazioni necessitano del permesso di costruire.
Il legislatore identifica le nuove costruzioni non solo e non tanto per le loro caratteristiche costruttive, ma piuttosto per il loro uso, ove sia destinato a soddisfare esigenze non meramente temporanee.

L'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, alla lettera e) definisce gli interventi di nuova costruzione come "quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite nelle lettere precedenti (ovvero, interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia)", riportando un elenco di interventi che, in ogni caso, non possono mai esulare da tale categoria.
Tra tali interventi, alla lettera e.5), l'anzidetta norma prevede "l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee".
In altri termini, il legislatore identifica le nuove costruzioni non solo (e non tanto) per le loro caratteristiche costruttive, ma piuttosto per il loro uso, ove sia destinato a soddisfare esigenze di carattere non meramente temporaneo.
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La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo.

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... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione di opere abusive n. 93, prot. n. 14801 del 21/10/2015 emesso dal Servizio 4° Area Tecnica; dell'ordinanza di rimessa in pristino e di demolizione di opere abusive n. 106, prot. n. 16040 del 12/11/2015 del Servizio 4° Area Tecnica.
...
Osservato che:
- L'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, alla lettera e) definisce gli interventi di nuova costruzione come "quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite nelle lettere precedenti (ovvero, interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia)", riportando un elenco di interventi che, in ogni caso, non possono mai esulare da tale categoria;
- Per quanto qui rileva, tra tali interventi, alla lettera e.5), l'anzidetta norma prevede "l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee";
- In altri termini, il legislatore identifica le nuove costruzioni non solo (e non tanto) per le loro caratteristiche costruttive, ma piuttosto per il loro uso, ove sia destinato a soddisfare esigenze di carattere non meramente temporaneo;
- Nel caso di specie, le opere realizzate dal ricorrente in assenza di titolo edilizio integrano quelle di cui alla predetta lettera e.5, in quanto, come accertato dal Comune nel corso dei sopralluoghi del 06.10.2015 e del 06.11.2015, le quattro roulotte e l’autocarro trovati sul lotto di proprietà del ricorrente:
a) vengono utilizzati stabilmente come abitazione per la famiglia dei signori Me., avendo questi stessi dichiarato agli agenti di non avere alternative di alloggio e di avere i figli che frequentano la scuola a San Martino di Lupari;
b) sono collegati ad un sistema di approvvigionamento dell’acqua, attraverso un pozzo di prelevamento dell’acqua dal sottosuolo, e ad un sistema di smaltimento delle acque che vengono convogliate in un box di raccolta delle acque;
c) sono allacciati alla rete di distribuzione dell’energia elettrica;
d) insistono su terreno di proprietà dei medesimi ricorrenti;
- La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo (Cons. St. 4116/2015);
- Dalle suddette circostanze emerge la riconducibilità delle opere realizzate dal ricorrente alla categoria della nuova costruzione e la loro soggezione al regime del permesso di costruire; in ogni caso si tratterebbe d’interventi non ammessi in zona agricola; di qui la legittimità delle ordinanze di demolizione adottate dal Comune di San Martino di Lupari;
- La modifica dell’estensione dell’area da acquisire è dovuta allo spostamento delle roulotte che la ricorrente ha effettuato tra il sopralluogo del 6 ottobre e quello del 6 novembre;
- In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.01.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di gestione - Mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione - Configurabilità del reato - Artt.208, 209, 210, 211, 212, 214, 215, 216, 256 e 266, D.Lgs. n.152/2006.
Il reato di cui all'art. 256, comma primo, del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, che sanziona le attività di gestione compiute in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo D.Lgs. è configurabile nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, salva l'applicabilità della deroga di cui al comma quinto dell'art. 266 del D.Lgs. 152 del 2006, per la cui operatività occorre che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114 e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Cass. Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep. 08/01/2015, P.M. in proc. Seferovic; Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014 - dep. 09/07/2014, P.M. in proc. Lazzaro).
RIFIUTI - Trasporto non autorizzato di rifiuti - Condotta occasionale - Configurabilità del reato.
Il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti si configuri anche in presenza di una condotta occasionale, in ciò differenziandosi dall'art. 260 D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, che sanziona la continuità della attività illecita (Cass. Sez. 3, n. 24428 del 25/05/2011 - dep. 17/06/2011, D'Andrea).
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Presupposto della inapplicabilità del regime ordinario - Onere probatorio incombente in capo a chi invoca.
In tema di rifiuti, non va nemmeno dimenticato che il presupposto della inapplicabilità del regime ordinario di gestione dei rifiuti e della contestuale applicabilità del regime giuridico più favorevole andrebbe provato da chi lo invoca, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (giurisprudenza costante: v., sull'onere probatorio incombente in capo a chi invoca l'applicabilità di una disciplina in deroga nella materia della gestione dei rifiuti, da ultimo, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015 - dep. 17/04/2015, Fortunato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.01.2016 n. 2230 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICI: Concessione ko se c'è fallimento. Legittima la revoca del project financing da parte dell'ente. Il Consiglio di stato ha confermato la decisione del Tar: a rischio il patrimonio comunale.
Legittima la revoca della concessione in project financing all'impresa fallita nel caso in cui il comune abbia prestato garanzie ipotecarie a favore della società di progetto.

È questo il contenuto della sentenza 18.01.2016 n. 123 del Consiglio di Stato, Sez. V, che si è così pronunciato in merito al ricorso presentato dagli organi del fallimento della controllante di una società di progetto avverso la decisione del Tar di giudicare legittima la revoca della concessione per le costruzione e gestione di un parcheggio pubblico operata da parte del comune a seguito della dichiarazione di fallimento nei confronti della controllante.
L'operazione oggetto del ricorso presenta i canoni della tipica iniziativa realizzata attraverso la tecnica della finanza di progetto: la ricorrente si è aggiudicata, infatti, la concessione per la realizzazione e gestione di un parcheggio situato in un'area di proprietà del comune. Successivamente, in conformità con la convenzione stipulata tra società e comune, è stata realizzata la segregazione patrimoniale del progetto con la creazione della società veicolo (Spv). Quest'ultima, al fine di realizzare l'intervento oggetto della Convenzione, ha richiesto a un istituto di credito un finanziamento, del quale il comune concedente si è fatto garante quale terzo datore di ipoteca.
Successivamente alla dichiarazione di fallimento della controllante, il comune ha comunicato alla società l'avvio del procedimento per la revoca della concessione, con conseguente risoluzione del relativo rapporto contrattuale ai sensi dell'articolo 158 del dlgs 163/2006 (Codice degli appalti). La società e la sua controllante, dopo aver visto respinta da parte del comune l'istanza di annullamento in autotutela del provvedimento di revoca della concessione, hanno presentato ricorso al Tar competente, contestando l'illegittimità dell'atto dell'amministrazione concedente per violazione della convenzione e del codice degli appalti. Avverso la decisione dei giudici amministrativi di primo grado che hanno respinto il ricorso, le società hanno presentato, poi, appello di fronte al Consiglio di stato.
La sentenza con la quale i giudici di palazzo Spada respingono l'appello presentato dalle ricorrenti muove dai presupposti sulla base dei quali il comune ha proceduto alla revoca della concessione: da un lato, infatti, il Consiglio di stato riconosce all'amministrazione concedente il venir meno, a seguito del fallimento della controllante della Spv, delle garanzie originarie previste dalla Convenzione; dall'altro lato, poi, riafferma la sussistenza di ritardi ingiustificati nell'esecuzione dell'opera.
Sotto il profilo delle garanzie, infatti, il sopravvenuto fallimento, e la conseguente diminuita garanzia patrimoniale del concessionario, espone a rischio l'integrità patrimoniale del comune, dal momento che questo ha coadiuvato le società nel reperimento delle risorse necessarie alla realizzazione del progetto, assumendo la veste di terzo datore di ipoteca nei confronti dell'istituto bancario che ha erogato il finanziamento. E, sempre secondo i giudici, tale garanzia patrimoniale non appare sufficientemente reintegrata da una sentenza di primo grado del giudice tributario, secondo la quale alle appellanti spetterebbe un rimborso fiscale di notevole importo.
Per quanto riguarda, poi, la questione dei ritardi nel completamento del parcheggio, sulla base dei quali l'amministrazione concedente ha posto il rifiuto di procedere al riconoscimento –e al successivo pagamento– del decimo stato di avanzamento lavori, le ricorrenti imputano al comune la responsabilità del fermo lavori, che sarebbero potuti proseguire con le risorse erogate con il decimo stato di avanzamento lavori.
Sebbene i giudici del Consiglio di stato riconoscano che lo slittamento sia avvenuto a causa di alcuni ritrovamenti archeologici, dall'altra parte, dopo la risoluzione del problema legato ai reperti rinvenuti, la società non ha formulato un nuovo cronoprogramma, limitandosi ad indicare una data finale, senza specificare, perciò, la tempistica delle singoli fasi dei lavori. Di conseguenza, l'esigenza di ottenere il riconoscimento del decimo Sal per consentire la prosecuzione dei lavori è la conferma, secondo i giudici di palazzo Spada, dell'incapacità finanziaria della Spv nel realizzare l'opera senza la partecipazione da parte del comune al rischio connesso.
L'ultima questione affrontata nella sentenza riguarda la richiesta di indennizzo presentata dalle società ricorrenti ai sensi dell'articolo 21-quinquies della legge 214/1990 e dell'articolo 158 del Codice degli appalti. I giudici amministrativi, nel ribadire che la revoca appare giustificata dal venir meno delle garanzie patrimoniali del concessionario e dalla ritardata esecuzione dei lavori, respinge la richiesta delle appellanti. La corresponsione dell'indennizzo ai sensi dell'articolo 21-quinquies, infatti, non sembra spettare dal momento che la revoca della concessione da parte del comune è avvenuta sulla rinnovata valutazione dell'interesse pubblico, anche –e soprattutto– basata sulle vicende della concessionaria.
Il diniego del rimborso richiesto ai sensi dell'articolo 158 attiene, invece, all'impossibilità di quantificare il credito della concessionaria al momento della sentenza, essendo ancora in corso di accertamento da parte del comune l'effettivo avanzamento dei lavori, la loro corretta esecuzione e gli effetti determinati dal periodo di abbandono imputabile alle ricorrenti (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

VARI: Negligenza sulle strisce. E la patente va in fumo.
Chi investe un pedone sulla strisce pedonali può tornare facilmente sui banchi di scuola guida per ripetere l'esame. Spetta infatti alla motorizzazione disporre la revisione della licenza di guida sulla base del rapporto della polizia. Ma trattandosi di un provvedimento precauzionale basta un minimo dubbio sulla idoneità del conducente. Non servono multe o violazioni conclamate alle regole di prudenza stradale.

Lo ha ribadito il TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, con la sentenza 18.01.2016 n. 12.
Un automobilista ha investito un pedone che camminava sulle strisce e per questo la motorizzazione ha disposto la revisione delle patente ai sensi dell'art. 128 del codice. Contro questa misura cautelare l'interessato ha proposto ricorso ai giudici amministrativi ma senza successo.
La giurisprudenza ha ampiamente chiarito che questa misura precauzionale non ha natura punitiva come la revisione per azzeramento del punteggio disponibile. Spetta alla discrezionalità della motorizzazione disporre la revisione della licenza di guida quando dalle modalità del sinistro insorgono dubbi sulla dinamica del sinistro ovvero sulla condotta di guida dell'automobilista.
Spetta dunque in prima battuta agli organi di polizia stradale inquadrare bene la situazione. E argomentare adeguatamente nel rapporto alla motorizzazione che dal luogo dell'incidente possono emergere dubbi sulla persistenza dei requisiti fisici o dell'idoneità tecnica dell'autista (articolo ItaliaOggi Sette del 15.02.2016).
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MASSIMA
Il ricorso non può essere accolto.
Ai sensi dell'articolo 128 del codice della strada "Gli uffici competenti del Dipartimento per i trasporti terrestri, nonché il prefetto nei casi previsti dagli articoli 186 e 187, possono disporre che siano sottoposti a visita medica presso la commissione medica locale di cui all'art. 119, comma 4, o ad esame di idoneità i titolari di patente di guida qualora sorgano dubbi sulla persistenza nei medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti o dell'idoneità tecnica".
La giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che
il presupposto che legittima la revisione della patente di guida risiede, ai sensi dell'art. 128, comma 1, del Codice della Strada (d.lgs. n. 285 del 1992), nell'insorgenza di dubbi sulla persistenza, nel titolare, dei requisiti fisici e psichici o dell’idoneità tecnica; ciò che legittima l'Autorità competente a disporre la revisione della patente di guida non è quindi rappresentato dalla certezza della responsabilità del conducente, bensì dal dubbio, ingenerato dalla dinamica di un sinistro ovvero dalla complessiva condotta di guida tenuta, sulla persistenza dei requisiti psico-fisici ovvero dell'idoneità tecnica (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2430 del 2013).
In tale quadro si è anche precisato che
tale provvedimento, a differenza di quello assunto ai sensi dell'art. 126-bis del d.lgs. n. 285 del 1992, non ha finalità sanzionatorie o punitive e non presuppone l'accertamento di una violazione delle norme sul traffico o di quelle penali o civili, ma è -per l'appunto- adottato in dipendenza di qualunque episodio che giustifichi un ragionevole dubbio sulla persistenza dell'idoneità psico-fisica o tecnica (Cons. Stato, sez. IV, n. 4962 del 2011; TAR Piemonte, sez. II, n. 270 del 2014).
In altri termini, come statuito in modo conforme da una costante e condivisa giurisprudenza,
la revisione della patente non costituisce una sanzione, ma una misura di tipo precauzionale ove sussistano dei dubbi sul permanere della capacità di guida dell’interessato.
Nel caso in esame lo stesso ricorrente ammette di aver investito un pedone che percorreva le strisce pedonali, causandogli un grave trauma con ricovero in ospedale.
Pur apprezzando le circostanze attenuanti illustrate dal ricorrente, in particolare la scarsa visibilità e la scarsa illuminazione delle strisce pedonali in questione, tuttavia il fatto quale emerge dal rapporto dei carabinieri cui si richiama il provvedimento in questa sede gravato, risulta oggettivamente di una certa gravità, per cui, al di là degli aspetti soggettivi e dell’assenza di colpa del ricorrente, tuttavia risulta sufficiente a sorreggere la motivazione dell’atto impugnato, ferma restando la non sindacabilità di valutazioni discrezionali qualora non siano illogiche o prive di un supporto fattuale.
In altri termini, seguendo la prevalente giurisprudenza,
la motivazione di un atto amministrativo può evincersi dagli atti richiamati e da quelli esistenti nel fascicolo, soprattutto ove come nel caso siano di provenienza pubblica e non contestati negli elementi fattuali.
In sostanza, per l’infondatezza delle censure proposte il ricorso va rigettato, anche se le circostanze dell’incidente stradale inducono il collegio a compensare le spese di giudizio tra le parti.

APPALTI SERVIZI: Associazioni volontariato, l'appalto non è vietato. Alle associazioni di volontariato non è precluso partecipare agli appalti.
Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 15.01.2016 n. 116 nell'ambito di una licitazione privata indetta dall' Asl Napoli 4 per l'affidamento del Servizio trasporto infermi sul territorio - Servizio 118 di tipo B/M, alla quale avevano chiesto di partecipare tre società commerciali e due associazioni di volontariato.
Come osservano i giudici amministrativi, anche alla luce della direttiva Ce n. 18/2004 e della giurisprudenza della Corte di giustizia (Cge 23/12/2009, causa C-305/08), la nozione comunitaria di imprenditore non presuppone lo scopo di lucro dell'impresa, per cui «l'assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici».
Per quanto concerne, in particolare, le associazioni di volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli appalti dal momento che la legge quadro sul volontariato, nell'elencare le entrate di tali associazioni, cita anche le entrate derivanti da «attività commerciali o produttive svolte a latere», con ciò riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa.
Esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali «imprese sociali», a cui il dlgs 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa (vedi ex multis Cds n. 283/2013 nonché n. 5882/2012).
Pertanto, appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di lucro non sia elemento idoneo ad escludere che il servizio di trasporto di urgenza e di infermi svolto dalle associazioni di volontariato sia da classificare nella categoria delle attività economiche in concorrenza con gli altri operatori del settore.
La nozione di imprenditore sopra esposta, tra l'altro, risulta recepita anche dal Codice dei contratti (dlgs n. 163/2006), che si riferisce all'imprenditore come «operatore economico» ammesso a partecipate alle gare per la realizzazione di opere e l'affidamento di servizi senza ulteriori specificazioni (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.02.2016).
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MASSIMA
L’assunto del TAR non è condivisibile.
In primo luogo, a differenza di quanto asserito da controparte, alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e della giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGE 23.12.2009, causa C-305/08)
la nozione comunitaria di imprenditore non presuppone la coesistenza dello scopo di lucro dell’impresa, per cui “l'assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici. Quanto, in particolare, alle associazioni di volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli appalti, ove si consideri che la legge quadro sul volontariato, nell'elencare le entrate di tali associazioni, menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa. Esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese sociali", a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa (vedi ex multis CdS n. 283/2013 nonché n. 5882/2012).
Pertanto
appare ormai pacifico che l’assenza di scopo di lucro non sia elemento idoneo ad escludere, in via di principio, che il servizio di trasporto di urgenza e di infermi svolto dalle associazioni di volontariato sia da classificare nella categoria delle attività economiche in concorrenza con gli altri operatori del settore.
2.2. La esposta nozione di imprenditore, tra l’altro, risulta recepita anche dal Codice dei Contratti (DLGS n. 163/2006), che si riferisce all’imprenditore come “operatore economico” ammesso a partecipate alle gare per la realizzazione di opere e l’affidamento di servizi senza ulteriori specificazioni .
Pertanto l’Associazione ricorrente, avendo i requisiti per partecipare alla gara in controversia, aveva interesse a ricorrere sia avverso la parziale rettifica del bando e degli atti successivi sia avverso la propria conseguente esclusione dalla gara.
2.3. Passando al merito, il ricorso di primo grado appare fondato con specifico riguardo alla violazione delle disposizioni in materia di appalto di servizi, di cui al DLGS n. 157/1995 ( normativa vigente prima del regime introdotto dal Codice degli Appalti di cui al D.LGS. n. 163/2006), nonché all’eccesso di potere per mancata partecipazione al procedimento di parziale autotutela ed alla violazione degli artt. 7-8 legge n. 241/1990 per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca in questione.
Infatti, considerato che l’associazione ricorrente era stata già ammessa alla licitazione privata con nota ASL 06.06.2006 ed aveva spedito l’offerta in data 13.07.2006, appare evidente che nel caso di specie la stazione appaltante avrebbe dovuto comunicare alla concorrente l’avvio del procedimento di parziale annullamento di ufficio, ai sensi dell’art. 7 legge n. 241/1990, in quanto quella indicata nella delibera come ”rettifica”, in realtà, introduceva una sostanziale modifica delle condizioni di accesso alla gara, che comportava di necessità l’esclusione della associazione di volontariato dalla prosecuzione della procedura.
2.4. Sotto il profilo sostanziale, poi, come abbiamo già esposto (affermando la sussistenza dell’interesse a ricorrere in capo alla Misericordia/appellante), la giurisprudenza comunitaria da tempo (vedi CGE cause C-305/08 e C-35/96) con riferimento al quadro normativo dell’epoca aveva avuto modo di rappresentare che
il fine di lucro non è requisito determinante per la nozione di impresa, che, invece, rinviene gli elementi essenziali nell’esercizio di una attività economica e nel connesso rischio di impresa.
2.5. D’altra parte
nel nostro ordinamento interno, lasciando da parte la disciplina giuridica del volontariato, anche in diritto civile il fine di lucro non costituisce un elemento essenziale della nozione di operatore economico, titolare di un’azienda.
Infatti,
il nostro codice di diritto civile, mentre definisce l’imprenditore come chi esercita professionalmente una attività economica per la produzione o lo scambio di beni e servizi, omettendo qualsiasi indicazione circa il fine di lucro, poi, anche nel disciplinare l’istituto delle società, distingue tra società commerciali con fini di lucro e società cooperative caratterizzate dallo scopo mutualistico.
2.6. Né portano a diverse conclusioni le argomentazioni esposte dalla ASL appellata (a difesa della pronuncia di inammissibilità del ricorso), secondo cui la partecipazione alla gara delle associazioni di volontariato sarebbe preclusa sia dal fatto che la legge sul volontariato n. 266/1991 stabilisce l’assenza del fine di lucro sia dal fatto che causerebbe una violazione del principio di libera concorrenza, operando una grave turbativa delle logiche di mercato.
Infatti, da un lato,
la fissazione nel bando del criterio della offerta più vantaggiosa non comporta di per se stesso che l’associazione di volontariato tragga dei profitti dal servizio, essendo sufficiente che nell’offerta il prezzo sia ancorato al puntuale computo degli oneri derivanti dalla prestazione, individuando, quindi, il livelli del profitto zero, mentre, per altro verso, come la Corte di Giustizia ha affermato di recente (su ordinanza di rinvio pregiudiziale effettuato da questa Sezione per questione con aspetti analoghi, vedi CGE su C-113/2014) la esigenza di tutelare la concorrenza va bilanciata, anche a livello comunitario, con altri principi quali quello della solidarietà, della economicità e dell’equilibrio del bilancio, che, nel trasporto di urgenza e di infermi, hanno un peso notevole, trattandosi di una attività dai preminenti profili socio sanitari, che il soggetto pubblico ha interesse ad offrire alla generalità alle condizioni più accessibili.
Non va, infatti, trascurata la considerazione che la stessa stazione appaltante viene avvantaggiata dalla circostanza che la gara, grazie alla partecipazione anche delle associazioni di volontariato, si concluda con l’affidamento del servizio trasporto ambulanza a condizioni economiche più favorevoli con evidente vantaggio sotto il profilo sia finanziario sia di accessibilità del servizio.

PUBBLICO IMPIEGO: La condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono di ufficio per fini personali, al di fuori dei casi di urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso allorché produca un danno apprezzabile al patrimonio della Pubblica Amministrazione o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio.
Viceversa, deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative.
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3. Ferma -quindi- la qualifica di incaricato di pubblico servizio ricoperta dal Ca., pienamente fondate si rivelano, come premesso, le doglianze espresse dal primo ricorso sulla configurabilità, oggettiva e soggettiva, del reato di peculato d'uso attribuito al ricorrente.
4. Prima ancora che nell'analisi dell'elemento soggettivo dell'ascritto reato di peculato d'uso, da effettuarsi anche alla luce della prassi risalente nel tempo e anteriore all'assunzione della carica presidenziale dell'imputato instaurata presso AMSC in merito alla dotazione con uso "illimitato" di cellulari aziendali conferita a dirigenti e vertici della struttura e segnatamente ai "presidenti", l'impugnata sentenza di appello (mutuando carenze della confermata decisione di primo grado) delinea una motivazione gravemente deficitaria sulle componenti strutturali della fattispecie criminosa ex art. 314, comma 2, c.p. (ritenuta alla luce della ricordata sentenza Vattani delle Sezioni Unite del 20.12.2012) e tale da prefigurare sotto più aspetti, a causa di una omessa o incompleta contestualizzazione storica della vicenda processuale, la stessa oggettiva insussistenza del reato.
4.1. Già sul piano della offensività della condotta, quale produttiva di danno per l'ente pubblico Comune di Gallarate, socio unico della AMSC S.p.A., appaiono difettare -a tutto concedere- elementi di concretezza della fattispecie criminosa ipotizzata.
Non è revocabile in dubbio, infatti, che il complessivo importo delle telefonate di natura privata effettuate -in tesi- in modo abusivo dal Ca., pari alla somma di euro 350 maturata nell'arco di un periodo di tempo di oltre due anni, assuma oggettivi contorni di irrisorietà (id est insussistenza), se rapportata (come in definitiva riconoscono entrambe le sentenze di merito) alla globalità delle poste di bilancio societarie e all'imponente entità dei costi aziendali (migliaia di euro) annualmente sostenuti all'epoca dei fatti (anni 2007/2009) dalla AMSC per l'uso dei telefoni cellulari conferiti a dipendenti e vertici della società.
Non è casuale, del resto, che la stessa menzionata sentenza Vattani delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 19054/13 del 20.12.2012, Rv. 255296) individui uno dei requisiti integrativi della fattispecie del peculato d'uso nella "apprezzabilità" del danno prodotto al patrimonio della persona offesa (sia questa la pubblica amministrazione o un terzo in danno dei quali avvenga la condotta appropriativa) ovvero determini, alternativamente, un'effettiva concreta lesione alla "funzionalità" dell'ufficio o servizio del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio agente. Con l'inferenza, quindi, della "irrilevanza" penale della condotta che risulti priva di tali connotazioni produttive di esiti economici e funzionali significativi (cfr., in tema di uso per fini personali del telefono di ufficio, in linea con Sez. U, Vattani: Sez. 6, n. 46282 del 24/09/2014, Brancato, Rv. 261009; Sez. 6, n. 50944 del 04/11/2014, Barassi, Rv. 261416).
4.2. Senz'altro carente va considerata -come dedotto dalla difesa dall'imputato (in sede di appello e di odierno ricorso per cassazione)- l'analisi svolta da entrambe le sentenze di merito e segnatamente da quella di appello sull'elemento soggettivo del reato, quando si abbia riguardo alle emergenze processuali, pur ampiamente ripercorse dai giudici di merito, asseveranti la storica esistenza della diffusa prassi in seno alla AMSC di un uso promiscuo di auto di servizio e soprattutto di telefoni aziendali riservato agli organi di vertice della società. Dato suscettibile di indurre, proprio sotto l'aspetto del dolo, un ragionevole dubbio sulla consapevolezza del Ca. dell'antigiuridicità dell'ascritto contegno di un uso improprio e penalmente illecito del cellulare dell'azienda (cfr., ex multis: Sez. 6, n. 32801 del 02/02/2012, Bracchi, Rv. 253270).
4.3. Ciò chiarito, tuttavia dirimente -per pregiudizialità storica e logica- si rivela l'analisi, affatto deficitaria, delle medesime emergenze processuali operata dalla Corte di Appello (sulla scia delle valutazioni della sentenza di primo grado, pur sottoposte dall'appellante a stringenti critiche ignorate o sommariamente disattese) con riguardo alla oggettiva configurabilità e, dunque, giuridica sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie del peculato d'uso ascritta al Ca..
In vero sconcertante appare la valutazione operata dai giudici di appello del documento 16.07.2001, definito "allegato" alla delibera di nomina del Ca. quale presidente del C.d.A. della società AMSC, che assegna all'imputato un cellulare con uso illimitato per motivi di ufficio e per motivi personali. In proposito la sentenza impugnata adduce a sospetto di autenticità tale atto, vuoi perché non sarebbe stato reperito (rectius consegnato alla p.g. a seguito dell'ordine di esibizione documentale del p.m.) in fase di indagini preliminari, vuoi perché la conferma della effettiva esistenza del documento riveniente dalla testimonianza del direttore generale dell'epoca Er.Fo., che pur ne ha avvalorato l'autenticità riconoscendo come propria la firma recata dall'atto, lascerebbe spazio a dubbi sulla attendibilità del testimone.
Come si evidenzia nel primo ricorso dell'imputato, la Corte di Appello ambrosiana non soltanto ha irragionevolmente creduto di valorizzare talune altre testimonianze di funzionari della AMSC, che non hanno negato l'esistenza del ridetto "allegato", asserendo soltanto di non averne avuto notizia o di non averlo visto, pur a fronte delle testimonianze dei predecessori del Ca. e in particolare del teste avv. Ma. (che ha assicurato di non aver mai saputo di un eventuale divieto di un uso promiscuo del cellulare aziendale in sua disponibilità: "io lo utilizzavo liberamente") e dello stesso direttore del personale ing. Ga. (che ha riferito di aver fatto uso di un cellulare della AMSC anche per scopi personali fin dalla sua assunzione, nel 2001, come dirigente della società), ma ha altresì offerto una travisante lettura del valore dimostrativo dell'allegato in parola.
Da un lato, a sostegno della inveridicità del documento, mai espressamente enunciata, si adduce la "stranezza" della sua mancata consegna in sede di esibizione e comunque la sua omessa formale archiviazione tra gli atti della AMSC. Ciò senza che si sia tenuto conto della multiforme dislocazione degli uffici della società e in ogni caso senza nessun accertamento o approfondimento dibattimentali pur ben possibili (anche ex art. 603 c.p.p.).
Da un altro lato si adduce, per espungere l'atto dal novero di quelli utilizzabili ai fini della decisione (sino a definirlo tamquam non esset), l'ulteriore "stranezza" della diversità palese della firma apposta sull'allegato dall'ing. Fo., sebbene questi l'abbia riconosciuta come propria, da altre firme del dirigente presenti su diversi documenti. Ciò senza che sia stato svolto un qualsiasi accertamento tecnicografico (perizia), non certo eludibile -per l'indubbia decisività del dato fattuale- con il noto canone di libera valutazione della prova per cui il giudice diviene peritus peritorum, e soprattutto senza nessuna verifica della generica affermata "inattendibilità" del riconoscimento della sottoscrizione da parte del testimone Fo..
Affermazione, questa, incongrua e contraddittoria sotto un triplice profilo.
In primo luogo perché da siffatto assunto non sono tratte le logiche conseguenze giuridiche in ordine alla effettiva falsità della testimonianza del Fo. (che avrebbe imposto la trasmissione delle sue dichiarazioni al pubblico ministero per il reato di cui all'art. 372 c.p.).
In secondo luogo perché le dichiarazioni del Fo. sono giudicate smentite da una singolare interpretazione della deposizione del direttore del personale Ga.; testimonianza che, nella evidente neutralità delle sue valenze descrittive, non solo non contraddice il direttore generale Fo., ma sembra avvalorarne (nei termini già prima indicati) l'addotta evenienza dell'uso promiscuo del telefono aziendale assegnato fin dal 2001 ai vertici della AMSC.
In terzo luogo, infine e specialmente, perché -a tutto voler concedere- la affermazione della inutilizzabilità del documento (c.d. allegato 1), che pure oggettivamente accredita siffatta evenienza, e della congiunta inattendibilità testimoniale del Fo., oltre ad essere apodittica e incoerente, appartiene al genere degli argomenti che provano troppo. Per il semplice motivo che, se in tesi il documento e la testimonianza del Fo. debbono considerarsi falsi, cioè in altre parole precostituiti per sostenere la linea difensiva del ricorrente, non è dato comprendere (come puntualmente segnala il primo ricorso) perché mai il Fo. non si sia curato di apporre sull'atto acquisito nel corso del giudizio di merito una propria firma che non desse adito a incertezze o illazioni quali quelle sviluppate nella sentenza di appello.
Ora, dinanzi all'esposto quadro ricompositivo degli elementi processuali sottesi alla regiudicanda e al di là di ogni ulteriore inferenza sulla carente risposta offerta dalla sentenza impugnata ai convergenti rilievi critici formulati dall'appellante imputato, è agevole e sufficiente osservare che la categoria della "stranezza" evocata dalla stessa decisione per svalutare un dato acquisito al processo (documento allegato 1; testimonianza Fo.), per di più confortato da altre fonti descrittive, ha meri connotati metagiuridici e, di per sé e in difetto di altri concreti elementi storici, non ha dignità processuale e logico-probatoria.
Per l'effetto, alla stregua della ricostruzione dei dati del processo elaborata dalle due conformi decisioni di merito (salva, in appello, la riqualificazione del reato ai sensi dell'art. 314, comma 2, c.p.), la sentenza di appello deve essere cassata senza rinvio perché il fatto criminoso contestato a Gi.Ca. non sussiste (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 14.01.2016 n. 1327).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, il proprietario del sito ove i rifiuti son stati illecitamente depositati, o a fine di abbandono o a fine di smaltimento, non risponde, per la sola ragione della sua qualifica dominicale rispetto al terreno o comunque al sito in questione, dei reati dì realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti stessi, in quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento lesivo, il che potrebbe verificarsi solo nell'ipotesi, che non risulta essere stata riscontrata nel presente caso, in cui il proprietario abbia compiuto autonomi atti di gestione o di movimentazione dei rifiuti.
In assenza, pertanto, di un obbligo giuridico di impedire l'evento ed in assenza di alcuna prova in ordine alla sua cooperazione nella determinazione dello stesso (cooperazione che, peraltro, potrebbe, in linea di principio, realizzarsi anche laddove vi sia in capo al proprietario del terreno la consapevolezza di aver ceduto la disponibilità di quello ad un terzo acciocché costui vi realizzi una discarica abusiva), nessuna responsabilità può essere attribuita al titolare del terreno che ometta di vigilare sulle condotte, tanto più se abusive dal punto di vista civilistico, di chi, in assenza di un valido titolo ovvero sulla base di un titolo finalizzato ad un uso non illecito della cosa, abbia la materiale disponibilità del terreno in questione.
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Oggetto del sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 1, cod. proc. pen. può ben essere qualsiasi bene -a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato- purché esso sia, sebbene indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti.

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Il ricorso, con le precisazioni che saranno di seguito svolte, è, comunque, infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.
Rileva, infatti, il Collegio come il ragionamento svolto dal Tribunale del riesame sia -ancorché solo in parte ed in modo tale da non pregiudicarne, data la perspicuità delle restanti argomentazioni, la correttezza del dispositivo- erroneo e illogico.
Invero, erra il Tribunale di Roma nell'attribuire a carico della Casentini, in quanto proprietaria del fabbricato e del terreno ove è stato rinvenuto un deposito incontrollato di rifiuti, pericolosi e non pericolosi, una posizione definita di responsabilità rispetto alla condotta criminosa ivi in corso di realizzazione.
Invero, questa Corte ha precisato in più occasioni che in materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, il proprietario del sito ove i rifiuti son stati illecitamente depositati, o a fine di abbandono o a fine di smaltimento, non risponde, per la sola ragione della sua qualifica dominicale rispetto al terreno o comunque al sito in questione, dei reati dì realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti stessi, in quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento lesivo, il che potrebbe verificarsi solo nell'ipotesi, che non risulta essere stata riscontrata nel presente caso a carico della Ca., in cui il proprietario abbia compiuto autonomi atti di gestione o di movimentazione dei rifiuti (Corte di cassazione Sezione III penale, 01.10.2014, n. 40528; idem Sezione III penale, 19.12.2013, n. 49327).
In assenza, pertanto, di un obbligo giuridico di impedire l'evento ed in assenza di alcuna prova in ordine alla sua cooperazione nella determinazione dello stesso (cooperazione che, peraltro, potrebbe, in linea di principio, realizzarsi anche laddove vi sia in capo al proprietario del terreno la consapevolezza di aver ceduto la disponibilità di quello ad un terzo acciocché costui vi realizzi una discarica abusiva), nessuna responsabilità può essere attribuita al titolare del terreno che ometta di vigilare sulle condotte, tanto più se abusive dal punto di vista civilistico, di chi, in assenza di un valido titolo ovvero sulla base di un titolo finalizzato ad un uso non illecito della cosa, abbia la materiale disponibilità del terreno in questione.
Del tutto illogico è il rilievo svolto dal Tribunale del riesame nella parte in cui ravvisa un titolo di responsabilità a carico della Ca. nel fatto che questa non abbia formalizzato in base ad un titolo negoziale la situazione possessoria del terreno in favore del Ma.; al riguardo infatti non può non rilevarsi che l'eventuale assenza di un valido titolo che legittimi il possesso del terzo costituirebbe, semmai, elemento scriminante rispetto alla condotta del proprietario del terreno, il quale non avrebbe neppure cooperato col terzo tramite la messa a disposizione dell'area da questo destinata alla realizzazione della discarica.
Rileva, tuttavia, questa Corte che la fallacia sul punto del ragionamento del Tribunale del riesame non è comunque fattore idoneo a privare per il resto di legittimità l'ordinanza impugnata.
Questa, infatti, si fonda essenzialmente non sulla esigenza di assicurare i futuri effetti della eventualmente disponenda confisca del terreno ai sensi dell'art. 240 cod. pen. (il che presupporrebbe l'esistenza di elementi tali da consentire la ravvisabilità nella condotta ipotizzata a carico del titolare del bene sequestrato dei profili dell'illecito penale), ma sul fine di sottrarre il terreno ove in maniera indiscussa è in corso di realizzazione la attività illecita oggetto della provvisoria imputazione mossa alla ricorrente ed a tale Ma.Mo., possessore del terreno de quo, alla libera disponibilità di quest'ultimo onde rimuovere il pericolo che il reato in provvisoria contestazione possa protrarsi o, comunque, essere portato a conseguenze ulteriori.
Tanto riscontrato, va, perciò, ribadito, come questa Corte ha in passato puntualizzato, che oggetto del sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 1, cod. proc. pen. può ben essere qualsiasi bene -a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato- purché esso sia, sebbene indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti (Corte di cassazione, Sezione V penale, 24.03.2010, n. 11287; idem Sezione IV penale, 12.08.2009, n. 32964).
Ricorrendo le predette condizioni nel caso in esame la ordinanza del Tribunale di Roma va ritenuta, fatta la precisazione di cui alla parte iniziale della presente sentenza, pienamente legittima ed il ricorso proposto dalla Casentini avverso si essa deve essere rigettato, con le derivanti conseguenze, precisate in dispositivo, in tema di regolamento delle spese processuali a carico della medesima (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.01.2016 n. 1158).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimi i lavori tardivi. Fuori legge le opere non completate in tre anni. Una sentenza della Corte di cassazione interviene sui termini dei permessi.
Sono illegittimi i lavori edilizi che non sono stati iniziati entro il termine di un anno dal rilascio del permesso e non sono stati completati entro il triennio successivo. In quanto la competente amministrazione all'atto del rilascio del permesso a costruire indica chiaramente i termini fissati per l'inizio e il termine finale delle opere oggetto di ristrutturazione.

Questo è quanto sostiene la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 14.01.2016 n. 1152 in materia di termini prefissati per i lavori edilizi.
Sottolineano i giudici di piazza Cavour, mentre per quanto concerne la ultimazione dei lavori questo termine non può essere, di regola, superiore alla durata di tre anni dall'inizio delle opere, per dare inizio a esse il titolare del permesso è onerato ad attivarsi entro un anno dal rilascio del permesso.
Siffatti termini sono, infine, suscettibili di essere prorogati, con provvedimento motivato, solo in presenza di fatti sopravvenuti indipendenti dalla volontà del titolare medesimo. Va, altresì, precisato che, come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, nel vigente contesto normativo, così come d'altra parte in quello precedentemente applicabile, non è ravvisabile la presenza di alcuna norma o principio di diritto che imponga l'emanazione di un provvedimento espresso riguardo alla intervenuta decadenza, posto che la legge stessa disciplina in via diretta la durata della concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la proroga.
Con la conseguenza, quindi, che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori opera di diritto e che il provvedimento pronunciante la decadenza, se eventualmente adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi ex se, in via diretta, in ragione dell'infruttuoso decorso del termine prefissato.
A seguito della entrata in vigore dell'articolo 30 del decreto legge 21.06.2013 decreto legge n. 69 (cosiddetto decreto del fare), convertito con modificazioni con la legge 09.08.del 2013 n. 98, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'articolo 44 del dpr n. 380 del 2001, gli interventi di ristrutturazione edilizia, consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente demoliti o crollati, debbono ritenersi assoggettati al rilascio del necessario permesso a costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadano, come nel caso in questione, in zona paesaggisticamente vincolata e sono altresì assoggettate all'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Pertanto sostengono i giudici di Cassazione che correttamente il tribunale del riesame ha ritenuto che sussistessero gli elementi per la conservazione del sequestro in ragione dell'assorbente motivo della intervenuta inefficacia del permesso a costruire.
Alla luce di tutto ciò ricordano i giudici di piazza Cavour non essendo stati iniziati i lavori nel termine di un anno dal rilascio del permesso a costruire e non essendo stati gli stessi completati entro il triennio, non possono essere ritenuti legittimi in quanto non validamente assentiti con un permesso a costruire in corso di validità (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il ricorso, essendo risultato infondato, deve essere, pertanto, rigettato, col conseguente accollo della spese processuali a carico del ricorrente
Rileva, infatti, la Corte, esaminando le doglianze contenute nell'impugnazione proposta dal Fa. e confrontandole con la motivazione della ordinanza impugnata, che quest'ultima si fonda, sia pure sotto molteplici profili, essenzialmente sul presupposto della sussistenza in capo al ricorrente dell'obbligo di dotarsi di idoneo permesso a costruire per la realizzazione delle opere oggetto di sequestro e della sua perdurante validità.
Assume in tale prospettiva valenza assorbente l'esame del motivo di ricorso formulato dal Fa. con il quale egli ha dedotto la illegittimità della ordinanza impugnata nella parte in cui essa sarebbe stata emessa in violazione dell'art. 15 del dPR n. 380 del 2001 laddove nella stessa si è affermata la sussistenza del fumus commissi delicti per avere il ricorrente realizzato l'immobile oggetto di sequestro dopo che il permesso a costruire n. 74 del 2007 a lui rilasciato era divenuto inefficace per essere scaduto il termine di decadenza previsto dall'art. 15 del dPR n. 380 del 2001 per l'inizio delle opere assentite.
Premessa, infatti, la necessità per il Fa. di dotarsi di un valido permesso a costruire per la realizzazione delle opere per cui è processo -atteso che,
pur a seguito della entrata in vigore dell'art. 30 del decreto legge n. 69 del 2013, convertito con modificazioni con legge 98 del 2013, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, gli interventi di ristrutturazione edilizia, consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente demoliti o crollati, debbono ritenersi assoggettati al rilascio nel necessario permesso a costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadano, come nel caso in questione, in zona paesaggisticamente vincolata, sono altresì assoggettate all'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio (Corte di cassazione, Sezione III penale, 30.09.2014, n. 40342; idem Sezione III penale, 07.02.2014, n. 5912)- rileva questa Corte che correttamente il Tribunale del riesame della misura cautelare reale ha ritenuto che sussistessero gli elementi per la conservazione del sequestro in ragione dell'assorbente motivo della intervenuta inefficacia del citato permesso a costruire n. 74 del 2007.
Va, infatti, ricordato che,
secondo quanto prescrive l'art. 15 del dPR n. 380 del 2001, all'atto del rilascio del permesso a costruire la competente Amministrazione indica anche i termini fissati per l'inizio ed il termine delle opere assentite; invero, mentre per quanto concerne la ultimazione dei lavori questo termine non può essere, di regola, superiore alla durata di tre anni dall'inizio delle opere, per dare inizio ad esse il titolare del permesso è onerato ad attivarsi entro un anno dal rilascio del permesso; siffatti termini sono, infine, suscettibili di essere prorogati, con provvedimento motivato, solo in presenza di fatti sopravvenuti indipendenti dalla volontà del titolare medesimo.
Va, altresì, precisato che, come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa,
nel vigente contesto normativo, così come d'altra parte in quello precedentemente applicabile, non é ravvisabile la presenza di alcuna norma o principio di diritto che imponga l'emanazione di un provvedimento espresso riguardo alla intervenuta decadenza, posto che la legge stessa disciplina in via diretta la durata della concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la proroga: con la conseguenza, quindi, che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori opera di diritto e che il provvedimento pronunciante la decadenza, se eventualmente adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi ex se, in via diretta, in ragione dell'infruttuoso decorso del termine prefissato (Consiglio di Stato, Sezione IV, 18.05.2012, n. 2915; nello stesso senso, cioè in quello della automaticità della inefficacia per l'inutile decorrenza del termine fissato per l'inizio o l'ultimazione dei lavori assentiti, anche Tar del Lazio, Sezione II-bis, 05.05.2015, n. 6356).
Premesso quanto sopra deve convenirsi con il Tribunale di Pescara nel rilevare che, non essendo stati iniziati i lavori realizzati dal Fa. oltre il termine di un anno dal rilascio del permesso a costruire n. 74 del 2007 e non essendo stati gli stessi completati entro il triennio, detti lavori, in disparte ogni altra considerazione, non possono essere ritenuti legittimi in quanto non validamente assentito con un permesso a costruire in corso di validità.

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di ristrutturazione edilizia - Ripristino o ricostruzione di edifici o parti di essi demoliti o crollati - Permesso a costruire - Necessità - Zona paesaggisticamente vincolata - Obbligo di rispettare anche la precedente sagoma - Artt. 3, 15, 30, e 44 dPR n. 380/2001.
Pur a seguito della entrata in vigore dell'art. 30 del decreto legge n. 69 del 2013, convertito con modificazioni con legge 98 del 2013, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, gli interventi di ristrutturazione edilizia, consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente demoliti o crollati, debbono ritenersi assoggettati al rilascio nel necessario permesso a costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, sono altresì assoggettate all'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio (Corte di cassazione, Sezione III penale, 30.09.2014, n, 40342; idem Sezione III penale, 07.02.2014, n. 5912) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.01.2016 n. 1152 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso a costruire - Inizio e termine delle opere - Proroga con provvedimento motivato, solo in presenza di fatti sopravvenuti indipendenti dalla volontà del titolare - Effetti - Decadenza del permesso a costruire - Inutile decorrenza del termine fissato per l'inizio o ultimazione dei lavori.
Ai sensi dell'art. 15 del dPR n. 380 del 2001, all'atto del rilascio del permesso a costruire la competente Amministrazione indica anche i termini fissati per l'inizio ed il termine delle opere assentite; invero, mentre per quanto concerne la ultimazione dei lavori questo termine non può essere, di regola, superiore alla durata di tre anni dall'inizio delle opere, per dare inizio ad esse il titolare del permesso è onerato ad attivarsi entro un anno dal rilascio del permesso; siffatti termini sono, infine, suscettibili di essere prorogati, con provvedimento motivato, solo in presenza di fatti sopravvenuti indipendenti dalla volontà del titolare medesimo.
Va, altresì, precisato che, nel vigente contesto normativo, non é ravvisabile la presenza di alcuna norma o principio di diritto che imponga l'emanazione di un provvedimento espresso riguardo alla intervenuta decadenza, posto che la legge stessa disciplina in via diretta la durata della concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la proroga: con la conseguenza, quindi, che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori opera di diritto e che il provvedimento pronunciante la decadenza, se eventualmente adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi ex se, in via diretta, in ragione dell'infruttuoso decorso del termine prefissato (Consiglio di Stato, Sezione IV, 18.05.2012, n. 2915; nello stesso senso, cioè in quello della automaticità della inefficacia per l'inutile decorrenza del termine fissato per l'inizio o l'ultimazione dei lavori assentiti, anche Tar del Lazio, Sezione II-bis, 05.05.2015, n. 6356) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.01.2016 n. 1152 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAZone protette, stop alle pale eoliche. Bocciato un ricorso contro il divieto di costruire nelle aree a tutela speciale.
Consiglio di Stato. Non sufficiente per una deroga il fatto che nelle vicinanze sia già operativo un altro impianto.
Il divieto di costruzione di pale eoliche nelle zone di protezione speciale (Zps) è assoluto e non ammette deroghe. Nemmeno per l’esistenza di altri impianti già attivi nella stessa zona né per il «favor» dell’Ue all’“energia pulita” da fonti rinnovabili.
È destinata a far giurisprudenza la sentenza 14.01.2016 n. 83 del Consiglio di Stato – IV Sez.– che ha bocciato i ricorsi con cui un’azienda contestava a una Regione la mancata autorizzazione a un parco eolico in un’area Zps e Iba («importante per gli uccelli»), senza aver prima avviato l’iter di Valutazione di impatto ambientale (Via).
Appellandosi ai princìpi di non discriminazione e proporzionalità in materia (Corte Ue, 2/2011), la ricorrente riteneva sempre d’obbligo la Via e chiedeva l’«ok» al progetto perché in ogni caso nella stessa area c’erano già le pale di un altro operatore e avrebbe prodotto l’energia pulita voluta dalla Ue (Direttiva 2009/28/Ce recepita con Dlgs 28/2011).
Per l’Ente, la procedura era inutile dato che sulle Zps il divieto di realizzare tali opere prescinde da esami d’impatto. Recepito con leggi regionali come in questo caso, il divieto è stato così stabilito dal ministero dell’Ambiente nel 2007 (articolo 5, Dm 17 ottobre): attuando le direttive “Uccelli” 79/409/Cee e “Habitat” 92/43/Cee e integrando le norme già adottate (Dpr 357/1997), ha fissato criteri minimi uniformi di tutela per Zps e zone speciali di conservazione (Zsc), con la sola deroga per opere commerciali istruite prima (soggette poi a Via).
Validando il «no» automatico alla domanda (deposito 2009) e richiamando la citata decisione della Corte Ue, i giudici hanno ribadito che «la norma pone un divieto assoluto di realizzazione di nuovi impianti eolici nelle Zps, prescindendo dalla necessità di una previa valutazione di incidenza ambientale», ma precisando come «(...) non vale ad escludere l’operatività del divieto la circostanza che nella stessa zona sia presente ed operativo un impianto da fonte rinnovabile».
Quest’ultimo, «avuto riguardo alla peculiare finalità di tutela della normativa, lungi da giustificare la pretesa attenuazione del divieto, ne giustifica invece una più rigida applicazione, trovandosi di fronte ad ambito territoriale già compromesso ove l’esigenza di conservazione risulta senza dubbio maggiore».
Per Palazzo Spada, inoltre, se «concesso nella vigenza della stessa normativa statale e regionale (…) non si sarebbe di fronte a disposizioni normative contenenti un trattamento discriminatorio, quanto piuttosto ad un provvedimento amministrativo illegittimo rilasciato all’altro operatore economico», se invece concesso prima è del tutto escluso essendovi allora altre norme.
A detta del collegio, lo “stop” rispetta pure la proporzionalità poiché «riferito ai soli impianti eolici e non anche a tutte le altre tipologie di produzione di energia rinnovabile». In base alla sentenza poi, «in linea generale il “favor” espresso per la realizzazione di impianti energetici da fonte rinnovabile non è in sé espressione di un interesse pubblico in assoluto prevalente sugli altri che con lo stesso possano venire in conflitto», tantomeno qui con una disciplinata «esigenza di preservare, mantenere e ristabilire per determinate specie ornitiche una varietà ed una superficie di habitat»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per i box interrati servono le distanze di sicurezza. Consiglio di Stato. Lecito agire contro il costruttore dell’area adiacente l’edificio.
La costruzione di un parcheggio interrato nell’area adiacente a quella di un condominio deve essere realizzata a distanza legale dalle fondazioni del caseggiato. In caso contrario, l’amministratore è legittimato a impugnare il permesso di costruire che consente la realizzazione della struttura interrata potenzialmente dannosa per il bene comune.
Sono questi i principi affermati dalla recente sentenza 14.01.2016 n. 81 del Consiglio di Stato, Sez. IV.
Il caso: un condominio, venuto a conoscenza del permesso di costruire rilasciato a una società per realizzare un parcheggio interrato in un’area contigua a quella del proprio complesso immobiliare, impugnava il provvedimento davanti al Tar, lamentando principalmente una carente attività istruttoria e la violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni, che avrebbe determinato pericolose interferenze della nuova opera co n le fondazioni del caseggiato. Del resto gli uffici comunali non avevano svolto idonee indagini, come emergeva con evidenza dalla mancata indicazione del palazzo sulle tavole grafiche presentate dal richiedente il permesso di costruire, avendo i grafici indicato l’edificio come area non rilevata.
Perciò il Tar dava torto alla società di costruzioni, che proponeva appello, mettendo in rilievo come il progetto assentito prevedesse, nella parte fuori terra, la realizzazione del parcheggio alla prescritta distanza di un metro e mezzo dal confine dell’area condominiale, nonché contestando la legittimazione dell’amministratore a richiedere l’annullamento del provvedimento rilasciato.
Secondo il Consiglio di Stato, che confermava il giudizio di primo grado, il Comune deve essere messo in condizione di verificare che, anche a livello sotterraneo, sia rispettata la distanza di sicurezza fra costruzioni. In altre parole, la legittimità del permesso di costruire è sempre legata alla valutazione della mancanza di impedimenti alla realizzazione dell’intervento da assentire e, in particolare, all’inesistenza di interferenze concrete o anche potenziali, specialmente per quanto riguarda le fondazioni (soprattutto in zona sismica) di edifici vicini.
Tali pericolose interferenze sono però certe se la distanza tra l’opera da realizzare e plinti di un fabbricato condominiale sia inferiore a quella prescritta dalla legge, rendendo superfluo disporre ulteriori indagini. Infatti la sovrapposizione degli elementi strutturali del parcheggio a quelli dei fabbricati esistenti incide sul piano della sicurezza della staticità dei fabbricati, per cui potrebbero determinarsi cedimenti del caseggiato.
A fronte di questa situazione sussiste la piena legittimazione dell’amministratore di condominio a impugnare il permesso di costruire, in quanto viene fatto valere non un preteso diritto di proprietà sulle fondazioni, ma la pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, cioè alla completa verifica della sussistenza di tutti i presupposti per il rilascio del titolo edilizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2016).

COMPETENZE PROGETTUALIL'ingegnere può lavorare su edifici storico-artistici. Tar Bologna.
Lo studio di ingegneria ben può aggiudicarsi i lavori di risanamento anche se è un edificio di interesse storico-artistico l'immobile che desta preoccupazioni al comune emiliano colpito dal terremoto del 2012. Inutile per i concorrenti rivendicare la competenza esclusiva degli architetti quando i lavori oggetto della procedura pubblica sono interventi di risanamento che non incidono sui profili estetici del fabbricato vincolato.

È quanto emerge dalla sentenza 13.01.2016 n. 36 pubblicata dalla I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Deve rassegnarsi, l'architetto rimasto escluso dai lavori: stavolta non conta che l'ingegnere non abbia lo stesso senso estetico nella progettazione perché l'intervento che l'amministrazione intende far realizzare punta al mero ripristino strutturale della porzione delle strutture lesionate dal sisma; insomma: si deve procedere ad attività di riparazione con rafforzamento locale, tanto che le relative prestazioni da erogare restano inquadrate nella sfera del risanamento e della salvaguardia dell'immobile danneggiato.
Si tratta di intervenire sulla struttura dell'edificio per ripararla e consolidarla: si rientra quindi nelle opere di edilizia civile riconducibili alla «parte tecnica» di cui all'articolo 52, comma 2, del regio decreto 2537/1925, nella lettura ampia che ne ha dato la giurisprudenza, comprendendo tutte le lavorazioni che non incidono sui profili estetici e di rilievo culturale degli edifici vincolati.
Spese di giudizio compensate per la complessità della questione (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALaddove si tratti di interventi edilizi eseguiti in area assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985 e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
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L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.

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Per le opere residue, il ricorso è invece destituito di fondamento.
Non convince il primo mezzo di gravame, ove si lamenta che il Comune ha omesso di qualificare gli abusi commessi in termini di totale difformità o variazioni essenziali rispetto alla concessione edilizia n. 125/1990, in quanto “Laddove si tratti di interventi edilizi eseguiti in area assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985 e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali” (cfr. TAR Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 640).
Nemmeno convince il terzo mezzo di gravame, col quale si lamenta la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, in quanto “L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 14.05.2015, n. 2411) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTICondanna della p.a. alla corresponsione di somme: la non capienza dei capitoli di bilancio non giustifica l'ente.
Il TAR Lombardia-Brescia ha accolto ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 114 cpa proposto allo scopo di recuperare il credito derivante da condanna del Ministero della Salute al risarcimento per responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c.
Tenendo conto del tempo già trascorso e del superamento dei limiti di tollerabilità, il TAR ha ritenuto preferibile nominare direttamente il commissario ad acta, al quale ha demandato il compito di adottare tutti i provvedimenti amministrativi e contabili necessari, fino all’emissione del mandato di pagamento a favore del ricorrente, senza fissare alcun compenso a questo proposito trattandosi di un dirigente dell’amministrazione convenuta in giudizio.
Precisa il TAR "
che la mancanza di disponibilità finanziarie su un apposito capitolo di bilancio non è un’esimente per non onorare i debiti dell’amministrazione accertati mediante sentenza.
L’amministrazione è quindi tenuta, direttamente o su impulso del commissario ad acta, a operare le necessarie variazioni di bilancio per reperire fondi sufficienti al pagamento delle somme dovute, anche modificando le priorità di spesa precedentemente stabilite
" (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it).
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... per l'ottemperanza alla sentenza del Tribunale di Cremona n. 33 del 05.04.2013, che ha respinto l’opposizione ex art. 615 cpc del Ministero della Salute, condannando lo stesso a versare al convenuto in opposizione € 1.000 a titolo di risarcimento per responsabilità processuale aggravata ex art. 96, comma 3 cpc, e ha inoltre disposto la distrazione delle spese ai difensori An.Fi.Ol., Al.Ol. e Ma.Co. per un importo pari a € 1.000, oltre a IVA e CPA;
...
1. Il Tribunale di Cremona con sentenza n. 33 del 05.04.2013 (passata in giudicato) ha respinto l’opposizione ex art. 615 cpc del Ministero della Salute in una controversia relativa alla rivalutazione monetaria annuale sull’indennità integrativa speciale, che costituisce la seconda componente dell’indennizzo per infermità da emotrasfusioni ex art. 2, comma 2, della legge 25.02.1992 n. 210.
Il Ministero è stato condannato a versare al convenuto in opposizione (e attuale ricorrente) -OMISSIS- la somma di € 1.000 a titolo di risarcimento per responsabilità processuale aggravata ex art. 96, comma 3 cpc.
2. Copia della sentenza con formula esecutiva è stata notificata al Ministero il 28.02.2014.
3. Il Ministero non ha ancora corrisposto il risarcimento per responsabilità processuale aggravata.
4. Essendo decorso il termine di centoventi giorni ex art. 14, comma 1, del DL 31.12.1996 n. 669, il ricorrente, con atto notificato il 20.07.2015 e depositato il 21.07.2015, ha proposto ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 114 cpa, allo scopo di recuperare il proprio credito. È stata chiesta anche l’applicazione delle penalità di mora ex art. 114, comma 4-e cpa.
5. Il Ministero si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
6. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) oltre al termine dilatorio di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo, come previsto dall’art. 14, comma 1, del DL 669/1996, è ormai scaduto anche il termine di tolleranza di sei mesi concesso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella procedura Pinto (v. CEDU GC 29.03.2006, Cocchiarella, punto 89; CEDU Sez. II 21.12.2010, Gaglione, punto 34), qui richiamabile per analogia a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza ex art. 324-327 cpc;
(b) tenendo conto del tempo già trascorso e del superamento dei limiti di tollerabilità, si ritiene preferibile nominare direttamente il commissario ad acta, che dovrà adottare tutti i provvedimenti amministrativi e contabili necessari, fino all’emissione del mandato di pagamento a favore del ricorrente.
Questo compito è attribuito al responsabile della DG Vigilanza sugli Enti e Sicurezza delle Cure presso il Ministero della Salute, in considerazione dell’attuale competenza specifica di tale articolazione organizzativa in materia di indennizzi. Trattandosi di un dirigente dell’amministrazione convenuta in giudizio, non appare necessario fissare alcun compenso;
(c) il commissario ad acta dovrà far conseguire al ricorrente il risarcimento per responsabilità processuale aggravata fissato nella sentenza n. 33/2013 e le spese liquidate nella presente sentenza;
(d) il termine entro cui il commissario ad acta dovrà emettere il mandato di pagamento è stabilito in sessanta giorni dal deposito della presente sentenza;
(e) una volta decorso inutilmente tale termine, il commissario ad acta dovrà aggiuntivamente corrispondere al ricorrente un importo pari a € 300 per ogni mese (o frazione di mese) di ritardo, fino al saldo;
(f) occorre precisare che la mancanza di disponibilità finanziarie su un apposito capitolo di bilancio non è un’esimente per non onorare i debiti dell’amministrazione accertati mediante sentenza (v. CEDU, Cocchiarella, cit., punto 90; CEDU, Gaglione, cit., punto 35).
L’amministrazione è quindi tenuta, direttamente o su impulso del commissario ad acta, a operare le necessarie variazioni di bilancio per reperire fondi sufficienti al pagamento delle somme dovute (v. CEDU, Cocchiarella, cit., punto 101; CEDU, Gaglione, cit., punto 59), anche modificando le priorità di spesa precedentemente stabilite.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con le prescrizioni e i termini di cui sopra (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.01.2016 n. 37 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella tutela paesaggistica no a divieti eccessivi. Tar Brescia.
Va bene la tutela del panorama in campagna, ma non si può bloccare l'impianto fotovoltaico che ben si fonde col tetto dell'edificio rurale se un filare d'alberi basterebbe a schermare i pannelli e a evitare ingombri alla vista per il panorama. E ciò anche se sull'area grava un vincolo paesistico, perché si trova vicino al fiume.

È quanto emerge dalla sentenza 12.01.2016 n. 27, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Brescia.
Intangibilità irragionevole - Accolto il ricorso del proprietario dell'immobile dopo il niet della Soprintendenza: eccessivo il diniego integrale di sanatoria, annullato il provvedimento adottato dallo sportello unico delle attività produttive del comune. Una barriera di piante, per esempio, ben potrebbe scongiurare i riflessi del sole dai pannelli alla strada.
In effetti la Soprintendenza non considera che vicino all'immobile «incriminato» esistono altri impianti fotovoltaici, peraltro di grandi dimensioni. E lo riconosce anche il comune. È vero: si tratta di installazioni che risultano al di fuori della zona sottoposta al vincolo paesistico, mentre il fabbricato dell'interessato viene considerato un punto di riferimento nella zona, che costituisce un continuum agricolo.
Ma non sarebbe ragionevole imporre l'immodificabilità di una piccola porzione del territorio solo perché si trova più vicina a un corso d'acqua, quando strutture di grande impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine, che pure appartengono allo stesso contesto agricolo.
Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).
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MASSIMA
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) per quanto riguarda la tempestività e l’ammissibilità del ricorso, si ritiene che l’impugnazione degli atti presupposti possa avvenire contestualmente alla presentazione del ricorso contro l’ultimo atto della serie (nello specifico, il diniego di sanatoria paesistica emesso dal Comune);
(b) dopo la notifica dell’ordinanza di rimozione, infatti, il ricorrente aveva l’alternativa tra l’immediata impugnazione in sede giudiziale e la ricerca di una soluzione in via amministrativa, attraverso la procedura di accertamento di conformità paesistica. Avendo scelto la seconda strada, il ricorrente poteva legittimamente attendere la pronuncia finale del Comune.
La circostanza che il parere della Soprintendenza sia, contemporaneamente, un atto endoprocedimentale e una decisione vincolante può consentire un’impugnazione immediata, quando vi sia un interesse ad anticipare i tempi del giudizio, ma non crea un onere in questo senso.
La certezza del diritto sulla posizione dell’amministrazione è in ogni caso collegata all’atto che formalmente chiude la procedura, la quale prima di tale momento potrebbe avere sviluppi ulteriori e diversi, qualora il Comune o il privato sottoponessero alla Soprintendenza elementi nuovi non considerati nel parere negativo;

(c) passando al merito, occorre sottolineare che
l’installazione di pannelli fotovoltaici è attualmente incentivata, e resa obbligatoria per i nuovi edifici, in coerenza con l’obiettivo di interesse nazionale del passaggio alla produzione di energia da fonti rinnovabili (v. art. 11 del Dlgs. 03.03.2011 n. 28);
(d) pertanto,
non è più possibile applicare ai pannelli fotovoltaici categorie estetiche tradizionali, le quali porterebbero inevitabilmente alla qualificazione di questi elementi come intrusioni (v. TAR Brescia Sez. I 04.10.2010 n. 3726). Occorre invece focalizzare l’attenzione sulle modalità con cui i pannelli fotovoltaici sono inseriti negli edifici che li ospitano e nel paesaggio circostante;
(e)
valutazioni più conservative, ma non necessariamente ostative, sono ammissibili in relazione ai beni immobili dichiarati o qualificati ex lege di interesse culturale (v. parte seconda del Dlgs. 42/2004) e in relazione agli edifici, o insiemi di edifici, per i quali sia riconosciuto uno specifico valore paesistico (v. art. 136, comma 1-b-c, del Dlgs. 42/2004), nonché a proposito degli edifici che negli strumenti urbanistici risultino espressamente sottoposti a particolari forme di tutela;
(f)
quando il vincolo sia essenzialmente di natura ambientale, come nel caso in esame, l’osservazione si sposta invece dal singolo edificio allo scenario nel quale l’edificio è inserito. Le valutazioni circa la compatibilità paesistica dei pannelli fotovoltaici non possono quindi basarsi sulle caratteristiche costruttive, per tutelare una presunta conformità a modelli edificatori tradizionali, ma devono limitarsi a stabilire se le innovazioni, percepite nel contesto, siano fuori scala o dissonanti;
(g)
diventa quindi decisiva non tanto la superficie dei pannelli fotovoltaici ma la qualità dei lavori di inserimento nella falda. Sotto questo profilo, la relazione tecnico-paesistica dell’ing. Co. evidenzia una significativa cura dei dettagli (colore scuro dei pannelli, assenza di cornice e di rialzi in falda, rispetto della morfologia del tetto);
(h) per quanto riguarda gli aspetti propriamente paesistici, e in particolare il rischio di alterazione del contesto agricolo, la Soprintendenza ha omesso di valutare l’indicazione fornita dal Comune, oltre che dal ricorrente, circa la prossimità di impianti fotovoltaici di grandi dimensioni.
È vero che si tratta di installazioni esterne alla zona vincolata, ma se l’edificio del ricorrente è visto come parte di un continuum agricolo, le caratteristiche assunte nel tempo dall’ambiente circostante dovrebbero comunque costituire un punto di riferimento. Non sarebbe infatti ragionevole imporre l’immodificabilità di una piccola porzione del territorio solo perché si trova più vicina a un corso d’acqua, quando strutture di grande impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine, appartenenti al medesimo contesto agricolo;
(i)
la Soprintendenza non ha poi applicato in alcun modo la regola della proporzionalità. Occorre infatti sottolineare che i pannelli fotovoltaici del ricorrente si fondono nell’edificio senza creare ingombro visivo sull’orizzonte, e possono essere schermati facilmente dai percorsi viari e dai punti di osservazione pubblici attraverso una cortina vegetale.
Per tutelare il paesaggio sarebbero state quindi sufficienti prescrizioni più dettagliate sulle misure di mitigazione, mentre appare eccessivo il diniego integrale di sanatoria.

10. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati. La Soprintendenza conserva il potere, da esercitare entro 60 giorni dal deposito della presente sentenza, di formulare prescrizioni di dettaglio sulle misure di mitigazione.
11. La complessità delle valutazioni paesistiche e la presenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti giustificano l’integrale compensazione delle spese di giudizio.

INCARICHI PROFESSIONALI: Sui compensi occhio alle date. Nuovi parametri su liquidazioni post decreto del 2012. I giudici della Cassazione pongono l'accento sui tempi dei pagamenti agli avvocati.
In tema di spese processuali, i nuovi parametri cui devono essere commisurati i compensi degli avvocati in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del dm 20.07.2012 n. 140 e si riferisca al compenso spettante ad un avvocato che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di «compenso» la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata.

È quanto affermato dai giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 11.01.2016 n. 241.
Il caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini prendeva le mosse dal fatto che il tribunale in data 29.05.2013 emetteva decreto di pagamento a favore dell'avvocato Tizio per onorario in relazione all'attività svolta a favore di Caio. Avverso tale decreto interponeva opposizione il difensore lamentando l'erronea applicazione della normativa prevista dal dm 140 del 2012, l'omessa applicazione degli aumenti tariffari previsti per i processi davanti al Tribunale in composizione monocratica, in subordine l'erronea applicazione della diminuzione del compenso operata dal giudice nella misura del 50%.
Si costituiva il ministero dell'economia, eccependo il difetto di legittimazione. Integrato il contraddittorio si costituiva il ministero della giustizia, contestando quanto dedotto dall'opponente. Il tribunale con ordinanza rigettava l'opposizione e condannava l'opponente al pagamento delle spese del giudizio. A parere del tribunale, alla luce del principio espresso dalle Sezioni unite (sent. n. 7405 del 2012), nella specie trovava applicazione la nuova tariffa di cui al dm 140 del 2012.
Correttamente il giudice aveva applicato le tariffe previste per l'attività professionale applicando l'aumento del 20% trattandosi di attività svolta innanzi al gip/gup. Alla luce della normativa di cui all'art. 9 del dm 140 del 2012, corretta era l'applicazione della riduzione alla metà degli importi previsti a titolo di compenso. L'avvocato chiedeva la cassazione di questa ordinanza.
Secondo i giudici di piazza Cavour il tribunale non avrebbe tenuto conto -e lo avrebbe dovuto fare- che l'attività per la quale si chiedeva il compenso era stata svolta e completata sotto la vigenza delle precedenti tariffe professionali (dm 127 del 2004), posto che il dm 140 del 2012 è entrato in vigore il 23.08.2012, e l'attività professionale di che trattasi era stata completata, comunque, il 30.07.2012 così come attestato dal deposito della sentenza di primo grado che è avvenuto, appunto, il 30.07.2012.
Pertanto, la liquidazione al difensore di cui si dice avrebbe dovuto essere effettuata, applicando le tariffe professionali di cui al dm 127 del 2004 (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.02.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il sottosuolo si può usare ma si valuta caso per caso. Va verificato se i lavori possano impedire in futuro dei servizi comuni.
Scavi e opere. La Cassazione sullo «sfruttamento» da parte del singolo condòmino.

Cambio di rotta per la Cassazione sull’utilizzo del sottosuolo da parte del singolo condomino. Secondo una recente sentenza, questo utilizzo non configura di per sé un uso illegittimo, essendo necessaria invece un’indagine, caso per caso, al fine di verificare se l’utilizzo del singolo condomino precluda in assoluto l’uso del sottosuolo per passaggio di servizi a uso comune (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.01.2016 n. 234).
Già in precedenza la suprema Corte aveva sostenuto che «In tema di condominio negli edifici, non è automaticamente configurabile un uso illegittimo della parte comune costituita dall’area di terreno su cui insiste il fabbricato e posano le fondamenta dell’immobile, in ipotesi di abbassamento del pavimento e del piano di calpestio eseguito da un singolo condomino, dovendosi a tal fine accertare o l’avvenuta alterazione della destinazione del bene, vale a dire della sua funzione di sostegno alla stabilità dell’edificio, o l’idoneità dell’intervento a pregiudicare l’interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune» (sentenze n. 8119/2004 e n. 19915/2014).
L’orientamento consolidato riguardo la possibilità di eseguire, nel sottosuolo, scavi per ricavarne cantine, box eccetera è, però, sempre stato quello del divieto di appropriarsi del sottosuolo con opere che potessero essere conglobate nella proprietà privata, in quanto illegittime in base all’articolo 1102 del Codice civile perché sottrarrebbero l’area a ogni possibilità di godimento da parte degli altri condomini (sentenze di Cassazione n. 11667/2015, Tar Puglia n. 128/2015 e 22835/2006).
L’articolo 1117 n. 1 del Codice civile annovera tra i beni di proprietà comune, tra gli altri, il suolo su cui sorge l’edificio e le fondazioni e , in via presuntiva, anche il sottosuolo. Tuttavia, con sentenza 5895/2015 la stessa Cassazione ha precisato che per determinare la proprietà, contesa tra due condòmini, del locale ottenuto abusivamente da uno di essi mediante escavazione nell’area sottostante al suo appartamento e asportazione di terreno, occorre dapprima gradatamente accertarsi se la proprietà di tale locale sia attribuita dal titolo, ovvero sia altrimenti da riconoscersi acquisita per usucapione, o, infine, se esso, per la sua struttura, debba considerarsi non tra le parti comuni dell’edificio di cui all’articolo 1117 del Codice civile, quanto, piuttosto, destinato a uso esclusivo.
Il richiamo alle indagini oggettive è presente anche nella sentenza 234/2016, nella quale un condòmino del piano terreno –che aveva eseguito, nel sottosuolo, un vano per la collocazione di una caldaia per il termosifone e due cantine di cui una con l’accesso dall’esterno– veniva citato in giudizio da un altro condòmino per violazione del proprio diritto al pari godimento delle parti comuni, nonché per l’alterazione della funzione primaria dell’area di sedime del fabbricato, la cui originaria funzione era quella di sostegno dell’immobile e di passaggio di condotte e tubi a servizio del condominio. Si richiamava anche il pericolo per la stabilità dell’immobile e chiedeva, pertanto, il ripristino dello stato dei luoghi.
I giudici di legittimità si sono uniformati al principio innovativo per il quale l’utilizzo del sottosuolo da parte del singolo condòmino non comporta, automaticamente, un uso non consentito della cosa comune. Precisando che se da un lato è pacifico che si possa utilizzare il sottosuolo per il passaggio di tubature per lo scarico fognario e l’allacciamento del gas a vantaggio delle unità immobiliari, trattandosi di un uso conforme all’articolo 1102 del Codice civile, in quanto non limita, né condiziona, l’analogo uso degli altri comunisti (Cassazione, sentenza 18661/2015). Non è scontato, invece, che debba considerarsi illegittima di per se l’escavazione del sottosuolo di un edificio condominiale e l’utilizzo dello spazio ricavato al vantaggio esclusivo di un condòmino.
La limitazione all’uso e al godimento del sottosuolo da parte degli altri condòmini, come l’appropriazione del bene comune, se il volume risultante dalla escavazione venga inglobato nella proprietà esclusiva di un condomino, con la sottrazione definitiva ad ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri, devono essere provate di volta in volta attraverso un’indagine che verifichi, di fatto, se questo utilizzo precluda in assoluto l’uso del sottosuolo per passaggio di servizi a uso comune, non potendosi configurare un uso illegittimo dell’area comune (Cassazione, sentenza 234/2016)
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2016).

PATRIMONIOBuche stradali, chi paga i danni. Secondo il Tribunale di Napoli prevale l’obbligo di manutenzione del bene custodito.
Risarcimenti. Giurisprudenza divisa sulle responsabilità degli enti pubblici per gli incidenti causati dal dissesto del manto viario.
In caso di caduta da un motociclo a causa di una buca stradale, al Comune va attribuita una responsabilità presunta, lasciando all’ente gestore della strada l’onere di dimostrare che la caduta sia avvenuta per altra ragione, tra cui anche la stessa imperizia o imprudenza del motociclista.

Lo ribadisce il TRIBUNALE di Napoli con la sentenza 08.01.2016 n. 144.
Secondo il giudice, il potere di controllo su un bene di proprietà, va inteso come effettiva possibilità di governare il bene stesso e quindi di farlo oggetto di attività di controllo della sua pericolosità e di intervento per manutenzione tutte le volte che si renda necessario. Spetta quindi all’ente proprietario della strada dimostrare che la caduta sia stata imputabile ad un fattore estraneo al proprio onere di custodia della via.
Ma sulla responsabilità più o meno rigida dell’amministrazione proprietaria dell’area, nel senso che ogni buca o insidia costituisce sempre una responsabilità dell’ente pubblico, la giurisprudenza è da tempo divisa.
Una parte della magistratura di legittimità e di merito, infatti, ritiene che anche se al soggetto proprietario della strada aperta al pubblico può essere attribuita una responsabilità per colpa ai sensi dell’articolo 2043 del Codice civile per non avere osservato le comuni norme di prudenza nel controllo delle strade, tale colpa va valutata, da parte del giudice, alla luce del grado di prudenza ed attenzione posta dal conducente del motociclo nel percorrere la stessa strada.
La Corte di cassazione con la sentenza n. 18865 del 24.09.2015, ha sostenuto ad esempio che la possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la presenza dell’insidia come causa dell’incidente.
Non basterebbe, insomma, secondo tale orientamento, la semplice caduta in una buca a costituire insidia stradale, perché il giudice deve sempre valutare se il conducente abbia comunque guidato con prudenza e con l’attenzione doverosa anche verso gli stessi possibili ostacoli notoriamente presenti sul manto stradale (si veda anche l’ordinanza della Cassazione del 09.03.2015 n. 4661).
Un altro orientamento, più favorevole per così dire alle vittime di tali cadute, attinge invece al principio di responsabilità presunta in capo all’ente proprietario della strada, ai sensi dell’articolo 2051 del Codice civile che pone una sorta di responsabilità oggettiva o automatica in capo al custode, sempre tenuto quindi a garantire l’incolumità dell’utenza. In questa direzione va la sentenza emessa dal Tribunale di Ivrea il 09.01.2015, secondo la quale la responsabilità viene meno solo quando il soggetto tenuto alla custodia ed al controllo sul bene provi il caso fortuito, da intendersi sia come fattore esterno imprevedibile, sia come fatto colpevole del terzo e dello stesso danneggiato.
Il Tribunale di Napoli, nel ripercorrere le differenti tesi giuridiche che normalmente reggono il contenzioso stradale di questo genere, aderisce a quest’ultimo orientamento, che attribuisce al Comune una responsabilità presunta per l’accaduto, lasciando che sia poi l’ente gestore della strada a dimostrare che la caduta sia avvenuta per altra ragione, tra cui anche la stessa imperizia o imprudenza del motociclista (perché ad esempio teneva una velocità eccessiva).
I giudici partenopei hanno quindi condannato il Comune di Napoli, ritenendo che l’ente pubblico sia venuto meno ad un obbligo di manutenzione della pubblica via, poiché ha lasciato che l’insidia stradale improvvisa e non avvertibile potesse costituire il motivo di cadute accidentali da parte dei passanti.
Anche i tempi di intervento caratterizzano l’onere di diligente custodia in capo al proprietario della via pubblica, perché la presenza di una insidia stradale deve determinare l’obbligo di un immediato intervento riparatore proprio per delimitare (con avvisi) ovvero eliminare (con la coperture necessarie) il tratto guastato e pericoloso per il pubblico transito. Qualora dunque l’ente proprietario della strada non dimostri che la caduta sia stata imputabile ad altro fattore estraneo al proprio onere di custodia della via, il Comune deve essere condannato, come nel ?caso di specie, al risarcimento di tutti i danni alla persona patiti dal conducente del veicolo rovinato a terra senza colpa
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Appare veramente arduo, se non impossibile, configurare la realizzazione di una piscina come un’attrezzatura per lo svago e il tempo libero, alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di svago.
La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata, tant’è che per la sua realizzazione occorre munirsi di relativo titolo ad aedificandum, di talché è di palmare evidenza la diversità di tale struttura con le attrezzature per lo svago.
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Con riferimento al primo dei suddetti ricorsi la Sezione è chiamata a verificare, in relazione ai motivi di gravame all’uopo denunciati, la legittimità o meno della delibera n. 6/14 con cui il Consiglio del Parco di Portofino, avuto riguardo all’attivata procedura di approvazione di un SUA di iniziativa privata presentato dalla Società Montanino per la riqualificazione del complesso monumentale della Cervara, ha fornito una specifica interpretazione in ordine alla disposizione di cui all’art. 26, comma 3, lettera d), punto 3), riguardante le piscine.
In primo grado la Montanino srl ha contestato l’interpretazione autentica di detta norma, oltreché la stessa adozione dell’atto consiliare in parola, se ed in quanto tale determinazione si riveli ostativa alla realizzazione di una piscina inserita nel progetto di riqualificazione del complesso immobiliare costituito dall’ex Convento di San Girolamo della Cervara (di cui al proposto SUA); e il Tar, con sentenza n. 1887/14, ha accolto il relativo gravame.
I controinteressati sigg.ri Bi. contestano l’esattezza delle osservazioni e prese conclusioni del primo giudice; e le doglianze formulate col secondo e terzo motivo di gravame (da esaminarsi congiuntamente per ragioni di logica connessione) in ordine alla erroneità del decisum si rivelano fondate, nei sensi di cui appresso.
L’Ente Parco di Portofino, con deliberazioni del Consiglio n. 17/2010 e 22/2011, ha approvato le norme di attuazione della variante del regolamento per la riqualificazione del patrimonio edilizio.
L’art. 26 di detto atto, che ha cura di dettare la normativa per le mete e strutture del turismo storico, tra cui è inserito il complesso della Cervara, così prevede: “sono ammessi gli interventi di cui alle lettere agli articoli 6, 7, 8, 9 della legge regionale 06/06/2008 n. 16. Eventuali altri interventi finalizzati alla razionalizzazione o al potenziamento delle attrezzature di servizio e funzionali al miglioramento dell’offerta turistico-ricettiva potranno essere proposti mediante specifici strumenti urbanistici attuativi previsti dall’art. 19 della l.r. n. 12/1995 corredati da un piano aziendale di sviluppo che ne dimostri l’esigenza, nel rispetto della destinazione alberghiera tradizionale quali l’Albergo Portofino Vetta, il Cenobio de Dogi, l’Albergo Splendido, dell’attuale destinazione per il Covo di Nord–Est nell’ambito della proprietà a valle della strada provinciale di Portofino, e di una destinazione polifunzionale turistico-culturale e congressuale per il complesso della Cervara.
Gli interventi previsti per il complesso monumentale della Cervara saranno subordinati a S.U.A la cui convenzione disciplinerà anche l’uso pubblico della struttura…
”.
L’articolo in questione, specificamente occupandosi, poi, alla lettera d), del “Complesso Monumentale della Cervara”, stabilisce al punto 3, a proposito degli interventi di recupero e valorizzazione ammessi, quanto segue: “E’ ammessa la realizzazione di una o due serre in ferro e vetro per una superficie massima complessiva di 60 mq, funzionali alla manutenzione del giardino", nonché ”la realizzazione di attrezzature per lo svago e il tempo libero nell’area retrostante il complesso monumentale”.
Il Consiglio del Parco di Portofino, con l’atto in contestazione, è intervenuto per meglio spiegare la disposizione regolamentare appena citata, interpretandola nel senso che la frase per “attrezzature per lo svago e il tempo libero” va intesa in senso restrittivo, escludendo dalle stesse attrezzature le piscine.
Ebbene, tale assunto esegetico, ad avviso del Collegio, appare congruo e ragionevole, dovendosi ritenere corretta la non inclusione di manufatti costituenti piscine tra le opere di svago e tempo libero.
Il primo giudice giunge ad affermare la erroneità dell’assunto esegetico reso dall’Organo consiliare dell’Ente Parco, sulla scorta di una serie di osservazioni non del tutto logiche, contraddittorie e, per certi versi, singolari, ad avviso dello scrivente Collegio.
Rileva in primo luogo il Tar che le prescrizioni dettate dal suindicato Regolamento sono generiche ed astratte, ma l’osservazione è smentita per tabulas ove si consideri che il corpus di norme dettate a tutela dei valori paesaggistico-ambientali e culturali del territorio inserito nel Parco prende in considerazione i singoli siti, tra cui quello specificatamente contemplato e appositamente disciplinato del complesso monumentale della Cervara, sicché non si vede in che modo possa dedursi la genericità delle prescrizioni dettate.
Al contrario, si è in presenza di una disciplina che detta regole di comportamento e di attività, avendo di mira i diversi siti monumentali e paesaggistici, presi singolarmente in considerazione con riferimento alle caratteristiche di ciascuno di essi e ai correlati valori da preservare.
Non si può quindi condividere il rilievo, pure formulato dal Tar, secondo cui le prescrizioni del Regolamento, come interpretate dal Consiglio con l’atto de quo, si risolvono in un divieto generalizzato, rinvenendosi invece nel testo normativo in questione puntuali e armoniche prescrizioni finalizzate alla salvaguardia di un territorio avente una straordinaria valenza culturale, oltreché paesaggistico-ambientale.
Nondimeno, al di là delle non persuasive asserzioni circa il carattere generale delle prescrizioni contenute nel decisum, scendendo sul piano sostanziale, andando, cioè, a verificare in concreto la problematica sollevata dalla norma interpretativa resa dal Consiglio del Parco di Portofino e della quale il primo giudice non si è dato carico di occuparsi, appare veramente arduo se non impossibile configurare la realizzazione di una piscina come un’attrezzatura per lo svago e il tempo libero, alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di svago.
La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata, tant’è che per la sua realizzazione occorre munirsi di relativo titolo ad aedificandum, di talché è di palmare evidenza la diversità di tale struttura con le attrezzature per lo svago.
La riprova di quanto appena rilevato viene fornita proprio con riferimento alla piscina che si intende “costruire” con il SUA proposto dalla Montanino srl, laddove è prevista la “realizzazione di una piscina e sottostanti volumi tecnici e spogliatoi” e cioè una serie di manufatti aventi per forma e consistenza la natura di struttura edilizia e che per ciò stesso non sono nemmeno lontanamente paragonabili alle attrezzature di tipo precario utilizzate per ragioni di svago e tempo libero.
Quanto sopra vale altresì a smentire la tesi di parte resistente secondo il quale il combinato disposto degli artt. 12 e 13 delle norme di Piano, recanti la disciplina degli interventi ammessi in zona D2 (quella in cui è incluso anche il complesso monumentale della Cervara), consentirebbe la realizzazione delle piscine.
Invero, il successivo art. 14 di dette Norme precisa che è possibile la realizzazione di ”piscine stagionali di modeste dimensioni”, ma in tale nozione non può certo farsi rientrare la prevista realizzazione di un manufatto del genere di quello che si intende dar vita con il S.U.A. in rilievo, con la realizzazione di una piscina avente caratteristiche tipologiche di ben altra consistenza.
In forza delle su estese considerazioni le censure dedotte con il secondo e terzo motivo d’impugnazione si rivelano fondate, con conseguente accoglimento del proposto appello (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2016 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea di principio, la legittimatio ad causam per la contestazione di un titolo edilizio da parte di un proprietario di un immobile è data dal collegamento stabile tra l’immobile del ricorrente e il sito interessato alla realizzazione del manufatto.
La giurisprudenza si è fatta carico di specificare in dettaglio il suindicato concetto, precisando come l’interesse ad agire per il proprietario/vicino sussiste ogniqualvolta l’intervento edilizio/urbanistico incida negativamente sul bene di proprietà del ricorrente/vicino, così da comprometterne la fruizione o il valore del bene stesso.

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Le dedotte censure sono prive di giuridico fondamento.
In linea di principio, la legittimatio ad causam per la contestazione di un titolo edilizio da parte di un proprietario di un immobile è data dal collegamento stabile tra l’immobile del ricorrente e il sito interessato alla realizzazione del manufatto (Cons. Stato Sez. IV 22/09/2014 n. 4764).
La giurisprudenza si è fatta carico di specificare in dettaglio il suindicato concetto, precisando come l’interesse ad agire per il proprietario/vicino sussiste ogniqualvolta l’intervento edilizio/urbanistico incida negativamente sul bene di proprietà del ricorrente/vicino, così da comprometterne la fruizione o il valore del bene stesso (cfr. Cons. Stato Sez. IV 5715/2012; idem 8364/2010; 6619/2007; 3947/2006).
Ciò precisato, è pacifico nella specie che i sigg.ri Bi. sono proprietari di un immobile sito in prossimità dell’ex Convento, sì che tale oggettivo dato assicura senz’altro la condizione legittimante della vicinitas.
Inoltre, in relazione ai profili sostanziali dell’interesse ad agire, avuto riguardo alla tipologia dell‘intervento edilizio autorizzato e, in particolare, alle implicazioni urbanistiche da questo derivanti, non si può negare la sussistenza nella specie di riflessi di tipo negativo sulla posizione dei ricorrenti, tenuto conto, in particolare, del maggior traffico veicolare e pedonale dovuto all’afflusso degli utenti alla struttura polifunzionale in questione,e dell’incidenza di tali circostanze in ordine ad una più limitata fruizione degli spazi di accesso, stazionamento e parcheggio della strada di via della Cervara.
Non senza considerare che gli attuali appellanti possono vantare una legittima pretesa alla conservazione dello stato dei luoghi dove insistono i beni dagli stessi utilizzati anche per gli aspetti paesaggistico-ambientali in ipotesi suscettibili di essere compromessi, con conseguente detrimento del valore delle loro proprietà immobiliari.
La sussistenza di concreti profili di interesse a ricorrere sopra evidenziati impedisce di ravvisare nella impugnativa originariamente proposta dagli attuali appellanti principali gli estremi di un atto emulativo, né quelli di una generica, indifferenziata rivendicazione fatta dai sigg.ri Bi. (uti cives), rinvenendosi viceversa nella specie una specifica lesione di posizioni giuridiche soggettive differenziate di cui gli stessi sono titolari, nel che si invera l’interesse ad agire e quindi la piena ammissibilità del gravame originario, oltreché di quello all’esame (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2016 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: B&b vietati nel condominio. Attività contrapposta alle finalità abitative dell'immobile. Retromarcia della Cassazione rispetto a una pronuncia precedente sugli affittacamere.
Bed & breakfast nuovamente vietato in condominio qualora una norma regolamentare imponga la tutela del decoro e della tranquillità dell'edificio. Si fa dunque nuovamente incerta la questione dell'utilizzo degli appartamenti da parte dei condomini per ospitare a pagamento soggetti terzi.

A distanza di nemmeno un anno e mezzo da una precedente decisione che, al contrario, aveva dato il via libera allo svolgimento di detta attività, la seconda sezione civile della Cassazione sembra aver mutato indirizzo.
Se, infatti, con la sentenza n. 24707 dello scorso 20.11.2014 (si veda ItaliaOggi Sette dell'01/12/2014), i giudici di legittimità avevano espressamente ritenuto che il bed & breakfast non comportasse un mutamento di destinazione d'uso delle unità immobiliari, che sarebbe quindi rimasto pur sempre abitativo, con la recente sentenza 07.01.2016 n. 109, Sez. II civile, detta attività è invece stata definita assolutamente contrapposta alle finalità abitative dell'immobile.
Il caso concreto. Nella specie alcuni condomini avevano citato in giudizio un altro comproprietario per sentire dichiarare la contrarietà al regolamento condominiale dell'attività di affittacamere che lo stesso aveva dichiarato di essere in procinto di svolgere nell'unità abitativa di sua proprietà sita nello stabile condominiale.
I predetti condomini avevano quindi richiesto al tribunale che, a seguito dell'accertamento di tale divieto regolamentare, fosse inibito l'avvio dell'attività. Il condomino convenuto in giudizio, nell'opporsi alle richieste avversarie, aveva sostenuto la necessità di un'interpretazione del regolamento, che risaliva addirittura al 1920, maggiormente consona al mutato contesto sociale e normativo (il riferimento era stato operato alla legge n. 18/1997 della Regione Lazio, successivamente abrogata, che aveva inteso favorire una ripresa dell'attività alberghiera e recettizia in occasione del Giubileo del 2000) e aveva anche evidenziato come nello stabile condominiale fossero state avviate in passato già numerose attività commerciali che, a suo modo di vedere, avevano di fatto comportato una modifica per fatti concludenti della clausola contrattuale.
La decisione della Suprema corte. Nella sentenza dello scorso 7 gennaio i giudici di legittimità hanno in primo luogo rigettato l'eccezione del condomino convenuto per cui il fatto che in altre unità immobiliari dello stabile condominiale fossero state intraprese nel corso del tempo svariate attività commerciali, imprenditoriali e professionali avrebbe di fatto superato il divieto regolamentare in questione, lasciandolo per così dire sulla carta.
La Cassazione, infatti, ha confermato sul punto l'interpretazione letterale del regolamento condominiale operata dai giudici di merito, evidenziando come eventuali violazioni del divieto contrattuale non possano far presumere un mutamento di volontà da parte dell'intera compagine condominiale.
La seconda sezione civile della Suprema corte, contrariamente a quanto affermato non più di un anno e mezzo fa, ha quindi ritenuto che l'attività di affittacamere, giudicata del tutto sovrapponibile a quella alberghiera e a quella di bed & breakfast, sia del tutto contrapposta alle finalità abitative dell'immobile. Occorre osservare come nel caso deciso con la sentenza n. 24707/2014 il regolamento condominiale vietasse di destinare le unità immobiliari a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato, mentre nella vicenda portata più recentemente all'esame della Suprema corte la disposizione regolamentare risultava più specifica, vietando espressamente la destinazione delle unità immobiliari private a «case di alloggio», come pure «di concedere in affitto camere vuote o ammobiliate».
Tuttavia occorre anche evidenziare come nella sentenza n. 24707/2014 la Cassazione, facendo proprie le conclusioni alle quali erano prevenuti i giudici di appello, avesse evidenziato proprio il fatto che lo svolgimento dell'attività di affittacamere non comportasse una modificazione della destinazione d'uso per civile abitazione delle unità immobiliari interessate, con la conseguenza di non ritenere sostenibile un'interpretazione del predetto divieto regolamentare nel senso di riservare l'abitazione delle unità immobiliari soltanto ai condomini e ai loro congiunti.
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La clausola del regolamento può stabilire la destinazione d'uso.
La questione dei vincoli all'utilizzo delle parti di proprietà esclusiva site in condominio è quindi più che mai aperta.
In linea generale ogni condomino può liberamente disporre della propria unità immobiliare, purché non generi particolari problemi per gli altri comproprietari.
Particolari clausole del regolamento però possono vietare che gli appartamenti facenti parte dell'edificio condominiale vengano destinati allo svolgimento di attività ritenute pregiudizievoli per il decoro, la tranquillità o la sicurezza di coloro che vi abitano.
Simili limitazioni, per essere valide, devono però essere contenute nei c.d. regolamenti contrattuali, ossia in quelli predisposti dal costruttore dell'edificio o dall'originario unico proprietario o, in alternativa, deliberati dall'assemblea con il consenso unanime di tutti i condomini e con successiva trascrizione della deliberazione nei registri immobiliari.
Visto l'impatto che tali clausole regolamentati possono avere sulla libera disponibilità della proprietà privata, i predetti divieti e le predette limitazioni devono infatti risultare da una volontà chiaramente fatta propria da tutti i condomini nei relativi atti di acquisto o manifestata sempre dalla totalità di essi in una delibera assembleare.
Appare utile anche specificare che una legge regionale non può, ingerendosi nella disciplina di rapporti condominiali tra privati, imporre dei limiti di questo tipo, prevedendo ad esempio l'obbligo dell'approvazione dell'assemblea dei condomini per l'esercizio di determinate attività (ecco perché la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità di una norma della regione Lombardia che subordinava l'apertura di un bed & breakfast all'autorizzazione dell'assemblea).
È poi altrettanto importante che questo tipo di clausole siano redatte in modo chiaro ed esplicito e utilizzino espressioni che non diano luogo a possibili incertezze applicative.
Molto spesso, infatti, nelle clausole del regolamento si indicano soltanto i pregiudizi alla collettività condominiale che si intendono evitare, richiamando quindi i concetti di quiete, tranquillità, riposo e simili.
In questi casi è allora necessario procedere a un esame specifico della singola situazione al fine di valutare se l'attività svolta in concreto nell'unità immobiliare leda il diritto degli altri condomini di godere in modo pacifico del proprio bene.
Ciò premesso, appare quindi necessario effettuare volta per volta una equilibrata attività di interpretazione del disposto regolamentare.
Così, ad esempio, se nel regolamento vi è il divieto di svolgere attività notturne nelle unità immobiliari, non sarà certo possibile aprire nello stabile una panetteria con annesso laboratorio, ma non per questo si potrà pretendere di vietare la vendita al pubblico di pane durante il giorno.
Se, al contrario, è previsto il divieto di attività che comportino un maggiore afflusso di persone nelle parti comuni, non sarà certo possibile svolgere attività commerciali aperte al pubblico nelle parti interne del condominio e si potrebbe anche valutare negativamente il compimento di ulteriori atti, quali ad esempio la locazione separata di box pertinenziali a soggetti non condomini o di cantine a uso magazzino, sempre per persone esterne alla compagine condominiale.
L'ipotesi più semplice dal punto di vista applicativo è sicuramente quella in cui nel regolamento sia riportata la specifica elencazione delle attività che si ritengono vietate.
In tal caso è infatti sufficiente accertare che quella svolta dal condomino nel proprio appartamento non rientri tra quelle non ammesse. In ogni caso è possibile che nel regolamento vengano utilizzati entrambi i criteri di individuazione delle attività vietate (cioè quello della loro espressa elencazione e quello del riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare): in tal caso deve ritenersi, da un lato, che l'elenco delle attività vietate non sia tassativo e che il divieto si estenda anche a tutte le destinazioni non espressamente menzionate che siano comunque idonee a provocare i pregiudizi che si intendono evitare, dall'altro lato che tutte le attività specificamente indicate siano di per sé vietate, senza necessità di verificare in concreto l'idoneità a recare i pregiudizi suddetti (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.02.2016).

VARI: Cassazione. Cdc, società cancellata? È estinta.
L'iscrizione della cancellazione delle società di capitali e delle società cooperative (articolo 2495 del c.c.) dal Registro imprese, avendo natura costitutiva, estingue le società, anche se sopravvivono rapporti giuridici dell'ente. Tale procedura di cancellazione non si applica alle vicende estintive dell'impresa individuale in quanto in tale forma giuridica vi è coincidenza tra il soggetto fisico–l'imprenditore e il soggetto giuridico–l'impresa.

Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione -Sez. VI civile- con l'ordinanza 07.01.2016 n. 98 in merito alla non estensibilità dell'articolo 2495 del c.c. alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale.
Il fatto in sintesi: un imprenditore individuale proponeva reclamo presso la corte d'appello avverso la pronuncia con la quale il tribunale aveva dichiarato il fallimento della propria ditta. In particolare, per sottrarsi al fallimento, l'uomo sosteneva che aveva cessato la sua attività imprenditoriale ed era stato già cancellato dal registro delle imprese. Di conseguenza, piuttosto che fallire, avrebbe potuto liquidare il proprio patrimonio personale, capiente rispetto ai debiti complessivi accumulati.
La Corte ha rigettato il reclamo e ha confermato il fallimento. I giudici di legittimità respingono il ricorso e affermano il principio secondo il quale «la disciplina di cui all'articolo 2495 c. c. (nel testo introdotto dall'art. 4 del dlgs n. 6 del 2003) non è estensibile alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale».
Mentre, infatti, con l'estinzione dell'impresa collettiva viene meno la duplicità dei centri di imputazione dei rapporti giuridici, individuati, da un lato, nelle persone fisiche che partecipano all'attività d'impresa (e sulle quali, dopo l'estinzione, ricadono, nei limiti della loro partecipazione, gli effetti della precedente attività sociale) e, dall'altro, nel soggetto collettivo (dotato di personalità giuridica o di sola autonomia patrimoniale), l'imprenditore individuale si identifica con la persona fisica che compie l'attività d'impresa (articolo ItaliaOggi del 02.02.2016).

TRIBUTI: Imu agricola su terreni montani non retroattiva.
Il pagamento dell'Imu per i terreni agricoli collinari o montani, determinato secondo le nuove regole introdotte dall'articolo 22, comma 2, del Dl 66/2014, è illegittimo per l'anno 2014. La norma tributaria, infatti, non può prevedere effetti retroattivi, dacché le modificazioni possono aver efficacia solamente a decorrere dal periodo d'imposta successivo alla loro emanazione; ciò in base all'articolo 3 della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), secondo cui le norme tributarie non possono avere efficacia retroattiva.

Lo ha stabilito la Ctp di Grosseto, nella sentenza 28.12.2015 n. 402/04/2015.
Un contribuente della provincia toscana avanzava istanza di rimborso, relativamente all'Imu corrisposta per un terreno agricolo situato in un'area collinare per l'anno 2014. L'obbligo di pagamento, infatti, era stato introdotto con il dl 66/2014 (a cui è poi seguito decreto attuativo), che modificava i criteri di esenzione dall'imposta, introducendo i parametri dell'altitudine e della qualità del proprietario (coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale).
Le nuove regole, dettate nell'anno 2014, avevano effetti anche sull'anno in corso; tant'è che, in presenza di decreto attuativo emanato dopo la scadenza della prima rata Imu (prevista per giugno 2014), i proprietari di terreni che in base a questa nuova regolamentazione non erano più esenti, hanno dovuto corrispondere l'intero importo (prima rata e saldo) nella scadenza di dicembre. Secondo i nuovi criteri, i terreni agricoli montani ora esenti Imu sono solo quelli che ricadono in comuni sopra i 601 metri di altitudine, in base all'elenco comuni italiani pubblicato sul sito internet dell'Istat alla colonna «Altitudine dal centro
».
Se, invece, il comune si trova tra 601 e 281 metri, l'esenzione Imu scatta solo per terreni di coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, iscritti alla previdenza agricola. La Ctp di Grosseto ha accolto il ricorso del contribuente, stabilendo la debenza del rimborso per l'Imu versata nell'anno 2014.
Infatti, spiega la Commissione, «secondo l'articolo 3 della legge 27.07.2000 n. 212, le disposizioni tributarie non possono avere efficacia retroattiva e, relativamente ai tributi periodici, le modificazioni introdotte devono applicarsi solo a partire dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizione che le prevedono».
Le spese del giudizio sono state compensate, in relazione alla particolarità e novità del fatto oggetto di discussione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
.. rappresentato e difeso da ... domiciliato presso il suo studio in Grosseto come in atti, ha presentato ricorso contro il comune di Orbetello avverso il silenzio rifiuto all'istanza di rimborso Imu emesso il ... notificato il ... a seguito dell'istanza di rimborso presentata dal ricorrente in relazione al versamento per l'anno 2014 effettuato il 04/03/2015 per 2.108,00. Ravvisava il ricorrente in quella sede l'incostituzionalità del dl 66/2014 disciplinante le nuove modalità di liquidazione dell'imposta e la violazione da parte della medesima normativa di quanto disposto nello statuto del contribuente.
Il comune emetteva esplicito diniego a tale istanza rilevando l'assenza di pronunciamenti giurisprudenziali sulla normativa in oggetto di contestazione e l'impossibilità da parte dell'ente di pronunciarsi in merito alla questione di illegittimità costituzionale sollevata dal ricorrente. Rileva il ricorrente che la vecchia normativa in materia, uniformata a una politica di sostegno nazionale e comunitario, individuava le aree agricole svantaggiate bisognevoli di esenzione dal pagamento dell'imposta attraverso l'utilizzo di un elenco di terreni elaborato sulla base di più deficit strutturali o appartenenti a comprensori di bonifica montana e non solo caratterizzati dal loro livello altimetrico.
La nuova normativa fa invece riferimento alla sola posizione altimetrica, cioè altezza media del territorio comunale elaborato dall'Istat e finisce per tassare terreni che invece si presentano economicamente svantaggiati e bisognevoli di essere tutelati secondo quanto previsto e attuato dalla normativa nazionale e comunitaria in materia di sostegno alla politica agraria [omissis] Il dl 24.01.2015 n. 4 ha previsto misure urgenti in materia di Imu per il 2015 ma con effetti anche per il decorso anno 2014.
Con il primo motivo il ricorrente ha eccepito in riferimento al predetto dl del 24.01.2015 n. 4, la violazione dell'art. 3 dello statuto del contribuente. Il collegio ritiene meritevole di accoglimento detta eccezione in quanto, concordemente con quanto sostenuto nel ricorso, la previsione di pagamento per l'anno 2014 è illegittima.
Infatti, secondo l'art. 3 della L. 27.07.2000 n. 212, le disposizioni tributarie non possono avere efficacia retroattiva e relativamente ai tributi periodici, le modificazioni introdotte devono applicarsi solo a partire dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono, l'accoglimento del primo motivo è assorbente e rende superfluo l'esame degli ulteriori motivi ed eccezioni del ricorso.
Nulla in ordine alle spese di giudizio tenuto conto della particolarità del fatto oggetto di discussione (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.02.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'omissione costa cara.
Se si omette la documentazione in giudizio per disattenzione dell'avvocato il cliente dovrà essere risarcito.

È quanto affermato dai giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 23.12.2015 n. 25963.
I giudici di piazza Cavour hanno confermato il principio secondo cui, in tema di responsabilità professionale dell'avvocato, una eventuale mancanza nell'indicazione delle prove indispensabili per l'accoglimento della domanda costituisce di per sé manifestazione di negligenza del difensore, salvo che lo stesso avvocato dimostri di non aver potuto adempiere per fatto che non può essere a lui imputato o di avere svolto tutte le attività che potevano essergli ragionevolmente richieste.
Inoltre gli Ermellini hanno evidenziato che rientra nei doveri di diligenza professionale dell'avvocato, non solo la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza, ma anche che il cliente, normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla cognizione dei giudice.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici della Cassazione, a tale principio si era attenuto anche il giudice d'appello, il quale aveva affermato che «colui che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di fornire la prova dell'esistenza del diritto, e che tale onere non viene meno a fronte di ammissioni del convenuto, trattandosi dell'esistenza di un diritto reale, rimanendo salva soltanto la possibilità per il giudice di avvalersi degli elementi che scaturiscono dalle ammissioni del convenuto nella valutazione delle risultanze della prova offerta dall'attore (ex plurimis, Cass., sez. 2ª, sentenza n. 8527 del 1996)» (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.02.2016).
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MASSIMA
2.1. - Le doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente perché connesse, sono infondate.
2.1.1. - Il ricorrente censura valutazioni effettuate nel diverso giudizio, definito con la sentenza del Tribunale di Rovereto, passata in giudicato, che ha respinto la domanda proposta da Ma.Pe., assistito dall'avv. Pe..
Le suddette valutazioni non possono evidentemente costituire oggetto di rivalutazione nel presente giudizio, mentre si deve confermare il principio secondo cui,
in tema di responsabilità professionale dell'avvocato, la mancata indicazione delle prove indispensabili per l'accoglimento, della domanda costituisce di per sé manifestazione di negligenza del difensore, salvo che il predetto dimostri di non aver potuto adempiere per fatto a lui non imputabile o di avere svolto tutte le attività che, nel caso di specie, potevano essergli ragionevolmente richieste, tenuto conto che rientra nei suoi doveri di diligenza professionale non solo la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza, ma anche che il cliente, normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla cognizione del giudice (ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 8312 del 2010).
A tale principio si è attenuto il giudice d'appello, il quale ha ritenuto, nel solco della consolidata giurisprudenza di legittimità, che
colui che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di fornire la prova dell'esistenza del diritto, e che tale onere non viene meno a fronte di ammissioni del convenuto, trattandosi dell'esistenza di un diritto reale, rimanendo salva soltanto la possibilità per il giudice di avvalersi degli elementi che scaturiscono dalle ammissioni del convenuto nella valutazione delle risultanze della prova offerta dall'attore (ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 8527 del 1996).
2.1.2. - Nel caso di specie, posto che il sistema tavolare, ai fini della opponibilità ai terzi di una servitù, richiede l'iscrizione della servitù nella partita tavolare relativa al fondo servente, a fronte dell'eccezione del convenuto di carenza di prova documentale, l'avv. Pe. non aveva svolto tutte le attività che gli potevano essere ragionevolmente richieste, in particolare non aveva prodotto l'iscrizione del titolo nella partita tavolare del fondo servente.

CONSIGLIERI REGIONALIConsiglieri regionali, paletti alle indennità. Sentenza della Cassazione sui costi degli spostamenti.
La Cassazione fissa dei paletti rigidi in tema di indennità di trasporto erogate a favore dei consiglieri regionali.

Infatti con la recentissima sentenza 22.12.2015 n. 50255 (VI Sez. pen.), la Suprema corte ha ritenuto che le indennità di trasporto percepite dai consiglieri regionali per l'utilizzo del proprio mezzo nella tratta pari alla distanza tra il luogo di residenza e quello di esercizio del mandato rientrano tra le erogazioni a danno dello stato, o di altri enti pubblici, se ottenute indebitamente.
La Cassazione afferma che la residenza di un soggetto non coincide con il formale dato anagrafico, ma si può definire tale soltanto «l'abituale volontaria dimora in un dato luogo contrassegnata sia dal fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo, sia dall'elemento soggettivo della volontà di rimanervi, manifestata in fatti univoci, evidenzianti tale intenzione».
La sentenza evidenzia che il legislatore sanziona sia la truffa ai danni dello stato, sia la condotta del soggetto che mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni e documenti falsi ottiene «contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo stato o da altri enti pubblici».
La seconda ipotesi di reato è prevista da una norma che si può definire sussidiaria rispetto a quella che definisce la truffa in quanto è destinata ad operare qualora la condotta presa in considerazione non presenti gli elementi degli artifici e raggiri e dell'induzione in errore.
Secondo la Cassazione la ratio della norma in questione va ravvisata nella volontà del legislatore di sanzionare l'indebita percezione delle erogazioni in genere, qualunque sia la loro denominazione, elargite dallo stato o da altri pubblici soggetti e ciò giustifica l'inclusione in tale ambito delle indennità rilasciate dalla regione ai propri consiglieri, a titolo di rimborso, per le spese di trasporto affrontate per il raggiungimento del luogo di esercizio del mandato.
La Suprema corte precisa che questa conclusione è avvalorata dalla previsione nella norma di una sanzione (soltanto amministrativa) anche per la percezione di contributi di modesta consistenza (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Limiti alla pasticceria rumorosa. Sentenza cds.
Il laboratorio artigianale di produzione di pasticceria che rivende al pubblico i suoi prodotti deve ritenersi assimilato ad un pubblico esercizio e pertanto il sindaco ha facoltà di regolarne l'orario di apertura. Come se si trattasse di un esercizio commerciale qualunque.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato -Sez. V- con la sentenza 21.12.2015 n. 5810.
Un pasticceria è stata sanzionata dai vigili per violazione delle disposizioni locali sugli orari. Contro questa determinazione punitiva l'interessato ha proposto ricorso ai giudici amministrativi ma senza successo.
Un laboratorio artigianale che vende al pubblico i suoi prodotti deve ritenersi assimilato a un esercizio commerciale se non addirittura ad un pubblico esercizio, specifica il collegio. Per questo motivo correttamente il sindaco ha facoltà di regolare l'attività di vendita al dettaglio dei generi alimentari, in conformità all'art. 50 del dlgs 267/2000.
Solo una interpretazione puramente formale potrebbe assimilare i laboratori con vendita diretta dei prodotti ad attività artigianali in senso stretto. Si tratta di esercizi commerciali veri e propri che vanno regolati dal comune (articolo ItaliaOggi del 03.02.2016).
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MASSIMA
Le censure sono infondate.
L’appellante fornisce un’interpretazione assolutamente restrittiva e comunque errata dell’art. 50 del D.Lgs. n. 267 del 2000, ignorando in questo il tenore del comma 7 dello articolo, richiamato nelle premesse dell’ordinanza impugnata a fondamento principale della medesima, con la quale il Sindaco di Lucca ha disposto la chiusura per le ore una delle notti dalla domenica al venerdì e per le ore due del sabato di pizzerie da asporto, gelaterie e yogurterie, rosticcerie e friggitorie ed appunto pasticcerie, tutti locali dello stesso genere, in quanto accomunati dal dato dell’immediata vendita pubblica al dettaglio di generi alimentari prodotti in loco dai venditori.
L’art. 50, comma 7, predetto dispone che ”Il sindaco, altresì, coordina e riorganizza, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale (…) gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, (…) al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti”.
Ora, solamente un’interpretazione puramente formale potrebbe assimilare gli esercizi presi in considerazione dall’ordinanza sindacale a puri laboratori artigiani, del tutto liberi a differenza degli ordinari esercizi commerciali dalla necessità di una regolamentazione dell’attività di vendita o del consumo in loco e considerarli conseguentemente esenti dalle norme locali che devono coordinare gli orari di rivendita.
Appare del tutto evidente che
una pizzeria da asporto o una gelateria o ancora una pasticceria, ove il dato prevalente dell’attività è lo smercio nei confronti di una collettività indistinta che frequenta i locali di vendita, rientri naturalmente tra i “pubblici esercizi” di cui al predetto comma 7 dell’art. 50 D.Lgs. n. 267 del 2000 ed è altrettanto evidente che tra le “esigenze generali” deve essere compresa la salvaguardia della quiete pubblica ed il normale riposo nelle ore notturne; e poiché è anche fatto notorio che tale tipo di attività artigianale con conseguente vendita al dettaglio comporta un afflusso di persone e più in generale assembramenti in genere ben più rumorosi di un ordinario esercizio di vicinato, è del tutto plausibile che le previsioni del comma 7 in parola debbano ritenersi ricomprendere tali tipi di forma mista artigianale/commerciale.
Per completezza va aggiunto che l’ordinanza sindacale è stata correttamente preceduta dalla deliberazione consiliare n. 46 del 24.04.2004, che ha dettato gli indirizzi per la riorganizzazione degli orari.

APPALTI: File bloccati, illegittime le esclusioni dalle gare.
Non è colpa della ditta che partecipa a una gara d'appalto se l'ente pubblico non è in grado di aprire i file dell'offerta presentata.

È questa, in soldoni, la motivazione con la quale il TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 18.12.2015 n. 1646, ha bacchettato un comune foggiano, colpevole di non avere le competenze di base e i software adatti per la ricezione dei documenti della procedura di gara telematica.
La vicenda processuale nasce dal ricorso di una ditta pugliese che si era vista esclusa da una gara, indetta dal Comune di Chieuti, nel Foggiano, tramite la piattaforma informatica Mepa, per la fornitura di arredi d'ufficio. L'ente aveva motivato la mancata accettazione dell'offerta con l'impossibilità di aprire i file firmati digitalmente dal legale rappresentante dell'impresa, reputandoli danneggiati.
A nulla, peraltro, era valso il successivo invio degli stessi documenti, stavolta con firma autografa, ma considerati dalla commissione di gara non corrispondenti ai primi. Ad aggiudicarsi la fornitura, così, era stata un'altra ditta, la sola ad avere presentato un'offerta alternativa.
Fondamentale per decidere la causa si è rivelata la disamina del perito della ricorrente, le cui risultanze sono state recepite dal collegio giudicante. La perizia tecnica di parte, infatti, ha dimostrato la perfetta integrità e leggibilità dei file trasmessi, imputando la mancata lettura della documentazione esclusivamente alla responsabilità del Comune. «La p.a.», si legge nella motivazione, «avrebbe facilmente potuto ovviare all'inconveniente registrato disponendo un supplemento istruttorio, anche con l'ausilio di personale all'uopo maggiormente qualificato, in grado di procedere all'utilizzo dei programmi informatici necessari, onde poter agevolmente procedere all'apertura dei file trasmessi».
Il Tar, pertanto, ha giudicato illegittima l'esclusione dalla gara della ricorrente, pur non potendo invalidare l'aggiudicazione all'impresa concorrente, divenuta esecutrice integrale della fornitura. La gara non potrà essere rinnovata, ma la ditta esclusa potrà comunque agire nei confronti della p.a. con un separato giudizio risarcitorio (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.02.2016).

TRIBUTIPubblicità, il cartellone abusivo versa l’imposta.
Tributi locali. Pagamento dovuto nonostante l’autorizzazione scaduta per la semplice esposizione del messaggio alla visione del pubblico.
Anche l’impianto pubblicitario abusivo è soggetto all’imposta sulla pubblicità. E questo perché il presupposto impositivo è collegato alla semplice esposizione del messaggio promozionale. Infatti, se così non fosse, sarebbe sin troppo comodo installare un mezzo pubblicitario abusivo e usufruire dello stesso senza pagare la relativa imposta.
Ad affermarlo è la sentenza 17.12.2015 n. 972/1/2015 della Ctp di Caltanissetta (presidente e relatore Monteleone).
La vicenda scaturisce dal ricorso presentato da una società di capitali contro l’avviso di accertamento emesso dalla concessionaria del servizio di pubblicità di un Comune relativamente all’imposta dovuta per l’anno 2011.
Nello specifico, il tributo si riferiva a impianti pubblicitari la cui autorizzazione all’installazione, a suo tempo rilasciata dal Comune, era scaduta. La ricorrente, considerato che l’ente locale, nonostante le richieste in sanatoria presentate, non aveva ancora provveduto al suo rinnovo, riteneva che l’imposta non fosse dovuta in quanto si trattava, conseguentemente, di impianti pubblicitari installati abusivamente.
La concessionaria della riscossione resisteva e la Ctp respingeva il ricorso, condannando la società istante anche a pagare le spese processuali. I giudici, innanzitutto, osservano che, in base all’articolo 5 del Dlgs 507/1993 (Revisione e armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità), il presupposto impositivo è rappresentato dalla diffusione di messaggi pubblicitari attraverso forme di comunicazione visive o acustiche. Soggetto passivo, inoltre, è colui che dispone, a qualsiasi titolo, del mezzo attraverso il quale il messaggio promozionale è diffuso. Appare quindi evidente, sostiene la commissione, che il pagamento dell’imposta è correlato alla semplice esposizione dell’impianto pubblicitario, indipendentemente dalla intervenuta o meno autorizzazione alla sua installazione.
In caso contrario, evidenziano i giudici, sarebbe relativamente semplice installare abusivamente un mezzo pubblicitario e usufruire dello stesso senza corrispondere la relativa imposta con “l’aberrante risultato” che il tributo sarebbe dovuto soltanto da colui che abbia ottenuto l’apposita autorizzazione.
A sostegno di quanto rilevato i giudici richiamano il principio enunciato dalla Cassazione con la sentenza 183/2004 per il quale, nei casi di omessa dichiarazione e, quindi, di pubblicità abusiva, il termine di decadenza per l’accertamento del tributo decorre dalla data in cui la dichiarazione stessa avrebbe dovuto essere presentata. Va anche rilevato, osserva l’organo giudicante, che l’articolo 24, comma 4, del Dlgs n. 507/1993, prevede che i mezzi pubblicitari esposti abusivamente possono essere sequestrati a garanzia del pagamento, oltre che delle spese di rimozione e di custodia, anche dell’imposta.
In conclusione, per la Ctp di Caltanissetta, il presupposto impositivo va, quindi, ricercato nella semplice esposizione del messaggio pubblicitario indipendentemente dalla presenza, o meno, dell’autorizzazione alla sua diffusione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.02.2016).

APPALTI: Giudizi sugli appalti, limiti al pluricontributo unificato.
D'accordo, il contributo unificato multiplo nei giudizi sugli appalti pubblici è conforme ai principi eurounitari con tanto di bollino blu della Corte di giustizia Ue, che ha dato il via libera con la sentenza 61/2014, pubblicata il 6 ottobre scorso. Ma non è detto che si debba sempre pagare l'ulteriore tributo: deve infatti escludersi la debenza quando il ricorso per motivi aggiuntivi si limita a ribadire le stesse censure riferite all'intervenuta aggiudicazione definitiva della gara.

È quanto emerge dalla sentenza 03.12.2015 n. 2840, pubblicata dal TAR Sicilia-Catania, IV Sez..
Illegittimità derivata.
È accolto il motivo di ricorso dell'azienda che chiede di essere esentata dal versamento. È vero: la Corte Ue che ha affermato che la legge italiana sui contributi multipli in caso di ricorsi avverso la stessa aggiudicazione non contrasta col diritto eurounitario perché la somma da pagare resta comunque compresa nel 2% del valore della gara e, dunque, non ostacola il ricorso alla giustizia.
Ma la Corte di Lussemburgo ha pure sottolineato che spetta al giudice nazionale accertare se gli oggetti dei ricorsi «non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell'oggetto della controversia già pendente»: in tal caso bisogna «dispensare l'amministrato dall'obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi».
Nella specie il focus della lite non si allarga perché il ricorso di limita a ribadire, fra l'altro per illegittimità derivata, le censure rivolte contro l'attribuzione dei lavori (articolo ItaliaOggi del 05.02.2016).

TRIBUTIL’area che non produce rifiuti va «denunciata» al Comune. Tributi locali. Il caso dell’esenzione dalla Tarsu per una zona adibita a centrale telefonica.
Le aree occupate da centrali telefoniche non producono rifiuti, ma l’esenzione dalla Tarsu dipenderà da una tempestiva denuncia al Comune che indichi specificamente siti e locali destinati a questo.
Lo afferma la sentenza 02.10.2015 n. 713/01/15 della Ctp di Caltanissetta (presidente D’Agostini, relatore Di Bella), aggiungendo che, se il Comune non assume alcun provvedimento dopo aver ricevuto la comunicazione, non può richiedere il pagamento del tributo.
La società aveva proposto ricorso contro una cartella di pagamento emessa per un’annualità Tarsu in relazione a una vasta superficie in cui si trovavano uffici, archivi e servizi ma anche un’area adibita a centrale telefonica non presidiata. Il Comune aveva classificato l’intero immobile come destinato a civile abitazione.
La società contestava la legittimità dell’imposizione tributaria perché entro il 20 gennaio dell’anno di riferimento aveva inoltrato al Comune una denuncia di parziale esenzione nella quale indicava l’estensione dell’area esclusivamente destinata a centralina. La società aveva versato la quota del tributo imputabile alla porzione di edificio destinata a uffici e archivi, ma formalizzando la non acquiescenza sulla restante pretesa tributaria dell’ente. In seguito alla denuncia il Comune non aveva dato alcuna risposta alla richiesta di esenzione e aveva emesso iscrizione a ruolo per l’intera area.
La Ctp di Caltanissetta ha ritenuto illegittimo il modo di procedere seguito dal Comune tanto da non limitarsi ad annullare la cartella ma da arrivare a condannare l’ente a pagare le spese del giudizio.
I giudici hanno ricordato che la Tarsu ha come presupposto la potenzialità di produzione di rifiuti di un immobile, non la sua abitabilità. E la circolare del Mef 95/E del 22.06.1994 indica come esenti le superfici che per natura o assetto sono tali da impedire obiettivamente la produzione di rifiuti. Le centrali telefoniche sono occupate da attrezzature e la presenza dell’uomo è sporadica o manca del tutto.
Spetta al contribuente l’onere di dimostrare una simile situazione di fatto che vale a vincere la presunzione di produzione di rifiuti, altrimenti valida per tutte le aree occupate. Quando sia stata inoltrata al Comune la denuncia con la quale il contribuente si assume la responsabilità di ciò che in essa è attestato, l’ente potrà accertare l’effettiva sussistenza dei presupposti per l’esenzione con eventuale recupero del tributo non versato.
Se il Comune non procede ad alcuna verifica e richiede ugualmente il pagamento del tributo, deve tenere presente che ha comunque l’onere di esternare il titolo e le ragioni giustificative della pretesa. E non potrà limitarsi a richiamare la presunzione di produzione di rifiuti senza prendere posizione sui fatti dedotti con la richiesta di esenzione.
Pertanto, nel giudizio promosso dal contribuente, il Comune deve provare i fatti costitutivi della sua pretesa
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2016).

EDILIZIA PRIVATARelativamente agli interventi di ripristino di edifici diruti, occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque di ristrutturazione), dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare).
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Fondata è invece l’azione di annullamento della concessione edilizia, sotto il profilo –di carattere assorbente– dedotto con il primo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti hanno dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 31 L. 457/1978 e dell’art. 69 del P.U.C., per avere il comune di Genova qualificato come restauro e risanamento conservativo, anziché come nuova costruzione, un intervento su di un manufatto privo di essenziali parti strutturali (segnatamente, la copertura).
Difatti, “per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque di ristrutturazione), dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare)” (TAR Campania, IV, 23.12.2010, n. 28002).
Donde l’erronea qualificazione dell’intervento, che –del resto- anche qualora fosse qualificabile come ristrutturazione, necessiterebbe comunque del reperimento dei parcheggi pertinenziali ex art. EM3 1.8 del P.U.C. (profilo dedotto con il quarto motivo di ricorso) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 17.02.2011 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'01.02.2016

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La costruzione realizzata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato integra l'ipotesi di totale difformità, anche se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito dello stesso lotto.
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Sui distinguo tecnico-giuridici degli  interventi edilizi in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale.

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Tutela del paesaggio e interventi in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi di totale difformità di lavori dal provvedimento abilitativo, per cui è configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito dello stesso lotto.
Lo spostamento da un luogo ad un altro determina, invero, una vera e propria alterazione della costruzione autorizzata, che integra un'opera sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del DPR 380/2001, si considera in "totale difformità" l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione.
E non può essere revocato in dubbio che opere "spostate", in modo significativo (tra i nove ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato integrino una difformità totale, e come tali debbano considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate" dal provvedimento originario (esse invero risultano sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
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Per di più,
nel caso di specie, risultando l'area sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la distinzione tra "totale difformità" e "parziale difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004, possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
in tema di tutela del paesaggio, anche a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n. 42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
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Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha ribadito, infatti, che
in presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
E, dall'altro, che occorresse, per l'intervento "diverso", nuova autorizzazione paesaggistica.
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2.1. Risulta pacificamente in punto di fatto (non venendo neppure sostanzialmente contestato dai ricorrenti) che le opere erano state posizionate in modo diverso rispetto a quanto previsto in progetto.
Il Tribunale ha dato atto che i consulenti, dopo aver eseguito le coordinate dei sei aerogeneratori, come risultanti dalle tavole tecniche, avevano proceduto a localizzare le opere in corso di realizzazione con sistema di rilevazione satellitare. E, attraverso tale ineccepibile metodo operativo, che trovava peraltro conforto nei rilievi effettuati dall'ausiliario forestale, dott. Cr., si era accertato una indiscutibile divergenza tra il dato delle coordinate di progetto con quello delle opere in corso. Risultava, infatti, uno spostamento significativo delle opere, oscillante tra i 9 metri ed i 28 metri, rispetto a quanto era stato autorizzato con il progetto.
Sulla base di tale accertamento, ineccepibilmente il Tribunale ha ritenuto che fosse configurabile il fumus del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001 (pag. 15 ord.).
La giurisprudenza di questa Corte, a partire da quella più datata, ha costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi di totale difformità di lavori dal provvedimento abilitativo (Cass. sez. 3 n. 5224 del 20/03/1981), per cui è configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito dello stesso lotto (Cass. sez. 3 n. 3178 del 27/01/1982).
Lo spostamento da un luogo ad un altro determina, invero, una vera e propria alterazione della costruzione autorizzata, che integra un'opera sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del DPR 380/2001, si considera in "totale difformità" l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione (Cass. sez. 3 n. 40541 del 18/06/2014).
E non può essere revocato in dubbio che opere "spostate", in modo significativo (tra i nove ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato integrino una difformità totale, e come tali debbano considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate" dal provvedimento originario (esse invero risultano sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
Ha già osservato il Tribunale, inoltre, che contrariamente all'assunto difensivo l'intervento non può considerarsi di "variante di tipo non sostanziale" neppure ai sensi e per gli effetti della disciplina speciale prevista dal D.L.vo 03.03.2011 n. 28, in quanto l'art. 5, comma 3, esclude dalle categorie degli interventi sostanziali, oltre quelli che non comportano variazioni delle dimensioni fisiche degli apparecchi, della volumetria delle strutture, quelli che non comportano "variazioni dell'area destinata ad ospitare gli impianti stessi".
2.2. Per di più,
nel caso di specie, risultando l'area sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la distinzione tra "totale difformità" e "parziale difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004, possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3 n. 41078 del 20/09/2007), secondo cui,
in tema di tutela del paesaggio, anche a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n. 42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
In applicazione di tale principio si è ritenuto che il Piano Urbanistico Territoriale Tematico della Regione Puglia, riconducibile alla categoria dei piani urbanistico territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, costituisca un intervento di pianificazione a carattere generale efficace su tutto il territorio regionale, non limitato alle aree ed ai beni elencati dall'art. 82, quinto comma, DPR n. 616 del 1977 ovvero alle aree già sottoposte ad uno specifico vincolo paesistico.
Il PUTT/P, quindi, oltre gli effetti di direttiva nei confronti della pianificazione comunale, produce anche effetti diretti nei confronti dei privati, con vincoli generali e particolari, purché pertinenti alla specifica tematica del piano stesso ed estende la sua portata, oltre che ai beni vincolati, anche a zone non soggette al regime di tutela paesistica, ma ugualmente ritenute meritevoli di considerazione in quanto espressione della più generale potestà urbanistica regionale in materia paesaggistico-ambientale.
Il Tribunale ha accertato che l'impianto in corso di realizzazione insistesse in ATE di Tipo C, e che all'interno di tale ambito gli interventi di trasformazione fossero ammessi solo se compatibili con la qualificazione paesaggistica.
Del resto in data 17/05/2010 la stessa Regione Puglia non esprimeva parere favorevole (salvo poi a modificarlo inopinatamente dopo pochi mesi) per gli aerogeneratori 1, 2, 3, 4, 5, in quanto collocati in ATE di Tipo C e in contrasto con i relativi indirizzi di tutela (2.02) del PUTT.
Da tutto ciò consegue, da un lato, che, a seguito dello spostamento dell'ubicazione dell'opera, comunque si rendesse necessario nuovo permesso di costruire (da conseguire con ricorso alla procedura dell'autorizzazione unica).
Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha ribadito, infatti, che
in presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali (Cass. sez. 3 n. 37169 del 06/05/2014; sez. 3 n. 1486 di 03/12/2013 ed in precedenza Sez. 3 n. 16392 del 17/02/2010). E, dall'altro, che occorresse, per l'intervento "diverso", nuova autorizzazione paesaggistica.
Perfino gli interventi eseguibili mediante dia (ora scia) necessitano, infatti, del preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 8739 del 21.01.2010), configurandosi in mancanza il reato di cui all'art. 181 D.L.gs. n. 42 del 2004 (Cass. pen. sez. 3 n. 15929 del 12.01.2006).
Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che fosse configurabile il fumus sia del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001, sia del reato di cui all'art. 181 D.L.vo 42/2004 (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2015 n. 49669).

EDILIZIA PRIVATA: Non determina l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
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Il concetto della totale difformità è antitetico rispetto a quello della parziale difformità e ciò giustifica il diverso approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa, dell'una o dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone invece un intervento costruttivo che esclude una valutazione frammentaria di esso e che perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire come quelle "che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso...".

Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, TUE richiama un concetto di "totale difformità" ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su una valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già pervenuta la giurisprudenza di questa Corte quando, nel previgente e non antitetico assetto normativo, aveva chiarito che
si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
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2.4. Sul punto, quanto alla doglianza circa la negata valenza del permesso in sanatoria come causa estintiva del reato urbanistico, la Corte di appello si è attenuta alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale
non determina l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini ed altro, Rv. 250477).
Nella specie, il permesso di costruire in sanatoria è stato concesso con specifiche prescrizioni, è poi pacifico che l'autorimessa seminterrata, ipoteticamente sanabile, sia stata esclusa dalla sanatoria stessa, essendone stata prevista la demolizione e, a dimostrazione dell'inammissibilità di una sanatoria parziale o condizionata alla demolizione di una parte degli interventi, la Corte di appello ha anche correttamente rilevato come, dall'esame della pratica di sanatoria, anche altre opere siano state sottratte all'accertamento dì conformità essendo stata prevista anche l'eliminazione dei muri di chiusura della loggia e la risistemazione esterna del terreno, così da incidere sull'altezza del piano di calpestio del fabbricato rispetto al piano di campagna.
2.5. Corretto deve ritenersi anche l'approdo cui i Giudici dell'appello sono pervenuti nel ritenere configurata la fattispecie della difformità totale procedendo ad valutazione concernente l'opera nel suo insieme e stigmatizzando il contrario approccio pronosticato dai ricorrenti e diretto a valutare singolarmente le varie difformità parcellizzando l'esame critico degli interventi.
Dalla valutazione unitaria dell'immobile realizzato, la Corte ha tratto corretto e logico argomento per desumere la realizzazione di un organismo integralmente diverso da quanto previsto nell'atto di assenso sul rilievo del macroscopico incremento volumetrico comportante la realizzazione di un immobile di dimensioni molto più ampie, traslato sul terreno, con un'autorimessa seminterrata non prevista dal permesso di costruire.
Il concetto della totale difformità è antitetico rispetto a quello della parziale difformità e ciò giustifica il diverso approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa, dell'una o dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone invece un intervento costruttivo che esclude una valutazione frammentaria di esso e che perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire come quelle "che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso...".

Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, TUE richiama un concetto di "totale difformità" ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su una valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già pervenuta la giurisprudenza di questa Corte quando, nel previgente e non antitetico assetto normativo, aveva chiarito che
si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera (Sez. 3, n. 1060 del 07/10/1987, dep. 30/01/1988, Ferrali Rv. 177490).
2.6. A questo punto, appare chiaro come sia del tutto irrilevante il richiamo nelle doglianze dei ricorrenti alla legislazione regionale per desumere, rispetto alle singole difformità e non alle anomalie nel loro complesso, il carattere di variazione non essenziale dei singoli interventi (come ad esempio dell'autorimessa) e ciò sulla base del disposto dell'art. 32 TUE e del rinvio alla legislazione regionale integrativa.
Nel caso di specie, attesa la clausola di salvezza posta in apertura delle disposizione, l'art. 32 TUE non è applicabile stante la natura totale delle difformità edilizie unitariamente riguardate e di conseguenza alcun effetto giuridico produce la legislazione regionale nella determinazione integrativa delle variazioni essenziali in presenza appunto di conclamate totali difformità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2014 n. 40541 - udienza).

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana –previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994- costituisce una regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per incompatibilità- dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165/2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della regola di carattere generale.
Non rileva -in contrario- l’art. 32 della legge n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango secondario- che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
Sicché, la mancata pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla sua impugnazione da parte di chi abbia interesse a parteciparvi, senza bisogno ovviamente di proporre la domanda di partecipazione, la cui mancanza è dipesa proprio dalla mancata pubblicazione del bando, in violazione della normativa vigente.

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... per la riforma della sentenza del TAR Piemonte, Sez. II, n. 1312/2015, resa tra le parti, concernente la graduatoria finale del concorso a un posto di istruttore amministrativo contabile.
...
1. Con la sentenza impugnata, il TAR per il Piemonte ha accolto il ricorso di primo grado n. 607 del 2015 ed ha annullato tutti gli atti del procedimento concorsuale, indetto dal Comune di Gavi per la copertura di un posto di istruttore amministrativo contabile.
Il TAR ha ravvisato la fondatezza della censura con cui il ricorrente in primo grado ha lamentato che il bando di concorso non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
2. Con l’appello in esame, la vincitrice del concorso ha impugnato la sentenza del TAR, chiedendo che in sua riforma il ricorso di primo grado sia respinto.
Ella ha dedotto che –contrariamente a quanto ha ritenuto il TAR– la mancata pubblicazione del bando sulla Gazzetta Ufficiale va considerata legittima, a seguito della entrata in vigore dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che ha previsto l’obbligo delle Amministrazioni di pubblicare i provvedimenti sui propri siti informatici.
3. Ritiene la Sezione che le censure dell’appellante, così riassunte, vadano respinte.
3.1. Come ha rilevato la Sezione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 08.06.2015, n. 2801), l'obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana –previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994- costituisce una regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per incompatibilità- dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165/2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della regola di carattere generale.
Neppure rileva in contrario l’art. 32 della legge n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango secondario- che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
3.2. La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla sua impugnazione da parte di chi abbia interesse a parteciparvi, senza bisogno ovviamente di proporre la domanda di partecipazione, la cui mancanza è dipesa proprio dalla mancata pubblicazione del bando, in violazione della normativa vigente.
4. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto, con conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.01.2016 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Comune non ha pubblicato il bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per estratto. L’omessa pubblicazione del bando configura l’insanabile violazione dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994, che prevede, per gli enti locali, la possibilità di sostituire la pubblicazione integrale del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra la previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001, recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita a prescrivere la “adeguata pubblicità della selezione” senza specificare altro in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
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A diversa conclusione non può giungersi sulla base dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, come vorrebbero le parti resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici delle amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di contro, il settimo comma dell’art. 32 prevede espressamente che “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e i relativi effetti giuridici…”, in tal modo confermando l’obbligatorietà della pubblicazione dei bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli effetti giuridici che a tale pubblicazione conseguono.
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più corretta del settimo comma dell’art. 32, la “salvezza” dell’obbligatorietà e degli effetti della pubblicità in Gazzetta Ufficiale non può essere oggettivamente circoscritta oggettivamente alle sole gare d’appalto disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006. Il comma recita: “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici, nonché nel sito informatico del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico presso l’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, prevista dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”. L’ultimo inciso, ossia il riferimento all’art. 7 del Codice degli appalti pubblici, non può che essere riferito alla pubblicità mediante l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza (oggi Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che conferma nei termini descritti e senza limitazioni l’obbligo di pubblicità nella Gazzetta Ufficiale, non si pone alcuna questione di prevalenza della norma di rango legislativo sulla norma anteriore di rango regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994), come invece affermato dalla difesa del Comune.
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... per l'annullamento:
- del bando di “concorso pubblico per esami per l'assunzione a tempo indeterminato di n. 1 istruttore amministrativo contabile - cat. C - posizione economica C1, presso il Comune di Gavi (AL), Servizio Finanziario" del 19.02.2015;
- della graduatoria finale di concorso del 30.03.2015, in cui risultano classificati al primo posto El.Fi. ed al secondo posto Gr.Po.Ma.;
- dell’atto di diniego di accesso civico prot. n. 3365 in data 08.05.2015, con cui il Comune di Gavi ha rigettato l’istanza presentata dal ricorrente ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013, avente ad oggetto il regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (ovvero altro regolamento recante le norme sull’accesso all’impiego nel Comune di Gavi), nonché l’estratto della pubblicazione del bando sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana o sugli altri mezzi di informazione o portali telematici;
...
4. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Il Comune di Gavi non ha pubblicato il bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per estratto. L’omessa pubblicazione del bando configura l’insanabile violazione dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994, che prevede, per gli enti locali, la possibilità di sostituire la pubblicazione integrale del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra la previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001, recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita a prescrivere la “adeguata pubblicità della selezione” senza specificare altro in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.02.2010 n. 871).
A diversa conclusione non può giungersi sulla base dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, come vorrebbero le parti resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici delle amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di contro, il settimo comma dell’art. 32 prevede espressamente che “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e i relativi effetti giuridici…”, in tal modo confermando l’obbligatorietà della pubblicazione dei bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli effetti giuridici che a tale pubblicazione conseguono (in questo senso: Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 12.12.2013 n. 934; TAR Lazio, sez. III-quater, 01.04.2014 n. 3554; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 22.02.2013 n. 145; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 08.06.2012 n. 1474).
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più corretta del settimo comma dell’art. 32, la “salvezza” dell’obbligatorietà e degli effetti della pubblicità in Gazzetta Ufficiale non può essere oggettivamente circoscritta oggettivamente alle sole gare d’appalto disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006. Il comma recita: “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici, nonché nel sito informatico del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico presso l’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, prevista dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”. L’ultimo inciso, ossia il riferimento all’art. 7 del Codice degli appalti pubblici, non può che essere riferito alla pubblicità mediante l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza (oggi Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che conferma nei termini descritti e senza limitazioni l’obbligo di pubblicità nella Gazzetta Ufficiale, non si pone alcuna questione di prevalenza della norma di rango legislativo sulla norma anteriore di rango regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994), come invece affermato dalla difesa del Comune di Gavi.
Il motivo, pertanto, è fondato e comporta l’annullamento del procedimento concorsuale e della graduatoria finale (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 31.07.2015 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

VARIBonus mobili ed elettrodomestici (Agenzia delle Entrate, gennaio 2016).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARI: MEZZI AEREI A PILOTAGGIO REMOTO (ENAC, regolamento 21.12.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 4 del 29.01.2016, "Modifiche al regolamento regionale 27.07.2009, n. 2 «Contributi alle unioni di comuni lombarde, in attuazione dell’articolo 20 della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali)»" (regolamento regionale 27.01.2016 n. 2).

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: G.U. 29.01.2016 n. 23 "Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture(Legge 28.01.2016 n. 11).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 28.01.2016 n. 22 "Modifica e abrogazione di disposizioni di legge che prevedono l’adozione di provvedimenti non legislativi di attuazione, a norma dell’articolo 21 della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs. 22.01.2016 n. 10).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 23.01.2016 n. 18 "Testo del decreto-legge 25.11.2015, n. 185, coordinato con la legge di conversione 22.01.2016, n. 9, recante: «Misure urgenti per interventi nel territorio. Proroga del termine per l’esercizio delle deleghe per la revisione della struttura del bilancio dello Stato, nonché per il riordino della disciplina per la gestione del bilancio e il potenziamento della funzione del bilancio di cassa»".
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Di particolare interesse si legga:
Art. 15. - Misure urgenti per favorire la realizzazione di impianti sportivi nelle periferie urbane

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO - VARI: G.U. 22.01.2016 n. 17 "Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28.04.2014, n. 67" (D.Lgs. 15.01.2016 n. 8).

VARI: G.U. 22.01.2016 n. 17 "Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28.04.2014, n. 67" (D.Lgs. 15.01.2016 n. 7).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: F. P. Garzone, L’indebito ricorso ai “progetti obiettivo” come forma di remunerazione del pubblico impiego: v’è ancora spazio per una tutela penale della Pubblica Amministrazione? (TRIBUNALE di Taranto – Sez. II, sentenza 16.10.2014 n. 2156) (26.01.2016 - tratto da www.diritto.it).
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SOMMARIO: 1. Il caso concreto. – 2. Il primo nodo problematico: la “salomonica” scelta del P.M. di imputazione alternativa delle fattispecie di truffa ai danni della Pubblica Amministrazione e peculato. – 3. La distrazione di fondi pubblici può configurare peculato? – 4. Derive “contrattuali” del legislatore e riflessi incondizionati sulla fattispecie di abuso d’ufficio.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G. Amendola, Rifiuti. La Cassazione: i materiali da demolizione sono sempre rifiuti, mai sottoprodotti (22.01.2016 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Verderosa, Il vincolo paesistico dei corsi d’acqua: Deroghe, aspetti urbanistici, urbanizzazione di fatto, limitazione all'esclusione, irrilevanza dei corsi d’acqua minori (08.01.2016 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: R. D'Isa, I RAPPORTI DI VICINATO - Compendio sui rapporti di vicinato in forza dei seguenti istituti: 1) IL DIVIETO DEGLI ATTI DI EMULAZIONE - 2) LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI - 3) Le Luci e le Vedute - 4) LE IMMISSIONI - 5) LO STILLICIDIO, LO SCOLO ED IL DIRITTO SULLE ACQUE ESISTENTI NEL FONDO - 6) LE AZIONI A TUTELA DELLA PROPRIETÀ - 7) LE AZIONI A TUTELA DEL POSSESSO (22.01.2016 - tratto da http://renatodisa.com).
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1 Introduzione Pag. 5
2 IL DIVIETO DEGLI ATTI DI EMULAZIONE Pag. 10
   A Introduzione Pag. 10
   B Elementi costitutivi Pag. 13
   C Casistica Pag. 17
   D Atti emulativi e condominio Pag. 24
3 LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI Pag. 27
   A Introduzione e la disciplina generale Pag. 27
   B La ratio delle distanze Pag. 35
   C Il sistema della prevenzione Pag. 38
   D Brevi cenni sulle norme nazionali e le norme locali (regolamenti e piani regolatori) Pag. 52
   E La deroga mediante convenzione tra privati Pag. 65
   F Nozione di costruzione Pag. 67
   G Le distanze legali ed il condominio Pag. 94
   H La tutela e questioni processuali Pag. 97
   I Lo Jus superveniens Pag. 110
4 Le Luci e le Vedute Pag. 112
   A Introduzione Pag. 112
   B Le luci Pag. 120 - 1 Le luci irregolari Pag. 122 - 2 Le luci sul muro di confine Pag. 126 - 3 Il diritto di chiudere le luci Pag. 127
   C Le Vedute Pag. 132 - 1 I presupposti Pag. 134 - 2 Vedute dirette, oblique, laterali, ad appiombo e le relative distanze Pag. 142
   D La disciplina per il Condominio e/o Comunione Pag. 154
   E Lo Jure servitutis Pag. 164 - 1 Modifiche comportanti aggravio di servitù Pag. 168 - 2 Modifiche non comportanti aggravio di servitù Pag. 169 - 3 Estinzione del diritto di servitù Pag. 171
   F Usucapione della minor distanza Pag. 174
   G La tutela Pag. 178 - 1 L’azione volta a regolarizzare la servitù ex art. 902 c.c. Pag. 182 - 2 Le azioni possessorie Pag. 185
5 LE IMMISSIONI Pag. 190
   A Introduzione Pag. 190
   B Concetto di tollerabilità Pag. 193
   C Presupposti e requisiti delle immissioni Pag. 202
   D Le azioni a tutela Pag. 209
   E Le fattispecie penali Pag. 220
6 LO STILLICIDIO, LO SCOLO ED IL DIRITTO SULLE ACQUE ESISTENTI NEL FONDO Pag. 237
   A Lo stillicidio Pag. 237
   B Le Acque Pag. 245 - 1 Diritto sulle acque esistenti nel fondo Pag. 245 - 2 Apertura di nuove sorgenti e altre opere Pag. 247 - 3 Conciliazione di opposti interessi Pag. 251 - 4 Scolo delle acque Pag. 254 - 5 Consorzi per regolare il deflusso delle acque Pag. 262
7 LE AZIONI A TUTELA DELLA PROPRIETÀ Pag. 267
   A Azione di rivendicazione Pag. 267 - 1 La probatio diabolica Pag. 271 - 2 Il titolo Pag. 276 - 3 Il rapporto con l’azione di restituzione Pag. 280 - 4 Il rapporto con l’azione di regolamento di confini Pag. 291 - 5 Il rapporto con l’azione negatoria Pag. 293 - 6 Il rapporto con l’opposizione di terzo all’esecuzione (art. 619 c.p.c.) e con l’opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.) Pag. 294 - 7 Il rapporto con l’azione di petizione ereditaria Pag. 295 - 8 Questioni processuali Pag. 298 - 9 Prescrizione Pag. 308
   B Azione negatoria Pag. 309 - 1 Il sistema della prova Pag. 315 - 2 Casistica Pag. 318 - 3 La legittimazione processuale attiva e passiva Pag. 323 - 4 Prescrizione Pag. 327 -
   C Azione di regolamento di confini Pag. 328 - 1 La natura giuridica ed i presupposti Pag. 328 - 2 Il rapporto con l’azione di rivendica Pag. 332 - 3 La legittimazione processuale attiva e passiva Pag. 333 - 4 Gli oneri ed i mezzi probatori Pag. 335 - 5 Le convenzioni tra proprietari ed il loro valore Pag. 340
   D Apposizioni di termini Pag. 342 - 1 La natura giuridica Pag. 342 - 2 Il rapporto con l’azione di regolamento dei confini Pag. 343
8 LE AZIONI A TUTELA DEL POSSESSO Pag. 345
   A In generale Pag. 345 - 1 Termine annuale Pag. 348 - 2 Risarcimento danni Pag. 352
   B L’autotutela (vim vi repellere licet) Pag. 354
   C C) Rapporti tra le azioni Pag. 352
   D D) La disciplina Pag. 359 - 1 La competenza Pag. 360 - 2 La legittimazione attiva Pag. 363 - 3 La legittimazione passiva Pag. 374 - 4 Oggetto della domanda Pag. 381 - 5 Prova del possesso ed eccezioni Pag. 383 - 6 Provvedimento Pag. 386 - 7 Rapporti fra giudizio possessorio e giudizio petitorio Pag. 388
   E Azione di reintegrazione (o di spoglio) Pag. 392 - 1 Il termine annuale Pag. 399
   F Azione di manutenzione Pag. 402 - 1 La legittimazione Pag. 411 - 2 Termine di decadenza Pag. 412
   G Le azioni di nunciazione (o quasi possessorie) Pag. 413
      1 L’azione di nuova opera Pag. 414 - 2 L’azione di danno temuto Pag. 419 - 3 Le differenze tra le due azioni Pag. 421

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: RUP – ruolo di responsabile dei lavori.
Ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.p.r. 207/2010, nel settore dei contratti pubblici, il responsabile del procedimento assume il ruolo di responsabile dei lavori ex art. 89 del d.lgs. 81/2008 ai fini del rispetto delle norme in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro.
Art. 10 d.lgs. 163/2006 – art. 89 d.lgs. 81/2008
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- RITENUTO, pertanto, che
nella realizzazione di lavori pubblici, a carico del responsabile unico del procedimento e responsabile dei lavori «grava una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durante il loro svolgimento, ove è previsto che debba svolgere un’attività di sorveglianza del loro rispetto» (cfr. Corte di Cassazione, sez. IV penale, sentenza 15.11.2011, n. 41993); dunque, tale ruolo di garanzia non può essere assunto dall’appaltatore ... (parere di precontenzioso 16.12.2015 n. 228 - rif. PREC 175/15/L - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Responsabile del procedimento – componente della commissione di gara.
L’articolo 84 del d.lgs. n. 163/2006, dettato a garanzia della trasparenza e della imparzialità amministrativa nella gara, impedisce unicamente la presenza nella commissione di gara di soggetti che abbiano svolto un’attività idonea ad interferire con il giudizio di merito sull’appalto di cui trattasi, in grado, cioè, di incidere –il che è da dimostrare nel caso concreto, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti– sul processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l’esito.
Articolo 39 del d.lgs. n. 163/2006
Articolo 84 del d.lgs. n. 163/2006
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- CONSIDERATO infine che, per quanto concerne l’ulteriore motivo di doglianza relativo al ruolo del responsabile del procedimento in qualità di componente della commissione, stante l’esiguità degli elementi forniti al riguardo in sede di contestazione, in questa sede, è possibile esclusivamente richiamare il consolidato orientamento di questa Autorità e della giurisprudenza amministrativa in materia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4438 e Consiglio Stato, sez. V, 04.03.2011, n. 1386).
È stato infatti precisato che
l’articolo 84 del d.lgs. n. 163/2006, dettato a garanzia della trasparenza e della imparzialità amministrativa nella gara, impedisce unicamente la presenza nella commissione di gara di soggetti che abbiano svolto un’attività idonea ad interferire con il giudizio di merito sull’appalto di cui trattasi, in grado, cioè, di incidere –il che è da dimostrare nel caso concreto, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti– sul processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l’esito (in tal senso, parere n. 46 del 21.03.2012 e parere n. 130 del 07.07.2011).
Ed è stato altresì evidenziato che
l’articolo 84 mira a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale, impedendo la partecipazione alla commissione di soggetti che, nell’interesse proprio o in quello privato di alcuna delle imprese concorrenti, abbiano assunto o possano avere assunto compiti di progettazione, di esecuzione o di direzione di lavori oggetto della procedura di gara e ciò a tutela del diritto delle parti del procedimento ad una decisione amministrativa adottata da un organo terzo ed imparziale (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 13 del 07.05.2013).
Ed è stato, infine, ulteriormente sottolineato il rilievo di una valutazione di tipo sostanziale e non formale della possibile incompatibilità, precisando che,
ai fini dell’articolo 84, ferme restando le finalità anzidette, rileva altresì che tale incompatibilità riguardi effettivamente il contratto del cui affidamento si tratta e non possa riferirsi genericamente ad incarichi amministrativi o tecnici generalmente riferiti ad altri appalti e che, in ogni caso, di tale situazione di incompatibilità, deve essere fornita adeguata e ragionevole prova, non essendo sufficiente in tal senso il mero sospetto di una possibile situazione di incompatibilità non apparendo neanche di per sé sufficiente la circostanza che il soggetto abbia predisposto materialmente il capitolato speciale d’appalto, «occorrendo invero non già un qualsiasi apporto al procedimento di approvazione dello stesso, quanto piuttosto una effettiva e concreta capacità di definirne autonomamente il contenuto, con valore unicamente vincolante per l’amministrazione ai fini della valutazione delle offerte, così che, in definitiva, il contenuto prescrittivo sia riferibile esclusivamente al funzionario» (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 226 del 22.01.2015 e sez. V, sentenza n. 1565 del 23.03.2015);
- RITENUTO, pertanto, di poter richiamare, nel caso di specie, gli enunciati principi interpretativi relativi all’interpretazione dell’articolo 84 (parere di precontenzioso 22.12.2015 n. 221 - rif. PREC 180/15/S - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali – requisito di esecuzione
L’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali è requisito di esecuzione e non di partecipazione.
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- CONSIDERATO che, in relazione al primo motivo di doglianza, relativo al requisito dell’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali, il consolidato orientamento di questa Autorità ha precisato che
l’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali costituisce un requisito di esecuzione e non di partecipazione alle gare per l’affidamento degli appalti relativi allo svolgimento delle attività di raccolta e smaltimento rifiuti a norma dell’articolo 212 del d.lgs. 152/2006, “dovendo i bandi prevedere una specifica clausola in base alla quale non si procederà alla stipulazione del contratto in caso di mancato possesso della relativa iscrizione (cfr. parere n. 152 del 09.09.2015; nonché AG 7-09 del 23.04.2009 e parere di precontenzioso n. 89 del 29.04.2010);
- CONSIDERATO, inoltre, che
spetta alla stazione appaltante valutare nei confronti dei concorrenti in concreto il possesso di tale requisito secondo la corretta individuazione della relativa categoria e classifica ai fini dell’esecuzione del servizio e al momento della stipula del contratto;
- RITENUTO pertanto che, nel caso di specie, tale valutazione sia stata effettuata in un momento antecedente a quello previsto dall’ordinamento e che, pertanto, l’esclusione del concorrente, per tale motivo, non appare legittima (parere di precontenzioso 22.12.2015 n. 221 - rif. PREC 180/15/S - link a www.autoritalavoripubblici.it).

LAVORI PUBBLICIAppalto esecuzione lavori, la variante è legittima. Per l'Autorità anticorruzione è conforme alla norma vigente.
In un appalto di sola esecuzione dei lavori è legittima la richiesta di varianti migliorative e l'obbligo per il progettista incaricato dall'impresa di sottoscrivere gli elaborati e i grafici allegati all'offerta tecnica dell'impresa stessa.
È quanto ha affermato l'Anac, con il parere di precontenzioso 16.12.2015 n. 220 - rif. PREC 86/15/L, relativo a un appalto di sola esecuzione di lavori, contenente varianti migliorative in sede di offerta chieste in un appalto di sola esecuzione.
Nel caso sul quale si è espressa l'Anac si trattava di verificare la conformità alla normativa vigente di una prescrizione contenuta nel bando di gara, relativa alla richiesta di sottoscrizione da parte del professionista abilitato e incaricato dal concorrente, delle relazioni e dei grafici allegati all'offerta tecnica presentata da una impresa per un appalto di sola esecuzione dei lavori.
Secondo l'Autorità la clausola è legittima in considerazione degli aspetti tecnici contenuti negli elaborati, relativi a varianti progettuali migliorative e le ragioni di tale legittimità vanno individuate nel fatto che la stazione appaltante ha optato per aggiudicare il contratto di sola esecuzione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell'art. 83 dlgs 163/2006, con prevista applicazione del metodo aggregativo-compensatore di cui all'allegato G del dpr 207/2010 (regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici). Generalmente questi contratti si affidano con ricorso al prezzo più basso, ma nulla esclude che si utilizzi l'altro criterio, scelto dalla stazione appaltante.
Su questo punto l'Authority ha confermato che la scelta del criterio «è rimessa, caso per caso, alla stazione appaltante» così come «la scelta del peso da attribuire a ciascun criterio di valutazione dell'offerta in relazione alle peculiarità specifiche dell'appalto e, dunque, all'importanza che, nella specifica ipotesi, hanno il fattore prezzo e i contenuti qualitativi, garantendo comunque, con riferimento al peso complessivo, un rapporto di prevalenza dei criteri qualitativi rispetto a quelli quantitativi».
Di conseguenza, ha asserito l'Autorità, le scelte contenute nelle clausole della lex specialis (nello specifico la richiesta di sottoscrizione degli elaborati parte dal progettista incaricato dall'impresa) rientrano nella discrezionalità della stazione appaltante, «che può essere sindacata», come ribadito dalla giurisprudenza amministrativa, «solo se manifestamente illogica o irragionevole».
Riguardo alle varianti l'Autorità ha ricordato i seguenti quattro punti:
1) ammissibilità di varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla p.a;
2) l'importanza che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto al progetto base e che l'offerente dia contezza delle ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali;
3) l'esistenza della prova che la variante garantisca l'efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese alla prescrizione variata;
4) il riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità alla commissione giudicatrice, trattandosi dell'ambito di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Varianti progettuali migliorative in sede di offerta – firma da parte del progettista sui relativi elaborati tecnici.
Nell’ambito della tipologia di appalto di sola esecuzione di lavori, con previste varianti migliorative in sede di offerta, è conforme alla normativa di settore la richiesta di sottoscrizione, da parte di un professionista di cui all’art. 90 d.lgs. 163/2006, delle relazioni illustrative e dei grafici allegati alla relativa offerta tecnica, tenuto conto degli aspetti tecnici contenuti nei suddetti elaborati.
Art. 76 d.lgs. 163/2006.
...
Offerta economicamente più vantaggiosa – Criteri di valutazione e attribuzione punteggio - metodo aggregativo - compensatore.
Quando per l'aggiudicazione della gara sia stato prescelto il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la scelta del peso da attribuire a ciascun criterio di valutazione dell’offerta è rimessa, alla stazione appaltante, in relazione alle peculiarità specifiche dell’appalto e, dunque, all’importanza che, nella specifica ipotesi, hanno il fattore prezzo e i contenuti qualitativi, garantendo, con riferimento al peso complessivo, un rapporto di prevalenza dei criteri qualitativi rispetto a quelli quantitativi.
Art. 83 d.lgs. 163/2006.
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- CONSIDERATO, con riferimento al primo profilo di doglianza che, in generale, ai sensi dell’art. 76 d.lgs. 163/2006, le varianti progettuali in sede di offerta, per essere ammissibili, devono essere coerenti al progetto messo a base di gara e devono rispettare le prescrizioni del capitolato speciale d’appalto;
- CONSIDERATO sul punto quanto affermato dall’Autorità che ritiene "La variazione migliorativa, tuttavia, è legittimamente ammessa sempre che sia riconducibile nella sfera delle migliori modalità esecutive del progetto base, da individuare in quelle soluzioni tecniche che consentano di realizzare quanto progettato in modo da garantire una migliore qualità delle lavorazioni dedotte in contratto, salve restando le scelte progettuali fondamentali già effettuate dall'Amministrazione. Attiene ai compiti della Commissione di gara valutare la rispondenza delle varianti ai livelli prestazionali stabili dal progetto posto a base di gara” (cfr. Parere di precontenzioso, 27.05.2010, n. 107);
- TENUTO CONTO di quanto elaborato dalla giurisprudenza amministrativa circa alcuni criteri guida relativi alle varianti in sede di offerta (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19.02.2003, n. 923; Sez. V, 09.02.2001, n. 578; Sez. IV, 02.04.1997, n. 309) quali:
1) ammissibilità di varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell’opera o del servizio, purché non si traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla p.a;
2) importanza che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto al progetto base e che l’offerente dia contezza delle ragioni che giustificano l’adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali; 3) esistenza della prova che la variante garantisca l’efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese alla prescrizione variata;
4) riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità alla commissione giudicatrice, trattandosi dell’ambito di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa;
- CONSIDERATO altresì che “condizione di ammissibilità delle varianti al progetto preliminare o definitivo previste dal bando di gara e dai relativi allegati tecnici, ai sensi dell’art. 76, del d.lgs. n. 163/2006, è che queste non alterino in misura rilevante, le caratteristiche strutturali, prestazionali e funzionali dell’opera, a garanzia della par condicio dei concorrenti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 23.01.2012 n. 285; Id., Sez. V, 20.02.2009 n. 1019) e che il bando di gara ed i relativi allegati tecnici precisino con chiarezza i confini entro i quali devono collocarsi le eventuali varianti al progetto preliminare o definitivo” (In tal senso parere di Precontenzioso 23.04.2013, n. 68);
- RILEVATO che nel caso di specie, l’oggetto dell’appalto afferisce alla sola esecuzione di lavori, non rientrando nelle diverse ipotesi previste dall’art. 53, comma 2, lettere b) e c), d.lgs. 163/2006, dove si è richiesto agli operatori economici il possesso di requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione;
- RITENUTO che la prescrizione contenuta al punto 3 – Contenuto offerta tecnica, lettera d.1) del disciplinare di gara che richiede la sottoscrizione, da parte di un professionista abilitato e incaricato dal concorrente, non certo dell’offerta tecnica bensì delle relazioni illustrative e dei grafici ad essa da allegare, appare condivisibile e coerente con la disciplina di settore tenuto conto degli aspetti tecnici contenuti nei suddetti elaborati;
- TENUTO CONTO inoltre che il criterio prescelto dalla stazione appaltante nella procedura de qua è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi dell’art. 83 d.lgs. 163/2006 con prevista applicazione del metodo aggregativo-compensatore di cui all’allegato G del d.p.r. 207/2010;
- CONSIDERATO in generale, come evidenziato dall’Autorità nella determinazione n. 7/2011, che il Codice dei Contratti precisa che il criterio sopra citato fonda l’aggiudicazione dei contratti pubblici non tanto su una valutazione meramente economica, quanto su una complessa integrazione tra il dato economico e quello tecnico e qualitativo; integrazione che avviene applicando criteri di valutazione quantitativi (prezzo, tempo di esecuzione, durata della concessione, ecc.) o qualitativi (caratteristiche estetiche e funzionali, qualità, pregio tecnico, ecc.) inerenti alla natura, all’oggetto ed alle caratteristiche del contratto;
- CONSIDERATO altresì che l’art. 83, comma 5, d.lgs. 163/2006 stabilisce che le stazioni appaltanti debbano utilizzare metodologie tali da consentire l’individuazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa con un unico parametro numerico finale, mediante un’analisi integrata di una pluralità di criteri di valutazione,
- RILEVATO che strettamente connessa alla scelta dei criteri di valutazione è ovviamente l’indicazione della relativa ponderazione e, cioè, l’utilità che il singolo elemento di valutazione riveste per la stazione appaltante rispetto alla totalità degli elementi di valutazione dell’offerta per quello specifico appalto;
- CONSIDERATO che la scelta del peso o punteggio da attribuire a ciascun criterio di valutazione dell’offerta è rimessa, caso per caso, alla stazione appaltante, in relazione alle peculiarità specifiche dell’appalto e, dunque, all’importanza che, nella specifica ipotesi, hanno il fattore prezzo ed i contenuti qualitativi. Conseguentemente, le scelte concretamente poste in essere nelle clausole della lex specialis rientrano nella discrezionalità della stazione appaltante, che può essere sindacata, come ribadito dalla giurisprudenza amministrativa, solo se manifestamente illogica o irragionevole;
- RITENUTO che l’impostazione corretta tra il peso dei criteri qualitativi e quello dei criteri quantitativi, in particolare del prezzo, deve essere, nei riguardi del peso complessivo, in rapporto di prevalenza a favore dei criteri qualitativi rispetto ai criteri quantitativi, al fine di non frustrare la ratio stessa dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che postula la ottimale ponderazione del rapporto qualità/prezzo;
- CONSIDERATO che, coerentemente con le considerazioni sopra svolte, nel caso in esame, appare che la stazione appaltante abbia dato comunque prevalenza al criterio qualitativo rispetto ai restanti criteri quantitativi (prezzo e tempo),
Il Consiglio
Ritiene che, nei limiti di cui in motivazione,
nell’ambito della tipologia di appalto di sola esecuzione di lavori, con previste varianti migliorative in sede di offerta, è conforme alla normativa di settore la richiesta di sottoscrizione, da parte di un professionista di cui all’art. 90 d.lgs. 163/2006, delle relazioni illustrative e dei grafici allegati alla relativa offerta tecnica, tenuto conto degli aspetti tecnici contenuti nei suddetti elaborati.
Quando per l'aggiudicazione della gara sia stato prescelto il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è rimessa, caso per caso, alla stazione appaltante la scelta del peso da attribuire a ciascun criterio di valutazione dell’offerta in relazione alle peculiarità specifiche dell’appalto e, dunque, all’importanza che, nella specifica ipotesi, hanno il fattore prezzo e i contenuti qualitativi, garantendo comunque, con riferimento al peso complessivo, un rapporto di prevalenza dei criteri qualitativi rispetto a quelli quantitativi
(parere di precontenzioso 16.12.2015 n. 220 - rif. PREC 86/15/L - link a www.autoritalavoripubblici.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Vicesindaco necessario. In mancanza lo sostituisce l'assessore anziano. La nomina del sostituto del primo cittadino è indispensabile.
Come deve essere individuata la figura del vicesindaco in caso di mancata nomina dello stesso da parte del sindaco in carica?

L'art. 46 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, prevede che il sindaco nomina i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco, e ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva all'elezione.
La nomina del vicesindaco, anche secondo quanto indicato nella circolare ministeriale n. 2379 del 16/02/2012, è indispensabile per l'esercizio delle indefettibili funzioni sostitutive del sindaco impedito o assente.
Nel caso in specie, lo statuto del comune stabilisce che «il sindaco designa il vicesindaco. In mancanza, i poteri di supplenza sono svolti dall'assessore più anziano di età».
L'unica interpretazione che possa fornirsi alla citata norma statutaria, alla luce dell'articolo 53, comma 2, del Testo unico sugli enti locali (decreto legislativo n. 267/2000) che prevede la sostituzione del sindaco, nei casi ivi indicati (tra cui l'assenza o l'impedimento temporaneo) da parte del solo vicesindaco, è quella secondo la quale, in mancanza di designazione è vicesindaco di diritto l'assessore più anziano, non essendo ammissibili ulteriori figure istituzionali che lo possano sostituire nelle proprie competenze quale organo monocratico ovvero quale capo della giunta.
Pertanto, ferma restando l'assoluta necessità di ottemperare al disposto di legge che richiede l'esplicita designazione del vicesindaco da parte del sindaco, la citata norma statutaria fornisce, nelle more, il necessario strumento per l'individuazione della figura vicaria del sindaco (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum strutturale per le sedute del Consiglio.
Qual è la normativa da applicare, in ordine alla definizione del quorum strutturale stabilito per la validità delle sedute del consiglio comunale, in caso di contrasto tra previsione statutaria e norma regolamentare?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie è stato rilevato un contrasto tra la previsione recata dallo statuto comunale e la disciplina prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio dell' ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede, in prima convocazione, la presenza della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati al fine della validità delle sedute ed, in seconda convocazione, la presenza di almeno sei consiglieri, non computando il sindaco. Ai sensi della norma regolamentare è, invece, previsto che, per la validità delle sedute di seconda convocazione, sia necessaria la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati su un totale di dodici consiglieri oltre al sindaco.
Secondo il principio della gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato Testo unico sugli enti locali, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la citata disposizione regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno comporre la discrasia evidenziata; l'ente dovrà, pertanto, porre in essere un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle citate fonti di autonomia locale (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: L'invalidità civile e la disabilità.
DOMANDA:
Una dipendente di questo Comune è stata riconosciuta invalida civile ai sensi dell'art. 3, comma 1, della legge 104/1992.
Si chiede se può fruire dei permessi mensili previsti dalla citata legge.
RISPOSTA:
L'art. 33 della legge 104/1992 prevede che il lavoratore disabile, con rapporto di lavoro pubblico o privato, in situazione di gravità, ai sensi dell'art. 3, comma 3 della legge 104 possa usufruire alternativamente dei permessi di tre giorni mensili o di permessi orari giornalieri nella seguente misura: due ore al giorno per un orario giornaliero di sei ore, ovvero di un'ora al giorno per un orario giornaliero inferiore alle sei ore.
L’invalidità civile e la disabilità sono due condizioni differenti, da dimostrare attraverso specifiche procedure. L’invalida civile riconosciuta ai sensi dell'art. 3, comma 1, della legge 104/1992, in quanto tale non. ne ha diritto; se acquisisce la certificazione di cui al comma 3 dello stesso articolo della stessa legge, potrà chiedere di poterne fruire. Il dipendente disabile grave che chiede (o il disabile per il quale si chiedono i permessi ) deve essere in situazione di disabilità grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 104/1992 riconosciuta tale dall’apposita Commissione Medica Integrata (art. 4, comma 1, L. 104/1992).
Il lavoratore dipendente in situazione di disabilità grave, se riconosciuto, avrà la possibilità di fruire alternativamente per ogni mese di 2 ore di permesso al giorno per ciascun giorno lavorativo del mese ovvero di 3 giorni interi di permesso al mese anche frazionabili in ore.
Il testo della legge 104/1992 reca infatti nei primi 3 commi: ”1. E' persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.
2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative.
3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici
.”
Dal predetto testo si evince che il disabile riconosciuto, per poter fruire dei permessi deve ottenere il riconoscimento di gravità da parte della Commissione specifica (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Reato di turbativa di scelta del contraente da parte di un amministratore, si consuma anche se poi le pressioni non vengono accolte dal funzionario?
IL CASO: Il Sindaco di un comune aveva promesso ad un imprenditore locale, che gli assicurava il suo appoggio nella prossima campagna elettorale, l'aggiudicazione dell'appalto di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
Per dare esecuzione alla promessa, nell'estate 2010, il sindaco e l'assessore ai lavori pubblici tenevano numerosi incontri con l’imprenditore ed il suo professionista di fiducia, e decidevano la riorganizzazione della raccolta rifiuti con l'istituzione di un apposito servizio di comunicazione e controllo, che sarebbe stato assegnato all’imprenditore.
In tale prospettiva l’imprenditore preparava le bozze dei bandi di gara, che il sindaco, nell'ottobre 2010, sottoponeva al responsabile dell'Ufficio lavori pubblici, per la formalizzazione. La funzionaria non accettava l'imposizione e, nel mese di dicembre, predisponeva autonomamente i bandi di gara, suscitando le reazioni del sindaco, dell'assessore e dello stesso imprenditore.
In particolare il sindaco premeva affinché l'importo della base d'asta fosse abbassato; le rimproverava, inoltre, di avere inserito, per la partecipazione alla gara, il requisito -che l’imprenditore non possedeva- di avere svolto negli ultimi tre anni servizi analoghi a quello oggetto del bando e l'aveva perciò invitata a correggere il bando o a ritirarlo.
La funzionaria resistette alle richieste e l’imprenditore fu costretto ad associarsi ad altro soggetto.
Sussiste il reato di turbata libertà di scelta del contraente anche se la funzionaria non aveva ceduto alle indebite pressioni?
(Risponde l’Avv. Guido Paratico)
La norma che disciplina il reato di turbata libertà di scelta del contraente, è l’art. 353-bis del Codice Penale, entrato in vigore il 07.09.2010, che così dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032”.
La nuova fattispecie di cui sopra, ha inteso sanzionare le turbative del "procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente".
Il legislatore, dunque, per contrastare con maggiore efficacia il fenomeno della turbativa d'asta, che nelle sue varie manifestazioni può investire anche il procedimento formativo del bando di gara, condizionandone il contenuto in modo tale che un determinato soggetto possa essere favorito nell'aggiudicazione ancor prima della sua apertura, mettendo in pericolo, da un lato, il buon andamento della P.A. e, dall'altro, la libera concorrenza tra i partecipanti alla gara, ha introdotto un nuovo reato di pericolo, che, affiancando l'originario art. 353 c.p., tende a reprimere le condotte di turbativa poste in essere antecedentemente alla pubblicazione del bando, che finora sfuggivano alla sanzione penale (v., in motivazione, Sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013, dep. 07/11/2013).
L'azione delittuosa consiste nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente.
Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell'azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo.
Per integrare il delitto, quindi, non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. E' sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo (Sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013, cit.), attraverso l'alterazione o lo sviamento del suo regolare svolgimento, e con la presenza di un dolo specifico qualificato dal fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della P.A..
Considerando il tenore letterale della formulazione adottata dal legislatore e la ratio della nuova previsione normativa, non v'è dubbio che nella nozione di "atto equipollente" ivi menzionata rientra qualunque provvedimento alternativo al bando di gara, adottato per la scelta del contraente, ivi inclusi, pertanto, quelli statuenti l'affidamento diretto (Sez. 6, 23.10.2012, n. 43800).
Ne discende che l'ambito di applicazione della nuova disposizione si estende a qualsiasi forma di aggiudicazione che prescinda dalla celebrazione di una gara e alla stessa fase di selezione dello strumento di aggiudicazione, oltre che a tutte quelle situazioni in cui l'attività illecita si risolva nella stessa elusione del rispetto di una regolata procedura concorrenziale.
Nel caso di specie, si deve svolgere una particolare disamina, poi, della distinzione tra “dialogo tecnico” per la preparazione del capitolato e vera e propria collusione.
Da quanto evidenziato nella narrazione del fatto in questione, emerge come la collusione intesa a condizionare il contenuto del bando a favore dell'imprenditore sia dimostrata dalla sequenza di fatti sopra richiamati, che smentiscono che vi sia stato solo un "dialogo tecnico".
In realtà, gli incontri tra il Sindaco e l’imprenditore, avevano lo scopo di studiare l'organizzazione del servizio di raccolta dei rifiuti e di preparare il bando non per soddisfare gli interessi della pubblica amministrazione bensì quelli di un singolo imprenditore legato agli amministratori da rapporti extraistituzionali.
Per di più, non vi è dubbio sulla sussistenza del reato anche se la funzionaria ha di fatto rifiutato di recepire le pressioni ricevute.
Come sopra osservato, infatti, per integrare il delitto non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata.
E' sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo.
Il che, nella fattispecie, è avvenuto quando il sindaco ha consegnato la bozza del bando, frutto di collusione, al funzionario responsabile dell'ufficio competente per gli appalti pubblici, ordinando che fosse convertita senza modificazioni nel bando pubblico.
La disobbedienza del funzionario che rifiutò l'imposizione ha impedito, quindi, l'inquinamento del bando, ma non ha cancellato la turbativa oggettivamente arrecata al procedimento amministrativo mediante l'intervento diretto del sindaco sul funzionario a quel procedimento preposto (tratto dalla newsletter 26.01.2016 n. 134 di http://asmecomm.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'assenza per visita medica.
DOMANDA:
Il Tar del Lazio, con le sentenze n. 5711/2015 e n. 5714/2015, ha recentemente annullato la circolare n. 2/2014 della Funzione Pubblica nella parte in cui viene imposto ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 di avvalersi obbligatoriamente dei permessi per documentati motivi personali,secondo la disciplina prevista dai CCNL, o di istituti contrattuali similari o alternativi (come i permessi brevi o la banca delle ore), per giustificare l’assenza dovuta all’effettuazione di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici secondo la suddetta nuova disciplina.
Ne consegue che, secondo il collegio, la citata novella legislativa non può avere un carattere immediatamente precettivo, ma deve comportare, per la sua applicazione anche mediante atti generali quali circolari o direttive, una più ampia revisione della disciplina contrattuale di riferimento. Quindi, la stessa troverà il suo naturale elemento di attuazione nella disciplina contrattuale da rivisitare e non in atti generali che impongono modifiche unilaterali in riferimento a CCNL già sottoscritti.
In attesa delle modifiche contrattuali in materia e di eventuali ulteriori indirizzi da parte della Funzione Pubblica, le amministrazioni possono nel frattempo stabilire le opportune linee operative in merito (anche attraverso l’emanazione di circolari interne ai dipendenti).
L’INPS nel messaggio 18/05/2015, n. 3366, recependo le decisioni del TAR del Lazio, ha ritenuto di fornire le seguenti indicazioni (non direttamente rivolte agli Enti Locali, ma che possono essere prese come riferimento per eventuali discipline interne), riesumando gli indirizzi già impartiti dalla Funzione Pubblica nella circolare della Funzione Pubblica n. 10/2011 (par. 3, pag. 5) e nella precedente circolare n. 8/2008, sezione 1.2: le assenze per visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici potranno essere imputate dai dipendenti anche a malattia, secondo i criteri applicativi previgenti, ferma restando la possibilità (non più l’obbligo) per gli interessati di usufruire dei permessi per motivi personali o familiari, permessi brevi, o banca delle ore, ecc..
Sia nel caso in cui l’assenza sia imputata a malattia sia qualora sia imputata a permessi per motivi personali e familiari, il dipendente dovrà documentare l’assenza mediante attestazione redatta dal medico o dal personale amministrativo della struttura pubblica o privata che ha erogato la prestazione (attestazione di presenza, da presentare al dipendente, per il successivo inoltro all’amministrazione di appartenenza, oppure trasmessa direttamente a quest’ultima per via telematica a cura del medico o della struttura; nel caso di trasmissione telematica, la mail dovrà contenere il file scansionato in formato PDF dell’attestazione).
Da tale attestazione dovranno risultare: la qualifica e la sottoscrizione del soggetto che la redige; l’indicazione del medico e/o della struttura presso cui si è svolta la visita o la prestazione; il giorno, l’orario di entrata e di uscita del dipendente dalla struttura sanitaria erogante la prestazione.
Siamo a chiedere il vostro illustre parere in merito ai seguenti interrogativi. Si domanda:
- è possibile che in caso di assenza per prestazioni specialistiche sia il dipendente a richiedere che la sua assenza sia giustificata come “assenza per malattia” semplicemente presentando l’attestazione della struttura medica che ha erogato la prestazione, senza che sia necessario l’invio telematico del certificato ad opera del medico curante?
- E' quindi possibile che la malattia possa essere autocertificata dal dipendente?
- A fronte di una prestazione specialistica, che potrebbe anche avere la durata di dieci minuti (analisi del sangue) e che non comporta situazione di incapacità lavorativa è possibile (per quanto sopra detto) che il dipendente sia assente per l’intera giornata lavorativa giustificando l’assenza come “malattia”? O per assentarsi per l’intera giornata è necessaria un’attestazione medica da cui risulti che il paziente non è in grado di riprendere l’attività lavorativa?
- Non è quindi più obbligatorio il rilascio del certificato medico telematico, ma può veramente essere lasciata discrezionalmente la scelta a capo del lavoratore dipendente?
RISPOSTA:
La scelta di utilizzo dell’uno o dell’altro tra i giustificativi ammessi, compete al dipendente che si trovi a doversi assentare dal lavoro per visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici; il predetto sulla base della specifica esigenza, potrà valutarne anche la possibile assimilabilità alla malattia, fermo restando che dovrà essere fatta salva di volta in volta, per il giustificativo prescelto, la procedura prescritta per la validazione dell’assenza imputabile allo stesso. Quindi, nel caso di utilizzo del giustificativo di malattia, non sarà possibile prescindere da quanto normalmente prescritto per potersi avvalere dello stesso.
Pertanto:
1) Sarà possibile che, qualora debba assentarsi per prestazioni specialistiche o accertamenti diagnostici, terapie o visite, il dipendente possa richiedere che la propria assenza sia giustificata come “assenza per malattia”, presentando un certificato del proprio medico di base o dello specialista che attesti tale imprescindibile necessità e indichi quando e dove sarà effettuata la prestazione, trasmettendo copia del certificato per via telematica all’Inps; al datore di lavoro sarà poi presentata l’attestazione della struttura medica che ha erogato la prestazione, con le relative precisazioni circa la durata della prestazione e la permanenza del dipendente presso la struttura medica in questione.
2) Non è ammissibile né possibile in alcun modo che l’assenza imputabile a malattia possa essere autocertificata dal dipendente. Se il dipendente sceglie di computare l’assenza in parola nel giustificativo di malattia, deve seguire la procedura prescritta per questo in tutti i passi rispettando ognuna delle condizioni previste. Se l’ente intende adottare come riferimento di massima il contenuto della circolare Inps, sarà bene che precisi con chiarezza questa condizione per non trovarsi poi al centro di un possibile contenzioso senza fine. Solo un medico può certificare una malattia, quindi solo un medico può attivare la procedura di convalida di assenza per malattia nei modi e termini di legge prescritti. Se non è possibile fare rientrare l’assenza nelle norme prescritte per la certificazione di malattia, dal dipendente dovrà essere usato un diverso giustificativo tra quelli possibili.
3) L’assenza per malattia non è frazionabile al di sotto della misura minima di una giornata; per una prestazione di 10 minuti, è chiaro che dovrà essere utilizzato un diverso giustificativo.
4) le terapie salvavita sono fatte salve, il medico certifica preventivamente il periodo in cui saranno effettuate e le condizioni del dipendente precisando la necessità o non necessità di riposo e cure dopo aver effettuato le stesse; la struttura presso cui sono state effettuate, certifica le stesse, indicando giorni e ore.
5) la discrezionalità del dipendente è nella scelta del giustificativo; individuato questo, deve essere poi in grado di seguire senza deroga alcuna la relativa procedura e le regole prescritte per lo stesso, compresi i vincoli, i limiti, i termini, i tempi, le modalità e le trattenute stipendiali.
6) La regolamentazione che sarà adottata, deve essere possibilmente chiara e completa.
7) Anche l’Aran precisa riguardo la giustificabilità di queste particolari assenze che, se l’orientamento giurisprudenziale consolidato consente di ricondurre nell’ambito dell’istituto della malattia le assenze correlate ad accertamenti clinici preventivi, diagnostici, a visite mediche, a prestazioni medico specialistiche, e se legittimamente il dipendente può assentarsi per tali motivazioni, utilizzando detto istituto, le assenze, ricondotte alla malattia, ne seguono l’intera disciplina e devono essere calcolate anche nel periodo di comporto contrattuale, fermo restando che, in alternativa a questo, il CCNL consente di fruire di permessi retribuiti, e che in entrambi i casi, le assenze devono essere attestate attraverso regolare certificazione medica (anticipata, nel caso dell’utilizzo del giustificativo di malattia, in assenza di ricovero, anche dalla certificazione del medico di base o specialista trasmessa in via telematica all’Inps, per il successivo iter) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ESPROPRIAZIONE: L'occupazione usurpativa.
DOMANDA:
Negli anni 70 il Comune realizzò una strada comunale su parte di terreno di proprietà privata, allargando l'esistente sedime stradale verso le adiacenti proprietà private. L'allora Sindaco con una semplice lettera al proprietario si impegnava all'esecuzione dei lavori stradali cercando di occupare il minor spazio possibile e promettendo, al fine di evitarne l'esproprio, un compenso di Lire 500/mq per il terreno occupato.
Ora l'erede chiede una definizione della pratica con la presa in carico da parte dell'Ente dell'area privata occupata dal sedime stradale ed il riconoscimento dell'indennità. Quanto sopra, posto che la citata "promessa" risulta essere alquanto anomala, vista la totale assenza di un atto di cessione bonaria dell'immobile, e l'assenza di un eventuale provvedimento deliberativo di Giunta o di Consiglio in merito, se non per l'affidamento dei lavori.
Rilevato che ai sensi della L. 448/1998 l'accorpamento gratuito al demanio non è da intendersi possibile in quanto non vi è la disponibilità del proprietario, si chiede in che modo possa essere eventualmente riconosciuto il diritto rivendicato dal richiedente, considerata anche la rivalutazione della somma "promessa" nell'eventualità, ad avviso dello scrivente alquanto remota, che tutto ciò sia possibile.
RISPOSTA:
Il caso prospettato può essere inquadrato all'interno della fattispecie dell’occupazione usurpativa in quanto avvenuta in assenza di un valido titolo espropriativo. Secondo quanto disposto dalla giurisprudenza prevalente, tale fenomeno realizza un’ipotesi di fatto illecito generatore di danno ex art. 2043 cod. civ. (Cass. SU 10962/2005, Cons. Stato 2285/2005). Per tali ragioni, l’erede dell’originario proprietario avrebbe effettivamente il diritto a veder risarcito il danno derivante dalla costruzione della strada comunale su parti di terreno di sua proprietà.
Tuttavia, l’azione per rivendicare tale diritto è sottoposta alla prescrizione quinquennale: l’art. 2947 cod. civ. rubricato "Prescrizioni del diritto al risarcimento del danno" afferma che tale diritto si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. In tal caso, sarà necessario, dunque, accertare il momento di avvenuta conclusione dei lavori di costruzione della strada (momento conclusivo a partire dal quale è possibile stabilire l’intervenuta mutazione dei luoghi), e, inoltre, il compimento di eventuali atti interruttivi della prescrizione da parte del danneggiato (atti di diffida ecc).
Qualora questi non fossero rinvenuti e l’ultimazione dei lavori fosse avvenuta in un tempo superiore ai cinque anni da quando l’erede ha fatto valere il suo diritto, questo non potrebbe rivendicare alcuna pretesa nei confronti del comune a causa della maturazione del tempo della prescrizione.
Anche a voler superare le considerazioni relative alla prescrizione del risarcimento del danno, nel caso in cui l’ente comunale volesse sanare ex post tale e volesse, quindi, acquisire le parti di terreno occupate durante la costruzione della strada comunale, potrebbe ricorrere all'istituto della cessione volontaria ai sensi della normativa vigente.
È importante valutare con attenzione tale opzione in quanto –risultando ormai perfezionata l’occupazione acquisitiva– la corresponsione di un’indennità (qualunque sia la misura) potrebbe configurare fattispecie di responsabilità erariale ex art. 1, c. 4, della Legge n. 20/1994 (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: La vendita all'asta dell'escavatore.
DOMANDA:
Mediante asta pubblica è stato venduto ad un privato un escavatore per un valore di € 1.500,00. La fattura di acquisto di tale bene non è mai stata registrata nei registri di acquisto in quanto non rilevante ai fini IVA perché attività istituzionale (manutenzione delle strade).
Si chiede pertanto: L’ente ha l’obbligo dell’emissione della fattura? In caso affermativo come dovrà essere fatta la fattura (esente ai sensi dell’art. 10, comma 27-quinquies, L. 633/1972)? Se ad acquistare il bene fosse una ditta che richiede la fattura, l’ente, come dovrà comportarsi, visto che agisce come un privato?
RISPOSTA:
La cessione del bene in oggetto è fuori campo IVA in quanto non effettuata nell’esercizio di attività commerciale ex art. 4 del DPR 633/1972. Pertanto non deve essere emessa fattura invocando l’esenzione di cui all’art. 10, c. 1, n. 27-quinquies), del citato decreto, trattandosi di regime riservato ad operazioni effettuate nell’esercizio d’impresa, riferite a beni per i quali, all’atto dell’acquisto, non è stata operata la detrazione per carenza di requisiti oggettivi.
Il Comune, pertanto, nel caso di specie può (l’emissione di documento non è obbligatoria) emettere un documento/ricevuta privo dei requisiti di cui all’art. 21 del DPR 633 (fattura), assoggettato ad imposta di bollo, dichiarando che il corrispettivo è fuori campo IVA in quanto la cessione è effettuata al di fuori dell’esercizio di attività commerciale per carenza del presupposto soggettivo ex art. 4, c. 1, del DPR 633/1972 (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum senza limiti. La consultazione abrogativa è ammissibile. Legittimo interrogare i cittadini sulla cessione della farmacia comunale.
È ammissibile una proposta di referendum abrogativo popolare in ordine alla scelta dell'amministrazione locale, deliberata dal consiglio comunale, di cedere la titolarità della farmacia comunale?

L'ordinamento italiano presta una particolare attenzione alla partecipazione diretta del cittadino nella vita delle istituzioni locali. Giova ricordare, in proposito, che l'Italia ha fatto propri i principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439.
L'articolo 3 della Carta, al comma 2, riconoscendo alle collettività locali il diritto di regolamentare ed amministrare, nell'ambito della legge, una parte importante di affari pubblici mediante consigli e assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti, ha precisato, altresì, che «detta disposizione non pregiudica il ricorso alle assemblee di cittadini, al referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini qualora questa sia consentita dalla legge».
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi del cittadino trovano una loro concretizzazione nel Tuel n. 267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non meramente facoltativo dello statuto. Un rinvio allo statuto è previsto dal comma 3 dell'art. 8 del citato decreto legislativo n. 267/2000, in merito alla previsione di forme di consultazione della popolazione, nonché alle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che devono comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale
Il referendum, si configura, dunque, quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che una volta previsto deve essere compiutamente disciplinato dal regolamento. Rispetto alla normativa previgente è stata ampliata la valenza dell'istituto del referendum popolare, attualmente configurabile non più solo come consultivo (unica tipologia prevista nell'originale formulazione della legge n. 142 del 1990 e volta a consentire la consultazione della popolazione su rilevanti questioni di interesse locale), ma anche come abrogativo (di provvedimenti a carattere generale degli organi istituzionali e burocratici dell'ente), propositivo (per approvare proposte di atti avanzate dalla stessa amministrazione o da altri soggetti), confermativo, di indirizzo e oppositivo-sospensivo.
In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario in materia resta ampio con riguardo all'oggetto del referendum (che è sufficiente che rientri tra le materie di competenza esclusiva dell'ente), alla determinazione del numero dei partecipanti per la sua validità e alla possibilità di prevedere effetti consequenziali per l'amministrazione locale legati all'esito del referendum, con il solo limite della conservazione del potere decisionale in capo agli organi di governo.
Nel caso prospettato, l'amministrazione locale ritiene dubbia la possibilità di espletare il referendum abrogativo, in relazione alla circostanza che l'alienazione della farmacia comunale è stata prevista nel bilancio di previsione dell'ente. Ciò alla luce della disposizione statutaria che prevede la possibilità di indire referendum abrogativi, propositivi o consultivi, con una serie di esclusioni in materia «di tributi locali e di tariffe, di attività amministrative vincolate da leggi statali o regionali».
Tuttavia, i proventi che scaturiscono dall'eventuale alienazione della farmacia comunale, non possono certo assimilarsi a «tributi locali o tariffe», i quali hanno una connotazione giuridica ben precisa. Peraltro, l'alienazione della farmacia comunale non scaturisce da un'attività amministrativa vincolata da leggi. Infatti, la legge n. 475 del 02.04.1968, che disciplina il servizio farmaceutico, pur derogata dall'art. 11, comma 3, del dl n. 1/2012 convertito il legge n. 27/2012 nella parte in cui si prevede il diritto di prelazione dei comuni in ordine alla metà delle farmacie che si rendano vacanti o di nuova istituzione (art. 9), non impone, comunque, l'alienazione delle farmacie già in possesso del comune.
Pertanto, non sussistono motivi ostativi all'indizione del referendum (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

NEWS

APPALTIInchiesta sulla pasticciata Riforma degli appalti pubblici che è stata approvata da poco.
La riforma appalti ai raggi X. Nel primo articolo ci sono ben 87 commi o subordinati.
La precedente normativa era stata congegnata per consentire di attuare le più grosse ruberie.
Questo articolo –e quelli successivi dedicati alla riforma degli appalti che il Senato ha approvato nei giorni scorsi- hanno un contenuto tecnico, che abbiamo cercato di rendere di agevole lettura. Il lettore giudicherà se ci siamo riusciti. Una riforma, dunque, considerata importante per tutto il sistema dei pubblici appalti e delle pubbliche forniture, gravemente interessato da una serie di scandali che costituiscono la costante del settore da trent'anni a questa parte.
Segnalo subito che gli strumenti tecnici per prevenire la corruzione sono sostanzialmente due: una buona legge e una buona Amministrazione. La legge deve contenere i principi cui devono ispirarsi, in modo inderogabile, gli operatori nell'indire le procedure per scegliere l'appaltatore. L'Amministrazione si deve dotare di norme di comportamento tali da permettere che le gare si svolgano in un regime di concorrenza reale. Né finta né virtuale per devianze corruttive che si insinuano nel procedimento a causa di funzionari corruttibili e corrotti.
Detta così, sembra una cosa semplice: invece non lo è, dato che i varchi esistenti nella legislazione precedente erano tanti e tali da rendere legittime le più grandi porcate che si possono immaginare. Il tutto perché c'erano tali margini di discrezionalità (tutti connessi alla definizione dell'elenco dei partecipanti e alla valutazione qualitativa delle offerte) da lasciare mano libera ai manigoldi che intendevano favorire qualcuno.
Insisto: quando si parla di qualità dell'offerta, riferendosi a caratteristiche progettuali o a materiali o a prestazioni specifiche, si entra nel campo della pura opinabilità, nella quale sguazzano funzionari tecnici e amministrativi al soldo di qualche ditta interessata ad aggiudicarsi un certo lavoro o una certa fornitura.
I due punti che abbiamo indicato (una buona legge e una buona Amministrazione) vengono prima, concettualmente e praticamente, delle competenze dall'Autorità anticorruzione, ormai trasformatasi in una vera e propria agenzia, che rischia di avvitarsi su stessa per la quantità crescente di prestazioni a essa richiesta dal governo e dal Parlamento.
Nell'attuale situazione, non è chiaro a che punto del procedimento si collochi la possibilità di intervento di Raffaele Cantone e dei suoi uffici. Allo stato dei fatti, l'intervento dell'Anticorruzione può avvenire in ogni momento e innestarsi addirittura nella scelte delle imprese cui estendere l'invito. Non che ci sia qualcosa da dire rispetto a una modalità di intervento che è piuttosto un happening caso per caso, ma c'è molto da dire su un legislatore e un'Amministrazione che non si pongono il problema di definire in modo stabile il ruolo dell'Anticorruzione, la tempistica dei suoi interventi, le conseguenze degli stessi. Una concezione troppo penalistica che, consentendo di spaziare, di fatto, rende aleatoria l'efficacia delle attività di prevenzione e di repressione. È un po' come l'obbligatorietà dell'azione penale, che è più una grida manzoniana, all'interno della quale vige la più vasta discrezionalità, più che una reale, cogente capacità di agire in tutte le situazioni nelle quali emerga la sintomatologia di un reato.
L'aspetto peggiore di una simile situazione è dato dal fatto che i vertici politici delle Amministrazioni entrano nell'ordine di idee Tanto c'è Cantone con la sua Authority, dimenticando di intervenire sulle strutture per imporre procedure e scelte trasparenti e legittime, all'interno delle quali non può trovare spazio nessun tentativo di sviamento dei pubblici poteri.
Questo, di fondo, è il tema rispetto al quale la riforma approvata nei giorni scorsi dovrebbe porsi come uno svolgimento. Vediamo meglio e da vicino, questa nuova legge di settore. Essa si chiama Deleghe al governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/23/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
In soldoni, un'ennesima legge-delega che lascia al governo il compito di adottare i decreti (che, correttamente, vanno chiamati legislativi o delegati) specifici sulla materia interessata e divisibili in due categorie: attuazione di norme europee, norme nazionali (autonome). La riforma di cui parliamo, quindi, è in gran parte obbligata dall'entrata in vigore di una nuova normativa europea, ma il prodotto in essa contenuto è frutto della confusione (in senso tecnico giuridico) tra norme derivate e norme autonome. Secondo la mia opinione sarebbe stato molto meglio dividere chiaramente in due l'operazione riforma, adottando un breve provvedimento legislativo di richiamo alle norme europee (di per sé già cogenti) e poi uno stringato testo riguardante l'assetto nazionale del settore.
Chi abbia voglia di guardare con i propri occhi, consultando il testo con i lavori parlamentari, visibile nei siti di Senato e di Camera, vedrà come, invece, la tecnica legislativa sia stata quella di mescolare il tutto e, peggio, di concentrare in un unico articolo, il n. 1, in 87 tra commi, subordinati e numeri, tutta la materia, smentendo in modo clamoroso uno dei principi che faticosamente andavano affermandosi nel processo legislativo: norme semplici, prive di richiami, comprensibili a qualsiasi cittadino che sappia leggere e scrivere.
Un'utopia, certo, ma, soprattutto, una prescrizione di tendenza che il governo Renzi avrebbe dovuto cogliere e fare propria, giacché la chiarezza e la trasparenza dovrebbero essere gli strumenti irrinunciabili di affermazione di qualsiasi attività riformista. Invece no, poiché l'illeggibilità della legge non riguarda solo gli appalti, ma l'intero scibile legislativo del ministero presieduto da Matteo Renzi.
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Appalti, legge scritta coi piedi. Nel punto b) sono state ficcate 159 parole, senza un punto. Doveva essere un modello di semplicità e chiarezza: in un solo articolo, 87 prescrizioni.
Oggi cercheremo di raccontare i contenuti di questa riforma degli appalti su cui pesa come un macigno una modalità legislativa rivolta tutta all'illeggibilità del testo. In passato, lo ricordo en passant, le difficile interpretazione della legge è stata sempre usata per permetterne il peggiore uso possibile.
Un unico articolo con 87 prescrizioni e la sensazione che si vada avanti e indietro nella materia senza avere avanti agli occhi un disegno organico e realistico delle esigenze di moralizzazione e di semplificazione del settore.
Due concetti, moralizzazione e semplificazione, che vanno sempre insieme.
Il punto a) del 1° comma suscita l'ilarità. Stabilisce, infatti, un divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee.
E la mafia, la camorra e la ndragheta? La domanda che sorge spontanea leggendo queste parole. Non si dà e prende atto che le situazioni concrete in ogni nazione sono diverse tra loro e influenzate da precipui fattori ambientali. È vero che i cosiddetti livelli di regolazione sono molto elevati, ma è anche vero che essi lasciano, come vedremo, margini eccessivi di discrezionalità ai funzionari infedeli.
Poiché nulla accade per caso, è utile riflettere sulle prescrizioni di questa legge-delega.
Il punto b) (159 parole, senza un punto) precisa che sarà adottato un unico testo normativo con contenuti di disciplina adeguata anche per gli appalti di lavori, servizi e forniture denominato «codice degli appalti e dei contratti di concessione» ... (qui l'italiano è quello di un oratore ubriaco che non ha consapevolezza di dove cominci e termini il suo discorso) nel quale saranno comprese le misure legislative per l'affidamento, la gestione e l'esecuzione degli appalti pubblici, garantendo l'ordinata transizione tra la previgente e la nuova disciplina (una precisazione densa di significato, nel senso che l'ordinata transizione non può che voler dire che ciò è fatto è fatto, o meglio chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato).
Una evidente tautologia se non fosse, appunto, per l'ordinata transizione.
Il punto c) riguarda la necessità di prescrizioni tecniche per l'accessibilità delle persone con disabilità, anche qui una tautologica ripetizione di normative in essere che potrebbero essere richiamate con una semplice circolare.
Il punto d) è paradossale, in quanto prescrive una drastica riduzione e razionalizzazione delle disposizioni vigenti e un più alto livello di certezza del diritto e di semplificazione dei procedimenti. Attenzione: quando il legislatore mira in alto che dichiarazioni reboanti, c'è sempre qualcosa da nascondere. In questo caso, si vuole nascondere la complessità e la farraginosa illeggibilità di un testo che dovrebbe rappresentare la svolta finale per entrare nella dirittura d'arrivo una modalità trasparente e sicura per tutto il sistema pubblico.
Si ribadisce poi la necessità di predisporre procedure non derogabili per gli appalti pubblici e le concessioni e per ottenere una significativa riduzione dei tempi relativi alle procedure (la ripetizione è nella legge: procedure per procedure) di gara e alla realizzazione delle opere pubbliche.
Mentre sarebbe opportuno che l'autorità giudiziaria aprisse un fascicolo per identificare coloro che hanno insegnato l'italiano agli estensori (e votatori) di una simile bestialità lessicale, risulta oscuro il senso di questa affermazione (punto e) del comma 1). Già nel punto d) s'era parlato di riduzione e semplificazione e la ripetizione induce, come sempre, qualche sospetto. Infatti, il legislatore delegato, il governo, potrebbe considerare il punto d) e il punto e) concettualmente diversi per inventarsi qualcosa che, invece di elevare il livello di certezza del diritto, permetta di introdurre norme di recupero delle discrezionalità in discussione perché costituiscono la via attraverso la quale far tornare di scena la corruzione.
Il punto g) vuole semplificazione, rapidità, trasparenza e imparzialità (concetto, questo, introdotto qui per la prima volta in questo testo) per le gare sotto soglia, al di sotto cioè dei livelli di valore nei quali deve essere applicata la normativa dell'Unione europea.
Il punto h) impone l'indicazione puntuale (ma se è indicazione non può non essere puntuale) delle norme che si applicano a ogni procedura e il punto i) la digitalizzazione delle procedure stesse anche al fine di favorire l'accesso delle micro, piccole e medie imprese.
Si tratta dell'ennesima affermazione demagogica, priva di significato giuridico che si incontra nella legge. Infatti, se si digitalizza si rende più facile a tutti l'accesso all'informazione e ai procedimenti concorsuali. Non solo alle micro, piccole e medie imprese, che non possono trovare nessun, ripeto nessuno, strumento di favore diverso da quello (che dovrebbe essere garantito) della libera concorrenza.
Viene poi la questione della protezione civile, la cui gestione -quando riguarda le emergenze- deve coniugare la tempestività con il divieto di procedure in deroga a quelle ordinarie con l'eccezione delle singole fattispecie connesse a particolari esigenze collegate alle situazioni emergenziali. Chiunque può notare la dizione contorta e contraddittoria di questa norma: 1) tempestività; 2) niente deroghe; 3) deroghe (eccezioni) per le situazione emergenziali, cioè tutte quelle derivanti da eventi calamitosi.
Ed ecco l'ultima ciliegina odierna. Il punto m) reintroduce il controllo preventivo della Corte dei conti, mediante una sua apposita sezione, per gli appalti secretati (carceri, caserme e altri impianti militari e, in alcuni casi, giudiziari).
Ma se c'è già l'Anticorruzione? O l'Anticorruzione va bene per quelli pubblici, ma non va bene per quelli secretati? Perché si teme qualche indiscrezione?
L'unico movente di una simile norma è quella di riesumare il controllo cartolare e di legittimità della Corte dei conti per consentire una maggiore possibilità di manovra agli operatori dell'oscuro settore.
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Troppe le indicazioni aggirabili. Riduttiva la capacità economico finanziaria delle imprese.
Oggi si parte con i beni culturali. Non voglio privare i lettori dello spasso (e dell'indignazione) che deriva dalla lettura della norma: riordino ... contratti ... beni culturali ... anche tenendo conto della particolare natura di questi beni (se non l'avesse detto questa pessima legge-delega nessuno avrebbe tenuto conto) e della peculiarità delle tipologie di interventi, prevedendo altresì modalità innovative per le procedure di appalto relative a lavori, servizi e forniture e di concessione di servizi, comunque nel rispetto delle disposizioni di tutela previste dal codice dei beni culturali e del paesaggio ?garantendo la trasparenza e la pubblicità degli atti.
Anche questa è una ripetizione, lessicalmente obbrobriosa, di indicazioni già formulate, che non aggiunge nulla al testo precedente, salvo la confusione (ai fini di una lettura razionale e coordinata) derivante da concetti generici la cui applicazione –vedrete- sarà così elastica da permettere le peggiori nefandezze.
Non possiamo illuderci: l'esperienza ci insegna che, dove ci sono indicazioni verbali, concetti, non numeri, si entra nel campo della peggiore discrezionalità, quella che permette di truccare le gare, di truccare i lavori, di truccare i conti per fare intascare più del dovuto al beneficato di turno. Così è anche per il successivo punto p) che vuole garantire la sostenibilità energetica e ambientale facendo anche ricorso al criterio di aggiudicazione basato sui costi del ciclo di vita e stabilendo un maggiore punteggio per i beni, i lavori e i servizi che presentano un minore impatto sulla salute e sull'ambiente.
Qualcuno potrebbe ricordarmi che questa è una legge-delega, una legge, non di disposizioni precise, ma di principi. Ma quando i principi non sono chiari, le norme delegate non lo saranno a loro volta: si realizza così la catena viziosa intorno alla quale si è sviluppata e si svilupperà la corruzione. C'è poi il punto q) dedicato ai cardini della trasparenza e della lotta alla corruzione. Vediamoli da vicino: individuare i casi in cui –in via eccezionale- (ma come si delimita l'eccezionalità? Lo dovremmo vedere nei decreti delegati) è possibile ricorrere alla procedura negoziata senza precedente pubblicazione del bando di gara; unificazione delle banche dati; previsione di poteri di vigilanza e di controllo (finalizzati a evitare la corruzione e i conflitti di interesse, favorendo trasparenza e digitalizzazione). La legge vuole poi la definizione di un sistema premiale e punitivo per chi denuncia o non denuncia le richieste estorsive e indicazione delle norme del codice (penale?) la cui violazione determinerà la comminazione di sanzioni amministrative da parte dell'Anac.
Con il punto r) si dovrebbe entrare, finalmente, nel cuore delle questioni, si parla, infatti, della capacità economico-finanziaria, ivi compresa quella organizzativa e professionale attinenti e proporzionali all'oggetto dell'appalto. Questa norma va letta con la successiva, punto qq) che prescrive il riassetto, la revisione dei sistemi di garanzia per l'aggiudicazione e l'esecuzione degli appalti pubblici, al fine di renderli (i sistemi di garanzia) proporzionati e adeguati alla natura delle prestazioni. In queste prescrizioni, si nasconde l'intento di reiterare i vizi del sistema in vigore. Infatti le garanzie (che dovrebbero essere bancarie e a prima chiamata) sono il cuore del sistema, quel cuore che può permettere il peggio corruttivo o, viceversa, garantire la regolarità delle prestazioni.
La proporzionalità, fortemente difesa dal sistema delle imprese, significa la limitazione dell'impegno di garanzia alla quota di lavoro corrispondente a uno stato d'avanzamento. Per chiarire: se un contratto prevede che i pagamenti avvengano ogni volta che si raggiunge l'importo di 1 miliardo, ecco che la garanzia che l'appaltatore deve prestare corrisponde a quella frazione di lavoro, salvo le ulteriori ritenute cautelative. Il metodo in vigore nei tender (bandi) internazionali prevede, invece, che la ditta presti all'Amministrazione una garanzia (bancaria a prima chiamata) pari al valore complessivo dei lavori da svolgere.
Questo ha non solo un effetto sull'esecuzione dell'opera, ma ha altresì un effetto (da sempre non gradito in Italia) moralizzatore della concorrenza. Nel senso che se una ditta ha una documentata capacità finanziaria, organizzativa e tecnica (tre concetti diversi tra loro che questa pessima legge invece riunisce nell'ambito unico della capacitò economico-finanziaria giacché precisa -come abbiamo visto- ivi compresa quella organizzativa e professionale attinenti e proporzionali all'oggetto dell'appalto) per 10 miliardi, potrà concorrere a un solo appalto da 10 miliardi avendo tutto l'interesse di completarlo presto e bene, per poter poi concorrere a un altro appalto e via dicendo.
Se invece, avendo una capacità da 10 miliardi, le è consentito di concorrere a 10 appalti da 10 miliardi in quanto la sua garanzia rimane ancorata all'entità di stati di avanzamento da 1 miliardo, sarà evidente che, in questo modo, sarà aggirata ogni misura di prudenza nell'affidare i lavori e sarà permessa un'attività nettamente superiore a quella capacità economico-finanziaria che, a parole, la legge vorrebbe difendere. Poiché queste scelte non avvengono a caso, la logica conseguenza (quod dixit voluit) che il legislatore è ben consapevole delle conseguenze delle sue prescrizioni e, quindi, complice delle eventuali deviazioni.
Il punto t) vuole attribuire all'Anac le più ampie funzioni di promozione dell'efficienza, del sostegno allo sviluppo delle migliori pratiche, della facilitazione dello scambio di informazioni tra stazioni appaltanti compresi poteri di controllo, raccomandazione, intervento cautelare di deterrenza e sanzionatorio, nonché adozione di atti di indirizzo ... dotati di efficacia vincolante ... A prima vista, sembra trattarsi di un'abnorme espansione dei compiti dell'Anac che si appresta a diventare una burocrazia sovrapposta alla normale burocrazia che, essa sì avrebbe bisogno di obblighi precisi stabiliti dalla legge.
Se, com'è sicuro, le regioni vorranno mantenere la loro autonomia, rifiutando di contribuire alla realizzazione di una banca dati 100%, sarà difficile che l'Anac possa esercitare le proprie funzioni su tutti gli appalti. Finirà per intervenire in ritardo e, più frequentemente, su segnalazioni (denunce), riproponendo quel controllo successivo attribuito alla Corte dei conti, la cui morte venne stabilita in nome della rapidità delle procedure.
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Sono sopravvissute le varianti. Che trasformano, in lucrosi, gli appalti sotto costo. 
Concludiamo oggi il nostro rapido esame della legge delega sui lavori pubblici, sulle concessioni e sulle forniture.
Ci sembra singolare che la legge introduca, al punto z), dopo la riduzione degli oneri documentali, la possibilità, per i partecipanti alle gare di integrazione documentale non onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della domanda, purché non attenga agli elementi oggetto di valutazioni sul merito dell'offerta.
Una norma singolare che può generare un serio contenzioso in ordine al significato delle parole qualsiasi elemento di natura formale e non attenga agli elementi oggetto di valutazioni.
Il principio fondamentale dell'ordinamento è: le offerte che arrivano entro il termine anche orario previsto nel bando di gara debbono contenere tutti gli elementi formali, sostanziali e finanziari previsti nel bando pena esclusione. Normalmente, un presidente o una commissione di gara effettua la cosiddetta spunta delle carte pervenute, proprio per constatare che ci sono tutte quelle che ci vogliono e per escludere le offerte manchevoli anche di uno solo dei documenti richiesti. Una norma precisa che non si presta a interpretazioni, proprio per evitare che la legge si applica, ma per gli amici si interpreta.
Facciamo un passo in avanti e occupiamoci delle varianti. In proposito, vogliamo richiamare questa norma (punto ee): previsione che ogni variazione in corso d'opera debba essere adeguatamente motivata e giustificata unicamente da condizioni impreviste e imprevedibili. Anche questo è uno dei cuori del problema: la soluzione scelta ripete la normativa esistente e non garantisce affatto che non si ricorra a variazioni di comodo. La parola adeguatamente definisce la permanenza della discrezionalità dell'Amministrazione che può, approvando la variazione, trasformare in lucroso un appalto aggiudicato sotto costo. Così la parola unicamente.
Se leggiamo il testo senza i due avverbi ci rendiamo conto che, depurato da essi, avrebbe tutto un altro senso: previsione che ogni variazione in corso d'opera debba essere motivata e giustificata da condizioni impreviste e imprevedibili.
Purtroppo, la tecnica legislativa utilizzata a fini di sviamento del potere legislativo provoca effetti incontrollabili e rischiosi proprio per i fini che la legge proclama di voler perseguire.
E ora veniamo al punto finale di questa esposizione: il punto ff) che definisce il criterio di offerta economicamente più vantaggiosa, seguendo un approccio costo/efficienza, quale il costo del ciclo di vita e includendo il «miglior rapporto qualità-prezzo» valutato con criteri oggettivi (sic!)
L'offerta economicamente più vantaggiosa non può che essere quella economicamente più vantaggiosa. Cioè quella che presenta il massimo ribasso. Se il massimo ribasso fosse coniugato con l'invito a partecipare a tutte le ditte che ne fanno richiesta che posseggano i requisiti minimi previsti e che prestano cauzione per l'intero valore dell'opera non ci sarebbe dubbio che l'offerta più vantaggiosa sarebbe quella che offre il prezzo minore. Nella legislazione italiana (finanziaria del 1987) era stato introdotto (per volere del ministro del Tesoro, Giovanni Goria) il prezzo chiuso, uno speciale tipo di appalto che non consentiva il ricorso alla revisione dei prezzi, alle varianti, ma che presentava un regime premiale per le ditte che avessero terminato i lavori nei termini fissati o, addirittura, in anticipo. Si disincentivava la tendenza a portare avanti i lavori all'infinito, denunciando situazioni impreviste e imprevedibili, concordando migliorie, lucrando insomma sull'inefficienza della pubblica Amministrazione e sulla corruzione di alcuni suoi esponenti.
L'istituto non ebbe fortuna, per l'opposizione del sistema delle imprese e di quello delle stazioni appaltanti tutti protesi a cercare i modi per accentuare l'ingiustificato e ingiustificabile lucro delle imprese stesse (e per vie traverse dei funzionari).
Un'ultima amenità. Si dispone che per l'incarico di responsabile, direttore e collaudatore dei lavori, si istituisca un (ennesimo) albo presso il ministero delle infrastrutture, nel quale si attingeranno per sorteggio i nomi dei professionisti cui attribuire una delle tre funzioni.
La sublimazione dell'inefficienza dell'Amministrazione, ma il riconoscimento legislativo della sua incapacità di scegliere con consapevolezza un professionista cui affidare un importante incarico.
Con questa fiducia nei dirigenti dello Stato e nella riforma della pubblica Amministrazione che, per carità di Patria, ci siamo astenuti dal commentare punto per punto, concludiamo questo breve excursus della riforma degli appalti, cui si potrebbero dedicare non 4 ma 40 articoli di commento per evidenziarne tutte le pecche, le contraddizioni e le trappole inserite a favore di chi vuol distorcere l'attività amministrativa.
Raffaele Cantone non è né può essere la panacea. Usato in questo modo è l'alibi per continuare con il vecchio andazzo (articoli ItaliaOggi del 27-28-29-30.01.2016).

APPALTIIter semplificati e tempi certi per le gare. Appalti/ in g.u. la legge di riforma del codice, in vigore dal 13 febbraio.
Procedure semplificate e tempi certi di gara e di realizzazione delle opere. E un occhio di favore alle piccole e medie imprese e ai subappaltatori. Questo anche mediante una maggiore diffusione di informazioni, utilizzando gli strumenti della rete per le gare telematiche e per la pubblicazione degli avvisi: appalti, dunque, semplici, digitalizzati, senza inutili complicazioni burocratiche.

È quanto prevede la legge delega per la riforma degli appalti pubblici, approvata definitivamente dal senato, che rivoluziona l'attuale dlgs 163/2006 e che tocca anche il processo amministrativo sugli appalti.
La legge 28.01.2016, n. 11, contenente «Deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture», è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 23 del 29.01.2016 ed entrerà in vigore il prossimo 13 febbraio.
Tra gli obiettivi (si veda da ultimo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016), più qualità dell'opera pubblica, meno varianti in corso d'opera che fanno aumentare i costi, più sicurezza per i subappaltatori e più centrali di committenza (articolo ItaliaOggi del 30.01.2016).

ENTI LOCALIRiforma Pa, tutte le partecipate sotto il controllo di Corte conti. Legge Madia. Completato il lavoro sui testi dei primi 11 decreti attuativi.
Tutti gli amministratori delle società partecipate potranno essere chiamati dalla Corte dei conti a risarcire il danno erariale creato dalle loro scelte che, ovviamente per dolo o colpa grave, colpiscono l’azienda o l’ente socio.
Lo prevede l’ultima versione del testo unico sulle partecipate, uno degli 11 decreti attuativi che ieri hanno assunto una veste definitiva e sono pronti a partire per il loro iter fra Conferenza unificata, Consiglio di Stato e commissioni parlamentari.
Quello dedicato alle società partecipate, insieme alla riforma parallela sui servizi pubblici locali, sono stati i testi che hanno impegnato di più gli uffici del Governo nel lavoro di limatura e coordinamento normativo, mentre altri provvedimenti, dalla conferenza dei servizi al codice dell’amministrazione digitale fino alle norme anti-assenteismo sono stati chiusi giorni fa.
Sulle partecipate, i confini della responsabilità erariale, e quindi della possibilità per la Corte dei conti di contestare i danni prodotti dall’azione degli amministratori, sono strati fra i temi più dibattuti. Per capire i termini del problema bisogna partire dalla situazione attuale, che in base alle regole fissate dalla Cassazione (in particolare nella sentenza 26283/2013 delle Sezioni unite) concentra l’azione delle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti sulle società in house che per Statuto escludano la presenza di soci privati.
Le prime bozze del nuovo testo unico restringevano ulteriormente l’ambito delle competenze dei magistrati contabili, sulla base di un’impostazione che ha avuto varie declinazioni nelle diverse versioni del testo ma che in pratica assoggettava gli amministratori delle partecipate al giudice ordinario, e chiedeva alla Corte dei conti di occuparsi solo degli enti soci, e in particolare dei danni prodotti dalla mancata vigilanza sulle aziende. Questa ipotesi aveva acceso l’allarme dell’associazione dei magistrati contabili, anche perché le contestazioni del giudice ordinario scattano in seguito all’azione di responsabilità, in uno scenario quindi improbabile per la comunanza di interessi fra gli amministratori e gli enti proprietari che li scelgono.
Nella sua formulazione definitiva, invece, il testo cambia rotta, al punto che secondo questa impostazione sarebbe sufficiente la presenza nel capitale di una quota pubblica per aprire le porte alle indagini dei magistrati contabili. Vale la pena di ricordare che in passato, prima dell’intervento con cui la Cassazione ha fissato i parametri oggi in vigore, in qualche caso la Corte dei conti ha contestato nelle società miste pubblico-private un danno “pro quota”, cioè proporzionale al peso della partecipazione pubblica.
Per addentrarsi nelle possibile ricadute operative, però, è presto, anche perché è facile prevedere che sulla novità, frutto di un lavorio che ha incrociato il piano tecnico e quello politico, si riaprirà una discussione speculare a quella che ha accompagnato le prime versioni del testo: ad animarla saranno in questo caso gli amministratori delle partecipate, che nella riforma incontrano anche una riduzione dei posti nei cda, con la regola dell’amministratore unico nelle società più piccole, e la previsione di nuovi tetti alle indennità (sul punto la riforma riprende le cinque fasce previste dall’ultima manovra.
L’altro aspetto su cui hanno agito le “limature” al testo riguarda l’elenco delle società, da Invimit ad Anas fino a Coni servizi, che eviteranno i limiti alle partecipazioni o gli obblighi di dismissione previsti dagli articoli 4 e 5 del decreto. Sul versante dei servizi pubblici locali, invece, la versione definitiva del testo conferma la riforma del trasporto pubblico (anticipata sul Sole 24 Ore del 25 gennaio) e lo stralcio dei nuovi limiti all’in house, destinati però a riemergere presto nell’ambito dei provvedimenti attuativi della delega sugli appalti
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.01.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni piccoli: sono da accorpare. Il Pd vuol fondere questi enti sotto i 5 mila abitanti. Le fusioni volontarie (anche se sono lautamente incentivate) procedono troppo lentamente.
Cambia la geografia. Si cancellano i piccoli Comuni. Dopo le Province tocca a loro. C'è già una prima della classe. E' la Regione Emilia-Romagna dove ben 22 Comuni si sono fusi nel 2015 e altri 18 lo stanno per fare. Tanto che il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, ha cantato vittoria su Twitter.
Matteo Renzi lo ritiene tra i provvedimenti necessari per razionalizzare il sistema amministrativo. La legge sulla spending review prevede bonus di vario tipo per chi si unisce. A cui si aggiungono delibere approvate in alcune Regioni. I Comuni, tra bastone e carota, stanno passando da 8.046 a meno di ottomila. Un'ulteriore accelerata è attesa nel 2017.
Non è ancora la sforbiciata che vuole Renzi ma è un primo passo poiché chi ha pochi abitanti non riesce a sostenere i costi di taluni servizi. Il colpo di grazia dovrebbe avvenire con la proposta di legge (Atto Camera n. 3420) di una ventina di deputati Pd, capeggiati da Emanuele Lodolini, in arrivo in parlamento. Prevede la fusione obbligatoria dei Comuni sotto i 5000 abitanti. Si tratterebbe di un colpo di spugna sull'Italia dei piccoli Comuni: ne sparirebbero 5562.
Ovviamente si fronteggiano favorevoli e contrari. C'è chi ha già contratto matrimonio e sembra felice: per esempio in provincia di Rimini è nato il Comune unico di Montescudo-Monte Colombo, a Trento quello di Amblar-Don e di Dimaro-Folgarida, a Brescia è la volta di Biennio-Prestine, a Pavia di Corteolona-Genzone. Della faccenda degli accorpamenti, che è una piccola rivoluzione considerando storia e tradizioni italiane, se ne sta parlando a Firenze, con la due-giorni (incominciata oggi) del forum «Città metropolitane, il rilancio parte da qui» (promosso dall'Anci, l'associazione dei Comuni). Ovvero Comuni meno piccoli possono contare di più in una programmazione territoriale che vedrà protagoniste le città metropolitane insieme alle Regioni (si spera senza troppi conflitti).
La forza delle città metropolitane (che dovrebbero supplire alla sparizione dei piccoli Comuni) è illustrata in una nota dell'Anci: le città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Catania, Messina e Cagliari coinvolgono il 36% della popolazione, generano oltre il 40% del valore aggiunto e il 28% delle esportazioni, raccolgono il 35% delle imprese e il 56% delle multinazionali insediate nel paese e sono la sede di 55 atenei universitari e di circa la metà delle startup innovative.
Il convegno si svolge a Firenze (Palazzo Vecchio) e proprio in Toscana, in provincia di Arezzo, ben tre Comuni sono sulla strada dell'unione: Chiusi della Verna, Chitignano e Castel Focognano. Se il referendum che è stato indetto dai tre consigli comunali dirà sì, nascerà un unico Comune con 6 mila abitanti.
Renzi aveva previsto in un primo tempo l'obbligatorietà dell'accorpamento dei servizi, un modo per spingere i piccoli Comuni all'aggregazione. Poi nella legge milleproroghe il diktat è slittato al primo gennaio del prossimo anno. Dice Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente dell'Anci: «Vanno definiti bacini omogenei per la gestione associata dei servizi, a prescindere dalle dimensioni dei Comuni coinvolti, per arrivare a un riassetto complessivo del governo territoriale. Siamo pronti a contribuire a scrivere con il governo una legge che metta insieme i Comuni per davvero, in maniera efficace ed efficiente».
Aggiunge Massimo Castelli, coordinatore Anci per i piccoli Comuni: «L'impasse normativa in cui versano i piccoli Comuni ha dimostrato che l'unione obbligatoria dei servizi non funziona in molte parti del Paese. È chiaro che questa situazione blocca il processo invece di portarlo avanti, così com'è chiaro che l'obbligatorietà per legge è servita a far metabolizzare la necessità per i Comuni di unire le forze e diventare più forti. Ora però facciamo scegliere ai sindaci il come».
Nessun dubbio che ci sia bisogno di por mano a un ridisegno del mosaico comunale. Una Regione come la Lombardia (10 milioni di abitanti) deve rapportarsi addirittura con 1.528 Comuni. E i quasi seimila Comuni (in Italia) con meno di 5 mila abitanti non riescono ormai a fare i bilanci.
Però il fronte dei contrari è piuttosto numeroso. Qualche esempio. Il sindaco di Stazzema (Lucca), Maurizio Verona, ha scritto ai parlamentari Pd che hanno presentato la proposta di legge per rendere obbligatoria la fusione tra i Comuni under 5.000: «La storia dell'Italia si fonda su quella dei Comuni e i confini comunali sono spesso il frutto non tanto di astratte divisioni territoriali ma di una storia di comunità diverse: nonostante il passare degli anni, il Comune con le sue istituzioni resta il presidio della democrazia di un territorio già colpita dal taglio dei consiglieri comunali e quindi della rappresentanza».
Al presidente della Camera, Laura Boldrini, ha scritto invece il sindaco di Bassiano (Latina), Domenico Guidi: «Ho letto i 3 miseri articoli con cui i parlamentari firmatari, vorrebbero di colpo cambiare la geografia dei Comuni d'Italia. Un'iniziativa sciagurata e deplorevole che porterebbe i nostri territori allo sconvolgimento pressoché totale».
Mentre a Spilamberto (Modena) è incominciata una raccolta di firme contro l'accorpamento dei Comuni.
C'è però anche un sindaco di un piccolo Comune, San Giovanni Lupatoto (Verona), Federico Vantini, (fa parte della direzione nazionale Pd), che è convinto che l'accorpamento sia la medicina giusta: «È evidente che la situazione dei Comuni è critica. Serve un indirizzo chiaro, che semplifichi il sistema degli enti locali, è impossibile permettersi più di ottomila Comuni. L'unione oggi è facoltativa, occorre un atto forte del governo, che superi i campanilismi e incentivi la fusione con un patto pluriennale che permetta subito ai Comuni che si uniscono di investire in opere pubbliche e servizi ai cittadini» (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti p.a., decide la politica. Graduatorie non vincolanti. Ruolo con sezioni regionali. L'Anci ha inviato al ministro Madia una nota in vista dell'attuazione dell'art. 11 della delega.
La dirigenza? Che sia assoggettata interamente alla politica. L'Anci ha inviato al ministro della funzione pubblica, Maria Anna Madia, una nota interpretativa (nota 25.01.2016 n. 13/VSG/SD-16 di prot.), che in realtà consiste nell'indicazione di come i sindaci vorrebbero venisse attuata la riforma della dirigenza.
A ben vedere, del corposo scritto dell'Anci a rilevare e indicare concretamente come i sindaci vorrebbero si attuasse l'articolo 11 della legge 124/2015 è un passaggio molto chiaro della lettera che il presidente dell'associazione, Piero Fassino, rivolge al titolare di palazzo Vidoni: «Dare una nuova veste al principio di separazione fra atti di gestione e potere di indirizzo politico, assicurando merito e professionalità della nuova classe dirigente, nell'ambito di un rafforzato e discrezionale potere di scelta da parte dei sindaci».
Tutto sommato, l'Anci coglie, senza troppi giri di parole, la reale portata della riforma della dirigenza. Nonostante il documento inviato a palazzo Vidoni ridondi continuamente delle parole «merito» e «professionalità» i sindaci hanno perfettamente compreso in cosa consista la «svolta» della legge: la creazione di una fortissima dipendenza dei dirigenti pubblici dalla politica, la quale potrà, ma soprattutto, intende essere dotata di un potere pieno, «discrezionale» e, dunque, sostanzialmente insindacabile di scegliere (o lasciare a casa) il dirigente che più risulti gradito (o sgradito).
È una chiara risposta all'orientamento della giurisprudenza costituzionale consolidatosi dopo il 2007, allorché la Consulta ha considerato l'incostituzionalità di norme tendenti a precarizzare la dirigenza, rendendola sottomessa a logiche di appartenenza politica e vicinanza partitica, tali da comprometterne l'autonomia e la professionalità. Secondo la Corte costituzionale la dirigenza pubblica deve attuare l'indirizzo politico, ma nel rispetto della legalità e utilizzando gli strumenti tecnici dei quali deve avvalersi con autonomia tecnica, rispondendo per questo non solo agli organi di governo, ma a tutte le giurisdizioni, oltre che disciplinarmente.
L'Anci, al contrario, ravvede nella legge 124/2015 e nella creazione del ruolo unico dirigenziale l'opportunità per attribuire ai sindaci (e alla politica) un potere di affidare gli incarichi tale da sfuggire a ogni sindacato e controllo. Lo strumento è, in effetti, segnato e già chiarito dalla disciplina degli incarichi ai direttori delle aziende sanitarie: nonostante specifiche commissioni tecniche gestiranno i ruoli dirigenziali e le procedure per la selezione dei dirigenti cui assegnare gli incarichi, queste commissioni non produrranno graduatorie che vincolino i sindaci: spetterà alla politica scegliere liberamente tra «rose» di candidati. L'unico problema sarà far sì che nelle «rose» siano presenti i dirigenti considerati già a monte «vicini».
Allo scopo, l'Anci consiglia alla funzione pubblica di articolare il ruolo unico dei dirigenti locali in una serie di sotto-sezioni regionali. Lo scopo è chiaro: avvicinare quanto più possibile alla «discrezionalità» dei sindaci il processo di selezione dei dirigenti, così da poter avere un'influenza forte proprio sulla composizione delle «rose» dei candidati ai quali conferire gli incarichi (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTIContratti pubblici in bilico. Incertezza normativa in attesa del nuovo codice in fieri. Rischio ricorsi nel periodo di transizione fra la disciplina in vigore e l'attuazione della riforma.
Proroga a fine anno e non più a luglio per la qualificazione delle imprese e dei progettisti e per l'anticipazione contrattuale al 20%; evitare vuoti normativi in attesa del nuovo codice dei contratti pubblici.
Sono queste le richieste avanzate dalla commissione ambiente della camera nel corso dell'esame del decreto legge 192/2015 «milleproroghe» e contenute nelle diverse proposte emendative depositate.
Il quadro che emerge vede la normativa sui contratti pubblici in bilico fra disposizioni in vigore, essenziali per il settore, e una nuova disciplina in fieri che ha l'ambizioso compito di riunire in un unico testo direttive, nuovo codice e parti dell'attuale regolamento. Una situazione complessivamente di difficile gestione anche perché il rapido avvio della «consultazione pubblica» sul decreto delegato attuativo della legge delega (ufficialmente il testo non c'è) che dovrebbe concludersi, in prima fase, domenica 31 gennaio, dimostra l'intenzione del governo di arrivare rapidamente (al fine del rispetto del termine del 18 aprile) al decreto unico attuativo che recepirà le direttive e riformerà il codice attuale.
In sede parlamentare invece si sta affrontando l'iter di conversione del decreto legge «milleproroghe» (decreto legge 30.12.2015, n. 210) in cui sono contenute alcune importanti norme per le imprese di costruzioni e per i progettisti.
In particolare sono tre le norme di rilievo del decreto: la prima prevede la proroga a fine luglio (data in cui secondo la legge delega dovrebbe chiudersi il recepimento e la riforma del codice appalti laddove si scegliesse di emanare due decreti, ipotesi che sembra accantonata) della disposizione dell'attuale codice dei contratti pubblici che consente alle imprese di dimostrare la cifra d'affari in lavori, nonché le attrezzature e dell'organico facendo riferimento all'ultimo decennio antecedente la sottoscrizione del contratto con la Soa (società organismo di attestazione).
La seconda disposizione è di interesse dei progettisti che fino al 31 luglio potranno qualificarsi nelle gare con i migliori cinque anni del decennio (fatturato) e con i migliori tre anni del quinquennio (personale). I diversi emendamenti presentati nelle commissioni di merito (affari costituzionali e bilancio) spostano il termine da fine luglio a fine dicembre.
Questa richiesta di modifica viene poi espressa in termini netti anche nel parere che ha dato la commissione ambiente della camera con riguardo alla terza norma di particolare interesse per la tutela delle imprese in questa difficile contingenza economica che è quella che eleva dal 10 al 20% l'anticipazione dell'importo contrattuale . Nel decreto legge si prevede il differimento del norma introdotta nel 2014 dalla legge 192 fino alla fine di luglio. Ma i molti emendamenti, spesso identici, presentati presso le commissioni competenti sono finalizzati a spostare l'efficacia della norma a dicembre 2016.
È stata la commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della camera, nel parere reso alle commissioni competenti, a sollecitare il differimento a tutto il 2016 per evitare ogni ipotesi di vuoto normativo legando la proroga anche all'effettiva entrata in vigore del complesso disegno di riforma. Va infatti tenuto presente che è la legge delega a prevedere, in caso di unico decreto delegato (ed è questa la scelta compiuta dalla commissione ministeriale) che il decreto sia emanato entro il 18 aprile, ma che nel decreto debba essere prevista una disciplina transitoria ad hoc (oltre a «opportune disposizioni di coordinamento e finali») di cui ovviamente non si può sapere il contenuto e l'arco temporale.
A valle poi dovranno entrare in vigore le linee guida Mit-Anac. Il che proietta il settore verso un periodo non breve di coabitazione di norme diverse e di possibili incertezza normative legate anche all'impostazione eccessivamente discrezionale dell'operazione di riforma, con rischi di ricorsi e di altri problemi (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Bandiera bianca sui mini-enti. Biglio: un Patto sui piccoli comuni ma senza imposizioni. L'Anpci, da poco aperta anche gli enti fino a 15.000 abitanti, illustra le iniziative per il futuro.
Sui piccoli comuni sventola bandiera bianca. Non si tratta però di un segno di resa, ma di un messaggio chiaro al governo per resettare tutto e scrivere «insieme», ma soprattutto «democraticamente», il «Patto» per un'amministrazione vicina alla gente.
Ieri in conferenza stampa l'Anpci ha illustrato le iniziative per rispondere alla proposta di legge (Atto Camera n. 3420) presentata da 20 deputati Pd con in testa il parlamentare marchigiano Emanuele Lodolini, che prevede la fusione obbligatoria dei municipi sotto i 5 mila abitanti.
E anche se la proposta di legge appare a tutti più un'iniziativa personale che un progetto condiviso dalla maggioranza del Partito democratico (la scorsa settimana se ne sono apertamente dissociati i deputati Federico Fornaro ed Enrico Borghi) non si sentono al sicuro. Quanto accaduto recentemente in Toscana, per esempio, preoccupa non poco.
La regione guidata da Enrico Rossi, denuncia l'Anpci, ha deciso di procedere ugualmente alla fusione del comune di Abetone con il comune di Cutigliano, nonostante gli abitanti del primo si siano nettamente espressi in senso contrario nel referendum. «Un precedente gravissimo e pericoloso per tutti i piccoli comuni e per la democrazia italiana», osserva la presidente dell'Anpci e sindaco di Marsaglia (Cn) Franca Biglio che ha annunciato la disponibilità dell'Associazione a mobilitarsi al fianco dell'amministrazione comunale e dei cittadini di Abetone, «nonché di tutti i piccoli comuni mortificati da imposizioni dall'alto irrispettose dell'autonomia locale».
Nella conferenza stampa di ieri, i sindaci dell'Anpci si sono rivolti direttamente al premier Matteo Renzi. E lo hanno fatto parafrasando le parole del noto brano di Franco Battiato. «Mr. Presidente non ho più voglia di subire, mi rimetto in battaglia, i tempi stanno per cambiare», scandiscono i primi cittadini dell'Anpci. Che proseguono: «Per fortuna il mio civismo non mi fa accettare quelle leggi particolari per campagne elettorali, slogan e proclami per avere più carisma e sintomatico potere».
«Al presidente del consiglio vogliamo rivolgere un appello», prosegue la numero uno dell'Anpci. «Non si limiti sempre e solo ad ascoltare le grandi associazioni delle autonomie che le danno sempre ragione e spesso anche cattivi consigli, come nel caso della legge Delrio, pur di mantenere i propri privilegi. Ascolti anche, una volta tanto, i sindaci di trincea se si vuole davvero salvare il Paese. Noi siamo pronti a fare la nostra parte con il massimo impegno e disponibilità ma non siamo disposti ad ubbidire senza garanzie di salvezza per i nostri cittadini. Apra urgentemente un tavolo con noi ed ascolti le nostre proposte».
L'Anpci da sempre rivendica di potersi sedere in Conferenza unificata quanto meno come uditori in attesa di una modifica del Tuel che consenta la partecipazione vera e propria alle sedute. Un sogno realizzato (quando agli Affari regionali c'erano Graziano Delrio e Maria Carmela Lanzetta) ma improvvisamente interrotto. Da dicembre, infatti l'associazione è stata estromessa dalla Conferenza unificata.
«Il 17 dicembre scorso una delegazione dell'Ancpi si è presentata in via della Stamperia per partecipare all'Unificata, ma a essa è stato fatto divieto di entrare in sala riunioni per una espressa disposizione in tal senso. Ho scritto al ministro Angelino Alfano e al sottosegretario Gianclaudio Bressa per chiedere spiegazioni ma non ho neanche ricevuto una risposta», denuncia Biglio.
La battaglia dell'Anpci sarà portata avanti non attraverso slogan urlati, bensì con una mobilitazione ponderata e democratica da svolgersi a livello locale ma anche nazionale. A Volterra (Pi) il 12 marzo si svolgerà una grande manifestazione per dire no alle fusioni obbligatorie e per la difesa delle autonomie locali. La scelta del comune pisano è particolarmente significativa perché l'ente ha recentemente aderito all'Anpci pur avendo più di 5 mila abitanti (10.760 per la precisione).
Una possibilità che, grazie a una recente modifica statutaria, l'Anpci offre a tutti i municipi fino a 15 mila abitanti. Da marzo fino al referendum sulla riforma costituzionale, previsto per il mese di ottobre, verranno organizzate assemblee pubbliche nei comuni, consigli comunali aperti per informare la popolazione non solo sulla difficoltà oggettive in cui i piccoli comuni sono costretti a vivere, ma anche sull'attacco alla democrazia portato «dalla farsa del nuovo senato delle autonomie».
«Renzi ha detto che se non passa il referendum se ne andrà a casa», osserva Franca Biglio. «Bene, i nostri cittadini andranno a votare in massa e sapranno cosa fare se, nel frattempo, per i piccoli comuni non sarà stato scritto il patto che chiediamo a garanzia della loro sopravvivenza nel rispetto dell'autonomia organizzativa e decisionale dei sindaci e degli amministratori» (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016).

URBANISTICAConsumo del suolo, il ddl penalizza municipi e pmi.
Consentire l'utilizzo senza limiti dei proventi dei titoli edilizi rilasciati per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione realizzate. Opere che altrimenti andrebbero incontro a sicuro degrado, dequalificando l'ambiente urbano circostante e rendendo necessari ulteriori interventi di manutenzione con conseguenti maggiori oneri economici.
Il ddl sul consumo del suolo rischia inoltre di essere troppo penalizzante, soprattutto per i piccoli comuni. Perché per esempio renderebbe illegittima la rivendicazione dell'Imu su diritti edificatori previsti ma non più attivabili. Prospettiva questa «dalle conseguenze economiche insostenibili per i comuni che si vedrebbero coinvolti in contenziosi fiscali infiniti, destinati a produrre mancate entrate per cifre esorbitanti».
Sono queste le due osservazioni critiche mosse dall'Anpci al testo del disegno di legge in materia di «Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato» (Atto Camera n. 2039) che, presentato quasi due anni fa dall'ex ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo, è ancora all'esame delle commissioni ambiente e agricoltura della camera.
Le osservazioni sono contenute in uno schema di ordine del giorno che l'Anpci ha predisposto per i comuni associati affinché i rispettivi sindaci lo trasmettano al premier Matteo Renzi, ai ministri dell'ambiente e dell'agricoltura Gian Luca Galletti e Maurizio Martina e ai presidenti delle commissioni VIII e XIII di Montecitorio. L'Anpci, pur apprezzando l'impianto generale del ddl, ritiene assolutamente indispensabile che vengano garantiti i diritti acquisiti. Perché una loro compressione si porrebbe in contrasto con la «generale politica di incentivo della crescita e dell'occupazione, obiettivo da tutte le istituzioni riconosciuto come un'esigenza vitale per il Paese». Sulla stessa lunghezza d'onda Franco Biraghi, presidente di Confindustria Cuneo.
«Questo testo sarebbe una iattura per l'economia e le pmi perché nessuno di noi potrà più programmare la propria attività e il proprio sviluppo aziendale. Da un giorno all'altro, infatti, potremmo sentirci dire che il terreno industriale acquistato in passato nella prospettiva di ampliare il nostro capannone improvvisamente è diventato agricolo. Chi investirà più?».
Il no di Biraghi al ddl 2039 non è un rifiuto a priori, né tantomeno un atteggiamento favorevole al consumo del suolo, ma solo una ferma opposizione all'approccio sanzionatorio del testo «basato su una pioggia di divieti per le attività economiche e soprattutto industriali» (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPartecipate, andata e ritorno. Ma il rientro all'ente d'origine non è un diritto dei lavoratori. Il dlgs attuativo della delega Madia chiarisce uno degli aspetti più controversi della materia.
Il personale a suo tempo trasferito dagli enti locali alle società partecipate potrà tornare alle dipendenze dell'amministrazione pubblica.
Il decreto legislativo attuativo della legge 124/2015 in tema di riordino delle società pubbliche contribuisce a chiarire uno degli aspetti più controversi delle partecipazioni locali: la cosiddetta «clausola di rientro» del personale locale, trasferito alle società a seguito di esternalizzazioni di servizi.
In moltissimi casi nei contratti di servizio tra enti locali e società è stata inserita la clausola che ha previsto, appunto, la possibilità per l'ente locale di riassumere nei propri ruoli i dipendenti trasferiti, nel caso di reinternalizzazione dei servizi o, comunque, di cessazione delle attività delle società.
Non poche sezioni regionali della Corte dei conti hanno considerato legittime queste clausole contrattuali, nonostante esse non fossero previste da nessuna fonte normativa.
Resta il dato che, comunque, la presenza di clausole di tale genere, di fonte solo negoziale, lasciano in piedi il rischio che si tratti di esternalizzazioni solo elusive dei vincoli di spesa del personale, di fatto aggirati mediante un'apparente cessazione del rapporto di lavoro tra ente locale e dipendente trasferito alla società, che in realtà nasconde nella sostanza un semplice distacco di personale che garantisce al personale comunale trasferito il successivo rientro nei ruoli comunali, laddove la società o l'ente dovesse successivamente essere soppresso.
Lo schema di decreto legislativo chiarisce, indirettamente, l'illegittimità di tali clausole dei contratti di servizio. Non avendo, infatti, natura di interpretazione autentica, introduce per la prima volta nell'ordinamento la possibilità della reinternalizzazione dei rapporti di lavoro, possibilità negata a fonti di natura contrattuale, dal momento che solo la legge, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione, può regolare il reclutamento dei dipendenti pubblici.
Oltre tutto, lo schema di decreto legislativo non prevede un diritto soggettivo assoluto dei dipendenti delle società a suo tempo trasferiti ad esse dai comuni. Questa possibilità viene introdotta, in considerazione della circostanza che a suo tempo i dipendenti interessati vennero reclutati per concorso.
Tuttavia, le reinternalizzazioni, a riprova dell'assenza di un vero e proprio «diritto di rientro» (oggetto, invece, spesso dei contratti di servizio) potranno avere corso «solo nei limiti delle necessità di ricambio di personale all'interno dell'amministrazione interessata», e a condizione che ciascuna amministrazione «valuti» la possibilità di reinternalizzare i dipendenti a suo tempo trasferiti, rinunciando così a reclutamenti tramite concorsi, ma comunque nel rispetto dei vincoli normativi posti alla spesa di personale ed alla percentuale di turnover (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVILa trasparenza non è più una palla al piede
Addio alla scheda informativa relativa ai procedimenti amministrativi che si sarebbe dovuta produrre automaticamente, in applicazione dell'articolo 23 del dlgs 33/2013.

Lo schema di decreto legislativo di riforma della normativa sulla trasparenza amministrativa modifica in modo radicale ed estesissimo il dlgs 33/2013, nel tentativo di renderlo di più semplice utilizzo, eliminando gli eccessi di burocrazia incautamente introdotti tre anni fa, per effetto dei quali la trasparenza, per quanto migliorata, per le p.a. è sostanzialmente una palla al piede burocratica.
L'articolo 23 del dlgs 33/2013 era una tra le norme più discutibili e le maggiori fonti di lavoro oggettivamente di utilità solo formalistica. La norma attualmente obbliga le pubbliche amministrazioni a pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione «amministrazione trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di autorizzazione o concessione; scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi; concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera; accordi stipulati dall'amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche. Tutti dati e informazioni già oggetto di altre pubblicazioni, così da creare un'inutile ridondanza, doppioni, e lavoro improduttivo.
La previsione più velleitaria dell'articolo 23 del dlgs 33/2013 è il comma 2, ai sensi del quale «per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l'oggetto, la eventuale spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l'atto».
Si confermano le duplicazioni delle informazioni già presenti in altre parti dei siti «amministrazione trasparente» e, soprattutto, si pretende il miracolo informatico della produzione automatica della scheda contenente i dati richiesti. Miracolo che, ovviamente, nessun ente è riuscito a produrre, sicché la conseguenza è stata un'immane produzione di data entry fine a se stessa.
Il governo, con lo schema di decreto legislativo, prende atto del fallimento della disposizione in esame e dispone l'abolizione del comma 2 dell'articolo 23.
Ma, anche il comma 1 viene radicalmente modificato. Infatti, non sarà più necessario pubblicare e aggiornare semestralmente gli elenchi dei provvedimenti in materia di autorizzazione e concessione e di concorsi, visto che i dati sono tutti comunque reperibili mediante altri canali.
Per quanto riguarda i dati relativi agli appalti, di fatto basterà il collegamento ipertestuale alle pagine della «sezione amministrazione trasparente» che già contengono i dati richiesti.
Infine, in merito alla fattispecie degli «accordi stipulati dall'amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche», che ha creato moltissima confusione in quanto non risultava chiaro quali fossero tali accordi (convenzioni? appalti? ecc.), lo schema di decreto legislativo precisa che si tratta esclusivamente di quelli previsti dagli articoli 11 e 15 della legge 241/1990.
Si tratta, quindi, o degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimenti amministrativi (articolo 11), oppure delle convenzioni per la gestione di attività comuni tra amministrazioni o tra queste e privati (articolo 15) (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016).

APPALTICriteri base per gli appalti verdi. Standard minimi di gara. E bonus dalle stazioni appaltanti. In Gazzetta il decreto con i paletti ambientali. Capacità ecologica degli appaltatori ai raggi X.
Un appalto può essere definito «verde» dalla p.a. se include almeno i criteri di base. Le stazioni appaltanti però sono invitate a utilizzare anche i criteri premiali quando aggiudicano la gara con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Tra i criteri ambientali minimi di base c'è quello della selezione dei candidati. Secondo questo criterio l'appaltatore deve dimostrare la propria capacità di applicare misure di gestione ambientale, conformemente alle normative vigenti.

Queste le novità contenute nel dm 24.12.2015 del ministero dell'ambiente (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21.01.2015 n. 16) con il quale vengono adottati i criteri ambientali minimi (Cam) per l'affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici e per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione.
Vengono forniti i criteri minimi sia per gruppi di edifici che per singoli edifici. Tra le specifiche tecniche dei gruppi di edifici è da segnalare l'inserimento naturalistico paesaggistico, la sistemazione delle aree verde e il mantenimento della permeabilità dei suoli. Tra le specifiche tecniche del singolo edificio è stata inserita la prestazione energetica (nei nuovi progetti l'indice di prestazione energetica globale deve essere uguale ad A2), l'approvvigionamento energetico, il risparmio idrico, l'illuminazione naturale ecc..
Inoltre vengono illustrate le specifiche tecniche dei componenti edilizi come calcestruzzi, laterizi, prodotti in legno ecc., di cui vengono per esempio specificate la quantità che bisogna riciclare. Nelle specifiche tecniche del cantiere vengono esplicitati i criteri da seguire nelle demolizioni, per i materiali usati in cantiere, per gli scavi ecc..
Infine vengono definiti i criteri minimi premiali come il miglioramento prestazionale del progetto, l'uso di materiali rinnovabili, la distanza di approvvigionamento dei prodotti da costruzione e il miglioramento delle prestazioni ambientali dell'edificio (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarti, 30 kg in proprio.
Dal 02.02.2016 le imprese agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, nonché i barbieri e parrucchieri, gli istituti di bellezza e tatuaggio e piercing, che producono rifiuti pericolosi, compresi quelli aventi codice Cer 18.01.03, relativi ad aghi, siringhe e oggetti taglienti usati, possono trasportarli, in conto proprio, per una quantità massima fino a 30 kg al giorno, a un impianto che effettua operazioni autorizzate di smaltimento.

Lo prevede l'art. 69 della legge n. 221/2015 (cosiddetto collegato ambiente) che entrerà in vigore il 02.02.2016.
L'obbligo di registrazione nel registro di carico e scarico dei rifiuti e l'obbligo di comunicazione al catasto dei rifiuti tramite Mud, si intendono assolti attraverso la compilazione e conservazione, in ordine cronologico, dei formulari di trasporto (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Dal 22/1 ecovalutazioni Via e Vas più trasparenti.
Dal 22.01.2016 sono scattati nuovi indirizzi metodologici dei provvedimenti di valutazione d'impatto ambientale. Con una maggiore chiarezza ed esaustività delle prescrizioni contenute nei provvedimenti di valutazione ambientale di competenza statale anche al fine di superare le principali criticità riscontrate nella fase di attuazione del proponente e nella fase di verifica dell'ottemperanza delle prescrizioni da parte dell'ente di controllo.

Queste le novità contenute nel decreto del ministero dell'ambiente del 24.12.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 16 del 21 gennaio) sugli indirizzi metodologici per la predisposizione dei quadri prescrittivi nei provvedimenti di valutazione ambientale di competenza statale.
Vista la particolare rilevanza e complessità degli argomenti oggetto dei provvedimenti di valutazione ambientale gli «indirizzi» sono finalizzati a uniformare i contenuti dei quadri prescrittivi nell'ambito dei pareri espressi. Tanto che sono strumenti a disposizione della commissione tecnica per la verifica dell'impatto ambientale Via e Vas, della direzione generale per le autorizzazioni e le valutazioni ambientali del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, della direzione generale belle arti e paesaggio e della direzione generale archeologia del ministero per i beni e le attività culturali e del turismo un atto di indirizzo. Allo stesso tempo gli «indirizzi» forniscono ai soggetti proponenti l'opera o l'intervento un quadro di riferimento certo ed esplicito per l'attuazione delle prescrizioni dei provvedimenti di valutazione dell'impatto ambientale.
I nuovi indirizzi, in caso di procedura coordinata Via (valutazione impatto ambientale) e Aia (autorizzazione integrata ambientale) servono per coordinare i quadri prescrittivi anche al fine di evitare sovrapposizioni, duplicazioni o incoerenze tra le prescrizioni relative alla valutazione dell'impatto ambientale e quelle relative all'autorizzazione integrata ambientale (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aree agricole contaminate, la regione aiuta la bonifica.
In arrivo le regole dopo ben dieci anni per la bonifica dei siti inquinati delle aree agricole. Gli eventuali vincoli e/o restrizioni all'utilizzo del suolo individuati all'esito della valutazione di rischio devono essere riportati nel certificato di destinazione urbanistica. La regione, sulla base di apposito programma che individua le priorità di intervento e le risorse disponibili, può finanziare, in tutto o in parte, le attività di bonifica, fatta salva la ripetizione delle somme impiegate e relativi interessi nei confronti del responsabile della contaminazione. I criteri di priorità definiti dalla regione sono resi pubblici sui siti internet istituzionali.

Questo è quanto si legge nella bozza del provvedimento del ministero dell'ambiente (emanata di concerto con ministero salute e politiche agricole) che attua l'art. 241 del dlgs n. 252/2006 in merito alla bonifica dei siti contaminati delle aree agricole.
Dopo un'attesa di dieci anni la conferenza unificata del 17.12.2015 ha dato il via al dlgs recante «regolamento relativo agli interventi di bonifica, ripristino ambientale e di messa in sicurezza, d'emergenza, operativa e permanente, delle aree destinate alla produzione agricola e all'allevamento» ai sensi dell'art. 241 del decreto legislativo 03.04.2006 n. 152.
«Se all'esito della valutazione del rischio le concentrazioni (di contaminazione) riscontrate nel suolo sono compatibili con l'ordinamento colturale effettivo e potenziale o con il tipo di allevamento su di esso praticato, è presentata alla regione e, nel caso di aree ricadenti nel perimetro dei siti di interesse nazionale, al ministero dell'ambiente un'istanza di conclusione del procedimento, corredata della documentazione tecnica inerenti la valutazione di rischio. Entro i 60 giorni successivi alla presentazione dell'istanza, l'amministrazione competente può richiedere l'effettuazione di ulteriori controlli oppure dichiarare concluso il procedimento
» (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016).

EDILIZIA PRIVATASilenzio-assenso anche per i nullaosta ambientali.
Basta meline in conferenza di servizi. Le riunioni tra amministrazioni per l’autorizzazione di opere e interventi sul territorio dovranno svolgersi in tempi certi, privilegiando lo scambio di documenti via mail e senza più poteri di veto, magari azionabili semplicemente ritardando all’infinito il rilascio di un parere indispensabile a un progetto. Incluse le valutazioni di impatto ambientale, che ora ricadono nel perimetro del silenzio-assenso.

La nascita di una conferenza di servizi semplificata, senza riunioni fisiche, da concludere entro 60 giorni per gli interventi minori; l’introduzione del silenzio-assenso per le opere sottoposte a Via e per i nullaosta paesaggistici, insieme all’inversione dell’onere di ricorso al Consiglio dei ministri, in caso di dissenso da parte di un ente di tutela sono le misure più innovative contenute nel decreto destinato a rivoluzionare l’assetto delle conferenze dei servizi, all’interno del pacchetto dei provvedimenti di riforma della Pa.
Introdotte dalla legge 241/1990 con l’obiettivo di evitare paralisi burocratiche, le conferenze di servizi si sono invece rivelate nel tempo la sede principe per bloccare i piccoli e grandi progetti invisi a questa o a quella amministrazione, attraverso gli escamotage più vari: assenze, veti, ritardi, assunzione di provvedimenti in autotutela capaci di annullare le decisioni già assunte. Negli ultimi 25 anni si sono succeduti infiniti tentativi di cambiare le cose accelerando le decisioni, ora si punta alla stretta finale.
Per raccogliere i pareri e assumere le decisioni sugli interventi minori andrà in scena una conferenza di servizi semplificata. Da svolgere in modalità «asincrona». Cioè senza la presenza fisica dei rappresentanti delle amministrazioni coinvolte attorno a un tavolo. Ma con scambio di documenti via mail.
La conferenza deve essere indetta entro cinque giorni dalla ricezione della domanda e deve concludersi in tempi certi. E stretti. Ai partecipanti vengono assegnati 60 giorni (termine perentorio) per fornire il proprio parere. Il termine sale a 90 giorni per gli enti di tutela ambientale, paesaggistica o culturale. La mancata pronuncia entro questa scadenza viene considerata alla stregua di un assenso incondizionato. Poi ci sono cinque giorni per chiudere, con una decisione, positiva o negativa, basata sulle «posizioni prevalenti». Se non ci sono vincoli fanno in tutto 70 giorni, invece dei 105 precedenti, senza contare i 30 giorni iniziali prima di indire la conferenza, che ora non ci sono più.
Per progetti più complessi , o in caso di di flop della conferenza semplificata, scatta la conferenza «simultanea», in cui però la presenza contemporanea dei vari rappresentanti alle riunioni può essere assicurata anche per via telematica. Anche qui la conclusione del procedimento deve avvenire entro 60 giorni dalla prima riunione.
Ciascun ente potrà farsi rappresentare da un unico soggetto. Soprattutto, però, cambierà il modo in cui lo Stato partecipa alla conferenza. Le amministrazioni non potranno partecipare in modo autonomo ma avranno un rappresentante unico. In caso di disaccordo, le altre amministrazioni potranno formalizzare il loro parere negativo ma non potranno incidere sulla volontà del rappresentante unico, salvo richiedere un intervento in autotutela.
Forte semplificazione anche per i progetti da sottoporre a Via. In questi casi si procede con una sola conferenza di servizi da svolgere però sempre in forma simultanea. E non con due procedimenti paralleli come accaduto finora. Ma la maggiore novità è che anche per le opere sottoposte a Via d’ora in avanti si applicheranno le condizioni previste dalla nuova conferenza di servizi. Inclusa la presunzione di silenzio-assenso nel caso in cui il rappresentante del ministero dell’ Ambiente non abbia partecipato alla riunione e non abbia espresso posizione o non abbia motivato il dissenso. Resta ferma la disciplina per le opere sottoposte a Via statale e per le opere strategiche della legge obiettivo
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Moduli e sportelli unificati per segnalazioni più facili.
Si devono attendere ancora uno o più decreti legislativi per conoscere esattamente le attività economiche soggette ad una di queste tre procedure(o regimi amministrativi): Scia, autorizzazione espressa, silenzio-assenso (ovvero autorizzazione con possibilità di silenzio-assenso).
Sono tutte attività definite regolamentate perché il loro avvio è subordinato al possesso di requisiti personali dell’imprenditore e/o di requisiti per l’accesso al mercato dell’impresa.
Attività libere
Questa operazione di classificazione produrrà indirettamente un importantissimo risultato: tutte le attività non comprese si intendono libere e per il loro avvio basterà una comunicazione. Ci sarà da definire il destinatario di dove è ubicata la sede e l’azienda?
La bozza di decreto legislativo di attuazione dell’articolo 5 della legge 124/2015 si limita per ora a fornire maggiori certezze circa gli adempimenti a carico di chi avvia un’attività soggetta a Scia.
Alcune delle novità introducono, anche in modo indiretto, integrazioni e correzioni alle disposizioni sulla Scia contenute negli articoli 19 e 21 della legge 241/1990 da ultimo modificata con l’articolo 6 della stessa legge 124/2015.
Certo, dopo ben sette modifiche in cinque anni dei due articoli chi professionalmente si occupa di Scia si sta chiedendo se questo sarà l’ultimo ritocco almeno per qualche anno.
Bando a documenti superflui
Il primo obiettivo del decreto è quello di mettere a disposizione del cittadino tutte le informazioni necessarie ed eliminare i documenti superflui.
Sui siti delle Pa destinatarie della Scia dovranno essere pubblicati i moduli unificati relativi alle attività economiche, come già attuato per la richiesta dei titoli edilizi, e come previsto dall’Agenda della semplificazione (articolo 24 legge 114/2014).
Poiché solo una parte del contenuto dei moduli può essere unificato a livello nazionale causa diversità normative nelle Regioni e nei Comuni, viene imposto alle Pa di inserire nel sito, per ciascuna categoria di attività:
- situazioni, qualità personali e fatti che devono essere autocertificati da chi compila la Scia;
- le attestazioni di competenza dei tecnici abilitati;
- le dichiarazioni di conformità sul possesso dei requisiti rilasciate a chi si rivolge alle Agenzie per le imprese, strutture private autorizzate dal Ministero dello Sviluppo Economico ma oggi presenti in poche province.
Per evitare ingiustificate richieste di dati e documenti da parte degli enti questi devono specificare per ciascuno le norme che li prevedono.
Nuovo sportello
Ogni Pa deve indicare il proprio “sportello di interlocuzione unica” dove saranno trattati anche i procedimenti “connessi” che competono ad enti diversi da quello dove è ubicato lo sportello. L’interrogativo è immediato: quale relazione vi è tra questo sportello (Siu?) e il Suap?
Viene inoltre regolamentato il caso in cui per avviare una attività occorre più di una Scia: può essere presentata una unica Scia che comprende tutte le documentazioni ma ogni Pa controllerà i documenti di competenza.
L’attività può essere iniziata dalla data di presentazione della Scia unica. Se al controllo risulta carente dei requisiti l’ente che ha ricevuto la Scia, se ritiene possibile regolarizzarla, prescrive le misure al segnalante, ma sospende l’attività solo se le dichiarazioni sono false o l’attività incide su interessi sensibili come ambiente e beni culturali. Con un’agevolazione rispetto alle più rigide regole in vigore
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO - VARINorme retroattive. Depenalizzazione per il passato. Decreto pubblicato in G.U. In vigore dal 6 febbraio.
Sanzione amministrativa retroattiva: si applica anche ai reati depenalizzati dal decreto legislativo approvato dal governo il 15.01.2016 e non ancora giudicati.

La norma transitoria del decreto legislativo di depenalizzazione (dlgs 15.01.2016, n. 8, pubblicato in G.U. n. 17 del 22.01.2016 insieme con il dlgs 15.01.2016, n. 7 in materia di abrogazione di reati) prevede, infatti, l'applicabilità delle sanzioni amministrative alle violazioni anteriormente commesse. E se il fatto è stato punito con sentenza penale, questa viene revocata e ne cessano gli effetti.
Per i procedimenti pendenti, quindi, si assisterà a un passaggio di fascicoli dalle procure e dai tribunali alle autorità amministrative competenti a irrogare la sanzione.
Ma vediamo il dettaglio dell'operazione.
Si prenda un reato depenalizzato commesso anteriormente alla (futura) data di entrata in vigore del decreto in commento (per esempio, una guida senza patente o un omesso versamento di ritenute da parte del datore di lavoro o un'omessa verifica della clientela ai fini antiriciclaggio).
Ci si chiede che sorte abbia questo reato.
Può capitare che non sia pendente nessun procedimento penale oppure che lo stesso sia pendente oppure che sempre il medesimo procedimento penale sia già stato definito con una sentenza irrevocabile.
Prima ipotesi: nessun procedimento pendente. In questo caso il fatto verrà accertato e sanzionato dall'autorità amministrativa con l'applicazione della sanzione amministrativa. La norma transitoria del decreto legislativo, infatti, prevede che le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applichino anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso. Lo stesso vale l'altro decreto legislativo di trasformazione di reati in illeciti civili (per esempio, l'ingiuria) approvato dal governo insieme al decreto in commento.
Attenzione, senza la norma transitoria sarebbe stato un completo colpo di spugna. Senza la norma transitoria a un reato depenalizzato non si potrebbe più applicare la sanzione penale (abolita) e non si potrebbe applicare retroattivamente la sanzione amministrativa.
Va notato che la legge delega 67/2014 non indicava espressamente la previsione di una norma transitoria. Il governo l'ha inserita per evitare vuoti di tutela oltre che una vistosa disparità di trattamento tra chi ha commesso il fatto durante la vigenza della norma penale (e destinato, senza nessuna norma transitoria, a non avere nessuna sanzione) e chi ha commesso il fatto dopo la depenalizzazione (e destinatario di una sanzione amministrativa).
Seconda ipotesi: procedimento pendente già definito, prima dell'entrata in vigore della depenalizzazione, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili. In questo caso, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Cioè il giudice dell'esecuzione revoca la condanna e vengono meno gli effetti penali della stessa. La condanna per un reato depenalizzato, quindi, non conta più, per esempio, per una eventuale recidiva, per la sospensione condizionale, per la concessione di benefici di legge, non è causa ostativa per eventuali concorsi pubblici, autorizzazioni o licenze ecc..
Terza ipotesi: procedimento pendente presso l'autorità giudiziaria e non ancora definito. In questo caso i fascicoli dovranno essere trasmessi (dalle procure o dai tribunali, a seconda dello stato del procedimenti) all'autorità amministrativa competente entro 90 giorni. A meno che non sia già decorso il termine di prescrizione del reato. A quel punto l'autorità amministrativa (prefettura, comune, ministeri a seconda della singola normativa) inizia il procedimento per applicare la sanzione pecuniaria amministrativa.
C'è, infine, una norma di chiusura sulla quantificazione della sanzione.
Ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del decreto legislativo (06.02.2016) non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato. Si prenda la guida senza patente, che verrà punita con la sanzione amministrativa fino a 30 mila euro, ma per i fatti anteriori non si potrà andare oltre i 9.032 euro (attuale articolo 116, comma 15, codice della strada). Inoltre ai fatti anteriori non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie  (articolo ItaliaOggi del 26.01.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAmministratori, conti di vetro. Sanzionato chi non rende pubblici i propri patrimoni. RIFORMA MADIA/ Lo prevede lo schema di decreto sulla trasparenza nella p.a..
Sanzionati gli amministratori locali che non rendono pubblica la propria situazione patrimoniale. Pubblicazione degli atti semplificata nei piccoli comuni e negli organi e collegi professionali. Chiunque avrà diritto di accedere ai dati detenuti dalla p.a. anche ulteriori rispetto a quelli da essa pubblicati.

Sono tra le novità dello schema di decreto legislativo attuativo della legge 124/2015 dedicato alla modifica della normativa anticorruzione specificamente riguardante la trasparenza (dlgs 33/2013), approvato il 20 gennaio scorso dal consiglio dei ministri, che corregge alcuni dei difetti più evidenti della normativa vigente.
Accesso. In particolare, si amplia il diritto di accesso a dati e documenti, secondo modalità più realmente aderenti al freedom of information act: l'accesso civico, non legato a un interesse collegato direttamente ai dati e ai documenti, non riguarderà più solo i dati oggetto di pubblicazione nella sezione «amministrazione trasparente» dei portali delle varie amministrazioni pubbliche.
Chiunque, infatti, avrà diritto di accedere ai dati detenuti dalla p.a. anche ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, purché si rispettino i limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti e la disciplina della privacy.
Il diritto di accesso così ampliato non incontrerà alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente e le domande non dovranno essere motivate e trasmesse d'ufficio alla struttura competente. Qualora l'accesso si riferisca a dati pubblicati su «amministrazione trasparente» l'istanza può essere altresì presentata al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
Le p.a. dovranno rispondere non oltre 30 giorni dalla presentazione dell'istanza, trasmettendo al richiedente i dati richiesti, ovvero, nel caso in cui l'istanza abbia a oggetto dati di pubblicazione obbligatoria, pubblicando sul sito il dato. Decorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. L'Autorità nazionale anticorruzione, sentito il garante per la protezione dei dati personali nel caso in cui siano coinvolti dati personali, con propria delibera adottata, previa consultazione pubblica, in conformità con i principi di proporzionalità e di semplificazione, può identificare i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della disciplina vigente per i quali la pubblicazione in forma integrale è sostituita con quella di informazioni riassuntive, elaborate per aggregazione.
Meno adempimenti. Uno dei problemi maggiormente rilevanti posti dal dlgs 33/2013, in particolare alle amministrazioni di più ridotte dimensioni, consiste nell'eccesso di adempimenti di pubblicazione dei dati.
Il caricamento e l'aggiornamento della sezione «amministrazione trasparente» richiede davvero troppo tempo ed energie sottratte allo svolgimento delle concrete attività.
Il governo ha preso atto di questo e prevede una serie di correttivi, avvalendosi dell'apporto dell'Anac. Questa, attraverso il Piano nazionale anticorruzione potrà introdurre modalità semplificate per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti e per gli organi e collegi professionali.
Non solo: si rivoluziona il contenuto dell'articolo 9 del dlgs 33/2013 in modo che alle varie p.a. sia risparmiato l'onere di duplicare l'imputazione dei dati. Laddove, infatti, esistano già banche dati pubbliche centralizzate (come, per esempio, PerlaPA per il personale) alle quali gli enti debbano versare dati coerenti con quelli imposti dal dlgs 33/2013, basterà che le amministrazioni titolari di queste banche dati li rendano pubblici perché vi sia l'adempimento.
Il dlgs attuativo spazza via anche la velleitaria disposizione contenuta nell'articolo 23 del dlgs 33/2013, che imponeva di duplicare i contenuti dei provvedimenti amministrativi.
Dirigenti. La riforma amplia l'obbligo in capo ai dirigenti pubblici di comunicare gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche per verificare il rispetto del tetto massimo dei 240 mila euro annui: la p.a. di appartenenza pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente.
Sanzioni per gli amministratori. Si modifica il comma 3 dell'articolo 47, che sanziona gli amministratori locali intenzionati a non rendere pubblica la propria situazione patrimoniale. La riforma attribuisce all'Anac la competenza a irrogare le sanzioni.
Dirigenti apicali. Lo schema di decreto legislativo anticipa la sostituzione dei segretari comunali con i dirigenti apicali, che vengono espressamente menzionati nel nuovo testo dell'articolo 1, comma 7, della legge 190/2012, anch'essa oggetto di alcune modifiche, tendenti ad ampliare i poteri dell'Anac e la responsabilità dei dirigenti e dei singoli dipendenti nell'attuazione della disciplina anticorruzione (articolo ItaliaOggi del 26.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Anticorruzione in mano al dirigente apicale.
Anticorruzione in mano al «dirigente apicale» negli enti locali. Lo schema di decreto legislativo attuativo della riforma Madia in tema di trasparenza e anticorruzione anticipa i tempi dell'abolizione della figura del segretario comunale e si porta avanti col lavoro.
Si prevede, infatti, la modifica del testo dell'articolo 1, comma 7, della legge 190/2014 il cui contenuto novellato sarà il seguente: «L'organo di indirizzo individua, di norma tra i dirigenti in servizio, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, disponendo le eventuali modifiche organizzative necessarie per assicurare funzioni e poteri idonei per lo svolgimento dell'incarico con piena autonomia ed effettività. Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza è individuato, di norma, nel segretario o nel dirigente apicale, salva diversa e motivata determinazione».
Le novità del testo sono due.
In primo luogo, si riunisce in un'unica norma la regolazione della nomina sia del responsabile della corruzione, sia di quello della trasparenza, specificando che tale responsabilità coincide con un incarico unico. Lo schema di decreto legislativo, allo scopo di non lasciare l'incarico anticorruzione una semplice onorificenza, di fatto impone alle amministrazioni di creare strutture amministrative al servizio del responsabile per rendere effettive le sue competenze.
Resta il problema dell'autonomia: pur enunciata dalla legge, è evidente che la provenienza dell'incarico dall'organo di indirizzo politico inficia di molto i margini di autonomia del responsabile.
La seconda novità riguarda gli enti locali: il testo ancora una volta dispone che ex lege (non occorre alcun provvedimento formale) il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza è il segretario, ma fa emergere la new entri del «dirigente apicale»: cioè quella figura che dovrebbe sostituire i segretari comunali.
La particolarità consiste nel fatto che la riforma dell'anticorruzione e trasparenza dovrebbe vedere la luce definitiva entro maggio-giugno, quando ancora non dovrebbe nemmeno essere partito l'iter per l'approvazione del dlgs attuativo della legge 124/2015 relativo alla riforma della dirigenza, ove si prevede la sostituzione dei segretari comunali con il dirigente apicale.
Insomma, il governo, tanto per essere chiaro sulla sorte dei segretari, intende accelerare i tempi e dare da subito ingresso al dirigente apicale, anche nelle more del completamento della riforma della dirigenza (articolo ItaliaOggi del 26.01.2016).

EDILIZIA PRIVATALombardia, altri canoni di efficienza. Per l'ape.
Aggiornate le norme per l'efficienza energetica degli edifici della regione Lombardia e il rilascio dell'Ape. Tra le più importanti novità vi è l'esclusione dall'obbligo di allegazione dell'Ape per i provvedimenti giudiziali relativi trasferimenti immobiliari conseguenti a procedure esecutive o concorsuali. Inoltre costituisce un inadempimento del certificatore l'assenza dell'indicazione degli interventi migliorativi nell'apposita sezione dell'Ape.

È con il decreto regionale Lombardia n. 224/2016 che viene chiarita la corretta applicazione, del decreto del 30/07/2015 n. 6480 in alcuni ambiti, per l'efficienza energetica degli edifici e per il relativo Ape.
L'indicazione degli interventi migliorativi può essere omessa solo qualora il certificatore dichiarerà, in caso di edifici di classe A3 e A4, che ulteriori interventi migliorativi non sarebbero convenienti in termini di costi/benefici. Il libretto d'impianto dovrà essere unito all'Ape destinato all'acquirente dell'edificio e non necessariamente allegato all'atto di compravendita.
La dichiarazione di conformità del certificatore che, con la nuova veste funge anche da dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà con cui il professionista dichiara che la copia cartacea è conforme al file depositato nel catasto energetico edifici regionale. Il decreto specifica più dettagliatamente i requisiti degli impianti di illuminazione, i requisiti di trasmissione termica dei serramenti e dell'involucro opaco con isolamento in intercapedine o dall'interno, in caso di riqualificazione energetica.
Inoltre contiene le disposizioni normative relative alla sostituzione del generatore di calore, all'installazione di pompe di calore di potenza inferiore a 15 kW e di impianti alimentati a biomassa e all'obbligo di integrazione delle fonti energetiche rinnovabili. Il decreto contiene anche le disposizioni a cui attenersi nel caso di ampliamento volumetrico (articolo ItaliaOggi del 26.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Vecchi immobili ancora senza garanzie antirumore. Nessun obbligo di certificazione dei decibel. Acustica. Regole e parametri ad hoc soltanto in sette Regioni.
A distanza di oltre vent’anni dalla legge sull’inquinamento acustico, il quadro normativo antirumore è ancora incompleto. Ma non mancano Regioni e persino singoli Comuni, che in assenza di regole nazionali, hanno varato leggi che rendono di fatto obbligatoria la certificazione acustica dell’edificio in caso di compravendita o di locazione.
La legge 447/1995, con l’articolo 3, comma 1, lettera a), ha previsto la determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici attraverso un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, poi approvato nel 1997. La stessa legge prevedeva anche un secondo decreto che avrebbe fornito l’indicazione dei criteri per la progettazione, l’esecuzione e la ristrutturazione delle costruzioni edilizie ai fini della tutela dall’inquinamento acustico. Questo secondo provvedimento non è stato mai promulgato (e difficilmente lo sarà) per evidenti limiti tecnici operativi a formulare queste prescrizioni in modo standard.
Ciò nonostante il Dpcm 05.12.1997 è considerato, e numerose sentenze lo confermano, pienamente cogente e a livello regionale non vi sono indicazioni di tipo costruttivo.
Finora c’è solo un tentativo del Comune di Bologna, che nel suo regolamento edilizio in vigore dal 2008, propone alcune soluzioni di stratigrafie standard che dovrebbero garantire il rispetto dei limiti (ma il condizionale è d’obbligo poiché la tecnica di calcolo, in realtà, è molto complessa e cambia da caso a caso per cui è difficile fornire indicazioni standard).
I valori limite
Nel decreto sono contenuti limiti differenziati per tipologia di costruzione: dalle residenze all’albergo, dalla scuola all’ospedale, dall’ufficio al negozio. Fanno eccezione gli edifici a destinazione esclusivamente produttiva (ma se in un capannone produttivo vi è anche solo un ufficio, quel vano è soggetto ai limiti di legge).
I valori contenuti nel Dpcm sono da applicarsi sia sugli edifici con autorizzazione concessa a partire dalla entrata in vigore del decreto (nel febbraio 1998) che sugli edifici oggetto di ristrutturazione, come ben specificato dal Consiglio superiore dei lavori pubblici durante l’adunanza del 26.06.2014.
Il Consiglio ha ribadito che le disposizioni del Dpcm «devono essere applicate anche in caso di ristrutturazioni di edifici esistenti che prevedano il rifacimento anche parziale di impianti tecnologici e/o di partizioni orizzontali o verticali (solai, coperture, pareti divisorie, ecc.) e/o delle chiusure esterne dell’edificio (esclusa la sola tinteggiatura delle facciate), oppure la suddivisione di unità immobiliari interne all’edificio».
Anche il ministero dell’Ambiente si è espresso in questo senso (circolare prot. n. 3632/Siar/98 del 01.09.1998).
Le norme regionali
Anche a livello regionale sette Regioni si sono espresse: Calabria, Marche, Sardegna, Lombardia, Umbria, Friuli Venezia Giulia e Puglia. In Sardegna, Lombardia e Friuli si precisa che il progetto deve essere redatto da un «tecnico in acustica» ai sensi della legge 447/1995; in Sardegna e Lombardia, oltre a Umbria e Puglia, si specifica che il decreto del 1997 si applica anche alle ristrutturazioni (questa è una precisazione ridondante).
Solo in Calabria e nelle Marche, oltre a quanto specificato in tutte le altre Regioni, si prevede anche l’obbligatorietà del certificato acustico che attesti i valori di isolamento in opera (come prevede il Dpcm 05.12.1997) da allegare all’atto di acquisto o al contratto di locazione.
In più, la certificazione acustica ottenuta mediante collaudo in opera deve essere ripetuta ogni 10 anni in caso di locazione o di rivendita
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, diventano obbligatori i «criteri ambientali minimi». Gare. Le novità operative con l’entrata in vigore della legge 221/2015.
Le regole per la gestione degli appalti nel rispetto dell’ambiente diventano vincolanti per le amministrazioni aggiudicatrici, che devono applicare misure specifiche nella definizione dei capitolati, dei requisiti di partecipazione e dei criteri di valutazione delle offerte.
La legge 221/2015 codifica le disposizioni che danno attuazione ai principi del green public procurement, dopo una lunga fase di sperimentazione avviata con la legge 296/2006 e con i decreti attuativi dei criteri ambientali minimi (Cam), rafforzata dal 2011 dall’entrata in vigore dell’articolo 281 del Dpr 207/2010 che ha reso obbligatoria per le stazioni appaltanti l’analisi dell’impatto ambientale degli appalti e la loro gestione tenendo conto di soluzioni per la riduzione di emissioni e rifiuti.
Le nuove norme sono anzitutto (articolo 16) finalizzate a sostenere il miglioramento qualitativo dell’organizzazione degli operatori economici in chiave ambientale, premiando il possesso della certificazione Emas con la riduzione del 30% della cauzione provvisoria (con un’integrazione delle norme esistenti nell’articolo 75 del Codice dei contratti che già prevedevano la riduzione del 50% per il possesso della certificazione di qualità).
La legge 221/2015 amplia il quadro degli elementi che possono essere utilizzati nella valutazione delle offerte analizzate con il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa, stabilito dall’articolo 83 del Codice, permettendo alle stazioni appaltanti di utilizzare, quali possibili criteri per la parte tecnico-qualitativa delle proposte:
a) il possesso di un marchio di qualità ecologica (Ecolabel) su almeno il 30% dei servizi o beni oggetto della fornitura;
b) soluzioni organizzative o metodologiche che consentano un uso più efficace delle risorse o lo sviluppo di dinamiche economiche che promuovano ambiente e occupazione, mediante riduzione di emissioni inquinanti o contenimento di uso delle risorse energetiche;
c) soluzioni che definiscano la compensazione delle emissioni di gas serra.
Le amministrazioni devono specificare nel bando i dati che devono essere fornite dagli operatori economici per dimostrare le loro capacità rispetto ai nuovi criteri, rapportandoli al ciclo di vita dei servizi, delle forniture o dei lavori.
Ulteriore novità è l’obbligatorio utilizzo dei criteri ambientali minimi, definiti dal ministero dell’Ambiente: questi elementi devono essere utilizzati nella definizione almeno delle specifiche tecniche e prestazionali esplicitate nel capitolato speciale, potendo l’amministrazione utilizzarli anche per i requisiti di partecipazione (con riferimento specifico alla capacità tecnico-professionale) e per i criteri di valutazione delle offerte per tutti gli appalti che abbiano ad oggetto elementi disciplinati dagli stessi Cam. L’obbligo è riferito all’intero dimensionamento dell’appalto per gli appalti di fornitura di lampade e a led, di apparecchiature elettroniche per l’ufficio e di servizi energetici per gli edifici.
L’obbligo è riferito invece ad almeno il 50% del dimensionamento per gli appalti aventi ad oggetto i servizi di pulizia, di ristorazione collettiva, di gestione del verde pubblico e di gestione dei rifiuti urbani, oltre alle forniture di toner, di carta da fotocopie, di prodotti tessili e di arredi per l’ufficio
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Trasparenza. Accesso civico, l’interessato può opporsi in 10 giorni.
L’accesso civico diventa strumento di conoscenza estesa per i cittadini, ma le amministrazioni devono pubblicare con modalità di maggior dettaglio molte informazioni e documenti.

Lo schema di decreto legislativo sulla trasparenza e sull’anticorruzione amplia la portata dell’attuale quadro normativo, fornendo tuttavia alcune specificazioni sull’ambito di applicazione soggettiva del Dlgs 33/2013, esplicitando tra i soggetti pubblici tenuti gli ordini e i collegi professionali, le fondazioni e le associazioni partecipate che abbiano le caratteristiche di organismi di diritto pubblico, ma sottraendo le società quotate partecipate dalle Pa.
Lo schema di decreto delinea in capo all’Autorità nazionale anticorruzione un significativo potere di semplificazione in ordine agli obblighi di pubblicazione per gli enti locali di minori dimensioni o, comunque, per amministrazioni pubbliche con assetto organizzativo limitato.
Le nuove norme introducono una gestione rivoluzionaria dell’accesso ai documenti e alle informazioni da parte dei cittadini, con la riformulazione dell’articolo 5 del Dlgs 33/2013, stabilendo che allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione in base al decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti.
L’esercizio del nuovo accesso civico non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, il quale deve presentare un’istanza che identifica chiaramente i dati richiesti, ma che non richiede motivazione.
L’amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, è tenuta a dar loro comunicazione e questi possono presentare motivata opposizione entro 10 giorni.
L’amministrazione deve trasmettere tempestivamente i dati richiesti o pubblicare il documento per il quale è previsto un obbligo dal Dlgs 33/2013, ma se non lo fa entro 30 giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego esplicito o per silenzio, il richiedente può presentare ricorso al Tar. L’accesso civico è tuttavia negato quando la conoscenza dei dati possa recare un pregiudizio a rilevanti interessi nazionali (sicurezza pubblica, difesa, eccetera) oppure possa incidere sulla tutela di uno di particolari interessi privati, tra i quali spiccano la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza, oltre agli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica.
L’accesso civico è contemperato da una serie di limiti, che le nuove norme esplicitano riformulando l’articolo 7 del Dlgs 33/2013, mentre permane la disciplina del diritto di accesso ai documenti stabilita dalla legge 241/1990, delineandosi una distinzione particolare.
Lo schema di decreto apporta molte modifiche agli obblighi specifici di pubblicazione di dati e documenti (recependo anche quelli recentemente introdotti dalla legge di stabilità 2016 per gli incarichi nelle partecipate), ma interviene anche sulla legge 190/2012.
Le nuove disposizioni ridelineano il processo formativo del piano nazionale anticorruzione e stabiliscono per gli enti locali di minori dimensioni la possibilità di predisporre il proprio in forma aggregata. In questo quadro il ruolo del responsabile della prevenzione della corruzione è rafforzato, riconducendolo nei Comuni alla figura del segretario o del dirigente apicale
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.01.2016 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO - VARI: Illeciti depenalizzati: fedina pulita e portafoglio vuoto. Dopo i dlgs approvati il 15 gennaio, sanzioni salate e procedura amministrativa o civile.
La depenalizzazione imbocca due strade, che portano la prima davanti a un funzionario amministrativo e la seconda davanti al giudice civile. Molti reati cambiano pelle e si trasformano alcuni in illeciti amministrativi e altri, invece, in illeciti civili.
La manovra attuata con la riforma approvata dal governo il 15 gennaio scorso è doppia. Da un lato, abbiamo la depenalizzazione classica con subentro di sanzioni amministrative (quindi abbiamo sempre una p.a. che punisce, ma senza intaccare la libertà personale e, comunque, fuori dal circuito delle aule penali); dall'altro lato assistiamo a una manovra da gambero: un passo indietro delle autorità penali, per lasciare (criticamente si potrebbe dire: abbandonare) il campo e la vittima a farsi le proprie ragioni in una causa civile per ottenere il risarcimento del danno, salvo, poi, fare un mezzo passo avanti e incassare (o tentare di incassare) una aggiuntiva sanzione punitiva, disposta dal giudice civile a favore dello stato.
I due decreti legislativi (il n. 7 e il n. 8, pubblicati sulla G.U. n. 17 del 22/01/2016) in commento si possono considerare da più punti di vista, ma hanno un tratto in comune: alleggerire il carico di lavoro delle procure e dei tribunali.
A parte questo e, con un occhio agli effetti della riforma, il responsabile scansa condanne ed effetti penali, ma, se viene beccato dalla p.a. (titolata a irrogare la subentrata sanzione amministrativa) oppure se viene condannato a risarcire il danno e a pagare l'aggiuntiva sanzione per il nuovo illecito civile, non è detto che sia un bene, perché la sanzione amministrativa o l'importo del danno, aumentato della sanzione civile, rischia di essere pesante sul portafoglio.
Se però la condotta illecita non emerge (perché la p.a. non la scopre o perché la vittima non promuove un'azione civile), per il responsabile sarà un colpo di spugna.
D'altra parte il successo della deterrenza di una reazione sanzionatoria (penale, amministrativa o civile) dipende dalla effettività della reazione e cioè dal rapporto tra illeciti commessi e illeciti sanzionati. Anche per le sanzioni amministrative e civili, il sistema avrà successo se riuscirà a reagire (e a dare tutela alla collettività e alla vittima) in tutte o quasi tutte le volte, che verrà commesso un illecito. Anzi è proprio questo un argomento a favore delle riforme: il sistema penale non ce la fa e certi illeciti rimangono solo sulla carta, la persona offesa non ne ha alcun beneficio e, anche quando si arriva a una condanna a pena pecuniaria, lo stato, con spese sproporzionate per irrogare la sanzione e organizzare la riscossione, riesce a incassare solo 6/7 euro su 100.
Tanto vale, è la filosofia dei due procedimenti, ottenere almeno un risultato economico: spendere meno risorse per indagini e processi penali; tanto vale scommettere sul fatto che l'autorità amministrativa sarà più efficiente e che il cittadino abbia voglia e soldi per iniziare una causa civile, scommettendo ancora una volta sull'efficienza della giustizia civile.
Certo per misurare l'effettività di una riforma (anzi due) bisognerà attendere un lasso di tempo per potere computare un primo bilancio. Nell'immediato, e senza dover aspettare, ci sono comunque effetti oggettivi. Sono effetti favorevoli ai responsabili coinvolti in procedimenti penali, che traggono vantaggio dalla depenalizzazione (è già un beneficio) e che forse in futuro subiranno una sanzione amministrativa oppure una causa per danni più sanzione civile punitiva.
La sanzione (derubricata) viene rinviata e il responsabile (non solo profitta del rinvio) ma ha già subito un tornaconto nel fatto che non ci saranno conseguenze sul piano dell'onorabilità (la fedina penale non viene toccata: è come prendere una multa per avere parcheggiato in sosta vietata), non si subiranno indagini e processi penali. Per i procedimenti pendenti ci sono effetti sfavorevoli per le vittime: magari avevano la sicurezza che qualcosa si era mosso o che, addirittura, per esempio, il procedimento aveva già prodotto una rinvio a giudizio e ora cade tutto e bisogna, se si vuole ottenere qualcosa, ricominciare da capo.
C'è, poi, dal lavoro da fare per le procure e i tribunali penali: bisogna fare il passaggio di consegne all'autorità amministrativa e comunque chiudere i procedimenti per reati derubricati in sanzioni civili. È l'ultimo atto da compiere (per il sistema penale), anche se ci vorrà un bel po' di tempo, ma lo si farà sapendo che non c'è più un flusso di procedimenti in entrata.
Nell'immediato, per i reati depenalizzati in illeciti amministrativi, le autorità amministrative dovranno gestire (dedicando risorse e personale) il flusso in entrata sia delle pendenze di procure e tribunali sia organizzare l'accertamento e la repressione di fatti commessi dopo la riforma.
Sempre nell'immediato, se la riforma dei reati trasformati in illecito civile avesse followers, ci sarebbe da lavorare per chi ha un ruolo nella soluzione delle controversie civili (avvocati, tribunali civili, organismi di mediazione, ecc.).
Come saranno puniti i reati. Le nuove sanzioni amministrative si articolano in tre fasce:
- da 5.000 a 10.000 euro per i reati puniti con la multa o l'ammenda non superiore nel massimo a euro 5.000;
- da 5.000 a 30.000 euro per i reati puniti con la multa o l'ammenda non superiore nel massimo a 20.000 euro;
- da 10.000 a 50.000 euro per i reati puniti con la multa o l'ammenda superiore nel massimo a 20.000 euro.
In genere si tratta di sanzioni più alte delle precedenti penali. Tuttavia, ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del dlgs non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato. Il procedimento è regolato dalla legge del 1981 n. 689, e quindi la sanzione viene irrogata con una ordinanza ingiunzione. Per i ricorsi contro le ordinanze si applica il dlgs 150/2011.
I procedimenti pendenti. Le sanzioni amministrative sono retroattive: si applicano anche ai reati commessi prima dell'entrata in vigore del dlgs e non ancora giudicati con sentenza definitiva. Tre le ipotesi. La prima è che non sia pendente nessun procedimento. In questo caso il fatto verrà accertato e sanzionato dall'autorità amministrativa con l'applicazione della sanzione amministrativa.
Se il procedimento pendente è già stato definito, prima dell'entrata in vigore della depenalizzazione, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e vengono meno gli effetti penali della stessa.
Se, invece, il procedimento è pendente presso l'autorità giudiziaria e non ancora definito, i fascicoli dovranno essere trasmessi all'autorità amministrativa competente entro 90 giorni. A meno che non sia già decorso il termine di prescrizione del reato. A quel punto l'autorità amministrativa inizia il procedimento per applicare la sanzione pecuniaria amministrativa.
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Derubricazione ma non per tutti i reati.
Sono depenalizzati e scontano una sanzione amministrativa tutte le violazioni (attualmente reato) per le quali è prevista la sola pena della multa o dell'ammenda. Non sono depenalizzati i reati previsti dal codice penale, tranne alcune eccezioni e quelli previsti in alcune leggi speciali, che riguardano settori particolarmente delicati: edilizia e urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica, giochi d'azzardo e scommesse, armi ed esplosivi, elezioni e finanziamento ai partiti, proprietà intellettuale e industriale. Del codice penale sono depenalizzati gli atti osceni (527), pubblicazioni e spettacoli osceni (528), rifiuto di prestazione d'opera in caso di tumulto (652), abuso della credulità popolare (668), turpiloquio (726).
Anche i reati in materia di immigrazione, allo stato, non sono depenalizzati.
Sono depenalizzati tre reati in materia antiriciclaggio previsti dall'art. 55 dlgs 231/2007: contravvenzioni agli obblighi di identificazione della clientela da parte di intermediari, professionisti e revisori, l'omessa o tardiva o incompleta registrazione di tutta la documentazione e di tutte le informazioni, per i 10 anni previsti dalla legge, sulle operazioni (art. 36)e le omesse comunicazioni di cui sono obbligati agenti di cambio, ai mediatori creditizi e agli agenti in attività finanziaria (art. 36).
Sono depenalizzati l'impedito controllo dell'attività di revisione legale, prevista dall'art. 29 dlgs 39/2010 e l'omesso versamento delle ritenute da parte del datore di lavoro, per un importo non superiore a euro 10.000 annui. Più sanzioni amministrative anche per il noleggio di falsi audio, video (in violazione del diritto d'autore) e il reato di guida senza patente (art. 116, comma 15, codice della strada (dlgs 285/92).
Altre fattispecie depenalizzate riguardano l'installazione o l'esercizio di impianti di distribuzione automatica di carburanti per uso di autotrazione in mancanza di concessione e l'inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione per la coltivazione di piante da cui estrarre sostanze stupefacenti.
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Ristoro al cittadino e allo stato. Se la vittima ottiene il risarcimento in sede civile, il giudice tiene conto anche dell'Erario.
Illecito civile con strascico punitivo dello stato. Il decreto legislativo sulla abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, approvato dal governo il 15.01.2016, introduce un istituto ibrido.
C'è un fatto, che è valutato negativamente dalla legge, ma il rimprovero al trasgressore scatta solo se il privato prende l'iniziativa di chiedere i danni in un processo civile. E fin qui nulla di diverso da quanti capita in una normale richiesta danno. Per i reati depenalizzati, c'è una coda. Se arriva una condanna al risarcimento del danno, allora lo stato torna in pista: il giudice civile, che ha liquidato il danno, deve anche ricordarsi dell'Erario e condannare il responsabile a pagare una sanzione a favore delle casse pubbliche.
In sostanza la vittima è padrona di decidere se fare o non fare la causa al trasgressore, cosicché l'interesse pubblico a sanzionare una certa condotta è subordinato all'iniziativa del privato.
Con la conseguenza che se il privato non fa nulla, allo stesso modo lo stato non muoverà un dito.
La sorte dei reati depenalizzati si valuterà a consuntivo. Da subito, però, la vittima perderà la possibilità di attivare una tutela pubblica (quella penale): nel confronto con l'aggressore la vittima non potrà contare sul fatto che lo stato, attivato ad esempio da una querela, disponga dei mezzi e della forza pubblica a sua difesa. Anzi è la persona offesa che farà da apripista alla tutela di un interesse pubblico.
Quindi l'interesse offeso dal reato depenalizzato è pubblico (tanto che la sanzione è incamerata dallo stato), ma non a tal punto da giustificare l'utilizzo della magistratura penale per le indagini e la repressione. Vediamo a quali reati si applica questo cambio dei connotati.
Un primo gruppo di illeciti è punito con la sanzione pecuniaria civile da 100 a 8.000 euro (che si aggiunge al risarcimento del danno).
Si tratta dell'ingiuria, anche con il mezzo informatico o telematico: la commette chi offende l'onore o il decoro di una persona presente, o mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. Si tratta anche della sottrazione di cosa comune, commessa da un comproprietario, socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, si impossessa della cosa comune sottraendola a chi la detiene, salvo che il fatto sia commesso su cose fungibili e il valore di esse non ecceda la quota spettante al suo autore. Di questo primo gruppo fanno anche parte il danneggiamento di cose mobili o immobili e l'appropriazione di cose smarrite o ricevute per errore o caso fortuito.
Un secondo gruppo di illeciti civili è punito con una più grave sanzione pecuniaria, da 200 a 12.000 euro. Si tratta di falsità nelle scritture private, dell'abuso di un foglio firmato in bianco, della distruzione di una scrittura privata vera, dell'ingiuria, mediante nell'attribuzione di un fatto determinato o commessa in presenza di più persone.
Gli illeciti di falso nelle scritture private saranno sanzionati anche quando riguardano un documento informatico privato con efficacia probatoria.
Applicazione. Le nuove disposizioni sulle sanzioni pecuniarie civili del decreto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data della sua entrata in vigore, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.
Così il decreto legislativo, che però apre molti problemi pratici con riferimento alle violazioni commesse anteriormente alla entrata in vigore del decreto legislativo in commento. Il decreto non chiarisce le modalità attraverso le quali il giudizio penale in corso sia dichiarato estinto e, se del caso, convertito in un procedimento civile per il risarcimento e le sanzioni civili. Potrebbe infine essere disciplinata anche l'ipotesi residuale di giudizi civili per azioni risarcitorie in corso, riferite a reati già definiti con sentenza irrevocabile.
Si aggiunge, però, che, i problemi della norma transitoria riguardano le sole sanzioni da pagare allo stato. Nei limiti del termine di prescrizione, l'interessato potrà sempre iniziare una causa civile per ottenere il risarcimento del danno, a prescindere dal fatto che possano o meno applicarsi le sanzioni pecuniarie civili.
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Per la sanzione pecuniaria civile non è ammessa copertura assicurativa.
Le sanzioni pecuniarie civili saranno applicate dal giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno. Il giudice deciderà, d'ufficio, sull'applicazione della sanzione al termine del giudizio, se accoglierà la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa.
I lavori preparatori ricordano che l'azione di risarcimento può essere accolta anche nel caso in cui la condotta sia colposa: in tale ipotesi non è applicabile la sanzione punitiva civile. La sanzione pecuniaria civile non può essere applicata nemmeno quando il processo è iniziato senza che si abbia la certezza che il responsabile abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento.
Al procedimento, anche ai fini della irrogazione della sanzione pecuniaria civile, si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili. Questo porterà a qualche problema applicativo, ad esempio per il regime delle prove.
Nel giudizio civile il giudice può dare ragione a una parte se l'altra non contesta i fatti o su basi presuntive: ci si chiede se questo sarà sufficiente anche a giustificare una sanzione pubblicistica (sostitutiva di quella penale) e forse meritevole di un più alto grado di garanzie per l'incolpato.
Cosa cambia. Rispetto alla normativa mandata in soffitta cambiano molte cose. In particolare prima si poteva andare dalla polizia e sporgere querela e, poi, chiedere i danni nel procedimento penale. Venendo a mancare il canale della tutela penale, la vittima non può più sporgere querela o denuncia, ma deve iniziare una causa civile. Nella causa civile dovrà dare prova del danno e dovrà provare i fatti posti a base della domanda.
Se il fatto è di poco conto, magari la persona offesa sarà portata a lasciar perdere, disincentivata da costi e tempi della giustizia civile.
Se così sarà il responsabile la farà franca.
A chi vanno i soldi. Mettiamo che il privato si attivi e che, per un fatto doloso, si arriva alla condanna al risarcimento del danno e al pagamento della sanzione pecuniaria.
I soldi della sanzione civile vanno all'Erario pubblico. La relazione illustrativa riferisce che il governo, tra le diverse opzioni possibili (destinazione dei proventi allo stato, destinazione dei proventi alla persona offesa dall'illecito, destinazione dei proventi in parte allo stato e in parte alla persona offesa), ha optato per la destinazione pubblicistica, in considerazione della funzione generale preventiva e compensative a sottesa alla minaccia della sanzione pecuniaria civile nonché della vocazione pubblicistica di quest'ultima.
Sarà un decreto del ministro della giustizia da emanarsi entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto legislativo a stabilire termini e modalità per il pagamento della sanzione pecuniaria civile.
Il giudice civile potrà disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che il pagamento della sanzione pecuniaria civile sia effettuato in rate mensili (non inferiori a 50 euro) da due a otto. In ogni caso, il condannato può estinguere la sanzione civile pecuniaria in una unica soluzione in qualsiasi momento.
Per il pagamento della sanzione pecuniaria civile non è ammessa la copertura assicurativa. Anche se nei dossier parlamentari, relativi ai lavori preparatori, si osserva che non sono previste misure sanzionatorie per chi contravvenga a tale divieto, né a carico dei singoli né a carico di assicurazioni. L'obbligo di pagamento delle sanzioni punitive civile, al contrario di quello al risarcimento del danno, non si trasmette agli eredi.
Chi paga. Obbligato a pagare allo stato la sanzione pecuniaria è la persona condannata al risarcimento del danno per fatto doloso.
Se il fatto è commesso da più persone, ciascuna di esse è obbligata a pagare la sanzione pecuniaria civile, che non si suddivide.
Quanto si paga. La forbice è molto ampia. Per un gruppo di illeciti (ingiuria, sottrazioni di cose, danneggiamenti) si va da 100 a 8 mila euro. Per i fatti relativi alle scritture private false, all'ingiuria aggravata si va da 200 euro a 12 mila euro.
Il giudice avrà un ampio potere discrezionale, ma dovrà attenersi ad alcuni parametri generali. Dovrà tenere conto di: gravità della violazione; reiterazione dell'illecito; arricchimento del soggetto responsabile; opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell'illecito; personalità dell'agente; condizioni economiche dell'agente.
Si ha reiterazione quando l'illecito civile sia compiuto entro quattro anni dalla commissione di un'altra violazione sottoposta a sanzione pecuniaria civile, che sia della stessa indole e che sia stata accertata con provvedimento esecutivo.
Per poter contestare la reiterazione si consulterà (una volta varato) registro automatizzato in cui siano iscritti i provvedimenti di applicazione delle sanzioni pecuniarie civile: sul punto si attende un decreto del ministro della giustizia (articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: False presenze, la flagranza legittima il licenziamento. Le novità contro i «furbetti» negli enti pubblici al test dello Statuto dei lavoratori.
Le nuove norme appena varate per combattere i «furbetti del cartellino» potrebbero essere vanificate dallo Statuto dei lavoratori, laddove la fragranza di reato sarà scoperta con l'utilizzo di sistemi di video sorveglianza il cui utilizzo è disciplinato dall'articolo 4 dello Statuto, recentemente riscritto dal Jobs act.
Partiamo dai provvedimenti approvati. Con uno degli schemi di decreto legislativo per la riforma della p.a., il governo interviene direttamente sul procedimento disciplinare applicabile al caso della «falsa attestazione della presenza in servizio», meglio nota alle cronache come i «furbetti del cartellino». Cos'è cambiato rispetto all'attuale regime, che peraltro resta in vigore per tutte la altre fattispecie rilevanti a livello disciplinare? Molto. Modificando l'art. 55 del dlgs 30.03.2001 n. 165 il procedimento disciplinare definisce l'iter da seguire per giungere al licenziamento del dipendente colto in flagranza.
I punti cardine del provvedimento sono diversi. Eccoli nello specifico. In primo luogo, risponderanno disciplinarmente oltre all'autore del comportamento illecito anche coloro che hanno agevolato con condotte omissive o attive la perpetuazione della violazione. Una volta accertata la violazione, il responsabile della struttura ha l'obbligo di sospendere il lavoratore entro le 48 ore successive.
L'eventuale vizio «formale» consistente nel mancato rispetto del termine non comporta la decadenza dell'azione disciplinare. Vi sarà invece, la responsabilità, anche disciplinare, del dipendente che ha cagionato tale vizio procedurale.
Il procedimento disciplinare dovrà esaurirsi nel termine dei 30 giorni. Laddove vi siano i presupposti per il riconoscimento di danni ulteriori, si potrà procedere alla deduzione di essi e successivamente all'azione di responsabilità nei confronti dell'ex dipendente che dovrà rimborsare allo Stato i danni ulteriori, come la reputazione e l'immagine derivanti dalla sua condotta illecita. Viene introdotta l'omissione di atti d'ufficio: il responsabile di servizio competente che non procede ove necessario al procedimento disciplinare nei confronti del dipendente colto in fragranza, sarà responsabile del reato di «omissione di atti d'ufficio».
Per la fattispecie di «falsa attestazione della presenza in servizio» accertata «in flagranza» ovvero «mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o della presenza», vi sarà una procedura più snella, più veloce, obbligatoria, foriera di responsabilità anche risarcitoria, e ciò anche per coloro che abbiano agevolato con la loro condotta attiva od omissiva, la perpetuazione del comportamento fraudolento.
Ci saranno sicuramente temi giuridici da affrontare prima di poterne apprezzare gli effetti e le tenute della nuova norma: l'introduzione del concetto «penalistico» della flagranza, la fruibilità delle registrazioni come prove processuali e altro ancora.
Se da un punto di vista dell'efficacia giuridica dovremo aspettare gli esiti degli eventuali contenziosi, possiamo comunque affermare che sotto il profilo della deterrenza, lo schema di decreto ha certamente un efficace impatto.
L'introduzione dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare, unitamente alla denuncia dei fatti al pubblico ministero per l'esercizio della relativa azione penale e la segnalazione alla Corte dei conti per l'eventuale azione di responsabilità per danni all'immagine della pubblica amministrazione, hanno decisamente il loro peso.
E ancora, è stata introdotta una norma in assenza della quale vi sarebbe stata la vanificazione dell'intero impianto normativo: la previsione dell'esonero dalla responsabilità erariale del dirigente in caso di annullamento del licenziamento da parte del giudice adito dal dipendente.
In tal senso, infatti, non si può nascondere il fatto che gran parte dei procedimenti disciplinari nella pubblica amministrazione non sono partiti o non si sono conclusi con sanzioni proprio perché i dirigenti o i responsabili del servizio temevamo di essere sottoposti al giudizio della Corte dei conti per i danni conseguenti ad un giudizio di illegittimità del licenziamento.
Questo tema è strettamente collegato al più ampio dibattito circa l'applicazione del rinnovato art. 18 dello Statuto dei lavoratori e delle tutele crescenti anche nell'ambito della pubblica amministrazione e, più in generale al dibattito circa la «certezza» del diritto e, soprattutto, alla certezza della «pena».
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Modalità di controllo scriminante.
Il meccanismo attraverso il quale si giunge ad accertare il comportamento illecito del dipendente, alla luce delle norme attuali, diventa una discriminante fondamentale per l'efficacia dei provvedimenti appena approvati.
La formulazione della norma introduce il concetto di flagranza, principio di derivazione penalistica ed afferente alla perpetuazione di reati.
Chiarito che la fattispecie tipica di flagranza si realizza allorquando il dipendente viene colto in modo diretto e attuale nell'atto di violare la normativa, il tema si deve spostare alla verifica da «remoto».
Tale verifica, come sappiamo, avviene attraverso l'utilizzo normalmente di sistemi di video sorveglianza il cui utilizzo è disciplinato dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori che, peraltro, è stato recentemente ritrascritto ad opera di uno dei decreti del Jobs act.
Ed è proprio in questa materia che potremmo avere, nonostante tutto, ciò che è stato detto delle risultanze processuali e giudiziali di segno opposto rispetto alla necessità dell'allontanamento dei «furbetti».
Non sarebbe il primo caso che, nonostante amplia documentazione mediatica e mediaticamente spesa circa l'evidente comportamento illecito di lavoratori (esempio: lavoratori che rubano dalle valigie dei passeggeri, lavoratori che timbrano e se ne vanno, lavoratori che durante la malattia vanno a fare corse e maratone, e così via), la verità processuale non consente la dichiarazione di legittimità del licenziamento.
Ciò perché, ad esempio, le prove raccolte non possono trovare ingresso all'interno del processo magari perché raccolte in violazione della normativa vigente.
Strettamente collegato a tale aspetto vi è poi la considerazione di natura organizzativa, gestionale ed economica circa i costi derivanti dalla applicazione di controlli come quelli del «caso di Sanremo».
Questo esempio pone in luce come il tempo necessario a definire il procedimento disciplinare sia in realtà quasi irrilevante rispetto ai due anni che l'autorità giudiziaria ha impiegato per raccogliere le informazioni: non vi è chi non possa vedere lo squilibrio e l'insostenibilità di un simile sistema.
Allora il tema passa dalla velocità o meno del procedimento alla semplificazione delle modalità di reperimento delle informazioni volte ad accertare il compimento di atti illeciti da parte dei lavoratori sul luogo di lavoro.
In questo tema entrano in gioco i sindacati e la volontà vera e reale di tentare di arginare tali fenomeni. Sotto questo profilo, ad avviso di chi scrive, una differenza tra «pubblico» e «privato» c'è: i dipendenti della pubblica amministrazione sono pagati con denaro pubblico e pertanto forse una qualche eccezione anche dal punto di vista del «controllo della prestazione» si potrebbe immaginare (articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

TRIBUTIImu, agevolazioni su misura. Riduzioni per immobili in comodato e canone concordato. Le misure della legge di Stabilità. Vincoli per i comuni sugli aumenti delle tariffe.
I titolari degli immobili dati in comodato d'uso gratuito a parenti in linea retta destinati ad abitazione principale pagano Imu e Tasi in misura ridotta.

L'articolo 1 della legge di Stabilità 2016 (208/2015) abolisce il potere di assimilazione dei comuni e prevede una riduzione del 50% della base imponibile. Trattamento agevolato anche per gli immobili locati a canone concordato, per i quali è concessa una riduzione per entrambi i tributi del 25%.
Mani legate invece per i comuni, ai quali viene sottratto per il 2016 il potere di aumentare aliquote e a tariffe limitatamente alle entrate tributarie, con l'unica eccezione rappresentata dalla tassa rifiuti. Non sono soggetti a questo vincolo gli enti che sono in stato di predissesto o dissesto.
Comodato gratuito. I fabbricati dati in comodato a parenti in linea retta entro il primo grado (padre/figlio) non possono più essere assimilati con regolamento comunale all'abitazione principale. È stato infatti abrogato il comma 2 dell'articolo 13 del dl 201/2011, laddove prevedeva che le amministrazioni comunali potessero assimilare alle prime case le unità immobiliari concesse in comodato gratuito dal titolare ai parenti in linea retta entro il primo grado. L'agevolazione, però, operava limitatamente alla quota di rendita risultante in catasto non eccedente il valore di 500 euro o se il comodatario faceva parte di un nucleo familiare con un Isee non superiore a 15 mila euro annui.
L'articolo 1, comma 10, della legge di Stabilità, dunque, sottrae ai comuni il potere regolamentare di assimilare i suddetti immobili alle prime case e introduce una nuova tipologia di agevolazione che produce effetti sia per la Tasi sia per l'Imu. I beneficiari possono fruire di una riduzione della base imponibile Imu, che è la stessa dell'imposta sui servizi indivisibili, nella misura del 50%, purché sussistano le condizioni richieste dalla norma. Nello specifico, il comodante deve avere la residenza anagrafica e la dimora nel comune in cui è ubicato l'immobile concesso in comodato. Oltre all'immobile concesso in comodato, può essere titolare di un altro immobile nello stesso comune, che deve essere utilizzato come propria abitazione principale, purché non si tratti di un fabbricato di pregio, classificato nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 (immobili di lusso, ville e castelli). Quest'ultimo requisito è imposto anche per l'unità immobiliare data in comodato. Dalla formulazione letterale della norma emerge che i vincoli sono molto stringenti.
Si discute in questi giorni sul limite di legge che porta a escludere il beneficio qualora il comodante possieda un altro immobile o comunque una quota di possesso e viene auspicato un intervento ministeriale per superare questa previsione. In realtà la disposizione, pur essendo quantomeno discutibile, è piuttosto chiara e non è consentito andare oltre il suo tenore letterale. Le disposizioni di legge che prevedono agevolazioni, secondo l'insegnamento della Cassazione, sono di stretta interpretazione. Quindi, neppure al Ministero dell'economia è consentito fornire interpretazioni estensive o arbitrarie. Il possesso di altri immobili, e in questa nozione rientrano non solo i fabbricati, ma anche le aree edificabili e i terreni agricoli, al di là dell'uso cui sono destinati, anche in presenza di una piccola quota di possesso (per esempio, il 10% di un'area edificabile) è di impedimento a potere godere del trattamento agevolato.
Il comodante, inoltre, è tenuto a indicare nella dichiarazione Imu il possesso dei requisiti anche in capo al comodatario e deve registrare il contratto.
Francamente questo adempimento risulta eccessivo. Sarebbe stato sufficiente richiedere una scrittura privata autenticata, per assicurare la certezza della data di decorrenza del contratto e, per l'effetto, dell'agevolazione fiscale. La registrazione del contratto di comodato, tra l'altro, pone a carico del contribuente degli oneri. Infatti, il titolare dell'immobile è obbligato a versare al fisco l'imposta fissa di registro che ammonta a 200 euro.
Immobili a canone concordato. Trattamento agevolato anche per gli immobili locati a canone concordato. I commi 53 e 54 della legge di Stabilità dispongono uno sconto del 25% sia per l'Imu che per la Tasi. Entrambe le disposizioni citate richiamano la legge 431/1998, che contiene la disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti a uso abitativo. A prescindere dal fatto che i comuni prevedano per questi fabbricati un'aliquota ordinaria o agevolata, una volta calcolate le imposte, va versato solo il 75% del loro ammontare.
Aliquote e tariffe 2016. L'articolo 1, comma 26, della legge di Stabilità 2016 (208/2015) non consente di introdurre nuovi tributi, per esempio l'imposta di soggiorno o l'addizionale comunale Irpef, se già non istituiti con regolamento comunale negli anni precedenti. È previsto il blocco dei tributi, che impedisce aumenti di aliquote e tariffe e delle addizionali per il 2016, a prescindere dal momento in cui siano state adottate le relative delibere. Non rientra nel blocco solo la Tari, il cui gettito serve a coprire integralmente il costo del servizio di smaltimento rifiuti. Possono deliberare gli aumenti di aliquote e tariffe solo gli enti locali che deliberato il predissesto o il dissesto.
In ordine agli effetti del blocco, in passato si è espressa la Corte dei conti, sostenendo che è preclusa, per l'appunto, anche l'istituzione di nuovi tributi (imposta di scopo, imposta di soggiorno, imposta di sbarco, addizionale Irpef). La ratio legis è quella di impedire l'introduzione di nuovi balzelli per evitare un aumento dell'imposizione a livello locale. Peraltro, non solo è impossibile ritoccare in aumento aliquote o tariffe, ma è anche escluso che possano essere aboliti benefici già deliberati dagli enti (riduzioni di aliquote, detrazioni), che comunque inciderebbero sul carico fiscale e darebbero luogo a un innalzamento della tassazione.
Questi vincoli, però, non producono effetti per le entrate che hanno natura patrimoniale o extratributaria. Al riguardo, dubbi e incertezze sono emerse sulle entrate che devono sottostare al divieto imposto dalla legge e questo dipende anche dalla loro controversa natura. Tuttavia, va ricordato che il canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap) ha natura patrimoniale. In questo senso si è espressa la Corte costituzionale con la sentenza 64/2008. Sono entrate patrimoniali anche il canone idrico e il canone depurazione.
Non è ammesso l'aumento delle tariffe, invece, per il canone installazione mezzi pubblicitari (Cimp) che, nonostante la trasformazione da imposta a canone eventualmente operata dall'amministrazione comunale, mantiene la sua natura tributaria. La qualificazione giuridica di entrata fiscale è stata riconosciuta al Cimp sempre dalla Consulta. Soggiace al blocco anche il diritto sulle pubbliche affissioni (articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, autocompost allargato. Attività estesa ai residui di provenienza non domestica. In vigore dal 02.02.2016 le nuove eco-regole previste dalla legge 221/2015.
Dal 02.02.2016 entrano a far parte dell'Ordinamento giuridico le attese e nuove norme ambientali previste dall'oramai noto «Green Economy» in materia, tra le altre, di gestione dei rifiuti, tutela delle acque, appalti pubblici verdi.

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 18.01.2016 (n. 13) della legge 28.12.2015 n. 221 recante «Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali» è infatti scattato il periodo di vacatio legis che porterà all'entrata in vigore delle nuove eco-regole alla suddetta data, sebbene l'effettiva efficacia di alcune norme in materia di rifiuti potrebbe slittare al 2017.
Gestione dei rifiuti. Le novità interessano il tracciamento dei residui, la gestione di particolari categorie di residui e la conduzione di alcune operazioni (si veda l'anticipazione su ItaliaOggi Sette del 04/01/2016). Tra le norme in materia di tracciamento che appaiono svolgere la loro efficacia fin dall'entrata in vigore del «Green Economy» vi sono quelle semplificative (assolvimento obblighi di tenuta registri, Mud e Sistri tramite conservazione formulari di trasporto) che attraverso la rivisitazione del dl 201/2011 vengono confermate (alla luce della nuova disciplina su tracciamento telematico) per il comparto benessere ed allargate (dal punto di vista oggettivo) a tutti i rifiuti pericolosi e (da quello soggettivo) agli imprenditori agricoli.
Meno evidente è invece il termine di efficacia delle nuove regole, parimenti semplificative, per la tenuta dei formulari di trasporto da parte delle imprese agricole e per quella dei registri di carico/scarico da parte dei manutentori d'impianti idrici che con la novella del dlgs 152/2006 sono delegabili a terzi.
La nuova legge modifica infatti sul punto gli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006, senza tuttavia specificare quale delle loro ultime due versioni, ossia se quella precedente alla riformulazione effettuatane dal dlgs 205/2010 (da osservare, in base al c.d. «regime transitorio Sistri», fino al prossimo 31.12.2016) oppure quella riscritta da quest'ultimo (efficace solo a partire dal 01.01.2017, in virtù delle stesse norme transitorie).
Nel silenzio del Legislatore, salvi suoi successivi interventi di chiarimento e/o interpretazione, il principio della successione di leggi nel tempo appare suggerire che la novella apportata dal Green economy incide sulla versione degli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 come modificati (ratione temporis) dal suddetto dlgs 205/2010 (in vigore già dal 31.10.2013) ma la cui efficacia è stata come accennato congelata (ad opera del dl 210/2015, c.d. «Milleproroghe 2016») fino al 31.12.2016.
Stessa considerazione sembra poter essere effettuata sulla stretta operata dal Green economy in relazione alla gestione dei rifiuti metallici ferrosi e non ferrosi, che con la modifica dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 (anch'esso modificato dal citato dlgs 205/2010, con parallelo slittamento di efficacia) dovrà essere dai produttori essere affidata unicamente a professionisti.
Efficacia contestuale all'entrata in vigore del Green Economy appare invece investire le disposizioni in materia di terre e rocce da scavo (che non riguarderanno i materiali lapidei e litolidi provenienti da attività dell'industria estrattiva) e le mini sanzioni inserite nell'articolo 255 del dlgs 152/2006 per l'abbandono di «piccolissimi» rifiuti (quali i prodotti da fumo, scontrini, fazzoletti di carta, gomme da masticare) sul suolo, nelle acque e negli scarichi.
Efficaci sempre dal febbraio 2016 saranno le disposizioni sull'allargamento dell'autocompostaggio ai residui di provenienza non domestica (con parallela riduzione, come per l'utenza domestica, della tariffa rifiuti) e quelle semplificatorie sul compostaggio effettuato da terzi, nonché quelle che (novellando il dlgs 36/2003) riformulano la disciplina sul conferimento in discarica di rifiuti (con una stretta sulle deroghe all'obbligo di preventivo trattamento e l'abolizione definitivo del divieto di avviare a tale smaltimento rifiuti con «Pci» superiore a 13mila kJ/kg).
Sempre dall'entrata in vigore del Green Economy il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (cd. «eco-tassa») previsto dalla legge 549/1995 (recante norme di razionalizzazione delle finanza pubblica) sarà esteso ai rifiuti inviati agli impianti di incenerimento senza recupero energetico.
Efficacia dal 02.02.2016 anche per le norme che consentono il riutilizzo come ammendanti e fertilizzanti dei rifiuti in plastica compostabile certificata Uni En 13432:2002, compresi i prodotti sanitari assorbenti non provenienti da ospedali e assimilati, previo (se necessario) processo di sanificazione novità che arrivano con la modifica del dlgs 75/2010 nella parte in cui indica i rifiuti urbani impiegabili previo trattamento come materiali da aggiungere al suolo per conservarne o migliorarne le caratteristiche.
Tutela delle acque. Mediante la modifica dell'articolo 101 del dlgs 152/2006 il Green Economy assimila fin da subito alle acque reflue domestiche ai fini dello scarico in pubblica fognatura quelle di vegetazione da frantoi oleari, purché generate da olive prodotte in regione da aziende site in terreni ostativi a smaltimento tramite fertirrigazione e irrigazione, previo trattamento per assicurare il rispetto di valori limite locali e salvo bando del Gestore locale per criticità del sistema di depurazione.
Stretta da febbraio 2016 sulla responsabilità per il trasporto su acque di beni a potenziale inquinante, laddove con la modifica della legge 979/1982 in materia di difesa del mare si dispone invece l'obbligo per il proprietario del carico di munirsi di idonea polizza assicurativa per la copertura integrale dei rischi anche potenziali.
Appalti pubblici verdi. Attraverso la modifica dell'attuale Codice appalti (dlgs 163/2006, destinato nel medio periodo ad essere sostituito dai nuovi provvedimenti di adeguamento alle ultime norme Ue in materie di approvvigionamento delle p.a.), la nuova legge 221/2015 spinge fin da subito sull'acquisto di beni e servizi verdi da parte degli uffici pubblici, da un lato rendendo più appetibile per le imprese che li offrono la partecipazione alle gare, dall'altro rafforzando gli eco-criteri che le stazioni appaltanti dovranno osservare per la scelta dei loro fornitori.
Sotto il primo profilo sono previsti sconti (fino al 30%) sulle cauzioni da fornire in sede di partecipazione a gare pubbliche per le imprese fornite di certificazione Emas (il marchio comunitario che garantisce la qualità ambientale dell'azienda), Ecolabel (che garantisce i prodotti offerti) o Iso di settore.
Sotto il secondo profilo viene invece sancito (in primo luogo) che, in caso di utilizzo del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, il bando di gara debba prevedere tra i criteri di valutazione (per i beni quanto per i servizi) oltre quelli già previsti (caratteristiche ambientali e contenimento di consumi energetici e risorse ambientali) anche: il possesso del marchio Ecolabel per almeno il 30% dei prodotti; la considerazione dell'intero ciclo di vita del bene o del servizi; la compensazione delle emissioni di gas serra dell'azienda calcolate secondo raccomandazione 2013/179/Ue.
Ancora, viene trasformata da discrezione in vero e proprio obbligo per la p.a. il fondare gli appalti sui criteri ambientali elaborati (ed elaborandi) dal Minambiente in relazione a specifiche categorie di prodotti sulla base del dm 11.04.2008 (come recentemente aggiornato dm 25.07.2011), prodotti tra cui attualmente figurano: lampade; servizi energetici per edifici; attrezzature elettriche ed elettroniche d'ufficio; carta per copia; ristorazione collettiva; servizi di igiene e pulizia; prodotti tessili ed arredi d'ufficio; servizi di gestione di rifiuti urbani e verde pubblico; cartucce e toner per stampanti (articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO - VARIDepenalizzazione dal 6 febbraio. Dalle omesse ritenute all’ostacolo ai revisori: 40 reati fuori dal penale.
Sanzioni. In «Gazzetta Ufficiale» i decreti sull’operazione: misure applicabili anche ai processi in corso.

Pacchetto depenalizzazione al via dal 6 febbraio. I due decreti legislativi, numeri 7 e 8 (il primo sull'abrogazione di reati e sostituzione con sanzioni civili, il secondo con la depenalizzazione vera e propria), sono stati pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 17 con la data del 22 gennaio.
Così tra 15 giorni un nutrito numero, circa una quarantina, di reati (tra cui le omesse ritenute entro i 10 mila euro, l’ostacolo ai revisori, la coltivazione di stupefacenti per fini terapeutici, le ingiurie) non dovrà più essere oggetto dell’attenzione delle Procure per essere invece dirottato a vario titolo sul versante amministrativo.
Merita però una particolare attenzione la fase transitoria: per quanto riguarda la depenalizzazione, si prevede che la sostituzione di sanzioni penali con misure amministrative si applica anche alle violazioni commesse anteriormente al 6 febbraio, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili. Se i procedimenti penali per i reati depenalizzati sono stati definiti, prima del 6 febbraio, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione è tenuto a revocare la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Inoltre, ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato; a questi fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal decreto, a meno che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie.
L’autorità giudiziaria, entro il prossimo 6 maggio, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente, a seconda dell’illecito oggetto di contestazione, degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi. Salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data.
Se l’azione penale non è stata ancora esercitata, la trasmissione degli atti è disposta direttamente dal pubblico ministero che, in caso di procedimento già iscritto, annota la trasmissione nel registro delle notizie di reato. Se il reato risulta estinto per qualsiasi causa, il pubblico ministero richiede l’archiviazione; la richiesta ed il decreto del giudice che la accoglie possono avere ad oggetto anche elenchi cumulativi di procedimenti.
Se l’azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti. Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che riguardano interessi civili.
L’autorità amministrativa notifica gli estremi della violazione agli interessati; entro 90 giorni è possibile l’ammissione al pagamento in misura ridotta, pari alla metà della sanzione, oltre alle spese del procedimento.
Per quanto riguarda invece il secondo decreto, diverso è il meccanismo: prevede sì la cancellazione di alcuni reati, ma aggiunge alla sanzione amministrativa il risarcimento del danno. La persona offesa potrà ricorrere al giudice civile per il risanamento del danno; il magistrato, accordato l’indennizzo, per alcuni illeciti stabilirà anche una sanzione pecuniaria che sarà incassata dall’erario dello Stato.
Con decreto del ministro della Giustizia, di concerto col Mef, saranno stabiliti termini e modalità per il pagamento della sanzione pecuniaria civile e forme per la riscossione dell’importo. Il giudice può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che il pagamento della sanzione pecuniaria civile sia effettuato in rate mensili da 2 a 8. Ogni rata non può essere inferiore a 50 euro. Il condannato può estinguere la sanzione civile pecuniaria in ogni momento, mediante un unico pagamento. Per il pagamento della sanzione pecuniaria civile non è ammessa alcuna forma di copertura assicurativa
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: In azienda spiate à gogo. Obbligo di segnalazione a tutti i livelli. La pdl sul «whistleblowing» imporrà la revisione dei modelli 231.
Segnalare in modo circostanziato gli illeciti che, in buona fede, si ritiene siano stati compiuti in azienda sarà obbligatorio. Non solo per il management, ossia coloro che svolgono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione della società, ma anche per i dipendenti e i collaboratori.
L'identità dell'autore della soffiata dovrà rimanere segreta, al pari dell'informazione rivelata. E sarà vietato qualunque atto discriminatorio, diretto o indiretto, nei confronti del segnalante, salvo il caso in cui i soggetti accusati debbano difendersi dai reati di diffamazione o calunnia. Chi discriminerà l'autore delle soffiate andrà incontro a sanzioni disciplinari.

Così cambieranno i modelli organizzativi 231, finalizzati alla prevenzione dei reati nelle aziende, se la proposta di legge sul «whisteblowing», approvata giovedì in prima lettura dalla camera (si veda ItaliaOggi di ieri e di giovedì 21 gennaio) sarà confermata anche al senato.
La proposta (Atto Camera n. 3365), presentata dal Movimento 5 Stelle (prima firmataria l'onorevole Francesca Businarolo) e poi recepita in commissione dal Pd, introduce nel nostro ordinamento l'istituto di origine anglosassone del «whisteblowing», sperimentato con successo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Nazioni dove è assicurata massima tutela a chi segnala gli illeciti compiuti in ambito lavorativo.
L'istituto, concepito inizialmente in ambito pubblicistico come deterrente per la commissione dei più frequenti reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato), è stato potenziato nel corso dell'esame parlamentare non solo incrementando i poteri dell'Anac, (l'Autorità anticorruzione) a cui spetterà vigilare che l'autore della soffiata non subisca discriminazioni, ma anche, come detto, estendendo le tutele anche al privato.
In entrambi i settori potranno godere delle protezioni previste per i «whistleblower» non solo i dipendenti, ma anche i collaboratori che a vario titolo lavorano per l'amministrazione o per l'azienda.
Per quanto riguarda gli statali, la denuncia potrà essere fatta al responsabile della prevenzione della corruzione dell'ente di appartenenza, all'Anac, all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti. In caso di atti discriminatori l'Anac potrà applicare all'autore della condotta una sanzione amministrativa pecuniaria, da 5.000 a 30.000 euro.
Nel settore privato, invece, l'adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni potrà essere denunciata all'Ispettorato nazionale del lavoro dallo stesso «whistleblower» o dai sindacati. Così recita la proposta di legge che introduce modifiche ad hoc al dlgs n. 231/2001.
Il provvedimento prevede la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio operato nei confronti dell'autore della segnalazione. Saranno nulli gli atti di demansionamento contro il lavoratore. Quando vi siano elementi che facciano pensare a un licenziamento di natura ritorsiva, spetterà al datore di lavoro l'onere di provare la legittimità del comportamento dell'azienda (articolo ItaliaOggi del 23.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Procedimenti. Tempi dimezzati su richiesta.
Dimezzamento dell'iter dei procedimenti amministrativi su richiesta. Per usufruire della riduzione dei tempi fino al 50%, ciascun ente locale potrà individuare ogni anno, entro il 31 gennaio, gli insediamenti produttivi, le opere di interesse generale, le infrastrutture strategiche o le attività imprenditoriali suscettibili di produrre effetti positivi sull'economia e chiedere alla presidenza del consiglio il dimezzamento dei termini dei relativi procedimenti.

Entro il 28 febbraio palazzo Chigi potrà completare l'elenco di progetti da accelerare ed entro il 31 marzo tutti gli interventi ammessi a godere della corsia preferenziali saranno individuati con dpcm.
Il dlgs sull'accelerazione e la semplificazione dei procedimenti amministrativi, approvato in via preliminare dal governo nel consiglio dei ministri di mercoledì, chiama in causa gli enti locali che avranno un ruolo attivo nella individuazione dei progetti da velocizzare. Non solo. In caso di mancato rispetto dei termini, assegna al sindaco o al presidente di regione un ruolo attivo per sveltire le pratiche.
La presidenza del consiglio, previa deliberazione del consiglio dei ministri, potrà infatti delegare agli amministratori locali l'esercizio del potere sostitutivo per velocizzare i procedimenti su insediamenti produttivi, opere e attività imprenditoriali di interesse esclusivo, o prevalente, della regione, del comune o della città metropolitana.
Come detto, la riduzione dei tempi potrà arrivare fino al 50% e potrà essere prevista in riferimento ai singoli procedimenti oppure al complesso dei procedimenti necessari per la realizzazione dell'intervento, anche successivi all'eventuale svolgimento della conferenza dei servizi. Nel caso in cui il termine sia già parzialmente decorso, la riduzione, si legge nel decreto, opererà con riferimento al periodo successivo.
Per l'esercizio del potere sostitutivo sia palazzo Chigi che gli enti locali potranno avvalersi di personale in possesso di elevate competenze tecniche, ma senza ulteriori oneri per il bilancio dello stato (articolo ItaliaOggi del 23.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Scia allo sportello unico. E un modello standard di segnalazione. Il Consiglio dei ministri vara il dlgs con la nuova disciplina di inizio attività.
Sportello unico per la Scia; modello unico standardizzato; rinvio a successivi decreti per l'individuazione dei singoli procedimenti sottoposti a Scia, silenzio-assenso e autorizzazione; per tutti gli altri procedimenti basterà la sola comunicazione.

È quanto prevede lo schema di decreto attuativo della riforma della p.a. approvato dall'ultimo Consiglio dei ministri che ridisegna, semplificandola, la disciplina sulla Scia (segnalazione certificata di inizio attività).
In realtà il decreto rinvia a successivi decreti l'individuazione dei procedimenti che saranno oggetto di Scia o di silenzio assenso e di quelli per i quali sarà necessaria l'espressa autorizzazione. A parte questi procedimenti per tutti quelli non previsti nei decreti si applicherà il principio generale per cui «ciò che non è espressamente disciplinato è soggetto a comunicazione».
Il decreto prevede che dovrà essere l'amministrazione destinataria della Scia a informare il privato, attraverso la pubblicazione sul proprio sito, di un modello unificato (uguale sul tutto il territorio) previsto dal decreto 90/2014. Se nel modulo non sono indicati i documenti da produrre a corredo dell'istanza, l'amministrazione dovrà specificarli in relazione alla «specificità del caso».
In particolare si stabilisce che per ogni procedimento deve essere chiarito l'elenco degli stati, qualità personali e fatti che possono essere oggetto della dichiarazione sostitutiva, di certificazione o di atto di notorietà e le asseverazioni e attestazione dei tecnici abilitati o le dichiarazioni di conformità dell'agenzia delle imprese (in tutti i casi deve poi essere citata la fonte normativa dell'obbligo concernente la produzione dei documenti).
Dovrà poi essere indicato sempre sul sito quale sia lo «sportello di interlocuzione unica» (lo «sportello unico»), anche in caso di procedimenti connessi di competenza di altre amministrazioni o di articolazioni territoriali della stessa amministrazione. L'Amministrazione può anche istituire più sportelli unici ma solo per consentire al cittadino una pluralità di accessi sul territorio. La mancata individuazione dello sportello unico (ma anche la richiesta di documenti che non andavano richiesti) determina grave inadempimento ai doveri di ufficio, perseguibile disciplinarmente.
Nei casi di procedimenti connessi il termine per la convocazione della conferenza dei servizi (che dovrà esprimersi la massimo entro 60 giorni, come prevede l'altro decreto attuativo) decorre dalla data di presentazione della Scia allo sportello unico dell'amministrazione. Prova di ciò dovrà essere data con il rilascio da parte dell'ufficio competente della ricevuta di avvenuta presentazione e di completezza della documentazione stessa. Se invece la Scia viene inviata per posta o per e-mail il termine per convocare la conferenza dei servizi decorre dalla ricezione della documentazione.
Possibile anche la presentazione di una segnalazione unica se per certe attività si richiedono più Scia; in questo caso l'attività può essere iniziata dalla data di presentazione della segnalazione unica, mentre le amministrazioni coinvolte dovranno controllare i requisiti e, se chiederanno l'adozione di misure queste dovranno essere adottate entro 30 giorni. La sospensione delle attività potrà essere motivata soltanto da pericoli per la tutela dell'interesse pubblico, della salute, dell'ambiente, del paesaggio e dei beni culturali, della sicurezza e della difesa nazionale (per le attività edilizie può essere disposta «solo in presenza di attività non veritiere», oltre che per il pericolo nei casi elencati in precedenza).
Per le attività edilizie, se necessarie autorizzazioni espresse, si indice la conferenza dei servizi e l'inizio dell'attività rimane subordinato al rilascio delle autorizzazioni. Se l'attività edilizia è soggetta a Scia il decreto chiarisce che è sempre unica e sostituisce tutte le altre segnalazioni, asseverazioni, comunicazioni e notifiche (articolo ItaliaOggi del 23.01.2016).

EDILIZIA PRIVATASportello Scia per le imprese. Autorizzazioni in due mesi e stop ai cantieri solo per false dichiarazioni.
La semplificazione della Scia, ovvero la segnalazione certificata di inizio attività, una delle procedure più utilizzate dalle imprese o nell’edilizia, impone alle amministrazioni non solo di dare risposte in tempi certi ma di garantire ai privati uno “sportello unico” cui rivolgersi.
Anche nei casi in cui le pratiche da mettere insieme fossero più d’una. Una volta presentata la Scia, l’amministrazione che la riceve valuta se sono necessari pareri di altre amministrazioni e nel caso convoca entro 5 giorni una Conferenza dei servizi in via telematica, che dovrà chiudersi entro 60 giorni. In più l’amministrazione deve pubblicare sul proprio sito il modulo unificato e standardizzato con le indicazioni di ulteriori documenti richiesti.
Lo “sportello unico” cui si fa riferimento nella bozza del decreto di attuazione della delega approvato ieri in primo esame dal Cdm potrebbe farci ricordare il vecchio “sportello unico per le attività produttive” (Suap) ma in veste rafforzata. Non averlo costituisce grave inadempienza che fa scattare le procedure disciplinari. E anche l’eventuale richiesta al cittadino o impresa di documenti ulteriori rispetto a quelli previsti sarà considerata inadempienza sanzionabile sotto il profilo disciplinare. Per il privato che, presentata la Scia, apre il suo cantiere, arriva poi la certezza che la sospensione delle attività può arrivargli solo in casi gravi, come le attestazioni non veritiere e casi di pericolo per l’interesse pubblico mentre se gli errori sono solo formali arriva solo la richiesta di correzione.
Ieri la ministra Marianna Madia ha confermato che questo decreto rappresenta solo il «primo passo» per la semplificazione della Scia. Il secondo, previsto nei prossimi mesi, arriverà con la presentazione di una sorta di “catalogo dei procedimenti” per i quali serve una Scia, oppure un’autorizzazione espressa oppure ancora quelli che potranno procedere con il silenzio-assenso. Quello che, in pratica, dovrebbe diventare il passepartout per le imprese che vogliono avviare una attività con la certezza del quadro autorizzatorio richiesto.
Il decreto Scia va letto insieme con quello di semplificazione della Conferenza servizi, che come si diceva non potrà durare più di 60 giorni, viaggerà d’ora in poi in via telematica con la regola del silenzio-assenso e con un rappresentante unico per oggi amministrazione coinvolta. «Nel peggiore dei casi più sfortunato una conferenza dei servizi potrà avere una durata massima di 5 mesi» ha spiegato ieri Matteo Renzi in conferenza stampa per poi aggiungere: «vorrei essere di nuovo sindaco per vedere in funzione queste nuove regole».
Contro le decisioni assunte da una conferenza dei servizi nel limite massimo di 10 giorni possono esprimere un dissenso le amministrazioni preposte a interessi sensibili (tutela ambiente, tutela paesaggistico-territoriale o storico-artistico, o della salute o della pubblica incolumità) e lo faranno presentando un’opposizione alla presidenza del Consiglio dove, se non riesce a comporre la questione proposta da un ministro competente entro 15 giorni, si delibera direttamente in un Cdm cui possono partecipare i presidenti delle Regioni o delle province autonome interessate. In quest’ultimo caso la durata massima di una conferenza dei servizi versione Madia potrebbe arrivare, appunto, a 5 mesi prima della chiusura.
Ieri il premier ha anche posto molta enfasi sulla terza azione di semplificazione introdotta con un regolamento che punta a dimezzare i tempi per le autorizzazioni di grandi opere o grandi insediamenti ad elevato impatto economico e occupazionale ricorrendo ai poteri sostitutivi della presidenza del Consiglio.
Marianna Madia ha assicurato che l’intera attuazione della delega sarà garantita «entro la legislatura» e che con i decreti approvati mercoledì è stato dato il via a metà delle norme necessarie: «Provvedimenti scritti con grande serietà e che hanno tutti una cogenza, sono previste sanzioni per assicurare che queste misure non resteranno sulla carta».
È il caso del testo unico sulle partecipate. A vigilare sulla razionalizzazione, con poteri ispettivi e sostitutivi fino al commissariamento, sarà una unità di monitoraggio attivata al Mef. Le amministrazioni controllanti dovranno fare una ricognizione delle partecipazioni e, entro il primo anno, eliminare quelle non necessarie, con più amministratori che dipendenti, che fatturano per 3 anni meno di un milione o che risultino in sovrapposizione con altri servizi. Tagli anche alle poltrone: la regola è l’amministratore unico ma si potrà mantenere un Cda con 3 o 5 componenti, e arriva una disciplina sulle crisi d’impresa. I
n fase di prima applicazione si indicheranno le partecipate escluse dalla nuova regulation oltre alle quotate e quelle che hanno emesso titoli entro dicembre. «Noi ci siamo dati come termine il 31 dicembre di quest’anno, ma immaginiamo già nei prossimi 90 giorni di poter portare un elenco delle aziende che avranno subito l’applicazione delle norme e quindi un primo elenco delle aziende chiuse» ha detto ieri il sottosegretario alla Funzione pubblica, Angelo Rughetti, intervistato da Radio 24
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGOAssenteisti licenziati in 30 giorni. Procedura straordinaria per chi è colto in flagranza o scoperto con strumenti di registrazione.
Pubblico impiego. Lo schema di decreto approvato dal Consiglio dei ministri sulle misure per contrastare chi bara sulle presenze al lavoro.

Lo schema di decreto legislativo sul licenziamento disciplinare presenta aspetti di significativa novità rispetto alla disciplina vigente, che pure non manca di specifiche disposizioni volte a reprimere condotte abusive da parte dei lavoratori pubblici sul rispetto dell'orario di lavoro.
Già il Dlgs 150/2009 era, infatti, intervenuto in materia al fine di sanzionare tali comportamenti, introducendo nel Testo unico sul lavoro pubblico come specifica ipotesi di licenziamento senza preavviso la «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente» (articolo 55-quater, lettera a), del Dlgs 165/2001) e prevedendo in tale ipotesi anche l'applicazione di sanzioni penali (articolo 55-quinquies, comma 1, del medesimo Testo unico).
Tali previsioni non hanno però adeguatamente fronteggiato la diffusione di fenomeni di assenteismo e pertanto, nel quadro di una generale revisione della disciplina dei procedimenti e delle sanzioni disciplinari prevista dalla legge delega sul pubblico impiego 124/2015 (articolo 17, comma 1, lettera s), si è colta l'occasione, anche sull'onda di eclatanti fatti di cronaca, per misure maggiormente incisive e idonee a dare effettività alle norme sanzionatorie.
Il legislatore, innanzitutto, specifica, estendendone l'ambito, il comportamento che integra gli estremi della falsa attestazione in servizio, da ravvisarsi in «qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio circa il rispetto dell'orario di lavoro».
L'aspetto sul quale maggiormente si interviene è quello relativo alla previsione di un procedimento disciplinare “speciale”, in quanto derogatorio rispetto a quello ordinario previsto dall'articolo 55-bis del Dlgs 165/2001.
Presupposto per l'attivazione di tale procedimento è che la falsa attestazione della presenza sia accertata «in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze».
Se non sussiste tale presupposto, e quindi se la falsa attestazione della presenza sia rilevata al di fuori dei due casi sopra indicati, si applicheranno le norme del procedimento disciplinare ordinario.
Il procedimento disciplinare speciale è anticipato dall'applicazione della sospensione cautelare senza stipendio, che deve essere disposta entro 48 ore dalla conoscenza della notizia.
Anche in questo caso sono evidenti i profili di specialità della sospensione cautelare prevista dallo schema di decreto rispetto a quella contemplata dai contratti collettivi dei diversi comparti: si tratta di una sospensione obbligatoria, priva di un termine finale di durata, non retribuita.
Contestualmente al provvedimento di sospensione, il responsabile della struttura deve trasmettere gli atti all'ufficio per i procedimenti disciplinari, che dovrà avviare immediatamente il procedimento e concluderlo entro trenta giorni dalla ricezione degli atti o dal momento in cui è venuto a conoscenza dei fatti.
Nell'ambito di tale procedimento non si fa menzione né dell'audizione del lavoratore né di termini a difesa, dai quali tuttavia non sarà possibile prescindere non potendosi ammettere, in linea di principio, una compressione delle esigenze difensive che anche nei casi di flagranza o di rilevamento mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione delle presenze debbono poter essere rispettate e consentite.
L'accelerazione dei termini di attivazione e di chiusura del procedimento, quindi, se da un lato può costituire un'apprezzabile misura che consente di dare una risposta effettiva ed efficace a comportamenti intollerabili, non può relegare il lavoratore a un ruolo di mero soggetto passivo, senza alcuna voce in capitolo né ai fini dell'applicazione della sospensione né ai fini dell'irrogazione della sanzione del licenziamento prevista per questa tipologia di inadempimento.
Dovrà essere, quindi, consentito in ogni caso al medesimo, onde evitare l'illegittimità del procedimento disciplinare, di essere ascoltato a sua difesa o produrre scritti difensivi in termini compatibili con la chiusura del procedimento.
  
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Azione di responsabilità per il danno d’immagine. I controlli. La segnalazione alla Corte dei conti: risarcimento almeno pari a sei mensilità.
Nella nuova disciplina del licenziamento disciplinare per i pubblici dipendenti la previsione di una tempistica più veloce rispetto a quella prescritta per il procedimento disciplinare ordinario consente di intervenire con maggiore efficacia rispetto a situazioni in cui risulti manifesta, a causa della flagranza del comportamento o della rilevazione attraverso strumenti obiettivi, la sussistenza della condotta illecita del lavoratore che abbia attestato falsamente la propria presenza in servizio.
A fianco di tali misure, ve ne sono altre approvate nel decreto legislativo che consentono non solo una maggiore deterrenza rispetto a tali comportamenti, ma anche l'assunzione di più adeguate responsabilità da parte di chi svolge ruoli dirigenziali e l'applicazione di misure sanzionatorie nei confronti di chi favorisca in qualche modo i comportamenti elusivi del rispetto dell'orario di lavoro.
È ampiamente riscontrato, infatti, che comportamenti di questo genere spesso attecchiscano laddove non vi sia un adeguato controllo da parte degli organi preposti e la complicità, anche solo silente, da parte dei colleghi.
Sotto il profilo della deterrenza, il decreto, oltre a confermare la sanzione del licenziamento, già peraltro contemplata per questa tipologia di condotte dal decreto legislativo 165/2001, modificato dal Dlgs 150/2009, prevede che, entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare (e quindi quando ancora non sia scaduto il termine dei trenta giorni previsto a chiusura del procedimento), debba essere effettuata la denuncia dei fatti al Pubblico ministero in sede penale e la segnalazione alla Procura regionale della Corte dei conti.
Anche in quest'ultimo caso è prevista una tempistica definita per l'esercizio dell'azione di responsabilità da parte della procura della Corte dei conti per il risarcimento del danno all'immagine, subito dall'ente di appartenenza del lavoratore per i comportamenti illeciti di cui quest'ultimo si sia reso colpevole, da determinarsi sulla base di una liquidazione equitativa comunque in misura non inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio oltre a interessi e spese di giustizia.
Non meno incisive sono le misure disposte dal decreto per rendere effettivo il controllo da parte del dirigente sulle condotte di falsa attestazione della presenza assunte dai dipendenti e la conseguente attivazione del procedimento disciplinare.
Ove, infatti, il dirigente (o il responsabile del servizio competente negli enti privi di dirigenza), in presenza di tali fatti, ometta di avviare l'azione disciplinare e di segnalare gli addebiti all'ufficio per i procedimenti disciplinari si espone alla sanzione del licenziamento.
Il dirigente è punibile con la medesima sanzione anche nell'ipotesi in cui non abbia adottato il provvedimento della sospensione cautelare nei confronti del dipendente colto in flagrante o la cui falsa attestazione sia rilevata dagli strumenti di sorveglianza o di registrazione delle presenze.
Tali condotte sono state altresì qualificate dal decreto come omissione di atti d'ufficio e in quanto tali riconducibili a quelle previste dall'articolo 328 del Codice penale.
Nella versione finale del decreto non è stata più inserita la previsione di un esonero della responsabilità del dirigente in caso di annullamento del licenziamento da parte del giudice adito dal dipendente: misura che avrebbe potuto consentire di superare uno degli ostacoli più avvertiti dalla dirigenza per l'esercizio dell'azione disciplinare e cioè il rischio di dover rispondere dei danni erariali connessi alle conseguenze derivanti dall'annullamento della sanzione espulsiva.
Inoltre, chiunque abbia «agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta» risponde della violazione commessa, e dunque è passibile di sanzioni disciplinari.
La previsione di tali possibili sanzioni (cui si aggiungono quelle già introdotte dal Dlgs 150/2009 per chi non collabora con il titolare dell'azione disciplinare o rende al medesimo dichiarazioni false e reticenti) dovrebbe quindi consentire di contrastare le condotte, spesso assunte per un malinteso concetto di solidarietà tra colleghi, che hanno agevolato la diffusione di pratiche assenteiste
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIRiordinata la disciplina dell’accesso ai dati Pa. Decreto. Anticorruzione.
Tra i decreti approvati da Palazzo Chigi nell’ambito della delega Pa ce n’è anche uno dedicato al «riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni» che modifica molte delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 33 del 2013.
In particolare, l’Autorità nazionale anticorruzione, sentito il Garante per la privacy nel caso in cui siano coinvolti dati personali, può «identificare i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria» (prevedendo modalità semplificate per i Comuni con popolazione inferiore a 15mila abitanti e per gli organi e collegi professionali).
Con riferimento al cosiddetto “accesso civico”, chiunque, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, ha diritto di verificare i dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, le quali devono rispondere ad eventuali richieste «tempestivamente, e comunque non oltre 30 giorni dalla presentazione dell’istanza», salvo il silenzio-diniego.
Rifiuto che è necessario per evitare un pregiudizio rilevante, verosimile e specifico alla sicurezza nazionale, alla difesa, alle relazioni internazionali, alla stabilità finanziaria ed economica dello Stato, alla conduzione di indagini penali ovvero al segreto di Stato.
Sempre nell’ottica della trasparenza l’agenzia per l'Italia digitale è chiamata a gestire un sito internet denominato “Soldi pubblici” per consentire l’accesso ai dati dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Il decreto stabilisce poi obblighi generalizzati di pubblicazione relativi ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Altri interventi riguardano poi la legge n. 190 del 2012 e il Piano nazionale anticorruzione che avrà durata triennale e costituirà atto di indirizzo per le pubbliche amministrazioni per individuare i principali rischi di corruzione e le misure di contrasto.
Si riconoscono infine all’Autorità nazionale anticorruzione maggiori poteri ispettivi, di richiesta di notizie, informazioni e documenti, nonché di rimozione di comportamenti contrastanti con i piani e le regole sulla trasparenza citati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGONei modelli 231 l’obbligo di segnalazione. Ddl «Whistleblowing». Il disegno di legge approvato ieri dalla Camera passa al Senato - Per le imprese private vincolo di «report» per tutti i dipendenti, nel settore pubblico niente premi ma tutele più estese.
Nessun incentivo, ma garanzie piene. La Camera ha approvato ieri, con una larga maggioranza, che comprende anche il Movimento 5 Stelle (promotore del provvedimento, peraltro), il disegno di legge (Atto Camera n. 3365) che rafforza in chiave anticorruzione la tutela di chi segnala illeciti. Ferocemente contraria invece Forza Italia.
Lo spiega Francesco Paolo Sisto che contesta «una barbarie giuridica che introduce negli ambienti di lavoro, pubblici e privati, un clima invivibile di accusa segreta. La differenziazione tra segnalazione, denuncia e delazione è speciosa; il risultato, alla fine, è uno solo: un meccanismo di sospetto diffuso, un “un contro l’altro armati” che non produrrà alcun effetto sul denunciante, ma sarà catastrofico per chi è denunciato, anche se ingiustamente».
La nuova legge, che ora passa al Senato, integra e amplia l’attuale disciplina prevista dalla legge Severino: da un lato infatti rafforza la norma già in vigore per gli impiegati pubblici, comprendendo gli enti pubblici economici e gli enti di diritto privato sotto controllo pubblico, dall’altro allarga la tutela al settore privato, inserendo specifici obblighi a carico delle società nei modelli organizzativi previsti dalla 231.
Per quanto riguarda il perimetro pubblico, la segnalazione di condotte illecite di cui il dipendente è venuto a conoscenza nello svolgimento del proprio lavoro può essere fatta al responsabile della prevenzione della corruzione oppure direttamente all’Anac (l’Autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone), alla magistratura ordinaria o anche a quella contabile.
La segnalazione deve essere fatta in buona fede e il disegno di legge precisa che la buona fede esiste quando la segnalazione è circostanziata, corroborata cioè da elementi non palesemente infondati, ed è stata fatta «nella ragionevole convinzione, fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita segnalata si sia verificata». La buona fede è invece sicuramente esclusa quando il dipendente ha agito con colpa grave.
La versione del testo approvata ieri mattina esclude quel riconoscimento di «forme di premialità» che era stata inserita inizialmente dalla commissione Giustizia quando la segnalazione si è rivelata fondata.
Previsione che molto aveva fatto discutere soprattutto per gli eventuali utilizzi strumentali e spregiudicati cui si sarebbe esposta. Cancellata la previsione, è stato però rafforzato l’impianto delle tutele che esclude qualsiasi ritorsione sul dipendente, escludendo che possa essere demansionato, licenziato, trasferito oppure infine, con norma di chiusura, sottoposto a qualsiasi misura organizzativa con effetti negativi. L'ente che ha adottato la misura discriminatoria rischia, al netto di ogni altro profilo di responsabilità, una sanzione da parte dell’Anac da 5mila a 30mila euro.
È vietato rivelare l’identità del whistleblower, ma non sono ammesse segnalazioni anonime. Il segreto sul nome, in caso di processo penale, non può comunque protrarsi oltre la chiusura delle indagini preliminari.
Nell’ambito invece di un eventuale procedimento disciplinare, il dipendente può rivelare la propria identità solo quando questa è indispensabile per difesa dell’incolpato.
Sul versante delle imprese private, la chiave di volta è rappresentata dai modelli organizzativi previsti dal decreto 231 del 2001. Viene infatti previsto, tra i contenuti del modello, l’obbligo a carico sia dei vertici sia dei semplici dipendenti sia dei collaboratori «di presentare a tutela dell’integrità dell’ente segnalazioni circostanziate di condotte illecite che in buona fede, sulla base della ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto, ritengano si siano verificate». Condotte, si specifica, rilevanti per il decreto (che contiene un’ampia lista dei reati presupposto)
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGOSegnalatori di illeciti tutelati. Ok camera.
Segnalatore di illeciti («whistleblower») tutelato: il dipendente che avviserà, infatti, di reati o irregolarità verificatisi in ambito lavorativo non potrà subire ritorsioni, come il trasferimento ad altro incarico. E la protezione varrà sia nel settore pubblico (pure per collaboratori e consulenti, e per chi opera in aziende che forniscono beni e servizi alla p.a.), sia in quello privato.

Sono i contenuti della proposta di legge (
Atto Camera n. 3365) che ieri ha ottenuto il primo via libera dall'aula della camera, con 281 sì, 71 no e 18 astenuti ed è passata all'esame dei senatori (si veda anche ItaliaOggi di ieri).
L'iniziativa del M5s (in seguito modificata, nelle commissioni di Montecitorio, dal Pd) ricalca l'esperienza sperimentata con successo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna del «whistleblowing» (che letteralmente significa «soffiatore nel fischietto»), rivisitata e forte di un ampliamento del perimetro tracciato dalla cosiddetta legge Severino (190/2012), attraverso il conferimento di un ruolo rilevante all'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) guidata da Raffaele Cantone.
Nel dettaglio, la norma prevede che il dipendente che, in buona fede, comunicherà ai responsabili anticorruzione, all'Authority o ai magistrati ordinari e contabili episodi di illeciti di cui ha avuto contezza non potrà essere sanzionato, né demansionato, o licenziato, trasferito o sottoposto ad altre misure ritorsive; qualora, invece, subisca «atti discriminatori» l'Anac applicherà al responsabile di tali azioni una sanzione pecuniaria amministrativa fino a 30.000 euro.
Protetta l'identità del «whistleblower» (ma la segretezza, in caso di processo penale, non potrà protrarsi oltre la chiusura delle indagini preliminari), però non saranno ammesse segnalazioni anonime. Nessuna tutela, tuttavia, se l'informatore è stato condannato in sede penale (anche in primo grado) per calunnia, diffamazione o altri reati commessi con la denuncia. Anzi, costerà caro trasmettere rapporti errati, o infamanti sull'operato dei propri colleghi, o responsabili poiché, se verrà accertata l'infondatezza della segnalazione, oppure la mancanza di buona fede, scatterà il procedimento disciplinare a carico del falso «whistleblower». Che rischierà pure il licenziamento in tronco (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Tempi stretti sui furbetti. Procedimento disciplinare entro 30 giorni. Lo schema di decreto legislativo sui dipendenti pubblici infedeli.
Sospensione cautelare entro 48 ore dalla conoscenza del fatto e procedimento disciplinare da avviare immediatamente e concludere entro 30 giorni.

Il decreto legislativo approvato mercoledì scorso dal Governo per sanzionare più efficacemente e velocemente i dipendenti pubblici infedeli che attestino falsamente la loro presenza in giudizio modifica, per la fattispecie, in maniera drastica il procedimento disciplinare.
False attestazioni. Il decreto introduce un nuovo comma 1-bis all'articolo 55-quater del dlgs 165/2001 allo scopo di precisare meglio e, soprattutto, di estendere la fattispecie delle false attestazioni della presenza in servizio. Dunque, costituisce falsa attestazione «qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o tranne in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio circa il rispetto dell'orario di lavoro».
La questione, quindi, non riguarda solo la timbratura di inizio e fine orario, ma anche la presenza in servizio durante l'orario. La norma, quindi, si estende a qualsiasi tipo di allontanamento dal servizio, non supportato dalle corrette giustificazioni normativamente e contrattualmente previste. La responsabilità non solo ricade su chi attesta falsamente la propria presenza, ma anche nei riguardi di chiunque favorisca, collaborando o omettendo di impedire l'azione fraudolenta.
Sospensione cautelare. Non licenziamento entro 48 ore, ma sospensione cautelare entro 48 ore, come era del resto inevitabile: il licenziamento non può che conseguire al procedimento disciplinare. La sospensione deve essere disposta laddove l'assenza fraudolenta sia accertata in flagranza, oppure provata da strumenti di sorveglianza o registrazione degli accessi e non sarà necessaria la preventiva audizione del dipendente sospeso.
Il provvedimento, dunque, viene adottato «inaudita altera parte», ma dovrà essere motivato e, appunto, emesso entro 48 ore, a seconda da chi conosca per primo l'evento, alternativamente dal responsabile della struttura di appartenenza del dipendente, o dall'ufficio per i procedimenti disciplinari. Le 48 ore decorrono dal momento della conoscenza dell'evento: si pone, però, il problema di come comprovare il momento in cui i soggetti competenti alla sospensione acquisiscono la conoscenza piena del fatto.
In ogni caso, si tratta di un termine ordinatorio: laddove la sospensione sia disposta oltre il termine, infatti, non si verifica né la decadenza dall'azione disciplinare, né l'inefficacia della sospensione cautelare tardiva. Il testo fa salva la responsabilità del dipendente che adotti con ritardo la sospensione, senza precisare di che genere di responsabilità si tratti.
Procedimento disciplinare. Il punto maggiormente delicato della riforma riguarda l'azione disciplinare. Laddove la sospensione cautelare sia adottata dal responsabile della struttura, questo deve trasmetterla all'ufficio dei procedimenti disciplinari, perché avvii il procedimento. Ricevuti gli atti, l'ufficio avvia «immediatamente» il procedimento: ma, l'avverbio «immediatamente» non aiuta certo a comprendere entro che termini l'azione debba partire.
Inoltre, la riforma stabilisce che il procedimento debba concludersi entro 30 giorni. Ma, non sono fissati termini per l'esposizione delle difese del dipendente, garanzia fondamentale ed imprescindibile. Poiché la riforma non deroga espressamente alle disposizioni su durata e fasi del procedimento disciplinare dettate dall'articolo 55-bis del dlgs 165/2001, potrebbero aprirsi infiniti e incerti contenziosi sulle questioni procedurali (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Un'identità digitale per dialogare con la p.a..
Un'identità digitale, attraverso cui accedere e utilizzare i servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni, e al domicilio digitale (Spid), in collegamento con l'anagrafe della popolazione residente. Spid sarà l'identificativo con cui un cittadino si farà riconoscere dalla pubblica amministrazione, mentre il domicilio digitale sarà l'indirizzo on line al quale potrà essere raggiunto dalle pubbliche amministrazioni.

Lo prevede un decreto legislativo recante norme di attuazione dell'articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124 (riforma Madia), che modifica e integra il codice dell'amministrazione digitale (Cad) di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82.
Il governo ha anche approvato sempre in via preliminare e sempre in attuazione della riforma Madia un dlgs che consente di presentare presso un unico ufficio, anche in via telematica, un unico modulo standard e valido in tutto il paese di segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Disco verde pure a uno schema di dlgs il quale, accanto o in alternativa a procedure ordinarie (Conferenza dei servizi, silenzio assenso), consente a comuni e regioni di individuare, con cadenza annuale, investimenti strategici di grande rilevanza finanziaria e forte impatto occupazionale per i quali richiedere alla presidenza del Consiglio dei ministri una procedura accelerata.
Oltre allo schema di dlgs con le norme in materia di riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le autorità portuali (si veda ItaliaOggi di ieri) e a quello di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello stato nei carabinieri, il consiglio dei ministri ha approvato il decreto di revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione pubblica e trasparenza. Al di fuori della riforma Madia, via libera allo schema di decreto di attuazione della direttiva in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali e modifiche alla disciplina degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi (anticipato su Italiaoggi di ieri).
Infine le nomine. Ok al collocamento fuori ruolo del ministro plenipotenziario Maria Angela Zappia per lo svolgimento dell'incarico di consigliere diplomatico del presidente del Consiglio dei ministri, nonché del ministro plenipotenziario Vincenzo Schioppa Narrante per lo svolgimento dell'incarico di segretario generale dell'Istituto universitario europeo (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

ENTI LOCALI: Le partecipate potranno fallire. Vietato soccorrere le società strutturalmente in perdita. RIFORMA P.A./ Il dlgs di riforma spazza via ogni dubbio. Necessario un piano di rilancio.
Le partecipate potranno fallire. Cade il tabù dell'intangibilità dei carrozzoni pubblici che ora, se mal gestiti, saranno inequivocabilmente soggetti alle norme in materia di fallimento, concordato preventivo e amministrazione delle grandi imprese in crisi. I giudici, finora piuttosto divisi sul tema, non potranno più trovare scuse per negare il fallimento.
Le società con i conti in rosso non potranno continuare a drenare risorse agli enti soci perché il ripianamento delle perdite, anche se attuato con aumento di capitale o trasferimento di partecipazioni, non sarà più la via maestra per continuare a mantenersi in linea di galleggiamento.
Servirà un piano di ristrutturazione aziendale da cui emergano «concrete prospettive di recupero». Anche perché gli enti soci avranno le mani legate, non potendo effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle partecipate che abbiano registrato perdite per tre esercizi consecutivi. La regola non varrà però per le quotate. La fallibilità delle partecipate costituisce il clou del dlgs varato in prima lettura dal consiglio dei ministri di mercoledì sera, assieme ad altri dieci provvedimenti tutti attuativi della riforma della p.a. voluta dal ministro Marianna Madia.
L'obiettivo è ridurre drasticamente la galassia delle oltre 7.700 società, disboscando i rami secchi a cominciare dalle «scatole vuote», ossia quelle società che per più di tre anni consecutivi non abbiano depositato il bilancio né compiuto atti di gestione. Entro un anno dalla riforma, esse verranno cancellate d'ufficio dal registro delle imprese.
Ogni anno ciascun ente pubblico dovrà effettuare un monitoraggio dell'andamento delle società di cui detiene partecipazioni (dirette o indirette). Qualora vengano rilevate anomalie dovrà scattare la razionalizzazione, da attuarsi mediante fusione, liquidazione o cessione. Per esempio, i tagli saranno obbligatori in presenza di società prive di dipendenti (o con più amministratori che dipendenti) o che abbiano registrato nel triennio un fatturato medio inferiore al milione di euro, o ancora dopo quattro bilanci chiusi in perdita su cinque esercizi (ma la regola non varrà per le società che gestiscono servizi di interesse generale).
Per le partecipate degli enti locali si prevedono regole ad hoc in caso di risultato di esercizio negativo. Le amministrazioni locali dovranno accantonare in un apposito fondo vincolato un importo pari alla perdita che non sia stata immediatamente ripianata. L'accantonamento dovrà avvenire in misura proporzionale alla quota di partecipazione e in pratica costituirà una zavorra che gli enti locali controllanti dovranno accollarsi in caso di perdita. Le somme torneranno disponibili solo quando le perdite verranno ripianate (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: La conferenza dei servizi si fa in tre. Decisioni in 60 giorni. Conferenza di servizi razionalizzata sì, ma la semplificazione vera appare lontana.
Il decreto legislativo di riordino dell'istituto della conferenza di servizi, parte integrante del pacchetto di 11 dlgs approvati dal governo mercoledì notte, potrà anche riuscire nell'intento di abbreviare di molto procedimenti che in alcuni casi duravano anni, ma l'opera di razionalizzazione sarà talmente improba che il risultato, nonostante la sua potenziale efficacia, meriterà ulteriori interventi semplificatori.
Vi saranno solo tre tipi di conferenza di servizio. La prima è la conferenza «istruttoria», attivabile sia dall'amministrazione procedente, sia su iniziativa del privato interessato. Essa ha lo scopo di realizzare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in uno o più procedimenti amministrativi connessi e si svolge in forma semplificata asincrona, o con altre modalità definite dall'amministrazione procedente. Lo scopo di questa conferenza non è decidere, ma acquisire elementi per decidere.
La seconda conferenza è quella «decisoria». Deve essere indetta quando la decisione positiva sia subordinata all'acquisizione di pareri, intese, nulla osta o altri atti di assenso comunque denominati, resi da amministrazioni diverse o anche da gestori di beni o servizi pubblici. Può anche essere indetta su richiesta del privato interessato se la propria attività risulti subordinata a più atti di assenso della pubblica amministrazione.
La conferenza «preliminare» potrà essere indetta dall'amministrazione competente nel caso di progetti di particolare complessità, riguardanti insediamenti produttivi, su richiesta motivata dell'interessato. Nel caso in cui si debbano realizzare opere pubbliche e di interesse pubblico, questo tipo di conferenza si esprime sui progetti preliminari, per indicare le condizioni necessarie per ottenere gli assensi necessari in fase di progetto definitivo.
Forma semplificata. È indetta entro cinque giorni dall'avvio d'ufficio o su istanza del procedimento. Le amministrazioni convocate possono chiedere integrazioni documentali o chiarimenti entro il termine fissato dall'amministrazione procedente, che comunque non può superare i 20 giorni; la richiesta di integrazione o chiarimenti né sospende, né interrompe i termini procedurali.
Entro 60 giorni dall'indizione, le amministrazioni coinvolte dovranno rendere alla procedente le proprie decisioni. È una conferenza «asincrona» perché le amministrazioni esprimono in sede autonoma le proprie decisioni; ma la p.a. procedente può indire una conferenza «sincrona», cioè con la partecipazione simultanea alla riunione delle amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

ENTI LOCALI: Fusioni in libertà. Niente forzature per i comuni. Fornaro e Borghi (Pd) sconfessano la pdl Lodolini.
Sulla fusione obbligatoria dei comuni sotto i 5.000 abitanti il Pd sconfessa se stesso.

A prendere le distanze dalla proposta di legge Atto Camera n. 3420 (depositata alla camera da una ventina di onorevoli dem con in testa il deputato marchigiano Emanuele Lodolini) anticipata su ItaliaOggi del 15 gennaio, sono due parlamentari piemontesi: Federico Fornaro, esponente della sinistra Pd e componente della Bicamerale per il federalismo fiscale, ed Enrico Borghi, presidente dell'Uncem.
Entrambi parlano apertamente di una «iniziativa individuale che non rientra nel solco del processo di riforma avviato con la legge Delrio e con la riforma costituzionale». La proposta di legge individua nella soglia demografica di 5.000 abitanti la popolazione minima affinché un comune possa esistere autonomamente. E obbliga chi ne ha meno a fondersi entro due anni, pena l'intervento d'imperio delle regioni, costrette anche loro ad accorpare i comuni se non vorranno perdere il 50% dei trasferimenti.
Secondo i deputati proponenti, la ricetta individuata sarebbe l'unica per far decollare le fusioni che, in questi anni, «nonostante i cospicui incentivi e i contributi previsti da leggi statali» sono state pochissime. E la soglia di 5.000 abitanti sarebbe la «dimensione ottimale» per garantire servizi efficienti e ottimizzazione delle risorse. Ma i due deputati piemontesi non la pensano allo stesso modo. «La proposta», dicono, «non risponde ad un approccio corretto per dare efficienza al sistema delle autonomie locali. «Non servono imposizioni dall'alto o forzature».
Franca Biglio, presidente dell'Anpci, prende atto ma resta cauta. «Alle parole», dice, «devono seguire i fatti perché finora tutte le norme prodotte da questo governo, dalla legge Delrio alle centrali uniche, dall'assoggettamento degli enti sotto i mille abitanti agli obiettivi contabili all'esclusione di Anpci dalla Stato-città dimostrano un'unicità di pensiero che va nella direzione di escludere i sindaci dei piccoli comuni» (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

APPALTI: Incentivi per gli appalti verdi. Cauzioni ridotte e obbligo per la p.a. di consumi sostenibili. Pubblicato in G.U. il Collegato ambientale che promuove misure di green economy.
Agevolazioni per le imprese con certificazioni ambientali Emas e Ecolabel che partecipano alle gare pubbliche; sconti sull'importo delle garanzie fideiussorie richieste nei bandi di gara e valutazioni premiali in sede di offerta.

Sono queste alcune delle novità principali derivanti dall'avvenuta pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (n. 13 del 18.01.2016) della legge 28.12.2015, n. 221 recante «Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali» (il cosiddetto collegato Ambiente).
Il testo contiene alcune novità (e ulteriori modifiche al codice dei contratti pubblici) che, in particolare, mirano a introdurre i cosiddetti «appalti verdi» attraverso un incentivo per gli operatori economici che partecipano ad appalti pubblici e sono muniti di attestazione Emas (che certifica la qualità ambientale dell'organizzazione aziendale) o di marchio Ecolabel (che certifica la qualità ecologica di «prodotti», comprensivi di beni e servizi).
Il beneficio previsto dalla legge 221 consiste in una riduzione del 30% per i possessori di registrazioni Emas; del 20% per i possessori della certificazione Uni En Iso 14001, o del marchio Ecolabel, della «cauzione» a corredo dell'offerta prevista dall'articolo 75, comma 7, del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
Lo stesso articolo introduce la compensazione delle emissioni di gas serra associate alle attività dell'azienda calcolate secondo i metodi che saranno stabiliti in base alla raccomandazione della commissione europea 2013/179/Ue concernente le prestazioni ambientali dei prodotti e delle organizzazioni. Per promuovere l'adozione dei sistemi Emas ed Ecolabel si dispone che nella formulazione delle graduatorie costituisca elemento di preferenza la registrazione Emas delle organizzazioni pubbliche e private e la richiesta di contributi per l'ottenimento della certificazione Ecolabel di prodotti e servizi, per l'assegnazione di contributi, agevolazioni e finanziamenti in materia ambientale.
La legge stabilisce, inoltre, come procedere all'applicazione dei «criteri ambientali minimi» negli appalti pubblici per le forniture e negli affidamenti di servizi: si prevede l'obbligo, per gli appalti di forniture di beni e di servizi, di prevedere nei relativi bandi e documenti di gara l'inserimento almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei «Criteri ambientali minimi (Cam)», ai sensi del piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione, per l'acquisto di servizi energetici per gli edifici, di attrezzature per l'ufficio e di lampade.
Tale obbligo si applica, per almeno il 50% del valore delle forniture, dei lavori o dei servizi oggetto delle gare d'appalto, anche ad altre categorie di beni e servizi: affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani; forniture di cartucce e toner; affidamento del servizio di gestione del verde pubblico; carta per copie; ristorazione collettiva; prodotti tessili; arredo per l'ufficio e affidamento del servizio di pulizia e fornitura di prodotti per l'igiene.
La legge affida un ulteriore compito all'Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, ossia monitorare l'applicazione dei criteri ambientali minimi. (modifica l'articolo 7 del Codice dei contratti) e dispone che i bandi-tipo contengono indicazioni per l'integrazione dei criteri ambientali minimi di cui ai decreti attuativi del piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione (modifica l'articolo 64 del Codice dei contratti) (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Gare Ue, formulario unico. Obbligatorio dal 18.04.2016.
Formulario unico per partecipare alle gare di appalto di livello comunitario obbligatorio dal 18 aprile prossimo.

È quanto deriva dal regolamento di esecuzione Ue) 2016/7 della Commissione Ue del 05.01.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea L 3 del 06.01.2016), che contiene il modello di formulario per il documento di gara unico europeo.
Il documento, che rappresenta uno degli strumenti previsti a livello Ue per semplificare la partecipazione alle gare pubbliche, è previsto dall'articolo 59 della direttiva 2014/24, e consiste in una dichiarazione formale predisposta dall' operatore economico rispetto a quanto previsto dagli atti di gara.
In particolare, si riferisce alle dichiarazioni di non trovarsi in una delle situazioni nelle quali gli operatori economici devono o possono essere esclusi, di soddisfare i pertinenti criteri di selezione e di rispettare, se del caso, le norme e i criteri oggettivi fissati al fine di limitare il numero di candidati qualificati da invitare a partecipare. Il documento, che dovrà essere utilizzato dal 18 aprile, è finalizzato a ridurre gli oneri amministrativi derivanti dalla necessità di produrre un considerevole numero di certificati o altri documenti relativi ai criteri di esclusione e di selezione.
Tale documento deve contenere le informazioni indicate chiaramente e in anticipo dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori nell'avviso di indizione di gara e il regolamento consente agli operatori economici di riutilizzare le informazioni fornite in un DgUe già utilizzato in una procedura di appalto precedente, purché siano ancora valide e pertinenti. Il documento dovrà essere prodotto solo in forma elettronica come prevede l'articolo 59, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2014/24/Ue; l'applicazione di tale disposizione può comunque essere rinviata fino al 18.04.2018.
Pertanto, le due versioni del DgUe, elettronica e su carta, possono coesistere al più tardi fino al 18.04.2018. Se più operatori economici compartecipano alla procedura di appalto sotto forma di raggruppamento, comprese le associazioni temporanee, dovrà essere presentato per ciascuno degli operatori economici partecipanti un DgUe distinto con le informazioni richieste; DgUe distinti saranno presentati anche nel caso in cui l'operatore economico faccia affidamento sulle capacità di uno o più soggetti (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOSanremo, «validi» gli arresti domiciliari per gli assenteisti. Pa. Il via libera dalla Cassazione.
Quando l’assenteismo diventa una «prassi consolidata», portata avanti «in modo sistematico», può giustificare le misure cautelari a carico dei dipendenti, perché suggerisce il rischio concreto di ripetizione del reato.
Su queste basi la Corte di Cassazione - Sez. II penale, nella sentenza 26.01.2016 n. 3289, mette il bollino sugli arresti domiciliari e sull’obbligo di firma decisi dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Imperia nei confronti di 25 dipendenti del Comune di Sanremo, fra cui il vigile della celebre timbratura in slip diventato suo malgrado l’icona della vicenda.
Le contestazioni del Tribunale puntano alla «falsa attestazione» della presenza in servizio, cioè il reato specifico per l’assenteismo nel pubblico impiego introdotto a suo tempo dalla riforma Brunetta (articolo 69, comma 1, del Dlgs 150/2009), a cui si affiancano la truffa aggravata, il falso ideologico e l’interruzione di pubblico servizio. Per il gruppo dei 25 che si è rivolto alla Suprema corte (all’interno dei 35 arrestati nell’inchiesta Stakanov che in tutto coinvolge 195 persone), il pm ha chiesto e il gip ha disposto due ordini di misure cautelari: l’arresto domiciliare per i casi più gravi e l’obbligo di firma per gli altri.
A motivarli, accanto al rischio di allungare la lista dei reati, c’è il pericolo di inquinamento delle prove, tanto più che le indagini sono ancora in corso: in questo quadro, si affaccerebbe anche «l’agevole possibilità» di concordare versioni di comodo per respingere le obiezioni dei magistrati.
Nel tentativo di contrastare le decisioni del Gip, in realtà, il ricorso in Cassazione ha puntato più sulla procedura che sul merito, accusando di fatto il giudice di aver “copiato e incollato” le informazioni del pubblico ministero aderendo in modo acritico alla sua descrizione. Così facendo, mancherebbe quindi la «valutazione autonoma» dei gravi indizi di colpevolezza, che la riforma del Codice di procedura penale (articolo 8, comma 1 della legge 47/2015) impone per convalidare le misure cautelari.
Nella ricostruzione della Cassazione, però, il lavoro svolto dal giudice appare parecchio più “originale”: è vero, spiega la sentenza, che il Gip ha rimandato a un «corposissimo numero di elementi investigativi» del pubblico ministero (pedinamenti, fotografie, video, timbrature eccetera), ma poi ne ha tratto valutazioni autonome, come dimostra il fatto che alcuni arresti domiciliari sono stati trasformati nell’obbligo di firma
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARINelle controversie riconducibili alle fattispecie regolate dagli artt. 1150 e 936 c.c. nessun indennizzo a carico del proprietario del fondo può essere preteso dal terzo costruttore che abbia realizzato l’opera in violazione della normativa edilizia, autonomamente commettendo nel primo caso, o concorrendo nel secondo, i reati previsti dalle singole disposizioni penali che sanzionano le condotte illecite: ciò non tanto perché possano essere poste in dubbio la sussistenza o l’entità della locupletazione del proprietario del fondo nella prospettiva di un ordine di demolizione da parte della pubblica amministrazione competente, quanto piuttosto perché è da ritenere in contrasto con i principi generali dell’ordinamento ed in particolare con la funzione dell’amministrazione della giustizia che possa l’agente conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l’attività penalmente illecita e che in via diretta gli è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c..
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Con il primo motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 936, 1346 e 1418 c.c. in relazione all'art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., per avere la corte d'appello proceduto alla liquidazione dell'indennità in presenza di un'opera realizzata in difformità della rilasciata concessione, così da costringere il proprietario a richiedere successiva sanatoria e da determinarne la condanna in sede penale.
In particolare, D'As., procedendo all'edificazione dell'appartamento, aveva operato in difformità della licenza edilizia rilasciata dal Comune di Partinico a Ga.Gi., realizzando una veranda chiusa non prevista nel progetto, con aumento della relativa cubatura e in violazione delle norme imperative al tempo cogenti: per effetto di tale condotta il predetto Ga. aveva subito un procedimento e una condanna in sede penale, resa con sentenza del 05.06.1981, e aveva dovuto proporre domanda di sanatoria.
Sul punto i ricorrenti hanno richiamato la giurisprudenza di questa Corte in forza della quale l'autore di un illecito non è titolato a richiedere l'indennità ex art. 936 c.c., e ciò anche nel caso in cui il proprietario del fondo si giovi dell'opera per avere regolarizzato l'immobile con la concessione in sanatoria.
Il motivo non è fondato.
La corte palermitana ha rilevato che per l'immobile edificato dall'odierno controricorrente era stata rilasciata regolare concessione edilizia n. 23 del 17.05.1977 e che Ga.Gi. aveva subito una condanna in sede penale con sentenza resa dal pretore di Partinico "per la realizzazione del II piano in assenza di concessione edilizia e per aver chiuso a veranda una terrazza del I piano: quindi, la difformità sarebbe consistita unicamente in tale opera".
E' da aggiungere, a quest'ultimo riguardo, che i ricorrenti si dolgono proprio del fatto che Ga.Gi. abbia subito le ripercussioni della violazione edilizia concernente il primo piano dell'edificio (e avente ad oggetto la nominata chiusura della veranda), violazione posta in essere da D'As., il quale non era invece responsabile degli abusi riferiti al secondo piano del fabbricato (cfr. pagg. 12 e 13 ricorso).
La sentenza impugnata ha poi evidenziato che con riferimento ai due illeciti (quelli concernenti, rispettivamente, il primo in secondo piano dell'edificio) era stata rilasciata concessione in sanatoria n. 329/2000 (in cui era oltretutto richiamata la concessione del 1977: dal che la corte ricavava una conferma dell'esistenza del titolo che autorizzava la realizzazione del corpo di fabbrica del primo piano). Il giudice d'appello ha quindi concluso nel senso di non potersi in alcun modo negare la locupletazione in favore del proprietario: ciò in quanto "l'immobile non è precario essendo escluso qualsiasi pericolo di demolizione dello stesso".
Ciò detto, da una prima angolazione deve richiamarsi il principio consolidato per cui
ove l'esecuzione delle opere abusive da parte di un terzo, con materiali propri, su suolo altrui, configuri un illecito penale, il proprietario non gli deve corrispondere alcun indennizzo (per tutte: Cass. 25.02.2011, n. 4732; Cass. 29.01.1997, n. 888; Cass. 10.09.1997, n. 8834), poiché, sul piano civilistico, il manufatto abusivo deve ritenersi carente di valore per il fondo. Infatti, in caso di costruzione eretta senza titolo concessorio -ovvero di opere eseguite in contrasto con la stesso- il diritto dominicale relativo a quell'opera è caratterizzato da spiccata precarietà quanto al suo contenuto di ricchezza acquisita, poiché i provvedimenti autoritativi previsti dalla legge si risolvono nell'espressione di una qualità giuridica immanente a quel manufatto e da esso non separabile (Cass. 13.04.1995, n. 4269, richiamata da Cass. 22.08.2003, n. 12347).
Tale situazione viene evidentemente meno per effetto della regolarizzazione urbanistica del manufatto, operata, come nel caso in esame, con la concessione in sanatoria richiesta da Ga.Gi.. Infatti, a norma dell'art. 38 l. 47/1985 l'oblazione estingue il reato edilizio e, concessa la sanatoria, viene meno la possibilità di applicare le sanzioni amministrative conseguenti all'abuso; inoltre, ove nei confronti del richiedente la sanatoria sia intervenuta con sentenza definitiva di condanna per il reato, viene fatta annotazione della oblazione nel casellario giudiziale e in tale caso non si tiene conto della condanna ai fini dell'applicazione della recidiva e del beneficio della sospensione condizionale della pena. La concessione in sanatoria restituisce quindi senz'altro l'immobile a uno stato di conformità al diritto e, come correttamente rilevato dalla corte di appello, esclude che lo stesso sia oggetto di una futura demolizione per la violazione della disciplina edilizia ad esso applicabile.
Il discorso non si esaurisce, tuttavia, nei rilievi fin qui svolti.
Da una seconda angolazione, va infatti osservato che questa Corte ha in passato ritenuto che
nelle controversie riconducibili alle fattispecie regolate dagli artt. 1150 e 936 c.c. nessun indennizzo a carico del proprietario del fondo può essere preteso dal terzo costruttore che abbia realizzato l'opera in violazione della normativa edilizia, autonomamente commettendo nel primo caso, o concorrendo nel secondo, i reati previsti dalle singole disposizioni penali che sanzionano le condotte illecite: "ciò non tanto perché possano essere poste in dubbio la sussistenza o l'entità della locupletazione del proprietario del fondo nella prospettiva di un ordine di demolizione da parte della pubblica amministrazione competente, quanto piuttosto perché è da ritenere in contrasto con i principi generali dell'ordinamento ed in particolare con la funzione dell'amministrazione della giustizia che possa l'agente conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l'attività penalmente illecita e che in via diretta gli è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c." (Cass. 17.05.2001, n. 6777; in senso conforme, Cass. 14.12.2011, n. 26853).
E' da ricordare, in proposito, che a norma dell'art. 38, 5° co. 1. n. 47/1985, i soggetti indicati all'articolo 6 della legge, tra cui è ricompreso il costruttore del manufatto, che intendevano fruire dei benefici penali previsti dallo stesso art. 38 e dall'art. 39, dovevano presentare al comune autonoma domanda di oblazione, con le modalità di cui all'articolo 35. Sulla base di tale disciplina, in difetto di un'attivazione nel senso indicato, la sanatoria conseguita dal proprietario non giovava allo stesso costruttore, il quale, non essendosi autonomamente adoperato onde conseguire l'estinzione del reato, versava nell'illecito e non poteva legittimamente pretendere di conseguirne il frutto per via giudiziaria (Cass. 17.05.2001, n. 6777).
Il quadro normativo originario è peraltro mutato, dal momento che il primo comma dell'art. 24 l. n. 136/1999 ha disposto: "Il secondo comma dell'articolo 38 della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni, deve intendersi nel senso che la corresponsione per intero dell'oblazione, purché compiuta da uno dei soggetti legittimati a presentare la domanda di cui all'articolo 31 della stessa legge, estingue nei confronti di tutti i soggetti interessati i reati di cui all'articolo 41 della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni, all'articolo 17 della legge 28.01.1977, n. 10, e successive modificazioni, all'articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n. 1265, e agli articoli 13, primo comma, 14, 15 e 16 della legge 05.11.1971, n. 1086".
Quindi
il predetto art. 24, 1° co., estende l'effetto estintivo del reato -conseguente al pagamento effettuato da coloro che sono legittimati ai sensi dell'art. 31 l. n. 47 del 1985- a tutti i soggetti responsabili, a prescindere dalla presentazione di autonoma domanda di condono.
Discende da ciò che con il pagamento dell'oblazione da parte di Ga. è venuto meno anche il concorso nel reato da parte di D'As.. Per il che nulla osta a che il medesimo si veda riconosciuto l'indennizzo di cui all'art. 936 c.c. (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 25.01.2016 n. 1237).

PUBBLICO IMPIEGO: Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza (art. 326, comma primo, cod. pen.) risulta infatti integrato da un dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di rivelare notizie o di agevolarne la loro conoscenza da parte di terzi, nella consapevolezza del loro carattere segreto e della violazione dei loro doveri di funzione.
Per gli indicati contenuti quindi l’intento dell’agente non è quello di recare danno al privato che pertanto patisce per la descritta condotta di eventuali pregiudizi non in via diretta, ma quale riflessa conseguenza destinata a rilevare ai fini della risarcibilità derivante da reato, ma non a legittimare il privato stesso all’esercizio dei poteri processuali destinati ad incidere sulle sorti dell’azione penale (artt. 408, 409, 410 cod. proc. pen.).

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1. Per consolidato orientamento di legittimità,
nel reato di rivelazione ed utilizzazione di segreto di ufficio, la persona offesa deve essere individuata esclusivamente nella p.A., risultando l'interesse tutelato rappresentato dal buon funzionamento dell'amministrazione attraverso il dovere di fedeltà del funzionario. Al privato invece può, al più, attribuirsi la qualità di terzo danneggiato, negandosi, per tale via, al medesimo la legittimazione a ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione e ad attivare i meccanismi di controllo processuale di cui agli artt. 408-410 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 4170 del 06/11/2012, Minolfi, Rv. 254239; Sez. 6, n. 19307 del 22/04/2008, Rv. 239883, Petrella; Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, Cincavalli; Sez. 6, n. 2675 del 24/09/1998, Piccirilli; Sez. 6, n. 3598 del 12/10/1995, Ferretti).
1.1. L'argomento portato in ricorso per il quale il trattamento riservato ai danneggiati del reato di falsa perizia, i quali sarebbero stati avvisati, nel corso di un incontro con il rappresentante della pubblica Accusa, della prossima chiusura delle indagini e del disposto rinvio a giudizio del Pa., indagato per il reato di cui all'art. 373 cod. pen., deporrebbe per la legittimazione del Pa. stessa ad ottenere avviso della richiesta archiviazione nel derivato procedimento di rivelazione di segreti di ufficio, è del tutto incongruo.
Lo stesso, nella diversità delle condotte poste in raffronto di operata, in fatto, partecipazione ai danneggiati degli esiti delle indagini e di mancato avviso del provvedimento di archiviazione, non è destinate a sostenere alcun critico ripensamento dell'affermato indirizzo della Corte sul carattere monoffensivo del reato di rivelazione del segreto di ufficio.
1.2. Gli esiti interpretativi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità nella individuazione degli interessi lesi, e quindi delle categorie delle persone offese, per talune delle tipologie di reato (tra i quali il peculato e l'abuso d'ufficio), non valgono ad estendere, di contro a granitica giurisprudenza di legittimità, in capo al danneggiato dal reato di rivelazione del segreto di ufficio quel diritto al contraddittorio riconosciuto invece in fase di indagine alla persona offesa, destinataria come tale dell'avviso del decreto di archiviazione (art. 409, comma 2, cod. proc. pen.).
L'elemento soggettivo del reato oggetto dell'opposta archiviazione che accompagna la condotta per la quale
«Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza» (art. 326, comma primo, cod. pen.) risulta infatti integrato da un dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di rivelare notizie o di agevolarne la loro conoscenza da parte di terzi, nella consapevolezza del loro carattere segreto e della violazione dei loro doveri di funzione.
Per gli indicati contenuti quindi
l'intento dell'agente non è quello di recare danno al privato che pertanto patisce per la descritta condotta di eventuali pregiudizi non in via diretta, ma quale riflessa conseguenza destinata a rilevare ai fini della risarcibilità derivante da reato, ma non a legittimare il privato stesso all'esercizio dei poteri processuali destinati ad incidere sulle sorti dell'azione penale (artt. 408, 409, 410 cod. proc. pen.).
Siffatti poteri sono invece riconosciuti all'offeso, in quanto la lesione del bene giuridico di cui egli è portatore riceve espresso riconoscimento dalla stessa obiettiva struttura del reato e dal correlato estremo soggettivo (diversa sarebbe invece, ad esempio, l'ipotesi delittuosa descritta dal terzo comma dell'art. 326 cod. pen. ove l'espresso richiamo, proprio di un dolo specifico, all'intento dell'agente di procurare, con l'assunta condotta di illegittimo utilizzo di notizie di ufficio destinate a rimanere segrete, un altrui danno ingiusto può ritenersi estendere la platea dei soggetti offesi al privato) (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 22.01.2016 n. 3048).

APPALTIUtile d'impresa insindacabile. Non costituisce anomalia nell'offerta.
L'entità dell'utile di impresa indicato in una offerta per un appalto pubblico non è sindacabile tranne che per macroscopici errori di valutazione o di fatto; è infatti stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l'offerta deve essere considerata anomala.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 22.01.2016 n. 211 rispetto a un profilo di rilievo nell'ambito della valutazione di anomalia delle offerte come è quello della indicazione del cosiddetto utile di impresa.
Nel caso esaminato una ditta aveva formulato un'offerta nella quale era indicato un costo del lavoro per un contratto di durata basso ma non ritenuto anomalo. La sentenza conferma il giudizio di primo grado che aveva legittimato l'operato della stazione appaltante.
I giudici hanno affermato che in una gara pubblica la valutazione di anomalia dell'offerta va condotta con riguardo al caso concreto, «poiché un utile all'apparenza modesto può comportare un vantaggio significativo sia per la prosecuzione in sé dell'attività lavorativa (il mancato utilizzo dei propri fattori produttivi è comunque un costo), sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l'impresa dall'essere aggiudicataria e dall'aver portato a termine un appalto pubblico».
Non è quindi possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l'offerta deve essere considerata anomala, al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulta pari a zero. Viene infatti rimarcato che la valutazione di anomalia si traduce in un giudizio ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza.
Il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta non ha infatti carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica; viceversa il suo scopo è quello di accertare in concreto che l'offerta, complessivamente, risulti attendibile ed affidabile rispetto alla corretta esecuzione dell'appalto.
L'esclusione dalla gara dell'offerente per l'anomalia della sua offerta è l'effetto di una valutazione di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere e non può avere a oggetto il dettaglio sui singoli aspetti (articolo ItaliaOggi del 29.01.2016).
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A tal proposito, occorre rammentare alcuni principi enunciati dalla giurisprudenza, che si attagliano al caso di specie.
Nella gara pubblica la valutazione di anomalia dell'offerta va fatta considerando tutte le circostanze del caso concreto, poiché un utile all'apparenza modesto può comportare un vantaggio significativo sia per la prosecuzione in sé dell'attività lavorativa (il mancato utilizzo dei propri fattori produttivi è comunque un costo), sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l'impresa dall'essere aggiudicataria e dall'aver portato a termine un appalto pubblico, cosicché nelle gare pubbliche non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l'offerta deve essere considerata anomala, al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulta pari a zero (Consiglio di Stato, sez. III, 10/11/2015, n. 5128).
Il giudizio sull’anomalia è un giudizio ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, ma non procedere ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, che costituirebbe un'inammissibile invasione della sfera propria della Pubblica amministrazione e tale sindacato rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto (Consiglio di Stato, sez. V, 02/12/2015, n. 5450).
Il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare in concreto che l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto.
Esso mira piuttosto a garantire e tutelare l'interesse pubblico concretamente perseguito dall'Amministrazione attraverso la procedura di gara per l'effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell'esecuzione dell'appalto, così che l'esclusione dalla gara dell'offerente per l'anomalia della sua offerta è l'effetto della valutazione (operata dall'Amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere.
Un sindacato nel dettaglio sui singoli aspetti è, dunque, precluso al giudice amministrativo, cui non è consentito procedere ad una autonoma valutazione della congruità o meno di singole voci, non potendosi esso sostituire ad una attività valutativa rimessa, quanto alla sua intrinseca manifestazione, unicamente all'Amministrazione procedente
(Consiglio di Stato, sez. VI, 14/08/2015, n. 3935; sez. V, 22/12/2014, n. 6231).

PUBBLICO IMPIEGO: Titoli, agrotecnici e periti agrari pari sono. La sentenza del consiglio di stato.
Illegittima l'esclusione dal concorso del candidato non iscritto all'albo dei periti agrari richiesto dal bando ed iscritto invece a quello degli agrotecnici e agrotecnici laureati. Ciò in quanto i due diplomi sono equiparabili.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 20.01.2016 n. 172, in relazione al fatto che tra i due diplomi (di agrotecnico e di perito agrario) la totale equiparazione è stata confermata anche dall'articolo 55 del dpr 05.06.2001, n. 328 che prevede le medesime classi di laurea (1, 7, 8, 17, 20, 27, 40) per l'accesso alla professione di agrotecnico laureato e di perito agrario laureato.
«E ciò», precisa la sentenza, «essendo da considerare ormai superata la duplicazione del corso di studi, nata per affiancare al corso tradizionale un piano di studi di natura sperimentale, mentre persiste una differenziazione tra le aree professionali cui non può che accedersi attraverso il superamento del relativo esame di abilitazione».
A tale proposito la V Sezione ha rilevato che «doveva comprendersi» il significato della segnalazione a suo tempo inviata al Miur dall'Autorità Garante della concorrenza e del mercato il quale, con nota del 21 settembre 2009, sottolineava che la limitazione dell'accesso all'esame di abilitazione per l'esercizio della professione di agrotecnico ai soli soggetti titolari del diploma di agrotecnico avrebbe costituito una barriera all'ingresso della professione di agrotecnico non necessaria né proporzionata, stante l'equiparazione dei titoli di studio.
Il Cds ha seguito il medesimo ragionamento; perché accertata l'equipollenza dei titoli di studio, non può essere disgiunta la conseguente abilitazione ed iscrizione al relativo albo, visto che opposta interpretazione porterebbe a conclusioni del tutto illogiche: equipollenza dei titoli di studio, ma diversità dell'esame di abilitazione con l'equipollenza priva di significato.
E ciò proprio sulla base della segnalazione dell'Autorità garante pubblicata sul bollettino 37/2009 e diretta al Miur in riferimento al bando di indizione per l'anno 2009 della sessione degli esami di stato per l'abilitazione all'esercizio della libera professione di agrotecnico. Fu in tale occasione che il Garante rilevò l'irragionevolezza che due titoli di studio vengano dichiarati equipollenti per certi aspetti e non per altri (articolo ItaliaOggi del 23.01.2016).
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- Vista la sentenza impugnata con la quale è stato ritenuto non ammissibile alla procedura concorsuale per un posto di istruttore tecnico categoria C presso la Provincia di Sassari l’attuale appellante, in quanto privo del titolo costituito dall’iscrizione all’albo dei periti agrari richiesto dal bando ed invece iscritto all’albo professionale degli agrotecnici e agrotecnici laureati;
- Viste le censure sollevate con l’appello concernenti l’equivalenza del diploma di agrotecnico e della relativa iscrizione all’apposito albo professionale;
- Considerato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è pronunciata recentemente più volte sull’equipollenza dei titoli di studio in questione e da ultimo con il parere 24.10.2012 n. 4335, della Sezione II, in cui si è rammentato il precedente l’analogo parere della III Sezione n. 195 del 10.03.1998, secondo cui
tra i due diplomi (di agrotecnico e di perito agrario) vi è una totale equiparazione -confermata anche dall’art. 55 del d.P.R. 05.06.2001, n. 328 che prevede le medesime classi di laurea (1, 7, 8, 17, 20, 27, 40) per l’accesso alla professione di agrotecnico laureato e di perito agrario laureato- essendo da considerare ormai superata la duplicazione del corso di studi, nata per affiancare al corso tradizionale un piano di studi di natura sperimentale, mentre persiste una differenziazione tra le aree professionali cui non può che accedersi attraverso il superamento del relativo esame di abilitazione;
- Rilevato che doveva comprendersi il significato della segnalazione inviata al Ministro dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato con nota in data 21.09.2009, in cui si è sottolineata che la limitazione dell’accesso all’esame di abilitazione per l’esercizio della professione di agrotecnico ai soli soggetti titolari del diploma di agrotecnico avrebbe costituito una barriera all’ingresso della professione di agrotecnico non necessaria né proporzionata, stante l’equiparazione dei titoli di studio.
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Ritenuto che l’equipollenza dei titoli di studio di cui sopra non possa essere disgiunta dalla conseguente abilitazione ed iscrizione al relativo Albo professionale anche in dipendenza di quanto riportato dalla nota in data 21.09.2009 dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato e visto che opposta interpretazione porterebbe a conclusioni del tutto illogiche –equipollenza dei titoli di studio, ma diversità dell’esame di abilitazione– nel qual caso l’equipollenza rimarrebbe priva di significato.

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Nel contratto di locazione di un immobile per uso diverso da quello di abitazione, la mancanza delle autorizzazioni o concessioni amministrative che condizionano la regolarità del bene sotto il profilo edilizio –e, in particolare, la sua abitabilità e la sua idoneità all’esercizio di un’attività commerciale o, come nella specie, professionale– costituisce inadempimento del locatore che giustifica la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1578 c.c., a meno che il conduttore non sia a conoscenza della situazione e l’abbia consapevolmente accettata.
Solo quando l’inagibilità o l’inabitabilità del bene attenga a carenze intrinseche o dipenda da caratteristiche proprie del bene locato, si da impedire il rilascio degli atti amministrativi relativi alle dette abitabilità o agibilità e da non consentire l’esercizio lecito dell’attività del conduttore conformemente all’uso pattuito, può configurarsi l’inadempimento del locatore, fatta salva l’ipotesi in cui quest’ultimo abbia assunto l’obbligo specifico di ottenere tali atti.

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3.1. Il motivo é infondato.
3.2. In tema di obblighi del locatore in relazione ad immobili adibiti ad uso non abitativo si sono registrati due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.
Secondo un primo indirizzo (Cass. 13.03.2007, n. 5836; Cass. 08.06.2007, n. 13395; Cass. 01.12.2009, n. 25278 e Cass. 25.01.2011, n. 1735) nei contratti di locazione relativi ad immobili destinati ad uso non abitativo, grava sul conduttore l'onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell'attività che egli intende esercitarvi, nonché al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative; ne consegue che, ove il conduttore non riesca ad ottenere tali autorizzazioni, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento a carico del locatore, e ciò anche se il diniego sia dipeso dalle caratteristiche proprie del bene locato; la destinazione particolare dell'immobile, tale da richiedere che lo stesso sia dotato di precise caratteristiche e che ottenga specifiche licenze amministrative, diventa rilevante, quale condizione di efficacia, quale elemento presupposto o, infine, quale contenuto dell'obbligo assunto dal locatore nella garanzia di pacifico godimento dell'immobile in relazione all'uso convenuto, solo se abbia formato oggetto di specifica pattuizione, non essendo sufficiente la mera enunciazione, in contratto, che la locazione sia stipulata per un certo uso e l'attestazione del riconoscimento dell'idoneità dell'immobile da parte del conduttore.
Secondo il diverso orientamento (Cass. 28.03.2006 a 7081; Cass. 07.06.2011, n. 12286, Cass. 19.07.2008, n. 20067), che dà, a vario titolo, rilievo al difetto della documentazione in parola, nel contratto di locazione di un immobile per uso diverso da quello di abitazione, la mancanza delle autorizzazioni o concessioni amministrative che condizionano la regolarità del bene sotto il profilo edilizio -e, in particolare, la sua abitabilità e la sua idoneità all'esercizio di un'attività commerciale o, come nella specie, professionale- costituisce inadempimento del locatore che giustifica la risoluzione del contratto ai sensi dell'art. 1578 c.c., a meno che il conduttore non sia a conoscenza della situazione e l'abbia consapevolmente accettata.
Con sentenza del 16.06.2014, n. 13651, questa Corte, operando una sintesi ed un coordinamento dei citati orientamenti, ha ritenuto che
solo quando l'inagibilità o l'inabitabilità del bene attenga a carenze intrinseche o dipenda da caratteristiche proprie del bene locato, sì da impedire il rilascio degli atti amministrativi relativi alle dette abitabilità o agibilità e da non consentire l'esercizio lecito dell'attività del conduttore conformemente all'uso pattuito, può configurarsi l'inadempimento del locatore, fatta salva l'ipotesi in cui quest'ultimo abbia assunto l'obbligo specifico di ottenere tali atti. A tale ultimo orientamento, ribadito da 19.12.2012, n. 26907, ritiene il Collegio di dare continuità.
La Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra enunciati e condivisi dal Collegio, in quanto ha evidenziato (v. p. 5 della sentenza) che non è stato previsto contrattualmente alcun obbligo in capo al locatore, per eventuali licenze e autorizzazioni e che anzi era stato pattuito (art. 14) l'esonero di ogni responsabilità nel caso di difetto, diniego o revoca di concessioni o licenze di autorizzazioni amministrative e, dunque, anche caso di diniego di autorizzazione per l'esercizio dell'attività. La Corte ha pure affermato che nella specie non poteva ritenersi che il conduttore non avesse conosciuto i vizi del bene o che locatore li avesse taciuti al momento della consegna dell'immobile, avendo il conduttore preso visione del bene prima della sottoscrizione del contratto, sicché ben ne conosceva lo stato, che aveva voluto e accettato con la sottoscrizione del contratto, e quindi l'idoneità o meno dello stesso all'esercizio dell'attività.
A tanto va aggiunto che correttamente la Corte di merito ha ritenuto non applicabile, al caso all'esame, la disciplina di cui all'art. 1579 c.c., difettando nella specie la prova della totale inidoneità del bene all'uso convenuto, in quanto in ricorso non risultano neppure dedotte le ragioni per le quali non sia stata ottenuta "la licenza ad uso medico", del cui mancato rilascio da parte del Comune si duole il ricorrente (v. ricorso p. 10), né che tale rilascio sia stato definitivamente negato, né risulta sia stata data prova della mala fede del locatore genericamente asserita dal ricorrente (v. ricorso p. 12), evidenziandosi, altresì, che la Corte di merito ha pure affermato che nulla é stato provato e neppure dedotto circa il mancato totale utilizzo dell'immobile di cui il conduttore ha avuto la disponibilità e la detenzione, avendolo riconsegnato solo in data 28.09.1995.
Del resto, anche in questa sede, il Pi. ha sostenuto di non aver utilizzato il bene secondo l'uso convenuto, senza al riguardo far neppure riferimento a elementi probatori a sostegno di tale affermazione (v. ricorso p. 14), limitandosi poi a sostenere (v. ricorso p. 16) che la necessità di adoperarsi presso il Comune per ottenere la licenza avrebbe creato "uno stato di obiettiva incertezza incidendo negativamente sul pieno godimento dell'immobile" (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 18.01.2016 n. 666).

PUBBLICO IMPIEGO: Il diritto a scegliere la sede di lavoro attribuito dall’art. 33, comma 5, Legge n. 104/1992 ai familiari di soggetti portatori di handicap non è assoluto, potendo essere esercitato «ove possibile»: in applicazione del principio del bilanciamento degli interessi, non può essere fatto valere qualora il suo esercizio leda in misura consistente le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro, poiché in tali casi, soprattutto per quanto attiene ai rapporti di lavoro pubblico, potrebbe determinarsi un danno per la collettività.
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7. Procedendo ad esame congiunto dei motivi, deve premettersi che la l. 05.02.1992 n. 104, legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, al c. 3 dell’art. 33, per quanto qui rileva, prevede che “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente….”.
Il successivo c. 5, nel testo rilevante ratione temporis in relazione alla domanda (presentata il 07.09.2007) e quindi prima della modifica apportata dall’art. 24 della l. 04.11.2010 n. 183, prevede che “il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
8.
Il testo delle richiamate disposizioni legislative non consente di limitare il diritto alla mobilità solo alle fattispecie in cui la situazione di handicap del soggetto assistito fosse esistente solo al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro. L’espressione “ha diritto di scegliere”, infatti, non può essere riferita solo al momento iniziale del rapporto di impiego pubblico, in cui è disposta l’assegnazione della sede di lavoro, ma deve essere letta con riferimento alla ratio generale della legge n. 104, di approntare strumenti di tutela della persona handicappata che esaltino la naturale spinta solidaristica nascente dal vincolo familiare e che si aggiungano alle tutele offerte dai pubblici servizi di assistenza.
La centralità di tale concetto di tutela è stata posta in rilievo dalla giurisprudenza proprio in relazione al momento in cui il diritto della persona handicappata deve essere rapportato al diritto alla mobilità del pubblico dipendente, tanto nel caso che il vincolo di assistenza venga invocato per evitare il trasferimento
(Cass. 09.07.2012 n. 9201), tanto che venga invocato per ottenere il trasferimento (Cass. 03.08.2015 n. 16298, ove il dato interpretativo letterale viene rafforzato con la comparazione con il successivo c. 6, che regola la fattispecie della persona in situazione di handicap che chiede lo spostamento di sede, alla quale non viene posta alcuna preclusione e si consente il trasferimento, senza distinguere se la situazione soggettiva sia intervenuta prima dell’instaurazione o in costanza del rapporto di lavoro).
9. Fatta questa premessa generale di contenuti, deve richiamarsi la giurisprudenza di legittimità ulteriore a proposito della disciplina del diritto alla mobilità.
Il comma 5 dell’art. 33 ora in esame deve essere interpretato nel senso che
il genitore o il familiare lavoratore che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, solo se ciò sia possibile in relazione alle esigenze di servizio. Il diritto, in virtù dell’inciso contenuto nella norma, secondo il quale esso può essere esercitato ove possibile, in applicazione del principio del bilanciamento degli interessi, non può essere fatto valere qualora l’esercizio leda in misura consistente le esigenze economiche ed organizzative dell’azienda (se si verta in situazione di lavoro privato) ed implica che l’handicap sia grave o, comunque, richieda un’assistenza continuativa (Cass. 27.05.03 n. 8436).
Il diritto non è assoluto e privo di condizioni e implica un recesso del diritto stesso, ove risulti incompatibile con le esigenze economiche e organizzative del datore di lavoro, poiché in tali casi, soprattutto per quanto attiene ai rapporti di lavoro pubblico, potrebbe determinarsi un danno per la collettività (Cass. 25.01.2006 n. 1396 e 27.03.2008 n. 7945) (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 15.01.2016 n. 585).

COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze professionali: il confine del riparto tra ingegneri e architetti.
Circa il compimento di attività di progettazione e direzione lavori che, riguardando opere relative ad un bene di interesse storico-artistico assoggettato a tutela ex d.lgs. n. 42 del 2004, sarebbero riservate alla competenza degli architetti, il Collegio ritiene necessario chiarire quale sia l’àmbito di applicabilità dell’invocato art. 52, comma 2, del r.d. n. 2537 del 1925.
Si tratta della previsione secondo cui “…le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l’antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”, da intendere –secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale– nel senso che non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’àmbito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria, quali –in particolare– le lavorazioni strutturali ed impiantistiche, se si limitano, ad es., alla messa in sicurezza dell’immobile e alla revisione degli impianti senza intaccare l’aspetto estetico dell’edificio.

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... per l'annullamento della determinazione n. 32 del 06.05.2015, con cui l’Unione Reno Galliera provvedeva all’aggiudicazione definitiva dei servizi di “ingegneria ed architettura, progettazione preliminare, definitiva, esecutiva, redazione del piano di manutenzione, direzione lavori, misure e contabilità, coordinamento progettazione ed esecuzione afferenti il recupero del Castello di Bentivoglio a seguito dei danni causati dal terremoto - 1° stralcio di attuazione”;
- per quanto occorrer possa, della determinazione n. 68 in data 19.09.2014 del Comune di Bentivoglio (relativa all’avvio della procedura di affidamento dell’incarico di progettazione e direzione lavori del primo stralcio degli interventi di ripristino sull’immobile Castello di Bentivoglio) nella sola parte in cui non prevede l’invio delle lettere di invito a soggetti professionalmente idonei, della determinazione n. 3 in data 06.02.2015 dell’Unione Reno Galliera nella sola parte in cui approva l’elenco dei soggetti da invitare alla gara, dell’elenco stilato dall’Unione Reno Galliera (circa i soggetti da invitare alla gara) nella sola parte in cui include anche l’ing. Ma.Pi, della lettera di invito alla gara inviata all’ing. Ma.Pi., dei verbali di gara nella sola parte in cui la Commissione ha prima ammesso, poi valutato ed infine aggiudicato provvisoriamente l’incarico all’ing. Ma.Pi. e alla Politecnica Ingegneria ed Architettura Soc. Coop., delle verifiche svolte in capo al soggetto aggiudicatario al fine di integrare l’efficacia dell’aggiudicazione provvisoria, della comunicazione di aggiudicazione definitiva inviata via PEC al ricorrente in data 18.05.2015;
- ...per la declaratoria…. di inefficacia del contratto stipulato tra l’Unione Reno Galliera e/o il Comune di Bentivoglio e il raggruppamento composto dall’ing. Ma.Pi. e dalla Politecnica Ingegneria ed Architettura Soc. Coop.;
- del diritto del ricorrente di subentrare nel suddetto contratto e/o nell’esecuzione dello stesso;
- ..per la condanna… delle Amministrazioni convenute al risarcimento del danno ingiusto, in forma specifica o, in mero subordine, per equivalente, determinandone il quantum in via equitativa;
...
Il ricorso è infondato.
Quanto, innanzitutto, al denunciato illegittimo invito alla gara dell’ing. Pi. per il compimento di attività di progettazione e direzione lavori che, riguardando opere relative ad un bene di interesse storico-artistico assoggettato a tutela ex d.lgs. n. 42 del 2004, sarebbero riservate alla competenza degli architetti, il Collegio ritiene necessario chiarire quale sia l’àmbito di applicabilità dell’invocato art. 52, comma 2, del r.d. n. 2537 del 1925.
Si tratta della previsione secondo cui “…le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l’antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”, da intendere –secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale– nel senso che non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’àmbito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria, quali –in particolare– le lavorazioni strutturali ed impiantistiche (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 09.01.2014 n. 21), se si limitano, ad es., alla messa in sicurezza dell’immobile e alla revisione degli impianti senza intaccare l’aspetto estetico dell’edificio (v. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 29.10.2015 n. 2519).
Orbene, nel deliberare l’avvio della procedura di ricerca dell’affidatario dell’incarico in questione, il Comune di Bentivoglio approvava il «documento preliminare all’avvio della progettazione» ex art. 15 del d.P.R. n. 207 del 2010, il quale precisava –tra l’altro– che “l’intervento è volto al ripristino strutturale della porzione delle strutture lesionate dal sisma” e che si doveva provvedere ad “interventi di riparazione con rafforzamento locale”, così inquadrando le relative prestazioni in una sfera di misure di risanamento e salvaguardia dell’immobile danneggiato da ricondurre all’àmbito di operatività dell’art. 3 del regolamento allegato all’ordinanza commissariale n. 120 del 2013 (“Per la realizzazione degli interventi di riparazione con rafforzamento locale degli edifici ricompresi nel Programma, che presentano danni lievi, oltre la riparazione del danno, si dovrà conseguire, tenendo conto del tipo e del livello del danno, un incremento della capacità dell’edificio di resistere al sisma mediante opere di rafforzamento locale progettate ai sensi del punto 8.4.3. delle “Norme tecniche per le costruzioni” approvate con il D.M. 14/01/2008”).
Si trattava, quindi, di intervenire essenzialmente sulla struttura dell’edificio per ripararla e consolidarla attraverso opere di edilizia civile riconducibili alla c.d. «parte tecnica» di cui all’art. 52, comma 2, del r.d. n. 2537 del 1925, nella lettura ampia che ne ha dato la giurisprudenza, ovvero restandone ricomprese tutte le lavorazioni che non incidono sui profili estetici e di rilievo culturale degli edifici vincolati.
Dal che, alla luce del particolare contesto in cui l’intervento di ripristino dell’edificio andava effettuato –ovvero la rimozione dei pregiudizi strutturali prodotti dagli eventi sismici del 20 e 29.05.2012 e l’apprestamento di misure idonee a proteggere l’immobile dal rischio di simili fatti naturali–, la corretta individuazione della figura professionale dell’ingegnere quale soggetto abilitato a curare la relativa progettazione e direzione dei lavori.
Peraltro, la stessa lettera di invito alla procedura negoziata, con valore di lex specialis della selezione, indicava tra quelli ammessi alla gara i “soggetti di cui all’art. 90, comma 1 lett. d), e), f), f-bis) del D.Lgs. 12.04. 2006 n. 163, nonché imprese e società, individuati dalla Centrale Unica di Committenza. Si specifica che: - le Società di Ingegneria …”, scelta dell’Amministrazione che il ricorrente non ha censurato (a pag. 11 del ricorso viene detto: “…La lettera di invito (DOC. 4A già allegato) in sé non è atto illegittimo, in quanto sul punto né vieta, né consente esplicitamente la partecipazione alla procedura di ingegneri, geometri, periti edili etc. essendo un documento molto generale; ciò che è illegittimo è l’invio della stessa ad un soggetto non legittimato a riceverla…”) e che ha invece necessariamente informato ogni ulteriore determinazione fondata sui requisiti di ammissione all’incarico, con la conseguenza che, anche ad eventualmente ritenere non corretta nella fattispecie l’applicazione dell’art. 52, comma 2, del r.d. n. 2537 del 1925, osta all’accoglimento della doglianza (e anche delle successive) la circostanza che la normativa di gara aveva chiaramente operato una scelta in ordine al novero delle figure professionali abilitate a parteciparvi.
Né, quindi, si può concordare con il ricorrente circa l’indebito impiego del modulo del raggruppamento temporaneo di professionisti per recuperare a posteriori un requisito di ammissione di cui il soggetto invitato sarebbe stato ab origine privo. Correttamente, insomma, l’ing. Pi., invitato uti singulus, ha presentato l’offerta quale mandatario del costituendo raggruppamento con la Politecnica Ingegneria ed Architettura Soc. Coop., ai sensi dell’art. 37, comma 12, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Quanto, poi, alla circostanza che il raggruppamento aggiudicatario si sarebbe limitato ad indicare le quote di partecipazione del 51% e del 49%, senza asseritamente renderne comprensibili la corrispondenza ai requisiti di capacità spesi, alla parte di esecuzione dell’incarico e all’entità dei corrispettivi economici spettanti, il Collegio ritiene sufficiente richiamare quanto già rilevato dalla giurisprudenza in ordine alla tematica della corrispondenza tra quota di partecipazione, quota di esecuzione del servizio e quota di qualificazione in caso di raggruppamento temporaneo di professionisti affidatario di un’attività di progettazione.
A tal proposito, indipendentemente dalle variazioni medio tempore intervenute circa la previsione di cui all’art. 37, comma 13, del d.lgs. n. 163 del 2006, è stato evidenziato che la peculiarità del rapporto di progettazione, ove considerato in maniera unitaria dalla stessa Amministrazione, non richiede la corrispondenza tra qualificazione dell’operatore economico riunito ed effettiva esecuzione dell’incarico, dovendosi ritenere quest’ultima un’espressione unitaria dello staff progettista (v., tra le altre, TAR Puglia, Bari, Sez. II, 16.05.2014 n. 616). Donde l’infondatezza della doglianza, in assenza di residue incertezze circa l’effettivo ricorrere dei requisiti di ammissione alla gara.
Quanto, ancora, alla denunciata assegnazione dell’incarico di coordinamento delle attività specialistiche ad un architetto della società mandante e all’addotto necessario affidamento della sottoscrizione del progetto e della direzione dei lavori a quello stesso architetto, si tratta –ove e nei limiti in cui avverrà– del naturale riparto di funzioni tra i componenti del raggruppamento, in sé non rivelatore di un’elusione dei requisiti di ammissione alla gara, né indicativo di un’incompatibilità con le quote di partecipazione al raggruppamento (che si è già visto non assumere rilevanza nei termini prospettati dal ricorrente).
Né inficia l’esito della gara il rilievo che il raggruppamento aggiudicatario ha prevalso sugli altri concorrenti in virtù di un’offerta tecnica risultata meritevole per le esperienze professionali maturate dalla società mandante e solo in minima parte per i titoli vantati dall’ing. Pi., in quanto l’istituto del raggruppamento temporaneo fra operatori economici è uno strumento finalizzato proprio a rafforzare la compagine che si propone per l’appalto o l’incarico di progettazione, non solo per farvi partecipare soggetti singolarmente sprovvisti dei requisiti richiesti, ma anche per sommare titoli curriculari o attività pregresse nel settore che rendano più affidabile e competitiva l’offerta in gara.
Del resto, in linea con tale principio, la stessa lettera di invito alla procedura negoziata aveva nella fattispecie precisato, a proposito della «adeguatezza offerta sotto il profilo curriculare», che “…Tale documentazione può riguardare –nel caso di concorrente costituito da soggetti riuniti temporaneamente oppure da riunirsi o da consorziarsi– interventi, singolarmente considerati, progettati, da uno qualsiasi dei soggetti che costituisce o che costituirà il raggruppamento temporaneo…”.
Quanto, inoltre, alla mancata verifica di congruità dell’offerta prescelta, il ricorrente intende riferirsi alla previsione di cui all’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 (“Nei contratti di cui al presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le stazioni appaltanti valutano la congruità delle offerte in relazione alle quali sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione, sono entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara”).
Sennonché l’art. 266 del d.P.R. n. 207 del 2010 (Regolamento di esecuzione del Codice dei contratti pubblici), nell’occuparsi delle modalità di svolgimento delle gare relative ai servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, stabilisce che l’offerta economica è costituita da un “ribasso percentuale unico, definito con le modalità previste dall’articolo 262, comma 3, in misura comunque non superiore alla percentuale che deve essere fissata nel bando in relazione alla tipologia dell’intervento”, per ragioni di affidabilità dell’offerta precisate nelle premesse del medesimo d.P.R. n. 207 del 2010 (“…Ritenuto che, in relazione all’articolo 266, comma 1, la disposizione che impone al bando di gara per l’affidamento dei servizi di ingegneria e di architettura di stabilire una misura percentuale massima di ribasso consentito, a seconda del tipo di intervento, sia necessaria a garantire la qualità delle prestazioni, minata da eccessivi ribassi …”); il che, come è evidente, rende non applicabile a simili selezioni l’accertamento automatico di cui all’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, giacché è la stessa lex specialis della gara a stabilire ex ante la soglia di tollerabilità del ribasso, e semmai può operare la diversa previsione di cui all’art. 86, comma 3 (“In ogni caso le stazioni appaltanti possono valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa”), in esito cioè ad una valutazione rimessa caso per caso all’apprezzamento discrezionale della stazione appaltante.
Nella fattispecie, allora, risultando rispettato il limite di ribasso del 30% fissato dalla lettera di invito, si sarebbe potuta al più avviare una verifica rimessa all’autonoma iniziativa dell’ente, che non ha però ritenuto sussistenti le condizioni particolari per promuoverla, né il ricorrente ha del resto fornito elementi utili in tal senso.
Né, infine, v’è motivo di lamentare la mancata effettuazione dei controlli sul possesso dei requisiti, da compiere ai sensi dell’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006. In tale sede, a dire del ricorrente, sarebbero dovute emergere quelle stesse irregolarità e carenze già evidenziate con le precedenti censure, la cui accertata infondatezza però rende comprensibili le ragioni dell’esito positivo delle verifiche conclusive.
In definitiva, il ricorso va respinto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 36 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Spetta al Sindaco e non al dirigente ordinare la rimozione dei rifiuti abbandonati sul territorio.
Per pacifica giurisprudenza, l’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2.
La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000.
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1. Con l’ordinanza n. 12 del 15.03.2007, il Responsabile del Settore Vigilanza del Comune di Rivello ha intimato all’Anas -ai sensi dell’art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 22 del 1997- di procedere entro 30 giorni dalla notifica di tale ordinanza alla rimozione dei rifiuti abusivamente abbandonati in una zona limitrofa alla strada statale n. 585 «Fondovalle del Noce», tra il km. 25,500 ed il km. 25,600, avente una superficie di circa 100 mq., con lo smaltimento a propria cura e spese, esibendo poi al Comune la prova dell’avvenuto smaltimento;
2. Con il ricorso di primo grado, proposto al TAR per la Basilicata, la s.p.a. ANAS ha impugnato l’ordinanza n. 12 del 15.03.2007, deducendo la violazione degli artt. 7, comma 2, lett. d), 13, 14, comma 3, 21, 49, comma 2, e 58, comma 3, D.Lgs. n. 22/1997, e degli artt. 192 e 198 D.Lgs. n. 152/2006 (per insussistenza del dolo o della colpa), degli artt. 3, 7 e 8 L. n. 241/1990, nonché il proprio difetto di legittimazione passiva, l’incompetenza del Dirigente comunale in luogo del Sindaco, ed eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, insussistenza dei presupposti.
Il Comune di Rivello si è costituito in giudizio ed ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso, per mancata impugnazione della presupposta nota del Comando della Stazione dei Carabinieri di Lagonegro n. 1464 del 26.02.2007, recante la segnalazione della presenza dei rifiuti e per la mancata notifica del ricorso al medesimo Comando.
Il Comune, in subordine, ha chiesto che il ricorso sia respinto, perché infondato.
3. Con la sentenza n. 488 del 29.06.2007, il Tar, prescindendo dalle eccezioni di inammissibilità, ha respinto il ricorso, rilevandone l’infondatezza.
4. Con l’appello in esame, notificato l’08.10.2007, la s.p.a. Anas ha impugnato la sentenza del TAR, riproponendo le censure respinte in primo grado.
Il Comune di Rivello si è costituito in giudizio ed ha ribadito le eccezioni di inammissibilità già formulate in primo grado, chiedendo comunque la reiezione dell’appello.
5, La Sezione ritiene che vadano respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso di primo grado, riproposte in questa sede dal Comune di Rivello, poiché il verbale del Comando della Stazione dei Carabinieri di Lagonegro n. 1464 del 26.02.2007 costituisce null’altro che la denuncia che ha attivato l’esercizio del potere comunale: esso, quale atto meramente istruttorio e di informazione dei fatti accaduti, non ha un carattere autonomamente lesivo della sfera giuridica dell’appellante.
6. Passando all’esame delle censure formulate in primo grado e riproposte con l’atto d’appello, ritiene la Sezione che risulta fondata la censura con cui è stata dedotta l’incompetenza del Responsabile del Settore Vigilanza.
Per la pacifica giurisprudenza di questa Sezione, l’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2.
La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V, 29.08.2012, n. 4635; id., 12.06.2009, n. 3765; id., 10.03.2009, n. 1296; id., 25.08.2008, n. 4061).
7. La fondatezza della censura di incompetenza comporta l’assorbimento delle altre censure formulate dall’appellante, sicché in questa sede diventa irrilevante l’esame degli aspetti della legittimità sostanziale del provvedimento impugnato in primo grado.
8. Per le ragioni che precedono, in accoglimento dell’appello, il ricorso di primo grado va accolto, con il conseguente annullamento dell’atto impugnato n. 12 del 15.03.2007, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune di Rivello (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.01.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Tecnico comunale ed illegittimo rilascio di una concessione edilizia.
In materia di abuso d’ufficio, per la sussistenza del reato non è sufficiente l’aver agito con dolo diretto o eventuale, ma occorre che l’evento di danno e quello di vantaggio sia e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa.
Con tale affermazione la Cassazione ha annullato la condanna inflitta a due responsabili comunali che avevano rilasciato illegittimamente una concessione edilizia in quanto non erano stati considerati elementi fondamentali, come la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui poggiava il provvedimento, il contesto e il tenore dei rapporti tra l’agente e il soggetto che dal provvedimento avevano ricevuto il vantaggio patrimoniale e subito il danno
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 07.01.2016 n. 87).

ESPROPRIAZIONE: Condannato il comune a pagare delle somme a titolo di risarcimento danni da «occupazione acquisitiva» se ciò è avvenuto a causa di un errore del Ctu che ha localizzato i terreni in un posto diverso da quello dove in realtà sono.
In questi casi non può esercitarsi l’azione revocatoria concessa quando la svista è del giudice, e chiarendo che se la sentenza è correttamente motivata non è esperibile neppure il rimedio di legittimità
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 07.01.2016 n. 67).

APPALTI: Concessionari, il progettista non può fare il commissario. Sentenza del Tar Trento sull'incompatibilità nei concorsi.
Chi ha progettato un'opera o ha svolto attività di consulenza per il soggetto concedente non può fare parte della commissione di valutazione delle offerte.

È quanto ha stabilito il TRGA Trentino Alto Adige-Trento con la sentenza 05.01.2016 n. 11 rispetto a un affidamento disposto da una società concessionaria autostradale rispetto al quale si discuteva se fosse incompatibile ai sensi dell'articolo 84, comma 4, del codice dei contratti pubblici, la partecipazione alla commissione di un soggetto che in precedenza aveva svolto attività per quella determinata opera a favore del soggetto concedente.
I giudici premettono che, in quanto «organismo di diritto pubblico ai sensi e per gli effetti del codice dei contratti pubblici» la società concessionaria autostradale rientra nell'ambito applicativo della direttiva 2004/18/Ce, anche ai sensi dell'art. 11, comma 5, lett. c), della legge n. 498 del 1992, ed è qualificabile come amministrazione aggiudicatrice.
In quanto tale, quindi, la società concessionaria deve essere considerata al pari di una amministrazione aggiudicatrice e tenuta all'applicazione del codice dei contratti pubblici con l'effetto ulteriore dell'attrazione dell'attività contrattuale attinente all'esercizio del servizio di cui essa è concessionaria.
Nel caso specifico il comma 4 dell'art. 84 del codice dei contratti pubblici recita: «I commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta».
Tale norma, si legge nella sentenza, impedisce la presenza nella commissione di soggetti che abbiano svolto un'attività idonea a interferire con il giudizio di merito sull'appalto, cioè in grado di incidere sul processo formativo della volontà che ha condotto alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l'esito.
La sentenza ha in particolare chiarito che l'incompatibilità opera per soggetti che hanno svolto incarichi, relativi alla medesima gara, «di progettazione, verifica della progettazione, predisposizione della legge di gara e simili», per i professionisti che hanno fornito consulenza per la redazione degli atti di gara e per i funzionari che hanno contribuito alla redazione degli stessi, nonché per i dirigenti che hanno elaborato propedeutici studi di fattibilità.
Scopo della norma è prevenire il pericolo concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla partecipazione, alle commissioni giudicatrici, di soggetti che sono intervenuti a diverso titolo nella predisposizione degli atti della procedura concorsuale.
Il fine ultimo è rendere effettiva la distinzione tra i soggetti che hanno definito i contenuti e le regole della procedura e quelli che ne debbono fare applicazione nella fase di valutazione delle offerte.
Non può quindi essere nominato commissario di gara un professionista che «si era limitato alla predisposizione e alla redazione» degli atti posti a base della gara, successivamente approvati dal comune che gli aveva affidato l'incarico (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
5.1. La censura è fondata.
Il comma 4 dell’art. 84 del codice dei contratti pubblici recita: “
i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
5.2.
Tale norma, è stato precisato, “impedisce la presenza nella commissione di soggetti che abbiano svolto un’attività idonea ad interferire con il giudizio di merito sull’appalto, cioè in grado di incidere sul processo formativo della volontà che ha condotto alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l’esito (cfr. C.d.S., sez. VI, 21.07.2011, n. 4438).
Essa si riferisce dunque:
- ai soggetti che hanno svolto incarichi, relativi alla medesima gara, “di progettazione, verifica della progettazione, predisposizione della legge di gara e simili
(cfr. C.d.S., sez. VI, 29.12.2010, n. 9577; sez. V, 27.05.2011, n. 4450);
- ai funzionari che hanno partecipato alla procedura relativa al contratto del cui affidamento si discute esprimendo parere favorevole al progetto con puntuali prescrizioni tecniche (cfr. C.d.S., sez. V, 22.06.2012, n. 3682);
- ai professionisti che hanno fornito consulenza per la redazione degli atti di gara e ai funzionari che hanno contribuito alla redazione degli stessi (cfr. C.d.S., sez. V, 14.06.2013, n. 3316);
- ai dirigenti che hanno elaborato propedeutici studi di fattibilità, tenuto conto che la legge ha preferito subordinare l’interesse della conoscenza approfondita degli atti di gara a quello (ritenuto prevalente) di una netta separazione fra chi “prepara” quegli atti e chi invece deve valutare le offerte presentate dai diversi concorrenti (cfr. C.d.S., sez. V, 13.10.2014, n. 5057).
5.3. L’Adunanza plenaria, dal canto suo, ha puntualizzato che
la previsione legislativa in esame è volta a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla partecipazione, alle commissioni giudicatrici, di soggetti che sono intervenuti a diverso titolo nella predisposizione degli atti della procedura concorsuale. La regola mira, dunque, a conservare la distinzione tra i soggetti che hanno definito i contenuti e le regole della procedura e quelli che ne debbono fare applicazione nella fase di valutazione delle offerte. L’interesse pubblico rilevante diventa quindi “non tanto e non solo quello della imparzialità, cui è in ogni caso riconducibile”, ma, soprattutto, “la volontà di assicurare che la valutazione sia il più possibile oggettiva, e cioè non influenzata dalle scelte che l’hanno preceduta, se non per ciò che è stato dedotto formalmente negli atti di gara (cfr. C.d.S., Ad.Pl., 07.05.2013, n. 13).
In altri termini, come ha già avuto occasione di rilevare questo Tribunale, “
la prescrizione legislativa in esame mira ad assicurare due concorrenti ma distinti valori: quello dell’imparzialità, per evitare indebiti favoritismi da parte di chi conosce approfonditamente le regole del gioco avendo contribuito alla loro gestazione, nascita e formalizzazione; quello dell’oggettività, ad evitare che lo stesso autore di quelle regole dia ad esse significati impliciti, presupposti, indiretti o, comunque, effetti semantici che risentano di convinzioni o concezioni preconcette che hanno indirizzato la formulazione delle regole stesse” (cfr. sentenza 31.01.2014, n. 30).
6.1. Non giova alla Stazione appaltante sostenere, nelle deduzioni difensive, che il geom. Gu. si sarebbe limitato a “redigere” gli atti di gara nel senso della materiale compilazione degli stessi, i quali sono stati poi “approvati” dal responsabile del procedimento ing. Co., unico detentore di competenze decisionali finali.
A questo proposito è sufficiente rilevare che la vicenda fattuale sottostante alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria da ultimo citata (la n. 13 del 2013), riguardava proprio il caso di un professionista che “si era limitato alla predisposizione, … alla redazione” degli atti posti a base della gara, successivamente approvati dal Comune che gli aveva affidato l’incarico.
È stato in tale occasione che il Giudice d’appello ha precisato che il comma 4 dell’art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 risponde alla esigenza di “rigida separazione della fase di preparazione della documentazione di gara con quella di valutazione delle offerte in essa presentate”, a garanzia della neutralità del giudizio e in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di incompatibilità dei componenti degli organi amministrativi.
6.2. Né è condivisibile l’affermazione, proveniente sempre dalla Società Autobrennero in sede difensiva, che il geom. Gu. sarebbe un impiegato ordinario sprovvisto di poteri decisionali. Tale asserzione, difatti, risulta smentita in punto di fatto non solo dalla determinazione n. 1319 del 2014 qui in esame, che per giustificare la nomina del Gu. quale membro della commissione tecnica lo qualifica “esperto nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”, ma anche dalla circostanza -evidenziata dalla ricorrente e non smentita dalla Stazione appaltante- che il nominato Gu. è il “Direttore dell’esecuzione del contratto” del servizio di pulizia delle stazioni autostradali e delle pertinenze varie attualmente in essere (cfr. pag. 12 della memoria della ricorrente di data 28.11.2015). Il che comporta, evidentemente, che -trattandosi di un compito proprio- non era richiesto un atto formale di incarico per la redazione degli atti di gara.
7. Da quanto esposto appare quindi evidente che il geom. Gu., avendo redatto, in quanto Direttore competente, i documenti che hanno fissato le norme per regolare il servizio di pulizia oggetto di gara, ne ha concretamente ed effettivamente definito il contenuto. Egli, conseguentemente, versava in situazione di incompatibilità a far parte della commissione giudicatrice, il che impediva il suo utilizzo nella valutazione della parte tecnica delle proposte per la gestione del medesimo servizio presentate dai potenziali aggiudicatari.
8. Va pertanto disposto l’annullamento della determinazione dell’amministratore delegato di Autobrennero n. 1319 del 2014 con cui è stata nominata la commissione tecnica. Ciò comporta, in modo caducante, il travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti posteriori della procedura fino all'affidamento del servizio, con il conseguente assorbimento delle censure che si appuntano avverso le successive fasi della gara.
Per effetto di quanto disposto, spetta alla Società Autobrennero la rinnovazione della gara a partire dalla fase di presentazione delle offerte (cfr., in termini, C.d.S., sez. V, n. 5057 del 2014, cit.). Si tratta, infatti, di un’ipotesi in cui il vizio dell'aggiudicazione comporta l'obbligo di rinnovare la gara, ai sensi dell’art. 122 c.p.a., che fa riferimento proprio "alla luce dei vizi riscontrati" per i casi in cui il vizio determini necessariamente "l'obbligo di rinnovare la gara" (cfr., in termini, C.d.S., Ad.Pl., n. 13 del 2013, cit.).

ATTI AMMINISTRATIVIAtti amministrativi accessibili anche se sequestrati. Tar del Lazio. Sentenza sul caso-Xylella.
Con l’assenso dei magistrati penali, anche gli atti amministrativi sequestrati sono accessibili a chi ne ha titolo, anche se la pubblica amministrazione non ha più gli originali né le copie.

Il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 04.01.2016 n. 7, ha ordinato così al ministero delle Politiche agricole di consentire l’accesso ai documenti con cui nel 2010 autorizzò l’importazione del batterio Xylella fastidiosa per un corso di studio all’Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di Bari.
La richiesta era stata presentata da 19 aziende salentine ad agricoltura biologica «direttamente investite» dalle misure statali e regionali contro il disseccamento degli ulivi infettati dal batterio. Il ministero aveva opposto silenzio-rigetto, ritenendo non più possibile fornire gli atti poiché nel frattempo sottoposti dalla Procura di Lecce a sequestro probatorio (articolo 253 del Codice di procedura penale) in originale e senza il rilascio di alcuna copia.
Per le ricorrenti, invece, l’accesso –negato dallo Iam e in parte dalla Regione (ma poi concesso)- era legittimo per la difesa del proprio «diritto alla sopravvivenza aziendale e dell’interesse legittimo al ripristino della legalità violata» anche in altri giudizi.
Accogliendo il ricorso, il Tar ha spiegato che anche se si è ormai stabilito (Consiglio di Stato, sentenza 1170/1996) che «il regime di segretezza di cui all’articolo 329 del Codice ci procedura penale (obbligo del segreto, ndr) non costituisce un motivo legittimo di diniego all’accesso dei documenti, fintantoché gli stessi siano nella disponibilità dell’amministrazione e il giudice che conduce l’indagine penale non li abbia acquisiti con uno specifico provvedimento di sequestro», l’accesso va garantito anche quando, come nel giudizio in esame, «risulta comprovato che l’amministrazione intimata non è nella detenzione materiale dei documenti (...)» sotto sequestro.
I giudici hanno precisato che in questi casi ai sensi dell’articolo 258 del Codice di procedura penale l’autorità giudiziaria può fare estrarre copia degli atti e dei documenti sequestrati, restituendo gli originali, e, quando il sequestro di questi è mantenuto, può autorizzare la cancelleria o la segreteria a rilasciare gratuitamente copia autentica a coloro che li detenevano legittimamente: l’estrazione di cui al menzionato articolo 258 del Codice di procedura penale è consentita, ovviamente, in relazione alle specifiche esigenze di segretezza degli atti di indagine che solo l’autorità giudiziaria procedente può valutare in concreto, soppesando i diversi interessi coinvolti e la relativa richiesta è proponibile, a sua volta, solo da parte di coloro che “detenevano legittimamente” gli atti sequestrati, ovvero, nel caso di specie, l’amministrazione destinataria della richiesta di accesso ex lege 241/1990»
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.01.2016).
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MASSIMA
I) In esito alla richiesta di accesso presentata al Ministero, quest’ultimo ne ha negato l’accoglimento allegando di esservi impedito dall’avvenuto assoggettamento dei documenti richiesti ad avvenuto sequestro probatorio dei documenti richiesti, in originale e senza che siano rimaste delle copie nella disponibilità dell’Amministrazione, da parte dell’Autorità Giudiziaria; tesi che viene ribadita in giudizio da parte dalla difesa dell’Avvocatura ad eccezione degli atti relativi ai pareri del Comitato Tecnico Scientifico e del Comitato Fitosanitario Nazionale, per i quali l’Avvocatura deduce che i ricorrenti non avrebbero interesse alla loro ostensione in quanto detti provvedimenti hanno costituito il presupposto istruttorio per l’emanazione del DM n. 2777 del 26.09.2014, il quale ha tuttavia cessato di esplicare effetti, essendo stato abrogato dal successivo DM 19.06.2015, art. 25 (“misure di emergenza per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di Xylella fastidiosa (Well e Raju) nel territorio della Repubblica Italiana”).
Quanto alla prima delle eccezioni difensive, si osserva che,
in linea di principio, la giurisprudenza è orientata nel ritenere che il regime di segretezza di cui all'art. 329 c.p.p. non costituisce un motivo legittimo di diniego all'accesso dei documenti, fintantoché gli stessi siano nella disponibilità dell'Amministrazione e il giudice che conduce l'indagine penale non li abbia acquisiti con uno specifico provvedimento di sequestro (così TAR Palermo, sez. II, 03/11/2014, n. 2656; v. anche Consiglio Stato , sez. IV, 28.10.1996, n. 1170; TAR Aosta, sez. I, 06.04.2011 n. 26, richiamati nella decisione da cui è tratta la massima riportata; in forza di tale principio, è stato, ad esempio, ritenuto illegittimo il diniego di accesso in caso di documenti già sottoposti a sequestro, ma solo in copia e con restituzione all’Amministrazione dell’originale da parte dell’Autorità Giudiziaria, v. TAR Catania, sez. III 24.11.2011 n. 2783; in ordine all’efficacia preclusiva dell’accesso agli atti scaturente dal sequestro probatorio, si veda anche TAR Roma, sez. II 01.04.2015 n. 4910).
Nel caso di specie, risulta dal verbale di sequestro probatorio (che è stato operato il 14.05.2015 dal Comando Provinciale di Lecce del Corpo Forestale dello Stato, su delega del PM ex art. 253 cpp), che la documentazione d’interesse è stata acquisita (peraltro in conseguenza della circostanza che i medesimi documenti non hanno potuto essere appresi presso lo IAM che ha opposto la propria immunità giurisdizionale) in originale e senza che siano state lasciate copie nella disponibilità dell’Amministrazione; si indica che i medesimi documenti “saranno custoditi a cura” del Comando procedente “a disposizione dell’A.G. mandante”.
In base a ciò, risulta comprovato che l’Amministrazione intimata non è nella detenzione materiale dei documenti di cui è richiesto l’accesso.
Tuttavia, deva osservarsi che,
ai sensi dell’art. 258 c.p.p. l’Autorità Giudiziaria può fare estrarre copia degli atti e dei documenti sequestrati, restituendo gli originali, e, quando il sequestro di questi è mantenuto, può autorizzare la cancelleria o la segreteria a rilasciare gratuitamente copia autentica a coloro che li detenevano legittimamente: l’estrazione di cui al menzionato art. 258 c.p.p. è consentita, ovviamente, in relazione alle specifiche esigenze di segretezza degli atti di indagine che solo l’Autorità Giudiziaria procedente può valutare in concreto, soppesando i diversi interessi coinvolti e la relativa richiesta è proponibile, a sua volta, solo da parte di coloro che “detenevano legittimamente” gli atti sequestrati, ovvero, nel caso di specie, l’Amministrazione destinataria della richiesta di accesso ex lege 241/1990.
Pertanto, ad attento esame del rapporto tra il diritto di accesso agli atti amministrativi disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. 241/1990 e l’obbligo di segretezza sugli atti di indagine ex art. 329 c.p.p., va ritenuto che l’effetto impeditivo al rilascio dei documenti richiesti scaturente dal provvedimento giudiziario di sequestro ex art. 253 e ss. c.p.p. si verifica solo allorché l’Amministrazione, avendone fatto richiesta, non abbia ottenuto dall’A.G. procedente l’estrazione di copie consentita dall’art. 258 c.p.p..
Infatti,
mentre di per sé il richiedere l’estrazione di copie dei documenti sequestrati ex art. 258 c.p.p. è una facoltà di chi li deteneva legittimamente, quanto l’Amministrazione sequestrataria riceve una istanza di accesso agli atti (sequestrati) da parte di un privato avente titolo a richiederlo, allora l’evasione dell’istanza comporta l’obbligo, esigibile in buona fede e secondo diligenza, di esercitare tale facoltà allo scopo di porre in essere quel diligente sforzo possibile secondo le circostanze concrete per soddisfare l’interesse legittimo della parte interessata ad ottenere la conoscenza dei dati e delle informazioni cui ha titolo (e ciò naturalmente a condizione che sia stato verificato, in capo al richiedente, il possesso delle condizioni soggettive legittimanti ad effettuare l’accesso agli atti e questo risulti impedito solamente dalla circostanza della sussistenza del sequestro, tutte condizioni che, nel caso di specie, non sono poste in dubbio).
Alla stregua delle predette considerazioni il ricorso in parte qua risulta fondato nei limiti di cui sopra.
Parimenti, quanto agli atti relativi ai pareri che, secondo l’Avvocatura, non sarebbero più attuali, il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento.
Secondo la giurisprudenza, “
il diritto alla trasparenza dell'azione amministrativa costituisce situazione attiva meritevole di autonoma protezione indipendentemente dalla pendenza e dall'oggetto di una controversia giurisdizionale o di una potenziale controversia tra i privati (come prospettato dall’AGEA nella nota di diniego dell’istanza di cui all’odierno ricorso) e non è condizionata al necessario giudizio di ammissibilità e rilevanza cui è subordinata la positiva delibazione di istanze a finalità probatorie, tanto che è rimesso al libero apprezzamento dell'interessato di avvalersi della tutela giurisdizionale prevista dall'art. 25 della legge n. 241 del 1990 ovvero di conseguire la conoscenza dell'atto nel diverso giudizio pendente tra le parti mediante la richiesta di esibizione istruttoria (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 12.04.2000 n. 2190).
In tale ottica è stato altresì rilevato che
il diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita così che la domanda giudiziale tesa ad ottenere l'accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta situazione (Cons. Stato, sez. VI del 12.04.2005 n. 1680) ma anche dall'eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre (Cons. Stato, Sez. VI, 21.09.2006 n. 5569)…Invero, l’accesso ai documenti va consentito anche quando la relativa istanza è preordinata alla loro utilizzazione in un giudizio, senza che sia possibile operare alcun apprezzamento in ordine alla ammissibilità ovvero alla fondatezza della domanda o della censura che sia stata proposta o che si intenda proporre, la cui valutazione spetta soltanto al giudice chiamato a decidere
(Consiglio di Stato, 7183/2010; si vedano anche le pronunce di questa Sezione del TAR Lazio, nr. 9034/2015 del 07.07.2015 e 1958/2015 del 03.02.2015).
Nel caso di specie, la pretesa della parte ricorrente è strumentale, così come dedotto, non solamente ad una esigenza di difesa in giudizio, ma ad una più generale conoscenza delle circostanze di fatto che hanno determinato l’insorgenza dell’infezione del batterio di cui si discute al fine dell’apprezzamento delle modalità con cui contrastarne la diffusione, essendone direttamente incise secondo quanto ampiamente esposto in atti.
Entro i descritti limiti, il ricorso, in parte qua, è fondato ed è meritevole di accoglimento, con la condanna del Ministero resistente a consentire l’accesso agli atti ed ai documenti richiesti di cui dovrà essere assicurata la necessaria esibizione ed eventuale estrazione di copia a richiesta delle parti interessate, previa richiesta all’Autorità Giudiziaria procedente di rilascio delle relative copie ai sensi dell’art. 258 c.p.p. ed a condizione del relativo esito, per quanto riguarda i documenti sottoposti a sequestro.
La richiesta ex art. 258 c.p.p. dovrà essere proposta all’A.G. procedente entro il termine di giorni trenta dalla comunicazione della presente sentenza o sua notifica a cura di parte; in caso di avvenuto rilascio delle copie o degli originali da parte dell’A.G. dei documenti d’interesse, il relativo accesso in favore delle parti odierne ricorrenti dovrà essere assicurato entro il termine dei trenta giorni successivi, previa la corresponsione dei relativi costi di riproduzione.
Gli altri documenti dovranno essere resi accessibili, in visione e con estrazione di relativa copia se richiesta, entro il termine di giorni trenta dalla comunicazione della presente sentenza o sua notifica a cura di parte.

EDILIZIA PRIVATA: Inammissibilità della sanatoria condizionata.
Deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.

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4. Invero, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (v. Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3 n. 23726 del 24/02/2009, Peoloso, non massimata; Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro, Rv. 238020; Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro, Rv. 226897 ed altre prec. conf.).
Tali principi, pienamente condivisi dal Collegio, devono pertanto essere ribaditi
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2015 n. 51013).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Opere nel sottosuolo.
Poiché l'art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 vieta l'esecuzione di lavori "di qualsiasi genere" su beni paesaggistici senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, il vincolo ambientale-paesaggistico si palesa operante anche con riferimento alle opere da realizzarsi nel sottosuolo, implicando anche queste ultime una utilizzazione del territorio idonea a modificarne l'assetto.
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2. Nel caso di specie, al contrario, i giudici di appello, nel richiamare la sentenza di primo grado, hanno fatto integralmente proprie le argomentazioni sostenute dal primo giudice senza fornire puntuale risposta alle censure mosse dalla difesa con i motivi di gravame.
Invero, nell'affermare la responsabilità dell'imputata, il giudice di primo grado si era limitato a rilevare l'inserimento nel paesaggio "di elementi nuovi ed alteranti, richiedenti la necessità del parere paesaggistico" e che la ricorrente "non aveva ottenuto il parere da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico".
La difesa, in sede di gravame, aveva censurato la decisione del primo giudice, evidenziando la circostanza che le opere poste in essere erano dirette al mero recupero ambientale di un terrapieno a rischio di crollo in conseguenza di infiltrazioni, che avevano reso franosa la zona interessata dall'intervento.
Dal punto di vista soggettivo, la difesa aveva censurato, altresì, la mancanza di motivazione della sentenza di primo grado atteso che, di fronte alle precisazioni fornite circa la buona fede dell'imputata, non una parola era stata spesa per spiegare le ragioni per cui la previsione dei piani urbanistici locali non potesse giustificare l'assenza di colpa dell'imputata, o quantomeno l'insussistenza di un errore scusabile.
3. Orbene, la Corte territoriale, pur a fronte di specifiche censure quanto alla sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del reato contestato, si è limitata a confermare la decisione del primo giudice senza fornire adeguata risposta alle censure formulate.
Effettivamente,
poiché l'art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004 vieta l'esecuzione di lavori "di qualsiasi genere" su beni paesaggistici senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, il vincolo ambientale-paesaggistico si palesa operante anche con riferimento alle opere da realizzarsi nel sottosuolo, implicando anche queste ultime una utilizzazione del territorio idonea a modificarne l'assetto.
Tuttavia, nella vicenda in esame, la difesa aveva evidenziato che l'imputata era stata costretta ad avviare le opere di manutenzione a causa del pericolo di frane conseguenti alle infiltrazioni di acqua nel terreno.
4. Nella motivazione della sentenza impugnata, si legge che le opere realizzate non potevano essere considerate come opere di manutenzione straordinaria, riferendo che si era trattato della realizzazione di una trave di fondazione di cemento armato lunga 12 metri e larga 1,30 metri con uno sbancamento di terreno di circa 100 mq, interessando una superficie di circa 120 mq. e sottolineando che, al momento dell'accertamento erano in corso i lavori di trivellazione per la realizzazione di pali in cemento armato.
Ma i giudici non hanno indicato le ragioni per cui hanno escluso la sussistenza del pericolo di cedimento, pure sostenuta dall'imputata, a fronte della situazione di notoria fragilità dell'assetto idrogeologico dei luoghi, e dunque, delle ragioni per cui l'opera non poteva essere qualificata come manutenzione straordinaria, volta a fronteggiare tale pericolo. Parimenti, nella motivazione sono state disattese le argomentazioni difensive con una motivazione apodittica e senza alcuna ulteriore precisazione.
5. Pertanto, a giudizio del Collegio, la motivazione della sentenza impugnata risulta lacunosa laddove il giudice del gravame non ha preso in considerazione i motivi di ricorso proposti dalla difesa della ricorrente in ordine alla sussistenza dell'elemento oggettivo e soggettivo della fattispecie incriminatrice per cui è processo neppure per escluderne la rilevanza.
Del pari va censurata la carenza motivazionale in punto di valutazione della offensività della condotta realizzata. È ben vero che, sotto questo profilo, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato il principio secondo cui,
il reato previsto dal D.Lgs. 22.01. 2004, n. 42, art. 181, qualificabile come di pericolo astratto, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato (tra le varie, cfr. Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013 Rv. 254493; Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011 Rv. 245908).
Si è precisato, altresì, che l'individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v. ex plurimis, Sez. 3, n. 14461 del 07/02/2003, Carparelli, Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 06/02/2003, De Marzi, Rv. 224465; Sez. 3, n. 12863 del 13/02/2003, Abbate, Rv. 224896; Sez. 3, n. 10641 del 30/01/2003, Spinosa, Rv. 224355) e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
6. Peraltro, questa Corte intende ribadire l'essenzialità del cd. principio di offensività (Sez. 3, n. 2733 del 26/11/1999, P.M. in proc. Gajo, Rv. 215868; Sez. 3, n. 44161 del 23/10/2001, Zucchini, Rv. 220624) ricordando anche quanto osservato, sul tema, dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 1997), secondo la quale
anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto od astratto è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 c.p. (sentenza n. 360 del 1995).
Invero, come precisato (Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011, Fanciulli, Rv. 251244, cit.),
il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto (affermazione peraltro successivamente ribadita in Sez. 3, n. 13736 del 26/02/2013, Manzella, Rv. 254762 e, precedentemente, formulata in Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009, Soverini, Rv. 245908).
7. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha omesso di dare conto degli elementi fattuali che assumono significativo rilievo ai fini della valutazione di incidenza delle opere sull'assetto del paesaggio.
Sotto questo profilo, infatti, la sentenza impugnata si è limitata ad affermare che l'opera realizzata era di notevole entità e logicamente prodromica ad altra opera, senza fornire, tuttavia, ulteriori indicazioni. Ad avviso del Collegio, si tratta di considerazioni lacunose, che non consentono di evidenziare la concreta offensività dell'intervento posto in essere dall'imputata.
Alla luce delle argomentazioni svolte, la sentenza impugnata deve essere quindi annullata con rinvio per un nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2015 n. 51002 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Trasporto e terzo estraneo al reato.
L'art. 259 del d.lgs. n. 152 del 2006 deve essere interpretata nel senso che, al fine di evitare la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto utilizzato per la gestione abusiva dei rifiuti, incombe al terzo estraneo al reato che ne sia il proprietario l'onere di provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito del mezzo gli era ignoto e non era collegabile ad un suo comportamento negligente.
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4. - I ricorsi delle imputate sono inammissibili. Con essi ci si limita, infatti, a formulare generiche e indimostrate asserzioni circa un preteso errore di destinazione nel quale le stesse sarebbero incorse nel condurre l'autocarro con i rifiuti e Circa una sostanziale mancanza di riprovazione sociale del comportamento tenuto nel contesto del campo nomadi nel quale esse vivono.
E ciò, a fronte della dettagliata e coerente motivazione della sentenza impugnata, nella quale si dà, oltretutto conto delle insanabili contraddizioni tra le giustificazioni dei fatti fornite dalle imputate e da un ulteriore testimone sentito.
Con il ricorso non si contestano, del resto, la materialità del fatto e la mancanza di qualsivoglia titolo abitativo per il trasporto dei rifiuti, i quali consistevano perlopiù in rottami ed erano abusivamente condotti presso una ditta specializzata nell'acquisto del ferro.
5. - È invece fondato il ricorso del pubblico ministero, con cui si lamenta l'erronea applicazione dell'art. 259 del d.lgs. n. 152 del 2006. Tale disposizione deve, infatti, essere interpretata nel senso che,
al fine di evitare la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto utilizzato per la gestione abusiva dei rifiuti, incombe al terzo estraneo al reato che ne sia il proprietario l'onere di provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito del mezzo gli era ignoto e non era collegabile ad un suo comportamento negligente (ex plurimis, sez. 3, 16.01.2015, n. 18515, rv. 263772; sez. 3, 17.01.2013, n. 9579, rv. 254749).
Il Tribunale non ha fatto corretta applicazione di tale principio, perché ha proceduto alla restituzione del mezzo al terzo proprietario sul rilievo della mancanza in atti di elementi da cui desumere un suo coinvolgimento materiale o psicologico nel reato, così sostanzialmente sottraendo quest'ultimo all'onere di provare positivamente la sua buona fede (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2015 n. 51001 - tratto da www.lexambiente.it).

INCARICHI PROGETTUALI: In tema di azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. conseguente all’assenza di un valido contratto d’opera, l’indennità prevista dall’art. 2041 cod. civ. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito nell’ipotesi che il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace.
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3) Il primo motivo di ricorso principale deve essere disatteso.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa, quali azioni che riguardano entrambe diritti eterodeterminati, si differenziano, strutturalmente e tipologicamente, sia quanto alla "causa petendi" (esclusivamente nella seconda rilevando come fatti costitutivi la presenza e l'entità del proprio impoverimento e dell'altrui locupletazione, nonché, ove l'arricchito sia una P.A., il riconoscimento dell'utilitas da parte dell'ente), sia quanto al "petitum" (pagamento del corrispettivo pattuito o indennizzo).
Ne consegue che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo -al quale si devono applicare le norme del rito ordinario, ai sensi dell'art. 645, secondo comma, e, dunque, anche l'art. 183, quinto comma, c.p.c- è ammissibile la domanda di arricchimento senza causa avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall'opposto (che riveste la posizione sostanziale di attore) soltanto qualora l'opponente abbia introdotto nel giudizio, con l'atto di citazione, un ulteriore tema di indagine, tale che possa giustificare l'esame di una situazione di arricchimento senza causa. In ogni altro caso, all'opposto non è consentito di proporre, neppure in via subordinata, nella comparsa di risposta o successivamente, un'autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui inammissibilità è rilevabile d'ufficio dal giudice (Cass. S.U. 27.12.2010 n. 26128).
Nel caso in esame, la necessità, per l'opposto, di introdurre, in via subordinata, la domanda di arricchimento senza causa, è conseguenza della difesa del Comune opponente, che ha contrastato l'azione contrattuale proposta dal Rizzi assumendo l'invalidità dell'incarico professionale e la sua inidoneità ad impegnare l'ente territoriale, perché non legittimamente conferito con delibera dell'organo competente e con adeguata previsione di spesa. Tale domanda, pertanto, essendo stata proposta dall'opposto nella comparsa di costituzione di primo grado, deve ritenersi ammissibile (cfr. Cass. 04.10.2013 n. 22754).
Deve aggiungersi che, con riguardo a procedimento pendente (come il presente) alla data del 30.04.1995 -per il quale trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., nel testo vigente anteriormente alla "novella" di cui alla legge n. 353 del 1990-, il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado, risulta posto a tutela della parte destinataria della domanda. Pertanto, la violazione di tale divieto -che è rilevabile anche d'ufficio, non essendo riservata alle parti l'eccezione di novità della domanda- non è sanzionabile in presenza di un atteggiamento non oppositorio della parte medesima, consistente nell'accettazione esplicita del contraddittorio o in un comportamento concludente che ne implichi l'accettazione (Cass. Sez. Un. 22.05.1996 n. 4712).
Nella specie, dall'esame diretto degli atti, consentito per la natura procedurale del vizio denunciato, si evince che nel rassegnare le conclusioni di primo grado (integralmente trascritte a pag. 4 della sentenza del Tribunale) il Comune di San Donà del Piave ha chiesto "respingersi la domanda subordinata dell'opposto difettando, nel caso, i presupposti per l'esperibilità dell'eccezione ex art. 2041 c.c. e, comunque, per mancato arricchimento del Comune". L'opponente, pertanto, difendendosi nel merito, ha tenuto un comportamento concludente, implicante accettazione del contraddittorio sulla domanda subordinata proposta dalla controparte nella comparsa di costituzione.
4) Anche il secondo motivo è privo di fondamento.
Come è stato più volte chiarito da questa Corte,
l'azione di responsabilità che, a norma dell'art. 23 D.L. n. 66 del 1989 (convertito in legge n. 144 del 1989 e riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 D.Lgs. n. 77 del 1995) è esperibile dai privati contro gli amministratori e i funzionari di Province, Comuni e Comunità Montane per prestazioni e servizi resi senza il rispetto delle prescritte formalità, comporta che, limitatamente ai suddetti enti e alle indicate situazioni, il privato, disponendo di un'azione diretta, non può esperire nei confronti della P.A. l'azione sussidiaria di arricchimento senza causa. Tuttavia, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del citato D.L. n. 66, deve ritenersi l'esperibilità dell'azione di indebito arricchimento per tutte le prestazioni e i servizi resi alla P.A. anteriormente all'entrata in vigore di tale normativa, non difettando il requisito della sussidiarietà per il fatto che il privato può agire direttamente contro chi -amministratore o funzionario- abbia invalidamente commissionato le opere o i servizi, atteso che la responsabilità diretta di funzionari e dipendenti pubblici è posta dall'art. 28 Cost. su di un piano alternativo e paritetico (Cass. 03.08.2000 n. 10199; Cass. 20.08.2003 n. 12208; Cass. 11.05.2007 n. 10884; Cass. 26.06.2012 n. 10636).
Alla luce di tali principi, correttamente la sentenza non definitiva della Corte di Appello ha ritenuto ammissibile la domanda subordinata di arricchimento senza causa proposta dall'opposto nei confronti del Comune opponente, avendo accertato che l'attività di progettazione dell'architetto Rizzi è stata effettuata in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.l. n. 66/1989.
Non rileva, in contrario, che l'utilitas del Comune sia stata conseguita in epoca successiva all'entrata in vigore di tale normativa, in quanto il citato art. 23, nel disporre al terzo comma che qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere assistita da un conforme provvedimento dell'organo munito di potere deliberativo e da uno specifico impegno contabile registrato nel competente bilancio di previsione, e nello stabilire al quarto comma che, in mancanza, il rapporto obbligatorio si instaura direttamente "tra il privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura", individua chiaramente nella esecuzione della prestazione del privato il momento genetico dell'obbligazione a carico dell'amministratore o funzionario dell'ente che l'abbiano consentita.
5) Il terzo motivo, nella parte in cui si duole del ritenuto riconoscimento dell'utilitas da parte del Comune, è privo di fondamento.
Si rileva, al riguardo, che,
in tema di azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., il riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione può avvenire anche in maniera implicita, mediante l'utilizzazione dell'opera o della prestazione consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente. In particolare, l'adozione da parte del competente organo dell'Amministrazione di un Piano Urbanistico Particolareggiato, elaborato da un professionista per conto della stessa Amministrazione, configura un implicito riconoscimento dell'utilità dell'attività svolta dal professionista medesimo, senza che a tal fine sia necessario che all'adozione del Piano abbia fatto seguito il completamento dell'iter amministrativo di approvazione definitiva, poiché l'approvazione definitiva del Piano può essere rilevante ai fini dell'adozione dello strumento urbanistico, ma non ai fini del riconoscimento dell'utilità della prestazione del professionista (Cass. 30.04.2008 n. 10922).
Nella specie, pertanto, legittimamente la Corte di Appello ha ritenuto sufficienti, ai fini del riconoscimento dell'utilità dell'opera, le delibere degli organi comunali di adozione dei Piani Particolareggiati elaborati dal Ri., a prescindere dal completamento dell'iter amministrativo di approvazione definitiva di tali Piani.
Il motivo in esame, al contrario, risulta fondato nella parte in cui censura i criteri seguiti dal giudice di merito nella quantificazione dell'indennizzo ex art. 2041 c.c.. Come è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte,
in tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della P.A. conseguente all'assenza di un valido contratto d'opera, l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito nella ipotesi che il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace (Cass. S.U. 11.09.2008 n. 23385).
Pertanto,
ai fini della determinazione dell'indennizzo dovuto al professionista, non possono essere assunte come parametro le tariffe professionali, ancorché richiamate da parcelle vistate dall'Ordine competente (Cass. Sez. Un. 27.01.2009 n. 1875), non trattandosi in questo caso di corrispettivo per prestazioni professionali rese dal professionista nell'esecuzione di un contratto con un cliente, per le quali è giustificato il ricorso alla tariffa professionale, ma di una somma che va liquidata in forza delle risultanze processuali, se ed in quanto si sia verificato un vantaggio patrimoniale a favore della P.A., con correlativa perdita patrimoniale della controparte (Cass. 18.02.2010 n. 3905).
Nella specie, la sentenza definitiva della Corte di Appello, nel liquidare in favore del Ri., a titolo di indennizzo ex art. 2041 c.c., una somma pari a quella chiesta con le parcelle fatturate conformi alla tariffa professionale, vistate dal Consiglio dell'Ordine, ha disatteso tali principi, avendo riconosciuto al professionista un importo corrispondente al compenso che il medesimo avrebbe potuto pretendere in caso di valido conferimento dell'incarico di redazione dei Piani Particolareggiati in questione.
S'impone, di conseguenza, la cassazione nella parte de qua della sentenza definitiva impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Venezia, la quale, ai fini della determinazione dell'indennizzo dovuto al Rizzi per l'attività prestata in favore del ricorrente, dovrà attenersi ai principi di diritto innanzi enunciati. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 23.12.2015 n. 25957).

VARI: Il soggetto che possiede un bene per un certo numero di anni per cui può diventarne legittimo proprietario grazie all’usucapione, non può vedersi interrotto il termine nel caso dovesse inviare una lettera con l’intenzione di voler in futuro diventare proprietario del bene dal presunto titolare.
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2.1.- Il motivo è infondato.
Va qui osservato che –come afferma autorevole dottrina e anche la giurisprudenza di questa Corte– si possono distinguere due ipotesi di interruzione del possesso ad usucapionem: interruzione “naturale” e interruzione “civile”; ricorre la prima allorché il possessore è stato privato del possesso per oltre un anno per fatto di un terzo (ad es. in conseguenza di uno spoglio del bene). Si tratta, invece, di interruzione civile, ogni qual volta, contro il possessore è stata esercitata una domanda giudiziale tesa a contestare la legittimità del potere esercitato sulla cosa (siano esse azioni di rivendica e/o di restituzione).
A sua volta, va qui osservato –come ha già detto questa Corte in altra occasione– che poiché, con il rinvio fatto dall’articolo 1165 c.c., all’articolo 2943 c.c., risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso,
non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, per quanto con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare il diritto, giacché la tipicità dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti (v. Cass. 12.09.2000 n. 12024; Cass. 21.05.2001 n. 6910; Cass. 01.04.2003 n. 4892; Cass. 11.06.2009 n. 13625), con la conseguenza che non può riconoscersi efficacia interruttiva del possesso (oltre che ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa) se non ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente.
D’altra parte,
per escludere la sussistenza del possesso utile all’usucapione non è sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l'”animus possidendi” non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà (Cass. 9671/2014; 26641/2013; 7847/2008; 10230/2002).
La Corte di Bologna ha osservato ed ha applicato correttamente questi principi. Infatti, come ha avuto modo di chiarire, la Corte di Bologna: “la lettera in questione volta al compimento di un’attività negoziale finalizzata ad ottenere il trasferimento di proprietà del bene posseduto, non escludeva che il possessore avesse avuto, comunque, l’intenzione di possedere la cosa come propria, non essendo necessario l’intento di pervenire all’acquisto della proprietà per usucapione e ben potendo, la lettera in questione essere interpretata, anche come manifestazione di volontà rivolta ad ottenere la regolarizzazione in qualsiasi modo dell’acquisto".
Così, come la Corte di Bologna correttamente ha affermato che “la semplice consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, non è infatti, sufficiente al fine del riconoscimento idoneo ad interrompere il termine utile ad usucapire, essendo necessario che il possessore per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per il fatto in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare" (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 22.12.2015 n. 25764).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Delitto paesaggistico e principio di offensività.
In tema di reati ambientali, il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente" che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato, tanto sul rilievo che il principio di offensività deve essere inteso come attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto.
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2. E' qui sufficiente ricordare, in aggiunta alle corrette considerazioni espresse in parte qua dalla Corte del merito, come, ai fini della lamentata mancanza di lesività in ordine al fatto di reato ascritto agli imputati ricorrenti, questa Corte abbia recentemente affermato il principio di diritto in base al quale,
in tema di reati ambientali, il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente" che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263978), tanto sul rilievo che il principio di offensività deve essere inteso come attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha dato conto della fondamentale circostanza che l'area, nel suo complesso e non il singolo immobile, era stata dichiarata di notevole interesse pubblico, tanto che il decreto ministeriale istitutivo del vincolo aveva imposto "l'obbligo di presentare alla competente Soprintendenza, per la preventiva approvazione, qualsiasi progetto di lavori che si intendessero effettuare nella zona", tenuto altresì conto che fra le ragioni del vincolo vi era non solo il pregio architettonico dei singoli edifici, ma altresì "il quadro naturale di particolare importanza visibile da vari punti del centro urbanistico".
Pertanto i giudici, dandone congrua motivazione, hanno valutato l'intervento idoneo a compromettere gli interessi paesaggistici pervenendo alla corretta conclusione circa la sussistenza di un'effettiva messa in pericolo del paesaggio, oggettivamente insita nella minaccia ad esso portata e valutabile come tale ex ante, nonché una violazione dell'interesse dalla P.A. ad una corretta informazione preventiva ed all'esercizio di un efficace e sollecito controllo.
...
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte distrettuale ha disatteso la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la permanenza del reato di edificazione abusiva, anche in danno degli interessi paesaggistici, termina, con conseguente consumazione della fattispecie di reato, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498; Sez. 3, n. 43147 del 08/10/2003, Genova, Rv. 226498; Sez. 3, n. 8563 del 14/01/2003, Gargiulo, Rv. 224980; Sez. 3, n. 38136 del 25/09/2001, Triassi, Rv. 220351).
Da ciò consegue che,
stante la natura permanente del reato, la consumazione perdura per tutto il tempo in cui continua l'attività edilizia illecita, ed il suo momento di cessazione va individuato o nella sospensione dei lavori, sia essa volontaria o imposta "ex auctoritate", tanto a seguito di sospensione amministrativa quanto per intervenuto sequestro penale, o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell'opera o, infine, nella sentenza di primo grado, ove i lavori siano proseguiti dopo l'accertamento e sino alla data del giudizio.
Quindi
anche la sospensione volontaria dal proseguire i lavori, quale desistenza consistente in un comportamento inequivoco di definitiva cessazione della condotta antigiuridica, comporta la cessazione della permanenza del reato di costruzione abusiva, anche se la violazione sia stata commessa in zona protetta dal vincolo paesaggistico, sicché non occorre che la sospensione sia stata necessariamente imposta ex auctoritate o che l'ordine di sospensione debba essere efficace e non perento.
Ciò che rileva, e che deve essere rigorosamente provato o risultare dagli atti, è che l'attività antigiuridica sia cessata in quanto con la sua interruzione, volontaria o imposta, viene meno l'ulteriore compromissione del bene giuridico tutelato.
...
5. Il ricorso del Procuratore generale è, in astratto, fondato posto che
la sanzione specifica della rimessione in pristino ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso e quindi si riconnette al preminente interesse di giustizia sotteso all'esercizio dell'azione penale.
Peraltro
l'obbligo di ripristino si colloca su un piano diverso ed autonomo rispetto a quello dei poteri della pubblica amministrazione e delle valutazioni della stessa, configurandosi come conseguenza necessaria sia dell'esigenza di recuperare l'integrità dell'interesse tutelato, sia del giudizio di disvalore che il legislatore ha dato all'attuazione di interventi modificativi del territorio in zone di particolare interesse ambientale (Sez. 3, n. 4135 del 20/02/1998, Settimi A., Rv. 210504; Sez. 3, n. 3195 del 13/11/2008, dep. 23/01/2009, P.G. in proc. Amico, Rv. 242175).
Tuttavia
la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione impedisce, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, la pronuncia da parte del giudice penale dell'ordine di rimessione in pristino.
Infatti,
l'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato, previsto per il reato paesaggistico, va obbligatoriamente emesso, ai sensi dell'art. 181, comma 2, d.lgs. n. 42 del 2004, con la sentenza di condanna o con sentenze a questa equiparate (come la sentenza di applicazione della pena su accordo delle parti e, in tal caso, pure in difetto di accordo, o il decreto penale di condanna), in quanto si tratta di statuizioni obbligatorie e sottratte alla disponibilità delle parti (Sez. 3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli, Rv. 240539).
Ne consegue che,
in mancanza dell'emanazione di una sentenza di condanna o ad essa equiparata, l'ordine di rimessione in pristino non va emesso o, se disposto, va revocato nel caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione dal giudice dell'impugnazione, fermo restando l'autonomo potere-dovere dell'autorità amministrativa di disporlo o di riattivarlo (Sez. 3, n. 4798 del 06/02/2003, dep. 06/02/2004, Buono, Rv. 229346; Sez. 3, n. 51010 del 24/10/2013, Criscuolo, Rv. 257916; Sez. 3, n. 42703 del 07/07/2015, Pisani, non mass.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.12.2015 n. 49990 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'accertamento di compatibilità paesaggistica, così conseguito, comporta l'estinzione del reato di cui all'art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004 e di ogni altro reato in materia paesaggistica e quindi, non si estende ai reati edilizi.
Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001 non può determinare l'estinzione del reato di cui all'art. 181 D.L.vo n. 42/2004.
A norma dell'art. 45 DPR 380/2001, infatti, il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.

La giurisprudenza di questa Corte (a partire da quella formatasi in relazione agli artt. 13 e 22 L. 47/1985) ha costantemente affermato che
l'effetto estintivo non opera nei confronti dei reati aventi oggettività giuridica diversa, come quelli relativi a violazioni di disposizioni dettate dalle leggi in materia di costruzioni in zona sismica, di opere in conglomerato cementizio o di vincoli ambientali e paesaggistici. Tali disposizioni, infatti, pur riguardando l'attività edificatoria sono "diverse" sotto il profilo della ratio e degli obiettivi perseguiti, da quelle in materia urbanistica.
Per quanto riguarda specificamente i reati paesaggistici previsti dal D.L.vo 42/2004, si è rilevato che essi sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
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2.3. Si assume, però, dai ricorrenti che tali reati dovrebbero, comunque, ritenersi estinti (con conseguente illegittimità dell'applicazione della misura cautelare reale) a seguito del rilascio di permesso di costruire in sanatoria e di accertamento di compatibilità paesaggistica.
Rileva il Collegio che l'assunto difensivo non possa essere accolto per le ragioni, di seguito esposte, che integrano i rilievi svolti dal Tribunale sul punto.
Secondo la stessa prospettazione difensiva l'effetto estintivo dovrebbe essere determinato dal rilascio di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001 da parte del Comune di San Vito dei Normanni (n. 802/E del 16/12/2014) e dall'accertamento di compatibilità paesaggistica effettuato dalla Regione Puglia, con nota del 09/10/2014.
L'art. 36 DPR 380/2001 prevede che il responsabile dell'abuso o il proprietario possano ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. "doppia conformità").
Ma tale "condizione" non sussiste, essendo l'opera in contrasto, come si è visto, con le previsioni del PUTT.
Inoltre il permesso di costruire in sanatoria, rilasciato dal Comune di San Vito dei Normanni, è subordinato alla "condizione che prima della entrata in esercizio dell'impianto sia acquisito il diritto di servitù area per le particelle e per le porzioni di particelle non previste nell'elenco dei Piano Particellare ed Esproprio autorizzato" (al momento del rilascio del permesso in sanatoria quindi non vi era alcun titolo in ordine all'area occupata dalle opere realizzate).
In ogni caso,
il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001 non può determinare l'estinzione del reato di cui all'art. 181 D.L.vo n. 42/2004.
A norma dell'art. 45 DPR 380/2001, infatti, il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.

La giurisprudenza di questa Corte (a partire da quella formatasi in relazione agli artt. 13 e 22 L. 47/1985) ha costantemente affermato che
l'effetto estintivo non opera nei confronti dei reati aventi oggettività giuridica diversa, come quelli relativi a violazioni di disposizioni dettate dalle leggi in materia di costruzioni in zona sismica, di opere in conglomerato cementizio o di vincoli ambientali e paesaggistici. Tali disposizioni, infatti, pur riguardando l'attività edificatoria sono "diverse" sotto il profilo della ratio e degli obiettivi perseguiti, da quelle in materia urbanistica (cfr. ex multis Cass. sez. 3 02.07.1994 n. 7541; Cass. sez. 3 26.06.1997 n. 6225; Cass. sez. 3 n. 11511 del 15.02.2002; Cass. sez. 3 22.05.2006 n. 17591; Cass. Sez. 3 n. 11271 del 17.02.2010).
Per quanto riguarda specificamente i reati paesaggistici previsti dal D.L.vo 42/2004, si è rilevato (Cass. sez. 3 n. 37318 del 03.07.2007) che essi sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio (v. anche Corte Cost., ord. 21.07.2000 n. 327).
2.4. Ma il reato di cui all'art. 181 D.L.vo 42/2004 non può ritenersi estinto neppure per effetto dell'accertamento di compatibilità paesaggistica, effettuato dalla Regione Puglia con nota del 09/10/2014.

Era principio consolidato che il successivo rilascio dell'autorizzazione paesistica, da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, non determinasse l'estinzione del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 art. 181 (già art. 163 D.Lgs. n. 490/1999) poiché tale effetto non era previsto da alcuna disposizione legislativa (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3, 04/02/1999 ric. De Laurentis).
Anche la Corte Costituzionale aveva osservato che "la sopravvenienza dell'autorizzazione è irrilevante ai fini della sottoposizione a sanzione penale ai sensi della L. n. 431 del 1985, art. 1-sexies (sentenza n. 318 del 1994); infatti l'autorizzazione intervenuta dopo l'inizio dell'attività soggetta al necessario previo controllo paesaggistico non è sufficiente per rimuovere in via generale l'antigiuridicità penalmente rilevante dell'attività già compiuta in assenza di titolo abilitativo" (cfr. ordinanza n. 158 del 1998).
L'art. 146, comma 12, D.Lgs n. 42/2004 ha ribadito espressamente che "l'autorizzazione paesaggistica.... non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi".
Sennonché, derogando a siffatto consolidato principio, il comma 36 dell'art. L. 308/2004 ha aggiunto all'art. 181 D.L.vo n. 42/2004 il comma 1-ter, prevedendo una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica, sia pure in limitati casi.
Tale norma stabilisce, infatti, che "ferma restando l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui all'art. 167, qualora l'autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la disposizione di cui al comma 1 non si applica: a) per il lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l'impiego di materiali in difformità dell'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380".
2.4.1. Nel caso di specie, come si è visto in precedenza, ci si trova in presenza dì opere che erano state realizzate in area diversa da quella autorizzata, per cui rispetto ad essa si è determinata quanto meno la realizzazione di nuove superfici utili.
2.4.2. Neppure è applicabile (non è stato neppure invocato e non ne ricorrono palesemente le condizioni) il comma 37 dell'art. L. 308/2004 che ha introdotto una ipotesi di sanatoria per lavori abusivi compiuti, in zone sottoposte a vincolo, entro il 30.09.2004, sempre che intervenga ex post l'accertamento di compatibilità paesaggistica.
La norma non prevede alcuna esclusione in relazione all'entità dell'abuso ("lavori compiuti su beni paesaggistici"), -cfr. cass. pen. sez. 3 n. 15946 del 05.04.2006-, ma subordina la sanatoria alla condizione che:
a) le tipologie edilizie realizzate ed i materiali utilizzati, anche se diversi da quelli indicati nell'eventuale autorizzazione, rientrino tra quelli previsti ed assentiti dagli strumenti di pianificazione paesaggistica, ove vigenti, o, altrimenti, siano giudicati compatibili con il contesto paesaggistico;
b) i trasgressori abbiano previamente pagato la sanzione pecuniaria di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 art. 167 maggiorata da un terzo alla metà ed una sanzione pecuniaria aggiuntiva determinata dall'autorità amministrativa competente.
Peraltro,
l'accertamento di compatibilità paesaggistica, così conseguito, comporta l'estinzione del reato di cui all'art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004 e di ogni altro reato in materia paesaggistica e quindi, non si estende ai reati edilizi: al contrario della legge 326/2003 (art. 42, comma 43, n. 1) che estendeva la sanatoria anche al reato per la violazione del vincolo, analoga previsione non è contenuta nel comma 37 sopra richiamato (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2015 n. 49669).

ATTI AMMINISTRATIVIInformazioni ambientali con accesso ampio. Tar Venezia. La Pa deve consentire copia dei documenti a chi ne faccia richiesta tutelando ciò che è segreto industriale in senso stretto.
Il diritto all’accesso all’«informazione ambientale» va garantito a chiunque ne faccia richiesta e anche tutelando i dati coperti da segreto industriale la Pa deve consentire la copia dei documenti e non solo la visione.

Il TAR Veneto, Sez. III, sentenza 17.12.2015 n. 1335, ha così accolto il ricorso di un privato al quale la Regione aveva negato la copia degli elaborati tecnici e progettuali presentati da una azienda per la domanda di concessione di una derivazione d’acqua a uso idroelettrico.
L’ente, che aveva motivato il proprio “no” solo dopo il richiamo del difensore civico interpellato del caso, riteneva che l’obbligo di «tutela della proprietà intellettuale e del know-how in essi contenuto» -come invocato dalla società- ammettesse soltanto la visione degli atti richiesti.
La domanda era stata presentata secondo la disciplina sull’«accesso del pubblico all’informazione ambientale» definita in ambito comunitario per garantire la «più ampia trasparenza» su questo tipo di documenti (Dlgs 195/2005, attuazione direttiva 2003/4/Ce che abroga la 90/313/Cee).
La normativa (comma 3, articolo 1) stabilisce che «l’autorità pubblica rende disponibile (...) l’informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse», ma nei “casi di esclusione del diritto d’accesso” (articolo 5) –tra gli altri, il «pregiudizio alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali» e ai «diritti di proprietà intellettuale»- obbliga la Pa ad applicarne i dettami «in modo restrittivo, effettuando, in relazione a ciascuna richiesta di accesso, una valutazione ponderata fra l’interesse pubblico all’informazione ambientale e l’interesse tutelato dall’esclusione».
Il Tar, ammettendo l’ipotesi di un «accesso parziale» nei diversi casi d’esclusione fissati da tali norme, ha spiegato che in ogni caso «la legittima esigenza di tutela del segreto industriale non esime l’amministrazione da un puntuale esame delle ragioni opposte, non potendosi in altri termini l’amministrazione limitare ad assumere come irrimediabilmente ostativo l’avviso della ditta controinteressata ai fini dell’ostensione piuttosto che dell’estrazione di copia (...)».
Perciò in questo caso «ben si sarebbe potuto consentire un accesso parziale, escludendosi solo ed esclusivamente quelle informazioni direttamente attinenti con il segreto industriale da tutelare» e, come sottolineato, «(...) consentendosi appunto l’estrazione di copia di tutta la documentazione progettuale che non afferisca direttamente a profili involgenti il segreto industriale, secondo una valutazione necessariamente restrittiva in ordine agli eventuali profili ostativi».
Nella sentenza, oltre a ordinare alla Regione di fornire anche la copia dei documenti amministrativi sulla questione considerata senza dubbio “ambientale”, i giudici amministrativi hanno poi precisato che «(...) l’amministrazione non avrebbe potuto, in presenza di una chiara indicazione da parte del difensore civico regionale, limitarsi alla mera riproposizione di quanto già affermato, con l’adozione di un atto meramente confermativo e non di un atto eventualmente di motivata conferma come espressamente richiesto dal difensore civico regionale» (articolo Il Sole 24 Ore del 27.01.2016).
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MASSIMA
Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato secondo quanto specificato infra.
È pacifico che nella specie si controverta in ordine a un procedimento relativo a informazioni ambientali secondo quanto previsto dal decreto legislativo numero 195 del 2005: orbene prevede l’articolo 3, comma 1, che l’autorità pubblica rende disponibile secondo le disposizioni del presente decreto l’informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse, prevedendo i casi di esclusione all’articolo cinque, in base al quale deve essere effettuata una valutazione ponderata fra l’interesse pubblico all’informazione ambientale e l’interesse tutelato dall’esclusione dall’accesso, con applicazione restrittiva da parte dell’amministrazione, consentendosi, se del caso, un accesso parziale.
Detto che la legittima esigenza di tutela del segreto industriale non esime l’amministrazione da un puntuale esame delle ragioni opposte, non potendosi in altri termini l’amministrazione limitare ad assumere come irrimediabilmente ostativo l’avviso della ditta controinteressata ai fini dell’ostensione piuttosto che dell’estrazione di copia, nel caso in esame ben si sarebbe potuto consentire un accesso parziale, escludendosi solo ed esclusivamente quelle informazioni direttamente attinenti con il segreto industriale da tutelare.

Ed è in tali termini che deve essere accolta la domanda presentata, consentendosi appunto l’estrazione di copia di tutta la documentazione progettuale che non afferisca direttamente a profili involgenti il segreto industriale, secondo una valutazione necessariamente restrittiva in ordine agli eventuali profili ostativi.
Da ultimo l’amministrazione non avrebbe potuto, in presenza di una chiara indicazione da parte del difensore civico regionale, limitarsi alla mera riproposizione di quanto già affermato, con l’adozione di un atto meramente confermativo e non di un atto eventualmente di motivata conferma come espressamente richiesto dal difensore civico regionale.
In tale quadro il ricorso deve essere accolto con condanna dell’amministrazione resistente al pagamento delle spese di giudizio liquidate come in dispositivo.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Il reato previsto dall'art. 256, comma primo, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata), è ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata.
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1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente osservare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che le censure formulate nell'atto di impugnazione fanno quasi esclusivamente riferimento ad una condotta di abbandono di rifiuti che non è, tuttavia, quella contestata nel caso in esame, avendo l'imputazione espressamente ad oggetto le attività di raccolta e stoccaggio di rifiuti, evidentemente in assenza di titolo abilitativo.
L'art. 183, comma 1, lett. o), d.lgs. 152/2006 descrive la raccolta come «il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta, ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla lettera "mm", ai fini del loro trasporto in un impianto di trattamento». La successiva lettera aa) definisce inoltre lo stoccaggio come «le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'allegato B alla parte quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui al punto R13 dell'allegato C alla medesima parte quarta».
Il punto D15 dell'allegato B alla parte quarta riguarda il «deposito preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».
Le operazioni cui si riferisce l'allegato B sono quelle di smaltimento, definito dalla lettera z) dell'art. 183 d.lgs. 152/2006 come «qualsiasi operazione diversa dal recupero anche quando l'operazione ha come conseguenza secondaria il recupero di sostanze o di energia. L'Allegato B alla parte IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo delle operazioni di smaltimento».
Tra le operazioni descritte nell'allegato B figura, al punto D1, il «deposito sul o nel suolo» che, sulla base di quanto riportato in sentenza, sembra essere quella rilevante nel caso di specie.
2. Risulta infatti dalla decisione impugnata che,
all'atto dell'accertamento da parte della polizia giudiziaria presso l'area di cava nella disponibilità della società del ricorrente, il 02/07/2009, venivano sorpresi due operai intenti a «vagliare» «qualche centinaio di metri cubi» di «materiale composto da terre e rocce e rifiuti provenienti da demolizione stradali ed edili di varia natura (pezzi di cemento, pezzi di asfalto, altre demolizioni, mattoni)».
Ad un successivo sopralluogo del 10/07/2009 erano state realizzate «7 trincee sul fondo di cava, sia sulla porzione di area destinata esclusivamente all'attività di cava, sia sulla porzione destinata all'attività di recupero rifiuti».
Sempre da quanto specificato in sentenza, emerge che tale attività aveva come finalità la «ricomposizione mediante riempimento» della cava ad attività ormai cessata.
Sulla base di quanto verificato in fatto dal Tribunale, dunque, appare corretto il riferimento, effettuato nell'imputazione, alle attività di gestione in esso indicate, mentre del tutto inconferenti risultano i richiami del ricorrente ad attività di abbandono mai contestata.
3. Risulta parimenti rilevato in fatto dal giudice del merito che dette attività erano svolte, quanto meno in parte, sulla zona di cava nella quale non era autorizzata l'attività di recupero (peraltro diversa da quelle accertate dalla polizia giudiziaria) e che l'area oggetto dell'intervento era accessibile ai soli dipendenti della società ed, infatti, tali erano coloro che vennero trovati sul posto.
L'attività di gestione illecita veniva dunque svolta nella sede operativa della società, indicata anche nel capo di imputazione ed era certamente obbligo del legale rappresentante della società medesima, in assenza di particolari assetti societari o specifiche deleghe di funzioni, prendere cognizione della violazione di specifici obblighi di legge da parte dei dipendenti, considerando anche che egli avrebbe beneficiato dei vantaggi conseguiti dalla società dall'inosservanza delle specifiche disposizioni in materia di rifiuti.
Va peraltro ricordato, a tale proposito, che
la responsabilità per la attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda (Sez. 3, n. 47432 del 05/11/2003, Bellesini ed altri, Rv. 226868. Conf. Sez. 3, n. 19332 del 11/03/2009, Soria, non massimata; Sez. 3, n. 23971 del 25/05/2011, Graniero, Rv. 250485. Vedi anche Cass. Sez. 3, n. 45932 del 03/05/2013, Manti, non massimata; Sez. 3 n. 15989 del 14/03/2007, Minella, non massimata).
4. Va pertanto ribadito che
il reato previsto dall'art. 256, comma primo, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata), è ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.12.2015 n. 49591).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, viene meno la giustificazione causale della corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito.

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4. Il ricorso è fondato per l’accoglimento del terzo motivo, con cui parte ricorrente ritiene non dovuta la somma in questione per non avere utilizzato la concessione relativa.
4.1. Reputa il Collegio che non sussistono ragioni per discostarsi dal principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, venga meno la giustificazione causale della corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione. Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.02.1988 n. 105; id. 12.06.1995 n. 894 e 23.06.2003 n. 3714; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24.03.2010 n. 728; TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 12.03.2008 n. 2294; TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890; TAR Parma 07.04.1998 n. 149; da ultimo TAR Marche, sez. I, sent. 06.02.2015 n. 114 e TAR Puglia Bari, sez. III, 17.03.2015 n. 420).
4.2. Al riguardo prive di pregio sono le affermazioni del Comune secondo cui “l’odierna ricorrente non ha mai comunicato alla amministrazione de qua la propria intenzione di rinunciare al titolo edilizio di che trattasi, né ha presentato alcuna istanza di sgravio”; né ha rilievo che, solo con missiva del 27.10.2015, la sig.ra Ma. ha chiesto il detto rimborso.
Il Comune, peraltro, non risulta che, in riscontro a detta richiesta, abbia contestato l’utilizzo del titolo, bensì che abbia solo rilevato che, a seguito di controlli effettuati, non risultavano versate le dette somme all’Amministrazione.
4.3. La fondatezza di tale motivo, con assorbimento degli ulteriori, comporta l’accoglimento della domanda avanzata, con accertamento e declaratoria che la sig.ra Ma.Fr.Ma. non è debitrice della somma contestata nei confronti del Comune di San Fili e il conseguente annullamento della cartella impugnata.
4.4. L’accoglimento della domanda di annullamento per mancata utilizzazione del permesso di costruire, in tale specifico caso, però, non comporta la restituzione della somma da parte del Comune (a cui, peraltro, si fa cenno solo in seno al II motivo), atteso che il pagamento, dalla documentazione agli atti, non risulta sia stato effettuato al Comune, bensì a soggetto, non legittimato dall’Amministrazione a riceverlo, che poi non abbia effettuato il versamento alla stessa; in tal caso, resta salva l’applicazione delle regole civilistiche stabilite per la ripetizione nei confronti di colui che ha ricevuto il pagamento indebito, ovviamente nella sussistenza di tutti i presupposti di legge (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.12.2015 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oneri aggiuntivi per mitigare in fase di ristrutturazione. Giurisprudenza. Anche a carichi urbanistici invariati.
I problemi del rumore possono generare aggravi economici nelle ristrutturazioni edilizie: lo sottolinea il Consiglio di Stato, IV Sez., con la sentenza 29.10.2015 n. 4950, favorevole al Comune di Torino in una controversia sul regime di onerosità di un titolo edilizio.
Si discuteva in particolare della ristrutturazione di un edificio risalente all’inizio del 900, inizialmente suddiviso in 34 unità immobiliari su quattro piani, con destinazione commerciale e residenziale, del quale si prevedeva la completa demolizione e ricostruzione con sagoma diversa, con nove piani ma nei limiti della superficie lorda di pavimento preesistente. Le unità immobiliari venivano ridotte da 34 a 24 e sarebbero stati realizzati oltre 20 posti auto nel sottosuolo.
Un intervento del genere, nella logica del carico urbanistico, avrebbe dovuto escludere oneri aggiuntivi perché sia il parametro dei residenti che quello della superficie presentavano una contrazione. Il Comune tuttavia ha preteso il pagamento di oneri aggiuntivi per la riduzione dell’impatto acustico, sottolineando che sarebbe stato necessario stendere, in prossimità dell’intervento, asfalto fonoassorbente. Secondo le misurazioni dell’ente locale, l’insediamento avrebbe consentito l’utilizzo di residenze in cui si superava il limite di rumore derivante dal traffico veicolare.
L’impresa riteneva di non pagare, invocando il principio secondo il quale gli oneri di urbanizzazione, dal 1977 in poi (legge n. 10), rispondono all’esigenza di dotare il tessuto edilizio di adeguati servizi (rete viaria, fognature eccetera), utilizzando il parametro del “carico urbanistico”. Il Comune invece insisteva nella pretesa economica, invocando i sopravvenuti standard di benessere regolati da norme successive all’epoca di costruzione, ed in particolare la normativa sul contenimento del rumore (legge n. 447/1995).
Secondo i giudici, quest’ultima tesi è quella legittima, anche se la ristrutturazione riguardava un edificio ultracentenario che non generava un appesantimento dell’urbanizzazione nei parametri dei servizi pubblici coinvolti (cioè sotto l’aspetto delle opere di urbanizzazione). Il Consiglio di Stato sottolinea infatti le differenti finalità tra gli oneri di urbanizzazione e le norme sulla mitigazione acustica (legge n. 447/1995, Lr Piemonte n. 52/2000 e regolamento del Comune di Torino n. 318/2006), sicché anche una ristrutturazione che diminuisca il carico urbanistico può restare soggetta ai necessari adeguamenti sotto l’aspetto acustico. Di conseguenza, la ristrutturazione va assoggettata ai più elevati standard richiesti da norme sopravvenute.
Nel caso specifico, il Comune ha legittimamente richiesto il pagamento di circa 26mila euro per ovviare al problema del superamento dei limiti acustici, tramite l’utilizzo sulla viabilità pubblica di asfalto fonoassorbente. Quindi, anche se la pianificazione urbanistica vale solo per il futuro e recepisce tutte le preesistenze (Consiglio di Stato, sentenza n. 1052/2007), ciò non esclude che le norme relative a standard qualitativi tecnologici ed ambientali siano di immediata applicazione: ciò, del resto, allo stesso modo in cui anche gli impianti vanno adeguati agli standard sopravvenuti
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Un premio al legale in gamba. Il giudice può decidere di aumentare la parcella. La decisione del tribunale di Verona in sede di definizione delle spese di lite.
Il giudice aumenta al parcella all'avvocato bravo.

La III Sez. civile del TRIBUNALE di Verona ha emesso la sentenza 29.10.2015 che tende a qualificare la professione legale: il giudice, applicando l'art. 4, comma 8, dm n. 55/2014, ha aumentato il compenso dell'avvocato vincitore, riconoscendone quindi le sue capacità nell'espletamento dell'ufficio legale.
Il giudice veronese, regolamentando le spese di lite, sosteneva che andavano poste a carico dell'attrice opponente in applicazione dei principio della soccombenza. Alla liquidazione delle somme spettanti a titolo di compenso si procedeva sulla base del dm 55/2014.
In particolare, secondo il giudice, il compenso per le fasi di studio ed introduttiva poteva essere determinato assumendo a riferimento i valori medi di liquidazione, mentre quello per la fase istruttoria e per la fase decisionale andava quantificato in una somma pari ai corrispondenti valori medi di liquidazione, ridotti del 30 % alla luce della considerazione che la prima è consistita nella sola partecipazione a due udienze, mentre nella fase decisionale parte convenuta ha ripreso le medesime argomentazioni che avevano già svolto in precedenza.
Inoltre nel caso di specie, risultava possibile applicare l'art. 4, comma 8, del dm n. 55/2014, potendo qualificarsi la difesa della convenuta opposta come «manifestamente fondata», secondo l'espressione utilizzata da tale norma.
La norma in esame ha quindi previsto un'ipotesi di soccombenza qualificata, riconoscibile ex officio dal giudice, avente «la duplice finalità non solo di «scoraggiare pretestuose resistenze processuali» ma soprattutto di valorizzare, premiandola, l'abilità tecnica dell'avvocato che, attraverso le proprie difese, sia riuscito a far emergere che la prestazione del suo assistito era chiaramente e pienamente fondata nonostante le difese avversarie» (così testualmente il richiamato parere del Consiglio di stato e in termini pressoché identici la relazione ministeriale al dm 55/2014).
Tale disposizione secondo il giudice scaligero viene in rilievo nei casi in cui il difensore di una parte riesca a far emergere la fondatezza nel merito dei propri assunti e, specularmente, l'infondatezza degli assunti di controparte, senza dover ricorrere a prove costituende e quindi solo grazie ai proprio apporto argomentativo.
Volendo esemplificare si può pensare ai casi in cui la causa risulti di pronta soluzione sulla base di prove documentali di facile intelligibilità ovvero perché involge questioni giuridiche relativamente semplici o ancora perché non vi è stata contestazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione (articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016).

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