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AGGIORNAMENTO AL 17.02.2016 |
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IN EVIDENZA |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Aree
vincolate a parcheggio, chiarimenti sul calcolo delle
superfici. Cassazione: misura non inferiore ad un metro
quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione.
Dal vincolo di destinazione degli spazi
a parcheggio sorge un automatico diritto reale d'uso in capo
all'acquirente delle unità immobiliari interne all'edificio,
restando nulla ogni clausola contraria.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 04.02.2016 n. 2236.
La suprema Corte ricorda che il vincolo di destinazione è
inderogabile, ma opera in favore della indifferenziata
comunità dei condòmini, tanto che, se per l'attuazione di
esso è necessario identificare la superficie da assoggettare
all'uso normativamente previsto, secondo le misure ("non
inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di
costruzione") dalla stessa norma stabilite, il
condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto
concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d
acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice
tale identificazione, e pertanto non può ex se, con
delibera, costituire il vincolo pubblicistico di
destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli
appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore.
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un
gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
UN METRO QUADRATO PER OGNI DIECI METRI CUBI
DI COSTRUZIONE. La
Cassazione rammenta inoltre che la legge urbanistica -art.
41-sexies Legge 1150/1942- conteneva all'epoca la previsione
in base alla quale "nelle nuove costruzioni ed anche
nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono
essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni venti
(successivamente ex art. 2 l. n. 122 del 1989: dieci) metri
cubi di costruzione".
La Corte di legittimità precisa che la nozione di
costruzione, che è diversa da quella di volume o volumetria,
suscettibile di margini di opinabilità, implica
indefettibilmente il riferimento anche ai muri esterni,
giacché non può concepirsi costruzione senza i muri
perimetrali che la delimitano (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
2) Con i primi due motivi di ricorso viene denunciata
violazione e falsa applicazione degli artt. 18 L. 765/1967
(cd L. ponte), 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e dell'art. 12
della legge 246/2005.
Parte ricorrente realisticamente ammette che la Corte di
appello ha applicato un orientamento della giurisprudenza di
legittimità secondo cui dal vincolo di
destinazione degli spazi a parcheggio sorge un automatico
diritto reale d'uso in capo all'acquirente delle unità
immobiliari interne all'edificio, restando nulla ogni
clausola contraria.
In forza di tali principi (riassunti da Cass. 23845/2013; v.
poi esemplificativamente 4733/2015) il
vincolo di destinazione è inderogabile, ma opera in favore
della indifferenziata comunità dei condòmini, tanto che,
come è noto, se per l'attuazione di esso è necessario
identificare la superficie da assoggettare all'uso
normativamente previsto, secondo le misure ("non
inferiore ad un metro quadrato per ogni metro cubo di
costruzione") dalla stessa norma stabilite, il
condominio, in assenza di relativa previsione o nell'atto
concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti d
acquisto dei singoli appartamenti, deve chiedere al giudice
tale identificazione, e pertanto non può, ex se, con
delibera, costituire il vincolo pubblicistico di
destinazione predetta, scegliendo l'ubicazione degli
appositi spazi su più ampia area del costruttore-venditore
(Cass. 7474/1997).
Peraltro, qualora ad attivarsi non sia il condominio o un
gruppo di condòmini, anche un singolo condòmino può farlo.
2.1) Parte ricorrente, dopo un'ampia ricostruzione, chiede
alla Corte di Cassazione (cfr. pag. 23 in principio) il
mutamento dell'orientamento consolidatosi e attacca la
sentenza sulla base di due preminenti considerazioni:
a) la circostanza che dal regime creato in giurisprudenza,
che può portare alla proprietà comune dell'area (v Cass.
730/2008, ma non è questo il caso), potrebbe derivare un
utilizzo, da parte dei condòmini, in violazione della norma
imperativa, perché essi potrebbero decidere di vendere o
dare in locazione a terzi i posti auto; ovvero un
paradossale non utilizzo, qualora essi, privi di autovetture
lasciassero liberi gli spazi.
b) il contrasto tra il principio della destinazione ad area
di parcheggio indifferenziata e la parte della sentenza in
cui "accerta il diritto d'uso della sig. Ri., sull'area
di parcheggio di 74,88 mq individuata quale integrazione di
quella già destinata allo scopo rispetto ai parametri
normativi".
2.2) La Corte reputa che non vi siano
ragioni per discostarsi dall'orientamento giurisprudenziale
dominante e osserva che gli inconvenienti ipotizzati in
ricorso non siano plausibile chiave per modificare
l'interpretazione da tempo data alla materia.
Il legislatore ha inteso attribuire alla
comunità condominiale la disponibilità di una superficie a
parcheggio stabilita sulla base di una principio di
rilevazione della realtà sociale che non è certo smentito
dall'evoluzione di questi decenni di applicazione della
Legge Ponte, giacché corrisponde a comune esperienza che
quel rapporto volumi/superficie conduce semmai a
insoddisfacente risposta alle esigenze condominiali. Queste
ultime, inoltre, sono quanto mai mutevoli dal punto di vista
soggettivo, cosicché non si può far dipendere da circostanze
casuali il senso del dictum legislativo.
Va escluso inoltre che la sentenza impugnata si sia posta in
contrasto con i principi generali cui si è fatto
riferimento. Ancorché sia vero che al punto 3) del
dispositivo si dica che viene "assegnata in uso" a
Ri.Vi. l'area per parcheggio vetture di 74,88 mq da
staccarsi dalla maggior proprietà del piano cantinato di
Se.Fi., tale disposizione va letta unitamente alla
motivazione e avendo riguardo alla domanda iniziale e al
senso complessivo dei termini usati.
Ora, se si considera:
- che l'attrice chiese (sentenza pag. 5) la "restituzione
a parcheggio condominiale delle aree descritte" e quindi
non un attribuzione in proprietà o in uso personale;
- che la motivazione della sentenza di appello ha
chiaramente parlato di area da restituire alla "sua
destinazione di parcheggio condominiale, con vincolo reale";
- che essa ha stabilito la facoltà del convenuto di
scegliere la porzione di mq 74,88 che avrà la funzione di
assicurare l'effettività della destinazione «a uso di
parcheggio»>;
- che la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 1214/2012) ha
già avuto modo di riconoscere che ove l'azione per il
riconoscimento del diritto reale d'uso sia stata proposta da
uno solo dei condomini, il giudice di merito può addirittura
individuare un preciso spazio fisico per la sosta dei
veicoli di proprietà del condòmino istante, senza che di
tale decisione possa dolersi il costruttore del complesso
immobiliare;
- che tutto il giudizio è stato istruito non in vista
esclusiva della realizzazione del diritto del singolo, ma
del rispetto della complessiva proporzione tra volume
edificato e area destinata,
se ne desume che la sentenza di appello abbia solo inteso
riconoscere il diritto condominiale e pronunciato in
dispositivo in favore della istante, solo quale parte che ha
agito per far valere un diritto proprio ma che vanta quale
condòmina, il cui accertamento ridonda a beneficio di tutto
il condominio; grazie al richiamo contenuto in sentenza il
diritto riconosciuto può inoltre essere fatto valere anche
esecutivamente dalla stessa parte attrice direttamente.
Non vi è quindi alcuna contraddizione tra quanto accertato
sulla base della normativa vigente (che regola diritti sorti
all'epoca) e quanto stabilito in dispositivo.
3) Il secondo motivo, come si è accennato, sollecita una
rivisitazione della interpretazione consolidata, nella parte
in cui non adopera l'art. 12 della L. 246/2005, che ha
liberalizzato (secondo parte istante in modo "assoluto")
la commerciabilità degli spazi di parcheggio.
Orbene, è vero che la disposizione di cui
all'art. 12, nono comma, della legge n. 246 del 2005 ha
modificato l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942
inserendo un secondo comma all'art. 41-sexies e stabilendo
che gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in
modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari.
Tuttavia rimane insuperabile la lettura datane da Cass.
4264/2006, a mente della quale la nuova norma trova
applicazione soltanto per il futuro, vale a dire per le sole
costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al
momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state
stipulate le vendite delle singole unità immobiliari. <<L'efficacia
retroattiva della norma va infatti esclusa, in quanto, da un
lato, non ha natura interpretativa, per mancanza del
presupposto necessario a tal fine, costituito dalla
incertezza applicativa della disciplina anteriore, e,
dall'altro, perché le leggi che modificano il modo di
acquisto dei diritti reali o il contenuto degli stessi non
incidono sulle situazioni maturate prima della loro entrata
in vigore>>.
Nonostante siano trascorsi circa dieci anni da tale lettura,
il legislatore non è intervenuto per modificarla, restando
così rafforzate le rationes decidendi.
4) Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione
artt. 978 e 979 c.c. e art. 1026 cc.
La censura contesta la ricostruzione giurisprudenziale del
diritto reale d'uso sulle aree di parcheggio e chiede che
esso sia legato alla vita dell'usufruttuario, restando
altrimenti privo di durata e tale da espropriare il
proprietario costruttore, la proprietà del quale sarebbe
compromessa, in violazione della disciplina costituzionale.
La censura non merita soverchia considerazione, sol che si
consideri che il riconoscimento al
condòmino del diritto reale d'uso costituisce reazione
dell'ordinamento a una scelta, in parte illegittima, del
proprietario costruttore. Questi avrebbe dovuto alienare
l'area di parcheggio insieme alle unità abitative: avendo
voluto riservarsi la proprietà si è volontariamente esposto
alla limitazione posta a suo carico dalla legge urbanistica,
che, nella specie, è stato necessario imporgli per via
giudiziaria.
5) Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 18 L. 765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 c.c.
- errata determinazione del calcolo dello spazio di
parcheggio ex art. 18.
Parte ricorrente sostiene che la sentenza erroneamente non
ha conteggiato i 32 mq di garage venduti ai signori Ca.-Ca.
e i 49 mq di altro garage rimasto al ricorrente e poi
trasferito a terzi unitamente agli uffici.
Si duole del fatto che la sentenza abbia ritenuto necessario
che gli spazi di parcheggio siano vincolati all'uso diretto
e indifferenziato degli occupanti l'edificio.
Afferma che in tal modo si nega la possibilità di trasferire
con i singoli atti i posti auto agli acquirenti degli
appartamenti, eventualità da ritenere legittima, con
possibilità di libera rivendita.
Il quinto motivo (violazione e falsa applicazione art. 18 L.
765/1967, art. 26 L. 47/1985 e art. 818 cc e vizi di
motivazione) verte sullo stesso punto attaccato nel
precedente e torna a lamentare la contraddizione che sarebbe
insita nell'avere affermato l'uso indifferenziato sulle aree
a parcheggio e nell'avere poi assegnato alla Ricupero i
74,88 mq mancanti (profilo b). In ogni caso vi sarebbe
contraddizione tra detta assegnazione individuale e il non
avere considerato i metri quadrati di area che il
proprietario aveva assegnato a sé e ai Ca.Ca..
Le due doglianze sono destituite di fondamento, in
considerazione di quanto già spiegato sub 2.2).
Invano parte ricorrente fa leva sulla fraseologia usata nel
dispositivo della sentenza. Essa non ha trasferito la
titolarità della proprietà alla Ri. personalmente, come ha
invece fatto il Fi. nel vendere a terzi le due aree che
vorrebbe conteggiare; ha solo riconosciuto l'estendersi del
diritto indifferenziato dei condomini sull'area che era
stata esclusa e ha (con la imprecisa formula "assegna in
uso") riconosciuto all'attrice il potere di far valere
su detta area (che peraltro secondo la Corte d'appello potrà
essere scelta dal convenuto ricorrente) la destinazione a
parcheggio condominiale che era stata chiesta e che è stata
chiaramente sancita in motivazione.
E' implicito nella giurisprudenza
confermata, e invano criticata, che il costruttore non può
far conteggiare nell'area vincolata i parcheggi che
costruisce e aliena liberamente, senza riguardo al vincolo.
Tale regime di libera vendita è compatibile con le
costruzioni post 1967, ma solo quanto alle aree di
parcheggio eccedenti il limite delle aree da sottoporre al
vincolo legale, le quali per essere riconosciute devono
essere identificabili dai singoli atti di vendita.
Per la superficie vincolata ex lege
765/1967 il proprietario, che voglia riservarsi la proprietà
o cederla a terzi
(v. Cass. 11261/2003), deve comunque
salvaguardare con tali atti che sia rispettata la
destinazione di legge, che riserva stabilmente
(come sottolinea la sentenza, pag. 31) i
relativi spazi all'uso delle persone che stabilmente abitano
le singole unità immobiliari del fabbricato,
limite che nel ricorso il Fi. non dichiara e documenta di
aver posto, nei sensi di cui si è prima discusso, ai terzi
da lui aventi causa.
La violazione del vincolo è implicita nella
sua scelta di dividere l'area vincolata più vasta da queste
piccole aree riservate e nel suo intendimento di considerare
queste aree liberamente rivendibili dagli acquirenti.
6) Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 18 L. 765/1967 e dell'art. 9 circolare LLPP n.
3210/1967 nonché vizi di motivazione.
Viene qui riproposta la questione relativa al calcolo della
superficie da destinare a parcheggio e quindi della
correlata cubatura al netto o al lordo dei muri perimetrali
dell'edificio.
Parte ricorrente reputa, citando la circolare ministeriale,
che la cubatura debba essere computata detraendo i muri
perimetrali esterni.
La censura è infondata.
Il testo normativo, che prevale sulle
letture che possono aver fornito datate circolari, anteriori
alla vita dell'istituto e alla sua elaborazione nel mondo
giuridico, depone nel senso voluto dalla sentenza impugnata.
La legge urbanistica (art. 41-sexies Legge 1150/1942)
conteneva all'epoca la previsione in base alla quale "nelle
nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle
costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi
per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato
per ogni venti (successivamente ex art. 2 l. n. 122 del
1989: dieci) metri cubi di costruzione".
La nozione di costruzione, che è diversa da quella di volume
o volumetria, suscettibile di margini di opinabilità,
implica indefettibilmente il riferimento anche ai muri
esterni, giacché non può concepirsi costruzione senza i muri
perimetrali che la delimitano.
La doglianza va quindi respinta.
6.1) Il motivo presenta un altro profilo, concernente la
mancata considerazione, nella superficie a suo tempo
effettivamente vincolata, degli spazi (un'area di 33,22 mq,
ricorso pag. 39) «occupati da "muro di confine",
"marciapiede e gabbia cancello" e "gradini interno cortile"»,
manufatti considerati dalla Corte di appello quali "ostacoli
fissi".
Secondo il ricorrente trattasi invece di spazi funzionali al
parcheggio e come tali da conteggiare.
La questione è posta anche nel settimo motivo, in cui si
deduce che questi ostacoli fissi erano descritti in progetto
ed erano ormai goduti dai condòmini.
Anche questa doglianza merita il rigetto.
Con apprezzamento di merito incensurabile in sede di
legittimità, la Corte di appello ha ritenuto che i manufatti
non fossero da includere nel computo del parcheggio e che
l'area da essi occupata fosse "superficie effettivamente
non disponibile". Invano il ricorso invoca il diverso
parere del consulente sulla loro funzionalità e la
inclusione dei manufatti nel progetto approvato: la
descrizione dei manufatti conforta l'opinione della Corte,
facendola apparire congrua e logica, dunque, si ripete, non
sindacabile dal giudice di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.02.2016 n. 2236). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla
questione che investe i rapporti tra la sospensione di
diritto disciplinata dalla c.d. legge Severino ed il divieto
del terzo mandato consecutivo per il sindaco.
La sospensione di diritto dalla carica
di sindaco prevista dalla legge c.d. Severino deve essere
considerata ai fini dell’applicazione dell’art. 51, comma 3,
del TUEL, ossia per il calcolo della durata del
mandato, costituendo “causa diversa dalle dimissioni
volontarie” di impedimento all’esercizio della carica.
---------------
Premesso:
L’art. 51 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, recante
testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
(da adesso: TUEL), al secondo comma dispone “Chi ha
ricoperto per due mandati consecutivi la carica di sindaco e
di presidente della provincia non è, allo scadere del
secondo mandato, immediatamente rieleggibile alle medesime
cariche”.
La finalità della norma, che prevede una causa
d’ineleggibilità originaria, è «di favorire il ricambio
ai vertici dell’amministrazione locale ed evitare la
soggettivizzazione dell’uso del potere dell’amministratore
locale in modo da spezzare il vincolo personale tra elettore
ed eletto e per sostituire alla personalità del comando
l’impersonalità di esso ed evitare il clientelismo» (fra
le tante pronunce: corte di cassazione, sezione I civile,
sentenze 29.03.2013 n. 7949 e 12.02.2008 n. 3383).
Alla preclusione in parola il successivo comma 3 pone
un’eccezione, consentendo un terzo mandato consecutivo “se
uno dei due mandati precedenti ha avuto durata inferiore a
due anni, sei mesi e un giorno, per causa diversa dalle
dimissioni volontarie”.
Un’altra eccezione è stata introdotta dall’art. 1, comma
138, della legge 07.04.2014 n. 56, ai sensi del quale “Ai
comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti non si
applicano le disposizioni di cui ai commi 2 e 3
dell’articolo 51 del testo unico; ai sindaci dei medesimi
comuni è comunque consentito un numero massimo di tre
mandati”.
Ciò premesso, il Ministero dell’interno s’interroga sulla
situazione del sindaco di un Comune con popolazione
superiore a tremila abitanti che, durante il secondo
mandato, sia stato sospeso di diritto per essere stato
condannato in primo grado per uno dei reati tipizzati dagli
artt. 10 ed 11 del decreto legislativo 31.12.2012 n. 235,
anche con riguardo al caso in cui la sospensione sia venuta
meno in conseguenza dell’intervenuta pronuncia d’assoluzione
in appello.
Nel caso concreto, poiché per effetto della predetta
sospensione l’interessato aveva di fatto esercitato le
funzioni di sindaco per un periodo inferiore a due anni, sei
mesi ed un giorno, è sorto il dubbio se lo stesso possa
legittimamente candidarsi per un terzo mandato in
applicazione della deroga prevista dal menzionato art. 51,
comma 3.
In altri termini, ci si chiede se la “durata”
alla quale si fa riferimento nella disposizione citata debba
essere intesa non in senso formale, ma come corrispondente
all’arco temporale durante il quale l’organo di vertice
dell’ente ha potuto effettivamente svolgere le proprie
funzioni. Ciò sempre che l’interruzione derivi da cause
indipendenti dalla volontà dell’amministratore, per evitare
strumentalizzazioni e facili elusioni della preclusione di
cui al comma 2 del medesimo art. 51.
Sulla questione, che investe i rapporti tra la sospensione
di diritto disciplinata dalla c.d. legge Severino ed il
divieto del terzo mandato consecutivo per il sindaco, non si
rinviene nessun precedente giurisprudenziale specifico.
Nondimeno, con parere 13.04.2005 n. 1137, la prima sezione
del Consiglio di Stato, prendendo in considerazione la
sospensione dell’organo consiliare disposta nelle more della
procedura dì scioglimento ai sensi dell’art. 141, comma 7,
del decreto legislativo n. 267 del 2000, ha chiarito che «il
provvedimento prefettizio, sottraendo agli organi elettivi
l’amministrazione dell’ente, che è assegnata con lo stesso
provvedimento ad un organo straordinario (art. 141, comma 7,
del d.lgs. n. 267/2000), anticipa gli effetti che si
consolidano con il decreto che dispone lo scioglimento del
consiglio comunale. Si determina, in tal modo, a differenza
di quanto accade nei casi di impedimento personale e
temporaneo del sindaco a svolgere le proprie funzioni, una
situazione non dissimile da quella che si realizza
nell’ipotesi di gestione commissariale conseguente allo
scioglimento. Ragioni di intrinseca coerenza, congiunte alla
considerazione che il fine della norma è di evitare che i
poteri spettanti al vertice dell’amministrazione siano
esercitati troppo a lungo dallo stesso soggetto, inducono a
ritenere che il periodo della sospensione, durante la quale
il sindaco perde l’effettivo esercizio delle funzioni, non
concorre a concretare la durata del mandato ostativa,
secondo il disposto dell’art. 51, comma 3, del d.lgs. n.
267/2000, della rieleggibilità».
A sua volta, la corte di cassazione, prima sezione civile,
con sentenza 26.03.2015 n. 6128 ha precisato che l’ostatività
prevista dall’art. 51, comma 2, del testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali «prescinde dall’effettivo
espletamento delle funzioni di sindaco, con l’unica
eccezione introdotta dallo stesso art. 51, comma 3». In tal
senso, «la possibilità che durante uno dei mandati vi sia
stata una gestione commissariale (tranne che non si renda
applicabile la già ricordata eccezione prevista dal terzo
comma dell’art. 51) non incide sull’operatività della
norma».
Un riferimento alla durata effettiva del mandato sindacale è
contenuto anche nella sentenza della suprema corte
04.12.2012 n. 21685, nella quale si legge: «a rendere
possibile un mandato ulteriore consecutivo
–significativamente individuato dalla legge come il “terzo”–
l’eventualità che i due mandati precedenti abbiano avuto una
durata effettiva (complessivamente) inferiore a sette anni,
sei mesi e un giorno. La regola del divieto del terzo
mandato consecutivo non vale invece in presenza di un
“intervallo temporale” cui è, tra l’altro, ricollegabile la
possibile modificazione del corpo elettorale oltre che la
perdita di influenza da parte dell’ex sindaco, rimasto, per
il periodo stesso, fuori della gestione amministrativa” (Cass.
n. 13181 del 2007 citata, in un caso in cui candidato
sindaco non si era presentato ad una delle tornate
elettorali precedenti, poi risultata nulla per mancato
raggiungimento del quorum del votanti)».
Ad avviso del Ministero dell’interno, dalle predette
pronunce –sebbene le stesse non prendano in considerazione
la sospensione di diritto dell’amministratore locale–
sembrerebbe potersi desumere il principio in virtù del quale
il lasso di tempo in cui alla persona sia di fatto precluso
l’esercizio delle funzioni di sindaco non va computato nella
durata del mandato elettorale ed assume, dunque, rilevanza
per gli effetti di cui al più volte citato art. 51, comma 3;
sempre che la preclusione non dipenda dalle dimissioni
volontarie .per evitare che l’interessato possa aggirare il
divieto posto dal comma 2 dell’art. 51, provocando
un’intenzionale ed artificiosa interruzione del mandato
preordinata a rendere applicabile la deroga normativa.
Sotto tale profilo si potrebbe ipotizzare che la sospensione
di diritto disciplinata dalla c.d. legge Severino, non
sembrando equiparabile ad un atto intenzionale quali sono
appunto le dimissioni volontarie, costituisca una causa
idonea a consentire un terzo mandato consecutivo, laddove,
per effetto di essa, la durata di uno dei due mandati
precedenti si sia ridotta a meno di due anni, sei mesi ed un
giorno.
Sennonché, nel parere di cui sopra il Consiglio di Stato ha
precisato che il periodo della sospensione disposta ai sensi
dell’art. 141, comma 7, del decreto legislativo n. 267 del
2000 non concorre a concretare la durata del mandato
ostativa della rieleggibilità, in quanto in tale evenienza
si determina «a differenza di quanto accade nei casi di
impedimento personale e temporaneo del sindaco a svolgere le
proprie funzioni, una situazione non dissimile da quella che
si realizza nell’ipotesi di gestione commissariale
conseguente allo scioglimento».
Osserva il Ministero riferente che, alla luce di tale
precisazione, parrebbe doversi ritenere che la sospensione
prevista dal richiamato art. 141, comma 7, in tanto può
essere scomputata dalla durata del mandato sindacale in
quanto determina una situazione simile a quella conseguente
allo scioglimento dell’ente, a differenza delle ipotesi di «impedimento
personale e temporaneo» di cui, non a caso, il Consiglio
di Stato fa menzione.
Il problema ermeneutico che si pone è
dunque quello di verificare se la sospensione di diritto
dell’amministratore locale –la quale costituisce uno stato
transitorio, necessariamente limitato nel tempo e destinato
a concludersi o con la definitiva cessazione dall’incarico o
con la reintegrazione nelle funzioni (cfr. Consiglio di
Stato, sezione III, sentenza 14.02.2014 n. 730)– sia da
qualificare quale «impedimento temporaneo e personale»
irrilevante per gli effetti di cui all’art. 51, comma 3, del
decreto legislativo n. 267 del 2000 ovvero se la stessa
–determinando un’interruzione non intenzionale
nell’esercizio delle funzioni di sindaco– assuma rilevanza
agli effetti in parola.
Considerato:
La questione sottoposta ha per oggetto l’interpretazione
dell’art. 51 TUEL, il quale prevede: “1. Il sindaco e il
consiglio comunale, il presidente della provincia e il
consiglio provinciale durano in carica per un periodo di
cinque anni.
2. Chi ha ricoperto per due mandati consecutivi la carica di
sindaco e di presidente della provincia non è, allo scadere
del secondo mandato, immediatamente rieleggibile alle
medesime cariche.
3. È consentito un terzo mandato consecutivo se uno dei due
mandati precedenti ha avuto durata inferiore a due anni, sei
mesi e un giorno, per causa diversa dalle dimissioni
volontarie”.
In particolare occorre stabilire se nell’inciso finale del
terzo comma –“causa diversa dalle dimissioni volontarie”–
ricada l’ipotesi del sindaco sospeso di diritto dalla carica
di sindaco ai sensi degli articoli 10 ed 11 del decreto
legislativo 31.12.2012 n. 235. Con la conseguenza che:
a) optando per la soluzione positiva, ossia ritenendo che la
sospensione a seguito di condanna penale costituisca “causa
diversa dalle dimissioni volontarie”, del periodo di
sospensione si terrebbe conto ai fini del calcolo della
durata del mandato;
b) optando per la soluzione negativa, ossia ritenendo che la
sospensione a seguito di condanna penale non costituisca “causa
diversa dalle dimissioni volontarie”, del periodo di
sospensione non si terrebbe conto ai fini del calcolo della
durata del mandato.
Così impostato il problema, la Sezione ritiene che, facendo
applicazione del noto principio secondo cui «in claris
non fit interpretatio», la soluzione non possa che
essere la prima tra quelle appena indicate, essendo palese
che il significato proprio delle parole secondo la
connessione tra di esse non consenta di accostare alle
dimissioni volontarie dalla carica la sospensione di diritto
conseguente ad una condanna penale.
L’interpretazione estensiva di una disposizione, nella
specie volta ad assimilare la sospensione ope legis
alle dimissioni volontarie dalla carica, può aver luogo,
infatti, solo quando il testo –nelle sue componenti
lessicali o sintattiche– presenti margini d’ambiguità, il
che nella fattispecie in esame non è. Tra l’altro, accedere
alla tesi sub b) genererebbe una grave incertezza
ermeneutica, non essendo affatto chiaro come del periodo di
sospensione dovrebbe tenersi conto ai fini del calcolo della
durata del mandato. Se cioè nel senso di aggiungere quel
periodo a quello effettivamente trascorso in carica, ovvero
nel senso di ridurre proporzionalmente il periodo di tempo
al di sotto del quale è possibile un terzo mandato.
La prima soluzione darebbe luogo ad una fictio iuris,
equiparando la sospensione dalla carica al suo effettivo
svolgimento.
La seconda soluzione importerebbe una modifica del dettato
legislativo, che fissa in due anni, sei mesi e un giorno la
durata minima della carica che impedisce il terzo mandato,
periodo chiaramente determinato sulla base della durata
legale del mandato, che è di cinque anni.
In conclusione, deve ritenersi che la sospensione di diritto
dalla carica di sindaco prevista dalla legge c.d. Severino
debba essere considerata ai fini dell’applicazione dell’art.
51, comma 3, del TUEL, ossia per il calcolo della durata del
mandato, costituendo “causa diversa dalle dimissioni
volontarie” di impedimento all’esercizio della carica
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 01.02.2016 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla
sanzione per lo sforamento del Patto di Stabilità.
La sanzione di cui all’art. 31, comma
26, lettera e), legge 12.11.2011, n. 183, come sostituito
dall'art. 1, comma 439, della legge 24.12.2012, n. 228, deve
ritenersi riferita specificamente ai soli amministratori in
carica nel momento in cui si è verificata la violazione del
Patto, non potendosi evidentemente equiparare a questi,
unici responsabili dello sforamento, le posizioni degli
amministratori che, in ipotesi, abbiano sostituito i primi e
che dunque tale bilancio ed annesso sforamento abbiano
ereditato, senza esserne neppure indirettamente
responsabili.
Una diversa interpretazione incorrerebbe ovviamente in
un’evidente violazione del principio di uguaglianza.
---------------
Premesso:
1. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel
richiedere il parere sul quesito in oggetto con la nota n.
3176 del 22.04.2014 (Ufficio legislativo Economia), ricorda,
in via di premessa, che gli articoli 30, 31 e 32 della legge
12.11.2011, n. 183 disciplinano il patto di stabilità
interno e sono volti ad assicurare il concorso degli enti
locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza
pubblica, di cui agli artt. 117, terzo comma e 119, secondo
comma, della Costituzione, conformemente agli impegni
assunti dal nostro Paese in sede comunitaria.
In particolare, l'art. 31 individua i soggetti sottoposti al
rispetto del patto di stabilita interno e i parametri per la
determinazione dello specifico obiettivo di saldo
finanziario. Prevede, al comma 26 che, in caso di mancato
rispetto del patto di stabilita interno, l'ente locale
inadempiente nell'anno successivo a quello dell'inadempienza
resta assoggettato ad alcune sanzioni tra le quali -per
quanto qui d'interesse (lettera e)- l'obbligo di
rideterminare le indennità di funzione ed i gettoni di
presenza indicati nell’art. 82 del decreto legislative n.
267 del 2000 (TUEL), con una riduzione del 30 per cento
rispetto alla data del 30.06.2010.
L’art. 31, comma 26, lettera e), prevede dunque che, in caso
di mancato rispetto del patto di stabilita interno, l'ente
locale inadempiente è tenuto ad operare nell'anno successivo
a quello dell'inadempienza una decurtazione del 30%
sull'indennità corrisposta agli amministratori calcolata
sugli importi effettivamente erogati nel 2010. Il Ministero
segnala che, da parte di alcuni enti locali, sono pervenute
istanze volte a chiedere chiarimenti circa il corretto
ambito applicativo della sanzione della decurtazione del 30%
delle indennità degli amministratori, nel caso in cui sia
intervenuta una sostituzione delle persone fisiche, che
compongono i collegi politici interessati alla decurtazione.
In sostanza, sulla base di una lettura
testuale, la sanzione in esame sarebbe riferita
all'amministratore, in quanto espressione dell'Ente
inadempiente. La sanzione andrebbe applicata “oggettivamente”,
indipendentemente da eventuali modifiche delle persone che
rivestono la qualifica di amministratore locale.
Secondo una diversa lettura, più aderente
ad un obiettivo di responsabilizzazione degli amministratori
locali, la norma in esame sembrerebbe volta a sanzionare la
persona, che, in qualità di amministratore in carica al
momento della violazione del patto di stabilita interno,
abbia avuto una qualche responsabilità, per il mancato
raggiungimento degli obiettivi posti dal patto.
Da tale lettura, si trarrebbe la conclusione della necessità
di non penalizzare, con la decurtazione dell'indennità, gli
amministratori che, per una modifica della compagine
politica (nuove elezioni, subentro, ecc.), si trovino a
ricoprire incarichi politici in un ente locale, nell'anno
successivo a quello in cui si é verificata la violazione del
patto di stabilità, non potendosi ad essi imputare alcuna
condotta pregiudizievole, che abbia determinate detta
violazione.
2. Alla luce di tali considerazioni, secondo il Ministero
riferente, assume particolare rilevanza l'individuazione di
una linea di comportamento uniforme, anche in relazione al
successivo comma 28, della stessa disposizione, secondo cui
agli enti locali, per i quali la violazione del patto di
stabilità interno sia accertata successivamente all'anno
seguente a quello della violazione, si applicano, nell'anno
successivo a quello in cui è stato accertato il mancato
rispetto del patto di stabilita interno, le sanzioni di cui
al comma 26. In questa fattispecie, è previsto che la
rideterminazione dell’indennità venga applicata agli
amministratori in carica nell'esercizio in cui è avvenuta la
violazione del patto di stabilità interno.
Secondo l’Amministrazione, si tratta di un dato testuale che
depone in modo significativo per una applicazione della
sanzione riferita specificamente ai soli amministratori in
carica nel momento della violazione del Patto. Appare dunque
necessario promuovere una interpretazione omogenea ed
univoca del meccanismo che individua l’amministratore a cui
si applica la sanzione, coerente con la sua finalizzazione
sistematica.
3. La Sezione, con la pronuncia interlocutoria sopra
indicata, ha chiesto in via istruttoria di acquisire gli
avvisi del Ministero dell’interno (Ufficio legislativo),
della Presidenza del Consiglio (Dipartimento affari
giuridici e legislativi) e della Funzione pubblica (Ufficio
legislativo).
Il Ministero riferente, nel confermare l'interesse ad
ottenere una risposta al quesito formulato, con la e-mail
suindicata ha trasmesso la nota del DAGL n. 3169/2015, la
nota del Ministero dell'interno 15224/2014 e la nota
dell'Ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione
e la pubblica amministrazione n. 562/2014.
Il Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi
della presidenza del Consiglio dei Ministri, con la nota
suindicata, ricorda che la questione in esame era stata
esaminata dalla Corte dei conti nella delibera 25/07/2013,
n. 28 delle Sezioni Riunite per la Regione siciliana secondo
cui la violazione del patto di stabilità deve “necessariamente
colpire, in ogni caso, gli amministratori in carica
nell’anno in cui è avvenuta l'inottemperanza che, con le
loro condotte -attive od omissive- abbiano contribuito alla
stessa. Diversamente opinando, si giungerebbe ad una
responsabilità oggettiva, ratione officii, che, mal
conciliandosi con i principi inderogabili cui si uniforma
l'ordinamento, finirebbe per sanzionare persone diverse da
quelle effettivamente responsabili, cui non potrebbe
muoversi alcuna censura per accadimenti pregressi, ad esse
in alcun modo imputabili. L’affermazione della
responsabilità degli amministratori in carica nell'esercizio
in cui è avvenuta la violazione del patto di stabilità
interno, prevista dall’art. 31, comma 28, si ritiene,
infatti, espressione di un più generale principio di
responsabilità personale, valido per qualsiasi ipotesi di
inosservanza del patto di stabilità, a prescindere dal
momento in cui questa venga accertata”.
Il Dipartimento ritiene pertanto che, in
un’ottica di “responsabilizzazione” degli
amministratori locali, in caso di violazione del patto di
stabilità interno, la decurtazione operata sulle indennità
di funzione e sui gettoni di presenza debba incidere sugli
amministratori in carica al momento della violazione del
patto.
Il Ministero dell'Interno, nel concordare pienamente
con tali conclusioni, ribadisce
l'opportunità di non penalizzare, con la decurtazione
dell’indennità, gli amministratori che, per una modifica
della compagine politica, si trovino a ricoprire incarichi
in un ente locale nell’anno successivo a quello in cui si è
verificato la violazione del patto di stabilità, non
potendosi ad essi imputare alcuna condotta pregiudizievole.
4. Il Capo dell'Ufficio legislativo del Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione viceversa, con
nota 04.12.2014 prot. 562/14/UL/P rivolta al DAGL ed all’UL
del Ministero dell’Interno, ricorda che inizialmente, la
fattispecie del mancato rispetto del patto di stabilità
interno è stata regolata dall’articolo 7 (così rubricato)
del decreto legislativo 06.09.2011, n. 149.
Per gli enti locali inadempienti, il secondo comma di questo
articolo prevedeva, per l’anno successivo a quello
dell’inadempimento, alcuni divieti di spesa nonché le misure
della riduzione del fondo perequativo e della riduzione del
30 per cento delle indennità di funzione e dei gettoni di
presenza: misure a loro volta ispirate a una logica di
contenimento della spesa, più che a una logica
sanzionatoria.
Successivamente, la materia è stata disciplinata
dall’articolo 31 della legge 12.11.2011, n. 183 (legge di
stabilità per il 2012), con una duplice previsione: il comma
26, in base al quale “restano ferme le disposizioni di
cui all’articolo 7, commi 2 e seguenti, del decreto
legislativo 06.09.2011, n. 149”, e il comma 28, in base
al quale "agli enti locali per i quali la violazione del
patto di stabilità interno sia accertata successivamente
all’anno seguente a quello cui la violazione si riferisce,
si applicano, nell’anno successivo a quello in cui è stato
accertato il mancato rispetto del patto di stabilità
interno, le sanzioni di cui al comma 26. La rideterminazione
delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza di cui
al comma 2, lettera e), dell’articolo 7 del decreto
legislativo 06.09.2011, n. 149, è applicata ai soggetti di
cui all’articolo 82 del testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, e successive modificazioni,
in carica nell’esercizio in cui è avvenuta la violazione del
patto di stabilità interno”.
Il citato articolo 31, nella formulazione dianzi riportata,
aveva prodotto una parziale alterazione della logica “oggettiva”,
di contenimento della spesa, delle misure previste dal
citato articolo 7.
Quest’ultimo, infatti, aveva concepito un complesso di
misure (a carico dell’ente o dei suoi attuali
amministratori), quale diretta conseguenza della violazione
del patto di stabilità interno. Il comma 28 dell’articolo
31, invece, introduceva una logica “soggettiva” e
sanzionatoria a carico degli amministratori “presunti
responsabili” della violazione, peraltro solo nelle
ipotesi in cui l'accertamento dell'inadempimento fosse
successivo all’anno seguente a quello cui la violazione si
riferisse.
La novella comportava numerosi problemi:
1) quelli connessi alle garanzie procedimentali dei destinatari di
simili sanzioni e alla ragionevolezza di sanzioni irrogate
per fatti non necessariamente riconducibili alla condotta
dei soggetti sanzionati. Va osservato, al riguardo, che una
misura di contenimento della spesa può ben essere imposta
indipendentemente dall’accertamento delle responsabilità con
le dovute garanzie, mentre non altrettanto può dirsi per una
misura sanzionatoria;
2) le irragionevoli disparità di trattamento derivanti dal fatto
che, in relazione al medesimo inadempimento, la sanzione
poteva essere irrogata a soggetti diversi, individuati sulla
base del momento di accertamento della violazione. Infatti:
ove la violazione fosse stata accertata nell’anno successivo
a quello della violazione, a subire la riduzione
dell'indennità sarebbero stati -a norma del comma 26- gli
amministratori in carica al momento dell’accertamento (i
quali non necessariamente potevano essere considerati “responsabili”
della violazione, potendo ben esservi stato un
avvicendamento, a seguito di elezioni politiche, dimissioni
o altro); ove, invece, la violazione fosse stata accertata
successivamente all’anno seguente a quello della violazione,
a subirla sarebbero stati -a norma del comma 28- gli
amministratori in carica al momento della violazione. In
definitiva, l’individuazione dei responsabili della sanzione
-gli amministratori in carica al momento della violazione o
quelli in carica al momento dell’accertamento- veniva fatta
dipendere da un fatto casuale o comunque indipendente dalle
responsabilità degli uni e degli altri, quale il momento
dell’accertamento;
3) i possibili effetti di disincentivo all’emersione delle
violazioni, dovuti al fatto che gli amministratori in carica
potevano avere interesse a ritardare l’accertamento delle
violazioni;
4) le probabili difficoltà di recupero delle somme già erogate agli
amministratori non più in carica, evidenziate anche nella
richiesta di parere della Ragioneria generale dello Stato.
In materia si sono poi avuti altri due interventi
legislativi: l’articolo 1, comma 439, della legge
24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), che ha
sostituito il testo del comma 26 del citato articolo 31,
eliminando il riferimento al citato articolo 7 e
disciplinando autonomamente gli effetti conseguenti alla
violazione del patto di stabilità (ma riproponendo gli
stessi divieti e le stesse sanzioni); e l’articolo 1, comma
507, della legge 23.12.2013, n. 147 (legge di stabilità per
il 2014), che ha abrogato i commi da 1 a 4 dell’articolo 7.
Non è stata espressamente abrogata la disposizione del comma
28, che rinviava al citato articolo 7.
Il dato testuale e l’evoluzione complessiva della
disciplina, come descritti, inducono comunque a ritenere che
il secondo periodo del comma 28 dell’articolo 31 in esame,
nella parte in cui fa riferimento a una norma abrogata, sia
stato esso stesso implicitamente abrogato dal legislatore.
Infatti, non pare sia attribuibile altro significato, se non
quello di un’abrogazione implicita, al comportamento del
legislatore che ben avrebbe potuto, se avesse voluto
mantenere in vigore la disciplina introdotta dalla legge di
stabilità 2012, sostituire il rinvio, eliminando il
riferimento a una disposizione abrogata e introducendo
quello alla disciplina attualmente vigente (il comma 26 del
citato articolo 31).
Deve dunque ritenersi che il legislatore abbia voluto
eliminare la disposizione che prevedeva la decurtazione
dell’indennità a carico degli amministratori in carica al
momento della violazione, nel caso di accertamento
effettuato successivamente all’anno seguente alla violazione
stessa. Una simile scelta legislativa appare coerente sia
con l’ottica di riassetto del sistema, sia con la
presumibile intenzione di eliminare le descritte aporie
determinate dalla novella del 2011, che era infelicemente
intervenuta su una disciplina altrimenti comprensibile e
coerente. Il legislatore, dunque, ha voluto reintrodurre la
logica puramente “oggettiva” e non sanzionatoria
originariamente propria della norma.
Contro questa interpretazione si potrebbe osservare che il
legislatore non ha espressamente abrogato la disposizione
del comma 28, che qui si assume abrogata implicitamente.
Indubbiamente le regole di tecnica legislativa avrebbero
richiesto l’abrogazione espressa. D’altra parte, il fatto
che il legislatore abbia “trascurato” la disposizione
in esame -senza abrogarla, ma anche senza correggere il
rinvio in essa contenuto- depone evidentemente nel senso del
superamento della disposizione stessa, piuttosto che nel
senso della sua sopravvivenza.
Queste conclusioni non dipendono da una sottovalutazione
dell’esigenza, evidenziata da più parti, di
responsabilizzare gli amministratori locali che si siano
effettivamente resi responsabili dell’inadempimento.
Da un lato, infatti, come sopra osservato, non è
possibile affermare in via generale un rapporto di causalità
tra la condotta del singolo amministratore e la violazione
del patto di stabilità. Dall’altro, quell’esigenza
può essere efficacemente soddisfatta, senza sacrificare la
tenuta del sistema e la ragionevolezza delle norme e senza
ledere il principio di parità di trattamento, mediante il
ricorso ad altri rimedi già conosciuti dall’ordinamento
giuridico, quali la trasparenza amministrativa, la
responsabilità politica e la responsabilità erariale.
Da quanto precede deve trarsi la
conclusione che "la misura della riduzione delle
indennità vada operata sempre nei confronti degli
amministratori attualmente in carica, indipendentemente
dall’eventuale avvicendamento degli amministratori nelle
more dell’accertamento della violazione”.
Considerato:
5. L’art. 31, comma 26, lettera e), legge 12.11.2011, n.
183, come sostituito dall'art. 1, comma 439, della legge
24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), prevede
che, in caso di mancato rispetto del patto di stabilita
interno, l'ente locale inadempiente è tenuto ad operare
nell'anno successivo a quello dell'inadempienza una
decurtazione del 30% sull'indennità corrisposta agli
amministratori calcolata sugli importi effettivamente
erogati nel 2010. Il Ministero segnala che, da parte di
alcuni enti locali, sono pervenute istanze volte a chiedere
chiarimenti circa il corretto ambito applicativo della
sanzione della decurtazione del 30% delle indennità degli
amministratori, nel caso in cui sia intervenuta una
sostituzione delle persone fisiche, che compongono i collegi
politici interessati alla decurtazione.
Il quesito prospettato richiede di verificare, sul piano più
generale, se la disposizione di cui all’art. 31, comma 26,
lettera e), legge 12.11.2011, n. 183 preveda un caso di
responsabilità amministrativa vera e propria e se
conseguentemente tale responsabilità abbia carattere
personale ovvero possa viceversa avere carattere oggettivo,
come sembra concludere il solo Ministero per la
semplificazione e la pubblica amministrazione.
Il problema sembra ripetere le sue origini dalla più antica
disputa in dottrina e giurisprudenza circa la natura della
responsabilità amministrativa, che ha visto sostanzialmente
alternarsi nel tempo due diverse concezioni, una che ne
evidenziava il carattere sanzionatorio, collegato
principalmente al potere riduttivo in sede di accertamento,
l'altra che viceversa la riconduceva alla più ampia
categoria della responsabilità civile per danno, collegata
alla inosservanza di doveri di comportamento più o meno
specifici precostituiti e connessi al rapporto di servizio.
La prima concezione, della natura sanzionatoria della
responsabilità amministrativa, è stata definitivamente
accolta sia nella riforma della Corte dei conti attuata con
le Leggi nn. 19 e 20 del 19.01.1994, sia nella più recente
giurisprudenza costituzionale (cfr. la sentenza della Corte
Costituzionale n. 183 del 12.06.2007), la dove vi si afferma
che la disciplina della responsabilità amministrativa si
basa sulla colpevolezza del danneggiante e, per converso,
sulla graduazione della colpevolezza effettuata in sede di
accertamento.
Ed è appena il caso di ricordare le disposizioni, contenute
nell’art. 58 della legge 08.06.1990, n. 142, secondo cui la
"la responsabilità nei confronti degli amministratori e
dei dipendenti dei comuni e delle province è personale e non
si estende agli eredi", ma che "si estende agli eredi
nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di
conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi"
(art. 1, comma 1, L. 20/1994), il che conferma la natura
sanzionatoria e quindi afflittiva della responsabilità
amministrativa, dal momento che se il modello fosse stato
quello civilistico, avrebbe dovuto trovare applicazione il
principio generale della trasmissibilità dei rapporti
giuridici.
Nello stesso senso, della personalità della responsabilità
amministrativa e della intrasmissibilità agli eredi delle
relative sanzioni amministrative, vi sono gli artt. 3, primo
comma (“Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione
amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione
od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o
colposa”) e 7 (“L'obbligazione di pagare la somma
dovuta per la violazione non si trasmette agli eredi”)
della legge 24.11.1981, n. 689.
La disposizione di cui si chiede l’interpretazione prevede
dunque una fattispecie di sicura matrice "sanzionatoria".
Infatti, la responsabilità conseguente alla
elusione del patto di stabilità, introdotta dagli artt. 20
del D.L. n. 98/2011 e 31 della L. n. 183/2011, prevede a
carico degli amministratori una sanzione pecuniaria fino ad
un massimo di dieci volte l’indennità di carica ed a carico
del responsabile del servizio economico-finanziario, fino a
tre mensilità del trattamento retributivo, al netto degli
oneri fiscali e previdenziali, con ciò sottolineandosi il
carattere afflittivo, e non certamente risarcitorio, della
sanzione ivi comminata, determinata nel quantum senza alcun
riferimento, neppure indiretto, al danno effettivamente
patito dall'ente.
Oltretutto, la fattispecie in esame corrisponde esattamente
ad un'ipotesi “tipizzata” di responsabilità
amministrativa, cui più frequentemente ricorre la più
recente legislazione, riprendendo sostanzialmente il
concetto della c.d. “responsabilità formale”, che
comunque la più recente giurisprudenza contabile (a partire
dalla sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti
n. 12/2007-QM del 27.12.2007) ammette unicamente in presenza
di dolo o colpa grave.
6. Stabilito dunque che la responsabilità prevista dalle
disposizioni oggetto del quesito ha carattere
amministrativo, è agevole riconoscere che, tra i principi
generali valevoli per tale fattispecie, vi è quello della
personalità.
L’art. 1 della legge n. 20 del 1994 infatti stabilisce che
la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione
della Corte dei conti è personale, conferendo portata
generale alla disposizione di cui all’ultimo comma dell’art.
58 della L. 142/1990 ("La responsabilità nei confronti
degli amministratori e dei dipendenti dei comuni e delle
province è personale…").
Questa norma significa inequivocabilmente che ciascuno
risponde per il fatto proprio, e non per fatto altrui.
Ne è corollario la conferma della "personalità" con
la previsione della imputabilità dei componenti degli organi
collegiali per le sole deliberazioni a cui hanno preso parte
(art. 1, comma 1-ter, L. 20/1994).
Applicato al caso di specie, il principio della personalità
prevale in ogni fattispecie in cui tale elemento non sia
diversamente predeterminato e tipizzato.
La disposizione in esame, nello stabilire testualmente che “l'ente
locale inadempiente, nell'anno successivo a quello
dell'inadempienza: …. e) è tenuto a rideterminare le
indennità di funzione ed i gettoni di presenza indicati
nell'articolo 82 del citato testo unico di cui al decreto
legislativo n. 267 del 2000, e successive modificazioni, con
una riduzione del 30 per cento rispetto all'ammontare
risultante alla data del 30.06.2010”, non indica
esplicitamente a quali amministratori debbano ridursi i
gettoni di presenza e le indennità di funzione.
Dunque, a tal fine, per individuare gli amministratori ai
quali la norma faccia riferimento, non possono che
soccorrere i principi generali di cui si è detto sopra, tra
i quali vi è per l'appunto quello della personalità della
sanzione amministrativa.
Pertanto, si conviene con il Ministero
dell'Interno, con la Corte dei Conti e con lo stesso
Ministero riferente, che la sanzione di cui all’art. 31,
comma 26, lettera e), legge 12.11.2011, n. 183, come
sostituito dall'art. 1, comma 439, della legge 24.12.2012,
n. 228, debba ritenersi riferita specificamente ai soli
amministratori in carica nel momento in cui si è verificata
la violazione del Patto, non potendosi evidentemente
equiparare a questi, unici responsabili dello sforamento, le
posizioni degli amministratori che, in ipotesi, abbiano
sostituito i primi e che dunque tale bilancio ed annesso
sforamento abbiano ereditato, senza esserne neppure
indirettamente responsabili.
Una diversa interpretazione incorrerebbe ovviamente in
un’evidente violazione del principio di uguaglianza
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 20.01.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma dirigenti, il Tar frena. Manager a
contratto da selezionare con procedura tecnica. Il Tribunale
amministrativo di Lecce esclude la scelta discrezionale da
parte dei sindaci.
Riforma della dirigenza messa in discussione dal Tar
Puglia-Lecce.
Secondo la
sentenza 21.12.2015, n. 3661, Sez. II, i
dirigenti a contratto possono essere assunti solo in esito a
una vera e propria procedura selettiva di natura tecnica che
escluda una scelta totalmente discrezionale dell'organo di
governo.
Si tratta di una decisione che si inserisce in un filone
giurisprudenziale certamente non nuovo e consolidato, ma che
assume una particolare valenza alla luce della legge
124/2015 e della riforma della dirigenza ivi immaginato.
L'articolo 11 della legge Madia, come confermato dallo
schema di decreto legislativo riguardante gli incarichi di
vertice nelle Usl, si basa tutto sulla scelta di fatto
totalmente discrezionale degli organi politici.
Per i dirigenti di ruolo, in estrema sintesi, il processo di
conferimento degli incarichi dirigenziali passerà per
l'inserimento dei dirigenti nei ruoli, la pubblicazione di
un avviso pubblico da parte delle commissioni nazionali cui
si rivolgeranno gli enti che manifesteranno carenze di
organico, la successiva creazione di «rose» di candidati,
tra i quali, poi, potranno scegliere gli organi di governo
senza alcun vincolo a graduatorie. Si tratterà di un potere
di incarico totalmente discrezionale, fino a rasentare
l'arbitrio.
È esattamente lo schema del quale fin qui si sono avvalsi la
quasi totalità dei comuni, nell'attribuire gli incarichi «a
contratto» ai sensi dell'articolo 110 del dlgs 267/2000.
Nel caso esaminato dalla sentenza del Tar Lecce, il comune
di Salve ha, in effetti, pubblicato un avviso di selezione
che di fatto ha attribuito esclusivamente al sindaco il
potere di decidere chi assumere. L'avviso conteneva le
seguenti indicazioni: «La valutazione delle domande e dei curricula, effettuata dal segretario comunale, farà
riferimento alla esperienza acquisita nello svolgimento di
incarichi di responsabilità nelle stesse attività, agli
esiti positivi della stessa e alle altre competenze
professionali. Il segretario redige una specifica relazione;
il sindaco provvede alla scelta tenuto conto della stessa».
Come si nota, nella realtà, non si pone in essere nessuna
selezione vera e propria: c'era solo un mandato al
segretario di relazionare, che lasciava totalmente libero il
sindaco di assumere chi volesse. L'aggiramento dell'articolo
110 che subordina gli incarichi a contratto a una previa
«selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti
interessati, il possesso di comprovata esperienza
pluriennale e specifica professionalità nelle materie
oggetto dell' incarico» è evidente.
Infatti, non è sfuggito al Tar di Lecce. Il quale sottolinea
che la procedura speciale indicata dall'articolo 110 pur non
coincidendo con un concorso pubblico deve comunque
considerarsi avere natura paraconcorsuale. Se così non
fosse, se, cioè, si ritenesse che l'articolo 110 consenta
una scelta intuitu personae, «risulterebbe assai dubbia la
compatibilità costituzionale della norma de qua in
riferimento all'art. 97, commi 2 e 4, Cost.», non esistendo
esigenze di buon andamento e straordinarie esigenze di
interesse pubblico idonee a giustificare assunzioni a
termine dei vertici amministrativi degli enti locali per
cooptazione diretta.
Il Tar, dunque, conclude affermando che occorreva
predeterminare, nell'avviso pubblico, elementi selettivi
esattamente «al fine di delimitare la discrezionalità
tecnica della p.a. e garantire una selezione rispondente
agli interessi pubblici perseguiti, di concreti e puntuali
parametri di apprezzamento».
L'avviso, invece, ha limitato la selezione a una relazione
del segretario, per altro risultata priva di elementi
valutativi, sicché il sindaco ha scelto la persona da
assumere «con discrezionalità tecnica pressoché assoluta, sì
da risultare minata la trasparenza e l'imparzialità del suo
operato».
Lo schema, tuttavia, della consegna al sindaco o all'organo
di governo di una mera lista di «potenziali idonei»
dalla quale attingere per decidere in totale discrezionalità
il dirigente di ruolo al quale assegnare l'incarico è il
metro utilizzato dalla legge 124/2015. L'illegittimità
rilevata dal Tar Lecce non può non estendersi anche al
sistema indicato dalla legge Madia e probabilmente sarà
fonte di un delicato contenzioso davanti alla Corte
costituzionale
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
1.- Premesso che:
- il Comune intimato indiceva, a seguito di declaratoria di
nullità del contratto di lavoro subordinato del precedente
istruttore direttivo contabile (dr.ssa Do.Ta.), una
procedura selettiva per l’assunzione a tempo determinato, ex
art. 110, comma 1, t.u.e.l., di tale figura professionale;
- la ricorrente partecipava alla procedura, la quale si
concludeva tuttavia con l’assunzione della stessa dr.ssa
Ta..
2. Ritenuto che:
-
le valutazioni dei titoli compiute dalla p.a. nei pubblici
concorsi possono essere censurate solo sotto il profilo
dell’eccesso di potere per manifesta irragionevolezza o
arbitrarietà
(fra le ultime, Tar Piemonte, I, 29.09.2015, n. 1370),
non essendo, per il resto, il processo amministrativo la
sede per contrapporre giudizi di merito a quelli effettuati
dalla commissione, salvo il caso in cui quest’ultimi siano
chiaramente irragionevoli o arbitrari
(fra le ultime, Consiglio di Stato, V, 09.07.2015, n. 3444;
V, 06.05.2015, n. 2269): il che non risulta nel caso in
oggetto, risultando i curricula delle candidate di
pregnanza -ai fini dell’incarico de quo- tra di loro
non manifestamente diseguale.
- secondo il preferibile orientamento della giurisprudenza
l’art. 110 del t.u.e.l., nel consentire agli enti locali di
affidare incarichi di responsabilità dirigenziale con
contratti a tempo determinato, non esonera gli enti stessi
dallo svolgere procedure le quali, pur inassimilabili a un
concorso pubblico in senso stretto, hanno comunque una
valenza para-concorsuale: diversamente opinando, ovvero
qualificando la selezione di cui all’art. 110, comma 1,
t.u.e.l. quale scelta intuitu personae, risulterebbe
assai dubbia la compatibilità costituzionale della norma
de qua in riferimento all’art. 97, commi 2 e 4, Cost.,
<<dal momento che il conferimento di
incarichi dirigenziali a soggetti esterni
all’Amministrazione comporterebbe, in quanto costitutivo di
un rapporto di impiego pubblico, una aperta deroga al
principio costituzionale dell’accesso tramite pubblico
concorso -valevole anche per le assunzioni a tempo
determinato
(Corte Cost. 23.04.2013, n. 73; Consiglio di Stato sez. VI.,
04.11.2014, n. 5431)-
non sorretta da esigenze di buon andamento e straordinarie
esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarla
(Corte Costituzionale 13.06.2013 n. 137)>>
(Tar Umbria, I, 30.04.2015, n. 192).
-
l’osservanza dei principi di trasparenza, imparzialità e
par condicio della selezione in parola avrebbe dunque
imposto la predeterminazione, nell’avviso pubblico di che
trattasi e al fine di delimitare la discrezionalità tecnica
della p.a. e garantire una selezione rispondente agli
interessi pubblici perseguiti, di concreti e puntuali
parametri di apprezzamento:
nel caso di specie, al contrario, l’avviso pubblico
prevedeva criteri assolutamente generici e inidonei in
merito alla valutazione dei curricula dei candidati
(valutazione peraltro demandata, dall’Avviso pubblico, al
Segretario Comunale, che invece si limitava a una
riepilogazione sinottica degli stessi), sicché il Sindaco
(il quale peraltro, come già scritto, avrebbe dovuto
provvedere previa valutazione del Segretario Comunale)
operava con discrezionalità tecnica pressoché assoluta, sì
da risultare minata la trasparenza e l’imparzialità del suo
operato (cfr. Tar Umbria cit.); né tale ordine di censure
può ritenersi inammissibile, atteso l’interesse ‘strumentale’
della ricorrente, o tardivo, non venendo in rilievo clausole
immediatamente e direttamente lesive dell’interesse
sostanziale della medesima (laddove ogni diversa questione
riguardante l’illegittimità della lex specialis della
procedura di gara poteva essere proposta unitamente
all’impugnazione degli atti che delle clausole dimostratesi
lesive facevano diretta applicazione).
- il ricorso dev’essere pertanto accolto limitatamente alle
censure formulate nell’ultimo motivo di gravame (con
invalidazione, dunque, degli atti inditivi della gara e di
tutti quelli conseguenti), sussistendo inoltre, attesa la
natura della decisione assunta, eccezionali ragioni per
compensare tra le parti le spese di giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA: Le
norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori
sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872,
873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in
materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve
applicare le richiamate norme locali indipendentemente da
ogni attività assertiva o probatoria delle parti,
acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale,
la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni
ai comuni.
---------------
In materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale
edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo
complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei
competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione,
non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima
del perfezionamento di questo "iter" tale strumento
urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice
civile.
Infatti, «Il piano regolatore generale ha natura di atto
complesso, risultando dal concorso delle volontà del Comune
e della Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1,
lett. a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia
normativa propria dello stesso e delle prescrizioni in esso
contenute ha inizio non già dalla data della sua
approvazione da parte del consiglio comunale, ma da quella
della pubblicazione del decreto di approvazione del
Presidente della giunta regionale».
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto
complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e
della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche
integrative del codice civile solo con l'approvazione del
piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno
dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia
annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano
regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna
idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze
legali, fino a quando non intervenga una sua nuova
approvazione e salva l'applicazione delle misure di
salvaguardia».
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti
edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui
norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in
materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale
del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne
l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare
efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione
dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei
destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione
da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale
pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e
l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza
possibilità di efficacia retroattiva dalla data di
approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue
che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra
costruzioni è quella del codice civile».
---------------
L'eccezione è infondata.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che «le
norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori
sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872,
873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in
materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve
applicare le richiamate norme locali indipendentemente da
ogni attività assertiva o probatoria delle parti,
acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale,
la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni
ai comuni» (Cass. n. 17692 del 2009; Cass. n. 2563 del
2009).
In particolare, si è precisato che «la vigenza o meno di
una certa norma alla data rilevante in relazione al caso
concreto non costituisce nuova questione di fatto, non
deducibile in sede di legittimità, poiché rientra nella
scienza ufficiale del giudice, il quale in sede di
legittimità ha il dovere, prescindendo dalle deduzioni delle
parti, di verificare se la disposizione applicata dai
giudici di merito fosse effettivamente in vigore e, quindi,
applicabile al caso esaminato (fattispecie relativa a
distanze legali e all'accertamento della data di entrata in
vigore del regolamento edilizio comunale applicato in
concreto dalla corte di merito)» (Cass. n. 17692 del
2009, cit.).
Né potrebbe sostenersi che l'accertamento della normativa
regolamentare applicabile nel caso di specie possa essere
demandato, in via esclusiva, al consulente tecnico
d'ufficio, come preteso dalla resistente, la quale ha
appunto rilevato che ogni questione sarebbe preclusa perché
non dedotta nei gradi di merito e perché il detto
accertamento era contenuto nella c.t.u., non specificamente
contestata sul punto. Il giudice deve, infatti, applicare le
norme regolamentari locali indipendentemente da ogni
attività assertiva o probatoria delle parti, trattandosi di
esplicazione del principio iura novit curia, senza
che la individuazione della normativa applicabile possa
essere demandata in via esclusiva al consulente tecnico
d'ufficio.
Nessuna preclusione è quindi ravvisabile in ordine alla
deducibilità, in questa sede e per la prima volta, di una
censura inerente alla erronea applicazione di uno strumento
urbanistico sulla base della mera approvazione da parte del
consiglio comunale e prima del completamento del
procedimento di formazione con l'approvazione da parte della
regione.
7. Nel merito, i tre motivi sono fondati.
Questa Corte ha reiteratamente avuto modo di precisare che «in
materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale
edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo
complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei
competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione,
non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima
del perfezionamento di questo "iter" tale strumento
urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice
civile» (Cass. n. 11431 del 2009).
Infatti,
«Il
piano regolatore generale ha natura di atto complesso,
risultando dal concorso delle volontà del Comune e della
Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1, lett.
a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia normativa
propria dello stesso e delle prescrizioni in esso contenute
ha inizio non già dalla data della sua approvazione da parte
del consiglio comunale, ma da quella della pubblicazione del
decreto di approvazione del Presidente della giunta
regionale» (Cass. n. 1256 del 1997).
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto
complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e
della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche
integrative del codice civile solo con l'approvazione del
piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno
dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia
annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano
regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna
idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze
legali, fino a quando non intervenga una sua nuova
approvazione e salva l'applicazione delle misure di
salvaguardia»
(Cass. n. 2149 del 2009).
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti
edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui
norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in
materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale
del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne
l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare
efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione
dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei
destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione
da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale
pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e
l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza
possibilità di efficacia retroattiva dalla data di
approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue
che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra
costruzioni è quella del codice civile» (Cass. n. 10561
del 2011).
7.1. Nel caso di specie, poiché è documentalmente provato
che la ricorrente ha realizzato l'intervento edilizio
oggetto di causa sulla base di una licenza rilasciata il
06.10.1973 ed è altresì accertato, e comunque non contestato
dalla resistente, che i lavori terminarono nel 1974, ai fini
della individuazione della normativa regolamentare
applicabile occorre fare riferimento alla data di
ultimazione dei lavori.
Orbene, a tale data il regolamento edilizio con annesso
programma di fabbricazione, del quale il giudice di primo
grado e poi la Corte d'appello hanno fatto applicazione, era
solo stato adottato (delibera del consiglio comunale del
16.11.1973), mentre l'approvazione dello stesso si è avuta
solo con la delibera della giunta regionale del Veneto
06.10.1981, n. 5331 (documenti, questi, che la ricorrente ha
puntualmente indicato con il riferimento agli allegati alla
consulenza tecnica d'ufficio, riproducendoli altresì nel
proprio fascicolo di parte).
Dall'esame delle menzionate delibere emerge dunque, con
certezza, che alla data di inizio e di conclusione dei
lavori da parte della ricorrente, il Comune di Vestenanuova
era sprovvisto di un efficace strumento urbanistico; e ciò
anche perché il precedente programma regolamento edilizio,
approvato con delibera del consiglio comunale del
24.08.1968, non era poi stato approvato dalla giunta
regionale del Veneto (delibera 17.07.1973, n. 1966).
Ne consegue che la sentenza impugnata è errata nella parte
in cui ha risolto la controversia facendo applicazione di
norme regolamentari non efficaci, anziché considerare, ai
fini delle distanza del fabbricato dal confine, le
disposizioni del codice civile, ivi compresa quella di cui
all'art. 875
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 16.07.2015 n. 14915). |
UTILITA' |
VARI:
Comprare casa. Guida alle detrazioni fiscali (articolo ItaliaOggi Sette
del 15.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, gennaio 2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
VARI:
G.U. 16.02.2016 n. 38 "Regolamento recante norme in
materia di disciplina del prestito vitalizio ipotecario, ai
sensi dell’articolo 11-quaterdecies, comma 12-quinquies ,
del decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con
modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248, come
modificato dall’articolo 1, comma 1, della legge 02.04.2015,
n. 44" (Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 22.12.2015 n. 226). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2016, "Primo
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 03.02.2016 n. 637). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 12.02.2016 n. 35 "Approvazione della regola tecnica
di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione
e l’esercizio dei depositi di gas naturale con densità non
superiore a 0,8 e dei depositi di biogas, anche se di
densità superiore a 0,8" (Ministero dell'Interno,
decreto 03.02.2016). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'11.02.2016,
"Modalità attuative dell’art. 18, comma 5-bis, della l.r.
30.11.1983, n. 86, in ordine alle rettifiche dei confini dei
parchi (art. 18, comma 5-quater, l.r. 86/1983)" (deliberazione
G.R. 08.02.2016 n. 4793). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U.
09.02.2016 n. 32 "Individuazione delle categorie
merceologiche ai sensi dell’articolo 9, comma 3 del
decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, unitamente
all’elenco concernente gli oneri informativi" (D.P.C.M.
24.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.01.2016, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 01.02.2016 n. 18). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 05.02.2016, "Modifica
della deliberazione n. X/2944 del 19.12.2014 disposizioni
attuative quadro infrastrutture verdi a rilevanza ecologica
e di incremento della naturalità (comma 2-bis e seguenti,
art. 43, l.r. 12/2005)" (deliberazione
G.R. 28.01.2016 n. 4762). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 30.12.2015, "Disposizioni
operative per l’esercizio, la manutenzione, il controllo e
l’ispezione degli impianti termici civili in attuazione
della d.g.r. X/3965 del 31.07.2015 e della d.g.r. X/4427 del
30.11.2015" (decreto
D.U.O. 23.12.2015 n. 11785). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Legge Collegato ambientale – Disposizioni
riguardanti gli appalti pubblici (ANCE di Bergamo,
circolare 12.02.2016 n. 50). |
VARI:
Oggetto: Nuove disposizioni legislative in materia di
circolazione stradale e di divieto di fumo in auto
(Ministero dell'Interno,
nota 11.02.2016 n.
300/A/1001/16/101/3/3/9 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuove disposizioni operative per l’esercizio il
controllo e l’ispezione degli impianti termici (ANCE di
Bergamo,
circolare 05.02.2016 n. 44). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Integrazioni alla disciplina regionale sulla
certificazione energetica degli edifici (ANCE di
Bergamo,
circolare 05.02.2016 n. 43). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Per la bonifica dei siti contaminati sono
ammessi i “consorzi di scopo”, ma a determinate condizioni
(ANCE di Bergamo,
circolare 05.02.2016 n. 41). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI:
Oggetto: Il Collegato ambientale e le nuove norme per
promuovere misure di green economy (ANCE di Bergamo,
circolare 05.02.2016 n. 40). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Legge 01.10.2012, n. 177. Modifiche al Decreto
Legislativo 09.04.2008, n. 81, in materia di sicurezza sul
lavoro per la bonifica degli ordigni bellici (ANCE di
Bergamo,
circolare 05.02.2016 n. 39). |
VARI:
Indicazioni interpretative e attuative dei divieti
conseguenti all’entrata in vigore del decreto legislativo
12.01.2016, n. 6, recante “Recepimento della direttiva
2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative degli Stati
membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla
vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati e
che abroga la direttiva 2001/37/CE”. In particolare,
disposizioni in materia di tutela della salute dei minori
avverso il consumo di tabacco (Ministero della Salute,
circolare 04.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
OGGETTO: Unità immobiliari urbane a destinazione speciale
e particolare - Nuovi criteri di individuazione dell’oggetto
della stima diretta. Nuove metodologie operative in tema di
identificazione e caratterizzazione degli immobili nel
sistema informativo catastale (procedura Docfa) (Agenzia
delle Entrate,
circolare 01.02.2016 n. 2/E). |
APPALTI SERVIZI:
MODALITÀ DI AFFIDAMENTO DEL SERVIZIO DI ILLUMINAZIONE
PUBBLICA COMUNALE (Autorità Garante della Concorrenza
del Mercato,
atto segnalazione 16.12.2015 n. S1240). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
J. Cortinovis,
Legge di stabilità 2016: accatastamento di immobili a
destinazione speciale e impianti per comunicazioni
elettroniche (14.02.2016 - link a
www.studiospallino.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Visita fiscale: orari, reperibilità, assenza (14.02.2016
- link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Malattia: chi è assente negli orari di reperibilità della
visita fiscale perde il trattamento economico e può essere
licenziato. |
PATRIMONIO:
Strade: il danneggiato non deve provare l’insidia o il
trabocchetto (14.02.2016 - link a
www.laleggepertutti.it).
---------------
Risarcimento del danno da parte della pubblica
amministrazione per omessa o insufficiente manutenzione
della strada: l’onere della prova. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO:
Vicini rumorosi in condominio: difesa (14.02.2016
- link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Rumori molesti ed intollerabili, la prova delle
immissioni rumorose: la perizia fonometrica. Risarcimento
del danno alla salute (danno biologico) e del danno
esistenziale (danno morale). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO:
Rumori del vicino di condominio: come farlo smettere
(14.02.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Normale tollerabilità: quando le pareti sono
correttamente isolate è necessario avviare la causa in
tribunale se neanche la diffida legale o la richiesta
bonaria dell’amministratore sortiscono effetti. |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze minime: in caso di violazione il danno è automatico
(14.02.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Onere della prova: è già un danno in sé e per sé la
violazione della distanza minima perché la servitù abusiva
riduce il valore dell’edificio. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
Milleproroghe, via libera dalla Camera: tutte le novità
punto per punto (10.02.2016 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
D. Minussi,
Distanza fra costruzioni
(08.02.2016 - link a www.e-glossa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA:
L. Spallino,
Vas e Piani di Zonizzazione acustica nell'evoluzione della
giurisprudenza amministrativa
(30.01.2016 - link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
J. Cortinovis,
Codice comunicazioni elettroniche: dal 02.02.2016 il
contributo ad ARPA (art. 93) (22.01.2016 -
link a http://studiospallino.blogspot.it). |
APPALTI:
M. A. Sandulli,
Nuovi ostacoli alla tutela contro la pubblica
amministrazione (legge di stabilità 2016 e legge delega sul
recepimento delle Direttive contratti) (20.01.2016
- tratto da www.federalismi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire: inizio e ultimazione dei lavori
(08.12.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Efficacia temporale del permesso di costruire e
decadenza, i lavori non ultimati nel termine., la proroga. |
EDILIZIA PRIVATA:
La procedura per il rilascio del permesso di costruire
(21.11.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
---------------
La concessione da parte della pubblica amministrazione
del permesso di costruire: domanda, fase istruttoria,
costitutiva, comunicazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’affidamento dell’incarico di progettazione dell’opera
edilizia (21.11.2015 - link a
www.laleggepertutti.it).
---------------
Permesso di costruire e firma del progetto e la direzione
dei lavori per fabbricati a uso civile abitazione: il caso
dei geometri e periti edili. |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimazione a richiedere il permesso di costruire
(21.11.2015 - link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Chi può chiedere il permesso di costruire: proprietario,
possessore, usufruttuario, promissario acquirente,
enfiteuta, titolari di diritti di superficie, ecc.. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il trasferimento di cubatura (21.11.2015 -
link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Diritto urbanistico: la disciplina del permesso di
costruire. |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire: rapporto tra area disponibile e
volume edificabile (21.11.2015 - link a
www.laleggepertutti.it).
---------------
L’indice di fabbricabilità, volumi edilizi computabili e
volumi tecnici. |
EDILIZIA PRIVATA:
Permessi di costruire tutti pubblicati e senza privacy
(27.11.2014 - link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Sull’accesso agli atti amministrativi non può essere
affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza di
terzi titolari del permesso a costruire. |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire: i limiti all’annullamento con
autotutela (13.10.2014 - link a
www.laleggepertutti.it).
---------------
Guida sulle sentenze del Consiglio di Stato e dei TAR. |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI:
Proventi autovelox congelati. Il vincolo di
destinazione resta anche se manca il decreto.
Corte conti: inutilizzabili le risorse destinate
all'ente proprietario della strada.
I comuni non possono toccare quella parte dei proventi
autovelox da dividere a metà con l'ente proprietario della
strada. Anche se manca il decreto necessario per la
materiale ripartizione di queste somme il vincolo di
destinazione infatti permane. E non solo per quest'anno ma
anche per gli anni precedenti.
Lo ha chiarito la Corte dei Conti dell'Emilia-Romagna con il
parere 10.02.2016 n. 18.
La questione
della ripartizione a metà delle multe autovelox e della
rendicontazione periodica sull'impiego del denaro incassato
da comuni e province vede la luce con la legge n. 120/2010
che ha previsto, tra l'altro, che per tutte le violazioni
dei limiti di velocità i proventi devono essere ripartiti in
misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo
accertatore e l'ente proprietario della strada.
Le nuove
disposizioni, secondo un parere dell'Anci del 05.06.2012,
sarebbero divenute operative il 01.01.2013 a seguito alla
conversione in legge del dl n. 16/2012. Ma non solo.
Letteralmente l'art. 142, comma 12-quater del codice impone
agli enti locali di trasmettere in via informatica a Roma,
entro il 31 maggio di ogni anno, una composita relazione in
cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente,
l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza
con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun
intervento. Ma in assenza del sistema informatico ad hoc
e di regole chiare su quanto e come dividere i proventi
autovelox si naviga a vista e si procede con grande
approssimazione.
Per questo motivo un comune romagnolo ha richiesto
chiarimenti alla sezione regionale di controllo della Corte
dei conti evidenziando di aver prudentemente accantonato le
risorse in specifici capitoli già da qualche anno. Ma di non
aver mai versato nulla alla provincia per mancanza di regole
su come versare e cosa. E chiedendo quindi di poter
utilizzare le risorse inutilizzate, stante il particolare
periodo di crisi economica.
I giudici contabili dopo aver ricostruito il quadro
normativo di riferimento hanno confermato che i proventi
devono restare congelati. La problematicità della
utilizzabilità dei proventi in argomento da parte del solo
ente dal quale dipende l'organo accertatore, specifica la
Corte, «in assenza del decreto interministeriale di cui
all'art. 25 della legge n. 120/2010, non risulta essere
stata oggetto di specifico esame».
In pratica altre sezioni regionali hanno analizzato
l'impiego dei proventi delle multe stradali senza mai
entrare nel dettaglio di questa callosa questione. Alla luce
del quadro normativo richiamato, conclude il parere, «si
ritiene sussistente e attuale, anche in assenza
dell'emanazione del decreto di cui all'art. 25, comma 2,
della legge 29.07.2010, il vincolo sulle entrate in
argomento, per la parte destinata agli enti proprietari
delle strade ove è stato effettuato l'accertamento delle
violazioni». Dunque tutto congelato, almeno per ora
(articolo ItaliaOggi
del 13.02.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L'incarico di consulenza diretta all'esterno
dell'ente, camuffato da "corso di formazione del personale
per futuri adempimenti amministrativi",
è illegittimo e cagiona danno erariale.
Nulla quaestio in ordine alla possibilità per
il personale di essere affiancato da esperti esterni nella
fase di apprendimento di procedure complesse od innovative
ma, nella fattispecie, tutto ciò non è avvenuto ed il
rapporto si è invece concretizzato nella classica figura
della consulenza esterna richiesta dalla Responsabile della
Direzione Area di Coordinamento risorse, assumendosene la
responsabilità per aver colposamente aggirato i limiti di
spesa introdotti dal legislatore.
---------------
A parere di questo Collegio, nella vicenda in esame si
ravvisa l’esistenza di tutti i presupposti necessari e
sufficienti per l’esercizio dell’azione di responsabilità
amministrativo-contabile.
In primo luogo è indubitabile che all’epoca degli eventi la
parte convenuta era direttamente legata all’Amministrazione
comunale da un rapporto di servizio, rilevanti però nella
fattispecie sono l’indagine sull’elemento soggettivo, sul
nesso causale e l’individuazione della posta di danno
azionabile.
1. Elemento soggettivo
Sul punto è determinante il tenore del carteggio intercorso
tra la convenuta (ed altri Dirigenti interessati) e la Srl
Ca. e As..
Come già rilevato, tra l’altro, è stata acquisita dalla Gdf
la “scheda di richiesta corso e di input alla
progettazione” per l’inserimento nel “Piano annuale
della formazione del personale” di quanto richiesto.
In effetti in esito a tale scheda, né datata né
sottoscritta, risulta inserito nel suddetto piano un corso
denominato “tutoring finalizzato alla ricostruzione dei
fondi salario accessorio” destinato secondo la scheda a
n. 5/10 dipendenti di cat. D3, e che, diversamente, nel
Piano salgono a n. 25.
La natura di consulenza diretta, piuttosto che di formazione
del personale per futuri adempimenti amministrativi, emerge
al tenore delle mail rinvenute dalla GdF (all. 2/4 nota
citata).
In data 20.04.2012 al dr. Ta. viene richiesto un suo “supporto
per chiarire alcuni aspetti” circa le procedure seguite
dal Comune per la ricostruzione del fondo miglioramento
servizi relativamente agli straordinari per l’anno 1993 ex
DPR 333/1990.
Sempre nella stessa mail viene richiesto se “la procedura
adottata è corretta” e se può inviare una “tabella di
calcolo che ritiene valida per verificare se abbiamo
effettuato correttamente i calcoli” per quanto concerne
la Dichiarazione congiunta n. 14 del CCNL del 2004.
In calce a tutto questo viene trasmesso in visione al dr.
Ta. un elaborato circa il Riallineamento Progressioni
Orizzontali.
Successivamente in data 28.04.2012 il suddetto dr. Ta. invia
al Comune del “materiale relativo alle economie di
gestione che abbiamo verificato con la Provincia di Perugia
e, ancor prima, con il Comune di Perugia”.
In data 19.06.2012 il Comune invia “il materiale che
stiamo predisponendo per la ricostruzione dei fondi”.
Il 26.06.2012 al dr. Ta. viene chiesto “qualche altro
suggerimento per recuperare nuove risorse”.
In data 03.07.2012 il Comune allega una “delibera
indirizzo delegazione trattante” nel testo “rivisto
dopo tel. con Assessore”.
Il 22.07.2012 il dr. Ta. trasmette “il parere relativo al
Comune di Monza di cui ti ho parlato”.
Con rinvio all’ulteriore documentazione in atti, tutta di
analogo tenore, si può dedurre che ben prima dell’inizio del
corso, formalizzato con la citata determina del 13.06.2012,
era già avviata una attività di consulenza che sfocia, tra
l’altro, in un parere datato 24.11.2012, il cui incipit
“in relazione al quesito posto e dopo attenta disamina
degli atti tutti per come trasmessi, esprimo il seguente
sintetico avviso”, contraddice la natura dell’affermato
tutoraggio di n. 25 dipendenti.
In realtà, dalla scarna documentazione reperita dalla GdF
(all. 2/3 nota citata) presso la Direzione risorse umane del
Comune, emergono solo sette schede presenza giornaliere con
una media di 5/6 dipendenti o meglio dei Dirigenti apicali
interessati e non risulta nemmeno un elaborato scritto, ad
uso dei soggetti da “formare”.
Tutte queste considerazioni inducono il Collegio ad
escludere la natura formativa della iniziativa che non si è
neanche svolta sotto la forma dell’eccepito tutoraggio.
In altri termini nulla quaestio in ordine alla
possibilità per il personale di essere affiancato da esperti
esterni nella fase di apprendimento di procedure complesse
od innovative ma, nella fattispecie, tutto ciò non è
avvenuto ed il rapporto si è invece concretizzato nella
classica figura della consulenza richiesta dalla dr.ssa Ne.,
nella sua qualità di Responsabile della Direzione Area di
Coordinamento risorse, assumendosene la responsabilità per
aver colposamente aggirato i limiti di spesa introdotti dal
legislatore (di cui meglio infra).
2. Nesso
In effetti, nella fattispecie nessun dubbio sussiste in
ordine alla circostanza che la contestazione del danno alla
dr.ssa Ne. deriverebbe dal fatto che, trattandosi di
attività di consulenza e non formativa, si sarebbe dovuta
applicare la normativa relativa agli incarichi esterni la
quale, come noto, è costituita da molteplici fonti.
Secondo quanto riportato espressamente nell’atto di
citazione, “per quanto riguarda il caso in questione,
vengono in rilievo l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n.
165/2001, che indica i presupposti di legittimità per il
conferimento di incarichi; l'art. 3, comma 56, della l. n.
244/2007, che dispone che i limiti, i criteri e le modalità
per l'affidamento di incarichi di collaborazione devono
essere fissati con apposito regolamento, e che la violazione
delle disposizioni regolamentari costituisce illecito
disciplinare e determina responsabilità erariale; l'art. 1,
comma 127, della l. n. 662/1996; il Regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune di
Firenze.
In aggiunta, l'art. 3, comma 18, della l. n. 244/2007,
abrogato dal d.lgs. n. 33/2013, ma all'epoca dei fatti in
vigore, e quindi applicabile, disponeva che i contratti
relativi ai rapporti di consulenza con le pubbliche
amministrazioni erano efficaci a decorrere dalla data di
pubblicazione del nominativo del consulente, dell'oggetto
dell'incarico e del relativo compenso sul sito istituzionale
dell'amministrazione, mentre l'art. 1, comma 127, della l.
n. 662/1996 (anch'esso abrogato, ma anch'esso applicabile),
come modificato dall'art. 3, comma 54, della l. n. 244/2007,
sanzionava l'omessa pubblicazione con la responsabilità
erariale del dirigente preposto.
Tra l'altro, per le consulenze si pone anche il problema del
rispetto del limite dell'importo massimo stabilito dalla
legge, ai sensi del d.l. n. 78/2010, convertito in legge
dall'art. 1, comma 1, della l. n. 122/2010, il quale
prevede, all'art. 6, comma 7, che la spesa annua per studi
ed incarichi di consulenza non possa essere superiore al 20%
di quella sostenuta nel 2009. Il che, presumibilmente, non
avrebbe consentito al Comune di Firenze di venire incontro
alle richieste della Ca. e As..
In definitiva, poiché non aveva rispettato la normativa
prevista dalle norme di legge e regolamentari per
l'affidamento di incarichi esterni, la dott.ssa Ne. appariva
essere responsabile di un danno erariale, pari all'importo
pagato alla Ca. e As., asseritamente a titolo di spesa per
"formazione".
In sintesi il tenore delle dichiarazioni rese alla GdF ed
i riscontri documentali integrano un nesso tra il
comportamento, connotato da colpa azionabile e l’erogazione
contra legem delle somme in questione.
3. Danno erariale
Come sostenuto dalla Procura in citazione e come integrato
in sede di discussione orale, gli esborsi patrimoniali di
cui trattasi sia per la non corretta imputazione e
qualificazione della prestazione resa dalla Srl esterna, sia
per la successiva riscontrata “inutilità” della
stessa (come detto il Comune non ha dato esecuzione alla
determina n. 2013/DD/00619 del 22.01.2013 che la Dr.ssa Ne.
ha adottato alla fine del rapporto con il Dr. Ta.),
costituiscono una posta di danno erariale (€. 20.000,00) che
deve essere integralmente imputata a carico della Dr.ssa
So.Ne., sia pure in termini omnicomprensivi di interessi e
di rivalutazione monetaria.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono
dovuti, invece, gli interessi nella misura del saggio legale
fino al momento del saldo
(Corte
dei Conti, Sez. giurisdizionale Toscana,
sentenza 25.01.2016 n. 28). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sulla non conformità del regolamento comunale ai parametri
normativi individuati da questa Sezione, relativamente alla
mancata previsione che il conferimento dell’incarico
legale debba essere comunque preceduto da procedure
comparative ed adeguatamente pubblicizzato, senza
distinzione tra soglie d’importo dell’affidamento.
---------------
La Sezione ha stabilito alcuni
criteri omogenei per l’esame dei regolamenti e delle
delibere a carattere generale trasmesse dai Comuni in
materia di affidamento di incarichi di collaborazione e di
consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività,
la Sezione ha richiamato i propri precedenti pareri
in relazione ai quali individua i
seguenti principi:
1) La disciplina dettata dall’art. 3, commi da 55 a 57, della legge
244/2007 stabilisce l’obbligo di normazione regolamentare
dei limiti, criteri modalità di affidamento degli incarichi
di collaborazione, studio e ricerca nonché di
consulenza a
soggetti estranei all’amministrazione.
2) L’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella legge n.
133/2008 unifica gli incarichi di collaborazione ad alto
contenuto professionale e gli incarichi di studio e
consulenza, riconducendoli all’interno della tipologia
generale di collaborazione autonoma (da conferire perciò con
contratti di lavoro autonomo) tutti caratterizzati dal grado
di specifica professionalità richiesta. Questo tipo di
collaborazione è diverso dalle collaborazioni “normali”
il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni
ordinarie dell’ente.
3) Quanto alla locuzione “particolare e comprovata
specializzazione universitaria”
questa Sezione, ha già chiarito che con essa si
intende il possesso di conoscenze specialistiche
equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso
formativo di tipo universitario basato, peraltro, su
conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività
professionale oggetto dell’incarico. Inoltre la
specializzazione richiesta, per essere “comprovata”
deve essere oggetto di accertamento in concreto condotto
sull’esame di documentati curricula. Il mero possesso
formale di titoli non sempre è necessario o sufficiente a
comprovare l’acquisizione delle richieste capacità
professionali.
4) Il nuovo testo dell’art. 7 del D.L. n. 165/2001, introdotto con
l’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella l. n.
133/2008, qualifica poi come presupposti di legittimità
tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza
contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di
studio.
In particolare, il requisito
della corrispondenza della prestazione alla competenza
attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma
approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art.
42 del D.Lgs. 267/2000.
5) Quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome
si richiamano le considerazioni contenute nel punto
6 del
parere
11.03.2008 n. 37
di questa Sezione
sull’inapplicabilità della nuova disciplina a materia già
autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico
professionale ed appalto di servizi.
6) Il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure
selettive di natura comparativa ed adeguatamente
pubblicizzata. Si è posto il problema del se ed in quali
limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico
senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi
facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli
appalti pubblici.
Come già detto la materia è del tutto estranea a quella
degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può
farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri.
Deve
invece affermarsi che il ricorso a procedure comparative
deve essere generalizzato e che da esse può prescindersi
solo in circostanze del tutto particolari, e cioè: procedura
concorsuale andata deserta; unicità della prestazione sotto
il profilo soggettivo; assoluta urgenza determinata dalla
imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un
termine prefissato o ad un evento eccezionale.
Così, anche recentemente, la Corte dei Conti in sede di
controllo ha ribadito che anche gli incarichi di
consulenza
legale “devono comunque essere affidati nel pieno
rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e
motivazione, a seguito di una procedura comparativa aperta a
tutti i possibili interessati”.
7) L’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi
ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica
Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione,
durata dell’incarico, modalità di determinazione del
corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso,
verifiche del raggiungimento del risultato.
Quest’ultima
verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o
rinnovo dell’incarico.
8) In ogni caso tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla
collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle
delibere di incarico.
9) Infine, l’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013 (c.d. “decreto
trasparenza”) nel disciplinare gli “obblighi di
pubblicazione concernenti i titolari di incarichi
dirigenziali e di collaborazione o consulenza”,
ha
dettato nuove disposizioni per le pubbliche amministrazioni,
tenute a pubblicare e aggiornare le informazioni relative ai
titolari di incarichi amministrativi di vertice e di
incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, nonché
di collaborazione o consulenza (la precedente disciplina, di
cui all’art. 3, comma 54, della l. 24.12.2007, n. 244 -che
aveva modificato l’art. 1, comma 127, della legge
23.12.1996, n. 662-, è stata abrogata dal citato d.lgs. n.
33/2013, art. 53, comma 1, lett. b).
In particolare, è stato previsto, dal comma 1, l’obbligo di
pubblicare le seguenti informazioni: estremi dell’atto;
curriculum vitae; dati relativi allo svolgimento di
incarichi o la titolarità di cariche in enti di diritto
privato regolati o finanziati dalla pubblica
amministrazione, o lo svolgimento di attività professionali;
i compensi percepiti, comunque denominati.
Il comma 2
dell’art. 15 stabilisce inoltre, che gli obblighi di
pubblicazione e comunicazione costituiscono condizioni per
l’acquisizione di efficacia dell’atto e per la liquidazione
dei relativi compensi. In caso di omessa pubblicazione, il
pagamento del corrispettivo determina la responsabilità del
dirigente che l’ha disposto (art. 15 cit., comma 3).
Nel caso in esame, il regolamento trasmesso dal Comune non si pone in linea con i criteri stabiliti
dal
parere
11.03.2008 n. 37
e
parere
06.11.2008 n. 224 di questa Sezione
e
parere
11.02.2009 n. 37 quanto all’inclusione nei casi di
affidamento diretto dell’incarico di collaborazione autonoma
dell’ipotesi in cui l’incarico per il rilascio di pareri
legati per casistiche di particolare complessità, in assenza
di una struttura legale interna, preveda un compenso entro
una determinata soglia, con conseguente possibilità di
pretermissione della necessaria procedura comparativa.
Ebbene, è utile ricordare che detti incarichi devono
comunque essere affidati nel pieno rispetto dei principi di
imparzialità, trasparenza e motivazione, a seguito di una
procedura comparativa aperta a tutti i possibili
interessati.
---------------
Questa Sezione in sede di esame del Regolamento per il
conferimento di incarichi di studio, ricerca e
consulenza a soggetti esterni all’Amministrazione,
adottato dal Comune di Ripalta Arpina (CR), ai sensi
dell’art. 3, commi da 54 a 57, della legge 24.12.2007, n.
244, approvato con deliberazione di Giunta comunale n. 49
del 07.08.2015 ha accertato la non conformità di alcune
parti dello stesso Regolamento ai parametri normativi
prefissati.
In particolare la previsione regolamentare risulta non
rispondente al dettato legislativo di cui all’art. 46 del
D.L. n. 112/2008 riguardo alla possibilità di prescindere
dal ricorso a procedure comparative per procedere
all’affidamento di incarichi esterni aventi ad oggetto il
rilascio di pareri legali qualora il compenso annuo
complessivo netto per questi incarichi non superi l’importo
di Euro 10.000,00 (art. 8, comma 1, lett. h).
Alla luce della predetta difformità del regolamento dai
criteri enunciati dalla Sezione con il
parere
11.03.2008 n. 37,
parere
06.11.2008 n. 224
e
parere
11.02.2009 n. 37, il magistrato istruttore ritiene
che sussistano i presupposti per deferire la questione
all’esame collegiale della Sezione.
DIRITTO
La legge finanziaria per il 2008 (l. 24.12.2007, n. 244) nel
dettare regole alle quali gli enti locali debbono
conformarsi per il conferimento di incarichi di
collaborazione, di studio e di ricerca
nonché di consulenze a soggetti estranei
all’amministrazione, ha previsto la necessaria emanazione da
parte di ciascun ente locale di norme regolamentari in
materia, il cui testo deve essere trasmesso alla competente
Sezione regionale della Corte dei conti entro trenta giorni
dall’adozione, anche nell’ipotesi di modifiche future a
testi già approvati.
Questa Sezione ha già individuato con il proprio
parere
11.03.2008 n. 37 e
parere
06.11.2008 n. 224 i criteri interpretativi
della nuova normativa al fine di stabilire nell’esame dei
regolamenti pervenuti uniformi parametri di verifica, nonché
l’alveo giuridico in cui si sostanzia la funzione di
controllo della Corte dei conti.
I. Natura del controllo sui regolamenti ex comma 57
dell’art. 3 della l. n. 244/2007.
Il comma 57 dell’art. 3, della legge n. 244/2007, obbliga
gli enti locali a trasmettere alla Corte dei conti in un
breve termine prefissato le disposizioni regolamentari di
cui si tratta. La norma in discorso non contiene alcuna
previsione sulle ricadute dell’obbligo; conseguentemente, va
chiarita la natura di questa forma di controllo facendo
applicazione dei principi generali.
Secondo orientamento consolidato di questa Sezione, il dato
testuale dell’art. 3, comma 57, della legge n. 244/2007
esclude che l’efficacia delle disposizioni regolamentari sia
subordinata al loro esame da parte della Corte dei conti.
Deve escludersi quindi l’effetto tipico del controllo
preventivo di legittimità che, per sua natura, è integrativo
dell’efficacia dell’atto. Nella logica di sistema
l’obbligatoria trasmissione in termini temporali ravvicinati
ad un organo di controllo esterno come la Corte dei conti va
finalizzata all’esercizio di competenze desumibili dalle
norme che regolano l’attività della istituzione.
Fatta questa premessa, si evidenzia che la funzione tipica
delle Sezioni regionali della Corte dei conti rispetto agli
enti locali è quella di esercitare un controllo di tipo “collaborativo”.
In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che il
legislatore è libero di assegnare alla Corte dei conti
qualsiasi forma di controllo, purché questo abbia un suo
fondamento costituzionale, rinvenendo, peraltro, detto
fondamento in una lettura adeguatrice al nuovo assetto della
Repubblica di norme originariamente dettate per lo Stato,
quali gli artt. 100, 81, 97, primo comma, e 28 della
Costituzione (cfr. sentenza Corte Cost. n. 179/2007).
In quest’ottica, la Sezione delle autonomie della Corte dei
conti, con
deliberazione
24.04.2008 n. 6/2008, ha dettato le
linee di indirizzo e i criteri interpretativi dell’articolo
3, commi 54-57, della legge 24.12.2007, n. 244 in materia di
regolamenti degli enti locali per l’affidamento di incarichi
di collaborazione, studio, ricerca e consulenza, chiarendo
che la trasmissione del regolamento deve ritenersi
strumentale all’esame da parte della Sezione, in un’ottica
di controllo collaborativo.
In questo quadro di rapporti istituzionali l’obbligo di
trasmissione alla Corte dei conti di atti e documenti da
parte degli enti locali non può essere fine a se stesso ma
deve essere finalizzato allo svolgimento di funzioni (cfr.
in proposito la deliberazione di questa Sezione n. 11 del
26.10.2006).
La trasmissione di regolamenti deve, pertanto, ritenersi
strumentale al loro esame e ad una pronuncia della Corte dei
conti. Stante la natura dell’atto regolamentare, in questo
caso il controllo della Corte dei conti è ascrivibile alla
categoria del riesame di legalità e regolarità, dovendosi
assumere a parametro delle disposizioni regolamentari lo
statuto dell’ente, i criteri deliberati dal Consiglio, i
limiti normativi di settore ed in particolare l’art. 7 del
D.Lgv. n. 165/2001 e l’art. 110 del D.Lgv. n. 267/2000.
Va ricordato che le norme da ultimo richiamate hanno un
particolare valore perché hanno positivizzato principi
affermati da una giurisprudenza ormai univoca quali
presupposti essenziali per il ricorso agli incarichi
esterni; essi costituiscono regole di organizzazione non
derogabili da disposizioni regolamentari ed in gran parte
neppure da norme di rango superiore in quanto trovino
fondamento in principi costituzionali.
II. Effetti del controllo sul regolamento per
l’affidamento di incarichi esterni.
Fissati i parametri di raffronto per le verifiche demandate
alla Corte dei conti, si debbono stabilire gli effetti del
controllo.
Al riguardo va ricordato che la Corte costituzionale,
ricostruendo il quadro complessivo dell’attività di
controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti
locali, ha ritenuto che anche il riesame di legalità e
regolarità –a cui si ascrivono le verifiche previste
dall’art. 1, comma 166 e seguenti, della legge n. 166/2005
per accertare il raggiungimento degli obiettivi del Patto di
stabilità e degli equilibri finanziari, così come il
controllo ex art. 3, comma 57, della legge n. 244/2007- va
effettuato in una prospettiva non più statica (come era il
tradizionale controllo di legalità regolarità), ma dinamica
per consentire all’ente destinatario del controllo di
adottare misure correttive conformi ai parametri normativi
individuati in sede di riesame.
Strumento per raggiungere siffatto risultato in una
tipologia di controllo di natura collaborativa può essere
individuato nell’applicazione dei principi e dell’iter
procedurale dettati dall’art. 1, comma 168, della legge n.
266/2005, norma che prevede specifiche pronunce da
indirizzare all’ente controllato, rimettendo ad esso
l’adozione delle necessarie misure correttive nonché la
vigilanza sulla effettiva adozione delle misure stesse.
Si aggiunga che l’esame della Corte sulle norme
regolamentari riguarda solo detta materia e non va perciò
estesa ad altre norme, anche nella ipotesi nella quale
l’ente trasmetta l’intero regolamento sull’ordinamento degli
uffici e dei servizi.
III. Parametri normativi che conformano il controllo sui
regolamenti de quibus.
Con
parere
11.02.2009 n. 37
la Sezione ha stabilito alcuni
criteri omogenei per l’esame dei regolamenti e delle
delibere a carattere generale trasmesse dai Comuni in
materia di affidamento di incarichi di collaborazione e di
consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività,
la Sezione ha richiamato i propri precedenti
parere
11.03.2008 n. 37
e
parere
06.11.2008 n. 224, in relazione ai quali individua i
seguenti principi:
1) La disciplina dettata dall’art. 3, commi da 55 a 57, della legge
244/2007 stabilisce l’obbligo di normazione regolamentare
dei limiti, criteri modalità di affidamento degli incarichi
di collaborazione, studio e ricerca nonché di
consulenza a
soggetti estranei all’amministrazione. La competenza ad
adottare regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene
alla Giunta nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal
Consiglio (art. 48, terzo comma, ed art. 42, secondo comma,
lett. A del T.U.E.L.).
2) L’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella legge n.
133/2008 unifica gli incarichi di collaborazione ad alto
contenuto professionale e gli incarichi di studio e
consulenza, riconducendoli all’interno della tipologia
generale di collaborazione autonoma (da conferire perciò con
contratti di lavoro autonomo) tutti caratterizzati dal grado
di specifica professionalità richiesta. Questo tipo di
collaborazione è diverso dalle collaborazioni “normali”
il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni
ordinarie dell’ente.
3) Quanto alla locuzione “particolare e comprovata
specializzazione universitaria”
questa Sezione, ha già chiarito con il
parere
12.05.2008 n. 28
e
parere
12.05.2008 n. 29, che
con essa si
intende il possesso di conoscenze specialistiche
equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso
formativo di tipo universitario basato, peraltro, su
conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività
professionale oggetto dell’incarico. Inoltre la
specializzazione richiesta, per essere “comprovata”
deve essere oggetto di accertamento in concreto condotto
sull’esame di documentati curricula. Il mero possesso
formale di titoli non sempre è necessario o sufficiente a
comprovare l’acquisizione delle richieste capacità
professionali.
4) Il nuovo testo dell’art. 7 del D.L. n. 165/2001, introdotto con
l’art. 46 del D.L. n. 112/2008 convertito nella l. n.
133/2008, qualifica poi come presupposti di legittimità
tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza
contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di
studio.
In particolare, il requisito
della corrispondenza della prestazione alla competenza
attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge o previste dal programma
approvate dal Consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art.
42 del D.Lgs. 267/2000.
5) Quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome
si richiamano le considerazioni contenute nel punto
6 del
parere
11.03.2008 n. 37
di questa Sezione
sull’inapplicabilità della nuova disciplina a materia già
autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico
professionale ed appalto di servizi.
6) Il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure
selettive di natura comparativa ed adeguatamente
pubblicizzata. Si è posto il problema del se ed in quali
limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico
senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi
facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli
appalti pubblici.
Come già detto la materia è del tutto estranea a quella
degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può
farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri.
Deve
invece affermarsi che il ricorso a procedure comparative
deve essere generalizzato e che da esse può prescindersi
solo in circostanze del tutto particolari, e cioè: procedura
concorsuale andata deserta; unicità della prestazione sotto
il profilo soggettivo; assoluta urgenza determinata dalla
imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un
termine prefissato o ad un evento eccezionale.
Così, anche recentemente, la Corte dei Conti in sede di
controllo ha ribadito che anche gli incarichi di
consulenza
legale “devono comunque essere affidati nel pieno
rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e
motivazione, a seguito di una procedura comparativa aperta a
tutti i possibili interessati” (C. Conti, sez. contr.
Emilia Romagna,
deliberazione
18.11.2015 n. 145).
7) L’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi
ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica
Amministrazione ed in particolare oggetto della prestazione,
durata dell’incarico, modalità di determinazione del
corrispettivo e del suo pagamento, ipotesi di recesso,
verifiche del raggiungimento del risultato.
Quest’ultima
verifica è peraltro indispensabile in ipotesi di proroga o
rinnovo dell’incarico.
8) In ogni caso tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla
collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle
delibere di incarico.
9) Infine, l’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013 (c.d. “decreto
trasparenza”) nel disciplinare gli “obblighi di
pubblicazione concernenti i titolari di incarichi
dirigenziali e di collaborazione o consulenza”,
ha
dettato nuove disposizioni per le pubbliche amministrazioni,
tenute a pubblicare e aggiornare le informazioni relative ai
titolari di incarichi amministrativi di vertice e di
incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, nonché
di collaborazione o consulenza (la precedente disciplina, di
cui all’art. 3, comma 54, della l. 24.12.2007, n. 244 -che
aveva modificato l’art. 1, comma 127, della legge
23.12.1996, n. 662-, è stata abrogata dal citato d.lgs. n.
33/2013, art. 53, comma 1, lett. b).
In particolare, è stato previsto, dal comma 1, l’obbligo di
pubblicare le seguenti informazioni: estremi dell’atto;
curriculum vitae; dati relativi allo svolgimento di
incarichi o la titolarità di cariche in enti di diritto
privato regolati o finanziati dalla pubblica
amministrazione, o lo svolgimento di attività professionali;
i compensi percepiti, comunque denominati.
Il comma 2
dell’art. 15 stabilisce inoltre, che gli obblighi di
pubblicazione e comunicazione costituiscono condizioni per
l’acquisizione di efficacia dell’atto e per la liquidazione
dei relativi compensi. In caso di omessa pubblicazione, il
pagamento del corrispettivo determina la responsabilità del
dirigente che l’ha disposto (art. 15 cit., comma 3).
Nel caso in esame, il regolamento trasmesso dal Comune di Ripalta Arpina non si pone in linea con i criteri stabiliti
dal
parere
11.03.2008 n. 37
e
parere
06.11.2008 n. 224 di questa Sezione
e
parere
11.02.2009 n. 37 quanto all’inclusione nei casi di
affidamento diretto dell’incarico di collaborazione autonoma
dell’ipotesi in cui l’incarico per il rilascio di pareri
legati per casistiche di particolare complessità, in assenza
di una struttura legale interna, preveda un compenso entro
una determinata soglia, con conseguente possibilità di
pretermissione della necessaria procedura comparativa.
Ebbene, è utile ricordare che detti incarichi devono
comunque essere affidati nel pieno rispetto dei principi di
imparzialità, trasparenza e motivazione, a seguito di una
procedura comparativa aperta a tutti i possibili
interessati.
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la
Regione Lombardia:
1) Accerta la non conformità del
regolamento inviato ai parametri normativi individuati da
questa Sezione nelle delibere richiamate in premessa,
relativamente alla mancata previsione che il conferimento
dell’incarico debba essere comunque preceduto da procedure
comparative ed adeguatamente pubblicizzato, senza
distinzione tra soglie d’importo dell’affidamento;
2) Invita l’amministrazione comunale a modificare il
predetto regolamento nelle parti indicate;
3) Dispone che la presente deliberazione sia trasmessa al
Presidente del Consiglio comunale e al Sindaco del comune di
Ripalta Arpina al fine di procedere alle necessarie
modifiche del regolamento.
4) Dispone che l’amministrazione comunale trasmetta entro il
termine di legge di 30 giorni dalla delibera di modifica, il
nuovo regolamento aggiornato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
deliberazione 21.01.2016 n. 16). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Unioni, cinque limiti sul personale.
Gestioni associate. Vanno regolate le compensazioni in caso
di uscita di un ente.
Con il
parere 20.01.2016 n. 6 ed il
parere 20.01.2016 n. 8, la Corte dei
Conti della Lombardia
torna sulla delicata questione del conteggio delle spese di
personale e delle capacità assunzionali in caso di gestione
associata delle funzioni da parte degli enti locali.
In
materia di calcoli aggregati in caso di convenzione o
unione, si possono individuare ben cinque limiti: il
contenimento delle spese di personale in valore assoluto, il
rapporto tra spese di personale e spese correnti, la
capacità assunzionale, il tetto sul lavoro flessibile e il
controllo sul fondo del trattamento accessorio. Il
monitoraggio è già complicato all'interno del singolo ente,
ma che cosa succede quando le funzioni vengono gestite in
forma associata?
Il punto fermo è l'articolo 32, comma 5, del Dlgs 267/2000
in base al quale «fermi restando i vincoli previsti dalla
normativa vigente in materia di personale, la spesa
sostenuta per il personale dell'Unione non può comportare,
in sede di prima applicazione, il superamento della somma
delle spese di personale sostenute precedentemente dai
singoli Comuni partecipanti». Nei vincoli in materia di
personale, un analogo criterio va fissato per le
convenzioni, tenendo anche conto anche di quanto stabilito
nel Dm Interno dell’11 settembre in materia di obiettivi di
risparmio.
La disposizione ha la finalità di fissare un tetto massimo,
per evitare che i singoli Comuni, una volta trasferite
funzioni e spese di personale alla gestione associata,
procedano con assunzioni o incrementi di spesa autonomi,
senza più tener conto dei costi sostenuti dalle unioni o
dalle convenzioni. Inevitabilmente, la regola generale si
estende anche sulle altre limitazioni prima riassunte. Per
il monitoraggio dei vincoli, la sezione Autonomie, con la
delibera 8/2011, aveva sancito un metodo concreto: «Il
contenimento dei costi del personale dei Comuni deve essere
valutato sotto il profilo sostanziale, sommando alla spesa
di personale propria la quota parte di quella sostenuta
dall'unione dei Comuni». Quindi, la gestione associata
ripartisce i costi di personale sui Comuni i quali devono
dimostrare singolarmente di rispettare le disposizioni.
Questa modalità, se mette un paletto chiaro e definito, non
permette però di gestire con flessibilità i servizi, le
funzioni e il riparto della spesa tra gli enti facenti parte
della gestione associata. Può infatti accadere che un Comune
riceva maggiori servizi rispetto a quelli riferiti alla
singola spesa di personale: di qui la possibilità di un
conteggio complessivo con compensazioni di spesa. Lo prevede
il comma 450 della legge 190/2014, che pare fare
riferimento, però, alle sole gestioni associate
obbligatorie, così come già indicato dalla stessa Corte dei
conti della Lombardia (delibera 457/2015). I giudici
contabili hanno aggiunto che la compensazione può
operare solo in presenza di più funzioni trasferite.
Dal punto di vista operativo non ci sono dubbi. La
possibilità di gestire in forma cumulata i limiti di
personale, di fronte all’effettiva gestione associata delle
funzioni, è la finalità del legislatore, ma è necessario
prestare la massima attenzione a cosa potrebbe succedere in
caso di fuoriuscita di un ente dall'unione o dalla
convenzione. Quindi, sulla base delle delibere 6/2015 e
8/2015 della Corte dei conti della Lombardia, è necessario
predisporre una regolamentazione delle funzioni associate
tale da garantire le forme di compensazione, escludendo in
ogni caso qualsiasi aumento della spesa per il personale.
Questo documento, che riassume tutti i limiti in materia di
personale, è bene che venga recepito dalle singole
amministrazioni. Va infine ricordato che la legge 208/2015
ha previsto il turn-over al 100% per le unioni di Comuni (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.02.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Aggiornamento modalità operative per l’acquisizione del
CIG (comunicato
del Presidente 10.02.2016 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti, al setaccio le false dichiarazioni delle
imprese. Anac. La segnalazione alle stazioni appaltanti.
Gli operatori economici che abbiano
conseguito la qualificazione Soa con false dichiarazioni o
documentazioni saranno segnalati dall’Anac alle stazioni
appaltanti, affinché queste possano verificare se l’impresa
ha utilizzato l’attestazione dopo l’iscrizione nel
casellario informatico.
Il
comunicato del Presidente 03.02.2016
dell’Anac pubblicato, ieri fa, riferimento all’articolo 40,
comma 9-quater, del Codice dei contratti, in base al quale
in caso di presentazione di falsa dichiarazione o
documentazione le Soa ne danno segnalazione all’Anac che, in
caso di dolo o colpa grave, dispone l’iscrizione nel
casellario informatico per l’esclusione da gare e subappalti
per un anno (decorso il quale l’iscrizione è cancellata).
Secondo l’Autorità, l’utilizzo delle attestazioni Soa dopo
l’iscrizione nel casellario informatico configura un
distinto fatto illecito, per il quale si applica l’articolo
48 del Codice appalti. La conseguenza è riferibile a tutte
le ipotesi in cui l’attestazione Soa conseguita con dati
falsi sia utilizzata per dimostrare il possesso dei
requisiti in appalti di lavori inferiori a 150mila euro.
In questi casi, il consapevole uso di un’attestazione falsa
determina l’attivazione della stazione appaltante per
l’esclusione dalla gara dell’operatore economico e
l’escussione della cauzione provvisoria, oltre alla
segnalazione all’Anac e all’autorità giudiziaria. Perché
questo avvenga la condotta dell’impresa deve essere stata
dolosa, quindi accertata nel procedimento svolto dalla
stessa Anac che si conclude con l’iscrizione della
segnalazione nel casellario informatico.
Per consentire alle stazioni appaltanti una verifica
puntuale, l’Anac verificherà le partecipazioni
dell’operatore economico alle gare nell’ultimo quinquennio
dal momento di adozione del provvedimento di imputabilità, e
girerà alle stazioni appaltanti una comunicazione per
attivare la segnalazione per l’avvio del procedimento
previsto dall’articolo 48. Le stazioni appaltanti che
riscontreranno la partecipazione dell’impresa che ha
ottenuto l’attestazione Soa con documenti falsi dovranno
riportarlo all’Anac, che attiverà l’iter per l’esclusione
dalle gare per un anno.
L’esclusione sarà tuttavia possibile solo quando l’operatore
economico sarà iscritto nel casellario informatico
(articolo Il Sole 24 Ore
del 16.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Obbligo di segnalazione all’Autorità previsto dall’art.
48, c.1 e c. 2, del d.l.vo 163/2206 a seguito dell’adozione
di un provvedimento ex art. art. 40, comma 9-quater, del
d.l.vo 163/2006, con accertamento dell’imputabilità all’o.e.
con dolo della presentazione di falsa dichiarazione o di
falsa documentazione ai fini della qualificazione (comunicato
del Presidente 03.02.2016 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Si comunica che il Consiglio dell’Autorità, nell’ambito
di una più ampia riflessione in merito agli effetti prodotti
dall’adozione di un provvedimento sanzionatorio, ex art. 40,
c. 9-quater, del d.l.vo 163/2006, con accertamento dell’
imputabilità con dolo all’o.e. della falsa dichiarazione o
falsa documentazione resa ai fini del conseguimento
dell’attestazione di qualificazione per l’esecuzione di
lavori pubblici, ha ritenuto che nel caso di utilizzazione
successiva dell’attestazione -affetta da falsità- si
verifica un distinto ed autonomo fatto illecito, per il
quale, per quanto concerne gli eventuali profili
sanzionatori, ricorre l’applicazione dell’art. 48, del
d.l.vo 163/2006.
Poiché l’attestazione di qualificazione è condizione
necessaria e sufficiente ai fini della dimostrazione del
possesso dei requisiti a carattere speciale richiesti ai
fini della partecipazione alle gare pubbliche di lavori di
importo superiore a Euro 150.000, si è ritenuto che la
decadenza dell’attestazione conseguita sulla base di falsa
dichiarazione o falsa documentazione, possa produrre effetti
anche ai fini di quanto previsto dall’art. 48, commi 1 e 2,
del d.l.vo 163/2006, in quanto contestabile all’o.e. la
consapevole produzione di un’attestazione di qualificazione
affetta da falsità.
In tale circostanza, nel caso di consapevole e volontaria
utilizzazione di un’attestazione, affetta da falsità, si
profila, infatti, la fattispecie sanzionatoria prevista dal
comma 1, dell’art. 48, del d.l.vo 163/2006, con
l’attivazione a carico della Stazione appaltante sia degli
obblighi sanzionatori ivi previsti sia dell’obbligo di
segnalazione verso l’Autorità, ove il soggetto non risulti
già essere stato escluso dalla gara.
Occorrerà, tuttavia, che la condotta dell’o.e. sia già stata
profilata nell’ambito del procedimento ex art. 40, comma
9-quater, del d.l.vo 163/2006, come dolosa; solo in tal
caso, infatti, si ritiene possa venire in evidenza l’ipotesi
sanzionatoria ex art. 48 del d.l.vo 163/2006. Si ritiene,
infatti, che la nuova ipotesi sanzionabile è confinata ai
soli casi di utilizzo della falsa attestazione
consapevolmente conseguita con referenze false e, dunque, ai
soli casi di imputabilità con dolo, ai sensi del 40, comma
9-quater, del d.l.vo 163/2006.
In tal caso, dunque, l’Autorità procederà all’analisi delle
partecipazioni dell’o.e. alle gare nell’ultimo quinquennio,
a decorrere dal momento di adozione del provvedimento di
imputabilità ex art. 40, c. 9-quater, del d.l.vo 163/2006, e
procederà all’inoltro alle S.A., che abbiano ricevuto la
predette istanze di partecipazione, di una comunicazione
finalizzata all’ attivazione, a cura delle medesime S.A.,
della segnalazione necessaria ai fini dell’avvio del
procedimento ex art. 48 del d.l.vo 163/2006, che rimarrà di
competenza dell’Ufficio Sanzioni di questa Autorità. |
APPALTI:
P.a., trasparenza sui contratti. Anac: dati da
pubblicare entro il 31/1.
Entro il 31 gennaio di ogni anno devono essere pubblicati
sul sito web di ogni stazione appaltante, i dati di tutti i
contratti pubblici, anche affidati senza gara o con
procedure in deroga; sanzioni fino a 25 mila euro per chi
non adempie.
È quanto stabilisce la
delibera
20.01.2016 n. 39 dell'Anac (Indicazioni alle
Amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2,
decreto legislativo 30.03.2001 n.165 sull’assolvimento degli
obblighi di pubblicazione e di trasmissione delle
informazioni all’Autorità Nazionale Anticorruzione, ai sensi
dell’art. 1, comma 32, della legge n. 190/2012, come
aggiornato dall’art. 8, comma 2, della legge n. 69/2015) che disciplina sostituendo una precedente delibera
dell'Avcp del 2013 gli obblighi comunicativi previsti dalla
legge Severino che, all'art. 1, comma 32, primo periodo,
obbliga le stazioni appaltanti alla pubblicazione, sui
propri siti web istituzionali, con riferimento ai contratti
pubblici delle seguenti informazioni: struttura proponente;
oggetto del bando; elenco degli operatori invitati a
presentare offerte; aggiudicatario; importo di
aggiudicazione; tempi di completamento dell'opera, servizio
o fornitura; importo delle somme liquidate.
L'obbligo
comunicativo, per il quale ogni responsabile del
procedimento potrà essere passibile di una sanzione fino a
25 mila euro in caso di violazione, precisa l'Anac, dovrà
riguardare «tutti i procedimenti di scelta del contraente, a
prescindere dall'acquisizione del Cig o dello SmartCig, dal
fatto che la scelta del contraente sia avvenuta all'esito di
un confronto concorrenziale o con affidamenti in economia o
diretti e dalla preventiva pubblicazione di un bando o di
una lettera di invito».
Non soltanto: la legge Severino andrà rispettata anche
quando le amministrazioni agiscono in deroga alle procedure
ordinarie. L'obbligo vale per le procedure dell'anno
precedente aggiudicate o in corso di aggiudicazione. La
delibera impone alle amministrazioni di tenere le
informazioni sul sito «per un periodo di cinque anni
decorrenti dal primo gennaio dell'anno successivo a quello
da cui decorre l'obbligo di pubblicazione e comunque fino
alla conclusione del contratto stipulato all'esito della
procedura di affidamento cui fanno riferimento».
La delibera prevede che i dati siano inseriti, entro il 31
gennaio di ogni anno, nella sezione «amministrazione
trasparente», sotto-sezione di primo livello «Bandi
di gara e contratti» del sito web della stazione
appaltante
(articolo ItaliaOggi
del 02.02.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - APPALTI:
Oggetto: Delibera n. 43 del 20.01.2016 avente ad oggetto
“Attestazioni OIV, o strutture con funzioni analoghe,
sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione al
31.01.2016 e attività di vigilanza dell’Autorità”
(comunicato
del Presidente 26.01.2016 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Si rende noto che nella seduta del 20.01.2016, il
Consiglio dell’Autorità ha assunto la delibera in oggetto.
Con tale provvedimento, il Consiglio dell’Autorità, allo
scopo di verificare l’effettiva pubblicazione dei dati
previsti dalla normativa vigente, ha deciso di richiedere
agli Organismi Indipendenti, o strutture con funzioni
analoghe, istituiti presso gli enti di cui all’art. 11,
commi 1 e 2, lettera a), di attestare al 31.01.2016
l’assolvimento di specifiche categorie di obblighi di
pubblicazione.
Il termine di pubblicazione delle predette attestazioni,
nella sezione “Amministrazione trasparente”, sotto-sezione
di primo livello “Disposizioni generali”, sotto-sezione di
secondo livello “Attestazioni OIV o di struttura analoga”
dell’ente monitorato, è fissato al 29.02.2016. |
ENTI
LOCALI: Non profit, stop a soldi a pioggia. Gli enti pubblici tenuti
a procedure paraconcorsuali.
Obbligatorie procedure competitive per l'assegnazione di
contributi ai soggetti del terzo settore. Le linee guida dell'Anac individuano i paletti per i
contributi. Poteri ai dirigenti.
La
determinazione
20.01.2016 n. 32 dell'Anac,
contenente le linee guida per l'affidamento di servizi a
enti del terzo settore e alle cooperative sociali, afferma in
modo esplicito ciò che, per la verità, era già reso evidente
dalla normativa sull'anticorruzione e la trasparenza (si
veda ItaliaOggi di ieri).
Occorre ricordare che ai sensi dell'articolo 1, comma 16,
della legge 190/2012 la «concessione ed erogazione di
sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché
attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati» è considerata un
processo amministrativo ad alto rischio di corruzione. Si
parla di un flusso di denaro che secondo i dati
estrapolabili dal Siope (Sistema informativo sulle
operazioni degli enti pubblici) ammontava nel 2014, solo per
le amministrazioni locali, a circa 2 miliardi di euro.
Era, dunque, già chiaro che la legge 190/2012 (ma, ancor
prima, con l'articolo 12 della legge 241/1990) avesse messo
fuori causa la prassi diffusissima, soprattutto negli enti
locali, di assegnare contributi e sovvenzioni «ad personam»,
da parte degli organi di governo, senza alcuna procedura
realmente selettiva.
Sul punto, la delibera 32/2016 dell'Anac è tranciante:
«L'attribuzione di vantaggi economici, sebbene non regolata
dal Codice dei contratti, è sottoposta comunque a regole di
trasparenza e imparzialità; pertanto deve essere preceduta
da adeguate forme di pubblicità e avvenire in esito a
procedure competitive».
Occorrono, dunque, degli avvisi pubblici che non si limitino
a raccogliere le istanze dei soggetti del terzo settore, ma
dettino regole per mettere in «competizione» le richieste:
di conseguenza, gli enti debbono dotarsi di sistemi di
valutazione delle istanze, dai quali derivi l'ammissibilità
alla ripartizione dei fondi e che stabiliscano in via
preventiva come giungere ad attribuire le somme oggetto
della sovvenzione.
L'Anac suggerisce gli strumenti organizzativi, indicando che
le amministrazioni debbono individuare preventivamente gli
ambiti di intervento; gli obiettivi da perseguire; le
categorie dei beneficiari; la natura e la misura dei
contributi da erogare; il procedimento da seguire (con
l'indicazione di modalità e termini per presentare le
istanze); i criteri di valutazione delle richieste per la
scelta dei beneficiari, redatti in modo tale da rispettare i
principi di libera concorrenza e parità di trattamento;
infine, le azioni per controllare che i contributi siano
effettivamente impiegati per le finalità previste.
In estrema sintesi, l'Anac trae spunto dalla normativa su
anticorruzione e trasparenza, per chiarire che ai fini
dell'erogazione di contributi occorre porre in essere vere e
proprie procedure «para concorsuali», in tutto assimilabili
a quelle di gara, regolate dal codice dei contratti.
La delibera 32/2016, per altro, richiama la determinazione
dell'ex Avcp 07.07.2011, n. 4, secondo la quale la
disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari di cui
alla legge 136/2010, sostenendo che tale disciplina debba
applicarsi non solo agli appalti di servizi, ma anche alle
sovvenzione in favore dei soggetti del terzo settore
(sebbene la determinazione 4/2011 non arrivi esattamente a
tale conclusione).
La necessità di erogare i contributi attraverso procedure
sostanzialmente concorsuali induce a risolvere l'altro
problema (non affrontato dall'Anac) riguardante la
competenza a procedere. Nel momento in cui si agisce non
attraverso modalità totalmente discrezionali, bensì con
griglie valutative e procedimentali, si chiarisce che
l'erogazione materiale diviene attività gestionale, di
competenza non più degli organi di governo, ma dei dirigenti
o responsabili di servizi. Del resto, questo aspetto è già
disciplinato dall'articolo 4, comma 1, lettera d), che
considera appartenente alla sfera di competenza degli organi
di governo solo la «definizione dei criteri generali in
materia di ausili finanziari a terzi», sicché la concreta
gestione spetta alla dirigenza.
Le amministrazioni, dunque, alla luce della delibera Anac
32/2016 debbono affrettarsi a rivedere tutto il sistema di
regolazione dell'erogazione dei contributi ai soggetti del
terzo settore, ivi comprese anche le discipline sugli organi
competenti a gestire le procedure selettive e ad adottare i
provvedimenti finali
(articolo ItaliaOggi
del 10.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI SERVIZI:
Servizi a coop e non profit, Anac dà la linea.
Ufficiali le linee guida Anac per l'affidamento di servizi
agli enti del terzo settore e alle cooperative sociali. Gli
enti locali, le regioni e lo stato devono procedere alla
programmazione degli interventi e dei servizi sociali. La
programmazione deve avvenire in forma unitaria, a livello di
ambito territoriale in luogo del singolo comune, e
integrata, in una logica di governance (con il
coinvolgimento degli attori della società civile).
Queste le finalità delle «Linee guida per l'affidamento di
servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali»
redatte dall'Autorità nazionale anticorruzione e pubblicate,
sulla Gazzetta Ufficiale del 06.02.2016, n. 30
(determinazione
20.01.2016 n. 32).
Le amministrazioni
pubbliche ricorrono frequentemente agli organismi non profit
per l'acquisto o l'affidamento di servizi alla persona. Tale
scelta organizzativa ha il vantaggio di promuovere un
modello economico socialmente responsabile in grado di
conciliare la crescita economica con il raggiungimento di
specifici obiettivi sociali, quali, per esempio,
l'incremento occupazionale e l'inclusione e integrazione
sociale.
Programmazione interventi.
Il piano di zona è adottato, di
norma, attraverso un accordo di programma cui partecipano i
comuni associati e organismi non lucrativi di utilità
sociale, organismi della cooperazione, associazioni ed enti
di promozione sociale, fondazioni ed enti di patronato,
organizzazioni di volontariato, enti riconosciuti delle
confessioni religiose, che, attraverso l'accreditamento o
specifiche forme di concertazione, concorrono, anche con
proprie risorse, alla realizzazione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali previsto nel piano.
Il piano di
zona, in particolare, nell'individuare gli obiettivi
strategici e le priorità di intervento nonché gli strumenti
e i mezzi per la relativa realizzazione, le modalità
organizzative dei servizi, le risorse finanziarie,
strutturali e professionali, i requisiti di qualità, deve
prevedere l'erogazione dei servizi nel rispetto dei principi
di universalità, parità di trattamento e non
discriminazione.
Programmazione.
La programmazione, come più volte osservato dall'Autorità,
rappresenta uno strumento fondamentale per garantire la
trasparenza dell'azione amministrativa, la concorrenza nel
mercato e, per tali vie, prevenire la corruzione e garantire
il corretto funzionamento della macchina amministrativa.
Infatti, l'assenza di un'adeguata programmazione comporta la
necessità di far fronte ai bisogni emersi ricorrendo a
procedure di urgenza che, oltre a rivelarsi poco rispettose
dei principi che governano l'azione amministrativa e a non
garantire la qualità dei servizi resi, possono originare
debiti fuori bilancio. In fase di programmazione vanno
individuate non solo le modalità operative di erogazione del
servizio sociale, ma anche le risorse finanziarie a tal fine
necessarie.
«Tali risorse finanziarie dovranno essere
previste e valutate nel loro volume aggregato, per poi
essere ripartite tra i vari enti associati, sulla base degli
accordi assunti in sede di convenzione, e riportate nei
rispettivi bilanci di previsione annuali e pluriennali» (articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016). |
APPALTI SERVIZI:
Coop sociali, appalti difficili. Gli esecutori
devono essere il 30% dei lavoratori.
La delibera Anac sull'affidamento di servizi al terzo
settore prevede molte restrizioni.
Appalti a cooperative sociali più difficili. La
determinazione
20.01.2016 n. 32 dell'Anac «Linee guida per
l'affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle
cooperative sociali» prevede una serie di restrizioni agli
affidamenti, alla luce di valutazioni interpretative non del
tutto coerenti col sistema previsto dall'articolo 5 della
legge 381/1991.
Particolare problemi emergono dalla chiave di lettura
fornita dall'Anac sul fine particolare degli affidamenti
«riservati» alle cooperative sociali di tipo B: il
reinserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati. L'Anac
ritiene che «la percentuale dei lavoratori svantaggiati
debba essere riferita sia al numero complessivo dei
lavoratori della cooperativa sia a quello che esegue le
singole prestazioni dedotte in convenzione», perché una
diversa interpretazione avvererebbe il rischio di conseguire
in minima parte l'obiettivo di inclusione sociale, che
giustifica gli appalti riservati.
Il suggerimento dell'Anac, però, non convince. L'articolo 4,
comma 2, della legge 381/1991 fissa un requisito soggettivo
delle cooperative sociali di tipo B disponendo che le
persone svantaggiate definite dalla norma «devono costituire
almeno il 30% dei lavoratori della cooperativa e,
compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie
della cooperativa stessa». Il successivo articolo 5, comma
1, consente gli affidamenti di servizi alle cooperative
sociali di tipo B sotto soglia, in deroga alla normativa sui
contratti pubblici a condizione che le connesse «convenzioni
siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le
persone svantaggiate».
La locuzione utilizzata dal
legislatore non collima con l'interpretazione secondo la
quale un appalto alle coop di tipo B sia legittimo solo se
gli esecutori della prestazione siano il 30% dei suoi
lavoratori. La disciplina ha lo scopo che dalle commesse
pubbliche le cooperative possano trarre i finanziamenti
necessari sia per mantenere la quota del 30% di soggetti
svantaggiati, presupposto per poter partecipare alle
selezioni per gli affidamenti, sia per creare nuove
opportunità di lavoro.
Queste, non necessariamente debbono
coincidere con forme di lavoro subordinato che possano
costituire il 30% del valore complessivo del costo del
personale dell'appalto. L'opportunità di lavoro potrebbe
essere perseguita mediante forme contrattuali estremamente
flessibili, per dare prevalenza all'inclusione sociale.
Dunque, il personale chiamato a nuove opportunità di lavoro
potrebbe essere impiegato direttamente nella commessa per
poche ore, ben inferiori al 30%.
Inoltre, visto che la legge intende favorire opportunità
lavorative non connesse allo specifico appalto ma in
generale, si può porre l'esempio di una cooperativa sociale
di tipo b) destinataria di una commessa di attività di
sfalcio erba, che non impieghi alcuno svantaggiato nello
specifico servizio, però utilizzi le entrate della commessa
per assumere un disabile (inidoneo all'attività di sfalcio)
nell'ambito dei propri servizi amministrativi.
Lo scopo della legge 381/1991 sarebbe comunque ottenuto e la
giustificazione della deroga al sistema degli appalti
pubblici pienamente rispettata. È nell'indicazione del
progetto di inclusione socio-lavorativa prima, nonché nella
convenzione, poi, che vanno con precisione indicate le
modalità con le quali la cooperativa assicura le opportunità
di lavoro, in modo che poi sia possibile il monitoraggio
posto a verificare che gli obiettivi di inclusione e
reinserimento siano davvero rispettati, per tutta la durata
dell'appalto.
Un altro problema riguarda le procedure
selettive. L'Anac ricorda che per effetto della novella
all'articolo 5, comma 2, della legge 381/1991 da parte
dell'articolo 1, comma 610, della legge 190/2014 gli
affidamenti possono essere realizzati «previo svolgimento di
procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei
principi di trasparenza, di non discriminazione e di
efficienza».
L'autorità in proposito afferma che le stazioni
appaltanti per i servizi ricompresi nell'allegato IIA al
codice dei contratti debbono utilizzare le procedure
previste dagli articoli 124, comma 6, o 125, comma 11, del
medesimo codice, adempiendo agli obblighi informativi;
dovranno utilizzare la procedura semplificata di cui
all'articolo 27 nel caso di servizi di cui all'allegato IIB.
Tale conclusione appare, tuttavia, non condivisibile.
Poiché, però, la legge 381/1991 consente di derogare alle
norme sugli affidamenti, nessuna disposizione del codice dei
contratti può considerarsi da applicare obbligatoriamente
come disciplina di dettaglio, ma solo limitatamente a
indicazioni di principio
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
APPALTI SERVIZI:
Stretta sulle deroghe per gli appalti alle coop.
Anac vieta di restringere i requisiti per
l'ammissione alle gare.
Limiti alle procedure di affidamento di servizi sociali in
deroga, ammesse solo per un arco temporale determinato;
divieto di restrizione delle condizioni di acceso al mercato
e di clausole «su misura» per eludere la concorrenza;
necessari attenti controlli sui requisiti di moralità
professionale e sulle modalità di esecuzione dei contratti.
Sono questi alcuni dei punti delle quasi 50 pagine in cui si
articolano le linee guida Anac siglate da Raffaele Cantone (determinazione
20.01.2016 n. 32).
Le indicazioni dell'Anac si inseriscono in un contesto
economico che vede le organizzazioni non profit muoversi in
un ambito caratterizzato dall'assenza di una specifica
normativa di settore che disciplini in maniera organica
l'affidamento di contratti pubblici ai soggetti operanti nel
cosiddetto terzo settore.
L'Anac ha deciso di fornire indicazioni operative alle
amministrazioni aggiudicatrici e agli operatori del settore,
per ricondurre le modalità di affidamento dei contratti al
rispetto della normativa comunitaria e nazionale. Per
prevenire la corruzione, l'Autorità di Cantone invia le
stazioni appaltanti anche al rispetto dei principi di libera
circolazione delle merci, di libertà di stabilimento, libera
prestazione dei servizi.
Sembra banale, ma non lo è, visto che nell'ambito dei
servizi sociali molte norme prevedono la possibilità di
effettuare affidamenti in deroga all'applicazione del codice
dei contratti, introducendo il ricorso a forme di
aggiudicazione o negoziali, che consentono agli organismi
«del privato sociale» (le cooperative sociali e altre
organizzazioni non profit) la piena espressione della
propria progettualità.
Sul punto l'Anac è chiara: le deroghe possono trovare
applicazione nei soli casi espressamente consentiti dalla
normativa e non è dato ricorrere ad applicazioni analogiche
o estensive. Ecco quindi che, per esempio, le convenzioni di
cui alla legge 266/1991 con le associazioni di volontariato
possono essere stipulate in deroga ai principi dell'evidenza
pubblica soltanto al fine di realizzare i principi di
universalità, solidarietà, efficienza economica e
adeguatezza e a condizione che siano rispettati i principi
di imparzialità e trasparenza.
Trattandosi, inoltre, di contratti che comunque impegnano
risorse pubbliche, l'Anac ha precisato che gli affidamenti
devono garantire l'economicità, l'efficacia e la trasparenza
dell'azione amministrativa, oltre che la parità di
trattamento tra gli operatori del settore.
Al bando, quindi, le clausole degli atti di gara che hanno
l'effetto di restringere i requisiti di ammissione alle gare
(spesso si è usato il «trucco» di enfatizzare chi ha già
avuto esperienze analoghe in un determinato contesto
territoriale o le ha al momento della pubblicazione del
bando di gara).
Altro elemento segnalato dall'autorità come negativo è il
fenomeno delle proroghe, che devono essere assolutamente
evitate e quando strettamente necessarie, limitate nell'arco
temporale e predeterminando le tariffe e le caratteristiche
qualitative delle prestazioni. Molto delicato anche il
profilo dei controlli in fase di esecuzione del contratto
che devono essere svolti con accuratezza e nel dettaglio
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
APPALTI:
Raggruppamento imprese, sui requisiti pagano
tutti. Precisazione dell'Anac su
soccorso istruttorio e sanzioni.
In caso di raggruppamento temporaneo di concorrenti
partecipanti a un appalto pubblico la sanzione pecuniaria
irrogata a seguito del «soccorso istruttorio» viene
addebitata al raggruppamento nel suo complesso e si applica
anche in caso di carenza dei documenti relativi alla
dimostrazione dei requisiti di partecipazione alla gara.
È quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac)
nel
parere di precontenzioso 13.01.2016 n. 35 - rif. PREC
220/15/S
rispetto a una procedura aperta per l'affidamento di un
appalto di servizi di assistenza tecnica nell'ambito delle
attività connesse alla gestione, al monitoraggio e al
controllo dei programmi operativi Fse 2007/2013 e 2014/2020.
Era accaduto che la stazione appaltante aveva rilevato la
presenza di carenze documentali che anche l'Anac ha
riconosciuto «essenziali» in quanto relative alla
sottoscrizione dei componenti il consiglio di
amministrazione della società (che sono i centri di
imputazione della responsabilità del raggruppamento
concorrente); alla dimostrazione dei requisiti di capacità
tecnico-organizzativa, in relazione alle esperienze
professionali acquisite; agli elementi essenziali del
contratto di avvalimento con cui si dimostra l'effettivo
prestito dei requisiti.
Nel dettaglio, con riferimento alle tre carenze, l'Autorità
ha chiarito che nel caso di integrazione di elementi
essenziali e indispensabili per l'identificazione dei centri
di imputabilità delle dichiarazioni rese ai sensi dell'art.
38, comma 2, come la sottoscrizione delle stesse da parte di
un componente del consiglio di amministrazione della
società, è legittimo procedere con la richiesta di
integrazione documentale da parte della stazione appaltante,
attraverso il procedimento del soccorso istruttorio ex art.
46, comma 1, del Codice, e con la escussione della cauzione
provvisoria a titolo di sanzione pecuniaria in caso di
sanatoria effettuata in adesione al procedimento da parte
dell' operatore economico.
Per quel che attiene alle carenze
documentali relative alla dimostrazione dei requisiti di
capacità tecnica delle concorrenti, con riferimento alla
natura dei servizi svolti, l'Anac riconosce il carattere di
essenzialità precisando che in caso di adesione alla
procedura di soccorso istruttorio con esito positivo, deve
comunque essere irrogata dalla stazione appaltante la
sanzione pecuniaria.
Nel parere si specifica anche cosa succede se la procedura
di soccorso istruttorio applicata per la sanatoria di
elementi essenziali, inerenti le cause tassative di
esclusione previste in base alla legge, al bando o al
disciplinare di gara, si concluda con esito negativo per
insufficienza dei chiarimenti forniti: in questi casi la
stazione appaltante è tenuta a escludere il concorrente con
escussione della cauzione provvisoria.
Riguardo la sanzione pecuniaria ex art. 38, comma 2-bis,
l'Autorità chiarisce che deve essere comminata
esclusivamente al soggetto le cui dichiarazioni sono carenti
e devono essere integrate e regolarizzate, «anche nel caso
di presentazione dell'offerta da parte di Rti
(raggruppamento temporaneo di imprese) che non costituisce
soggetto diverso dai concorrenti»; in sostanza la
sanzione si applica all'intero raggruppamento temporaneo di
imprese
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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Requisiti generali di partecipazione - Tassatività delle
cause di esclusione - Soccorso istruttorio – Sanzione
pecuniaria.
Nel caso di integrazione di elementi essenziali e
indispensabili per l’identificazione dei centri di
imputabilità delle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 38,
comma 2, come la sottoscrizione delle stesse da parte di un
componente del Consiglio di amministrazione della società, è
da ritenersi legittima la richiesta di integrazione
documentale da parte della stazione appaltante, attraverso
il procedimento del soccorso istruttorio ex art. 46, comma
1, del Codice, e la escussione della cauzione provvisoria a
titolo di sanzione pecuniaria in caso di sanatoria
effettuata in adesione al procedimento da parte dell’
operatore economico.
Le carenze documentali relative alla dimostrazione dei
requisiti di capacità tecnica delle concorrenti, con
riferimento alla natura dei servizi svolti, sono da
considerarsi elementi essenziali per i quali, in caso di
adesione alla procedura di soccorso istruttorio con esito
positivo, deve comunque essere irrogata dalla stazione
appaltante la sanzione pecuniaria.
Nel caso in cui la procedura di soccorso istruttorio
applicata per la sanatoria di elementi essenziali, inerenti
le cause tassative di esclusione previste in base alla
legge, al bando o al disciplinare di gara, si concluda con
esito negativo per insufficienza dei chiarimenti forniti, la
stazione appaltante dovrà procedere all’esclusione del
concorrente con escussione della cauzione provvisoria;
La sanzione pecuniaria ex art. 38, comma 2-bis, è comminata
esclusivamente al soggetto le cui dichiarazioni sono carenti
e devono essere integrate e/o regolarizzate, anche nel caso
di presentazione dell’offerta da parte di RTI che non
costituisce soggetto diverso dai concorrenti.
Artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.lgs. 163/2006. |
QUESITI & PARERI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La conservazione digitale.
DOMANDA:
Ai fini della conservazione digitale CAD si chiede come
procedere nel caso debbano essere conservate deliberazioni e
determinazioni firmate digitalmente, che in seguito a
pensionamento e/o avvicendamento di responsabili di
servizio, possono attualmente essere scadute.
Si chiede inoltre di sapere se tutti gli atti (deliberazioni
e determinazioni) devono essere marcate temporalmente
RISPOSTA:
Con riferimento alla richiesta di supporto si segue l’ordine
dei quesiti:
A) Nella fase di archiviazione e conservazione digitale, uno dei
nodi problematici è rappresentato dalla obsolescenza del
certificato di firma elettronica soggetto a scadenza, revoca
o sospensione.
In questi casi, l’elemento da prendere in considerazione è
quello relativo alla validità del certificato di firma alla
data di sottoscrizione del documento: qualora, infatti, il
documento sia stato sottoscritto con una firma digitale
supportata da un certificato di sottoscrizione valido al
tempo della produzione del documento, successivamente
scaduto, la firma digitale continuerà a preservare la
propria validità con riferimento ai documenti siglati prima
della scadenza.
Tuttavia, essendo una circostanza fisiologica che dopo la
sottoscrizione digitale il certificato di firma venga a
scadenza, si ritiene opportuno che il documento venga
versato in conservazione documentale prima della scadenza
del certificato di firma in esso contenuto.
A tal fine, sarebbe quindi utile verificare, attraverso i
verificatori on-line (resi disponibili gratuitamente dall’AgID),
che i documenti vadano in conservazione con certificato di
firma ancora valido.
B) Per quanto riguarda il secondo quesito, dall’analisi della
normativa vigente, non esistono disposizioni che impongano
la marcatura temporale o altro strumento di validazione
temporale opponibile a terzi con riguardo alle delibere e
alle determine comunali.
Tuttavia, si fa presente che l’amministrazione, ai sensi di
quanto disposto dall’art. 3, comma 2, del D.P.C.M.
13.11.2014 (recante le “regole tecniche in materia di
formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione
e validazione temporale dei documenti informatici”), è
tenuta a garantire l’immodificabilità e l’integrità di ogni
documento informatico, con particolare riguardo a quei
documenti, come le determine e le delibere comunali, per cui
sussiste un obbligo di conservazione permanente.
In particolare, anche in considerazione di quanto previsto
dall’art. 3, comma 4, del medesimo D.P.C.M., -che,
prevedendo espressamente una serie di cautele volte ad
assicurare l’immodificabilità e l’integrità del documento
informatico, pone sullo stesso piano la sottoscrizione con
firma digitale, la validazione temporale, la trasmissione
attraverso la posta elettronica certificata e il versamento
in conservazione- si ritiene che la sottoscrizione digitale
del documento, anche priva di marca temporale, la sua
memorizzazione in un sistema di gestione documentale e
protocollo informatico e il suo immediato versamento in
conservazione, siano sufficienti a garantire l’immodificabilità
e integrità del documento richiesta dalla legge e ad
attribuirgli pieno valore legale (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI LOCALI:
L'offerta di prelazione.
DOMANDA:
In relazione al disposto dell’art. 1, comma 611 e segg.,
della Legge 190/2014, il Comune ha, tra l’altro, disposto la
cessazione di talune quote societarie, valutandole non
indispensabili per il perseguimento delle proprie finalità
Istituzionali.
Eseguito un procedimento di stima del valore delle azioni,
vi è che le previsioni statutarie dei sodalizi interessati,
ritualmente prevedono, per il caso di alienazione, il
diritto di prelazione da parte degli altri soci.
Si chiede di conoscere l’autorevole avviso circa il momento
nel quale il Comune deve attivare l’offerta di prelazione,
opinandosi che debba precedere l’eventuale Bando di Gara per
la cessione a terzi, ovvero che la prelazione stessa sia da
esercitarsi successivamente alla procedura di evidenza
pubblica, sulla base delle relative risultanze.
RISPOSTA:
La previsione della Legge 190/2014, che segue peraltro
quella del comma 569 della Legge 147/2013, non fa altro che
ribadire i principi generali di dismissione delle
partecipazioni societarie non essenziali già da tempo
enunciate dalla Legge finanziaria 2008.
Tali previsioni, prevedendo tra la cessazione automatica e
la perdita della qualità di socio, introducono di fatto una
ipotesi ulteriore di recesso ex legem oltre a quelli
previsti dal Codice Civile anche se per la Magistratura
Contabile delle Marche “non si appalesa pertinente il
richiamo tout court all’istituto del recesso cui pure il
Legislatore fa rinvio evocando -in maniera indifferenziata
senza scriminare tra Società per azioni e Società a
responsabilità limitata- il disposto di cui all’art.
2437-ter, comma 2 C.c.”.
L'istituto della prelazione costituisce ovviamente uno dei
corollari tipici del diritto societario per quanto attiene
l'alienazione delle quote o azioni. Un orientamento della
giurisprudenza amministrativa, pronunciandosi sulla
compatibilità di clausole di prelazione in materie
assoggettate al principio di evidenza pubblica, ne ha
tuttavia in generale sancito addirittura l’illegittimità,
argomentando che, in caso contrario, si consentirebbe a
soggetti che non hanno partecipato alle procedure stesse di
divenire contraenti di un soggetto pubblico.
Occorre precisare che tale orientamento giurisprudenziale fa
riferimento specificamente alle gare per l’affidamento del “servizio
pubblico” nel caso in cui il socio o i soci privati, già
parte della compagine sociale sia/no divenuto/i tale/i in
assenza di procedura competitiva; il possesso di una quota
del capitale sociale varrebbe automaticamente ad esentare
lo/gli stesso/i, in occasione dell’acquisto delle
azioni/quote della Società, dalla partecipazione alla gara
cui sono invece tenuti tutti gli altri soggetti terzi, e ciò
in deroga al superiore principio della garanzia
dell’evidenza pubblica.
Nel caso in cui l’alienazione della partecipazione riguardi
una “società mista” il comma 568-bis dell’art. 1
della l. 147/2013 attribuisce ora al socio privato detentore
di una quota di almeno il 30% alla data di entrata in vigore
dello stesso comma 568-bis (si ricorda che tale comma è
stato introdotto con la l. 68/2014 di conv. del d.l. 16/2014
ed è perciò entrato in vigore il 06.05.2014) il diritto di
prelazione e cioè la preferenza, a parità di condizioni, per
l’acquisto della quota di partecipazione
dell’amministrazione posta in vendita.
L’amministrazione che intende alienare la quota di
partecipazione di cui è titolare è, quindi, tenuta, in
considerazione del fatto che l’alienazione deve avvenire
mediante una procedura ad evidenza pubblica, ad inserire nel
bando o avviso di gara una clausola che preveda che
l’aggiudicazione della gara è subordinata al mancato
esercizio da parte del socio privato detentore di una quota
di almeno il 30% della preferenza ad esso accordata dal
citato comma 568-bis.
Il diritto di prelazione dovrà essere esercitato dal socio
privato nel termine stabilito dall’amministrazione alienante
e la quota posta in vendita potrà essere trasferita al socio
privato solo se l’offerta del medesimo sarà pari a quella
massima raggiunta mediante la gara. Il comma 613 della Legge
di Stabilità 2015 ha successivamente previsto che "Le
deliberazioni di scioglimento e di liquidazione e gli atti
di dismissione di società costituite o di partecipazioni
societarie acquistate per espressa previsione normativa sono
disciplinati unicamente dalle disposizioni del codice civile
...".
Premesso che -anche in virtù dei principi di redditività del
patrimonio pubblico- la procedura per l'alienazione non può
che partire dalla ricerca del miglior acquirente mediante
esperimento di procedura ad evidenza pubblica sia in
giurisprudenza che in dottrina sono emersi orientamenti
assai diversi, essenzialmente opposti circa la compatibilità
tra i principi di evidenza pubblica di importazione
comunitaria e la prelazione.
Aderendo all'orientamento più "possibilista" -nel
caso in cui lo statuto o l'atto costitutivo prevedano in
capo ai soci un diritto di "prelazione propria"- il
Comune potrà/dovrà offrire in "prelazione" la propria
quota alle medesime condizioni offerte in sede di gara.
Maggiori problemi di compatibilità tra evidenza pubblica e
prelazione sussisterebbero in caso di "prelazione
impropria" sussistente quando lo statuto della spa o
l'atto costitutivo della srl prevedano, con riferimento alla
circolazione delle quote, il diritto di esercitare la
prelazione, per un corrispettivo, diverso da quello proposto
dall'alienante, determinato con criteri tali da
quantificarlo in un ammontare anche significativamente
inferiore a quello che risulterebbe applicando i criteri di
calcolo previsti in caso di recesso (in tale ipotesi,
all'Ente pubblico che dovrebbe subire tale decurtazione
spetta nelle srl, ai sensi dell'art. 2469, comma 2, c.c., il
diritto di recesso).
In questo caso si ritiene che la presenza di tali diritti di
prelazione sia incompatibile con la natura pubblica della
società e in particolare con i principi della massima
redditività del patrimonio pubblico e con quello ormai
inequivocabilmente affermatosi per effetto dei ripetuti
interventi legislativi di favore per la privatizzazione e la
dismissione delle quote. Infine permangono analoghi dubbi
circa la legittima esistenza di un diritto di prelazione da
parte di soci privati entrati nel consesso sociale senza
essere selezionati con gara.
A tal riguardo si ritiene che, se da un lato è necessario
garantire la tutela di tali soci privati (che al momento di
sottoscrizione del contratto sociale hanno fatto affidamento
anche sull'esistenza di un diritto di prelazione a loro
favore in caso di trasferimenti di quote altrui) e la parità
dei diritti rispetto agli altri soci, dall'altro, tale
tutela va contemperata con le regole dell'evidenza pubblica
che presiedono all'individuazione dei contraenti con la PA e
l'affidamento dei servizi pubblici nel rispetto della
concorrenza.
In altre parole se la clausola statutaria (che preveda un
indistinto diritto di prelazione in capo a tutti i soci)
risale a momento in cui già vigeva l'obbligo di esperimento
di procedure ad evidenza pubblica per l'ingresso di privati
o se comunque i soci privati sono entrati successivamente a
tale momento, è per lo meno dubbio il fatto che tali soci
privati possano reclamare un diritto di prelazione che non
farebbe che perpetuare quel vantaggio competitivo
illegittimo all'epoca acquisito con l'ingresso nel consesso
sociale.
In realtà il problema che tali previsioni statutarie
avrebbero dovuto essere successivamente modificate per
renderle in linea con l'evolversi della normativa. Posto
comunque che la valutazione circa la prelazione debba essere
effettuata caso per caso con riferimento alla tipologia di
società (strumentale, spl), della sua compagine sociale
(mista con un unico socio privato, mista con più soci
pubblici e privati, totalmente pubblica/in house), del
diritto di prelazione previsto, a livello generale,
l'esercizio del diritto di prelazione dovrà avvenire prima
dopo aver selezionato la migliore offerta.
Naturalmente il bando di gara, a tutela dei partecipanti,
dovrà specificare che l'aggiudicazione sarà subordinata al
mancato esercizio della prelazione da parte dei soci
titolari del relativo diritto (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'accordo transattivo.
DOMANDA:
L'ente ha in essere con una ditta di escavazione cave un
contenzioso per una sanzione pecuniaria. Il legale
rappresentante della ditta propone al comune di transare
cedendo un area che nel PGT è area agricola ricadente in un
parco regionale e quindi soggetta a vincoli ambientali. Gli
amministratori ritengono che l'interesse pubblico sussista
nell'acquisire l'area per poi cederla al parco.
La scrivente chiede la procedura corretta da espletare.
RISPOSTA:
I caratteri della transazione della pubblica amministrazione
non divergono da quelli dell'istituto civilistico ex art.
1965 c.c., ovvero la convergenza delle volontà delle parti,
il conflitto delle rispettive posizioni e pretese e la
volontà di trovare una soluzione condivisa mediante mutue
concessioni.
Premessa necessaria per addivenire alla transazione è
l’esistenza di una controversia giuridica, che sussiste o
può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di
cui non sia possibile a priori stabilire quale sia
giuridicamente fondata. La naturale conseguenza è che,
nell’intento di far cessare la situazione di dubbio venutasi
a creare tra loro, i contraenti si facciano delle
concessioni reciproche. Nell'ambito delle reciproche
concessioni, la pubblica amministrazione non ha la libertà
del privato.
Anzitutto, essa è tenuta al rispetto del vincolo del
perseguimento dell’interesse pubblico e della par condicio.
In secondo luogo, la transazione pubblica è valida solo se
ha ad oggetto diritti disponibili (art. 1965, co. 2 cc) e
cioè quando le parti hanno il potere di estinguere il
diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la
transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto
della lite sono sottratti alla disponibilità delle parti per
loro natura o per espressa disposizione di legge.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della
Lombardia, con parere 1116/2009, in un caso analogo a quello
di specie -transazioni su obbligazioni nascenti
dall’irrogazione di sanzioni amministrative- ha precisato
che "il potere punitivo dell’amministrazione e le misure
afflittive che ne sono l’espressione appartengono al novero
delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai
quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi
con la parte privata destinataria degli interventi
sanzionatori".
Pertanto, con riferimento all’obbligazione tributaria, la
Corte ha concluso che "non possa invocarsi la transazione
per definire una controversia giudiziale in cui si
contrapponga la legittima pretesa di un’amministrazione
pubblica di esigere il pagamento di sanzioni amministrative
pecuniarie irrogate e l’atteggiamento resistente del privato
che ha violato norme specifiche. Potrebbe semmai ipotizzarsi
una proposta di accordo che investa modalità e tempi di
pagamento del debito con esclusivo contenuto dilatorio, ma è
senz’altro da escludere l’ammissibilità di pattuizioni, in
corso di giudizio, che comportino una decurtazione del
quantum dovuto e, quindi, una riduzione dell’entità delle
sanzioni inflitte con l’ulteriore possibilità di coniugare
il profilo dilatorio con quello remissorio".
Nella situazione prospettata dal lo scrivente Comune, sulla
base dell'orientamento citato (ed univoco) della
magistratura contabile, non sarebbe legittima l’attivazione
di un accordo transattivo dal momento che non vi sono
pretese contrapposte di dubbia fondatezza giuridica, ma
un’unica pretesa inerente il diritto-dovere dell’ente
pubblico di esigere la sanzione amministrativa, per cui non
è ipotizzabile concretamente che le parti, pubblica e
privata, risolvano la lite mediante reciproche concessioni
(cessione di area agricola soggetta a vincoli ambientali).
Questo è il principio generale.
Nel caso invece -ma per come il quesito è formulato non si
hanno elementi sufficienti per stabilirlo- la sanzione
pecuniaria non è una sanzione amministrativa, ma discende da
un rapporto contrattuale tra il Comune e la ditta
escavatrice (ipotesi: è in corso un contratto di appalto che
stabilisce a fronte di certi inadempimenti dell'appaltatore
l'obbligo per quest'ultimo di corrispondere una penale
pecuniaria; la ditta contesta l'inadempimento e quindi
l'applicazione della penale), avendo la controversia ad
oggetto diritti disponibili, le parti hanno il potere di
estinguere il diritto in forma negoziale, e di sostituire la
somma dovuta a titolo di sanzione/penale con la cessione di
un bene immobile che soddisfi un interesse pubblico e previa
valutazione e stima del valore venale dello stesso (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Prima le interrogazioni. Devono essere trattate all'inizio
del consiglio. Il presidente può
respingere la richiesta di invertire l'ordine del giorno.
Il presidente del consiglio comunale può opporre un diniego
alla richiesta, formulata da un gruppo consiliare, di
invertire l'ordine del giorno di una seduta di consiglio, al
fine di posporre l'esame degli atti di sindacato ispettivo?
Nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale
prevede che «la trattazione delle interrogazioni avviene
nella parte iniziale della seduta secondo l'ordine
cronologico di presentazione».
La stessa fonte regolamentare dispone altresì che il
presidente del consiglio possa modificare l'ordine di
trattazione degli argomenti inseriti all'ordine del giorno
anche su proposta di un gruppo consiliare e che, in caso di
opposizione, la richiesta debba essere messa ai voti ed
eventualmente accolta a maggioranza dei votanti.
Considerato tale quadro normativo, appare corretto il
diniego opposto dal presidente del consiglio alla richiesta,
formulata da un gruppo consiliare, di voler posporre la
trattazione delle interrogazioni.
Ciò in quanto il regolamento del consiglio comunale prevede
espressamente che la trattazione dei suddetti atti di
sindacato ispettivo debba avvenire «nella parte iniziale
della seduta».
Pertanto, agli atti in questione non può essere applicata la
disciplina sulla modifica dell'ordine di trattazione degli
oggetti dell'ordine del giorno prevista, in generale, dalla
citata normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum strutturale.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità
delle sedute del consiglio comunale in seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero
dei consiglieri necessario per la validità delle sedute»,
con il limite che detto numero non può, in ogni caso,
scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri
assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia».
Il citato art. 38, va letto in combinato disposto con l'art.
273, comma 6, dello stesso Tuel il quale detta una
disciplina transitoria che legittima l'applicazione, tra gli
altri, dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915 , fino
all'adeguamento della normativa locale ai criteri indicati
dal decreto legislativo n. 267/2000. Nel caso di specie, il
consiglio comunale è composto da ventiquattro consiglieri
più il sindaco, pertanto sarebbe necessaria la presenza di
almeno otto consiglieri al fine della validità delle sedute.
Tuttavia è stato chiesto se sia possibile applicare la
disposizione recata dal regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale, in base al quale le sedute di seconda
convocazione sono valide purché intervengano almeno quattro
membri, salvo le eccezioni previste dalla legge e dallo
statuto.
La normativa regolamentare risulta conformata all'art. 127
del T.u. 148/1915 che prevede, per la validità delle sedute
di prima convocazione, la presenza della metà dei
consiglieri assegnati mentre, in seconda convocazione,
quella di almeno quattro membri.
Al fine di corrispondere al quesito proposto, appare utile
richiamare le osservazioni formulate dal Consiglio di stato
con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle quali, una volta
adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento
del consiglio comunale, queste ultime, ancorché illegittime,
non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, in considerazione della discrasia tra le
disposizioni contenute nel regolamento consiliare e le
previsioni recate dal citato art. 38, comma 2, del Tuel,
l'ente locale dovrà adeguare la fonte regolamentare ai
criteri previsti dalla legge, anche al fine di non esporre
gli atti adottati al rischio di eventuali impugnative
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016). |
PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO:
Se il Funzionario ritarda il rinnovo dei contratti di
locazione stipulati ai sensi della L. 431/1998 la condotta
rientra nei casi di corruzione e di illegalità disciplinati
dalla L. 190/2012?
IL CASO: i funzionari e il Responsabile
dell'Ufficio tecnico, hanno avviato e concluso in ritardo il
procedimento volto al rinnovo contrattuale delle locazioni
ex L. 431/1998, di alcune unità immobiliari del Comune
cosicché i contratti di locazione sono giunti a scadenza, e
gli inquilini si sono visti recapitare a casa solo i
bollettini recanti il vecchio importo del canone, richiesto
però a titolo di indennità di occupazione illegittima.
Inoltre, in alcuni casi il canone è stato quantificato con
riferimento alla misura minima, e in altri casi con
riferimento a quella massima con disparità di trattamento
tra le diverse unità.
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il caso prospettato è un chiaro esempio di cattiva gestione
del potere amministrativo e di situazione illecita,
costituita da una anomala gestione del patrimonio
immobiliare del comune, idonea ad arrecare un pregiudizio
patrimoniale che può essere anche di ingente entità, a
seconda del numero degli immobili coinvolti nella vicenda
del mancato rinnovo.
Si tratta di una oggettiva condotta omissiva suscettibile di
determinare, in danno del comune, il mancato introito di
somme a titolo di maggiori canoni e di aumenti ISTAT che
sarebbero stati incassati a seguito di un tempestivo rinnovo
contrattuale.
In concreto, il danno arrecabile da tale condotta può
individuarsi nella differenza tra indennità di occupazione,
pari al canone corrisposto dai conduttori sulla base del
contratto ormai scaduto, e il diverso e maggiore canone che
concretamente il comune avrebbe dovuto riscuotere sulla base
del rinnovo. Ponendo in essere tale condotta, i funzionari
hanno omesso di conformarsi agli obblighi originanti non
solo dalla normativa di settore ma anche ai doveri del
codice di comportamento.
In particolare, la non omogeneità dei canoni relativi ad
alloggi con analoghe caratteristiche, superficie e località,
calcolati con parametri diversificati è indice sintomatico
di possibili fattispecie di illegalità e di corruzione. Sul
punto, va ricordato che la gestione del patrimonio, come
ribadito anche dalla deliberazione ANAC n. 12/2015, è
riconducibile alle aree con alto livello di probabilità di
eventi rischiosi.
Nel caso di specie, l'evento rischioso è costituito dal
danno erariale ascrivibile al ritardo/omesso rinnovo mentre
la configurazione, in concreto, di una fattispecie
corruttiva, rilevabile anche sensi della legge 190/2012,
impone che il comportamento contra legem sia stato
posto in essere per un interesse personale contrario
all'interesse pubblico. Circostanza che va valutata caso per
caso, senza possibilità di astratte generalizzazioni.
La valutazione deve tenere conto del contesto, interno ed
esterno, nel quale risulta collocata la condotta dei
funzionari, nonché delle misure di prevenzione della
corruzione e dell'illegalità contenute nel PTPC del Comune,
della loro effettiva attuazione da parte dei funzionari
medesimi, della presenza o assenza di direttive, buone
prassi e, infine, della presenza o assenza controlli e
monitoraggi, nonché dell'eventuale occultamento dei fatti.
Solo dopo la valutazione di tutti questi elementi, è
possibile accertare, con riferimento al singolo caso, se la
fattispecie integri o meno i presupposti della corruzione
disciplinata dalla legge 190/2012, con l'applicazione, in
caso di accertamento positivo, di tutte le conseguenze dalla
stessa derivanti in ordine di responsabilità dirigenziale,
disciplinare, amministrativa-erariale, e relativa alla
valutazione della performance organizzativa e individuale
(tratto dalla newsletter 09.02.2016 n. 136 di http://asmecomm.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pensionati ex dipendenti enti locali. Possibilità di
utilizzo con rapporto di lavoro occasionale (voucher).
Un dipendente pubblico collocato in
quiescenza può essere utilizzato dall'amministrazione presso
cui prestava servizio, mediante la tipologia di lavoro
accessorio (voucher).
In tal caso -ha precisato il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali- non trova applicazione il divieto imposto
dall'art. 25 della l. 724/1994, considerato che la
prestazione accessoria ha carattere occasionale e non può
comunque superare i limiti di compenso stabiliti dal
legislatore.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
attivare un rapporto di lavoro accessorio occasionale
(voucher) con un dipendente che sarà collocato in quiescenza
dal 01.03.2016, a seguito del raggiungimento dei requisiti
per la pensione anticipata di anzianità.
L'Amministrazione istante intenderebbe avvalersi di detta
fattispecie lavorativa, in attesa di espletare la procedura
di mobilità di comparto per la copertura del posto lasciato
vacante dal dipendente interessato. L'Ente precisa altresì
che lo stesso soggetto, attualmente inquadrato nell'area
della polizia locale, si occuperebbe esclusivamente di
pratiche di carattere amministrativo.
Sentito il Servizio sistema integrato del pubblico impiego
della Direzione generale, preliminarmente si osserva che
l'art. 55, comma 1, lett. d), del d.lgs. 81/2015 ha
abrogato, fra le altre disposizioni, anche l'art. 70 del
d.lgs. 276/2003, disciplina che in precedenza normava la
materia delle prestazioni occasionali di tipo accessorio.
Il riferimento normativo attuale è ora rappresentato
dall'art. 48 del d.lgs. 81/2015, che definisce la tipologia
del lavoro accessorio ed il campo di applicazione.
Il comma 1 del richiamato articolo precisa che, per
prestazioni di lavoro accessorio, si intendono attività
lavorative che non danno luogo, con riferimento alla
totalità dei committenti, a compensi superiori a 7.000 euro
nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati sulla
base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al
consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati.
Il successivo comma 2 dispone inoltre che prestazioni di
lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i
settori, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di
3.000 euro di compenso per anno civile, rivalutati ai sensi
del comma 1, da percettori di prestazioni integrative del
salario o di sostegno al reddito.
Considerata la sostanziale corrispondenza -per quanto
d'interesse- col tenore della disciplina prima vigente,
appare utile sottolineare -come già a suo tempo rilevato dal
Ministero del lavoro e delle politiche sociali
[1], in
riferimento alla modifica al testo dell'art. 70 del d.lgs. n.
276/2003, apportata dalla l. n. 92/2012- che l'evoluzione
normativa ha eliminato quella serie di causali soggettive e
oggettive che consentivano in precedenza il ricorso a detto
istituto, sostituendolo con una disposizione che prevede
essenzialmente limiti di carattere economico.
Allo stato attuale, quindi, per il committente pubblico
[2], si
prevede la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio 'nel
rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in
materia di contenimento delle spese di personale e, ove
previsto, dal patto di stabilità interno'
[3].
Pertanto, già a seguito della riforma legislativa
intervenuta nel 2012, è possibile utilizzare il lavoro
accessorio in tutti i settori, da parte di qualsiasi
committente pubblico, con qualsiasi lavoratore, nel rispetto
di un compenso massimo annuale stabilito
[4].
Per quanto concerne, nello specifico, il profilo di
un'eventuale incompatibilità, come rilevato dall'INPS
[5], il
ricorso all'istituto del lavoro accessorio occasionale non è
compatibile con lo status di lavoratore subordinato (a tempo
pieno o parziale), se impiegato presso lo stesso datore di
lavoro titolare del contratto di lavoro dipendente.
Tale incompatibilità non sussiste invece qualora si tratti
di dipendente collocato in quiescenza.
Per quanto riguarda la categoria dei 'pensionati', lo
stesso INPS ha precisato che possono beneficiare del lavoro
accessorio i titolari di trattamenti di anzianità o di
pensione anticipata, pensione di vecchiaia, pensione di
reversibilità, assegno sociale, assegno ordinario di
invalidità e pensione di invalidi civili, nonché di tutti
gli altri trattamenti che risultino compatibili con lo
svolgimento di una qualsiasi attività lavorativa
[6].
Per quanto qui ci occupa, si osserva che il Ministero del
lavoro e delle politiche sociali, rispondendo ad un
interpello formulato dall'ANCI su questione analoga a quella
prospettata allo scrivente [7],
ha precisato che il quadro normativo relativo al lavoro
accessorio va inoltre coordinato con il disposto di cui
all'art. 25, comma 1, della l. 724/1994 [8].
Ad avviso del citato Ministero la richiamata previsione non
sembra tuttavia trovare applicazione con riferimento al
lavoro accessorio, che si connota per l'occasionalità della
prestazione la quale, in ogni caso, non può superare dei
limiti di compenso ben definiti dal legislatore. I limiti
imposti hanno infatti già la finalità di scongiurare quei
possibili fenomeni elusivi, che si è voluto contrastare
introducendo particolari vincoli in ordine alla possibilità,
da parte delle pubbliche amministrazioni, di avvalersi di
soggetti cessati dal servizio anticipatamente.
Per completezza espositiva, si rammenta da ultimo che la
fattispecie di cui si discute non rientra nemmeno tra le
tipologie di attività (incarichi o cariche) vietati ai
pensionati, pubblici e privati, a mente dell'art. 5, comma
9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'art. 17, comma 3,
della l. 124/2014 [9].
La predetta disciplina, finalizzata a evitare che soggetti
in quiescenza assumano rilevanti responsabilità nelle
amministrazioni, pone infatti puntuali norme di divieto, per
le quali vale il criterio di stretta interpretazione,
restando quindi preclusa un'interpretazione di tipo
estensivo o analogico.
Si rammenta da ultimo che, rientrando anche il lavoro
accessorio tra le tipologie di lavoro flessibile, restano
fermi i limiti di spesa imposti dalla normativa vigente,
nello specifico dall'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010.
---------------
[1] Cfr. circolare n. 18 del 2012.
[2] L'INPS, nella circolare n. 49/2013 ha evidenziato che:
'Ai sensi della nuova disciplina, va ricompreso all'interno
della nozione committente pubblico' anche l'ente locale,
pertanto devono intendersi superate le precedenti
indicazioni che distinguevano l'impiego dei buoni lavoro per
la tipologia di committenti pubblici e degli enti locali,
rispetto a un novero specifico e tassativo di attività e di
prestatori.'
[3] Cfr. l'art. 48, comma 4, del d.lgs. 81/2015 che
ripropone il contenuto dell'art. 70, comma 3, del d.lgs.
276/2003. Il Comune istante ha precisato che l'instaurazione
del rapporto occasionale in oggetto sarebbe effettuata nel
rispetto dei limiti specificati nella circolare del
10.11.2014 della Direzione generale.
[4] Vedasi l'art. 48 del d.lgs. 81/2015.
[5] Cfr. circolare n. 49 del 2013, già citata.
[6] Resta, pertanto, escluso che possa accedere alla
prestazione di lavoro occasionale accessorio il titolare di
trattamenti per i quali è accertata l'assoluta e permanente
impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa,
quale il trattamento di inabilità.
[7] Cfr. interpello n. 44 del 2011.
[8] Detta norma prevede che, al fine di garantire la piena e
effettiva trasparenza e imparzialità dell'azione
amministrativa, al personale delle amministrazioni di cui
all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 29/1993 (ora trasfuso
nell'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001), che cessa
volontariamente dal servizio pur non avendo il requisito
previsto per il pensionamento di vecchiaia dai rispettivi
ordinamenti previdenziali ma che ha tuttavia il requisito
contributivo per il conseguimento della pensione anticipata
di anzianità, non possono essere conferiti incarichi di
consulenza, collaborazione, studio e ricerca da parte
dell'amministrazione di provenienza o di amministrazioni con
le quali ha avuto rapporti di lavoro o impiego nei cinque
anni precedenti a quello della cessazione dal servizio.
[9] Si vedano, in proposito le circolari esplicative,
emanate dal Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione, n. 6/2014 e n. 4/2015 (05.02.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Il
candidato fa gruppo. Ma la lista deve aver eletto un
consigliere. La giurisprudenza detta
le condizioni per la surroga del mancato sindaco.
In materia di costituzione di gruppi consiliari presso un
ente locale, uno dei candidati alla carica di sindaco, non
eletto, può essere capogruppo di quattro liste non
rappresentate, già facenti parte delle sei liste allo stesso
collegate?
La disciplina della materia relativa alla costituzione dei
gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento
del consiglio, nell'esercizio della propria autonomia
funzionale ed organizzativa riconosciuta in particolare
dall'art. 38, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Pertanto le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere
valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, competendo
al consiglio comunale l'eventuale interpretazione autentica
di tali norme.
Peraltro, l'attività interpretativa non può essere disgiunta
dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né
possono essere utilizzate a sostegno di tale attività,
massime giurisprudenziali che non si adattino perfettamente
alla fattispecie esaminata.
Nel caso di specie, le norme statutarie e regolamentari
forniscono una articolata disciplina della materia dei
gruppi.
In particolare, lo statuto prevede che, per la costituzione
del gruppo, è necessaria l'adesione di almeno due
consiglieri, tranne che trattasi di un unico consigliere
eletto in rappresentanza di una lista. Il regolamento
ribadisce che ciascun gruppo è costituito da almeno due
consiglieri, e, «nel caso che una lista presentata alle
elezioni abbia avuto un solo consigliere, a questi sono
riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti ad
un gruppo consiliare». Inoltre stabilisce che, «con
l'eccezione del gruppo misto, i gruppi consiliari possono
cambiare la propria denominazione nel corso della tornata
amministrativa».
Infine, prevede la possibilità della
costituzione di due gruppi misti (di maggioranza e di
minoranza) sulla base di quanto disposto dallo statuto e
dallo stesso regolamento, il quale richiede, come
evidenziato, la presenza di almeno due consiglieri. Deve poi
rilevarsi che l'art. 73 del dlgs n. 267/2000, che disciplina
l'elezione del consiglio nei comuni con popolazione
superiore ai 15 mila abitanti, al comma 11, prevede, dopo il
riparto dei seggi tra le varie liste, che il primo seggio
venga assegnato al candidato sindaco non eletto, e, in caso
di collegamento tra più liste, tale seggio si detrae dai
seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste
collegate.
Come sostenuto dal Consiglio di stato, con sentenza della V
sezione, 12.12.2003, n. 8208, la normativa sopra
citata «impone palesemente di dedurre in via prioritaria il
seggio controverso da quelli riservati alla coalizione di
riferimento, e non da quelli spettanti alla lista che lo ha
presentato, e di procedere, poi all'assegnazione di quelli
rimasti mediante l'individuazione dei quozienti più alti
conseguiti dai candidati dalle liste collegate».
Tale principio è confermato dalla giurisprudenza più recente
(si veda Tar Campania – sez. I, n. 2124/2013 del 22.04.2013) la quale ha affermato che l'interessato «è stato
proclamato eletto non già quale candidato al consiglio
comunale (di una lista) ma quale candidato sindaco uscito
sconfitto dalla competizione, del più vasto schieramento
composto da quattro liste... in conformità al già citato
art. 73, comma 11».
Il candidato sindaco non eletto fa parte, quindi, del
consiglio non come esponente di una lista, ma in qualità di
maggior rappresentante della coalizione nella sua interezza.
Nella fattispecie in esame, il primo seggio attribuito al
complesso di liste collegate, compete, pertanto, al
candidato sindaco non eletto.
Tuttavia, considerato che il regolamento consente la
costituzione dei gruppi unipersonali esclusivamente nei
riguardi delle liste che hanno avuto eletto un consigliere,
il candidato sindaco non eletto potrà costituire tale gruppo
unipersonale solo qualora il seggio a esso assegnato in base
al meccanismo della prededuzione sia stato ceduto da una
delle liste della coalizione che attualmente non esprime
alcun consigliere.
Ciò alla luce anche della citata sentenza del Tar Campania,
che ammette la potenziale surroga del candidato sindaco non
eletto, nei riguardi della lista collegata che abbia
ottenuto il quoziente più alto in ordine decrescente. In
ogni caso, non possono costituirsi gruppi di liste che non
esprimono consiglieri, fatta salva la facoltà, in presenza
dei relativi presupposti, di modificare la denominazione del
gruppo già costituito, qualora ciò sia previsto dal
regolamento
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
D.Lgs. 14.03.2013, art. 14. Obblighi di pubblicazione
concernenti i componenti degli organi di indirizzo politico.
L'art. 14, comma 1, del D.Lgs. 33/2013
stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute alla
pubblicazione di una serie di dati ed informazioni relativi
ai titolari di incarichi politici (atti di nomina o
proclamazione, curricula, compensi connessi alla carica,
ecc.).
Come chiarito dall'ANAC, la pubblicazione dei dati e delle
informazioni indicate alle lettere da a) ad e) del comma 1
dell'art. 14 è obbligatoria per tutti i comuni, a
prescindere dal numero di abitanti. Per le sole
dichiarazioni di cui alla lett. f) la pubblicazione è
obbligatoria soltanto per i comuni con più di 15.000
abitanti.
Il Comune chiede un parere con riferimento agli obblighi di
cui all'articolo 14, comma 1, del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, 'Riordino della disciplina riguardante
gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni'.
In particolare, chiede di sapere se i comuni con popolazione
inferiore a mille abitanti siano esentati dall'obbligo di
pubblicazione del curriculum degli amministratori.
L'art. 14, comma 1, del D.Lgs. 33/2013 recita: 'Con
riferimento ai titolari di incarichi politici, di carattere
elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo
politico, di livello statale regionale e locale, le
pubbliche amministrazioni pubblicano con riferimento a tutti
i propri componenti, i seguenti documenti ed informazioni:
a) l'atto di nomina o di proclamazione, con l'indicazione
della durata dell'incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione
della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni
pagati con fondi pubblici;
d) i dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso
enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi
titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della
finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all'articolo 2, della legge
05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni
di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come
modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto,
al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado,
ove gli stessi vi consentano (...).'
Con riferimento ai descritti obblighi, l'ANAC
[1], con
la delibera n. 144 del 07.10.2014, ha chiarito che tutti i
comuni, indipendentemente dal numero di abitanti, sono
tenuti alla pubblicazione dei dati e delle informazioni di
cui alle lettere da a) ad e) del comma 1 dell'art. 14 del
D.Lgs. 33/2013. Per i soli documenti indicati dalla lett. f)
l'obbligo di pubblicazione si applica esclusivamente ai
comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
---------------
[1] La legge 06.11.2012, n. 190, 'Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione', di cui il
D.Lgs. 33/2013 costituisce normativa di attuazione, ha
stabilito, all'art. 1, comma 2, che la CiVIT (Commissione
per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle
amministrazioni pubbliche) opera quale Autorità nazionale
anticorruzione. Successivamente, dal 31.10.2013 (con
l'entrata in vigore della legge n. 125 del 2013, di
conversione del decreto legge del 31.08.2013, n. 101), la
CiVIT ha assunto la denominazione di "Autorità Nazionale
Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle
amministrazioni pubbliche" (ANAC), cui competono, tra le
altre, la vigilanza e il controllo dell'effettiva
applicazione e del rispetto delle regole sulla trasparenza
dell'attività amministrativa (02.02.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Quali conseguenze ci sono per l'Ente che adotta il PTPC
senza mappatura dei processi?
IL CASO: Un Comune ha approvato il piano
anticorruzione senza aver potuto procedere, per mancanza di
tempo e di personale, alla mappatura dei procedimenti. È
possibile considerare il Piano approvato adeguato o l'Ente
incorre in sanzioni?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il problema della mancanza di mappatura dei processi non
attiene al profilo delle sanzioni ma al diverso profilo del
funzionamento e della adeguatezza del piano anticorruzione.
In altre parole, attiene alla qualità della strategia di
prevenzione che, in assenza di mappatura dei processi, non
può definirsi efficace perché le misure di prevenzione non
possono dirsi costruite "su misura" del contesto
organizzativo interno del singolo Comune.
Anche l'Anac ha evidenziato questo aspetto, rilevando che
l'analisi del contesto interno, da attuare attraverso
l'analisi dei processi organizzativi (mappatura dei
processi), pur essendo meno critica della analisi del
contesto esterno, risulta tendenzialmente non adeguata (Det.
n. 12/2015). L'Anac insegna, al riguardo, che la mappatura è
da intendersi come un modo "razionale" di individuare
e rappresentare tutte le attività dell'ente per fini diversi
e assume carattere strumentale a fini dell'identificazione,
della valutazione e del trattamento dei rischi corruttivi.
L'accuratezza e l'esaustività della mappatura dei processi è
un requisito indispensabile per la formulazione di adeguate
misure di prevenzione e incide sulla qualità dell'analisi
complessiva. L'obiettivo è che le amministrazioni e gli enti
realizzino la mappatura di tutti i processi. Essa può essere
effettuata con diversi livelli di approfondimento. Dal
livello di approfondimento scelto dipende la precisione e,
soprattutto, la completezza con la quale è possibile
identificare i punti più vulnerabili del processo e, dunque,
i rischi di corruzione che insistono sull'amministrazione o
sull'ente: una mappatura superficiale può condurre a
escludere dall'analisi e trattamento del rischio ambiti di
attività che invece sarebbe opportuno includere.
In definitiva, si deve concludere nel senso che la "sanzione"
conseguente alla mancata mappatura è da individuarsi nella
inadeguatezza delle misure di prevenzione laddove scollegate
dal contesto organizzativo.
Sennonché, la normativa sta ora concentrando l'attenzione
sull'effettiva attuazione di misure in grado di incidere su
un piano sostanziale (e non solo meramente formale) sui
fenomeni corruttivi. Se è vero che le sanzioni, previste
dall'art. 19, co. 5, lett. b), del d.l. 90/2014, attengono
alla mancata «adozione dei Piani di prevenzione della
corruzione, dei programmi triennali di trasparenza o dei
codici di comportamento», non bisogna dimenticare che
alla mancata adozione il «Regolamento in materia di
esercizio del potere sanzionatorio dell'Autorità Nazionale
Anticorruzione per l'omessa adozione dei Piani triennali di
prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di
trasparenza, dei Codici di comportamento» equipara:
a) l'approvazione di un provvedimento puramente ricognitivo
di misure, in materia di anticorruzione, in materia di
adempimento degli obblighi di pubblicità ovvero in materia
di Codice di comportamento di amministrazione;
b) l'approvazione di un provvedimento, il cui contenuto
riproduca in modo integrale analoghi provvedimenti adottati
da altre amministrazioni, privo di misure specifiche
introdotte in relazione alle esigenze dell'amministrazione
interessata;
c) l'approvazione di un provvedimento privo di misure per la
prevenzione del rischio nei settori più esposti, privo di
misure concrete di attuazione degli obblighi di
pubblicazione di cui alla disciplina vigente, meramente
riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il
decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62
(tratto dalla newsletter 01.02.2016 n. 135 di http://asmecomm.it). |
NEWS |
VARI:
Fumo, divieti light. Pochi controlli e pratiche
lente. Dal Viminale circolare sulle
novità del codice stradale.
Il nuovo divieto di fumo non si applica ai veicoli anche
dotati di carrozzeria chiusa che comunque non possono essere
considerati auto, come ad esempio i quadricicli
immatricolati come moto. In ogni caso saranno pochi i
controlli perché la procedura sanzionatoria è troppo
cavillosa. E con il nuovo certificato assicurativo che ora
può essere inviato online la polizia stradale naviga a
vista.
Sono queste le indicazioni più importanti che emergono dalla
nota 11.02.2016 n.
300/A/1001/16/101/3/3/9 di prot.
del Ministero dell'Interno, che analizza le molteplici
novità relative al codice stradale entrate in vigore nelle
ultime settimane.
Con questa istruzione l'organo di coordinamento dei servizi
di polizia stradale intende chiarire la portata delle novità
introdotte dalla legge di Stabilità 2016 e dal dlgs n.
6/2016, in vigore dal 2 febbraio. Per quanto riguarda la
legge 208/2015 risultano formalmente ampliati i casi di
accertamento da remoto delle violazioni in materia di
mancata copertura assicurativa, revisione e sovraccarico.
Di fatto però dal 1° gennaio non è cambiato nulla perché per
essere immortalati da sistemi automatici con veicoli non in
regola occorrerà attendere mesi, se non anni. Il tempo cioè
necessario per omologare specificamente i nuovi vigili
elettronici al delicato compito. Solo chi trasgredisce
davanti a un autovelox o un varco ztl dunque ora rischia di
collezionare anche la multa per mancata copertura
assicurativa, conferma il ministero. Novità in materia di
documentazione assicurativa da tenere a bordo.
Con una modifica regolamentare l'Isvap ha ammesso per le
compagnie la possibilità di inviare il certificato
assicurativo anche solo tramite e-mail. In questo caso in
sede di controllo stradale la polizia non potrà pretendere
il documento cartaceo. E neppure sanzionare l'automobilista
invitandolo a presentare il tagliando a un ufficio di
polizia. Ma sul punto il Viminale si riserva di diramare
ulteriori istruzioni. Attenzione poi al divieto di fumo in
auto, in presenza di minori e donne in gravidanza.
Il divieto riguarda solo gli autoveicoli e non moto e
ciclomotori e vale solo quando il mezzo è in sosta o in
movimento. Pertanto, dal tenore letterale della norma si
deduce che sono escluse dall'applicazione del divieto le
ipotesi relative alla fermata e all'arresto del veicolo,
anche se queste fasi della circolazione consentirebbero più
agevolmente agli organi di polizia stradale di accertare e
contestare l'illecito.
Gli organi di polizia, infatti, devono constatare che a
bordo ci siano minori (verificando anche se inferiori a
dodici oppure a diciotto anni) e donne in stato di
gravidanza. In generale, in caso di contestazione della
violazione, l'iter sanzionatorio deve seguire le norme di
cui alla legge n. 689 del 24.11.1981.
Quindi, in particolare all'accertamento delle violazioni
possono procedere anche gli ufficiali e gli agenti di
polizia giudiziaria. Per l'accertamento delle violazioni gli
agenti possono assumere informazioni e procedere a ispezioni
di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi
segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra
operazione tecnica. Per quanto concerne le modalità di
pagamento e la presentazione del rapporto, il viminale
sottolinea che si applicano le procedure della legge n.
689/1981, come ridefinite dall'accordo prot. n. 2153 del
16.12.2004 raggiunto in sede di Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e Bolzano.
Pertanto, il ricorso dovrà essere presentato entro 30 giorni
(non 60 giorni come nel caso delle multe stradali)
all'autorità competente secondo le modalità disciplinate
dalla legislazione regionale. Infine, per quanto riguarda
l'utilizzo di sigarette elettroniche a bordo degli
autoveicoli, anche se tale questione non è stata affrontata
dalla circolare del Ministero dell'interno, si può ritenere
che il divieto non sia applicabile; infatti, il campo di
applicazione della legge n. 3 del 16.01.2003 è limitato ai
prodotti del tabacco
(articolo ItaliaOggi
del 16.02.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità province, si fa sul serio. Chiusa
l'offerta, domande da aggiornare entro il 19/2.
Poi saranno resi noti i posti disponibili. E
i dipendenti avranno un mese per scegliere.
La mobilità provinciale entra nel vivo. Terminato alla
mezzanotte del 12 febbraio il primo step della procedura,
consistente nell'inserimento sul «Portale della mobilità»
(www.mobilita.gov) dei posti disponibili «offerti» da
regioni ed enti locali per i dipendenti soprannumerari degli
enti di area vasta, si apre una seconda finestra, questa
volta molto breve.
Si tratta dell'aggiornamento delle domande di mobilità che
dovrà concludersi entro il 19 febbraio. A esserne
interessati saranno, per esempio, le province che avevano
collocato come soprannumerario personale poi riassorbito
dagli enti di appartenenza e quindi per questo escluso dalle
procedure di mobilità. Ma non può essere esclusa l'ipotesi
opposta e, cioè, che a una ricognizione degli organici sia
emerso nuovo personale provinciale sovrannumerario da
includere nella procedura di mobilità.
Conclusa questa breve fase di aggiornamento, la macchina per
ricollocare gli esuberi si metterà finalmente in moto perché
palazzo Vidoni avrà tutti i dati per rendere pubblici sul
Portale della mobilità i posti disponibili presso le regioni
e gli enti locali. A quel punto i dipendenti in soprannumero
avranno un mese di tempo per esprimere le proprie preferenze
che diventeranno vincolanti per l'amministrazione ricevente.
Il problema del ricollocamento degli esuberi provinciali si
è in questi mesi alquanto ridimensionato, visto che il
numero di lavoratori interessati è passato dalla cifra
monstre di 20.000 unità a circa 2.000. I conti sono
presto fatti: 4.000 circa sono stati i pensionamenti, 2000 i
dipendenti assorbiti dal ministero della giustizia, 6.500
circa quelli presi in carico dalle regioni a seguito del
riordino delle funzioni provinciali imposto dal dl 78/2015 e
5.500 circa i lavoratori dei centri per l'impiego tutt'ora
in attesa di conoscere il loro destino (andranno alle
regioni o all'Anpal, la nuova agenzia per l'occupazione
prevista dal Jobs act?). In totale 18.000. Ne residuano
2.000 che dovranno trovare lavoro grazie al Portale della
mobilità.
Nessuno, ovviamente, sarà lasciato a casa, ma c'è già chi
giura che, una volta resi noti i dati sui posti disponibili,
ne vedremo delle belle. Perché i posti, qualora siano
sufficienti a coprire le richieste, non è detto che siano
stati uniformemente offerti sul territorio nazionale. Con il
rischio di ricominciare daccapo la procedura di
ricollocamento.
---------------
Sulle assunzioni enti con le mani
legate.
I comuni e le altre amministrazioni non possono attivare
procedure selettive per i dipendenti in sovrannumero delle
province e delle città metropolitane presenti nel portale
mobilita.gov. Né avranno il potere di decidere se assumere o
meno i dipendenti che abbiano esercitato la scelta di
trasferirsi. Ai sensi del dm 14.09.2015, spetta ai
soprannumerari esprimere le preferenze di assegnazione.
Accedendo al sistema, ciascuno dei 1957 dipendenti ancora da
ricollocare potrà scegliere, in ordine di preferenza, l'ente
presso il quale ricollocarsi in relazione alla funzione
svolta, all'area funzionale e alla categoria di
inquadramento. Gli interessati possono esprimere preferenze,
oltre che per i posti disponibili presso le amministrazioni
aventi sede nel proprio ambito provinciale o metropolitano,
anche per quelle aventi sede nel comune capoluogo della
relativa regione, nonché nell'ambito territoriale di Roma
Capitale.
Laddove i soprannumerari non esprimano le preferenze, sarà
il dipartimento ad assegnarli unilateralmente, tenendo conto
della vacanza di organico delle amministrazioni di
destinazione, fermo restando l'ambito
provinciale/metropolitano o, in subordine, l'ambito
regionale, come previsto anche per i soprannumerari che
restino non ricollocati.
Gli enti scelti dai dipendenti non avranno alcun modo né per
selezionare più richiedenti, né per denegare il
trasferimento. Laddove, infatti, esprimano la preferenza per
il trasferimento verso uno stesso ente più soprannumerari
dei posti disponibili, non sarà l'ente a decidere quale
dipendente assumere. Sarà direttamente l'applicativo web a
determinare l'ordine di priorità, in attuazione dei criteri
stabiliti dall'articolo 8 del dm 14.9.2015.
Una volta fatta incontrare domanda e offerta, i comuni si
troveranno quindi in una posizione di totale passività.
L'assegnazione finale dei dipendenti non sarà frutto di un
incontro di volontà ma di un provvedimento della Funzione
pubblica
(articolo ItaliaOggi
del 16.02.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il grosso guaio della Pec. La rivoluzione
digitale rimane un miraggio. Il
presidente Cnai, Di Renzo, denuncia le criticità dello
strumento.
Grosso guaio con la Pec. La Posta
elettronica certificata sembra non riuscire proprio ad avere
una esistenza tranquilla. Nata come via italiana alla
rivoluzione della comunicazione certificata, sotto le
pressioni di un mondo sempre più digitale, ha visto fin
dalla sua nascita sorgere tutta una serie di problemi, che
ne hanno minato l'utilità e la diffusione.
«Indubbiamente la Pec è stata una scelta infelice per i
modi e per la forma della sua realizzazione. Le cose, poi,
non si sono certo semplificate dal 01.07.2013, ovvero dalla
data che ha reso le comunicazioni tra imprese,
professionisti con partita Iva e pubblica amministrazione
limitate alla sola Posta elettronica certificata; non
essendo più accettate le comunicazioni in forma cartacea»,
ricorda il presidente Cnai Orazio Di Renzo.
La rivoluzione digitale rimane comunque un miraggio, al di
là degli sforzi per mantenere funzionale uno strumento
limitato da alcune caratteristiche oggettive: prima fra
tutte la non conformità ad alcuno standard internazionale
(con la conseguenza di essere del tutto incompatibile con
sistemi di comunicazioni internazionali similari).
Altra questione, non di poco conto, e probabilmente
sottostimata dal legislatore, è che la Pec fonda la propria
ragion d'essere sulla valenza giuridica del sistema di
trasmissione dei messaggi piuttosto che sui contenuti dei
messaggi stessi (oggi è ancora presente la possibilità che
si verifichi il caso in cui il mittente affermi di aver
inviato una data informazione e il ricevente affermi di
averne ricevuta un'altra).
«I difetti della Pec sono molti, conosciuti, ma tutt'ora
irrisolti. Noi come Cnai ci facciamo promotori di
un'ulteriore critica. O meglio, di una segnalazione.
Infatti, poco o nulla sembra si stia facendo per porre
rimedio a una situazione imbarazzante: presso gli enti
camerali sono registrati indirizzi di Pec non rinnovati e,
di conseguenza, non più validi; con l'ovvia conseguenza di
non poter essere oggetto di alcuna comunicazione telematica»,
sottolinea il presidente Di Renzo.
Infatti, la Camera di commercio, grazie alle sue peculiarità
di ente di natura pubblicistica, riporta (o meglio dovrebbe
riportare) gli estremi dettagliati e aggiornati di tutte le
imprese registrate. Ivi compreso l'indirizzo di Posta
elettronica certificata.
«Qui si realizza, però, il buco nero della comunicazione.
Come noto le caselle Pec una volta acquisite non hanno
validità perenne, ma scadenza annuale. Risulta così
necessario provvedere al loro rinnovo, pena la decadenza
delle stesse. Ora però abbiamo avuto modo di constatare che
molte delle caselle riportate presso gli enti camerali sono
inattive. Con tutti i conseguenti, enormi, disagi per le
notifiche degli atti», afferma il presidente Cnai Orazio
Di Renzo.
Si ricordi che la Pec assolve il ruolo di equivalente
elettronico della raccomandata con ricevuta di ritorno;
ovvero è una e-mail che comunica, al mittente come al
destinatario, l'avvenuta (o mancata) consegna del messaggio,
con l'ora e la data precisa dell'invio e della ricezione.
Il messaggio ha, però, il valore legale di una raccomandata
(e, quindi, possibilità di essere impugnato come prova in un
processo) solo qualora entrambe le caselle risultino
certificate. Ora, nel caso in cui, presso i registri della
Camera di commercio siano presenti indirizzi non validi,
dovrebbe essere l'Ente camerale stesso a provvedere ai
controlli e ad approntare le misure necessarie. «Qui c'è
già il primo ostacolo: il controllo. La Camera di commercio
dovrebbe, sistematicamente e capillarmente, controllare ogni
indirizzo nel tempo; proprio per verificarne la persistente
validità», sottolinea il presidente Di Renzo.
L'iter formale prevede infatti che, qualora si riscontri la
non validità di un indirizzo, debba essere inviata una
raccomandata con avviso di ricevimento affinché si dia
comunicazione dell'inizio del procedimento di cancellazione
dell'indirizzo medesimo dal relativo registro.
«Accade però che molte aziende, pur inoltrando la
notifica di avvenuto ricevimento, non hanno avuto la premura
di riattivare la Pec. Altre imprese poi non inviano neppure
la ricevuta di ritorno, costringendo la Camera di commercio
alla cancellazione d'ufficio, previa pubblicazione on-line
della ragione sociale delle aziende. Un meccanismo
senz'altro complesso e quanto mai macchinoso», riassume
il presidente Di Renzo.
Quindi un'innovazione (la Pec) nata per snellire, aggiornare
e digitalizzare l'organizzazione burocratica del Paese,
rischia di rappresentare un ulteriore mostro di
complicazioni per i contribuenti, le aziende e per la stessa
Pubblica amministrazione. È bene, infatti, ricordare che la
mancanza di una regolare e attiva casella di Posta
elettronica certificata, non solo non permette le
comunicazioni concernenti il registro presente presso le
sedi delle Camere di commercio, ma neppure quelle
riguardanti la p.a..
«Ci si trova costretti a inseguire, letteralmente, i
soggetti cui si voglia notificare qualsiasi atto. Il caso
più emblematico è ovviamente quello che riguarda il recupero
di crediti: questione che costringe, spesse volte, a far
ricorso a moli di comunicazioni mediante raccomandate
postali o, addirittura, ai messi notificatori. Intasando
ancora di più, se possibile, i tribunali e, ovviamente, il
sistema postale», allarma il presidente Di Renzo.
La questione centrale è perché sia, a tutt'oggi, permessa
una tale situazione di profonda confusione e inefficienza. «Domandiamoci:
il legislatore si è accorto del vuoto normativo (e quindi di
controllo) delle Pec? Non vorremmo che, pur essendosene reso
conto, abbia deciso di non intervenire. In quanto il danno
derivante da tale situazione è, tutto sommato, abbastanza
circoscritto; e sicuramente non di grande nocumento per la
p.a.», avverte il presidente Di Renzo, «preferiamo
pensare che i giuristi, chiamati a redigere la legge, si
siano focalizzati sugli aspetti sostanziali e probatori
riguardanti la comunicazione certificata; tralasciando,
forse, l'approfondimento necessario sui dettagli tecnici:
quali, appunto, la scadenza annuale delle caselle e quindi i
controlli su quelle registrate, ma ormai scadute. Fatto sta
è che è ormai un'esigenza sempre più impellente che si metta
mano in maniera seria ed organica alla digitalizzazione del
Nostro paese e, in particolare, del settore burocratico e
della comunicazione»
(articolo ItaliaOggi
del 16.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it. |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - VARI: Pec
in tutte le imprese e le società.
Tutte le imprese individuali e le società devono avere un
indirizzo Pec e devono chiederne l'iscrizione nel registro
delle imprese. La Pec deve inoltre essere attiva. In caso di
Pec scaduta o revocata le imprese coinvolte avranno 30
giorni per comunicare al registro delle Imprese un nuovo
indirizzo Pec attivo. Decorso tale termine e effettuati gli
opportuni controlli, l'ufficio trasmetterà al giudice del
registro l'elenco delle imprese per le quali è possibile
disporre la cancellazione della Pec.
Queste le istruzioni della Camera di commercio di Milano (nota
08.02.2016 n. 17109 di prot.) in
merito alle poste elettroniche certificate delle imprese ma
non più attive.
Decorso il termine di 30 giorni, l'ufficio
chiederà al giudice del registro delle imprese di ordinare
l'iscrizione della notizia che l'indirizzo Pec, attualmente
iscritto, non è più riferibile all'impresa o alla società.
Il provvedimento del giudice del registro farà sì che
quest'ultima risulterà priva di un indirizzo Pec.
Tutto
questo comporterà che le successive domande di iscrizione di
fatti o atti, relativi all'impresa, non potranno essere più
gestite. Saranno quindi «sospese» in attesa della
comunicazione del nuovo indirizzo Pec e, in mancanza,
verranno infine rifiutate.
In base alle indicazioni ministeriali-direttiva del ministero dello sviluppo
economico e del ministero della giustizia del 13.07.2015
è applicabile anche la sanzione amministrativa prevista
dagli articoli 2194 e 2630 del codice civile. È pertanto
possibile iscriversi nel registro delle imprese solo con
l'indirizzo Pec.
In caso contrario l'istanza verrà sospesa
fino a 45 giorni nel caso di impresa individuale e fino a
tre mesi nel caso di impresa societaria, al fine di
consentire l'integrazione dell'istanza con la comunicazione
di un indirizzo di posta elettronica certificata proprio e
corrispondente a una casella attiva
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI SERVIZI:
Differenziata, più concorrenza e meno in house
providing.
Aumentare la concorrenza sulla gestione della raccolta
differenziata dei rifiuti e ridurre l'in house providing.
Promuovere il riciclo e la termovalorizzazione. Riformare il
sistema consortile per la raccolta degli imballaggi.
Sono queste alcune delle indicazioni contenute nell'indagine
condotta dall'Autorità garante della concorrenza e del
mercato che, dopo un anno e mezzo di istruttoria, è stata
conclusa e illustrata.
L'indagine contiene una approfondita
analisi del mercato, di cui si evidenziano le criticità, e
anche alcune precise proposte operative. Il tutto nasce da
numerose segnalazioni pervenute all'Authority, ma anche
dalla necessità di attuare appieno la direttiva europea
2008/98 che prevede una quota di riciclo pari al 50% entro
il 2020. La situazione italiana è infatti piuttosto distante
dal resto d'Europa visto che siamo a circa il 39% (dati
Eurostat 2013) contro il 65% della Germania, il 58%
dell'Austria e il 55% del Belgio.
Dall'indagine emerge con
chiarezza come l'ampliamento degli spazi di concorrenza si
coniughi pienamente con il raggiungimento degli obiettivi
ambientali. L'indagine e le segnalazioni hanno infatti
evidenziato una generale propensione da parte degli enti
locali ad ampliare il perimetro della privativa mediante un
«eccessivo ricorso all'istituto dell'assimilazione, con
conseguente limitazione delle dinamiche concorrenziali
nell'offerta di servizi di gestione dei rifiuti speciali»,
oltre a un utilizzo dello strumento della «gestione
integrata» dei rifiuti, che spesso determina «improprie
estensioni della privativa, eliminando la possibilità di uno
sviluppo della concorrenza nel mercato nelle fasi della
filiera in cui essa può esplicarsi». Particolarmente
evidenziato è l'«eccessivo e acritico ricorso al modello
dell'in-house providing senza che ciò garantisca sempre
l'efficienza del servizio».
Da qui, le proposte
dell'Autorità per rivedere le modalità di affidamento della
raccolta, privilegiando la gara laddove possibile,
limitandone la durata a un massimo di cinque anni. In
sostanza l'in house dovrebbe essere concesso non solo a
fronte della obbligatoria verifica del pieno rispetto delle
norme Ue, ma anche e soprattutto del raggiungimento del
livello medio di efficienza riscontrabile nel settore
(cosiddetto benchmarking di efficienza) da parte
dell'affidatario diretto.
Si propone poi di ridefinire i
bacini per la raccolta, in modo da differenziarli e
ampliarli per le fasi a valle (trattamento
meccanico-biologico e termovalorizzazione), con una gestione
che disincentivi il conferimento in discarica, utilizzando
meglio lo strumento dell'ecotassa per rendere economicamente
più conveniente il ricorso ai Tmb, trattamenti
meccanico-biologici e ai termovalorizzatori; applicare un
modello di regolazione centralizzato, affidando le
competenze, per esempio, all'Autorità per l'energia.
A tutto
questo, secondo le indicazioni dell'Antitrust, si deve
aggiungere poi una riforma del sistema consortile (Conai)
che dovrebbe evolvere in un modello concorrenziale per
garantire che i produttori di imballaggi rispettino il
principio «chi inquina paga»
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016). |
APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO
IMPIEGO:
Un milleproroghe salva enti. Province, prorogati
i precari. Niente vincoli per le fusioni.
Nel passaggio alla camera il dl si è arricchito
di molte positive novità per le autonomie.
Via libera alla proroga dei contratti precari negli enti di
area vasta, anche in caso di sforamento del Patto 2015.
Possibilità di utilizzare i risparmi derivanti dalla
rinegoziazione dei prestiti anche per spesa corrente.
Esenzione per un anno dal pareggio di bilancio per i comuni
istituiti mediante fusione. Ennesima proroga delle gare sul
gas. E ancora esenzione dai limiti di spesa per mobili e
arredi, nuovi aiuti in caso di dissesto, riapertura del
termini per aderire al federalismo demaniale.
Si allunga l'elenco delle misure di interesse per gli enti
locali contenuti nella legge di conversione del decreto «milleproroghe»
(Atto
Senato n. 2237).
Rispetto al testo presentato dal governo il 30.12.2015, la camera ha introdotto numerosi altri correttivi,
anche pesanti.
Fra tutti, spicca, anche per la rilevanza sociale, la
salvaguardia dei lavoratori precari di città metropolitane e
province, che potranno rinnovare i contratti (per comprovate
necessità) anche se non in regola con i vincoli di finanza
pubblica. La norma vale anche per i contratti di
collaborazione coordinata e continuativa e a progetto.
Si allunga a tutto il 2016 l'efficacia della norma del dl
78/2015 (art. 7, comma 2) che consente di utilizzare le
risorse derivanti da operazioni di rinegoziazione di mutui
nonché dal riacquisto dei titoli obbligazionari emessi senza
vincoli di destinazione.
Buone notizie per i comuni nati da fusione, che per
quest'anno saranno esenti dal pareggio di bilancio, e per
quelli dissestati, che potranno contare fino al 2017 sui
contributi a incremento della massa attiva della gestione
liquidatoria. Vale per tutte le amministrazioni locali,
invece, l'esenzione dai limiti alla spesa per mobili e
arredi.
Più tempo, infine, per procedere all'affidamento con gara
del servizio di distribuzione del gas naturale e per
acquisire immobili statali nell'ambito del federalismo
demaniale.
Sono state confermate anche le misure già previste fin dalla
prima ora, come la proroga (o sospensione) degli obblighi di
gestione associata delle funzioni fondamentali nei piccoli
comuni, quella dei poteri prefettizi sul bilancio e quella
immancabile per gli affidamenti a Equitalia
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Fino a fine luglio qualificazione facilitata per
le imprese di costruzioni.
Fino a fine luglio qualificazione facilitata per imprese di
costruzioni, progettisti e contraenti generali; possibile,
sempre fino a fine luglio, escludere le offerte anomale
automaticamente in tutte le gare sotto la soglia Ue.
È quanto prevede il decreto milleproroghe (210/2015)
approvato dalla camera mercoledì (Atto
Senato n. 2237).
Di rilievo è l'articolo 7
che proroga diverse disposizioni in tema di infrastrutture e
lavori pubblici. In primo luogo la norma agisce sul tema
dell'anticipazione contrattuale prevedendo la proroga di
sette mesi, vale a dire dal 31.12.2015 al 31.07.2016, del termine fino al quale l'anticipazione del prezzo
in favore dell'appaltatore, per i contratti relativi a
lavori, è elevata dal 10 al 20%.
A tale riguardo e in prospettiva va segnalato
incidentalmente che la bozza del decreto di riordino della
materia (attuativo della legge delega 11/2016) estende a
tutti i contratti (quindi anche a forniture e servizi)
l'applicazione dell'anticipazione.
Un secondo intervento, sempre con una proroga di sette mesi,
dal 31.12.2015 al 31.07.2016, riguarda i termini
previsti dai commi 9-bis e 15-bis dell'articolo 253 del
codice dei contratti pubblici. Il comma 9-bis consente in
particolare alle imprese di costruzioni di dimostrare il
requisito della cifra di affari realizzata con lavori svolti
mediante attività diretta e indiretta, nonché dei «lavori di
punta» in ciascuna categoria, prendendo in considerazione i
migliori cinque anni del decennio antecedente la data di
pubblicazione del bando.
Il comma 15-bis permette invece ai progettisti di
qualificarsi in gara con i migliori cinque anni del decennio
(fatturato globale) e con i migliori tre anni del
quinquennio (personale).
Nel corso dell'esame in commissione, in sede referente, è
stato poi introdotta la lettera b-bis) che prevede la
medesima proroga di sette mesi, del termine previsto al
comma 20-bis dell'articolo 253 del codice dei contratti
pubblici fino al quale le stazioni appaltanti possono
applicare le disposizioni di cui agli articoli 122, comma 9, e
124, comma 8.
Si tratta della norma, introdotta con il
decreto 70/2011 e prorogata nel 2015, che consente alle
stazioni appaltanti di utilizzare l'esclusione automatica
dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di
ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia per tutte
le gare di lavori, forniture e servizi di importo sotto la
soglia comunitaria (5,2 milioni di euro per i lavori,
209.000 per servizi e forniture) aggiudicate con il criterio
del prezzo più basso (con un minimo di dieci offerte), di
fatto estendendo a tutti i contratti sotto la soglia Ue
quanto previsto, in via ordinaria e senza limiti di tempo,
per i lavori fino a un milione di euro e per servizi e
forniture fino a 100.000 euro.
Va anche qui precisato che tutta la materia potrà essere
soggetta a ulteriori modifiche al momento del varo del
decreto di riordino (entro il 18 aprile) e delle linee guida
che Anac dovrà proporre al ministero delle infrastrutture
per l'adozione con decreto ministeriale.
Il tutto dovrebbe concludersi, ragionevolmente entro
l'estate e, in relazione alla disciplina transitoria che
dovrà essere definita, si potrà capire quale sarà la sorte
delle disposizioni che il decreto legge ha prorogato fino a
fine luglio. Il procedimento sul quale è stata votata la
fiducia due giorni fa contiene anche la proroga di un anno
(vale a dire fino al 01.01.2017) del termine per
l'entrata in vigore delle disposizioni in tema di obblighi
di pubblicità relativi agli avvisi e ai bandi previsti nel
codice contratti pubblici.
Prorogata anche a disciplina transitoria in base alla quale,
ai fini della qualificazione come contraente generale, il
possesso dei requisiti di adeguata idoneità tecnica
organizzativa può essere sostituito dal solo possesso delle
attestazioni rilasciate dalle società organismi di
attestazione
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Immobili p.a., gare al risparmio. Parte la
spending review: il governo spenderà il 10% meno.
Obbligo di ricorrere alla centrale di
committenza per appalti di beni e servizi in 19 settori.
Le amministrazioni statali sono obbligate dallo scorso 9
febbraio a ricorrere a centrali di committenza per il
facility management, la manutenzione degli immobili pubblici
e altre 17 categorie merceologiche di beni e servizi quando
i loro importi annuali superino i 209 mila euro; fra sei
mesi l'obbligo scatterà per tutte le altre amministrazioni.
È quanto prevede il decreto del presidente del consiglio dei
ministri 24.12.2015, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 09.02.2016, n. 32, che, attuando
l'articolo 9, comma 3, della legge 89/2014, individua le 19
categorie merceologiche per le quali le stazioni appaltanti
devono fare ricorso inderogabilmente a uno dei 35 soggetti
aggregatori della domanda che fanno capo all'anagrafe unica
delle stazioni appaltanti, tenuta dall'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), ne fanno parte Consip, una centrale
di committenza per ciascuna regione e le altre in possesso
dei requisiti per l'iscrizione nell'elenco (definito con la
delibera Anac del 22.07.2015, n. 58).
Nel decreto vengono definite le soglie al superamento delle
quali le amministrazioni statali, centrali e periferiche, a
esclusione degli istituti e scuole di ogni ordine e grado,
delle istituzioni educative e delle istituzioni
universitarie, nonché le regioni e gli enti regionali, oltre
che i loro consorzi e associazioni, e gli enti del Servizio
sanitario nazionale, ricorrono a Consip o ad altro soggetto
aggregatore per lo svolgimento delle relative procedure.
Si tratta del primo importante adempimento finalizzato
all'attuazione della spending review in tema di
approvvigionamenti di beni e servizi da parte delle
pubbliche amministrazioni nel quale si stabilisce al di
sopra di quali soglie determinati servizi e beni devono
essere acquisiti facendo ricorso alle centrali di
committenza.
Da questo provvedimento il governo si attende risparmi
dell'ordine del 10% e non si tratterà di poco se i volumi
riguardanti i diversi beni e servizi considerati nel decreto
ammonterebbero a circa 15 miliardi (13 per la sanità e 2 per
gli altri settori).
Sono 19 i settori merceologici considerati, fra cui, per
quel che concerne gli immobili, cinque categorie di servizi:
la vigilanza armata (soglia di 40 mila euro); facility
management immobili (la soglia è quella dei 209 mila);
pulizia (209 mila); guardiania (40.000); manutenzione di
immobili e impianti (209 mila). Il decreto chiarisce che le
soglie di rilevanza indicate per ogni singola categoria si
devono intendere «come importo massimo annuo a base d'asta
negoziabile autonomamente per ciascuna categoria
merceologica da parte delle singole amministrazioni: fino
alla soglia le amministrazioni possono bandire gare in
autonomia, ma una volta superata la soglia devono fare
ricorso a uno dei 35 soggetti aggregatori della domanda.
La soglia dei 40 mila era anche prevista come soglia al di
sotto della quale i comuni con meno di 10 mila abitanti non
potevano agire autonomamente e dovevano ricorrere alle
centrali di committenza, ma con la legge di stabilità è
stato previsto che dal 01.01.2016 questo limite fosse
superato per cui oggi fino a 40 mila euro i piccoli comuni
possono anch'essi operare senza ricorrere alle centrali di
committenza.
Il decreto precisa anche come verranno individuati i
soggetti aggregatori incaricati di procedere
all'acquisizione dei beni e servizi citati nel dpcm e i
soggetti per i quali gli appalti dovranno essere svolti;
sarà il tavolo tecnico dei soggetti aggregatori a decidere
chi si occuperà dei singoli appalti. All'esito
dell'individuazione nel portale www.acquisitinretepa.it
dovrà essere disponibile l'elenco delle iniziative in capo
ad ogni soggetto aggregatore, con le tempistiche e lo stato
di avanzamento delle procedure
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nel pubblico impiego tutela legata alla buona
fede. La segnalazione all’Anac.
L’informazione sull’illecito basata su elementi di fatto.
Il disegno di legge
(Atto
Senato n. 2208) approvato, in prima lettura, il 21.01.2016 mira a modificare
le tutele oggi previste a favore dei whistleblowers
(letteralmente “soffiatori di fischietto”) dall'articolo
54-bis del Testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001)
e a estendere il meccanismo delle segnalazioni al settore
privato, rimasto sino ad oggi quasi totalmente sprovvisto di
una disciplina ad hoc.
Per quanto concerne il pubblico impiego, la proposta di
legge, che dovrà ora essere esaminata dal Senato, stabilisce
specifiche tutele per il dipendente che, nell'interesse
dell'integrità della pubblica amministrazione, in buona fede
segnali al responsabile della prevenzione della corruzione o
all'Anac, ovvero denunci all'autorità giudiziaria ordinaria
o alla Corte dei Conti, condotte illecite di cui sia venuto
a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro.
In
particolare, il segnalante non potrà essere «sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra
misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o
indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla
segnalazione». L'adozione di misure ritorsive è comunicata
«in ogni caso all'Anac dall'interessato o dalle
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative
nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste
in essere».
Appare particolarmente innovativa, rispetto alla disciplina
oggi vigente, l'introduzione del requisito della «buona
fede» in un'ottica di responsabilizzazione del dipendente
che, per beneficiare delle tutele, deve effettuare una
«segnalazione circostanziata nella ragionevole convinzione,
fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita
segnalata si sia verificata», fermo restando che la buona
fede è comunque esclusa qualora il segnalante abbia agito
con colpa grave.
Inoltre, in modo quasi del tutto simile a quanto oggi già
previsto, le tutele a favore del whistleblower non sono
garantite ove venga accertata, anche sulla base di una
sentenza emessa in primo grado –questa una delle novità-,
la responsabilità penale del segnalante per i reati di
calunnia o diffamazione o comunque per altri reati commessi
con la denuncia nonché nel caso in cui sia riconosciuta una
responsabilità civile del dipendente in relazione a tali
reati, nei casi di dolo o colpa grave.
Non solo. Come ulteriore deterrente alle segnalazioni
inveritiere o in malafede, viene previsto che, nel caso in
cui al termine del procedimento penale, civile o contabile
ovvero all'esito dell'attività di accertamento dell'Anac, la
segnalazione risulti infondata e non effettuata in buona
fede, il dipendente è sottoposto a procedimento disciplinare
dall'Ente di appartenenza che potrà persino, sulla base di
quanto previsto dai contratti collettivi, licenziare per
giusta causa il whistleblower.
La proposta di legge stabilisce, inoltre, specifici limiti
alla rivelazione dell'identità del segnalante che -in linea
di principio- deve rimanere segreta. Proprio al fine di
garantire tale riservatezza, l'Anac, nell'ambito delle
proprie linee guida per la presentazione e la gestione delle
segnalazioni, dovrà non solo prevedere l'utilizzo di
modalità anche informatiche ma, addirittura, promuovere il
ricorso a sistemi crittografati.
In aggiunta, al fine di una maggior tutela del whistleblower,
la riforma prevede l'introduzione di sanzioni amministrative
pecuniarie ove, nell'ambito dell'istruttoria condotta dall'Anac,
venga accertata l'adozione di misure discriminatorie nei
confronti del segnalante oppure l'assenza di procedure per
l'inoltro e la gestione delle segnalazioni o la non
conformità delle stesse rispetto a quanto indicato dall'Anac.
Occorre rilevare, infine, come il disegno di legge intenda
ampliare non solo il contenuto dell'attuale disciplina
prevista dal Testo unico del pubblico impiego bensì anche la
portata dei suoi destinatari. Le tutele si applicheranno
anche ai dipendenti degli enti pubblici economici e degli
enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico
nonché, più in generale, ai collaboratori o consulenti, con
qualsiasi tipologia di contratto o di incarico, e persino ai
lavoratori e ai collaboratori delle imprese che forniscono
beni o servizi e che realizzano opere in favore
dell'amministrazione pubblica (articolo Il Sole 24 Ore
del 09.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Part-time agli statali anziani. Orario di lavoro riducibile
tre anni prima della pensione. Milleproroghe/ Opzione allargata ai dipendenti pubblici. Più
tempo per il dm.
La conversione in legge del decreto milleproroghe (Atto
Senato n. 2237) concede il
part-time anche ai dipendenti pubblici prossimi alla
pensione.
La modifica alla specifica disciplina transitoria
(valida per il settore privato) di cui all'art. 1, comma
284, della legge 208/2015 (di stabilità per il 2016),
prevede la trasformazione da tempo pieno a tempo parziale
del rapporto di lavoro subordinato, con copertura
pensionistica figurativa per la quota di retribuzione
perduta e con la corresponsione, di una somma pari alla
contribuzione pensionistica che sarebbe stata a carico del
datore di lavoro relativa alla prestazione lavorativa non
effettuata.
Il nuovo articolo 2-quater del dl 210/2015 concede anche più
tempo per scrivere le regole pratiche per il passaggio al
part-time.
Di cosa parliamo. Anche i lavoratori dipendenti del settore
pubblico, esclusi dalla disposizione contenuta nella legge
di stabilità, titolari di un contratto di lavoro a tempo
pieno che maturano entro il 31.12.2018 il diritto al
trattamento pensionistico di vecchiaia (66 e 7 mesi nel
2016), possono, d'intesa con l'amministrazione di
appartenenza, per un periodo non superiore a 3 anni (devono
quindi aver compiuto 63 anni e 7 mesi), ridurre l'orario del
rapporto di lavoro in misura compresa tra il 40 e il 60%.
Ciò comporta, in pratica, una aggiunta mensile allo
stipendio pari alla contribuzione (quota a carico del datore
di lavoro) previdenziale a fini pensionistici (23-24% della
retribuzione) relativa alla prestazione lavorativa non
effettuata. Tale importo non concorre alla formazione del
reddito da lavoro dipendente e non è assoggettato a
contribuzione previdenziale. Per i periodi di riduzione
della prestazione lavorativa è riconosciuta la contribuzione
figurativa commisurata alla retribuzione corrispondente alla
prestazione lavorativa non effettuata.
In altre parole il
lavoratore part-time arriva alla pensione senza alcun danno
per l'assegno Inps: come se avesse continuato a lavorare a
tempo pieno.
Decreto attuativo. Sempre il comma 284 dell'articolo 1 della
legge di stabilità 2016 ha rinviato ad apposito decreto del
ministro del lavoro e dell'economia l'individuazione delle
modalità per fruire del beneficio del part-time, fissando il
termine per la sua emanazione a 60 giorni dall'entrata in
vigore della legge (01.03.2016).
Ora il decreto milleproroghe (approvato in commissione e ora
all'esame dell'aula della camera) sposta tale termine al 31
marzo, concedendo un mese in più per l'emanazione
(articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016). |
APPALTI: Offerte anomale, esclusione automatica.
Per le stazioni appaltanti via libera alla possibilità fino
al 31.07.2016 di escludere automaticamente le offerte
anomale ai contratti di lavori d'importo inferiore o pari a
1 milione di euro e di servizi e forniture d'importo
inferiore o pari a 100.000 euro. Per le imprese, inoltre,
slitta al 31.07.2016 il termine entro il quale per la
dimostrazione del requisito della cifra di affari realizzata
valgono solo i migliori cinque anni del decennio antecedente
la data di pubblicazione del bando di gara.
Queste alcune
delle novità in materia di infrastrutture, trasporti e
appalti contenute nel dl milleproroghe all'esame della
camera (Atto
Senato n. 2237).
Nel dettaglio, le modifiche apportate all'art. 7
relativamente alle offerte anomale, prevedono che possa
slittare fino alla fine di luglio, il termine entro il quale
le stazioni appaltanti potranno escludere automaticamente le
offerte anomale sia ai contratti di lavori d'importo
inferiore o pari a 1 milione di euro, sia di servizi e
forniture d'importo inferiore o pari a 100.000 euro. A
essere chiamati in causa, quindi, i cosiddetti contratti
sottosoglia, cioè di importo inferiore alle soglie
comunitarie previste dall'art. 28 del Codice dei contratti
pubblici.
Slitta, inoltre, alla fine di luglio anche il
termine entro il quale le imprese potranno usufruire di
determinate condizioni per dimostrare il requisito della
cifra di affari. Nel dettaglio, infatti, ai fini della
qualificazione degli esecutori dei lavori per la
dimostrazione, da parte dell'impresa, del requisito della
cifra di affari realizzata con lavori svolti mediante
attività diretta e indiretta, il periodo di attività
documentabile resterà quello relativo ai migliori cinque
anni del decennio antecedente la data di pubblicazione del
bando di gara.
Differita, infine, al 01.01.2017
l'applicazione della disposizione che istituisce, presso il Mit
un Fondo finalizzato all'acquisto diretto o indiretto di
mezzi adibiti al trasporto pubblico locale e regionale anche
per garantire l'accessibilità alle persone a mobilità
ridotta
(articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016). |
ENTI LOCALI - VARI: Patente, multe in saldo. Sconto del 30% per chi non ha
documento. Circolare dell'Interno sugli effetti delle depenalizzazioni
(dlgs 8/2016).
Chi verrà sorpreso ripetutamente a guidare senza patente
potrà cavarsela con una multa scontata del 30%. Niente
penale dunque neppure per i recidivi più scaltri che possono
permettersi di regolare il conto alla cassa ma che non hanno
mai conseguito una licenza di guida. L'unico rischio per
questi allegri trasgressori seriali può essere rappresentato
dalla confisca del veicolo in caso di ripetizione
dell'illecito.
Lo ha evidenziato il Ministero dell'Interno con la
nota 05.02.2016 n.
300/A/852/16/109/33/1 di prot..
Con l'avvenuta depenalizzazione della patente di guida
entrata in vigore sabato scorso (dlgs 8/2016), circolare
senza patente è diventato più agevole, soprattutto per chi
potrà permettersi di pagare 3.500 euro di multa ad ogni
ipotetico controllo, mettendo sul piatto, eventualmente, la
confisca del veicolo ogni due sanzioni. Le istruzioni
operative diramate dall'organo di coordinamento dei servizi
di polizia stradale sono chiare.
Condurre un veicolo a motore senza patente ora non è più un
reato. E neppure circolare con una patente straniera
nonostante l'inibizione alla guida sul territorio italiano
oppure scaduta per i residenti da oltre un anno. La multa
per chi viene trovato in difetto ora va da 5.000 a 30.000
euro. Ovvero per chi paga in misura ridotta 5.000 euro,
ulteriormente limitati a 3.500 per chi paga subito, con lo
sconto entro cinque giorni (salvo che il veicolo circoli
contro la volontà del proprietario).
Con il fermo amministrativo del veicolo per tre mesi. Ma se
il soggetto è recidivo nel biennio potrebbe scattare la
denuncia penale. Secondo il Viminale si può intendere una
reiterazione dell'illecito depenalizzato, in conformità ai
principi dell'art. 8-bis della legge 689/1981. Ma solo da
adesso in poi e sempre che il primo illecito sia definito
ovvero che il trasgressore benestante non abbia effettuato
il tempestivo pagamento in misura ridotta.
In questo caso non scatterà il penale. In ogni caso a parere
del ministero la ripetizione della guida senza patente,
anche se non può essere valutata come reiterata per
qualsiasi motivo (per esempio per avvenuto pagamento in
misura ridotta della multa) determinerà sempre la confisca
del veicolo
(articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016). |
VARI: Fumo in auto, controlli zoppi. Ok alle ispezioni visive. Più
complesse quelle interne. Le verifiche giocano sul concetto di privata dimora. Una
circolare dal Minsalute.
Ok alle ispezioni visive dell'auto dall'esterno per
accertare il divieto di fumo nell'abitacolo in presenza di
minori e di donne incinte. Le ispezioni interne, invece,
potrebbero essere bloccate se si equipara la vettura alla
privata dimora. Si gioca tutto sul concetto, appunto, di
privata dimora l'individuazione dei poteri degli agenti
accertatori della violazione del divieto di fumo in auto
introdotto dall'articolo 24, comma 2, del decreto
legislativo n. 6/2016.
La materia è illustrata dalla
circolare 04.02.2016 del
Ministero della Salute, che sul punto delle modalità di accertamento
si limita a un richiamo all'articolo 13, comma 4, della
legge 689/1981 e cioè la legge quadro sulle sanzioni
amministrative pecuniarie. Ma vediamo di illustrare il
problema.
L'articolo 24, comma 2, del decreto legislativo n. 6 del
2016, estende il divieto di fumo al conducente di
autoveicoli, in sosta o in movimento, e ai passeggeri a
bordo degli stessi in presenza di minori di anni diciotto e
di donne in stato di gravidanza.
La circolare prende in esame le difficoltà pratiche di
accertamento della violazione e si riferisce all'ipotesi
infrazione commessa in un autoveicolo in movimento. Per
questa ipotesi la circolare ricorda che l'accertamento potrà
può essere effettuato dal personale dei corpi di polizia
amministrativa locale e dagli ufficiali e gli agenti di
polizia giudiziaria, secondo quanto previsto dall'articolo
13, quarto comma, della legge 24.11.1981, n. 689.
In realtà le modalità di accertamento sono disciplinate
innanzitutto dal comma 1 del citato articolo 13. In base a
questo primo comma gli organi addetti al controllo
sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è
prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma di denaro possono, per l'accertamento delle violazioni
di rispettiva competenza, assumere informazioni e procedere
a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata
dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e
ad ogni altra operazione tecnica.
Dunque l'agente di polizia municipale ha una serie di
prerogative, tra cui l'ispezione di cose e luoghi diversi
dalla privata dimora.
Dobbiamo, quindi, ipotizzare che un'autovettura venga
fermata per contestare l'infrazione del divieto di fumo.
Occorre, quindi, innanzi tutto che l'agente accertatore
abbia visto con i propri occhi la commissione
dell'infrazione e che l'abbia immediatamente contestata al
trasgressore.
In questo caso la parola dell'agente vale di più di quella
del trasgressore, considerato che il verbale è atto che fa
prova fino a querela di falso e che il trasgressore stesso
non potrà superare l'efficacia probatoria del verbale
neppure con un testimone.
Se l'auto è in movimento, potrebbero essere necessari
ulteriori atti di accertamento.
L'art. 13, comma 1, della legge 689/1981 ammette atti di
ispezioni di cose o luoghi diversi dalla provata dimora. Si
deve, quindi, valutare se l'auto sia una cosa o un luogo di
privata dimora.
Prendendo a prestito la giurisprudenza del giudice penale si
nota che l'auto, che si trova sulla pubblica via, non è
considerata privata dimora ai fini del reato di violazione
di domicilio, salvo che possa desumersi un effettivo uso a
fini di precaria abitazione; non lo è neppure ai fini della
applicazione della disciplina autorizzativa sulle
intercettazioni. Seguendo questa impostazione l'auto, che
circola sulla pubblica via, sarebbe una cosa o un luogo
diverso dalla privata dimora e, quindi, l'agente accertatore
sarebbe legittimato a procedere alle ispezioni. Se, invece,
si ritenesse che l'autovettura sia equiparabile alla privata
dimora, comunque il suo interno può essere ispezionato
visivamente dagli agenti accertatori dall'esterno.
Tra gli atti di accertamento sono previste anche le riprese
fotografiche.
Soprattutto per le foto, ma in ogni caso non bisogna
dimenticare la privacy dei trasportati. Si dovrà chiarire se
nel verbale si dovrà riportare nome e cognome dei
trasportati e la loro condizione (minorenne, donna in stato
di gravidanza) oppure se sarà sufficiente dare atto
genericamente della presenza di un passeggero appartenente
alla categoria protetta.
Il comma 4 dell'articolo 13, della legge 689/1981, citato
dalla circolare consente anche agli ufficiali e agli agenti
di polizia giudiziaria, un'altra attività e cioè la
perquisizione, ma sempre in luoghi diversi dalla privata
dimora, previa autorizzazione motivata dell'autorità
giudiziaria. Una ipotesi questa che potrebbe contrastare con
le esigenze di immediatezza dell'accertamento (articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Eco-reati a prescrizione limitata. Applicabile se
la pena è l'ammenda, non se c'è l'arresto. Linee guida dalla
Procura generale di Firenze, in sinergia con i Tribunali di
distretto.
La prescrizione si applica alle sole contravvenzioni
previste dal Testo unico ambientale (c.d. Tua, dlgs n.
152/2006), punite con la sola pena dell'ammenda ovvero con
la pena dell'ammenda prevista come alternativa all'arresto.
Non si applica, invece, alle contravvenzioni previste dal
Tua punite con la sola pena dell'arresto o con la pena
dell'arresto e dell'ammenda.
Questo è quanto si legge nelle linee guida in tema di
estinzione dei reati in materia ambientale introdotte con la
legge 22.05.2015, n. 68 e predisposte dalla Procura generale
della Repubblica di Firenze, con il supporto e contributo di
tutti i Procuratori della repubblica presso i Tribunali di
distretto.
Con la legge 22.05.2015, n. 68, sono state introdotte
nell'ordinamento fattispecie di aggressione all'ambiente
costituite sotto forma di delitto. Il nucleo fondamentale
del provvedimento è costituito dall'articolo 1, contenente
un complesso di disposizioni che, in particolare,
inseriscono nel codice penale un inedito titolo VI-bis (Dei
delitti contro l'ambiente), composto da 12 articoli (dal
452-bis al 452-terdecies).
All'interno di questo nuovo titolo sono previsti cinque
nuovi delitti, inquinamento ambientale, disastro ambientale,
traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività,
impedimento del controllo, omessa bonifica. L'articolato
contempla altresì una forma di ravvedimento operoso per
coloro che collaborano con le autorità prima della
definizione del giudizio, ai quali è garantita una
attenuazione delle sanzioni previste.
Inquinamento ambientale.
Ai sensi dell'art. 452-bis c.p., è sanzionato con la
reclusione da due a sei anni e con la multa da 10 mila a 100
mila euro, chiunque abusivamente cagiona una compromissione
o un deterioramento significativi e misurabili delle acque o
dell'aria, o di porzioni estese o significative del suolo o
del sottosuolo di un ecosistema, della biodiversità, anche
agraria, della flora o della fauna.
Condizione di ammissibilità della procedura
di prescrizione.
Per dare avvio alla procedura di prescrizione, la legge
dispone che la condotta non abbia cagionato «danno o
pericolo concreto ed attuale di danno» alle risorse
ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.
La polizia giudiziaria è chiamata a valutare la presenza
della condizione di ammissibilità, che, certamente, secondo
le linee guida della Procura, si può affermare esistente nei
casi di violazioni di tipo formale e nei casi in cui la
situazione di illiceità possa essere eliminata ponendo in
essere le prescrizioni imposte dall'organo di vigilanza.
Al contrario, qualora non sia applicabile la procedura
prescrittiva. La polizia giudiziaria dovrà precisare nella
comunicazione di notizia di reato le circostanze di fatto e
le ragioni che impediscono di impartire le prescrizioni
(articolo ItaliaOggi
del 06.02.2016). |
ENTI LOCALI:
Ennesima proroga in vista per i bilanci degli
enti.
È in arrivo una nuova proroga del termine per l'approvazione
dei bilanci degli enti locali. La dead-line, attualmente
fissata al 31 marzo, dovrebbe slittare al 30 aprile.
Il copione è lo stesso ormai da diversi anni, con
l'esecutivo che promette «mai più rinvii», ma che poi è
costretto a concederli. Il tema sarà affrontato nella
prossima Conferenza stato-città e autonomie locali, in
calendario per il prossimo 18 febbraio. Anche questa volta
il principale problema da risolvere riguarda fondo di
solidarietà comunale, ormai sempre più simile a un rebus. La
quantificazione di questa posta di entrata rappresenta,
infatti, una via di mezzo fra un'acrobazia e una lotteria.
In queste settimane stanno circolando diverse ipotesi e
metodologie di stima, in attesa che arrivino i numeri
ufficiali.
Al riguardo, come sempre, regna la più assoluta incertezza:
in teoria, stando a quanto previsto dalla legge 208/2015, il
riparto dovrebbe essere definito al più tardi entro il 30
aprile. Peccato che, al momento, la scadenza per approvare i
bilanci di previsione sia fissata al 31 marzo. Da qui
l'inevitabile slittamento, come sempre accompagnato dalla
promessa che sia l'ultimo. Intanto, nei giorni scorsi si
sono aperti i tavoli tecnici fra Ministero dell'interno, Mef
e Anci per definire i criteri di distribuzione.
Molte le incognite, dall'adeguatezza dei fondi stanziati per
compensare il mancato gettito di Imu e Tasi all'impatto dei
nuovi fabbisogni standard (altro oggetto misterioso) che
sono in fase di elaborazione da parte della Sose. Senza
dimenticare la sempre più ingarbugliata vicenda delle
imposte sui terreni agricoli, per i quali l'ultima legge di
stabilità ha nuovamente cambiato le regole, riesumando la
vecchia circolare delle Finanze n. 9/1993 e introducendo
un'esenzione piena per coltivatori diretti e imprenditori
agricoli professionali.
Secondo l'Ifel, tale partita porterà
ai comuni un'ulteriore compensazione di circa 250 milioni,
di cui però non sono chiari tempi e modalità. Per chiudere i
bilanci, quindi, sindaci e ragionieri devono affidarsi a
calcoli quasi cabalistici, con buona pace dei principi di
veridicità, attendibilità, correttezza e comprensibilità
riaffermati dalla riforma della contabilizzata introdotta
dal dlgs 118/2011. Senza contare che quest'ultimo impone ai
comuni di accertare il fondo sulla base dei dati divulgati
attraverso il sito internet istituzionale del Viminale
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Paletti al general contractor. Scattano i
divieti: dal 13 febbraio niente direzione lavori.
Con l'entrata in vigore della legge n. 11,
pubblicata in G.U., salta il performance bond.
Dal 13 febbraio sarà vietato affidare la direzione lavori al
contraente generale e applicare la garanzia globale di
esecuzione; niente «performance bond» anche per le gare
avviate prima del 13 febbraio.
Sono questi alcuni degli
effetti immediati derivanti dall'entrata in vigore della
legge 28.01.2016, n. 11 pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale del 29.01.2016, n. 23.
In particolare, il primo importante elemento di novità, e di
forte impatto per il settore delle grandi infrastrutture, è
che dalla data di entrata in vigore della legge (13.02.2016) non è più possibile affidare al contraente generale il
compito di responsabile o di direttore dei lavori.
Non solo: il divieto scatterà anche per le procedure di
appalto già bandite alla data di entrata in vigore della
legge, incluse quelle già espletate per le quali la stazione
appaltante non abbia ancora proceduto alla stipulazione del
contratto con il soggetto aggiudicatario.
Strettamente correlata a questa norma è anche un'altra
disposizione della legge 11 che ha però natura di criterio
di delega e quindi sarà attuata attraverso il decreto
delegato che è in gestazione presso la commissione
ministeriale nominata dal ministro Delrio.
Si tratta della lettera mm) del comma 1 dell'articolo 1
della legge delega che prevede la creazione, presso il
ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di un albo
nazionale obbligatorio dei soggetti che possono ricoprire
rispettivamente i ruoli di responsabile dei lavori, di
direttore dei lavori e di collaudatore negli appalti
pubblici di lavori aggiudicati con la formula del contraente
generale.
In questa fase, o meglio dal 14 febbraio, appare evidente
che se una stazione appaltante dovrà stipulare un contratto
per affidamento a contraente generale non potrà assegnare
allo stesso anche la direzione dei lavori, ma non sarà
ancora disponibile l'albo previsto dalla legge 11. Pertanto,
procederà alla scelta del direttore dei lavori con regolare
procedura a evidenza pubblica con automatico ritardo dei
tempi determinato dalla gestione di una gara aggiuntiva.
Va segnalato come il dato letterale della lettera mm) sembra
dare per scontata la permanenza della figura del contraente
generale, ancorché da molti parti si parli di abolizione
della cosiddetta «legge obiettivo». Questa legge, in realtà
è vigente e le norme attuative (dell'ex decreto 190) sono
tutt'oggi contenute nel codice dei contratti pubblici
(articoli da 161 a 194).
Il tutto dovrebbe però tornare a posto con l'altro criterio
di delega (sss) che prevede l'«espresso superamento delle
disposizioni di cui alla legge 21.12.2001, n. 443, con
effetto dalla data di entrata in vigore del decreto di
riordino».
In ogni caso, va considerato che le direttive Ue prevedono
sempre il cosiddetto «appalto del terzo tipo» che, fin dal
1989 quando fu emanata la direttiva Ue n. 440 ha a oggetto
il «fare eseguire con qualsiasi mezzo» un'opera rispondente
ai bisogni dell'amministrazione: si tratta esattamente
dell'oggetto contrattuale che portò nel 2001 alla
definizione della nozione di affidamento a contraente
generale; adesso nelle bozze del decreto delegato che
circolano, le disposizioni oggi nel codice dei contratti
pubblici sembrano cancellate. Rimane, invece, l'appalto del
«terzo tipo», che il legislatore è obbligato a recepire.
Se ne dovrebbe dedurre che, senza le norme che erano
contenute nel decreto 190, le stazioni appaltanti potranno
sempre affidare a un soggetto simile al contraente generale
lo stesso contenuto di prestazioni, ma senza i «paletti» che
sono ancora oggi previsti nel codice dei contratti pubblici.
Dal 13 febbraio (e per le procedure già avviate anche prima
di tale data) non sarà possibile chiedere, negli appalti di
lavori di sola esecuzione oltre i 100 mln di euro, negli
appalti integrati oltre i 75 mln di euro, nonché per gli
affidamenti a contraente generale, la garanzia globale di
esecuzione (il cosiddetto performance bond). Le norme
relative saranno sospese fino all'emanazione del decreto
delegato e poi automaticamente abrogate; nel frattempo non
si potrà procedere con lo svincolo automatico delle cauzioni
(fino all'80% dell'importo del contratto)
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
APPALTI SERVIZI: Dall'Antitrust
le linee guida per affidare il servizio di illuminazione
stradale.
L'Autorità garante della
concorrenza e del mercato (Agcm) ha emanato la
segnalazione
16.12.2015 n.
AS1240 circa le modalità di affidamento del servizio
pubblico locale di illuminazione stradale.
La segnalazione,
inviata all'Associazione nazionale comuni italiani ed
all'Autorità nazionale anticorruzione, è stata rilasciata ai
sensi dell'articolo 22 della legge 287/1990 che regola
l'attività consultiva dell'Autorità e giunge a fronte di
numerose richieste di intervento pervenute in materia.
Le
considerazioni dell'Agcm sono dirette, quindi, a dettare
agli enti locali coinvolti le linee guida dell'attività
amministrativa nella gestione del servizio di illuminazione
pubblica, da esercitare nel rispetto dei principi della
concorrenza.
Il Consiglio di stato, da ultimo con sentenza numero 8232
del 2010, ha chiarito definitivamente come il servizio di
illuminazione pubblica delle strade comunali rientri nella
categoria dei servizi pubblici locali. Ne discende, come
confermato dalla decisione numero 199/2012 della Corte
costituzionale, che tale servizio debba essere affidato,
previa pubblicazione da parte dei comuni della relazione di
cui all'articolo 34, comma 20, del dl 179/2012 che dia conto
delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti
dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento
prescelta, tramite il ricorso in via alternativa alle
seguenti tre modalità: 1) indizione di una gara pubblica per
la scelta dell'affidatario; 2) indizione di una gara a
doppio oggetto per la selezione competitiva di un socio
privato operativo con il quale costituire una società mista;
3) ricorso all'affidamento in house, nel rispetto delle
condizioni di legittimità stabilite dalle recenti sentenze
della Corte di giustizia europea e riportate nelle nuove
direttive europee sugli appalti pubblici (direttive Ue 23,
24 e 25 del 2014).
A fronte di questo quadro normativo comune, dalle
segnalazioni pervenute l'Autorità rileva due problematiche
peculiari del settore dell'illuminazione pubblica, ovvero la
conformità con la normativa vigente delle Convenzioni di
affidamento diretto in favore di una società del gruppo Enel
(Enel Sole srl) specializzata nel servizio di gestione e
manutenzione degli impianti di illuminazione pubblica e, per
quanto riguarda i casi di nuovo affidamento del servizio, le
modalità di acquisizione da parte degli enti locali degli
impianti di proprietà di terzi.
In merito al primo punto, occorre nuovamente chiamare in
causa l'articolo 34 -commi 21 e 22- del dl 179/2012. Il
comma 22 prevede, infatti, che gli affidamenti diretti a
società a partecipazione pubblica quotate in mercati
regolamentati ed a quelle da esse controllate cessino alla
scadenza prevista nel contratto di servizio o, qualora non
sia stata prevista una scadenza, improrogabilmente entro il
31.12.2020.
Da ciò consegue che è necessario che i comuni distinguano
tra le convenzioni di affidamento diretto assegnate a Enel
Sole entro il 31.12.2004 e quelle successive, dal
momento che Enel Sole, appartenendo al Gruppo Enel, risulta
essere controllata dal 2004 da una società quotata.
Pertanto, gli affidamenti diretti antecedenti al 31.12.2004, sebbene non conformi alla normativa europea, restano
in vigore fino a scadenza naturale o, al massimo, entro il
31.12.2020 (senza possibilità di proroga).
Gli
affidamenti assegnati dal 01.01.2005, ed ancora in
essere alla data di entrata in vigore del dl 179/2012,
devono, invece, conformarsi alle norme dell'ordinamento
europeo ai sensi del comma 21 del richiamato articolo 34,
con scadenza prevista al 31.12.2013 (prorogata di un
anno per i soli casi in cui fossero già state avviate le
procedure di affidamento, al fine di garantire la continuità
del servizio), pena la revoca dell'affidamento da parte del
Comune.
Per quanto riguarda il secondo punto oggetto dell'analisi da
parte dell'Agcm, nella segnalazione è specificato che, per
procedere con i nuovi affidamenti, i comuni coinvolti
debbano precedentemente assumere la proprietà degli impianti
di illuminazione: la normativa vigente prevede, a tal fine,
l'acquisto bonario o il riscatto degli impianti di proprietà
di terzi.
Secondo l'opinione dell'Autorità non sarebbe,
invece, in linea con la normative sulla concorrenza la
scelta, effettuata da alcune amministrazioni, di procedere
all'acquisto degli impianti di proprietà di terzi previo
affidamento alla stessa società proprietaria dei lavori di
ammodernamento degli impianti di illuminazione, procedura
che sarebbe suscettibile, infatti, di alterare il corretto
confronto competitivo in sede di gara per l'attribuzione del
servizio. Il gestore uscente, in quanto proprietario della
tecnologia utilizzata per l'ammodernamento degli impianti
del servizio a base di gara, si troverebbe, infatti nella
condizione di competere nell'offerta in modo difficilmente
replicabile da soggetti terzi.
Infine, sarebbe illegittimo, secondo l'Agcm, il ricorso alla
trattativa privata per i lavori di ammodernamento
impiantistico senza previa pubblicazione del bando di gara,
non ricorrendo, infatti, i presupposti per l'affidamento
senza gara espressamente tipizzati dall'articolo 57 del dlgs
163/2006 (Codice degli appalti)
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Processo al Tar subito digitale. I giudici non
accetteranno più carta dagli avvocati.
Avviso del Consiglio di stato: tirata d'orecchie in vista
del debutto del rito telematico.
Processo amministrativo telematico al via da subito. Anche
per gli avvocati impreparati.
Mancano infatti solo cinque
mesi al 01.07.2016, data effettiva di definitivo addio
alla carta per la giustizia amministrativa, ma sono ancora
troppi i professionisti che depositano i propri atti solo in
formato cartaceo, nonostante l'obbligo di deposito di copia
informatica sia in vigore da sei anni, ovvero dall'entrata
in vigore del codice del processo amministrativo.
Da oggi,
però, i tribunali non potranno più chiudere un occhio e il
solo atto cartaceo non sarà ammesso al processo. La stretta,
sugli avvocati ancora affezionati alla carta, arriva
direttamente dal presidente di sezione della segreteria
generale del Consiglio di stato, che ha inviato una nota, il
1° febbraio scorso, alle istituzioni dell'avvocatura e alle
associazioni degli avvocati amministrativisti. Affermando
che, a distanza di circa sei anni dall'entrata in vigore del
codice del processo amministrativo (dlgs n. 104 del 02.07.2010), che prevede l'obbligo per gli avvocati di depositare
copia in via informatica di tutti gli atti di parte e, ove
possibile, dei documenti prodotti e di ogni altro atto di
causa, sono ancora molti i legali che invece non depositano
i propri scritti difensivi e la documentazione in formato
digitale. Una situazione aggravata dal fatto che l'art. 2
della legge di Stabilità 2016 (legge n. 210/2015) ha
disposto che il 01.07.2016 prenda avvio il processo
amministrativo telematico, con il processo che si svolgerà
integralmente con modalità digitali, esclusa ovviamente la
trattazione orale in camera di consiglio e udienza pubblica.
«In questa prospettiva», si legge nella nota del Consiglio
di stato, «sembra opportuno, proprio perché tutti i
protagonisti di questa svolta epocale siano pronti a vincere
la sfida, che anche gli avvocati che sino a ora hanno
depositato solo in formato cartaceo, comincino sin da subito
a depositare tutti gli atti in formato digitale, per non
trovarsi il 01.07.2016 a dover affrontare
contemporaneamente tante novità informatiche».
La nota di
Palazzo Spada, a firma di Mario Torsello, è stata inviata al
presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin,
a quello dell'Unione nazionale avvocati amministrativisti,
Umberto Fantigrossi, al segretario della società italiana
avvocati amministrativisti, Filippo Lubrano, al presidente
della camera amministrativa romana, Mario Sanino, al
presidente del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Roma,
Mauro Vaglio, e al presidente dell'Associazione giovani
avvocati amministrativisti, Paolo Clarizia
(articolo ItaliaOggi
del 04.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI REGIONALI: Quote
rosa nelle regioni. Almeno il 40% di donne tra le
candidature. Dall'aula della camera l'ok definitivo alla
legge sulla parità di genere.
Almeno il 40% delle candidature per i consigli regionali
dovrà essere occupato da donne. A introdurre per legge le
quote rosa nelle elezioni regionali è la proposta di legge
sulla parità di genere approvata ieri in via definitiva
dalla Camera (Atto
Camera n. 3297).
Con 334 voti favorevoli, 91 contrari e 21 astenuti, l'aula
di Montecitorio ha confermato in toto il testo proposto
dalla senatrice del Partito democratico Giuseppina Maturani,
già approvato in prima lettura da palazzo Madama l'08.09.2015 (si veda ItaliaOggi del
09.09.2015)
Il provvedimento, di un solo articolo, stabilisce il
principio secondo cui le regioni, indipendentemente dalle
singole leggi elettorali in vigore, nella formazione delle
liste dovranno adeguarsi alla regola secondo cui i candidati
di un sesso non dovranno superare il 60% del totale. Una
soglia che non dovrà mai essere valicata sia in caso di
elezione mediante indicazione di preferenze, sia
nell'ipotesi di listino bloccato.
Se ci sono le preferenze
(al massimo due), una dovrà essere riservata a un candidato
di sesso diverso, pena l'annullamento delle preferenze
successive alla prima. Nei listini senza preferenze, invece,
i candidati dovranno essere collocati in modo alternato per
sesso. La soglia del 60% non dovrà essere superata,
all'interno delle candidature espresse da un singolo
partito, anche qualora le regioni scelgano l'elezione
attraverso collegi uninominali. Un criterio, quest'ultimo,
che però potrebbe essere di difficile applicazione in caso
di primarie.
L'approvazione della legge è stata accolta con soddisfazione
bipartisan. Anche nell'ottica del nuovo senato delle
autonomie che sarà composto da rappresentanti delle regioni
e dei comuni. Con poche donne elette nei consigli regionali,
la prospettiva di ritrovarsi un senato tutto al maschile è
apparsa a tutti uno scenario da scongiurare in ogni modo.
«È
un tassello verso la rappresentanza paritaria. Non potrà più
succedere che nelle regioni italiane i consigli regionali
rimangano senza adeguate rappresentanze femminili», ha
commentato la senatrice Doris Lo Moro, capogruppo del Pd in
commissione affari costituzionali. «È un passo avanti,
perché l'uguaglianza deve partire dai livelli territoriali
regionale e locale, che hanno un più immediato contatto
verso i cittadini», ha osservato la deputata di Forza Italia
Elena Centemero.
«Con questa legge arriva uno strumento importante per
agganciare sempre più i territori e la politica regionale
alla parità di genere. Un fatto che, ne sono certo, darà
maggiore efficacia, concretezza ed innovazione all'azione
politica delle regioni», scommette il presidente della
Conferenza delle regioni e governatore dell'Emilia-Romagna,
Stefano Bonaccini.
Va detto, tuttavia, che fino ad oggi, in assenza di
specifici obblighi di legge, le regioni hanno applicato le
quote rosa in modo assai differenziato sul territorio.
Accanto a regioni che già applicano la soglia del 60%
(Abruzzo, Puglia e Umbria) o che addirittura prevedono una
uguale rappresentanza dei due sessi nelle liste (Veneto,
Toscana, Emilia-Romagna), ve ne sono altre (la Calabria, per
esempio) che si limitano a prevedere che le liste debbano
comprendere candidati di entrambi i sessi.
In Basilicata, su 20 consiglieri regionali non c'è nessuna
donna, in Calabria, su 31 eletti, solo un consigliere è
donna, in Puglia il gentil sesso conta solo 4 seggi in
consiglio su 51, in Sardegna 4 su 60. Le cose vanno meglio
in Emilia-Romagna (17 donne su 50 consiglieri), Campania (11
su 51), Piemonte (12 su 50), Toscana (11 su 40) e provincia
autonoma di Bolzano (11 su 35). In ogni caso, in nessuna
regione la rappresentanza femminile va oltre il 34%
(articolo ItaliaOggi
del 04.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Tensioni sul regolamento edilizio.
Delrio: siamo fermi da due mesi - L’opposizione della
Lombardia.
Semplificazioni. Lo schema unico nazionale delle
Infrastrutture manca dell’ultimo «via libera».
Il regolamento
edilizio unico è all'ultimo miglio, ma è la strada è tutta
in salita.
A spingere verso questo importante obiettivo -che il governo indicava entro 2015- è il ministro delle
Infrastrutture, Graziano Delrio. Lo schema finora proposto
ha il consenso quasi unanime, ma si scontra con le riserve
localizzate nella regione Lombardia, con in testa i comuni,
guidati da Milano. A condividere queste riserve, sostenute
dall’Anci Lombardia, sono anche i costruttori edili.
«Il regolamento edilizio è pronto da due mesi», ha detto il
ministro Delrio a margine dell’incontro al Senato su “Gli
alberi nel cielo e il futuro delle città”. «Il lavoro è
quasi concluso -ha aggiunto-. C'è un'unica opposizione di
una regione su un punto specifico che stiamo cercando di
superare. Sono due mesi che siamo bloccati, speriamo di
concludere: siamo veramente a un passo».
Al centro della discussione, a quanto si apprende, è la
parte del testo con le definizioni, standardizzate.
Si discute in particolare sulla definizione di “superficie”.
La questione è sostanziale: tocca infatti interessi concreti
degli enti locali poiché modifica le quantità edilizie
pianificate dai Comuni nei loro Prg. Da qui l’altolà dei
comuni lombardi.
Ma perché la questione nasce in Lombardia? Perché, spiegano
i tecnici, la Lombardia è la regione che più di tutte ha
lasciato liberi gli enti locali sui loro regolamenti. In
altri territori, pianificazione e regole edilizie sono state
governate in modo più stringente. All'estremo opposto, per
esempio, c’è l'Emilia Romagna, tutt'ora la sola regione dove
il regolamento edilizio è una realtà (da oltre un anno).
Il nodo è ciò che si include nella definizione di
“superficie”. Se, ad esempio, si includono scale e androni,
si otterranno case con scale e androni al minimo, per
massimizzare invece le volumetrie residenziali, cioè quelle
vendibili.
Se invece il regolamento edilizio considera solo la
superficie abitabile, i progettisti -e i costruttori-
saranno liberi di valorizzare anche le parti comuni.
Quest'ultima strada, ricorda il presidente dell’Ance,
Claudio De Albertis, è proprio quella imboccata dalla
Lombardia, e in particolare dal comune di Milano. «Questa
scelta, su cui tutti sono stati d’accordo, architetti,
operatori e comune -ricorda De Albertis- è stata presa
perché, diversamente, si finiva per fare progetti in cui si
lesinava sugli spazi comuni, con scale anguste, o con altre
soluzioni improbabili».
«Noi -informa sempre De Albertis- abbiamo fatto una
proposta di compromesso: indicare tre definizioni di
superficie: “netta”, “lorda” -cioè comprensiva dei muri- e
“costruita” -comprensiva anche delle parti comuni-
lasciando poi al singolo comune la scelta di quale recepire
nel suo regolamento».
Questa questione principale se ne porta dietro un’altra.
Modificando la definizione di superficie, si rettifica anche
la previsione edificatoria dei comuni, che -ad esempio- si
potrebbero trovare, da un giorno all’altro, un 20% di
volumetrie in meno nei loro Prg (per non dire dei valori
delle aree). Dunque, andrebbero rifatti tutti piani. Ipotesi
che, ancora una volta, vede contrario il comune di Milano,
che ha appena chiuso il suo piano di governo del territorio.
Per compensare, almeno in parte, queste conseguenze, al
tavolo presso il ministero delle Infrastrutture è stata
anche ipotizzata una fase transitoria sufficientemente lunga
e graduale per l'approdo al regolamento edilizio unico. Non
solo. Per compensare i comuni che, per effetto delle nuove
definizioni, subiscono un taglio della capacità
edificatoria, sono stati previsti coefficienti e parametri
che consentono di recuperare i dimensionamenti originali
(articolo Il Sole 24 Ore
del 03.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Bonus
mobili anche sui vecchi lavori. Sì alla detrazione del 50% legata a interventi edilizi
pagati dal 26.06.2012 a fine 2016.
Anche per i
pagamenti effettuati nel 2016 per l’acquisto di mobili e
grandi elettrodomestici detraibili dall’Irpef al 50%, è
necessario aver effettuato dal 26.06.2012 al 31.12.2016 almeno un pagamento, detraibile al 50%, per un
intervento di recupero del patrimonio edilizio sulla casa da
arredare.
È questo il chiarimento fornito dall’agenzia delle
Entrate in una risposta data a Telefisco 2016, confermando
quanto precisato con circolare 11/E/2014 (risposta 5.6) di
“rettifica” alla precedente circolare 29/E/2013.
Quest’ultimo provvedimento richiedeva che i lavori edili
fossero «comunque terminati da un lasso di tempo
sufficientemente contenuto, tale da presumere che l’acquisto
sia diretto al completamento dell’arredo dell’immobile su
cui i lavori sono stati effettuati». Nella successiva
circolare 11/E/2014, si stabilì invece che non esisteva
«alcun vincolo temporale nella consequenzialità tra
l’esecuzione dei lavori e l’acquisto dei mobili» (si veda
«Il Sole 24 Ore» del 16.04.2014).
Ora, a Telefisco 2016,
la conferma di questa impostazione anche per gli acquisti
del 2016: sono detraibili al 50% le spese sostenute per
mobili e grandi elettrodomestici dal 06.06.2013 al 31.12.2016, anche se «correlate a interventi di recupero
del patrimonio edilizio, le cui spese siano state sostenute
a decorrere dal 26.06.2012» e fino alla fine del 2016.
Inizio dei lavori
Non è rilevante il momento in cui i lavori edili
termineranno: la fine dei lavori può avvenire anche il
prossimo anno (periodo non agevolato). Ma è importante
verificare la data del pagamento: vi deve essere almeno un
bonifico “parlante”, detraibile al 50%, per lavori edili
rilevanti per il bonus mobili, dal 26.06.2013 al 31.12.2016.
I lavori sul fabbricato, inoltre, devono essere iniziati
(non necessariamente pagati) prima del pagamento per i
mobili e gli elettrodomestici.
Non è necessario che i lavori
di ristrutturazione siano iniziati prima del 06.06.2013 o
del 26.06.2013, che siano terminati prima del pagamento
dei mobili o dei grandi elettrodomestici ovvero che
terminino entro la fine di quest’anno. L’importante è che
siano iniziati prima del pagamento per i mobili e gli
elettrodomestici, perché la norma agevolativa parla di
«ulteriori spese documentate e sostenute» rispetto ai lavori
sul fabbricato (circolare 29/E/2013).
Mobili e interventi edili rilevanti
I lavori edili, detraibili al 50% ai sensi dell’articolo
16-bis del Tuir, che costituiscono una condizione per poter
beneficiare del bonus mobili, sono le manutenzioni
straordinarie (ordinarie, solo su parti comuni
condominiali), i restauri e risanamenti conservativi, le
ristrutturazioni edilizie, le ricostruzioni o ripristini di
immobili danneggiati da eventi calamitosi e gli acquisti di
abitazioni facenti parte di fabbricati completamente
ristrutturati.
Anche quest’ultima spesa è rilevante,
nonostante non fosse stata elencata tra gli interventi
interessati nella prima versione delle Faq pubblicate il 20.01.2015 dall’agenzia delle Entrate (si veda «Il Sole 24
Ore del 21.01.2015»).
Cumulo con detrazione Iva del 50%
Il bonus mobili è usufruibile anche se ci si avvale della
nuova detrazione del 50% dell’Iva pagata per «l’acquisto,
effettuato entro il 31.12.2016», di abitazioni.
Naturalmente, dopo l’acquisto della casa (che per la
detrazione dell’Iva deve necessariamente avvenire nel 2016)
e prima della fine del 2016, si deve beneficiare della
detrazione del 50% per i lavori edili rilevanti per il bonus
mobili.
Per il bonus Iva, la norma non pone limiti temporali alla
data dei pagamenti delle fatture (che comprendono l’Iva da
detrarre al 50%). Pertanto, sembrerebbero agevolabili tutti
i pagamenti effettuati dal 01.01.2016 in poi, cioè
anche successivamente al 31.12.2016. In realtà,
secondo la risposta fornita dall’agenzia delle Entrate a Telefisco 2016, «è necessario che il pagamento dell’Iva
avvenga nel periodo di imposta 2016» e non successivamente (articolo Il Sole 24 Ore
del 03.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA- TRIBUTI: Fotovoltaico, fuori rendita solo i pannelli non integrati.
Immobili. Dopo i chiarimenti della circolare 2/E/2016 sugli
«imbullonati».
I pannelli
fotovoltaici che non sono integrati con il fabbricato, non
concorrono a formare la rendita catastale. Il comma 21 della
legge di Stabilità 2016 (legge 208/2015) esclude dalla
determinazione della rendita catastale gli impianti fissi,
funzionali allo specifico processo produttivo.
A tal fine,
la
circolare
01.02.2016 n. 2/E (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri)
dell’agenzia delle Entrate ha fornito istruzioni in ordine
alla rideterminazione della rendita catastale dei fabbricati
strumentali a destinazione speciale e particolare
appartenenti alle categorie catastali D ed E.
La nuova norma, infatti, prevede che la determinazione della
rendita di questi immobili sia effettuata con il metodo
della “stima diretta” tenendo conto del valore del suolo,
delle costruzioni e dei soli impianti che accrescono la
qualità dell’unità immobiliare, con esclusione, appunto,
delle strutture fisse ivi contenute aventi funzioni
produttive.
Gli impianti fotovoltaici sono l’esempio più evidente di
tale fattispecie, tenuto conto che sono infissi al
fabbricato e che già l’agenzia del Territorio aveva previsto
che la loro presenza comportava l’aumento della rendita
catastale ove il valore del fabbricato, per effetto
dell’impianto stesso, fosse aumentato di almeno il 15 per
cento.
L’agenzia delle Entrate fornisce ora l’interpretazione
secondo cui l’impianto fotovoltaico è ininfluente ai fini
della determinazione della rendita quando non ha alcuna
funzione strutturale nell’immobile. Viene precisato che sono
da ricomprendere nel valore della rendita catastale i
pannelli solari (ma il concetto vale anche per quelli
fotovoltaici), «integrati» sui tetti o nelle pareti che non
possono essere smontati senza rendere inutilizzabile la
superficie cui sono connessi. Al fine di definire quando un
impianto può definirsi “architettonicamente integrato”, la
circolare suggerisce di riferirsi a quanto previsto
dall’articolo 2, comma 1, lettera b3), del decreto del
ministero dello Sviluppo economico del 19.02.2007 e,
in particolare, alle tipologie specifiche 2, 3 e 8
individuate dall’allegato 3 allo stesso decreto.
Pertanto si considerano «integrati» (e quindi devono essere
ricompresi nel valore della rendita) gli impianti
fotovoltaici i cui moduli sono un tutt’uno con le superfici
esterne degli involucri di edifici, fabbricati, strutture
edilizie di qualsiasi funzione e destinazione, quali, ad
esempio:
-
le pensiline, pergole e tettoie in cui la struttura sia
costituita dai moduli fotovoltaici e dai relativi supporti;
-
le porzioni della copertura di edifici in cui i moduli
fotovoltaici sostituiscono i materiali che permettono
l’illuminazione naturale di uno o più vani interni;
-
le finestre i cui moduli fotovoltaici sostituiscano o
integrino le superfici vetrate delle finestre stesse.
In sostanza dovrebbe essere così: se i pannelli fotovoltaici
sono appoggiati sul tetto, non influenzano la rendita
catastale poiché il fabbricato sarebbe comunque coperto dal
sole o dalla pioggia anche in assenza dei pannelli
fotovoltaici. Se, invece, i pannelli funzionano anche come
tetto e il sottotetto non sarebbe sufficiente a proteggere
l’immobile dalle intemperie, allora devono essere inclusi
nel calcolo della rendita catastale.
Quindi, si ricorda che rimangono titolari di una rendita
catastale propria gli impianti fotovoltaici collocati a
terra e quelli collocati sui lastrici solari di proprietà di
soggetti diversi dal proprietario del fabbricato. In questa
fattispecie, l’Imu continua a essere dovuta assumendo come
base di calcolo la rendita originaria (articolo Il Sole 24 Ore
del 03.02.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati-arbitri, giù le parcelle. Compensi
tagliati del 30% per ridurre i costi dell'istituto.
Ok del Consiglio di stato,
degiurisdizionalizzazione in dirittura con un anno di
ritardo.
Gli avvocati che svolgeranno le funzioni di arbitri
percepiranno un compenso tagliato del 30%, concorrendo così
a ridurre i costi dell'istituto e renderlo più appetibile.
Gli arbitrati saranno assegnati ai professionisti iscritti
in apposite liste, in via automatica, con rotazione, grazie
ad appositi sistemi informatizzati. Gli elenchi saranno
formati in base alle aree di specializzazione.
Lo prevede lo
schema di decreto del ministro della giustizia «Regolamento
recante disposizioni per la riduzione dei parametri relativi
ai compensi degli arbitri, nonché disposizioni sui criteri
per l'assegnazione degli arbitrati, a norma dell'articolo
1, commi 5 e 5-bis, del decreto-legge 12.09.2014, n.
132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10.11.2014, n. 162».
Il dm, che doveva essere emanato entro il 10.02.2015 (90 giorni dall'entrata in vigore della legge
di conversione del dl 132/2014 in materia di degiurisdizionalizzazione), giunge dunque con un anno di
ritardo e dopo aver ottenuto il 14 gennaio scorso il via
libera con osservazioni dal Consiglio di Stato (parere
27.01.2016 n. 142) si avvia alla pubblicazione in G.U..
Il dl 132/2014 ha previsto nel comma 1 dell'unico articolo
del proprio Capo I («Eliminazione dell'arretrato e
trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti civili
pendenti») che in alcune controversie civili (si veda
tabella in pagina) le parti, con istanza congiunta, possono
richiedere di promuovere un procedimento arbitrale. Il
giudice, se ci sono le condizioni per procedere, dispone la
trasmissione del fascicolo al presidente del Consiglio
dell'ordine forense del circondario in cui ha sede il
tribunale ovvero la corte di appello per la nomina del
collegio arbitrale per le controversie di valore superiore a
100 mila euro e, se le parti lo decidono concordemente, di
un arbitro per le controversie di valore inferiore a 100
mila euro.
Gli arbitri sono individuati, insieme dalle parti
o dal presidente del Consiglio dell'ordine, tra gli avvocati
iscritti da almeno cinque anni nell'albo dell'ordine
circondariale che non hanno subito negli ultimi cinque anni
condanne definitive comportanti la sospensione dall'albo e
che, prima della trasmissione del fascicolo, hanno reso una
dichiarazione di disponibilità al Consiglio stesso.
L'articolo 3 del dm ormai in dirittura stabilisce una
riduzione del 30% dei parametri relativi ai compensi in
favore degli arbitri, previsti dall'art. 10 del dm Giustizia
10.03.2014. n. 55 (determinazione dei parametri per la
liquidazione dei compensi per la professione forense). La
riduzione, come si legge nella relazione ministeriale, mira
a garantire un significativo (e dunque incentivante) effetto
di calmiere sui costi che le parti devono sopportare per la
remunerazione degli arbitri.
L'altro obiettivo è garantire una effettiva rotazione
nell'assegnazione degli incarichi arbitrali. Il dm
disciplina la formazione di un elenco degli arbitri, a cura
del presidente del Consiglio dell'ordine. Nell'elenco sono
iscritti, con suddivisione in aree che coprono lo spettro
delle materie civili (si veda tabella in pagina) gli
avvocati che hanno reso la relativa dichiarazione di
disponibilità documentando le proprie competenze
professionali e la sussistenza dei requisiti di anzianità e
di onorabilità (iscrizione da almeno cinque anni nell'albo
dell'ordine circondariale; non aver subito negli ultimi
cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione
dall'albo).
La designazione dell'arbitro da parte del presidente del
Consiglio dell'ordine all'interno dell'area professionale di
riferimento, o la sua sostituzione, sono operate in via
automatica, con rotazione, da appositi sistemi
informatizzati. Il Consiglio di stato chiede tuttavia nel
parere che venga meglio specificata la situazione in cui in
cui gli arbitri sono individuati concordemente dalle parti,
e ciò «anche in considerazione di possibili interferenze
tra concorde individuazione dalle parti e assegnazione
presidenziale, con incidenza (consapevoli o meno gli
interessati) sulla effettiva rotazione delle assegnazioni»
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2016). |
TRIBUTI:
Imbullonati, addio Imu e Tasi. Entro il 15 giugno
la denuncia di variazione in catasto.
FISCALITÀ LOCALE/ Circolare delle Entrate sulle novità
della legge di Stabilità.
Imu e Tasi più leggere per le industrie. I macchinari
imbullonati non rientrano più nel calcolo della rendita
catastale e non sono più soggetti alle imposte locali.
Turbine, aerogeneratori, altoforni, grandi trasformatori e
altri impianti funzionali al processo produttivo, infatti,
non devono essere presi in esame nel processo estimativo di
industrie, centrali o stazioni elettriche e non
contribuiscono più alla determinazione della rendita
catastale dei fabbricati di categoria D ed E. Già da
quest'anno la nuova regola comporterà una riduzione delle
imposte locali, se i titolari degli immobili interessati
presenteranno una dichiarazione di variazione in catasto
entro il prossimo 15 giugno.
Lo afferma l'Agenzia delle entrate con la
circolare
01.02.2016 n. 2/E.
Dal 1° gennaio scorso come previsto dall'articolo 1
della legge di Stabilità 2016 (208/2015) i macchinari
imbullonati non concorrono alla determinazione della rendita
catastale per i fabbricati a destinazione speciale iscritti
nelle categorie D ed E e non sono più soggetti a
imposizione. In particolare, precisa l'Agenzia, l'art. 1, co.
21, «ridefinisce l'oggetto della stima catastale per gli
immobili» e prevede quali «siano gli elementi -tipicamente
di natura impiantistica- da escludere da detta stima, in
quanto funzionali solo allo specifico processo produttivo».
L'Agenzia, però, chiarisce che non si tratta di una norma di
interpretazione autentica con effetti retroattivi per gli
anni pregressi. Per assicurare un'uniformità di trattamento
tra le unità immobiliari già iscritte in catasto e quelle di
nuova costruzione, si dà la possibilità di presentare atti
di aggiornamento catastale per ricalcolare la rendita degli
immobili già censiti «attraverso lo scorporo di quegli
elementi che, in base alla nuova previsione normativa, non
costituiscono più oggetto di stima catastale». Gli effetti
fiscali delle variazioni catastali retroagiscono al 01.01.2016, «laddove presentate in catasto entro il 15.06.2016, ancorché registrate in banca dati in data
successiva al predetto termine».
Dal 2016, dunque, sono esclusi dalla stima diretta catastale
macchinari, congegni, attrezzature e altri impianti,
funzionali al processo produttivo. Ricorda la circolare che
non devono più essere considerate «quelle componenti, di
natura essenzialmente impiantistica, che assolvono a
specifiche funzioni nell'ambito di un determinato processo
produttivo e che non conferiscono all'immobile una utilità
comunque apprezzabile, anche in caso di modifica del ciclo
produttivo svolto al suo interno».
Componenti da non
valutare «indipendentemente dalla loro rilevanza
dimensionale». Va invece incluso nella stima catastale il
suolo, vale a dire la porzione di terreno su cui ricade
l'unità immobiliare. Quindi, le aree coperte, il sedime
delle costruzioni costituenti l'unità immobiliare, nonché le
aree scoperte, accessorie e pertinenziali. Allo stesso modo
vanno valutate le costruzioni e gli elementi strutturalmente
connessi come, ad esempio, impianti elettrici e di
areazione, ascensori, montacarichi e scale mobili. Nel
concetto di costruzioni, si legge nella circolare, rientra
«qualsiasi opera edile avente i caratteri della solidità,
della stabilità, della consistenza volumetrica, nonché della
immobilizzazione al suolo, realizzata mediante qualunque
mezzo di unione, e ciò indipendentemente dal materiale con
cui tali opere sono realizzate».
Con quest'ultimo intervento legislativo viene superata del
tutto la previsione contenuta nell'art. 1, comma 244, della
legge di Stabilità 2015 (190/2014) che aveva indicato le
modalità tecnico-estimative per la determinazione della
rendita catastale delle unità immobiliari destinate alle
attività industriali e aveva previsto che, nelle more
dell'attuazione delle disposizioni relative alla revisione
della disciplina del sistema estimativo del catasto dei
fabbricati, l'art. 10 del rdl 652/1939 si applicasse in base
alle istruzioni fornite dall'Agenzia del territorio con
circolare 6/2012.
Questa aveva dettato le linee per individuare e valutare le
componenti impiantistiche aventi rilevanza catastale. Per
gli impianti eolici, per esempio, in passato l'Agenzia
(circolare 14/2007) aveva ritenuto elementi costitutivi
edifici, aree, generatori della forza motrice, dighe, canali
adduttori o di scarico, rete di trasmissione e di
distribuzione merci
(articolo ItaliaOggi
del 02.02.2016). |
VARI:
Da oggi cani e gatti sono impignorabili.
Da oggi cani e gatti impignorabili. Entra in vigore la legge
n. 221 del 28/12/2015, pubblicata in G.U. n. 13 del
18/01/2016, che con l'art. 77 modifica l'art. 514 cpc,
introducendo anche gli animali (n. 6-bis - 6-ter) tra i beni
mobili assolutamente impignorabili.
Lo segnala in una nota
l'Associazione amici veri-Associazione a tutela degli
animali domestici, aderente a Confedilizia. Interessati
dall'impignorabilità sono «gli animali di affezione o da
compagnia tenuti presso la casa del debitore o negli altri
luoghi a lui appartenenti, senza fini produttivi, alimentari
o commerciali» e «gli animali impiegati ai fini terapeutici
o di assistenza del debitore, del coniuge, del convivente o
dei figli».
Nelle norme vigenti si ritrovano solo alcune
definizioni utili per capire se un animale rientra o meno
nelle due categorie impignorabili (fermo il requisito che
tali animali non devono essere tenuti per fini produttivi,
alimentari o commerciali).
Innanzitutto, in base alla legge
quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del
randagismo, gli animali di affezione sono cani e gatti.
Inoltre, in base al regolamento Ce 576/13 gli animali da
compagnia sono: cani, gatti, furetti e gli invertebrati
(escluse le api, i bombi, i molluschi e i crostacei); gli
animali acquatici ornamentali definiti dalla direttiva
2006/88/CE; anfibi; rettili; uccelli (esemplari di specie
avicole diverse da quelle di cui all'art. 2, direttiva
2009/158/CE); mammiferi (roditori e conigli diversi da
quelli destinati alla produzione alimentare).
Ai sensi
dell'Accordo 6/2/2003 tra minsalute e regioni in materia di
benessere degli animali da compagnia e pet-therapy è animale
da compagnia o affezione «ogni animale tenuto, o destinato a
essere tenuto, dall'uomo, per compagnia o affezione senza
fini produttivi o alimentari, compresi quelli che svolgono
attività utili all'uomo, come il cane per disabili, gli
animali da pet-therapy, da riabilitazione, e impiegati nella
pubblicità. Gli animali selvatici non sono considerati
animali da compagnia».
Tale definizione è sovrapponibile e
più ampia rispetto a quella della Convenzione europea per la
protezione degli animali da compagnia di Strasburgo («ogni
animale tenuto, o destinato ad essere tenuto dall'uomo, in
particolare presso il suo alloggio domestico, per suo
diletto e compagnia»)
(articolo ItaliaOggi
del 02.02.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Blocco dei dirigenti, i Comuni puntano
sull’esclusione. Personale. Applicazione incerta.
Possibilità di assumere dirigenti a
tempo indeterminato e non applicazione ai Comuni e alle
regioni del vincolo a dichiarare indisponibili i posti
dirigenziali vacanti alla data del 15.10.del 2015.
Sono questi i
principali chiarimenti che l’Anci sollecita alla Funzione
pubblica sulla applicazione delle disposizioni della legge
di stabilità 2016 sul personale.
Disposizioni in cui le
richieste dell’associazione sono state accolte per gli
ampliamenti delle capacità di assunzione offerte ai Comuni
nati a seguito di fusioni e alle Unioni e per la conferma
delle norme dettate in questa materia per gli enti non
soggetti al Patto di stabilità. Le regole ampliano gli spazi
di flessibilità nelle amministrazioni di ridotte dimensioni,
anche se si deve annotare lo scarso coordinamento delle
misure dettate in materia di Unioni, nei cui confronti sono
posti sia il tetto di spesa per le nuove assunzioni del 100%
dei cessati dell’anno precedente sia il tetto della
sostituzione integrale del turn-over.
I chiarimenti
richiesti dall’Anci dovrebbero arrivare rapidamente, e si
registrano aperture sulle interpretazioni proposte dagli
enti locali.
Il dubbio principale riguarda la possibilità di effettuare
assunzioni a tempo indeterminato di dirigenti da parte degli
enti locali e delle regioni. Il dubbio nasce dal fatto che
la legge, al comma 228, nel limitare al 25% del risparmi
derivanti dalle cessazioni dell’anno precedente il tetto di
spesa per le assunzioni a tempo indeterminato, stabilisce
che esse riguardino il «personale di qualifica non
dirigenziale». Non essendo state abrogate le disposizioni
che fissavano in una misura più elevata il tetto di spesa
per le nuove assunzioni, l’Anci ritiene che il nuovo limite
non operi per le assunzioni dei dirigenti, per i quali sono
da ritenere di conseguenza confermati i tetti più elevati
previsti dalla precedente normativa.
La seconda incertezza è sull’ambito di applicazione del
comma 219 che impone di considerare indisponibili gli
incarichi dirigenziali non coperti alla data del 15.10.2015.
Se è vero che la disposizione prevede l’applicazione a tutte
le Pa, l’Anci punta a escludere dal raggio d’azione le
regioni e agli enti locali. Gli argomenti non mancano.
In
primo luogo, esiste una norma specifica per queste
amministrazioni, il comma 221, che detta peraltro solo
vincoli di principio. I principi affermati in modo
consolidato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale,
poi, ribadiscono che i vincoli dettati a regioni ed enti
locali devono lasciare loro ampia autonomia nelle modalità
di applicazione. C’è poi il riferimento legislativo alle
amministrazioni che hanno effettuato le razionalizzazioni
previste dal Dl 95/2012, cioè le sole amministrazioni
statali, e il richiamo alla dirigenza di prima e seconda
fascia che esiste solamente nelle amministrazioni statali.
Si può ritenere acquisita la lettura per cui i vincoli
dettati alla dirigenza non si applicano al conferimento di
incarichi dirigenziali ai titolari di posizione
organizzativa negli enti privi di dirigenti: il riferimento
legislativo va infatti a coloro che sono inquadrati con il
contratto dei dirigenti.
Rimangono aperti i dubbi sulla interpretazione della sezione
autonomie della Corte dei Conti (deliberazione n. 27/2015),
in base alla quale gli enti non devono avere aumentato
rispetto al triennio 2011/2013 l’incidenza della spesa del
personale sulla spesa corrente: una lettura che blocca le
amministrazioni locali che hanno ridotto la spesa
d’esercizio.
In materia di assunzioni si deve considerare acquisita la
possibilità di continuare a utilizzare i resti derivanti
dalla mancata integrale utilizzazione delle capacità
assunzionali del triennio precedente: il riferimento del
comma 228 ai soli spazi offerti per il 2016 non è infatti
accompagnato dall’abrogazione della relativa disposizione.
Si deve infine ritenere certo che i Comuni cd virtuosi in
cui il rapporto tra spesa del personale e spesa corrente è
inferiore al 25% possano nel 2016 disporre di una capacità
assunzionale che arriva al 100% dei risparmi derivanti dalle
cessazioni, in quanto la disapplicazione di questo regime di
favore opera solamente per gli anni 2017 e 2018 (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.02.2016). |
VARI:
Dalle omesse ritenute alle false dichiarazioni,
sanzioni pesanti. Il dlgs di
depenalizzazione in vigore dal 6 febbraio cambia le regole
per i datori di lavoro.
Reati cancellati ma sanzioni più onerose: è questo l'effetto
prodotto dal decreto legislativo 15.01.2016 n. 8 che, in
attuazione della legge delega n. 67/2014, entrerà in vigore
il prossimo 6 febbraio e che degrada alcune rilevanti
fattispecie criminose a illecito amministrativo.
In attesa delle prevedibili istruzioni ministeriali, ecco il
quadro delle novità riguardanti la disciplina dei rapporti
di lavoro.
In linea generale il decreto prevede una generica
depenalizzazione di tutte le violazioni (non soltanto
riferibili al mondo del lavoro ma anche ad altri e diversi
settori) per le quali è prevista la sola pena della multa o
dell'ammenda.
Sono pure coinvolti nel processo di depenalizzazione i reati
che, nelle ipotesi aggravate, sono puniti con la pena
detentiva sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria.
In tal caso, le ipotesi aggravate vanno considerate
fattispecie autonome di reato.
Il provvedimento fa espressamente salvi dalla trasformazione
in illeciti amministrativi alcuni reati socialmente
deplorevoli in materia di igiene e sicurezza (elencati
nell'allegato al provvedimento) come quelli previsti dal
dlgs n. 81/2008 (testo unico in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), dalla legge
n. 257/1992 (norme relative alla cessazione dell'impiego
dell'amianto) e dalla legge n. 1045/1939 (condizioni per
l'igiene e l'abitabilità degli equipaggi a bordo delle navi
mercantili nazionali).
L'intervento di depenalizzazione, quindi, implicitamente
coinvolge:
• le esternalizzazioni di manodopera e le attività di
ricerca e selezione del personale disciplinate dal dlgs n.
276/2003 attuativo della legge Biagi;
• alcuni adempimenti nei riguardi degli enti e istituti
previdenziali quali il rilascio di false dichiarazioni o
atti fraudolenti finalizzate a ottenere prestazioni
previdenziali, i trattamenti di disoccupazione in edilizia e
le prestazioni economiche per malattia e per maternità;
• alcune violazioni relative alle malattie professionali
previste nel Tu degli infortuni sul lavoro (dpr n.
1124/1965) tra cui, a titolo esemplificativo e non
esaustivo, l'art. 139 (riguardante l'obbligo, per il medico
di effettuare la denuncia delle malattie professionali) e
quelle contenute negli artt. 175 e 176 (contenenti le
disposizioni per la silicosi e l'asbestosi);
• le violazioni riguardanti il collocamento obbligatorio dei
massaggiatori e massofisioterapisti ciechi previste dalla
legge n. 686/1961;
• le violazioni riguardanti la parità di trattamento tra
uomo e donna previste dal dlgs n. 198/2006.
Per quanto riguarda il versamento delle ritenute
previdenziali, l'art. 3, comma 6, del dlgs n. 8/2016
interviene, inoltre, sostituendo il testo dell'art. 2, comma
1-bis, del dl n. 463/1983 (convertito con modificazioni
nella legge n. 638/1983) che contiene le sanzioni previste
in caso di omesso versamento, da parte del datore di lavoro,
della quota di contributi previdenziali a carico dei
lavoratori (ivi compresi quelli relativi ai co.co.co.
iscritti alla gestione separata ex legge n. 335/1995).
L'originaria disposizione puniva con la reclusione fino a 3
anni e con la multa fino a 1.032 euro il datore di lavoro
che operava le ritenute previdenziali previste dalla legge
sulle retribuzioni dei suoi dipendenti, senza provvedere al
conseguente versamento all'Inps.
Il testo novellato dal decreto distingue la sanzione in base
al valore dell'omissione: se l'importo non versato resta nel
limite di 10 mila euro per anno, al trasgressore si
applicherà una mera sanzione amministrativa da 10 mila a 50
mila euro; viene, invece, confermata la sanzione penale
della reclusione fino a 3 anni congiunta alla multa fino a
euro 1.032 in caso di omessi versamenti che eccedono la
soglia annua di 10 mila euro.
Si fa presente che per questa particolare violazione il
datore di lavoro non è comunque punibile (né penalmente né
amministrativamente) se versa quanto dovuto entro tre mesi
dalla contestazione o dalla notifica dell'accertamento della
violazione.
Nella tabella si elencano le ipotesi di prossima
depenalizzazione che, con maggiore frequenza, si possono
verificare nell'ambito della gestione dei rapporti di
lavoro.
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Reati non definiti, effetto retroattivo.
Alle nuove sanzioni si applicano le
disposizioni previste dalla legge n. 689 del 1981.
Pur entrando in vigore il prossimo 6 febbraio, le nuove
sanzioni avranno efficacia retroattiva. Poiché, difatti, il
dlgs n. 8/2016 interviene nell'ambito della disciplina
penale, vige in proposito il principio del favor rei secondo
il quale se la legge in vigore al momento in cui è commessa
la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni
diverse, si applica la legge più favorevole, salvo che il
provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo per
effetto di sentenza o decreto irrevocabili.
Il secondo comma dell'art. 8 del decreto precisa, peraltro,
che se i procedimenti penali per i reati così depenalizzati
sono stati definiti prima del 6 febbraio con sentenza di
condanna o decreto, il giudice dell'esecuzione procederà
alla revoca del relativo provvedimento dichiarando che il
fatto non è più previsto dalla legge come reato e, per
effetto dell'abolitio criminis prevista dall'art. 2
del codice penale, travolgerà anche il giudicato e gli
effetti penali della condanna, adottando i conseguenti
provvedimenti in ossequio a quanto previsto dall'art. 667,
co. 4, del codice di procedura penale.
Per i procedimenti penali non ancora definiti al 6 febbraio
p.v., invece, l'autorità giudiziaria, entro 90 giorni dalla
data di entrata in vigore del decreto, trasmetterà
all'autorità amministrativa competente gli atti delle
violazioni depenalizzate (salvo che il reato risulti
prescritto o estinto per altra causa alla medesima data). In
questo caso l'art. 9, comma 4, del decreto prevede che
l'autorità amministrativa così interessata proceda alla
notifica degli estremi della violazione al trasgressore e
all'eventuale obbligato in solido entro 90 giorni dalla
ricezione degli atti (per i soggetti residenti in Italia)
ovvero entro 370 giorni (per i residenti all'estero).
In
questi casi l'art. 9, comma 5, del decreto prevede che, per
estinguere il procedimento sanzionatorio pendente, il
trasgressore paghi una sanzione pari alla metà di quella
edittale (oltre alle spese del procedimento) entro 60 giorni
dalla notificazione della violazione. A proposito di
competenza, l'art. 7, comma 1, precisa che l'autorità
amministrativa deputata a irrogare le sanzioni
amministrative così depenalizzate sia la stessa che poteva
accertare i previgenti reati quindi, nei casi di che
trattasi, le direzioni territoriali del lavoro (a breve
ispettorati territoriali del lavoro); analogo discorso vale
ovviamente per la trasmissione del rapporto previsto in caso
di mancato pagamento ai sensi dell'art. 17 della legge n.
689/1981.
Per quanto riguarda le regole e le modalità con le quali
procedere all'applicazione delle sanzioni amministrative
così depenalizzate, l'art. 6 del decreto in esame richiama i
principi contenuti nella legge n. 689/1981 (es.
contestazione e notificazione, pagamento in misura ridotta,
presentazione degli scritti difensivi, audizione, emissione
dell'ordinanza, opposizione all'ordinanza-ingiunzione,
pagamento rateale della sanzione, prescrizione quinquennale
ecc.).
In linea generale si ritiene, inoltre, applicabile a tali
sanzioni la procedura premiale della diffida obbligatoria
prevista dall'art. 13 del dlgs n. 124/2004. Al riguardo,
tuttavia, sarà opportuno attendere le prevedibili
indicazioni che perverranno da parte della direzione
generale dell'attività ispettiva del ministero del lavoro
soprattutto per alcune violazioni (si pensi ad esempio alle
illecite esternalizzazioni) per le quali si riscontrano
profili di criticità connessi alla possibilità di sanare
materialmente le inosservanze anteriormente commesse.
---------------
La prescrizione obbligatoria.
Per tutti i reati contravvenzionali non depenalizzati si
continuerà ad utilizzare l'istituto della prescrizione
obbligatoria. Si tratta di un provvedimento impartito dal
personale ispettivo nell'esercizio delle funzioni di polizia
giudiziaria, conseguente all'accertamento di violazioni che
costituiscono reato e si applica non soltanto quando
l'inadempienza può essere sanata, ma anche nelle ipotesi di
reato a «condotta esaurita» (vale a dire nei reati
istantanei, con o senza effetti permanenti), nonché nelle
fattispecie in cui il reo abbia autonomamente provveduto
all'adempimento degli obblighi di legge sanzionati
precedentemente all'emanazione della prescrizione.
In
origine l'istituto riguardava solo i reati in tema d'igiene
e sicurezza del lavoro; successivamente questo istituto è
stato esteso a tutti i reati contravvenzionali in materia di
lavoro e legislazione sociale puniti con la sola ammenda o
con l'ammenda in alternativa all'arresto. La finalità è
quella di eliminare i pericoli gravi e immediati per la
sicurezza o per la salute dei lavoratori anche mediante
l'individuazione in positivo delle misure atte a garantire
la regolarizzazione. Le autorità legittimate ad emettere
questo provvedimento sono:
- per le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza,
gli organi di vigilanza delle Asl e il personale ispettivo
del minlavoro;
- per le contravvenzioni in materia di lavoro e legislazione
sociale, il personale ispettivo delle direzioni territoriali
del lavoro.
La prescrizione è definita «obbligatoria» in quanto deve
essere formulata in ogni caso venga accertata, da parte
dell'organo preposto, una violazione contravvenzionale
punita con l'ammenda o con l'ammenda in alternativa
all'arresto. Resta l'obbligo, in capo all'accertatore, di
riferire all'autorità giudiziaria la notizia di reato ai
sensi dell'art. 347 cpp.
Con la prescrizione l'ispettore impartisce al
contravventore, con atto scritto, le direttive per porre
rimedio alle irregolarità riscontrate, fissando un termine
(max. 6 mesi) per la regolarizzazione. Entro 60 gg. dalla
scadenza del termine, l'organo di vigilanza verifica se la
violazione è stata eliminata nei modi e nei termini
indicati.
In caso di ottemperanza il procedimento
sanzionatorio si chiude col pagamento, entro 30 gg., di una
sanzione amministrativa pari a un quarto del massimo
dell'ammenda stabilita per la contravvenzione ed il reato si
estingue. In caso di non ottemperanza, viene data, entro 90
gg., comunicazione dell'inadempimento all'A.G. e al
contravventore stesso e il procedimento penale (sospeso)
riprende il suo corso
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.02.2016). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Siti
UNESCO – Tutela – Disciplina – Previsione di una più
stringente tutela – Questione di legittimità costituzionale
– Inammissibilità.
Nel nostro ordinamento i siti UNESCO non
godono di una tutela a sé stante, ma, anche a causa della
loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme
di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e
paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il sistema
vigente, che si prefigge dichiaratamente l’osservanza dei
trattati internazionali in materia (art. 132, comma 1, del
codice dei beni culturali e del paesaggio), appresta
anzitutto una tutela di fonte provvedimentale, laddove essi
rientrino nelle categorie individuate dall’art. 136, comma
1, del codice, tra cui vi sono, appunto, i centri e i nuclei
storici (lettera c) e le bellezze panoramiche o belvedere da
cui si goda lo spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di apposizione di
vincolo in sede di pianificazione paesaggistica (art. 134,
comma 1, lettera c, del codice), come si evince anche
dall’art. 135, comma 4, ove è previsto che «Per ciascun
ambito i piani paesaggistici definiscono apposite
prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla
individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed
edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi
valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con
particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali
e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale
dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati alla tutela di
fonte legale di cui all’art. 142, comma 1, del codice dei
beni culturali e del paesaggio, se e nella misura in cui
siano riconducibili alle relative categorie tipologiche.
In presenza di un così articolato sistema di tutela (con
effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del vincolo,
sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità e trattamento
sanzionatorio), una più stringente tutela paesaggistica (ad
esempio, attraverso la previsione dei siti UNESCO tra i beni
paesaggistici sottoposti a vincolo ex lege) non appare in
alcun modo costituzionalmente necessitata, essendo riservata
al legislatore la valutazione dell’opportunità di una più
cogente e specifica protezione dei siti in questione e delle
sue modalità di articolazione
(massima tratta da www.ambientediritto.it).
---------------
Considerato in diritto.
1.− Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania,
con ordinanza del 30.01.2014, iscritta al n. 102 del
registro ordinanze 2014, ha sollevato, in riferimento
all’art. 9 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 142, comma 2 (rectius: comma 2,
lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137),
«laddove, nel prevedere la deroga al regime di
autorizzazione paesaggistica per tutte le zone A e B del
territorio comunale, tali classificate negli strumenti
urbanistici vigenti alla data del 06.09.1985, non esclude da
tale ambito operativo di deroga le aree urbane riconosciute
e tutelate come patrimonio UNESCO».
2.− Con tre successive ordinanze del 13.03.2014, iscritte
ai nn. 176 e 239 del registro ordinanze 2014 e al n. 86 del
registro ordinanze 2015, il TAR per la Campania ha sollevato
questione di legittimità costituzionale del medesimo art.
142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42
del 2004 (d’ora in avanti «codice dei beni culturali e del
paesaggio» o «codice»), con riferimento agli artt. 9 e 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione ai parametri
interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla
protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale
(d’ora in avanti «Convenzione UNESCO» o «Convenzione»),
firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia
con legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione
della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale
e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972).
Con queste ordinanze il rimettente ha anche sollevato, con
riferimento ai medesimi parametri, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 142, comma 1, del codice dei beni
culturali e del paesaggio, nella parte in cui non prevede
tra i beni paesaggistici sottoposti a vincolo ex lege i siti
tutelati dalla Convenzione (d’ora in avanti «siti UNESCO»),
ovvero degli artt. 134, 136, 139, 140 e 141 del codice,
nella parte in cui non prevedono per i medesimi siti un
obbligo in capo all’amministrazione di apposizione in via provvedimentale del vincolo paesaggistico.
3.– Va disposta la riunione dei giudizi, attesa la parziale
coincidenza dei parametri e dell’oggetto degli atti di
rimessione.
4.– Le questioni sollevate con le ordinanze iscritte ai nn.
176 e 239 del 2014 e al n. 86 del 2015 sono inammissibili in
ragione della loro alternatività irrisolta o “ancipite”
(sentenze n. 248 e n. 198 del 2014, n. 87 del 2013, n. 328
del 2011, n. 230 e n. 98 del 2009; ordinanze n. 41 del 2015,
n. 176 del 2013 e n. 265 del 2011).
Le ordinanze, infatti, prospettano le questioni in via
alternativa e non subordinata, ed è noto che l’opzione per
l’una o le altre non può essere rimessa a questa Corte
(sentenze n. 248 del 2014 e n. 87 del 2013).
5.– Anche la questione sollevata con l’ordinanza iscritta al
n. 102 del 2014 è inammissibile, in quanto rivolta ad
ottenere una pronuncia additiva e manipolativa non
costituzionalmente obbligata in una materia rimessa alla
discrezionalità del legislatore (sentenze n. 248 del 2014 e
n. 87 del 2013; ordinanze n. 176 e n. 156 del 2013).
5.1.– Il rimettente ritiene che il sistema attuale non
garantisca una protezione adeguata ai siti UNESCO, come
sarebbe reso evidente dal caso del centro storico di Napoli
(inserito nella lista del patrimonio mondiale nel 1995), per
il quale il procedimento amministrativo volto alla
dichiarazione dell’interesse paesaggistico non risulta
ancora portato a compimento; censura, pertanto, l’art. 142,
comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del codice, nella
parte in cui non dispone che la deroga ai vincoli legali del
comma 1 –deroga prevista per il cosiddetto territorio
urbano– non operi per tali siti.
Ciò determinerebbe la violazione dell’art. 9 Cost., atteso
che, in presenza del riconoscimento del valore eccezionale
del bene paesaggistico con la sua inclusione nella lista del
patrimonio mondiale dell’UNESCO, la deroga lederebbe il bene
paesaggio, che è un valore primario della Repubblica,
assoluto e non disponibile.
5.2.– Al solo fine di argomentare la necessità di una più
stringente tutela paesaggistica per i beni in oggetto, il
rimettente, pur non indicando l’art. 117, primo comma, Cost.
quale parametro a sostegno della questione sollevata, fa
riferimento agli artt. 4 e 5 della Convenzione UNESCO.
6.− Gli artt. 1 e 2 della Convenzione forniscono la
definizione dei due grandi pilastri concettuali su cui essa
poggia: rispettivamente, «il patrimonio culturale», che
ricomprende monumenti, agglomerati e siti, e il «patrimonio
naturale», che ricomprende monumenti naturali, formazioni
geologiche e fisiografiche, zone costituenti habitat di
specie animali e vegetali minacciate, siti naturali o zone
naturali. Queste diverse tipologie di beni (“siti” in senso
lato) sono accomunate dalla circostanza di presentare un
valore (storico, artistico, estetico, estetico-naturale,
scientifico, conservativo, etnologico o antropologico)
«universale eccezionale».
Dal canto loro, gli artt. 4 e 5 della Convenzione pongono,
sì, degli obblighi in capo agli Stati firmatari, tra cui
spicca, per quanto qui rileva, quello di garantire
«l’identificazione, protezione, conservazione,
valorizzazione e trasmissione alle generazioni future del
patrimonio culturale e naturale» situato sul loro
territorio, ma lasciano anche liberi gli Stati medesimi di
individuare «i provvedimenti giuridici, scientifici,
tecnici, amministrativi e finanziari adeguati per
l’identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione
e rianimazione di questo patrimonio».
6.1.– Nel nostro ordinamento i siti UNESCO non godono di una
tutela a sé stante, ma, anche a causa della loro notevole
diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione
differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici,
secondo le loro specifiche caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il sistema
vigente, che si prefigge dichiaratamente l’osservanza dei
trattati internazionali in materia (art. 132, comma 1, del
codice dei beni culturali e del paesaggio), appresta
anzitutto una tutela di fonte provvedimentale, laddove essi
rientrino nelle categorie individuate dall’art. 136, comma
1, del codice, tra cui vi sono, appunto, i centri e i nuclei
storici (lettera c) e le bellezze panoramiche o belvedere da
cui si goda lo spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di apposizione di
vincolo in sede di pianificazione paesaggistica (art. 134,
comma 1, lettera c, del codice), come si evince anche
dall’art. 135, comma 4, ove è previsto che «Per ciascun
ambito i piani paesaggistici definiscono apposite
prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla
individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed
edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi
valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con
particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali
e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale
dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati alla tutela di
fonte legale di cui all’art. 142, comma 1, del codice dei
beni culturali e del paesaggio, se e nella misura in cui
siano riconducibili alle relative categorie tipologiche.
6.2.– In presenza di un così articolato sistema di tutela
(con effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del
vincolo, sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità e
trattamento sanzionatorio), la soluzione invocata dal
rimettente non appare in alcun modo costituzionalmente
necessitata, essendo riservata al legislatore la valutazione
dell’opportunità di una più cogente e specifica protezione
dei siti in questione e delle sue modalità di articolazione.
Non è un caso, del resto, che con le altre ordinanze di
rimessione il TAR Campania abbia individuato diverse sedi
per gli interventi invocati –impregiudicata la valutazione
di congruenza di ciascuno di essi con il sistema delineato
dal codice– e, in definitiva, diversi meccanismi volti a
realizzare l’obiettivo di apprestare una tutela rafforzata
ai siti UNESCO.
La questione va dunque dichiarata inammissibile, poiché
l’invocata addizione si risolverebbe in una modificazione di
sistema non costituzionalmente obbligata che, in quanto
tale, è preclusa a questa Corte (sentenze n. 10 del 2013 e
n. 252 del 2012; ordinanze n. 255, n. 240 e n. 208 del
2012).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 134, 136, 139, 140, 141 e 142,
commi 1 e 2, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), sollevate,
in riferimento agli artt. 9 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione ai parametri
interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla
protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale,
firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia con
legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione della
convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e
naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972), dal
Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con le
ordinanze iscritte ai nn. 176 e 239 del registro ordinanze
2014 e al n. 86 del registro ordinanze 2015;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 142, comma 2, lettera a), del
d.lgs. n. 42 del 2004, sollevata, in riferimento all’art. 9
della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale
per la Campania, con l’ordinanza iscritta al n. 102 del
registro ordinanze 2014
(Corte Costituzionale,
sentenza
11.02.2016 n. 22). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
necessario il previo rilascio del permesso di costruire per
le canne fumarie, rientrandosi nella categoria dei lavori di
ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1,
lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite
inserimento di nuovi elementi ed impianti, qualora tali
strutture non si presentino di piccole dimensioni, siano di
palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma
dell’immobile e non possano considerarsi un elemento
meramente accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell’immobile.
Mentre l’intervento di mera sostituzione di una canna
fumaria, con le stesse dimensioni e identica localizzazione
rispetto alla precedente, va considerato di manutenzione
straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b) del
d.P.R. n. 380 del 2001, soggetto quindi a dia ai sensi
dell’art. 22, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001.
E’ anche vero peraltro che in taluni casi, avuto riguardo
all’entità, minima, dell’intervento, si può rientrare nel
campo di applicazione di cui all’art. 3, comma 1, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui sono interventi di
manutenzione ordinaria gli interventi edilizi che riguardano
le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle
finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o
mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
---------------
3. L’appello è fondato e va accolto con riferimento ai
motivi sub 2) e 5).
In via preliminare e in termini generali è esatto che nel
caso delle canne fumarie la giurisprudenza considera
necessario il previo rilascio del permesso di costruire,
rientrandosi nella categoria dei lavori di ristrutturazione
edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del
d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di
nuovi elementi ed impianti, qualora tali strutture non si
presentino di piccole dimensioni, siano di palese evidenza
rispetto alla costruzione e alla sagoma dell'immobile e non
possano considerarsi un elemento meramente accessorio,
ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale,
come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura
dell'immobile; e che ritiene occorrente il permesso di
costruire tutte le volte in cui venga in rilievo un
intervento che, per dimensioni, altezza e conformazione,
risulti incidere in modo significativo sul prospetto e sulla
sagoma della costruzione sulla quale la canna fumaria è
installata; mentre l’intervento di mera sostituzione di una
canna fumaria, con le stesse dimensioni e identica
localizzazione rispetto alla precedente, va considerato di
manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1,
lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001, soggetto quindi a dia
ai sensi dell’art. 22, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001,
con conseguente perseguibilità dell’intervento compiuto in
assenza di titolo in base a quanto prevede l'art. 19 della
legge della Regione Lazio 11.08.2008, n. 15 -interventi
eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio
attività, in base al quale in casi come quelli suindicati si
applica una sanzione pecuniaria da un minimo di
millecinquecento euro ad un massimo di 15 mila euro, in
relazione alla gravità dell'abuso.
E’ anche vero peraltro che in taluni casi, avuto riguardo
all’entità, minima, dell’intervento, si può rientrare nel
campo di applicazione di cui all’art. 3 comma 1, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui sono interventi di
manutenzione ordinaria gli interventi edilizi che riguardano
le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle
finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o
mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
Questo è senz’altro vero in termini generali.
Peraltro, la giurisprudenza sulla necessità di un titolo
edilizio in materia e sulla conseguente legittimità di
un’ingiunzione di pagamento di una sanzione pecuniaria nel
caso d’intervento effettuato in assenza o in difformità dal
titolo edilizio previsto, non sembra poter trovare
applicazione nel caso –per vero del tutto peculiare-
sottoposto all’esame del collegio.
3.1. Nella fattispecie, riconosciuta, in via preliminare, e
doverosamente, la non piena perspicuità della situazione di
fatto quale emerge dagli atti e dai documenti di causa, con
riferimento alla data dell’adozione del provvedimento
impugnato (giugno 2009) sembra(va) venire in questione, come
del resto era stato rilevato dal Tar nella fase cautelare
(v. sopra, p. 1.), non la già avvenuta realizzazione, sine
titulo, di due canne fumarie in acciaio in sostituzione
delle preesistenti, quanto invece la mera sostituzione
temporanea della parte terminale di una delle due canne
fumarie, finalizzata a migliorare la funzionalità della
stessa, e ciò in adempimento al provvedimento emesso dal
Tribunale civile di Roma in data 03.03.2008 nell’ambito
della controversia tra vicini cui si è fatto cenno sopra, al
p. 1.; con conseguente ricaduta dell’intervento,
diversamente da quanto sostiene la difesa civica, nel campo
di applicazione di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), e di
cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, vale a dire nell’àmbito
dell’attività libera.
Più in particolare, la descrizione, oggettivamente generica,
dell’intervento sanzionato –posa in opera di elementi
modulari in acciaio per la sostituzione di una preesistente
canna fumaria presumibilmente in eternit, non chiarisce con
sicurezza se si tratta della sostituzione e della rimozione
delle canne fumarie per intero o se, invece, ci si riferisca
soltanto all’intervento sulla parte terminale –a quanto
consta- di una delle due canne fumarie, quella “fessurizzata”,
in esecuzione dell’ordine del giudice civile, “essendo in
corso di perfezionamento la dia per la sostituzione
definitiva delle canne fumarie”. Intervento temporaneo
rivolto come detto al miglioramento della funzionalità
dell’impianto, in attesa della successiva sostituzione
definitiva di ambedue gli impianti.
In questo contesto d’incertezza interpretativa sull’oggetto
dell’ingiunzione impugnata, incertezza che la scarna
documentazione in atti non fa venire meno, non sembrando
d’altronde risolutiva la documentazione fotografica
prodotta, appare improprio il richiamo operato dalla difesa
civica all’orientamento giurisprudenziale, pacifico, per cui
il verbale della polizia municipale fa piena prova, fino a
querela di falso, della provenienza dell’atto dal pubblico
ufficiale che lo ha formato, delle dichiarazioni delle parti
e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come
avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
Qui infatti viene in rilievo la diversa questione
dell’interpretazione da attribuire all’ingiunzione
impugnata, se cioè essa riguardi solo la parte terminale o
la canna fumaria per intero.
Se dunque, come affermano gli appellanti, la posa in opera
di elementi modulari in acciaio era da intendersi riferita
non alla sostituzione integrale delle canne fumarie ma più
limitatamente alla manutenzione della parte terminale della
canna fumaria a scopo temporaneo di mantenimento in
efficienza e di miglioramento della funzionalità
dell’impianto; intervento eseguito nel 2008 in attesa
dell’intervento “risolutivo” di cui alla dia del 07.09.2009 e alla comunicazione 31.08.2010 di fine lavori e
certificato di collaudo; ne consegue che si fuoriesce dal
campo di applicazione di cui all’art. 19 della l.r. n. 15
del 2008. E invero, diversamente da quanto sostiene la
difesa civica in memoria, l’intervento sulla parte terminale
della canna fumaria non può essere equiparato alla
sostituzione integrale della stessa e ben può essere fatto
rientrare nella manutenzione ordinaria –attività libera ex
art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ben altra cosa, rispetto all’intervento sulla parte
terminale della canna fumaria, risulta essere la rimozione e
la successiva installazione delle due nuove canne fumarie,
che risulta essere stata eseguita nel 2009 previo rituale
deposito, presso il competente ufficio comunale, della
dichiarazione di inizio di attività (cfr. comunicazione di
fine lavori del 31.08.2010).
Di qui l’accoglimento del secondo motivo d’appello,
imperniato sui vizi di travisamento dei fatti e violazione
degli articoli 3 e 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3.2. Nonostante il carattere risolutivo delle osservazioni
esposte sopra, non pare superfluo rilevare come sia inoltre
fondato e vada accolto anche il quinto motivo d’appello,
imperniato sul difetto di motivazione circa le ragioni per
le quali, tra un importo minimo di sanzione applicabile di
1.500 euro e un massimo di 15.000, l’Amministrazione ha
stabilito di irrogare la sanzione pecuniaria nella misura
–per vero più vicina al limite superiore che a quello
inferiore- di euro 10.000.
In base all’art. 19 della l.reg. n. 15 del 2008, infatti,
nel caso d’interventi eseguiti in assenza o in difformità
dalla denuncia di inizio attività, la sanzione pecuniaria
applicabile va da un minimo di € 1.500 a un massimo di €
15.000, in relazione alla gravità dell’abuso.
Nella fattispecie, non sono state minimamente spiegate le
ragioni per le quali Roma Capitale ha deciso di applicare la
sanzione nella misura di € 10.000; non risultano esplicitati
i criteri utilizzati in concreto per quantificare la
sanzione nella misura anzidetta. Anche il richiamo alla
valutazione economica predisposta dal Servizio Urbanistica
con nota n. 39613 del 04.06.2009 non spiega nulla, posto
che la nota citata da ultimo si limita a richiamare la
tipologia di lavori eseguiti –posa in opera di elementi
modulari in acciaio per la sostituzione di una preesistente
canna fumaria presumibilmente in eternit, da perseguire ai
sensi dell’art. 19 della l.r. n. 15 del 2008, e si limita
ad aggiungere in maniera del tutto immotivata importo €
10.000.
Sul punto la sentenza parla, in modo assai generico, di
commisurazione della sanzione al valore di quanto
abusivamente costruito.
Il difetto di motivazione appare in definitiva manifesto.
In conclusione l’appello va accolto e, per l’effetto,
assorbiti gli ulteriori motivi dedotti e non esplicitamente
esaminati, in riforma della sentenza impugnata il ricorso di
primo grado va accolto e la determinazione impugnata
annullata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.02.2016 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Silenzio-assenso
per il nulla osta richiesto ad un Ente parco, il Consiglio
di Stato rinvia all'Adunanza plenaria.
Il
Consiglio di Stato, esaminando la disciplina in materia di
nulla osta dell'Ente parco, preso atto che:
►
l’art 13, comma 1,
della legge n. 394 del 1991 stabilisce che il rilascio di
concessioni o autorizzazioni relative ad interventi,
impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al
preventivo nulla osta dell'Ente parco, da rendersi entro il
termine di sessanta giorni dalla richiesta, decorso il quale
il nulla osta si intende rilasciato;
►
l’art. 20, comma 1,
della legge n. 241 del 1990 prevede che nei procedimenti ad
istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda se la
medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel
termine di cui all'art. 2, commi 2 o 3, della stessa legge
n. 241 del 1990, il provvedimento di diniego ovvero non
procede con la convocazione della conferenza di servizi ai
sensi del comma 2 dello stesso art. 20;
►
l'art. 20, comma 4,
della legge n. 241 del 1990 stabilisce tuttavia che la
disciplina di cui allo stesso articolo non si applica agli
atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico e l'ambiente;
►
fra le
suddette disposizioni (art. 13 legge n. 394 del 1991 e art.
20 legge n. 241 del 1990) intercorre un’antinomia, per
sciogliere la quale le Sezioni del Consiglio di Stato hanno
fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal modo a
soluzioni opposte;
ha disposto il deferimento della questione all'Adunanza
Plenaria
(commento tratto da http://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
1. La società To.Im. ha acquistato nel Comune di Montecompatri dei terreni, confinanti con altri destinati
dal piano particolareggiato c.d. “Molare” ad area
direttamente edificabile con destinazione residenziale, con
possibile rilascio del permesso di costruire per
l’edificazione di un complesso commerciale-residenziale.
In relazione alle superfici acquistate (in parte destinate a
verde pubblico, in parte edificabili, ma con diritti
edificatori ceduti ai terreni confinanti), in data 05.04.2012 i proprietari dell’epoca, in seguito danti causa della
società, hanno presentato un programma integrato di
intervento -in variante sia del P.R.G. che del P.P.- per
la variazione della destinazione da verde pubblico a
residenziale e la realizzazione di un ulteriore complesso
commerciale-residenziale.
L’Ente parco regionale dei Castelli romani, nel perimetro
del quale ricadono alcuni dei terreni interessati
dall’intervento, previo preavviso di rigetto ha negato il
proprio nulla-osta con atto n. 6081 del 10.12.2013.
La società ha impugnato il provvedimento, sostenendo che
questo sarebbe stato adottato decorso il termine di sessanta
giorni dalla ricezione della relativa richiesta, previsto
dal combinato disposto dell’art. 28, comma 1, della legge
della Regione Lazio 06.10.1997, n. 29, e dall’art. 13,
comma 1, della legge 06.12.1991, n. 394. Si sarebbe
dunque formato il silenzio-assenso, rispetto al quale l’atto
adottato dall’Ente non avrebbe i requisiti formali e
sostanziali dell’atto di autotutela. Il provvedimento
sarebbe inoltre viziato per vizio di motivazione, difetto di
istruttoria e di motivazione.
Con sentenza 06.08.2014, n. 8744, il TAR per il Lazio,
sez. II-quater, ha respinto il ricorso. Il Tribunale
regionale ha ritenuto che, a fronte delle oscillazioni
giurisprudenziali, fosse decisiva nel senso della necessità
del provvedimento espresso, trattandosi di immobile
sottoposto a vincolo ambientale e paesistico, la recente
modifica apportata all’art. 20 del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. testo unico
dell’edilizia) dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, nella legge
09.08.2013, n. 98). Nella specie, inoltre, mancherebbe
tutta la documentazione necessaria, sicché anche per questa
ragione il silenzio-assenso non potrebbe darsi per formato.
Sarebbero inoltre infondate le ulteriori censure.
La società ha interposto appello contro la sentenza e ha
anche formulato una domanda cautelare, che la Sezione ha
respinto con ordinanza 19.11.2014, n. 5334.
L’appellante ricostruisce anzitutto la complessa vicenda
amministrativa, che ha coinvolto una pluralità di soggetti
pubblici, e ritiene non corretta la lettura che il primo
Giudice avrebbe fatto di parte della documentazione versata
in atti.
L’appellante deduce i seguenti motivi di ricorso:
I) errata ricostruzione del quadro normativo vigente.
Secondo la prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato, la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n.
394 del 1991 sarebbe tuttora in vigore in quanto, in virtù
del principio di specialità, non superata dalla successiva
novella al comma 4 dell’art. 20 della legge 07.08.1990,
n. 241;
II) in concreto, il silenzio-assenso si sarebbe formato,
perché l’Ente parco avrebbe richiesto la documentazione
integrativa a termini scaduti e questa non sarebbe stata
comunque idonea a congelare alcun termine, perché il
nulla-osta paesaggistico richiesto dall’Ente non sarebbe
stato un presupposto del parere vertendosi non in tema di
rilascio di un permesso di costruire, ma di approvazione di
una variante urbanistica;
III) formatosi il silenzio-assenso, l’Ente avrebbe potuto
semmai avviare un procedimento di autotutela in vista di un
annullamento d’ufficio a norma dell’art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990, mentre l’atto impugnato sarebbe privo
dei relativi requisiti, sostanziali e formali;
IV) violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990.
L’Ente non avrebbe preso in considerazione le
controdeduzioni svolte dalla società una volta ricevuto il
preavviso di diniego. Sul punto il TAR avrebbe omesso
qualunque decisione;
V) difetto di motivazione dell’atto. Il TAR si sarebbe
espresso in termini non corretti sulla dedotta genericità e
non pertinenza della motivazione; il diniego sarebbe
motivato del tutto genericamente e denoterebbe travisamento
della natura dell’intervento.
L’Ente parco si è costituito in giudizio per resistere al
ricorso, senza svolgere difese.
All’udienza pubblica del 17.11.2015, l’appello è stato
chiamato e trattenuto in decisione.
2. In via preliminare, il Collegio rileva che la
ricostruzione in fatto, come sopra riportata e ripetitiva di
quella operata dal giudice di prime cure, non è stata
contestata dalle parti costituite. Di conseguenza, vigendo
la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., devono
considerarsi assodati i fatti oggetto di giudizio.
3. Il primo motivo dell’appello,
nel quale si compendia il nucleo essenziale della
controversia, consiste nel discusso
avvenuto rilascio, per silenzio-assenso, del nulla-osta
richiesto all’Ente parco.
Come detto, i termini della questione non sono controversi
in punto di fatto. Si discute tuttavia quale sia norma
applicabile alla vicenda.
La tesi dell’appellante è debba valere la disposizione
dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 (espressamente
richiamata dall’art. 28, comma 1, della legge della Regione
Lazio n. 29/1997), il quale stabilisce che “il rilascio di
concessioni o autorizzazioni relative ad interventi,
impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al
preventivo nulla osta dell'Ente parco. Il nulla osta
verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del
regolamento e l'intervento ed è reso entro sessanta giorni
dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla
osta si intende rilasciato…”.
Il Tribunale territoriale ha ritenuto invece di dover far
ricorso alla disposizione generale dell’art. 20 della legge
n. 241/1990.
Questa recita:
“1. Fatta salva l'applicazione dell’articolo 19, nei
procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi il silenzio
dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di
accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori
istanze o diffide, se la medesima amministrazione non
comunica all'interessato, nel termine di cui all' articolo
2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non
procede ai sensi del comma 2.
…
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano
agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale
e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la
pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la
cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in
cui la normativa comunitaria impone l'adozione di
provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la
legge”.
4. Fra le disposizioni ricordate intercorre un’antinomia, a
sciogliere la quale le Sezioni di questo Consiglio di Stato
hanno fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal
modo a soluzioni opposte.
Un primo criterio di soluzione è stato individuato nel
criterio di specialità (sez. VI, 29.12.2008, n. 6591; adesivamente, sez. VI, 17.06.2014, n. 3407).
La tesi sostiene che la speciale forma di silenzio-assenso,
prevista a livello statale dall'art. 13 della legge n.
394/1991, non sia stata implicitamente abrogata a seguito
dell'entrata in vigore della riforma della legge n. 241 del
90 (disposta con la legge n. 80/2005).
Infatti, il novellato art. 20 della legge n. 241/1990 avrebbe
in primo luogo inteso generalizzare l'istituto del silenzio
assenso, rendendolo applicabile a tutti i procedimenti a
istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi, fatta salva l'applicazione delle ipotesi di
denuncia di inizio attività, regolate dal precedente art.
19.
Rispetto a tale generalizzazione, il comma 4 dell'art. 20
avrebbe introdotto alcune eccezioni in determinate materie,
tra cui quelle inerenti al patrimonio culturale e
paesaggistico e l'ambiente, che riguardano non
l'impossibilità in assoluto di prevedere speciali ipotesi di
silenzio-assenso, ma l'inapplicabilità della regola generale
dell'art. 20, comma 1.
In sostanza, la generalizzazione dell'istituto del silenzio
assenso non potrebbe applicarsi in modo automatico alle
materie indicate dall'art. 20, comma 4, ma ciò non
impedirebbe al legislatore di introdurre in tali materie
norme specifiche, aventi a oggetto il silenzio-assenso, a
meno che non sussistano espressi divieti, derivanti
dall'ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi
costituzionali.
Il dato testuale del comma 4 dell'art. 20 sarebbe chiaro:
"Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli
atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente ..."; l'eccezione riguarderebbe
solo "le disposizioni del presente articolo" e non potrebbe
essere estesa a disposizioni precedenti, aventi a oggetto il
silenzio assenso, rispetto alle quali i commi 1, 2 e 3
dell'art. 20 della legge n. 241/1990 nulla avrebbero innovato.
Tali disposizioni resterebbero, quindi, in vigore e, del
resto, se, come appena detto, l'art. 20, comma 4, non
impedisce l'introduzione di norme speciali, dirette a
prevedere il silenzio-assenso anche nelle materie menzionate
dal comma 4, non potrebbe che ritenersi che eventuali norme
speciali preesistenti, quali l'art. 13 della legge n.
394/1991, restino in vigore.
Tale tesi, oltre ad essere conforme al dato testuale della
disposizione, si porrebbe in linea con la stessa ratio della
riforma della legge n. 241/1990, che sarebbe stata quella di
generalizzare l'istituto del silenzio-assenso. Sarebbe
irragionevole ritenere che tale generalizzazione abbia
comportato un effetto abrogante su norme, che tale istituto
già prevedevano.
L'unico limite che le disposizioni speciali, quale quella di
cui al citato art. 13, dovrebbero rispettare è quello
derivante dai principi comunitari e costituzionali.
Tuttavia, sulla base della giurisprudenza della Corte
costituzionale e della Corte di giustizia, non si porrebbe
in contrasto con principi costituzionali o con specifiche
disposizioni comunitarie la previsione del silenzio-assenso
per il rilascio del nulla osta dell'Ente parco,
caratterizzato da un tasso di discrezionalità non elevato e
destinato a inserirsi, in un procedimento, in cui ulteriori
specifici interessi ambientali vengono valutati in modo
espresso, come in concreto avvenuto nel caso di specie
(autorizzazioni paesaggistiche, idrogeologiche,
archeologiche).
5. Un diverso criterio di soluzione privilegia invece il
canone cronologico della successione delle leggi nel tempo
(sez. IV, 28.10.2013, n. 5188; implicitamente, sez. III,
15.01.2014, n. 119; sez. IV, ord. 19.11.2014, n.
5531).
Secondo questa prospettazione, entrambe le norme avrebbero
la medesima natura procedimentale e verrebbero a
disciplinare lo stesso istituto operante in materia di
edilizia e ambienta; resterebbe, infatti, escluso che tra
esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché
questo presupporrebbe un certo grado di equivalenza tra
norme a confronto, ma che non potrebbe spingersi sino alla
sostanziale identità tra le due discipline in contrasto.
In questo secondo caso, il prospettato conflitto tra due
disposizioni, che, seppur con esiti opposti per l'istante,
disciplinano il medesimo istituto procedimentale del
silenzio-assenso, dovrebbe quindi essere risolto alla luce
della successione nel tempo tra due norme generali e
pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore
abroga la legge anteriore con essa incompatibile (art. 15
disp. prel. cod. civ.).
Non si potrebbe dunque far ricorso al principio di
specialità, che postula l'equivalenza tra le norme stesse,
ma dovrebbe necessariamente applicarsi il criterio
cronologico, in base al quale la legge successiva prevale su
quella precedente. Con la conseguenza che l'intervento
dell'art. 20 della legge n. 241/1990, come successivamente
modificato, determinerebbe che il regime del
silenzio-assenso non trovi applicazione in materia di tutela
ambientale: il diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre
il termine fissato dalla legge precedente, risulterebbe
pienamente legittimo in quanto emesso in forza di un potere
non consumatosi -in quanto esplicato nella vigenza della
nuova legge- ed il cui esercizio, dunque, non
presupporrebbe l'annullamento in autotutela di un precedente
silenzio-assenso, viceversa inesistente.
6. Alla luce del contrasto giurisprudenziale rilevato, il
Collegio ritiene opportuno sottoporre il ricorso
all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, a norma
dell’art. 99, comma 1, c.p.a..
Nel fare ciò, il Collegio non può non segnalare di reputare
più fondata la seconda delle alternative prospettate, quella
cioè per cui, a risolvere l’antinomia fra le disposizioni
richiamate, debba farsi applicazione del criterio
cronologico. E ciò, non solo per coerenza con l’orientamento
della Sezione, ma anche alla luce delle considerazioni che
seguono.
6.1. A sostegno della propria, analoga tesi, il Tribunale
regionale ha richiamato anche l’art. 30 del c.d. “decreto
del fare” (decreto-legge n. 69/2013, convertito con
modificazioni nella legge n. 98/2013) che, modificando la
disciplina per il rilascio del permesso di costruire (art.
20, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 – c.d. testo unico dell’edilizia) con
l’introdurre il silenzio-assenso sulla domanda relativa, ha
fatto salvi “i casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le
disposizioni di cui al comma 9”. Il quale comma 9 a sua
volta prevede che “qualora l'immobile oggetto
dell'intervento sia sottoposto a vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, il termine di cui al comma 6
decorre dal rilascio del relativo atto di assenso, il
procedimento è concluso con l'adozione di un provvedimento
espresso …”.
A questa osservazione l’appellante replica osservando che la
nuova norma opera solo in tema di rilascio di permesso di
costruire e non con riferimento ad ambiti di diversa natura.
Tale replica è corretta, ma trascura il rilievo che il
Collegio reputa debba darsi a un’innovazione normativa che,
pur essendo complessivamente rivolta ad ampliare e non a
restringere le ipotesi di silenzio-assenso in materia
edilizia (come rileva ancora l’appellante), ha
significativamente escluso dal proprio ambito gli interventi
su beni assistiti da vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali. Se dunque la norma non è direttamente applicabile
alla vicenda controversa, essa appare tuttavia indice non
trascurabile di una linea di tendenza del sistema normativo,
dalla quale non sembra lecito prescindere in sede di
interpretazione e ricostruzione delle disposizioni vigenti.
6.2. Ad arricchire il quadro d’assieme, va anche rammentata
la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo -per violazione dell'art.
117, secondo comma, lett. s), Cost.- l'art. 1, comma 250,
della legge della Regione Campania 15.03.2011, n. 4,
nella parte in cui prevede che “l'autorità competente
provvede entro sessanta giorni dalla ricezione della
domanda. Se detta autorità risulta inadempiente nei termini
sopra indicati, l'autorizzazione si intende temporaneamente
concessa per i successivi giorni, salvo revoca” (sentenza
18.07.2014, n. 209).
La Corte ha ritenuto che la
disposizione impugnata violasse la competenza esclusiva
statale in materia di ambiente (alla quale va ascritta la
disciplina degli scarichi in fognatura) in quanto
determinerebbe livelli di tutela ambientale inferiori
rispetto a quelli previsti dalla legge statale, segnatamente
dall'art. 124, comma 7, del decreto legislativo n. 152/2006
-che fissa, invece, il termine perentorio di novanta giorni
per la concessione dell'autorizzazione- e dall'art. 20,
comma 4, della legge n. 241/1990, che esclude
l'applicabilità del silenzio-assenso alla materia
ambientale.
Se ne potrebbe dedurre che la Corte legga l’art. 20, comma
4, citato, come portatore di una regola generale di governo
della materia ambientale, ostativa all’applicabilità delle
disposizioni sul silenzio-assenso, salve forse specifiche e
motivate eccezioni, che dovrebbero però apparire chiaramente
come tali e non essere affidate a un’operazione esegetica
controvertibile e controversa.
6.3. Per completezza, sarà infine opportuno ricordare quella
giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui
la
formazione di un silenzio-assenso in materia di paesaggio o
ambiente si pone in contrasto con i principi comunitari che
impongono l'esplicitazione delle ragioni di compatibilità
ambientale, con l'adozione di eventuali prescrizioni
correttive, sulla base di un'analisi sintetico-comparativa
per definizione incompatibile con un modulo tacito di
formazione della volontà amministrativa (cfr. sez. V, 25.08.2008, n. 4058).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta), non definitivamente pronunciando sull’appello in
epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 09.02.2016 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Vietate le celebrazioni nelle scuole.
Per il Tar Emilia Romagna, le religioni si
possono solo insegnare.
Niente riti religiosi a scuola, né cattolici né di altre
confessioni: l'esperienza religiosa va studiata, ma non
praticata in aula. Diversamente si verrebbe a realizzare una
condizione di parziarietà, intollerabile per la posizione di
equidistanza che lo Stato si è impegnato costituzionalmente
a garantire. Una recente decisione del Tar rende attuale,
per il sopravvenire delle festività pasquali, il tema della
legittimità delle funzioni religiose a scuola.
Il caso.
La questione è giunta davanti al TAR Emilia Romagna-Bologna
-Sez. I- per iniziativa di alcuni docenti, di genitori di
alunni di una scuola di Bologna e di una associazione per la
tutela della laicità e della aconfessionalità della scuola
pubblica.
Il Tar ha dato ragione ai ricorrenti censurando lo
svolgimento di un rito religioso nei locali scolastici con
la
sentenza 09.02.2016 n. 166.
La benedizione pasquale.
Alcune parrocchie avevano ottenuto da un Istituto
comprensivo bolognese l'uso di locali nei vari plessi per le
funzioni di benedizione pasquale dell'anno scorso rivolte ad
alunni genitori e docenti, ancorché in orario
extrascolastico; evento che era stato comunicato dal
dirigente scolastico con una circolare che di fatto era un
invito alla partecipazione per utenti e dipendenti. Da qui
il ricorso al giudice amministrativo per valutare la
legittimità della delibera del consiglio di istituto.
La distinzione.
Il Tar ha distinto le attività di culto religioso espresse
nelle pratiche di esercizio del credo confessionale, dai
momenti di valenza formativa e culturale che consistono nel
diffondere elementi di conoscenza e approfondimento circa le
religioni, la loro storia e le relazioni intessute con la
comunità, quali contributi per arricchire il sapere dei
cittadini ed assecondare il progresso della società.
In quest'ottica, allora, non v'è spazio per riti religiosi
nemmeno richiamando l'ipotesi dell'art. 96 del d.lgs. n.
297/94, che consente l'uso di locali scolastici fuori
dell'orario di servizio per attività che realizzino la
promozione culturale, sociale e civile e la maturazione
degli studenti. Gli incontri su temi anche religiosi
consentono, infatti, confronti e riflessioni idonee a
favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali
della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo
sacrificare la libertà religiosa o comprimere le relative
scelte.
La Costituzione.
Il principio costituzionale della laicità o
non-confessionalità dello Stato, secondo una costante
lettura della Corte costituzionale, non significa
indifferenza di fronte all'esperienza religiosa ma impone
l'equidistanza e l'imparzialità rispetto a tutte le
confessioni religiose.
Ciò fa sì che anche la tutela di questa libertà non si
risolve nell'esclusione dalle istituzioni scolastiche di
tutto ciò che riguarda il credo confessionale della
popolazione, purché l'attività formativa degli studenti si
giovi della conoscenza di fenomeni portatori di valori non
in contrasto con i principi fondanti del nostro ordinamento
e non incoerenti con le comuni regole del vivere civile, non
potendo la scuola essere coinvolta nella celebrazione di
riti religiosi che sono essi sì attinenti unicamente alla
sfera individuale di ciascuno e si rivelano quindi estranei
ad un àmbito pubblico che deve di per sé evitare
discriminazioni.
Le reazioni.
L'Usr dell'Emilia Romagna prende le distanze dalla sentenza
e con una nota del 12.02.2016 (prot. 1609, diffusa nel sito
internet) proprio in relazione alle prossime celebrazioni
pasquali annuncia che l'Avvocatura di Stato sta valutando le
ragioni di appello
(articolo ItaliaOggi
del 16.02.2016).
---------------
MASSIMA
Nel merito, va premesso che il
principio costituzionale della laicità o non-confessionalità
dello Stato, secondo una costante lettura della Corte
costituzionale, non significa indifferenza di fronte
all’esperienza religiosa ma comporta piuttosto equidistanza
e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.
Ciò fa sì che anche la tutela della libertà religiosa non si
risolve nell’esclusione totale dalle istituzioni scolastiche
di tutto ciò che riguarda il credo confessionale della
popolazione, purché l’attività formativa degli studenti si
giovi della conoscenza di simili fenomeni se ed in quanto
fatti culturali portatori di valori non in contrasto con i
principi fondanti del nostro ordinamento e non incoerenti
con le comuni regole del vivere civile, non potendo invece
la scuola essere coinvolta nella celebrazione di riti
religiosi che sono essi sì attinenti unicamente alla sfera
individuale di ciascuno –secondo scelte private di natura
incomprimibile– e si rivelano quindi estranei ad un àmbito
pubblico che deve di per sé evitare discriminazioni.
Orbene, nel fornire un fondamento normativo alla decisione
nella fattispecie assunta l’Amministrazione scolastica
invoca le previsioni di cui all’art. 96, comma 4 (“Gli
edifici e le attrezzature scolastiche possono essere
utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per
attività che realizzino la funzione della scuola come centro
di promozione culturale, sociale e civile …”) e comma 6
(“Nell’ambito delle strutture scolastiche, in orari non
dedicati all’attività istituzionale, o nel periodo estivo,
possono essere attuate, a norma dell’art. 1 della legge
19.07.1991, n. 216, iniziative volte a tutelare e favorire
la crescita, la maturazione individuale e la socializzazione
della persona di età minore al fine di fronteggiare il
rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”),
del d.lgs. n. 297 del 1994; l’Avvocatura dello Stato, in
particolare, insiste sul mero atto di disposizione
temporanea dell’uso dei locali, per un loro impiego estraneo
alle funzioni istituzionali, sì che non si tratterebbe di
iniziativa contrastante con i compiti propri dell’istituto
scolastico, il quale non sarebbe in alcun modo parte delle
attività da svolgersi in quei locali e non ne sarebbe
neppure il promotore.
In realtà –osserva il Collegio– la norma
invocata, benché in relazione ad un’utilizzazione della
struttura all’infuori dell’orario del servizio scolastico,
richiede pur sempre che si tratti di “…attività che
realizzino la funzione della scuola come centro di
promozione culturale, sociale e civile …” (comma 4),
ovvero non scinde il nesso con le attribuzioni
dell’istituzione che ha in uso i locali, ancorandone la
destinazione al raggiungimento di obiettivi che
sottintendono la piena partecipazione della comunità
scolastica, oltre che della collettività in generale, in
funzione di una crescita complessiva improntata
all’arricchimento del loro patrimonio culturale, civile e
sociale; in quest’ottica, allora, non v’è spazio per riti
religiosi –riservati per loro natura alla sfera individuale
dei consociati–, mentre ben possono esservi occasioni di
incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e
riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale,
culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle
capacità intellettuali e morali della popolazione,
soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la
libertà religiosa o comprimere le relative scelte.
Che un’invalicabile linea di confine sia a
tali fini costituita dalla circostanza che si tratti o meno
di un atto di culto religioso è del resto confermato da una
pronuncia del giudice amministrativo che, chiamato a
stabilire se dovesse riconoscersi alla visita pastorale
dell’Ordinario diocesano presso le comunità scolastiche un
effetto discriminatorio nei confronti dei non appartenenti
alla religione cattolica, ha rilevato come, alla luce della
definizione contenuta nell’art. 16 della legge n. 222 del
1985, non si trattasse di attività di culto o di cura delle
anime ma piuttosto di testimonianza culturale tesa ad
evidenziare i contenuti della religione cattolica in vista
di una corretta conoscenza della stessa, così come sarebbe
stato nel caso di audizione di un esponente di un diverso
credo religioso o spirituale
(v. Cons. Stato, Sez. VI, 06.04.2010 n. 1911).
Nella fattispecie, al contrario, è stato autorizzato un vero
e proprio rito religioso da compiersi nei locali della
scuola e alla presenza della comunità scolastica, sì che non
ricorre l’ipotesi di cui all’art. 96, comma 4, del d.lgs. n.
297 del 1994, e neppure quella di cui al successivo comma 6,
riferito al ben diverso àmbito delle iniziative
disocializzazione e stimolo della maturazione degli studenti
per “…fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei
minori in attività criminose”.
Né un fondamento normativo può l’Amministrazione scolastica
rinvenire nella disposizione di cui all’art. 1, comma 1, del
d.P.R. n. 567 del 1996 (“Le istituzioni scolastiche di
ogni ordine e grado, nell’ambito della propria autonomia,
anche mediante accordi di rete ai sensi dell’articolo 7 del
decreto del Presidente della Repubblica 08.03.1999, n. 275,
definiscono, promuovono e valutano, in relazione all’età e
alla maturità degli studenti, iniziative complementari e
integrative dell’iter formativo degli studenti, la creazione
di occasioni e spazi di incontro da riservare loro, le
modalità di apertura della scuola in relazione alle domande
di tipo educativo e culturale provenienti dal territorio, in
coerenza con le finalità formative istituzionali”).
A fronte della previsione per cui “le iniziative
complementari (…) si inseriscono negli obiettivi formativi
delle scuole …” (comma 2) e “le iniziative
integrative sono finalizzate ad offrire ai giovani occasioni
extracurricolari per la crescita umana e civile e
opportunità per un proficuo utilizzo del tempo libero …”
(comma 3), va ribadito che le attività di
culto religioso attengono alle pratiche di esercizio del
credo confessionale di ciascun individuo e restano confinate
nella sfera intima dei singoli, mentre una rilevanza
culturale, non lesiva della libertà religiosa e non
incompatibile con il principio di laicità dello Stato
–quindi non escludente quanti professano una fede religiosa
diversa o sono atei–, hanno tutte le attività che, nel
diffondere elementi di conoscenza e approfondimento circa le
religioni, la loro storia e le relazioni nel tempo intessute
con la comunità, contribuiscono ad arricchire il sapere dei
cittadini e ad assecondare in tal modo il progresso della
società. |
ESPROPRIAZIONE:
L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001
configura un procedimento ablatorio sui generis,
caratterizzato da una precisa base legale, semplificato
nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli
effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui
scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un
precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché
altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò
solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni
che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius,
consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze
pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il
mantenimento e la gestione di qualsiasi opera
dell’infrastruttura realizzata sine titulo.
----------------
1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal
provvedimento reso dal commissario ad acta -nominato in
sede di esecuzione di un giudicato- recante, nella
sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art.
42-bis d.P.R. 08.06.2011, n. 327 -Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità– (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.
1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di
esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza
irrevocabile del Tar per la Puglia - sede staccata di
Lecce, Sezione I, n. 3342 del 19.11.2008 che, in
accoglimento del ricorso proposto dalla Signora Ca.Ma.:
a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un
appezzamento di terreno (di proprietà dell’istante) in
giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che,
sebbene avesse disposto l’occupazione d’urgenza dell’area,
non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;
b) ha condannato il comune a restituire l’area, ovvero a
concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad
emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi
dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.;
c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna
fase ed i relativi adempimenti, formulando minute
prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per
equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita
della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli
accessori;
d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini
concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la
parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per
l’esecuzione della decisione;
e) ha condannato il comune alla refusione delle spese di
lite.
...
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA
PLENARIA ED I SUCCESSIVI SVILUPPI PROCESSUALI.
4.1. Con ordinanza n. 3347 del 03.07.2014, la IV Sezione
del Consiglio di Stato:
a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica,
l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43
e poi dall’art. 42-bis, t.u. espr.;
b) ha dato atto del contrasto registratosi nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità
che in sede di esecuzione del giudicato il giudice
amministrativo, direttamente o per il tramite
dell’intervento del commissario ad acta, possa o meno
ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art.
42-bis, ovvero limitarsi a sollecitare l’esercizio di tale
potere, fissando all’uopo un termine, scaduto il quale non
rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;
c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13.01.2014, nn. 441 e 442);
d) all’esplicito scopo di meglio garantire l’armonico
coordinamento (ed il rispetto) dei principi della
effettività della tutela giurisdizionale, da un lato, e
dell’autorità del giudicato, dall’altro, ha sottoposto
all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero <<se
nella fase di ottemperanza –con giurisdizione, quindi,
estesa al merito– ad una sentenza avente ad oggetto una
domanda demolitoria di atti concernenti una procedura
espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del
giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione
della procedura semplificata di cui all’art. 42-bis t.u.
espr.>>.
4.2. Con ordinanza dell’Adunanza plenaria -n. 28 del 15.10.2014– è stato sospeso il presente giudizio in
attesa della definizione delle sollevate questioni di
legittimità costituzionale.
4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n.
71 del 30.03.2015 -pubblicata nella G.U., 1° s.s., 06.05.2015 n. 18– la Corte costituzionale, in relazione ai
vari parametri evocati, ha dichiarato in parte
inammissibile, in parte infondata, ed in parte non fondata
ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità
costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis.
4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito con
l’istanza depositata in data 01.06.2015 dalla difesa
della signora Ma. ed alla camera di consiglio dell’08.10.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI
EFFETTI DELLA ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.
5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte
menzionato art. 42-bis, t.u. espr. -Utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico– come
introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011
convertito con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: <<1.
Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza
un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato
in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può
disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al
suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e
non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato
nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato
anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di
esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio per
l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del
presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto
impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente
già erogate al proprietario a titolo di indennizzo,
maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle
dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti,
l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma
1 è determinato in misura corrispondente al valore venale
del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se
l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base
delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7.
Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a
titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non
risulta la prova di una diversa entità del danno,
l'interesse del cinque per cento annuo sul valore
determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione
delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale
essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma
1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta
giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il
passaggio del diritto di proprietà sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del
comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi
dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso
la conservatoria dei registri immobiliari a cura
dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia
all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.
5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono
applicate quando un terreno sia stato utilizzato per
finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o
convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato
a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in
uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di
competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la
liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio
non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale
del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano,
in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e
il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal
titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità
amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari,
può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di
servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici,
titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che
svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei
trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di
cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta
giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia
integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì
applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore
ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato, ma deve essere
comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal
caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate
dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai
sensi del presente articolo.>>
5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito
sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile
ricostruire (limitandosi a quanto di interesse) il quadro
dei condivisibili principi che, successivamente
all’ordinanza di rimessione della IV Sezione, sono stati
elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71
del 2015 cit.), dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19.01.2015 e n.
22096 del 29.10.2015) e dal Consiglio di Stato (cfr.
sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19.10.2015; n. 4403 del
21.09.2015; n. 3988 del 26.08.2015; n. 2126 del
27.04.2015; n. 3346 del 03.07.2014), all’interno
della consolidata cornice di tutele delineata dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato
fenomeno delle <<espropriazioni indirette>> del diritto di
proprietà o di altri diritti reali (cfr., ex plurimis e da
ultimo, con riferimento all’ordinamento italiano, Corte
europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 03.06.2014, Rossi
e Variale; Sez. II, 14.01.2014, Pascucci; Sez. II, 05.06.2012, Immobiliare Cerro; Grande Camera, 22.12.2009, Guiso; Sez. II,
06.03.2007, Scordino; Sez. III, 12.01.2006, Sciarrotta; Sez. II, 17.05.2005, Scordino;
Sez. II, 30.05.2000, Soc. Belvedere alberghiera; Sez. II,
30.05.2000, Carbonara e Ventura).
5.3. In linea generale, quale che sia la sua forma di
manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa,
occupazione acquisitiva), la condotta illecita
dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non
può comportare l’acquisizione del fondo e configura un
illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente
decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla
proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul
mancato godimento del bene- che viene a cessare solo in
conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una
certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario
implicita nella richiesta di risarcimento del danno per
equivalente monetario a fronte della irreversibile
trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti
perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo
di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli
oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione
responsabile) si reintroduca una forma surrettizia di
espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del
Protocollo addizionale della Cedu (Sez. IV, n. 3988 del 2015
e n. 3346 del 2014); dunque a condizione che:
I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della
condotta;
II) si possa individuare il momento esatto della interversio
possesionis;
III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di
entrata in vigore del t.u. espr. (30.06.2003) perché
solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il
superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e
dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi
individuato, ex art. 2935 c.c., il <<….giorno in cui il
diritto può essere fatto valere>>;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.
5.4. Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit.
costituisce una delle possibili cause legali di estinzione
di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione
anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in
vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del
2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi
adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735
del 2015 cit.), giova evidenziare che:
a) la disposizione introduce una norma di natura
eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione
tradizionale che considera a tale stregua le norme
limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con
particolare riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un
potere ablatorio.
Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto
sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un bene
altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della
consequenzialità logica della disciplina generale (europea e
nazionale) di riferimento in materia di acquisizione
coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con
essa attraverso una discriminazione –pure sancita dalla
legge- del trattamento giuridico di situazioni soggettive
che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina
generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp.
prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che
sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della
proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del
valore costituzionale della funzione sociale della proprietà
privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce
il fondamento del potere attribuito alla P.A.), secondo un
approccio metodologico basato su una visione sistemica,
multilivello e comparata della tutela dei diritti, a sua
volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel
suo complesso, quale risultante dalla interazione fra norme
(interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e
sovranazionali);
b) l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio
sui generis, caratterizzato da una precisa base
legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur),
complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque
ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di
sanatoria di un precedente illecito perpetrato
dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una
espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello
autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la
pregressa occupazione contra ius, consistente nella
soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili
esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di
qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;
c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere
necessariamente da un percorso motivazionale -rafforzato,
stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose–
basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che
dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone
come extrema ratio (perché non sono ragionevolmente
praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di
alternative non può mai consistere nella generica
<<…eccessiva difficoltà ed onerosità dell’alternativa a
disposizione dell’amministrazione..>>), per la tutela di
siffatte imperiose esigenze pubbliche;
d) sono coerenti con questa impostazione:
I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto
di acquisizione sotto il profilo della misura
dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass.
civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore
venale (al momento del trasferimento, alla stregua del
criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano
somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli
ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u. espr.), maggiorato della componente non patrimoniale
(dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato),
e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di
provare autonome poste di danno;
II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei
conti in una vicenda che produce oggettivamente (e
indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di
responsabilità da accertarsi nelle competenti sedi) un
aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza
pubblica;
e) per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto
dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in
violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza
e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei
contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è
inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto
ordinamentale che -in ragione della sussistenza
dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto
tipico sull’adeguamento della situazione di fatto a quella
di diritto- prevede per il proprietario strumenti adeguati
di reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al
giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito
silenzio” (artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario
giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento
ablatorio sospettato di illegittimità (o altro giudizio
avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come
verificatosi nel caso di specie), secondo le coordinate
esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del
2015 (in particolare § 6.6.3.);
f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della
risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria,
come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento
caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità
che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione
in presenza di un giudicato che abbia disposto la
restituzione del bene al proprietario; tale elemento –valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi
principi elaborati dalla Corte di Strasburgo- si desume
implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis
nella parte in cui consente all’autorità di adottare il
provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad
oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel
corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma
non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale
giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente
restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);
g) ne consegue che la scelta che l’amministrazione è tenuta
ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle
situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis,
non concerne l’alternativa fra l’acquisizione autoritativa e
la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua
acquisizione e la non acquisizione, in quanto la concreta
restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico —cioè una mera conseguenza legale della decisione di non
acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede
procedimentale— ed essa non costituisce, né può costituire,
espressione di una specifica volontà provvedimentale
dell’autorità, atteso che, nell’adempiere gli obblighi di
diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di
qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento e non agisce
iure auctoritatis;
h) per concludere sul punto utilizzando un argomento
esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi
che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che
si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma
all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che
dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a
liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione
di acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo
pagamento di una compensazione pecuniaria), introducendo
pragmaticamente una regola di second best, da un lato,
riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione
coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di
uso routinario –causa maggiori costi, responsabilità
erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della
restituzione quale giusta causa di acquisizione del bene,
partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta
finale, motivazione esigente e rigorosa sulla impossibilità
di configurare soluzioni diverse- configurandosi come una
normale alternativa all’espropriazione ordinaria: in
quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non
rappresenta più (per usare il linguaggio della Corte di
Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance
structurelle dell’ordinamento italiano (rispetto a
quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione
adottata secondo il canone della <<buona e debita forma>>
predicato dal paradigma europeo (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 09.02.2016 n. 2 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: L'obbligo
di consegnare il certificato di agibilità grava ex lege sul
venditore, in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ., e
a ciò consegue che il rifiuto del promissario acquirente di
stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo
dei certificati di abitabilità o di agibilità e di
conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato
rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti
peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore-
è giustificato, poiché l'acquirente ha interesse ad ottenere
la proprietà. di un immobile idoneo ad assolvere la funzione
economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono
all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del
bene.
Nel caso di specie, incontestata la
circostanza che al momento della stipula del contratto
definitivo il promittente venditore non era in grado di
consegnare il certificato di agibilità, risultava legittimo
il rifiuto di stipulare dei promissari acquirenti, né
gravava su questi ultimi l'onere di allegare la circostanza
negativa che il certificato non potesse essere rilasciato,
come erroneamente ritenuto dalla Corte d'appello,
essendo nell'interesse esclusivo del
promittente venditore, ai fini della valutazione della
gravità dell'inadempimento, l'allegazione del fatto positivo
e contrario, e cioè che il certificato potesse essere
rilasciato.
---------------
La consegna del certificato di abitabilità dell'immobile
oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da
adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé
condizione di validità della compravendita, integra
un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art.
1477 cod. civ., attenendo ad un requisito essenziale della
cosa venduta, in quanto incide sulla possibilità di adibire
legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare
all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la
richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e
l'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di
datino emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere
in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con
un valore di scambio inferiore a quello che esso
diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il
bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a
terzi.
Sulla base dei principi richiamati e di quelli in tema di
inadempimento contrattuale, non è
dubitabile che l'onere di allegazione e di prova della
perdurante possibilità di procurare il certificato gravi
sulla parte che è tenuta alla consegna.
---------------
1.1. - Il ricorso principale è fondato.
1.2. - Con il primo motivo è dedotta violazione e falsa
applicazione degli artt. 1453-1460, 1477, terzo comma, 1490,
primo e secondo comma, 2932 cod. civ., nonché vizio di
motivazione. I ricorrenti si dolgono che la Corte d'appello
abbia ritenuto ingiustificato il loro rifiuto di stipulare
il contratto definitivo a fronte della mancata consegna del
certificato di agibilità dell'immobile oggetto del
trasferimento. La consegna del certificato costituiva
prestazione essenziale del promittente venditore, con la
conseguenza che erano privi di significato i rilievi della
Corte d'appello in ordine alla mancanza assunzione di uno
specifico impegno in tal senso da parte del promittente
venditore, e alla mancata deduzione, da parte dei promissari
acquirenti, dell'impossibilità di ottenere il certificato.
1.3 - La doglianza è fondata.
1.3.1. - L'obbligo di consegnare il
certificato di agibilità grava ex lege sul venditore,
in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ., e a ciò
consegue che il rifiuto del promissario acquirente di
stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo
dei certificati di abitabilità o di agibilità e di
conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato
rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti
peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore-
è giustificato, poiché l'acquirente ha interesse ad ottenere
la proprietà. di un immobile idoneo ad assolvere la funzione
economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono
all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del
bene (ex
plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 15969 del 2000;
sentenza n. 16216 del 2008).
1.3.2. - Nel caso di specie, incontestata
la circostanza che al momento della stipula del contratto
definitivo il promittente venditore non era in grado di
consegnare il certificato di agibilità, risultava legittimo
il rifiuto di stipulare dei promissari acquirenti, né
gravava su questi ultimi l'onere di allegare la circostanza
negativa che il certificato non potesse essere rilasciato,
come erroneamente ritenuto dalla Corte d'appello,
essendo nell'interesse esclusivo del promittente
venditore, ai fini della valutazione della gravità
dell'inadempimento, l'allegazione del fatto positivo e
contrario, e cioè che il certificato potesse essere
rilasciato.
2. - Con il secondo motivo è dedotta violazione e falsa
applicazione degli artt. 1453 e ss., 1218 e ss. cod. civ.,
nonché vizio di motivazione.
I ricorrenti lamentano il mancato accoglimento della domanda
di risarcimento del danno provocato dall'omessa consegna del
certificato di abitabilità relativo all'appartamento
acquistato con rogito del 05.09.2001, che Orlando si era
impegnato a consegnare con scrittura privata in pari data.
La Corte territoriale, infatti, aveva condannato St.Or. a
consegnare il certificato o, in alternativa, a rimborsare le
spese a tal fine necessarie, ed aveva motivato il rigetto
della pretesa risarcitoria sul rilievo che gli appellanti
Ca.-Si. non avevano allegato che il certificato fosse stato
rifiutato o non potesse essere rilasciato. Oltre all'erronea
applicazione dei principi in tema di onere di allegazione,
la Corte territoriale non aveva tenuto conto che Orlando non
aveva contestato la circostanza che, a distanza ormai di
molti anni, non era stata ottenuta l'abitabilità
dell'immobile.
A tale ultimo proposito, i ricorrenti precisano che il
certificato non è stato rilasciato per difetti di
costruzione dell'appartamento, e che pertanto essi sono
tenuti a far eseguire a loro spese i lavori necessari.
2.1. - La doglianza è fondata.
La Corte territoriale ha erroneamente escluso che
l'accertata mancata consegna del certificato dà abitabilità
dell'appartamento integrasse inadempimento contrattuale,
ponendo a carico degli acquirenti l'onere di dimostrare che
il certificato non potesse essere ottenuto.
2.1.1. - Come già evidenziato nell'esame del precedente
motivo, la consegna del certificato di
abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo
sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non
costituendo di per sé condizione di validità della
compravendita, integra un'obbligazione incombente sul
venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ., attenendo ad un
requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incide
sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa
all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare
all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la
richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e
l'inadempimento di questa obbligazione è ex se
foriero di datino emergente, perché costringe l'acquirente a
provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal
quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che
esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza
che il bene sia alienato o comunque destinato
all'alienazione a terzi
(ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 23157 del
2013).
2.1.2. - Sulla base dei principi richiamati e di quelli in
tema di inadempimento contrattuale, non è
dubitabile che l'onere di allegazione e di prova della
perdurante possibilità di procurare il certificato gravi
sulla parte che è tenuta alla consegna.
Nel caso di specie, la parte promittente venditrice non ha
dimostrato di poter onorare l'impegno, e quindi sussiste
l'inadempimento e, con esso, il relativo danno
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.02.2016 n. 2438). |
CONDOMINIO: Il parcheggio resta condominiale.
Immobili. Va restituito l’oggetto della vendita abusiva del
1987.
Sui parcheggi
condominiali non si transige. E anche se sono passati molti
anni dalla vendita abusiva il maltolto va restituito ai condòmini.
La
sentenza 04.02.2016 n. 2236 della Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha ripercorso una complessa vicenda nata
nel 1987. Quasi trent’anni per restituire uno spazio
destinato a posti auto.
Due condòmini avevano citato
l’acquirente dell’area contesa perché, a loro dire, il
venditore (costruttore dello stabile) aveva violato il
vincolo pubblico di destinazione relativo a un’area di
parcheggio per autovetture nel piano cantinato del
condominio, riservandosela in proprietà. La Corte d’appello
aveva dato torto all’acquirente e restituito l’area,
accertandone il diritto d’uso in capo ai due condòmini
ricorrenti, osservando che dal vincolo di legge discende
automaticamente un diritto reale d’uso in capo a chi ha
comprato le unità immobiliari dell’edificio.
La Cassazione, chiamata in causa dall’acquirente
“espropriato”, ha accolto la tesi della Corte d’appello,
affermando anzitutto che va confermata la tesi dominante,
che prevede l’attribuzione dell’area in uso comune. Poi, sul
tema della liberalizzazione della commerciabilità dei
parcheggi rispetto alle unità immobiliari condominiali,
sorta con la legge 246/2005 ha dichiarato che è possibile
«soltanto per il futuro». Quindi, dato che la sottrazione
all’uso comune era avvenuta prima del 2005, va applicata la
normativa precedente, Inoltre, ha osservato la Cassazione,
era stata venduta l’area a parcheggio senza la relativa
abitazione.
Infine, anche la libertà di vendita delle aree comunque
vigente dal 1967 riguarda solo le parti eccedenti il vincolo
e quindi, in base al ricalcolo effettuato, non poteva essere
invocata. La Cassazione ha anche condannato l’acquirente dell’area a
parcheggio a rifondere le spese di lite ai due
condòmini che hanno ottenuto l’area (articolo Il Sole 24 Ore
del 05.02.2016). |
URBANISTICA: La Regione motivi il no alla Via.
In Sardegna. Illegittima la lottizzazione di Capo Malfatano.
La discrezionalità della Regione nel decidere se
sottoporre o meno alla valutazione di impatto ambientale la
lottizzazione non la esonera dal motivare la scelta.
Le Sezioni unite
civili della Corte di Cassazione, con la
sentenza 04.02.2016
n. 2198, affermano, in linea con il Consiglio di Stato,
l’illegittimità di una serie di atti relativi
all’edificazione di una vasta area comprendente una valle,
una collina, un promontorio e una costa nella zona di Capo Malfatano in Sardegna.
Un progetto di lottizzazione su vasta scala, finalizzato
alla creazione di strutture turistiche, che aveva ottenuto
l’autorizzazione della Regione senza una Via preventiva.
Contro la decisione del consiglio Stato avevano fatto
ricorso la Società iniziative turistiche agricole sarde in
liquidazione (Sitas) e la stessa Regione.
Secondo i giudici la scelta di non sottoporre i piani alla
Via «si poneva in radicale contrasto con la sua ontologica
finalità, che era quella di accertare gli effetti ultimi
dell’intero intervento sull’ambiente, nonché di valutarne la
compatibilità e/o di suggerire sistemi di “minor impatto”,
senza esclusione della cosiddetta opzione zero». La Sitas ha
sostenuto in Cassazione che il Consiglio di Stato era andato
oltre la sua competenza addossando alla Regione un obbligo
di Via nel caso di interventi edilizi di grosse dimensioni,
anche se non ricadenti su zone protette, creando così una
norma “ex novo” e sostituendosi alla Pubblica
amministrazione nel decidere sull’opportunità della Via.
Per la Cassazione però non c’è stata alcuna invasione di
campo. La Suprema corte spiega che con il suo verdetto il
Consiglio di Stato, non ha innovato il quadro normativo né
ha negato la sussistenza del potere discrezionale della Pa
di decidere se sottoporre o meno il progetto alla Via.
Quello che i giudici amministrativi hanno fatto è ricordare
le norme e la giurisprudenza nazionale e comunitaria da
tenere presente per orientare il giudizio.
Un parere che deve essere corredato da una motivazione, se
non contestuale, a posteriori, su richiesta
dell’interessato. Per i giudici la motivazione a sostegno
dell’esonero dalla Via è inadeguata (articolo Il Sole 24 Ore
del 05.02.2016).
---------------
MASSIMA
Col ricorso principale e con il primo motivo del ricorso
incidentale la società SITAS e la Regione Autonoma della
Sardegna sostengono che nel prevedere la necessità di
sottoporre a V.I.A. l'intervento della SITAS, il Consiglio
di Stato avrebbe illegittimamente esorbitato dai limiti
della sua giurisdizione, sia applicando una norma non
esistente ma creata ex novo, implicante
l'obbligatorietà della sottoposizione a V.I.A. nel caso
d'interventi edilizi di grosse dimensioni seppure non
ricadenti in aree naturalistiche protette, e sia esercitando
una non consentita giurisdizione di merito, col sostituirsi
alla Pubblica Amministrazione nella valutazione
discrezionale di sottoporre il progetto edilizio alla
procedura d'impatto ambientale, rispetto alla quale tra
l'altro l'opzione negativa avrebbe potuto per legge
ravvisarsi anche nel mero protratto silenzio dell'Autorità
competente ad esprimere la valutazione in questione.
L'assunto delle ricorrenti, presupposto da entrambi i
profili in cui si articolano i motivi in esame, ossia
l'avere il Consiglio di Stato affermato l'obbligatorietà nel
caso della Valutazione d'Impatto Ambientale, è smentito dal
contenuto dell'impugnata sentenza.
Tale pronuncia non include, infatti, alcuna
affermazione di questo genere e perciò non innova il quadro
normativo con indebita invasione della sfera di attribuzioni
riservata al legislatore, ma ribadisce, in linea con le
norme applicabili ratione temporis, la sussistenza
del potere discrezionale tecnico-amministrativo
dell'amministrazione di verifica preventiva
dell'assoggettabilità o meno della progettazione a detta
valutazione, chiarendo i criteri giuridici che devono
orientare il relativo giudizio, alla luce della finalità
perseguita dalla norma attributiva del potere, dei valori
coinvolti, delle direttive e delle regole normative e
giurisprudenziali interne e sovranazionali, nonché
affermando la necessità che il parere in questione sia
corredato di motivazione, se non contestuale, a posteriori
ed a richiesta dall'interessato.
In tale contesto la pronuncia si limita a
stigmatizzare la laconicità e genericità delle
argomentazioni espresse dalla PA a sostegno del diniego ed
il travisamento dei presupposti di fatto assunti a base
dell'espresso giudizio: in sintesi l'inadeguatezza del
corredo motivazionale ed istruttorio fondanti il parere di
esonero dalla VIA della progettazione, il tutto senza
intaccare la sfera di potere di autodeterminazione della PA
nella scelta più congrua alla cura dell'interesse pubblico e
debitamente mantenendo il sindacato giurisdizionale
nell'ambito del riscontro esterno della legittimità dei
provvedimenti esaminati
(in tema cfr. anche Cass. SU n. 9443 e 23302 del 2011; n.
3622 del 2012) conclusivamente reputati
viziati da eccesso di potere, per gli evidenziati vizi
intrinseci, sintomatici della loro deviazione dallo scopo
della norma attributiva del potere. |
APPALTI SERVIZI: Contro
i vandali c'è urgenza. Sì a
incarichi affidati direttamente.
Legittimo l'affidamento temporaneo di un appalto a
trattativa privata se è necessario evitare atti di
vandalismo.
Lo afferma il Consiglio di Stato, V Sez., con la
sentenza
03.02.2016 n. 413 sulla scelta di un comune di
affidare senza gara temporaneamente la gestione di una
piscina comunale.
In primo grado il Tar aveva ritenuto che
non v'era motivo di disconoscere la necessità di una diversa
modalità di selezione del contraente, consentendo la
concorrenzialità tra gli operatori del settore ed evitando
l'affidamento senza gara.
Il consiglio di stato ribalta la
decisione presa in primo grado premettendo che il sistema di
scelta del contraente a mezzo di procedura negoziata senza
pubblicazione del bando di cui all'art. 57, comma 2, del
codice dei contratti pubblici, rappresenta un'eccezione al
principio generale della pubblicità e della massima
concorrenzialità tipica della procedura aperta. Ciò
comporta, affermano i giudici, che i presupposti fissati
dalla legge per la sua ammissibilità devono essere accertati
«con il massimo rigore e non sono suscettibili
d'interpretazione estensiva».
La norma del codice dei contratti prevede che l'affidamento
diretto è consentito nella misura strettamente necessaria,
quando l'estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili
per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini
imposti dalle procedure aperte, ristrette, o negoziate
previa pubblicazione di un bando di gara. Inoltre, le
circostanze invocate a giustificazione della estrema urgenza
non devono essere imputabili alle stazioni appaltanti.
Il consiglio di stato individua quindi nella fattispecie
concreta oggetto del giudizio proprio quei casi previsti
dalla norma e dichiara legittimo l'affidamento temporaneo
della piscina comunale, in quanto la valutazione della
sussistenza dell'estrema urgenza di salvaguardare la
struttura, senza lasciarla inutilizzata con i rischi di
vandalismi e di deterioramenti, è derivata da eventi che non
possono ritenersi prevedibili e che non sono imputabili
nella specie all'amministrazione.
Per il collegio, quindi, non esistono elementi di
macroscopica illogicità o di irrazionalità o un travisamento
dei fatti. Inoltre, anche la scelta dell'affidatario
temporaneo, pure rientrante nell'ambito dei poteri
discrezionali dell'amministrazione, non evidenzia
l'illogicità o l'irrazionalità della stessa, tenuto conto
che l'affidatario risultava essere il preferibile,
potenziale, soggetto interessato, al quale affidare la
gestione dell'impianto
(articolo ItaliaOggi
del 12.02.2016).
---------------
MASSIMA
1. Ritiene il Collegio che la fattispecie in esame
rientri nell’ambito di quelle descritte dall’art. 57 d.lgs.
n. 163/2006, con conseguente fondatezza del primo motivo
d’appello, restando quindi assorbito il secondo motivo
d’appello per ragioni di economia processuale.
Il sistema di scelta del contraente a mezzo
di procedura negoziata senza pubblicazione del bando di cui
all'art. 57, comma 2, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, rappresenta
un'eccezione al principio generale della pubblicità e della
massima concorrenzialità tipica della procedura aperta, con
la conseguenza che i presupposti fissati dalla legge per la
sua ammissibilità devono essere accertati con il massimo
rigore e non sono suscettibili d'interpretazione estensiva
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.04.2014, n. 2255).
In base al comma 2, lett. c), di tale
previsione normativa, l’affidamento diretto è consentito
nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema
urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le stazioni
appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle
procedure aperte, ristrette, o negoziate previa
pubblicazione di un bando di gara. Le circostanze invocate a
giustificazione della estrema urgenza non devono essere
imputabili alle stazioni appaltanti.
2. Nel caso in esame, il Comune di San Sebastiano al Vesuvio
ha ritenuto, in via temporanea e facendo salvi gli effetti
della decisione del giudizio promosso da Alba Oriens sugli
atti di gara, di poter affidare la gestione dell’impianto
natatorio all’appellante Circolo Posillipo.
Il Comune, compatibilmente con tale disposizione, ha
evidenziato nel provvedimento contestato che tale
affidamento si era reso necessario per evitare di far fronte
a costi non sostenibili derivanti dal pericolo di
un’eventuale “non gestione” della struttura per un
tempo apprezzabile e non predeterminabile, con connessa
evidente alta probabilità di danni che all’ente sarebbe
potuta derivare dall’eventuale danneggiamento degli
impianti.
Tale eventualità, circostanziata e verosimile, avrebbe
comportato l’esigenza di dover provvedere ai lavori di
manutenzione straordinaria per assicurare i relativi
adempimenti, funzionali all’affidamento della struttura
all’avente titolo, a seguito della procedura di gara
impugnata con separato giudizio.
L’Amministrazione, nel valutare i presupposti per
l’affidamento senza gara, ha valutato ragionevolmente i
presupposti dell’urgenza in vista di effettuare
l’affidamento provvisorio della piscina, oggetto di
contestazione in questo giudizio.
La valutazione della sussistenza dell’estrema urgenza di
salvaguardare la struttura, senza lasciarla inutilizzata con
i rischi di vandalismi e di deterioramenti, è derivata da
eventi che non possono ritenersi prevedibili e che non sono
imputabili nella specie all’Amministrazione.
Non emergono dunque elementi tali da evidenziare una
macroscopica illogicità, irrazionalità della stessa, ovvero
un travisamento dei fatti.
2. Inoltre, anche la scelta dell’affidatario temporaneo,
pure rientrante nell’ambito dei poteri discrezionali
dell’Amministrazione, non evidenzia l’illogicità o
l’irrazionalità della stessa, tenuto conto che il Circolo
Posillipo risultava essere il preferibile, potenziale,
soggetto interessato, al quale affidare la gestione
dell’impianto.
Infatti, nella procedura di gara conclusa e impugnata
dall’appellata Alba Oriens, hanno partecipato vari
concorrenti, ma solo ed esclusivamente due di questi, Alba
Oriens e il Circolo Posillipo, hanno dimostrato interesse
alla gestione dell’impianto, fornendo la comprova dei
requisiti dichiarati in sede di partecipazione al bando.
È ragionevole, pertanto, che nell’individuazione d’urgenza
di un soggetto cui affidare in via temporanea la gestione
dell’impianto natatorio sia stato preferito il Circolo
Posillipo, che era già risultato aggiudicatario della
predetta gara, proprio in funzione di trasparenza e di
tutela della concorrenza, tenuto sempre conto che all’esito
del giudizio sulla gara predetta, avrebbe dovuto subentrare
il soggetto che ne sarebbe risultato legittimato.
4. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni,
l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, deve essere
respinto il ricorso di primo grado, in quanto infondato. |
EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione
comunale ha proceduto ad annullare il titolo edilizio a suo
tempo rilasciato al ricorrente sulla base di un legittimo
presupposto e cioè in ragione del fatto che il ricorrente
stesso non è risultato proprietario delle aree su cui
insistono le opere assentite, le quali sono invece state
realizzate su terreni di proprietà dei controinteressati.
In siffatta situazione l’adozione dell’atto di autotutela si
pone come esito sostanzialmente necessitato dell’attività di
riesame, mancando il presupposto indefettibile per
l’assentimento del titolo edilizio ai sensi dell’art. 11 del
DPR n. 380 e in precedenza ai sensi dell’art. 4 della legge
n. 10 del 1977 (possesso di diritto reale sull’area da
edificare) e ponendosi la necessità di tutela della
posizione dei controinteressati, che risulterebbero
altrimenti soggetti ad una sorta di espropriazione della
loro proprietà se si acconsentisse a terzi l’edificazione
sulla stessa.
---------------
L’art. 4 della legge n. 10 del 1977 (e adesso l’art. 11 del
DPR n. 380 del 2001) impone per il rilascio del titolo
edilizio la presenza di una specifica legittimazione attiva
in capo al richiedente (essere proprietario o titolare di
altro diritto sui beni) e impone quindi all’Amministrazione
di verificare la sussistenza di detta indefettibile
legittimazione, affinché la concessione venga assentita solo
a chi ha titolo per richiederla.
Ne consegue che è legittima l’adozione di atto di
annullamento d’ufficio di una concessione edilizia
rilasciata a favore di soggetto privo della disponibilità
dell’area da edificare, stante la sussistenza dell’interesse
pubblico alla rimozione di atti che pregiudicano gravemente
diritti dominicali di terzi, costituendo interesse pubblico
“la essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di
tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che
devono ricevere adeguata tutela nell’ordinamento rimanendo
escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni”,
rispondendo cioè all’interesse pubblico “la rimozione di
atti che siano stati emessi sulla base di comportamenti
invasivi delle posizioni di terzi”.
---------------
... per l'annullamento della ordinanza del Sindaco n. 47 del
17.04.1997, notificata il 18.04.1997, recante annullamento
di concessione edilizia, ed ordine di demolizione delle
opere edilizie realizzate in forza di quella e di ogni altro
atto connesso, presupposto o consequenziale.
...
12 – Con il secondo motivo parte ricorrente evidenzia che
invero nella specie la concessione edilizia non sarebbe
stata necessaria, sul rilievo che l’autorizzazione per la
coltivazione della cava contiene in sé anche
l’autorizzazione per la realizzazione delle opere edilizie
correlate.
La censura è infondata.
È sufficiente sul punto il richiamo al dato normativo, che
risulta risolutivo della questione posta, giacché la legge
regionale n. 36 del 1980, invocata da parte ricorrente,
chiarisce che l’autorizzazione mineraria non già assorbe i
titoli edilizi ma costituisce il presupposto per il loro
rilascio con riferimento alle opere connesse; si legge
infatti al comma 3 dell’art. 8 della legge citata che “per
le costruzioni o impianti comunque connessi con le attività
autorizzate a norma della presente legge, il provvedimento
di autorizzazione costituisce presupposto per il rilascio
della concessione prevista dalla legge 28.01.1977, n. 10”.
13 – Da quanto sin qui esposto si evince che
l’Amministrazione comunale ha proceduto ad annullare il
titolo edilizio a suo tempo rilasciato al ricorrente sulla
base di un legittimo presupposto e cioè in ragione del fatto
che il ricorrente stesso non è risultato proprietario delle
aree su cui insistono le opere assentite, le quali sono
invece state realizzate su terreni di proprietà dei
controinteressati.
In siffatta situazione l’adozione dell’atto di autotutela si
pone come esito sostanzialmente necessitato dell’attività di
riesame, mancando il presupposto indefettibile per
l’assentimento del titolo edilizio ai sensi dell’art. 11 del
DPR n. 380 e in precedenza ai sensi dell’art. 4 della legge
n. 10 del 1977 (possesso di diritto reale sull’area da
edificare) e ponendosi la necessità di tutela della
posizione dei controinteressati, che risulterebbero
altrimenti soggetti ad una sorta di espropriazione della
loro proprietà se si acconsentisse a terzi l’edificazione
sulla stessa.
Ne consegue che le censure di ordine procedimentale con le
quali parte ricorrente fa valere un difetto di adeguata
motivazione sulle memorie procedimentali (terzo motivo) e la
mancata acquisizione di parere della Commissione edilizia
(quarto motivo) risultano infondate, poiché tali vizi
procedimentali non incidono sulla carenza dell’indefettibile
presupposto sopra evocato, in sé sufficiente a giustificare
l’adozione dell’atto di autotutela.
Con il quinto motivo parte ricorrente censura la mancata
adeguata motivazione sull’interesse pubblico
all’annullamento e con il sesto motivo stigmatizza
l’esclusiva valutazione dell’interesse dei controinteressati.
Anche queste censure sono infondate.
Come già rilevato, l’art. 4 della legge n. 10 del 1977 (e
adesso l’art. 11 del DPR n. 380 del 2001) impone per il
rilascio del titolo edilizio la presenza di una specifica
legittimazione attiva in capo al richiedente (essere
proprietario o titolare di altro diritto sui beni) e impone
quindi all’Amministrazione di verificare la sussistenza di
detta indefettibile legittimazione, affinché la concessione
venga assentita solo a chi ha titolo per richiederla.
Ne consegue che è legittima l’adozione di atto di
annullamento d’ufficio di una concessione edilizia
rilasciata a favore di soggetto privo della disponibilità
dell’area da edificare, stante la sussistenza dell’interesse
pubblico alla rimozione di atti che pregiudicano gravemente
diritti dominicali di terzi, costituendo interesse pubblico
“la essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte
di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni
che devono ricevere adeguata tutela nell’ordinamento
rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni”,
rispondendo cioè all’interesse pubblico “la rimozione di
atti che siano stati emessi sulla base di comportamenti
invasivi delle posizioni di terzi” (Cons. Stato, sez.
5^, 17.04.2003, n. 2020).
Con il settimo motivo parte ricorrente invoca infine la
necessità di un previo tentativo, da parte
dell’Amministrazione, di rimuovere i vizi della procedura,
circostanza che appare tuttavia da escludere, stante la
carenza nella specie, come chiarito, dell’indeffettibile
presupposto della legittimazione attiva alla richiesta del
titolo, così che anche questa censura risulta infondata.
14 – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso
deve essere respinto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 03.02.2016 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela del paesaggio - Lavori abusivi su beni
dichiarati di notevole interesse pubblico - Art. 181, c.
1-bis, lett. a), D.Lgs. n. 42/2004 - Art. 44 lett. c), DPR
n. 380/2001.
In tema di tutela del paesaggio, il delitto previsto
dall'art. 181, comma primo-bis, lett. a), D.Lgs. 22.01.2004,
n. 42, è configurabile anche quando i lavori abusivi sono
effettuati su beni paesaggistici dichiarati di notevole
interesse pubblico con apposito provvedimento emesso ai
sensi delle disposizioni previgenti al d.lgs. n. 42 del 2004
(Sez. 3, n. 38677 del 03/06/2014, Liccardi) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.02.2016 n. 3857 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'asservimento
volumetrico di aree fabbricabili.
Il Consiglio di Stato ha avuto già occasione di riconoscere,
con riferimento ad alcune ipotesi di concentrazione di
cubatura analoghe a quella per cui è causa, il valore non
già vincolante bensì “meramente indicativo” della
dislocazione e del disegno di ingombro dei fabbricati
contenuti in generale nei piani di lottizzazione, chiarendo
come la volumetria massima edificabile ivi fissata su
ciascun lotto non precluda la realizzazione di una
volumetria inferiore o di nessuna volumetria, con la
conseguenza che sarebbe, perciò, ben possibile, non solo non
edificare affatto su alcuni lotti, ma anche -per quanto qui
di interesse- concentrare su un unico lotto la quantità di
volumetria prevista su lotti contigui, pur sempre nel
rispetto della volumetria complessivamente conseguita, delle
distanze e della destinazione d’uso dei fabbricati.
Coerentemente, infatti, sempre il Consiglio di Stato ha
precisato come “il presupposto logico dell'asservimento dev'essere
rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo
della densità edilizia (per come configurato negli atti
pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati,
atteso, infatti, che, per il rispetto dell'indice di
fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il
fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria
realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti
fissati dal piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione
degli edifici all'interno del comparto”, con conseguente
“possibilità di computare la superficie di un lotto vicino,
ai fini della realizzazione, in un altro lotto, della
cubatura assentibile in quello asservito, … sul rilievo
della indifferenza, per il Comune, della materiale
ubicazione degli edifici, posto che l'interesse
dell'amministrazione si appunta sulla diversa verifica del
rispetto del rapporto tra superficie edificabile e volumi
realizzabili nell'area di riferimento e, cioè, dell'indice
di fabbricabilità fondiaria”.
---------------
... per l'annullamento della deliberazione n. 4 del
30.01.2014 con la quale il Consiglio Comunale del Comune di
Pozzallo ha deciso di non prendere atto dell'intervenuto
trasferimento di cubatura dal lotto n. 23 in favore del
lotto n. 6 eseguito dalla società ricorrente e di non
autorizzare, in conseguenza, la variante, valutata non
essenziale, al piano di lottizzazione c.d. “Zocco
Vincenzo ed altri”;
...
Per quel che concerne, poi, la legittimità della
concentrazione di volumetria proposta dalla società
ricorrente -relativa a terreni entrambi di proprietà di
parte ricorrente (in tal senso, i rispettivi atti di
compravendita annessi al ricorso)- rileva il Collegio come
essa sia stata proposta dalla società ricorrente
nell’esercizio della facoltà, ad essa spettante, di poter
optare per soluzioni dislocative dei volumi differenti
rispetto a quelle originariamente previste nel piano di
lottizzazione.
Il Consiglio di Stato ha avuto, infatti, già occasione di
riconoscere, con riferimento ad alcune ipotesi di
concentrazione di cubatura analoghe a quella per cui è
causa, il valore non già vincolante bensì “meramente
indicativo” della dislocazione e del disegno di ingombro
dei fabbricati contenuti in generale nei piani di
lottizzazione, chiarendo come la volumetria massima
edificabile ivi fissata su ciascun lotto non precluda la
realizzazione di una volumetria inferiore o di nessuna
volumetria, con la conseguenza che sarebbe, perciò, ben
possibile, non solo non edificare affatto su alcuni lotti,
ma anche -per quanto qui di interesse- concentrare su un
unico lotto la quantità di volumetria prevista su lotti
contigui, pur sempre nel rispetto della volumetria
complessivamente conseguita, delle distanze e della
destinazione d’uso dei fabbricati (in tal senso, sezione V,
n. 927/2012).
Coerentemente, infatti, sempre il Consiglio di Stato ha
precisato come “il presupposto logico dell'asservimento
dev'essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del
corretto sviluppo della densità edilizia (per come
configurato negli atti pianificatori), della materiale
collocazione dei fabbricati, atteso, infatti, che, per il
rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume
esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area
edificabile e volumetria realizzabile nella zona di
riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando
del tutto neutra l'ubicazione degli edifici all'interno del
comparto”, con conseguente “possibilità di computare
la superficie di un lotto vicino, ai fini della
realizzazione, in un altro lotto, della cubatura assentibile
in quello asservito, … sul rilievo della indifferenza, per
il Comune, della materiale ubicazione degli edifici, posto
che l'interesse dell'amministrazione si appunta sulla
diversa verifica del rispetto del rapporto tra superficie
edificabile e volumi realizzabili nell'area di riferimento
e, cioè, dell'indice di fabbricabilità fondiaria”
(sezione IV, n. 2488/2006)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 01.02.2016 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Il comune può far da sé per disconoscere
esenzioni.
Il comune può accertare ai fini Ici/Imu la non rispondenza
alla realtà dei dati catastali. E così, anche senza
attendere l'intervento modificativo dell'amministrazione
finanziaria, disconoscere l'esenzione dal tributo.
Ad affermarlo è la Sez. V civile della Corte di Cassazione, con
sentenza
29.01.2016 n. 1704.
Il caso verteva su un locale commerciale accatastato nella
categoria E (immobili a destinazione particolare) in quanto
situato all'interno di una stazione ferroviaria.
Quest'ultima non è assoggettata al prelievo fiscale, poiché
dedicata esclusivamente allo svolgimento del servizio di
trasporto passeggeri.
Per evitare usi distorti
dell'agevolazione, il legislatore è intervenuto con l'art. 2
del dl 262/2006, stabilendo che tra le unità censite nelle
categorie E/1, E/2, E/3, E/4, E/5, E/6 ed E/9 non possono
essere compresi «immobili o porzioni di immobili destinati
ad uso commerciale, industriale, a ufficio privato ovvero a
usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia
funzionale e reddituale». Il necessario aggiornamento della
classificazione di tutte le unità di categoria E ricadenti
in tali ipotesi era a cura dei soggetti intestatari.
In caso
di inottemperanza, sarebbe intervenuta l'Agenzia del
territorio (ora Entrate). Secondo i giudici, quando il classamento non rispecchia l'effettiva destinazione d'uso
dell'immobile, si può determinare «una aprioristica quanto
irragionevole esenzione dall'Ici, in contraddizione con il
principio costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate
alla effettiva capacità contributiva».
Il mero accatastamento dell'immobile nel gruppo E «non
può (e non poteva nemmeno prima del 2006) costituire un
impedimento al riconoscimento della sua imponibilità, in
particolare ove tale errato accatastamento sia stato
determinato da un'omissione del contribuente», chiosa la
sentenza
(articolo ItaliaOggi
del 02.02.2016). |
APPALTI SERVIZI:
Avvalimento nei concorsi di servizi. Indicare i
mezzi prestati.
Nell'avvalimento dei requisiti per la partecipazione alle
gare di appalto pubblico costituisce elemento essenziale del
contratto l'indicazione specifica dei mezzi e dei requisiti
messi a disposizione del concorrente ed è illegittimo il
contratto indeterminato su questo punto.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato -Sez. III-
con la
sentenza 29.01.2016 n. 346 in tema di avvalimento dei requisiti di partecipazione alle gare di
appalto pubblico di servizi e forniture, settori che non
hanno un sistema di qualificazione come quello dei lavori.
La pronuncia approfondisce i contenuti del contratto
specificando alcuni elementi che devono essere tenuti in
particolare considerazione.
Si chiarisce, per esempio, che la prova dell'effettiva
disponibilità delle risorse dell'ausiliario da parte dell'ausiliato
necessita che il contratto si sostanzi in relazione alla
natura ed alle caratteristiche del singolo requisito «e ciò
soprattutto nei settori dei servizi e delle forniture, dove
non esiste un sistema di qualificazione a carattere unico e
obbligatorio, come accade per gli appalti di lavori, e i
requisiti richiesti vengono fissati di volta in volta dal
bando di gara».
I giudici, con riguardo alle prescrizioni
dell'articolo 49 del codice dei contratti e della disciplina
attuativa del regolamento affermano che le norme vigenti,
pur finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la
determinatezza di questo, non devono essere interpretate
«meccanicamente né secondo aprioristici schematismi
concettuali, che non tengano conto del singolo appalto e,
soprattutto, frustrando la sostanziale disciplina dettata
dalla lex specialis».
In altre parole si afferma che è insufficiente allo scopo
assegnato all'avvalimento la sola e tautologica
riproduzione, nel testo dei relativi contratti, della
formula legislativa, dell'articolo 49, della messa a
disposizione delle «risorse necessarie di cui è carente il
concorrente» o espressioni equivalenti.
In questi casi è legittima l'esclusione dalla gara pubblica
dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento,
producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e
specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei
mezzi in concreto prestati
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016).
---------------
MASSIMA
6.4. Il tema di decisione centrale del presente
giudizio, che ancora una volta torna all’attenzione di
questo Consiglio, è la vexata quaestio della validità
o meno, sotto il profilo della determinatezza, del contratto
di avvalimento.
6.5. Senza qui di nuovo ripetere e ripercorrere, per obbligo
di sintesi (art. 3, comma 2, c.p.a.), tutto il percorso
interpretativo che ha caratterizzato la complessa materia,
valga qui ricordare l’approdo ermeneutico al quale è
pervenuta, talvolta non senza interni contrasti, la
giurisprudenza di questo Consiglio.
6.6.
Benché il contratto di avvalimento non possa essere
ricondotto ad alcuna specifica tipologia, tanto che ne è
stata più volte ribadita la sua atipicità lasciata
all’autonomia negoziale delle parti, la prova dell’effettiva
disponibilità delle risorse dell’ausiliario da parte dell’ausiliato
comporta, però, la necessità che il contrasto si sostanzi in
relazione alla natura ed alle caratteristiche del singolo
requisito, e ciò soprattutto nei settori dei servizi e delle
forniture, dove non esiste un sistema di qualificazione a
carattere unico ed obbligatorio, come accade per gli appalti
di lavori, ed i requisiti richiesti vengono fissati di volta
in volta dal bando di gara.
6.7.
Le regole dettate dall’art. 49 del d.lgs. 163/2006 e
dall’art. 88 del d.P.R. 207/2010 in materia di avvalimento,
pur finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la
determinatezza di questo, non devono, quindi, essere
interpretate meccanicamente né secondo aprioristici
schematismi concettuali, che non tengano conto del singolo
appalto e, soprattutto, frustrando la sostanziale disciplina
dettata dalla lex specialis
(v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 04.12.2014, n.
5978; Cons. St., sez. III, 02.03.2015, n. 1020).
6.8. Poste queste fondamentali premesse, che si ispirano ad
un criterio sostanzialistico di recente recepito anche dal
d.l. 90/2014, come si accennerà esaminando, infra, il
secondo motivo di appello, deve pur rammentarsi che,
per altrettanto consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio, è insufficiente allo scopo assegnato all’avvalimento
la sola e tautologica riproduzione, nel testo dei relativi
contratti, della formula legislativa della messa a
disposizione delle “risorse necessarie di cui è carente
il concorrente” o espressioni equivalenti, con la
conseguenza che è legittima l’esclusione dalla gara pubblica
dell'impresa che abbia fatto ricorso all’avvalimento
producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e
specifica elencazione o indicazione delle risorse e dei
mezzi in concreto prestati.
6.9.
L’esigenza di una puntuale analitica individuazione
dell’oggetto del contratto di avvalimento, oltre ad avere un
sicuro ancoraggio sul terreno civilistico nella generale
previsione codicistica che configura quale causa di nullità
di ogni contratto l’indeterminatezza (e l’indeterminabilità)
del relativo oggetto, trova la propria essenziale
giustificazione funzionale, inscindibilmente connessa alle
procedure contrattuali pubbliche, nella necessità di non
consentire facili e strumentali aggiramenti del sistema dei
requisiti di partecipazione alle gare
(Cons. St., sez. V, 30.11.2005, n. 5396).
6.10.
Nelle gare pubbliche elemento essenziale dell’istituto dell’avvalimento,
infatti, è la reale messa a disposizione delle risorse umane
e dei beni strumentali occorrenti per la realizzazione dei
lavori o dei servizi oggetto di gara, con conseguente
obbligo per l’impresa ausiliata di presentare alla stazione
appaltante l’elencazione dettagliata dei fattori produttivi,
in modo da consentirle di conoscere la consistenza del
complesso economico-finanziario e tecnico-organizzativo
offerti in prestito dall’ausiliaria e di valutare la loro
idoneità all’esecuzione dell’opera
(Cons. St., sez. V, 28.09.2015, n. 4507).
6.11. Orbene, tutto ciò considerando, la conclusione del TAR
ligure in ordine alla indeterminatezza del contratto di
avvalimento va immune da censura. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mancato inizio dei lavori entro il termine di
un anno decorrente dal rilascio del titolo comporta la
decadenza dello stesso.
Per evitare la decadenza, l’interessato deve dimostrare di
essere seriamente intenzionato a realizzare l’opera;
pertanto, non ogni attività intrapresa può costituire
elemento che denoti l’effettivo inizio dei lavori, giacché
solo quelle attività sintomatiche di un serio proposito
possono essere considerate a tal fine rilevanti.
La giurisprudenza ritiene che non possa essere considerato
rilevante, affinché i lavori possano dirsi effettivamente
iniziati, il compimento delle attività di approntamento del
cantiere, nonché quelle di scavo e sbancamento.
Il Collegio ritiene inoltre che attività rilevanti possano
essere solo quelle strettamente funzionali alla
realizzazione dell’opera oggetto del titolo edilizio e,
quindi, oltre ai lavori espressamente previsti dal titolo
stesso, anche quei lavori che, sulle base delle risultanze
di esso, risultino essere assolutamente necessari per
conseguirne il risultato finale e ne costituiscano dunque
attività esecutiva.
---------------
Il Collegio non ignora che, secondo una parte della
giurisprudenza, la sussistenza di una causa di forza
maggiore che non consente di dare tempestivo inizio ai
lavori impedisce ex se la decadenza del titolo edilizio.
E’ però preferibile ritenere, come fa altra giurisprudenza,
che, anche laddove si sia in presenza del cd. factum
principis o di cause di forza maggiore, l'interessato che
voglia impedire la decadenza del titolo edilizio per il
mancato tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato
della proposizione di una richiesta di proroga
dell’efficacia del titolo stesso; proroga che deve essere
accordata con atto espresso dell'Amministrazione.
Invero, l'atto di proroga, previsto dall’art. 15, secondo
comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza
dell'accertamento dell'intervenuta decadenza, è atto di
esercizio di discrezionalità amministrativa, che presuppone
l'accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il
loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente
impeditivo dell'avvio della edificazione.
Inoltre, si deve ritenere che, affinché si possa dare
rilevanza ad un provvedimento che impedisca l’edificazione,
è necessario che questo risulti illegittimo in quanto emesso
in carenza dei presupposti previsti dalla vigente normativa.
In caso contrario, quando cioè l’atto che inibisce
l’esecuzione dei lavori sia conforme alla legge, la parte
non può pretendere di essere ammessa al beneficio della
proroga del termine.
In tal senso è il comma 2-bis dell’art. 15 del d.P.R. n. 380
del 2001 il quale, anche se non applicabile ai fatti di
causa in quanto successivo ad essi, costituisce, a parere
del Collegio, chiave interpretativa della previgente
normativa.
---------------
11. Stabilisce l’art. 15, secondo comma, del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) che <<Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita…>>.
12. Come si vede, in base questa norma, dettata in materia
di permesso di costruire ma pacificamente applicabile anche
alla denuncia di inizio attività, il mancato inizio dei
lavori entro il termine di un anno decorrente dal rilascio
del titolo comporta la decadenza dello stesso.
13. Per evitare la decadenza, l’interessato deve dimostrare
di essere seriamente intenzionato a realizzare l’opera;
pertanto, non ogni attività intrapresa può costituire
elemento che denoti l’effettivo inizio dei lavori, giacché
solo quelle attività sintomatiche di un serio proposito
possono essere considerate a tal fine rilevanti.
14. La giurisprudenza ritiene che non possa essere
considerato rilevante, affinché i lavori possano dirsi
effettivamente iniziati, il compimento delle attività di
approntamento del cantiere, nonché quelle di scavo e
sbancamento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.04.2015,
n. 2093; TAR Veneto, sez. II, 12.03.2015, n. 299).
15. Il Collegio ritiene inoltre che attività rilevanti
possano essere solo quelle strettamente funzionali alla
realizzazione dell’opera oggetto del titolo edilizio e,
quindi, oltre ai lavori espressamente previsti dal titolo
stesso, anche quei lavori che, sulle base delle risultanze
di esso, risultino essere assolutamente necessari per
conseguirne il risultato finale e ne costituiscano dunque
attività esecutiva.
16. Ciò premesso, si deve osservare che le attività indicate
dalla ricorrente nel primo motivo di ricorso non possono
essere positivamente apprezzate al fine di affermare
l’effettivo inizio dei lavori.
17. Alcune di queste attività -quali l’abbattimento della
tettoia, la rimozione della pavimentazione ad essa
antistante, la deviazione della fognatura e la chiusura
delle finestre– non erano previste nella DIA presentata
dalla ricorrente, né possono essere considerate alla stregua
lavori che, sulle base delle risultanze della DIA stessa,
debbano qualificarsi come assolutamente necessari ai fini
della costruzione dell’edificio che ne costituisce oggetto.
In proposito è sufficiente rilevare che il titolo, oltre a
non prevedere la realizzazione di opere di demolizione,
neppure indica l’esistenza dei manufatti sui quali sono
stati effettuati gli interventi (queste circostanze sono
state allegate dalla difesa dell’Amministrazione resistente
e non smentite dalla ricorrente; pertanto possono
considerarsi provate ai sensi dell’art. 64, comma 2, cod.
proc. amm.).
18. Non si può pertanto ritenere che gli interventi di cui
si discute possano essere considerati alla stregua di
attività esecutive del titolo edilizio conseguito dalla
ricorrente, la cui realizzazione ne possa aver impedito la
decadenza.
19. Analogo discorso può essere svolto con riferimento alle
opere di bonifica dell’area, atteso che la DIA presentata
dalla ricorrente non contemplava affatto questo interevento;
ed anzi lo escludeva espressamente, visto che, in sede di
integrazione documentale, il tecnico incaricato dalla parte
ha depositato presso il Comune una dichiarazione che afferma
l’inesistenza di elementi inquinanti in loco e, dunque,
l’inutilità dell’intervento di bonifica.
20. L’esecuzione di questa attività non può pertanto aver
impedito la decadenza del titolo.
21. Le altre attività indicate dalla ricorrente –quali la
richiesta di allacciamento alla linea elettrica e il
montaggio della gru– costituiscono evidentemente attività di
mero approntamento del cantiere le quali, come si è visto,
non possono ritenersi decisive ai fini che qui interessano.
22. Per queste ragioni i motivi esaminati sono infondati.
23. Con il terzo motivo, proposto in via subordinata, la
ricorrente sostiene che il mancato inizio dei lavori è
dipeso dal fatto che l’Amministrazione, in data 26.02.2011,
ha emesso l’ordine di non dar corso ad essi; e che tale
circostanza costituirebbe un elemento impeditivo oggettivo (factum
principis).
Il mancato inizio dei lavori, pertanto, non denoterebbe la
carenza di una seria volontà all’esecuzione dell’opera
prevista nel titolo edilizio; per questa ragiona, a dire
della parte, l’Amministrazione non avrebbe potuto
dichiararne la decadenza.
24. Il Collegio non ignora che, secondo una parte della
giurisprudenza, la sussistenza di una causa di forza
maggiore che non consente di dare tempestivo inizio ai
lavori impedisce ex se la decadenza del titolo
edilizio (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 10.02.2012,
188).
E’ però preferibile ritenere, come fa altra giurisprudenza,
che, anche laddove si sia in presenza del cd. factum
principis o di cause di forza maggiore, l'interessato
che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio per il
mancato tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato
della proposizione di una richiesta di proroga
dell’efficacia del titolo stesso; proroga che deve essere
accordata con atto espresso dell'Amministrazione. Invero,
l'atto di proroga, previsto dall’art. 15, secondo comma, del
d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza dell'accertamento
dell'intervenuta decadenza, è atto di esercizio di
discrezionalità amministrativa, che presuppone
l'accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il
loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente
impeditivo dell'avvio della edificazione (cfr., TAR
Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 22.04.2015, n. 186).
25. Inoltre, si deve ritenere che, affinché si possa dare
rilevanza ad un provvedimento che impedisca l’edificazione,
è necessario che questo risulti illegittimo in quanto emesso
in carenza dei presupposti previsti dalla vigente normativa.
In caso contrario, quando cioè l’atto che inibisce
l’esecuzione dei lavori sia conforme alla legge, la parte
non può pretendere di essere ammessa al beneficio della
proroga del termine.
26. In tal senso è il comma 2-bis dell’art. 15 del d.P.R. n.
380 del 2001 il quale, anche se non applicabile ai fatti di
causa in quanto successivo ad essi, costituisce, a parere
del Collegio, chiave interpretativa della previgente
normativa.
27. Nel caso concreto, la ricorrente non ha chiesto la
proroga dei termini di validità della DIA da essa
presentata; né ovviamente alcuna proroga le è stata concessa
dall’Amministrazione.
28. Inoltre l’atto che ha disposto la sospensione dei lavori
è risultato fondato nei presupposti, atteso che, come aveva
rilevato l’Amministrazione stessa e contrariamente da quanto
dichiarato dalla ricorrente, l’area interessata dalla DIA
necessitava effettivamente di opere di bonifica.
29. Per tutte queste concorrenti ragioni non si può ritenere
che l’ordine di sospensione lavori emanato in data
26.02.2011 abbia impedito la decadenza della DIA (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
29.01.2016 n. 201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente
per la rimozione di un tratto di recinzione (abusiva) che
ostruisce il passaggio pubblico di un sentiero.
L’art. 54, quarto comma, del d.lgs. n. 267 del 2000
attribuisce al sindaco il potere di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti al fine di prevenire e di eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana.
Le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti possono
essere emanate per fronteggiare situazioni impreviste e non
altrimenti fronteggiabili con gli strumenti ordinari, al
fine di prevenire o eliminare gravi pericoli che minacciano
primari interessi della cittadinanza.
Secondo la giurisprudenza, il potere sindacale di emettere
ordinanze contingibili e urgenti presuppone necessariamente
situazioni, non tipizzate dalla legge, di pericolo
effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da una
istruttoria adeguata e da una congrua motivazione; e ciò in
quanto solo in presenza di tali situazioni si giustifica la
deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina
vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale.
Nel caso specifico, è stato emesso un provvedimento
contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 54 citato per far
pronte ad una situazione che poteva essere affrontata
mediante l’utilizzo dei poteri ordinari, conferiti ai comuni
in materia di repressione degli abusi edilizi.
Inoltre, il provvedimento impugnato non indica assolutamente
le ragioni per le quali la chiusura del sentiero possa
minacciare i primari interessi dell’incolumità pubblica e
dell’ordine pubblica.
Pare quindi al Collegio che l’atto sia stato emanato in
assenza dei necessari presupposti.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 20/2010 in data
26.06.2010, spedita dall'Ufficio Postale di Traona il
12.07.2010 e ricevuta il successivo 26.07.2010, con la quale
il sindaco di Civo, ai sensi dell'art. 54 del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, ha ordinato alla ricorrente di
ripristinare il passaggio pubblico insistente sul terreno
censito in catasto a F. 25, mappale 394 mediante rimozione
del tratto di recinzione posto sul tracciato del passaggio
stesso nel termine di trenta giorni dalla notifica
dell'ordinanza, e di ogni altro atto presupposto e/o
consequenziale.
...
1. Con il provvedimento impugnato, il Comune di Civo ha
ordinato alla ricorrente di rimettere in pristino un
sentiero che attraversa il fondo contraddistinto al fg. 25,
mapp. 394, ostruito con una recinzione di paletti in legno e
rete metallica.
2. L’Amministrazione intimata non si è costituita in
giudizio.
3. Tenutasi la pubblica udienza in data 15.12.2015, la causa
è stata trattenuta in decisione.
4. Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato in quanto
suscettibile di accoglimento il secondo motivo di ricorso,
avente carattere assorbente, con cui si deduce la violazione
dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000.
5. L’art. 54, quarto comma, del d.lgs. n. 267 del 2000
attribuisce al sindaco il potere di emanare ordinanze
contingibili ed urgenti al fine di prevenire e di eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana.
6. Le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti possono
essere emanate per fronteggiare situazioni impreviste e non
altrimenti fronteggiabili con gli strumenti ordinari, al
fine di prevenire o eliminare gravi pericoli che minacciano
primari interessi della cittadinanza.
7. Secondo la giurisprudenza, il potere sindacale di
emettere ordinanze contingibili e urgenti presuppone
necessariamente situazioni, non tipizzate dalla legge, di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua
motivazione; e ciò in quanto solo in presenza di tali
situazioni si giustifica la deviazione dal principio di
tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di
derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione
residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia
provvedimentale.
8. Nel caso specifico, è stato emesso un provvedimento
contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 54 citato per far
pronte ad una situazione che poteva essere affrontata
mediante l’utilizzo dei poteri ordinari, conferiti ai comuni
in materia di repressione degli abusi edilizi.
9. Inoltre, il provvedimento impugnato non indica
assolutamente le ragioni per le quali la chiusura del
sentiero possa minacciare i primari interessi
dell’incolumità pubblica e dell’ordine pubblica.
10. Pare quindi al Collegio che l’atto sia stato emanato in
assenza dei necessari presupposti.
11. Per queste ragioni il motivo in esame è fondato e il
ricorso deve essere accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.01.2016 n. 200 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al pari del permesso di costruire in deroga
disciplinato dall’art. 14 del d.p.r. n. 380/2001, il
permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma
9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011 determina una deroga
alla disciplina ordinaria e alle previsioni degli strumenti
urbanistici ed è pertanto un istituto di carattere
eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare
esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari
garantiti dalla disciplina urbanistica generale; in quanto
tale, esso è applicabile esclusivamente entro i confini
tassativamente previsti dal legislatore statale (quali ad
es. l’inderogabilità degli standard urbanistici, la non
attuabilità degli interventi di riqualificazione e aumenti
di volumetria con riferimento ad edifici abusivi o situati
nei centri storici o in area ad in edificabilità assoluta).
Questa particolare natura del permesso di costruire
rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del
D.L. n. 70 del 2011, nonché l’espresso richiamo all’art. 14
del d.p.r. 380 del 2001 operato dall’art. 5 cit., comma 11,
portano quindi ad escludere che l’autorizzazione in
questione possa essere rilasciata secondo il procedimento
ordinario, con la conseguenza che l’assenza della previa
deliberazione del Consiglio comunale sul progetto presentato
dal privato vizia il procedimento stesso.
----------------
La necessità della deliberazione del
Consiglio comunale prima del rilascio da parte del dirigente
competente del permesso di costruire in deroga previsto
dall’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011, si
rivela coerente con le attribuzioni del consiglio comunale
in materia di pianificazione urbanistica e territoriale (ed
eventuale deroga ad essa) previste dall’art. 42, comma 2,
lett. b), del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, trattandosi di
interventi che incidono sulle disposizioni urbanistiche
ordinarie.
Inoltre, la preventiva deliberazione del consiglio comunale
consente a tale organo di valutare la sussistenza
dell’interesse pubblico all’operazione e di verificare la
effettiva rispondenza del progetto all’esigenza “di
razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e di
“riqualificazione di aree urbane degradate”, e quindi di
riscontrare se sussistono le condizioni per il
riconoscimento della disciplina premiante in deroga alla
disciplina urbanistica ordinaria (volumetria aggiuntiva,
possibilità di delocalizzare la volumetria in area diversa,
cambio di destinazione d’uso, modifiche alla sagome degli
edifici).
---------------
2.1. L’art. 5 del
D.L. 13.05.2011 n. 70 (c.d. Decreto Sviluppo, convertito in
L. 12.07.2011, n. 106, entrata in vigore il 13.07.2013) si
inserisce nell’ambito di una serie di misure adottate per la
promozione dello sviluppo economico e della competitività e
mira a rilanciare l’economia nel settore dell’edilizia
privata, prevedendo una specifica disciplina premiante in
favore degli interventi edilizi dei privati che mirano a
perseguire gli obiettivi di razionalizzazione del patrimonio
edilizio esistente, di riqualificazione di aree urbane
degradate con presenza di funzioni eterogenee e di edifici a
destinazione non residenziale dismessi o in via di
dismissione ovvero da rilocalizzare.
2.2. Con tale obiettivo, il comma 9 dell’articolo in
questione fissa i principi fondamentali ai quali il
legislatore regionale dovrà attenersi nell’elaborare la
propria disciplina in materia:
- in primo luogo, viene definito il contenuto della
disciplina premiante in favore dei privati che intendono
realizzare interventi di riqualificazione e
razionalizzazione del patrimonio edilizio, prevedendo: il
riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a
quella preesistente, la possibilità di delocalizzare le
volumetrie, la possibilità di attuare modifiche di
destinazione d’uso tra loro compatibili ed infine la
possibilità di realizzare modifiche della sagoma necessarie
per l’armonizzazione architettonica con gli organismi
edilizi esistenti;
- in secondo luogo, viene sancita la immediata
applicabilità delle disposizioni premianti in questione in
caso di mancata adozione da parte delle regioni della
specifica disciplina nel termine di 120 giorni dall’entrata
in vigore della legge di conversione, con la precisazione
che la volumetria aggiuntiva deve essere non superiore al
venti per cento del volume dell’edificio se destinato ad uso
residenziale o al dieci per cento della superficie coperta
per gli edifici adibiti ad uso diverso;
- con riferimento al procedimento autorizzatorio, il
legislatore statale prevede che, “sino all’entrata in
vigore della normativa regionale”, trovi applicazione la
disciplina autorizzatoria rafforzata di cui all'articolo 14
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la quale richiede la previa
deliberazione del consiglio comunale per il rilascio del “permesso
di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali”;
- quest’ultima deliberazione costituisce, pertanto, un
elemento necessario per il rilascio del permesso di
costruire ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L.
n. 70 del 2011;
- ciò si giustifica in base alla considerazione che, al pari
del permesso di costruire in deroga disciplinato dall’art.
14 del d.p.r. n. 380/2001, il permesso di costruire
rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del
D.L. n. 70 del 2011 determina una deroga alla disciplina
ordinaria e alle previsioni degli strumenti urbanistici ed è
pertanto un istituto di carattere eccezionale giustificato
dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie
rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina
urbanistica generale; in quanto tale, esso è applicabile
esclusivamente entro i confini tassativamente previsti dal
legislatore statale (quali ad es. l’inderogabilità degli
standard urbanistici, la non attuabilità degli interventi di
riqualificazione e aumenti di volumetria con riferimento ad
edifici abusivi o situati nei centri storici o in area ad in
edificabilità assoluta).
2.3. Questa particolare natura del permesso di costruire
rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del
D.L. n. 70 del 2011, nonché l’espresso richiamo all’art. 14
del d.p.r. 380 del 2001 operato dall’art. 5 cit., comma 11,
portano quindi ad escludere che l’autorizzazione in
questione possa essere rilasciata secondo il procedimento
ordinario, con la conseguenza che l’assenza della previa
deliberazione del Consiglio comunale sul progetto presentato
dal privato vizia il procedimento stesso (TAR Piemonte, sez.
II, 10.07.2015, n. 1210; TAR Piemonte, sez. II, 28.11.2013,
n. 1287; TAR Pescara, sez. I, 14.11.2014, n. 450; TAR
Basilicata, 19.04.2014, n. 267).
2.4. D’altra parte, ad avviso del Collegio, la necessità
della deliberazione del Consiglio comunale prima del
rilascio da parte del dirigente competente del permesso di
costruire in deroga previsto dall’art. 5, comma 9 e
seguenti, del D.L. n. 70 del 2011, si rivela coerente con le
attribuzioni del consiglio comunale in materia di
pianificazione urbanistica e territoriale (ed eventuale
deroga ad essa) previste dall’art. 42, comma 2, lett. b),
del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, trattandosi di interventi che
incidono sulle disposizioni urbanistiche ordinarie.
2.5. Inoltre, la preventiva deliberazione del consiglio
comunale consente a tale organo di valutare la sussistenza
dell’interesse pubblico all’operazione e di verificare la
effettiva rispondenza del progetto all’esigenza “di
razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e
di “riqualificazione di aree urbane degradate”, e
quindi di riscontrare se sussistono le condizioni per il
riconoscimento della disciplina premiante in deroga alla
disciplina urbanistica ordinaria (volumetria aggiuntiva,
possibilità di delocalizzare la volumetria in area diversa,
cambio di destinazione d’uso, modifiche alla sagome degli
edifici).
2.6. In relazione all’interesse pubblico alla realizzazione
dell’intervento, la modifica introdotta dalla norma qui in
esame assume un rilievo del tutto particolare dal momento
che, mentre per il rilascio del permesso in deroga previsto
dal t.u. dell'edilizia il consiglio comunale deve effettuare
una comparazione tra due interessi pubblici, cioè tra
l'interesse alla realizzazione di un'opera pubblica e
l'interesse alla corretta attuazione delle previsioni di
piano, nel rilascio del permesso in deroga previsto dal
decreto sviluppo la comparazione deve avvenire tra
l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione e
quello del privato ad attuare un intervento costruttivo, che
assume però rilievo pubblicistico nella misura in cui
razionalizza e riqualifica aree degradate, con il solo
limite che "si tratti di destinazioni tra loro
compatibili e complementari".
2.7. Va anche osservato che la normativa in esame, destinata
originariamente ad avere un'efficacia limitata nel tempo
(cioè "sino all'entrata in vigore della normativa
regionale"), è stata oggi stabilmente introdotta
nell'ordinamento con l'inserimento, ad opera del D.L.
12.09.2014, n. 133 (c.d. Decreto "sblocca Italia"),
del comma 1-bis all'art. 14, che, come si legge nel testo
modificato dalla legge di conversione 11.11.2014, n. 164, ha
previsto, per la parte che qui interessa, che "per gli
interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in
aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di
permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni
d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne
attesta l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento
di destinazione d'uso non comporti un aumento della
superficie coperta prima dell'intervento di ristrutturazione
..." (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 29.01.2016 n. 91 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Condivisibile
giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che l’onere di
specificazione dei documenti per i quali si esercita il
diritto di acceso non comporta la formale indicazione di
tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di
protocollo, data di adozione dell’atto), ma può ritenersi
assolto con l’indicazione dell’oggetto e dello scopo cui
l’atto è indirizzato, così da mettere l’amministrazione in
condizione di comprendere la portata ed il contenuto della
domanda.
---------------
Il certificato di destinazione urbanistica rientra nella
categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico
ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del
contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non
può essere sussunto nella categoria del documento
amministrativo così come definito dall’art. 22 della legge
07.08.1990, n. 241, costituendo l’esercizio di una funzione
dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di
strumentazione urbanistica; pertanto, il suo rilascio non
può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo
le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari,
che precipuamente riguardano tali tipi di atti
amministrativi.
---------------
I titoli edilizi non rientrano in alcuna delle categorie
sottraibili all’accesso e che in materia di rilascio dei
titoli edilizi non può essere affermata l’esistenza di un
diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati.
---------------
... per l’annullamento della nota del Comune di Venosa prot.
n. 12779 del 22.07.2015, conosciuta il 10.08.2015, recante
diniego di accesso ai documenti amministrativi;
...
5. Nel merito, il ricorso è fondato in parte, alla stregua
della motivazione che segue.
5.1. l’Ente intimato, con la nota impugnata, ha
espressamente affermato la “improcedibilità”
dell’istanza di accesso, così in buona sostanza negando la
richiesta esibizione documentale, in quanto l’istanza
medesima sarebbe riferita ad una “pluralità indefinita e
generica di atti”.
5.2. Ritiene il Collegio, in senso contrario, che l’istanza
palesi un contenuto sufficientemente determinato,
riguardando in tutta evidenza il certificato di destinazione
urbanistica dell’immobile censito in catasto al foglio n.
78, particella n. 1445, le autorizzazioni rilasciate per la
realizzazione degli interventi edilizi descritti
nell’istanza medesima, nonché il titolo di proprietà
comunale di tale ultimo immobile.
Ebbene, condivisibile giurisprudenza ha già avuto modo di
precisare che l’onere di specificazione dei documenti per i
quali si esercita il diritto di acceso non comporta la
formale indicazione di tutti gli estremi identificativi
(organo emanante, numero di protocollo, data di adozione
dell’atto), ma può ritenersi assolto con l’indicazione
dell’oggetto e dello scopo cui l’atto è indirizzato, così da
mettere l’amministrazione in condizione di comprendere la
portata ed il contenuto della domanda (cfr. C.d.S., sez. VI,
27.10.2006, n. 6441; TAR Lazio, sez. II, 17.01.2012, n.
487).
6. Quanto innanzi osservato conduce all’accoglimento della
spiegata domanda di annullamento della nota impugnata.
7. Non sussistono, tuttavia, i presupposti per ordinare
l’esibizione di parte dei documenti richiesti.
7.1. In particolare, il certificato di destinazione
urbanistica rientra nella categoria degli atti di
certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi
carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti
pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere
sussunto nella categoria del documento amministrativo così
come definito dall’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241,
costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o
certificativa sulla base degli atti di strumentazione
urbanistica; pertanto, il suo rilascio non può avvenire
nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche
fonti normative, legislative e regolamentari, che
precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi
(cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. II, 17.09.2009, n. 2121).
7.2. Del pari, in relazione al “titolo d’acquisto o altro
titolo equipollente” dell’immobile censito in catasto al
foglio n. 78, particella n. 1445, sono stati gli stessi
ricorrenti ad aver precisato che: “siffatta richiesta si
mostra deliberatamente non autonoma, nemmeno alternativa e
subordinata, avuto riguardo ai modi e termini in cui è stata
confezionata la domanda d’accesso, ma, al contrario, la
stessa deve sostanzialmente considerarsi assorbita dai
documenti amministrativi per il cui accesso si è trattato ai
punti precedenti”.
8. Va, diversamente, ordinata l’esibizione dei titoli
autorizzatori degli interventi edilizi innanzi descritti.
Sul punto, rilevato che l’Amministrazione resistente, nella
nota impugnata, non ha in alcun modo contestato la
sussistenza di un interesse qualificato in capo agli odierni
ricorrenti, va soltanto precisato che tali documenti non
rientrano in alcuna delle categorie sottraibili all’accesso
e che in materia di rilascio dei titoli edilizi non può
essere affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza
in capo ai controinteressati (cfr. TAR Marche, 07.11.2014,
n. 923)
(TAR Basilicata,
sentenza 29.01.2016 n. 55 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazioni paesaggistiche e urbanistiche -
Consistenza dell'intervento abusivo - Particolare tenuità
del fatto - Valutazione dell'istanza - Criteri - Procedura
di c.d. condono ambientale ex lege n. 308/2004 - Art. 181 d.
Lgs. n. 42/2004 - Art. 131-bis cod. pen..
In tema di violazioni urbanistiche e paesaggistiche deve
ritenersi che la consistenza dell'intervento abusivo
(tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche
costruttive) costituisce solo uno dei parametri di
valutazione.
Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono
rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la
destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico
urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento (Cass.
Sez. 3, sentenza n. 47039 dell'08/10 - dep. 27/11/2015, ric.
Derossi).
Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto
è, inoltre, la contestuale violazione di più disposizioni
quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in
cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera,
anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di
interessi diversi (si pensi alle norme in materia di
costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di
tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla
fruizione delle aree demaniali).
A ciò va aggiunto, ad ulteriore rafforzamento
dell'esclusione della particolare tenuità del fatto come,
soprattutto per le violazioni paesaggistiche, il giudizio di
tenuità dell'offesa confligga con quanto già preventivamente
oggetto di valutazione legislativa laddove si è consentito
l'esperimento della procedura di c.d. condono ambientale
ex lege n. 308 del 2004 limitandola ai soli interventi
edilizi abusivi minori, tra cui non rientra certamente
quello in esame, consistente nell'esecuzione di una
sopraelevazione, non essendovi peraltro elementi in atti da
cui potersi desumere oggettivamente la particolare tenuità
dell'offesa (e, sul punto, si noti che per il delitto di cui
all'art. 181 comma 1-bis, d.Lgs. n. 42 del 2004, non è
nemmeno applicabile l'art. 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n.
42 del 2004: Sez. 3, n. 37168 del 06/05/2014 - dep.
05/09/2014, Autizi).
Violazioni paesaggistiche - Demolizione
di immobili abusivi o la rimessione in pristino - Omissione
in sentenza della sanzione - Effetti - Nullità - Esclusione
- Procedimento di correzione dell'errore materiale ex art.
130 cod. proc. pen..
L'omissione, in sentenza, di statuizioni obbligatorie a
carattere accessorio e a contenuto predeterminato come la
demolizione di immobili abusivi o la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi per le violazioni paesaggistiche, non
attenendo ad una componente essenziale dell'atto non integra
una nullità ed è, pertanto, emendabile con il procedimento
di correzione dell'errore materiale ex art. 130 cod. proc.
pen. dal giudice che ha pronunciato la sentenza di condanna
o dal giudice dell'impugnazione ove questa non sia
inammissibile, con esclusione del giudice dell'esecuzione
giacché carente di competenza quanto alla statuizione omessa
(Sez. 3, n. 40340 del 27/05/2014 - dep. 30/09/2014, Bognanni)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2016 n. 3534 -
link a www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
P.a., niente rimborsi legali per chi collauda i
lavori.
Ai professionisti incaricati della direzione e del collaudo
di lavori pubblici non spetta il rimborso delle spese legali
per un giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei
conti.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V con la
sentenza 27.01.2016 n. 279.
Nel dettaglio, la controversia verte sulla chiamata in
giudizio di due professionisti da parte della Procura
generale della Corte dei conti per la condanna al
risarcimento del danno che essi avrebbero causato alla
regione Piemonte per fatti correlati all'esecuzione di un
appalto di lavori, riguardo ai quali erano stati nominati
rispettivamente direttore dei lavori e collaudatore.
In merito a questo giudizio tali professionisti avevano
presentato istanza alla regione Piemonte per ottenere il
rimborso delle spese sostenute per il patrocinio legale. A
seguito del provvedimento negativo da parte del Direttore
dell'avvocatura regionale avevano impugnato la denegata
richiesta, con ricorso, al Tar Piemonte che lo aveva, a sua
volta, respinto. Con l'appello, allora, veniva chiesta la
riforma della sentenza di primo grado lamentando la mancata
assimilazione alla posizione di dipendenti pubblici dei due
professionisti. Il Consiglio di stato, però, ha rigettato il
ricorso. Pur riconoscendo, infatti, tra i soggetti un
rapporto di servizio con la p.a. con riferimento alla
responsabilità per danni cagionati nella esecuzione
dell'incarico attribuito dall'ente pubblico, non è
configurabile il diritto al rimborso delle spese per il
giudizio.
L'art. 49, comma 1, della l.reg. Piemonte n. 34 del 1989,
infatti, nel prevedere l'assistenza gratuita in giudizio
qualora si verifichi l'apertura di un procedimento di
responsabilità civile o penale nei confronti di un suo
dipendente per fatti o atti direttamente connessi
all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti
d'ufficio, laddove fa riferimento a un «suo dipendente», va
interpretata nel senso che «l'assunzione a carico della
Regione degli oneri di difesa sia riservato ai soli
lavoratori dipendenti dalla Regione che siano legati ad essa
da rapporto di servizio in senso proprio e non in senso lato».
È pertanto legittimo il provvedimento che ha denegato il
rimborso delle spese sostenute per il patrocinio legale
davanti alla Corte dei conti nei confronti dei due
professionisti perché tale rimborso è consentito solo a
favore dei dipendenti dell'Amministrazione
(articolo ItaliaOggi
del 06.02.2016).
---------------
MASSIMA
7.2.- Tanto premesso, nel caso di specie, tenuto conto
della motivazione del provvedimento impugnato (basata
esclusivamente sui rilievi che i signori Do.Ma. e Gu.Sc.,
che erano stati nominati “direttore dei lavori” in
rapporto di affidamento in appalto dei lavori di costruzione
del laboratorio di cui trattasi, non potevano essere
considerati dipendenti della Regione Piemonte e che il CCNL
comparto Regioni-Enti locali 1999 prevedeva l’istituto del
patrocinio legale unicamente a favore dei dipendenti
dell’amministrazione regionale), deve ritenersi che le
ragioni esposte nella sentenza impugnata e poste a base
della reiezione del ricorso consistano in considerazioni e
valutazioni neppure accennate in esso provvedimento o nel
ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
La sentenza, come accennato, ha infatti respinto il ricorso
introduttivo del giudizio negli assunti che l’onere di
assunzione a carico del bilancio regionale della difesa dei
dipendenti regionali riguardava solo i procedimenti di
responsabilità civile o penale e non i procedimenti per
responsabilità erariale, nonché che detto onere era
condizionato all’assenza di conflitto di interessi con la
regione, nel caso di specie invece sussistente.
Essa non si è quindi pronunciata sulle effettive censure
contenute nel ricorso giurisdizionale con riguardo alla
effettiva motivazione posta a base dell’atto impugnato, con
le quali era stata dedotta l’illogicità dello stesso,
individuata nella circostanza che per portare a giudizio i
ricorrenti innanzi alla Corte dei Conti essi erano stati
ritenuti assimilabili a dipendenti della Regione, mentre per
usufruire del patrocinio legale di essa non erano più stati
considerati tali.
7.3.- Pertanto, in accoglimento del motivo d’appello in
esame, la sentenza impugnata va sul punto riformata.
8.- Ciò posto va rilevato che, ai sensi dell'art. 105 c.p.a.,
l'omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso
giurisdizionale non configura un error in procedendo
tale da comportare l'annullamento della decisione (con
contestuale rinvio della controversia al giudice di primo
grado), ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il
giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la
motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della
causa (Consiglio di Stato, sez. IV, 10.01.2014, n. 46).
9.- Deve quindi il collegio esaminare la prima parte del
primo motivo d’appello con il quale è stato dedotto che
unico presupposto della determinazione impugnata in primo
grado sarebbe stata la circostanza che gli attuali
appellanti, che erano stati nominati direttori dei lavori in
rapporto all’affidamento in appalto dei lavori di
costruzione del Laboratorio cartografico regionale, non
potevano essere considerati dipendenti della Regione
Piemonte.
Con detto motivo è stata affermata l’erroneità del diniego
perché l’art. 49 della l.r. n. 34 del 1989, laddove prevede
l’assunzione a carico della Regione degli oneri di difesa di
suoi dipendenti per fatti direttamente connessi
all’espletamento di un servizio e all’adempimento dei
compiti d’ufficio, non avrebbe dovuto essere interpretata in
senso esclusivamente letterale ed avrebbe dovuto
riscontrarsi la sussistenza, nel caso di specie, di un
rapporto di servizio dei deducenti del tutto assimilabile al
rapporto di dipendenza con la Regione.
Sarebbe infatti pacifico l’orientamento della Corte dei
Conti e della Corte di Cassazione che avrebbero affermato
che ciò che rileva non è il rapporto di dipendenza in senso
proprio con l’Amministrazione, ma la sussistenza di una
relazione funzionale che si stabilisce tra il soggetto
privato chiamato a partecipare all’attività imputabile
all’Amministrazione e questa stessa, che colloca il soggetto
in una posizione di compartecipe fattivo alla attività
dell’Ente pubblico.
L’applicabilità dell’istituto del patrocinio legale di cui
all’art. 49 della l.r. n. 34 del 1989 sarebbe quindi
estensibile, secondo gli appellanti, oltre il rapporto di
dipendenza in senso stretto e dovrebbe riguardare anche il
rapporto di servizio, come quello intercorso tra di essi e
la Regione Piemonte all’atto dello svolgimento delle
mansioni di collaudatore e di direttore dei lavori delle
opere pubbliche di cui trattasi.
La tesi sarebbe confortata, oltre che dalle sentenze della
Corte di Cassazione, SS.UU., n. 1377 del 2006 e n. 4060 del
1993, dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, che
avrebbe riconosciuto, da ultimo con la sentenza assolutoria
n. 178 del 2003 della Sezione III Giurisdizionale Centrale
d’appello, la propria giurisdizione con riguardo agli
incarichi svolti dagli odierni appellanti nell’assunto che
essi rientrassero nel rapporto di servizio con
l’Amministrazione.
Sarebbe quindi illegittimo il provvedimento impugnato perché
sarebbe impossibile che i deducenti da un canto siano stati
accusati di essere responsabili del danno causato
all’Amministrazione (in quanto inclusi, sia pure
temporaneamente nell’apparato organizzativo della Regione) e
dall’altro estranei ad esso perché assolti.
9.1.- Osserva in proposito la Sezione che è
pacifico in giurisprudenza che il professionista debba
ritenersi inserito in modo continuativo, ancorché
temporaneo, nell'apparato organizzativo della p.A., tutte le
volte in cui, assumendo particolari vincoli ed obblighi
funzionali, contribuisca ad assicurare il perseguimento
delle esigenze generali e, cioè, tutte le volte in cui la
relazione tra l'autore dell'illecito e l'ente pubblico
danneggiato integri un rapporto di servizio in senso lato
(Cassazione civile, sezioni unite, 22.09.2014, n. 19891;
Corte Conti reg. (Puglia), sezione giurisdizionale,
27.01.2005, n. 72).
La nozione di rapporto di semplice servizio
(in senso lato) è invero configurabile tutte le volte in cui
il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo
alla pubblica Amministrazione, venga investito, anche di
fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una
determinata attività in favore della medesima p.A., nella
cui organizzazione, perciò, si inserisce, assumendo
particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il
perseguimento delle esigenze generali, cui l'attività
medesima, nel suo complesso, è preordinata.
Tra i soggetti in rapporto di servizio con la p.A., con
riferimento alla responsabilità per danni cagionati nella
esecuzione dell'incarico attribuito dall'Ente pubblico,
vengono dalla giurisprudenza inclusi anche il direttore dei
lavori e l'ingegnere capo per la realizzazione di un'opera
pubblica, in considerazione dei compiti e delle funzioni che
sono ad essi devoluti, che comportano l'esercizio di poteri
autoritativi nei confronti dell'appaltatore, in quanto essi
vengono funzionalmente e temporaneamente inseriti
nell'apparato organizzativo della p.A. che ha loro conferito
l'incarico, quali organi tecnici e straordinari della
stessa.
Detto rapporto di servizio si differenzia
tuttavia dai rapporti di lavoro dipendente di pubblico
impiego, che implicano, oltre alla natura pubblica dell'Ente
datore di lavoro, la diretta correlazione dell'attività
lavorativa prestata con i fini istituzionali perseguiti,
l'effettivo inserimento del lavoratore nell'organizzazione
dell'Ente, l'orario predeterminato e assoggettato a
controllo, la retribuzione prefissata e a cadenza mensile,
nonché il carattere continuativo, professionale ed in via
prevalente, se non esclusivo, delle prestazioni lavorative
effettuate.
9.2.- Ciò posto va rilevato, con riguardo al caso che
occupa, che l’art. 49, comma 1, della l.r. Piemonte n. 34
del 1989 stabilisce che “La Regione, anche a tutela dei
propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di
un procedimento di responsabilità civile o penale nei
confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente
connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei
compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione
che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di
difesa sin dall'apertura del procedimento facendo assistere
il dipendente da un legale di comune gradimento”.
Detta disposizione, laddove fa riferimento all’espletamento
del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio si
riferisce ad un “suo dipendente”, sicché va
interpretata nel senso che l’assunzione a carico della
Regione degli oneri di difesa fosse riservato ai soli
lavoratori dipendenti dalla Regione che fossero legati ad
essa da rapporto di servizio in senso proprio e non in senso
lato.
9.3.- Tanto comporta la legittimità del provvedimento
impugnato, che ha denegato il rimborso delle spese sostenute
per il patrocinio legale da parte degli attuali appellanti
nel giudizio presso la Corte dei Conti perché esso era
consentito unicamente a favore dei dipendenti veri e propri
dell’Amministrazione regionale e non a vantaggio di soggetti
legati ad essa da semplice rapporto di servizio in senso
lato.
Nessuna contraddittorietà sussiste quindi nella circostanza
che a suo tempo gli attuali appellanti siano stati oggetto
di procedimento di responsabilità contabile da parte della
Corte dei Conti, perché la giurisdizione di questa in
materia di responsabilità si basa sul rapporto di servizio
e, quindi, sussiste anche in fattispecie nelle quali è del
tutto assente un rapporto lavorativo di impiego in senso
stretto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977 n.
10, applicabile alla fattispecie ratione temporis, il
rilascio della concessione edilizia si configura come fatto
costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di
corrispondere il relativo contributo per oneri di
urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente
locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti
attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo
assentito e per le quali l’area acquista un beneficio
economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri
vigenti a tale momento (tabelle parametriche regionali e
deliberazione del Consiglio Comunale).
Il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto
per il solo rilascio della concessione, senza che neanche
rilevi, ad esclusione dell’obbligo, la già intervenuta
realizzazione di opere di urbanizzazione.
---------------
L’appello deve essere accolto anche sulla scorta di identico
precedente di questa Sezione, pronunciato con la sentenza n.
1108 del 22.02.2011.
Non è contestato che il Comune di Corridonia abbia stipulato
la convenzione di lottizzazione riportata in fatto
l’08.06.1975 e che le relative opere di urbanizzazione siano
state del tutto eseguite negli anni successivi.
L’appellata sostiene in base ad un assunto sollevato con il
ricorso originario e ritenuto fondato dal TAR delle Marche,
che l’obbligo del lottizzatore di realizzare in proprio le
opere di urbanizzazione primaria e l’assunzione a proprio
carico di quota parte delle spese occorrenti per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
avrebbero ormai soddisfatto anche gli oneri cui essa era
tenuta in relazione al rilascio della concessione edilizia a
proprio favore.
L’assunto non può essere condiviso.
In realtà non vi è alcuna correlazione tra il titolo
concessorio rilasciato alla lottizzazione “D’Amen Duilio”
e quello successivamente rilasciato la signora Ma.Lu.Lu.,
per la realizzazione di un intervento del tutto estraneo al
piano di lottizzazione risalente a vent’anni addietro.
Come è noto, ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977 n.
10, applicabile alla fattispecie ratione temporis, il
rilascio della concessione edilizia si configura come fatto
costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di
corrispondere il relativo contributo per oneri di
urbanizzazione, ossia per gli oneri affrontati dall’ente
locale per le opere indispensabili affinché l’area acquisti
attitudine al recepimento dell’insediamento del tipo
assentito e per le quali l’area acquista un beneficio
economicamente rilevante, da calcolarsi secondo i parametri
vigenti a tale momento (tabelle parametriche regionali e
deliberazione del Consiglio Comunale) (ex multis,
Cons. St. Sez. V, 23.01.2006, n. 159; id., 21.04.2006, n.
2258; Sez. IV 18.10.2010, n. 7565).
Il contributo per oneri di urbanizzazione è quindi dovuto
per il solo rilascio della concessione, senza che neanche
rilevi, ad esclusione dell’obbligo, la già intervenuta
realizzazione di opere di urbanizzazione (Cons. St. sez. V,
04.05.2004, n. 2687).
Vi è inoltre da rilevare che le opere di urbanizzazione
previste dal primitivo piano di lottizzazione sono state
parametrate su di un determinato carico urbanistico
esauritosi con la costruzione di tutti gli immobili previsti
in convenzione; la concessione edilizia intervenuta per
vent’anni dopo è stata rilasciata in attuazione di un
successivo strumento urbanistico che ha previsto ulteriori
costruzioni nell’area interessata e dunque, inevitabilmente,
ulteriori necessità in materia di opere di urbanizzazione.
E’ evidente che un nuovo piano regolatore non può essere
collegato ad opere di urbanizzazione preesistenti necessarie
per una diversa e minore volumetria costruibile e perciò la
concessione edilizia in questione, se rilasciata in
esenzione degli oneri, andrebbe inevitabilmente ad aggravare
opere realizzate su una determinata collettività
numericamente determinata o determinabile, ma non eseguite
per sopportare nuovi e maggiori carichi urbanistici non
previsti e delineati dall’amministrazione comunale in epoca
del tutto successiva.
Quanto preteso dalla concessionaria potrebbe realizzarsi
solo attraverso l’atto di trasferimento della concessione
edilizia già rilasciata per successione a titolo particolare
nella proprietà dell’area, con effetto novativo del rapporto
tra amministrazione concedente e concessionario privato, il
che è, nella specie, da escludersi data l’autonomia delle
concessioni rilasciate in attuazione del piano di
lottizzazione e quella emessa in favore della Lu. rilasciate
in relazione a diversi interventi edilizi.
L’appello va dunque accolto con il conseguente rigetto del
ricorso originario in riforma della sentenza impugnata (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.01.2016 n. 260 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
La revisione dei prezzi di cui all'art. 6, l.
24.12.1993 n. 537 e all’art. 115 del codice dei contratti si
applica solo alle proroghe contrattuali, come tali previste
ab origine negli atti di gara ed oggetto di consenso “a
monte”, ma non anche agli atti successivi al contratto
originario con cui, mediante specifiche manifestazioni di
volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi
ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto
identico a quello originario per quanto concerne la
remunerazione del servizio, senza che sia stata avanzata
alcuna proposta di modifica del corrispettivo, che pure la
parte privata era libera di formulare.
La proroga del termine finale di un appalto, infatti,
comporta il solo differimento del termine di scadenza del
rapporto (il quale resta regolato dalla sua fonte
originaria), mentre il rinnovo del contratto costituisce una
nuova negoziazione con la controparte, ossia un rinnovato
esercizio dell'autonomia negoziale attraverso cui vengono
liberamente pattuite le condizioni del rapporto.
---------------
3. - Vanno respinti, invece, gli ulteriori motivi coi quali,
sulla base di diversi argomenti si sostiene che troverebbe
applicazione la disciplina della revisione prezzi per il
periodo successivo allo scadere dell’originario contratto
(30.9.2007).
3.1. - L’appellante afferma che gli atti dell’INPS di
affidamento del servizio di mese in mese hanno natura di
proroga tecnica, volta solo a consentire la prosecuzione del
rapporto, senza riesercizio dell’autonomia negoziale e senza
effetti novativi, nelle more della nuova procedura di gara
(poi dell’adesione alla convenzione CONSIP).
Il Collegio ritiene corretta la qualificazione operata dal
TAR.
La revisione dei prezzi di cui all'art. 6, l. 24.12.1993 n.
537 e all’art. 115 del codice dei contratti si applica solo
alle proroghe contrattuali, come tali previste ab origine
negli atti di gara ed oggetto di consenso “a monte”
(proroghe, nella specie, non previste: cfr. art. 2 del
capitolato), ma non anche agli atti successivi al contratto
originario con cui, mediante specifiche manifestazioni di
volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi
ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto
identico a quello originario per quanto concerne la
remunerazione del servizio, senza che sia stata avanzata
alcuna proposta di modifica del corrispettivo, che pure la
parte privata era libera di formulare (Consiglio di Stato,
sez. III, 11/07/2014, n. 3585).
La proroga del termine finale di un appalto, infatti,
comporta il solo differimento del termine di scadenza del
rapporto (il quale resta regolato dalla sua fonte
originaria), mentre il rinnovo del contratto costituisce una
nuova negoziazione con la controparte, ossia un rinnovato
esercizio dell'autonomia negoziale attraverso cui vengono
liberamente pattuite le condizioni del rapporto (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 22.01.2016 n. 209 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nella specie paiono sussistere i
presupposti l’ostensione degli atti amministrativi, alla
luce degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990.
In particolare sussiste sicuramente l’interesse diretto,
concreto e attuale previsto dall’art. 22, comma 1, lett. b),
legge n. 241 cit., poiché la ricorrente chiede di prendere
visione degli atti inerenti un procedimento amministrativo
che ha direttamente inciso sulle sue situazioni giuridiche
soggettive sia personali che proprietarie, avendo subito un
sopralluogo nella sua abitazione da parte dell’autorità
amministrativa.
Né sembrano rinvenibili nella specie limiti all’accesso ai
sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990; quanto alla
“violazione penale” che l’Amministrazione evoca nella nota
depositata il 05.12.2015 essa non pare configurare un limite
all’accesso: coma la giurisprudenza amministrativa ha
chiarito il segreto istruttorio penale viene in
considerazione con riferimento agli atti compiuti
dall’autorità amministrativa nell’esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall’ordinamento, non già quando l’Amministrazione si limiti
a presentare una denuncia all’A.G. nell’esercizio delle
proprie istituzionali funzioni amministrative, com’è invece
avvenuto nella specie, avendo il Comune effettuato una
comunicazione di notizia di reato con riferimento alla
asserita violazione da parte della ricorrente dell’ordine
dell’autorità consistente nella accertata inagibilità del
suo appartamento.
---------------
... per l'annullamento del silenzio-significativo, di
rigetto, serbato dal Comune di Bagno a Ripoli sull'istanza
17.09.2015, diretta ad ottenere l'accesso agli atti e
documenti amministrativi del procedimento nell'ambito del
quale funzionari della Polizia Municipale di Bagno a Ripoli
hanno eseguito un sopralluogo all'interno dell'abitazione
della ricorrente, posta in ..., via ... n. 17, il giorno
12.09.2015.
...
Il ricorso è fondato.
In data 17.09.2015 i difensori della ricorrente, muniti di
specifica delega, richiedevano al Comune di Bagno a Ripoli
l’accesso agli atti amministrativi, con estrazione di copia,
con riferimento a “tutti i documenti e gli atti del
procedimento amministrativo nell’ambito del quale funzionari
della polizia municipale hanno eseguito un sopralluogo
all’interno dell’abitazione di Ro.Ca., posta in ..., via ...
n. 17, il giorno 12.09.2015”.
È pacifico che il Comune di Bagno a Ripoli non ha dato
riscontro alla suddetta istanza di accesso agli atti,
specificando l’Amministrazione nella nota depositata in
giudizio il 05.12.2015 che essa è rimasta senza riscontro “per
mera dimenticanza”.
Rileva tuttavia il Collegio che nella specie paiono
sussistere i presupposti l’ostensione degli atti
amministrativi, alla luce degli artt. 22 e ss. della legge
n. 241 del 1990; in particolare sussiste sicuramente
l’interesse diretto, concreto e attuale previsto dall’art.
22, comma 1, lett. b), legge n. 241 cit., poiché la
ricorrente chiede di prendere visione degli atti inerenti un
procedimento amministrativo che ha direttamente inciso sulle
sue situazioni giuridiche soggettive sia personali che
proprietarie, avendo subito un sopralluogo nella sua
abitazione da parte dell’autorità amministrativa; né
sembrano rinvenibili nella specie limiti all’accesso ai
sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990; quanto alla
“violazione penale” che l’Amministrazione evoca nella
nota depositata il 05.12.2015 essa non pare configurare un
limite all’accesso: coma la giurisprudenza amministrativa ha
chiarito il segreto istruttorio penale viene in
considerazione con riferimento agli atti compiuti
dall’autorità amministrativa nell’esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall’ordinamento, non già quando l’Amministrazione si limiti
a presentare una denuncia all’A.G. nell’esercizio delle
proprie istituzionali funzioni amministrative (TAR Lazio, 2^
Sez., n. 11188/2015), com’è invece avvenuto nella specie,
avendo il Comune di Bagno a Ripoli effettuato una
comunicazione di notizia di reato con riferimento alla
asserita violazione da parte della ricorrente dell’ordine
dell’autorità consistente nella accertata inagibilità del
suo appartamento.
Il Collegio evidenzia infine che, come posto in luce dalla
difesa di parte ricorrente in sede di discussione orale, la
documentazione versata in atti dall’Amministrazione in data
05.12.2015 non pare in effetti completamente satisfattiva
della pretesa azionata, stante tra l’altro, e soprattutto,
la mancanza del verbale dello svolto sopralluogo (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 21.01.2016
n. 99 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le roulotte utilizzate come abitazioni necessitano del
permesso di costruire.
Il legislatore identifica le nuove costruzioni non solo e
non tanto per le loro caratteristiche costruttive, ma
piuttosto per il loro uso, ove sia destinato a soddisfare
esigenze non meramente temporanee.
L'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, alla lettera e) definisce
gli interventi di nuova costruzione come "quelli di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite nelle lettere precedenti
(ovvero, interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di
ristrutturazione edilizia)", riportando un elenco di
interventi che, in ogni caso, non possono mai esulare da
tale categoria.
Tra tali interventi, alla lettera e.5), l'anzidetta norma
prevede "l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere quali
roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee".
In altri termini, il legislatore identifica le nuove
costruzioni non solo (e non tanto) per le loro
caratteristiche costruttive, ma piuttosto per il loro uso,
ove sia destinato a soddisfare esigenze di carattere non
meramente temporaneo.
---------------
La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula
infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene
e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al
soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti,
ma) permanenti nel tempo.
----------------
... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione di
opere abusive n. 93, prot. n. 14801 del 21/10/2015 emesso
dal Servizio 4° Area Tecnica; dell'ordinanza di rimessa in
pristino e di demolizione di opere abusive n. 106, prot. n.
16040 del 12/11/2015 del Servizio 4° Area Tecnica.
...
Osservato che:
- L'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, alla lettera e) definisce
gli interventi di nuova costruzione come "quelli di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite nelle lettere precedenti
(ovvero, interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di
ristrutturazione edilizia)", riportando un elenco di
interventi che, in ogni caso, non possono mai esulare da
tale categoria;
- Per quanto qui rileva, tra tali interventi, alla lettera
e.5), l'anzidetta norma prevede "l'installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere quali roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee";
- In altri termini, il legislatore identifica le nuove
costruzioni non solo (e non tanto) per le loro
caratteristiche costruttive, ma piuttosto per il loro uso,
ove sia destinato a soddisfare esigenze di carattere non
meramente temporaneo;
- Nel caso di specie, le opere realizzate dal ricorrente in
assenza di titolo edilizio integrano quelle di cui alla
predetta lettera e.5, in quanto, come accertato dal Comune
nel corso dei sopralluoghi del 06.10.2015 e del 06.11.2015,
le quattro roulotte e l’autocarro trovati sul lotto di
proprietà del ricorrente:
a) vengono utilizzati stabilmente come abitazione per la
famiglia dei signori Me., avendo questi stessi dichiarato
agli agenti di non avere alternative di alloggio e di avere
i figli che frequentano la scuola a San Martino di Lupari;
b) sono collegati ad un sistema di approvvigionamento
dell’acqua, attraverso un pozzo di prelevamento dell’acqua
dal sottosuolo, e ad un sistema di smaltimento delle acque
che vengono convogliate in un box di raccolta delle acque;
c) sono allacciati alla rete di distribuzione dell’energia
elettrica;
d) insistono su terreno di proprietà dei medesimi
ricorrenti;
- La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del
2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente
delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere
finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali
e contingenti, ma) permanenti nel tempo (Cons. St.
4116/2015);
- Dalle suddette circostanze emerge la riconducibilità delle
opere realizzate dal ricorrente alla categoria della nuova
costruzione e la loro soggezione al regime del permesso di
costruire; in ogni caso si tratterebbe d’interventi non
ammessi in zona agricola; di qui la legittimità delle
ordinanze di demolizione adottate dal Comune di San Martino
di Lupari;
- La modifica dell’estensione dell’area da acquisire è
dovuta allo spostamento delle roulotte che la ricorrente ha
effettuato tra il sopralluogo del 6 ottobre e quello del 6
novembre;
- In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.01.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione - Mancanza della
prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione -
Configurabilità del reato - Artt.208, 209, 210, 211, 212,
214, 215, 216, 256 e 266, D.Lgs. n.152/2006.
Il reato di cui all'art. 256, comma primo, del D.Lgs.
03.04.2006 n. 152, che sanziona le attività di gestione
compiute in mancanza della prescritta autorizzazione,
iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo D.Lgs. è configurabile
nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di
fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di
una attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità, salva
l'applicabilità della deroga di cui al comma quinto
dell'art. 266 del D.Lgs. 152 del 2006, per la cui
operatività occorre che il soggetto sia in possesso del
titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale
in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114 e
che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo
commercio (Cass. Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep.
08/01/2015, P.M. in proc. Seferovic; Sez. 3, n. 29992 del
24/06/2014 - dep. 09/07/2014, P.M. in proc. Lazzaro).
RIFIUTI - Trasporto non autorizzato di
rifiuti - Condotta occasionale - Configurabilità del reato.
Il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti si
configuri anche in presenza di una condotta occasionale, in
ciò differenziandosi dall'art. 260 D.Lgs. 03.04.2006, n.
152, che sanziona la continuità della attività illecita
(Cass. Sez. 3, n. 24428 del 25/05/2011 - dep. 17/06/2011,
D'Andrea).
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti -
Presupposto della inapplicabilità del regime ordinario -
Onere probatorio incombente in capo a chi invoca.
In tema di rifiuti, non va nemmeno dimenticato che il
presupposto della inapplicabilità del regime ordinario di
gestione dei rifiuti e della contestuale applicabilità del
regime giuridico più favorevole andrebbe provato da chi lo
invoca, in quanto trattasi di disciplina avente natura
eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria
(giurisprudenza costante: v., sull'onere probatorio
incombente in capo a chi invoca l'applicabilità di una
disciplina in deroga nella materia della gestione dei
rifiuti, da ultimo, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015 - dep.
17/04/2015, Fortunato) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.01.2016 n. 2230 - link a
www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Concessione ko se c'è fallimento. Legittima la
revoca del project financing da parte dell'ente.
Il Consiglio di stato ha confermato la
decisione del Tar: a rischio il patrimonio comunale.
Legittima la revoca della concessione in project financing
all'impresa fallita nel caso in cui il comune abbia prestato
garanzie ipotecarie a favore della società di progetto.
È questo il contenuto della
sentenza
18.01.2016 n. 123
del Consiglio di Stato, Sez. V, che si è così pronunciato in merito
al ricorso presentato dagli organi del fallimento della
controllante di una società di progetto avverso la decisione
del Tar di giudicare legittima la revoca della concessione
per le costruzione e gestione di un parcheggio pubblico
operata da parte del comune a seguito della dichiarazione di
fallimento nei confronti della controllante.
L'operazione oggetto del ricorso presenta i canoni della
tipica iniziativa realizzata attraverso la tecnica della
finanza di progetto: la ricorrente si è aggiudicata,
infatti, la concessione per la realizzazione e gestione di
un parcheggio situato in un'area di proprietà del comune.
Successivamente, in conformità con la convenzione stipulata
tra società e comune, è stata realizzata la segregazione
patrimoniale del progetto con la creazione della società
veicolo (Spv). Quest'ultima, al fine di realizzare
l'intervento oggetto della Convenzione, ha richiesto a un
istituto di credito un finanziamento, del quale il comune
concedente si è fatto garante quale terzo datore di ipoteca.
Successivamente alla dichiarazione di fallimento della
controllante, il comune ha comunicato alla società l'avvio
del procedimento per la revoca della concessione, con
conseguente risoluzione del relativo rapporto contrattuale
ai sensi dell'articolo 158 del dlgs 163/2006 (Codice degli
appalti). La società e la sua controllante, dopo aver visto
respinta da parte del comune l'istanza di annullamento in
autotutela del provvedimento di revoca della concessione,
hanno presentato ricorso al Tar competente, contestando
l'illegittimità dell'atto dell'amministrazione concedente
per violazione della convenzione e del codice degli appalti.
Avverso la decisione dei giudici amministrativi di primo
grado che hanno respinto il ricorso, le società hanno
presentato, poi, appello di fronte al Consiglio di stato.
La sentenza con la quale i giudici di palazzo Spada
respingono l'appello presentato dalle ricorrenti muove dai
presupposti sulla base dei quali il comune ha proceduto alla
revoca della concessione: da un lato, infatti, il Consiglio
di stato riconosce all'amministrazione concedente il venir
meno, a seguito del fallimento della controllante della Spv,
delle garanzie originarie previste dalla Convenzione;
dall'altro lato, poi, riafferma la sussistenza di ritardi
ingiustificati nell'esecuzione dell'opera.
Sotto il profilo
delle garanzie, infatti, il sopravvenuto fallimento, e la
conseguente diminuita garanzia patrimoniale del
concessionario, espone a rischio l'integrità patrimoniale
del comune, dal momento che questo ha coadiuvato le società
nel reperimento delle risorse necessarie alla realizzazione
del progetto, assumendo la veste di terzo datore di ipoteca
nei confronti dell'istituto bancario che ha erogato il
finanziamento. E, sempre secondo i giudici, tale garanzia
patrimoniale non appare sufficientemente reintegrata da una
sentenza di primo grado del giudice tributario, secondo la
quale alle appellanti spetterebbe un rimborso fiscale di
notevole importo.
Per quanto riguarda, poi, la questione dei ritardi nel
completamento del parcheggio, sulla base dei quali
l'amministrazione concedente ha posto il rifiuto di
procedere al riconoscimento –e al successivo pagamento–
del decimo stato di avanzamento lavori, le ricorrenti
imputano al comune la responsabilità del fermo lavori, che
sarebbero potuti proseguire con le risorse erogate con il
decimo stato di avanzamento lavori.
Sebbene i giudici del
Consiglio di stato riconoscano che lo slittamento sia
avvenuto a causa di alcuni ritrovamenti archeologici,
dall'altra parte, dopo la risoluzione del problema legato ai
reperti rinvenuti, la società non ha formulato un nuovo cronoprogramma, limitandosi ad indicare una data finale,
senza specificare, perciò, la tempistica delle singoli fasi
dei lavori. Di conseguenza, l'esigenza di ottenere il
riconoscimento del decimo Sal per consentire la prosecuzione
dei lavori è la conferma, secondo i giudici di palazzo
Spada, dell'incapacità finanziaria della Spv nel realizzare
l'opera senza la partecipazione da parte del comune al
rischio connesso.
L'ultima questione affrontata nella sentenza riguarda la
richiesta di indennizzo presentata dalle società ricorrenti
ai sensi dell'articolo 21-quinquies della legge 214/1990 e
dell'articolo 158 del Codice degli appalti. I giudici
amministrativi, nel ribadire che la revoca appare
giustificata dal venir meno delle garanzie patrimoniali del
concessionario e dalla ritardata esecuzione dei lavori,
respinge la richiesta delle appellanti. La corresponsione
dell'indennizzo ai sensi dell'articolo 21-quinquies,
infatti, non sembra spettare dal momento che la revoca della
concessione da parte del comune è avvenuta sulla rinnovata
valutazione dell'interesse pubblico, anche –e soprattutto–
basata sulle vicende della concessionaria.
Il diniego del rimborso richiesto ai sensi dell'articolo 158
attiene, invece, all'impossibilità di quantificare il
credito della concessionaria al momento della sentenza,
essendo ancora in corso di accertamento da parte del comune
l'effettivo avanzamento dei lavori, la loro corretta
esecuzione e gli effetti determinati dal periodo di
abbandono imputabile alle ricorrenti
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
VARI:
Negligenza sulle strisce. E la patente va in fumo.
Chi investe un pedone sulla strisce pedonali può tornare
facilmente sui banchi di scuola guida per ripetere l'esame.
Spetta infatti alla motorizzazione disporre la revisione
della licenza di guida sulla base del rapporto della
polizia. Ma trattandosi di un provvedimento precauzionale
basta un minimo dubbio sulla idoneità del conducente. Non
servono multe o violazioni conclamate alle regole di
prudenza stradale.
Lo ha ribadito il TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, con la
sentenza 18.01.2016 n. 12.
Un automobilista ha investito un pedone che camminava sulle
strisce e per questo la motorizzazione ha disposto la
revisione delle patente ai sensi dell'art. 128 del codice.
Contro questa misura cautelare l'interessato ha proposto
ricorso ai giudici amministrativi ma senza successo.
La giurisprudenza ha ampiamente chiarito che questa misura
precauzionale non ha natura punitiva come la revisione per
azzeramento del punteggio disponibile. Spetta alla
discrezionalità della motorizzazione disporre la revisione
della licenza di guida quando dalle modalità del sinistro
insorgono dubbi sulla dinamica del sinistro ovvero sulla
condotta di guida dell'automobilista.
Spetta dunque in prima battuta agli organi di polizia
stradale inquadrare bene la situazione. E argomentare
adeguatamente nel rapporto alla motorizzazione che dal luogo
dell'incidente possono emergere dubbi sulla persistenza dei
requisiti fisici o dell'idoneità tecnica dell'autista
(articolo ItaliaOggi Sette
del 15.02.2016).
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MASSIMA
Il ricorso non può essere accolto.
Ai sensi dell'articolo 128 del codice della strada "Gli
uffici competenti del Dipartimento per i trasporti
terrestri, nonché il prefetto nei casi previsti dagli
articoli 186 e 187, possono disporre che siano sottoposti a
visita medica presso la commissione medica locale di cui
all'art. 119, comma 4, o ad esame di idoneità i titolari di
patente di guida qualora sorgano dubbi sulla persistenza nei
medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti o
dell'idoneità tecnica".
La giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che
il presupposto che legittima la revisione della patente di
guida risiede, ai sensi dell'art. 128, comma 1, del Codice
della Strada (d.lgs. n. 285 del 1992), nell'insorgenza di
dubbi sulla persistenza, nel titolare, dei requisiti fisici
e psichici o dell’idoneità tecnica; ciò che legittima
l'Autorità competente a disporre la revisione della patente
di guida non è quindi rappresentato dalla certezza della
responsabilità del conducente, bensì dal dubbio, ingenerato
dalla dinamica di un sinistro ovvero dalla complessiva
condotta di guida tenuta, sulla persistenza dei requisiti
psico-fisici ovvero dell'idoneità tecnica
(cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2430 del
2013).
In tale quadro si è anche precisato che
tale provvedimento, a differenza di quello assunto ai sensi
dell'art. 126-bis del d.lgs. n. 285 del 1992, non ha
finalità sanzionatorie o punitive e non presuppone
l'accertamento di una violazione delle norme sul traffico o
di quelle penali o civili, ma è -per l'appunto- adottato in
dipendenza di qualunque episodio che giustifichi un
ragionevole dubbio sulla persistenza dell'idoneità
psico-fisica o tecnica
(Cons. Stato, sez. IV, n. 4962 del 2011; TAR Piemonte, sez.
II, n. 270 del 2014).
In altri termini, come statuito in modo conforme da una
costante e condivisa giurisprudenza,
la revisione della patente non costituisce una sanzione, ma
una misura di tipo precauzionale ove sussistano dei dubbi
sul permanere della capacità di guida dell’interessato.
Nel caso in esame lo stesso ricorrente ammette di aver
investito un pedone che percorreva le strisce pedonali,
causandogli un grave trauma con ricovero in ospedale.
Pur apprezzando le circostanze attenuanti illustrate dal
ricorrente, in particolare la scarsa visibilità e la scarsa
illuminazione delle strisce pedonali in questione, tuttavia
il fatto quale emerge dal rapporto dei carabinieri cui si
richiama il provvedimento in questa sede gravato, risulta
oggettivamente di una certa gravità, per cui, al di là degli
aspetti soggettivi e dell’assenza di colpa del ricorrente,
tuttavia risulta sufficiente a sorreggere la motivazione
dell’atto impugnato, ferma restando la non sindacabilità di
valutazioni discrezionali qualora non siano illogiche o
prive di un supporto fattuale.
In altri termini, seguendo la prevalente giurisprudenza,
la motivazione di un atto amministrativo può evincersi dagli
atti richiamati e da quelli esistenti nel fascicolo,
soprattutto ove come nel caso siano di provenienza pubblica
e non contestati negli elementi fattuali.
In sostanza, per l’infondatezza delle censure proposte il
ricorso va rigettato, anche se le circostanze dell’incidente
stradale inducono il collegio a compensare le spese di
giudizio tra le parti. |
APPALTI SERVIZI:
Associazioni volontariato, l'appalto non è
vietato.
Alle associazioni di volontariato non è precluso partecipare
agli appalti.
Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. III con la
sentenza 15.01.2016 n. 116 nell'ambito di una
licitazione privata indetta dall' Asl Napoli 4 per
l'affidamento del Servizio trasporto infermi sul territorio
- Servizio 118 di tipo B/M, alla quale avevano chiesto di
partecipare tre società commerciali e due associazioni di
volontariato.
Come osservano i giudici amministrativi, anche alla luce
della direttiva Ce n. 18/2004 e della giurisprudenza della
Corte di giustizia (Cge 23/12/2009, causa C-305/08), la
nozione comunitaria di imprenditore non presuppone lo scopo
di lucro dell'impresa, per cui «l'assenza di fine di lucro
non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti
pubblici».
Per quanto concerne, in particolare, le associazioni di
volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli
appalti dal momento che la legge quadro sul volontariato,
nell'elencare le entrate di tali associazioni, cita anche le
entrate derivanti da «attività commerciali o produttive
svolte a latere», con ciò riconoscendo la capacità di
svolgere attività di impresa.
Esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali
«imprese sociali», a cui il dlgs 24.03.2006 n. 155 ha
riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile
e principale un'attività economica organizzata per la
produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità
sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale,
anche se non lucrativa (vedi ex multis Cds n. 283/2013
nonché n. 5882/2012).
Pertanto, appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di
lucro non sia elemento idoneo ad escludere che il servizio
di trasporto di urgenza e di infermi svolto dalle
associazioni di volontariato sia da classificare nella
categoria delle attività economiche in concorrenza con gli
altri operatori del settore.
La nozione di imprenditore sopra esposta, tra l'altro,
risulta recepita anche dal Codice dei contratti (dlgs n.
163/2006), che si riferisce all'imprenditore come «operatore
economico» ammesso a partecipate alle gare per la
realizzazione di opere e l'affidamento di servizi senza
ulteriori specificazioni
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.02.2016).
---------------
MASSIMA
L’assunto del TAR non è condivisibile.
In primo luogo, a differenza di quanto asserito da
controparte, alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e della
giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGE 23.12.2009,
causa C-305/08) la nozione comunitaria di
imprenditore non presuppone la coesistenza dello scopo di
lucro dell’impresa, per cui “l'assenza di fine di lucro
non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti
pubblici. Quanto, in particolare, alle associazioni di
volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli
appalti, ove si consideri che la legge quadro sul
volontariato, nell'elencare le entrate di tali associazioni,
menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali
o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la
capacità di svolgere attività di impresa. Esse possono
essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese sociali",
a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la
legittimazione ad esercitare in via stabile e principale
un'attività economica organizzata per la produzione e lo
scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a
realizzare finalità d'interesse generale, anche se non
lucrativa”
(vedi ex multis CdS n. 283/2013 nonché n. 5882/2012).
Pertanto appare ormai pacifico che
l’assenza di scopo di lucro non sia elemento idoneo ad
escludere, in via di principio, che il servizio di trasporto
di urgenza e di infermi svolto dalle associazioni di
volontariato sia da classificare nella categoria delle
attività economiche in concorrenza con gli altri operatori
del settore.
2.2. La esposta nozione di imprenditore, tra l’altro,
risulta recepita anche dal Codice dei Contratti (DLGS n.
163/2006), che si riferisce all’imprenditore come “operatore
economico” ammesso a partecipate alle gare per la
realizzazione di opere e l’affidamento di servizi senza
ulteriori specificazioni .
Pertanto l’Associazione ricorrente, avendo i requisiti per
partecipare alla gara in controversia, aveva interesse a
ricorrere sia avverso la parziale rettifica del bando e
degli atti successivi sia avverso la propria conseguente
esclusione dalla gara.
2.3. Passando al merito, il ricorso di primo grado appare
fondato con specifico riguardo alla violazione delle
disposizioni in materia di appalto di servizi, di cui al
DLGS n. 157/1995 ( normativa vigente prima del regime
introdotto dal Codice degli Appalti di cui al D.LGS. n.
163/2006), nonché all’eccesso di potere per mancata
partecipazione al procedimento di parziale autotutela ed
alla violazione degli artt. 7-8 legge n. 241/1990 per
mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca
in questione.
Infatti, considerato che l’associazione ricorrente era stata
già ammessa alla licitazione privata con nota ASL 06.06.2006
ed aveva spedito l’offerta in data 13.07.2006, appare
evidente che nel caso di specie la stazione appaltante
avrebbe dovuto comunicare alla concorrente l’avvio del
procedimento di parziale annullamento di ufficio, ai sensi
dell’art. 7 legge n. 241/1990, in quanto quella indicata
nella delibera come ”rettifica”, in realtà,
introduceva una sostanziale modifica delle condizioni di
accesso alla gara, che comportava di necessità l’esclusione
della associazione di volontariato dalla prosecuzione della
procedura.
2.4. Sotto il profilo sostanziale, poi, come abbiamo già
esposto (affermando la sussistenza dell’interesse a
ricorrere in capo alla Misericordia/appellante), la
giurisprudenza comunitaria da tempo (vedi CGE cause C-305/08
e C-35/96) con riferimento al quadro normativo dell’epoca
aveva avuto modo di rappresentare che il
fine di lucro non è requisito determinante per la nozione di
impresa, che, invece, rinviene gli elementi essenziali
nell’esercizio di una attività economica e nel connesso
rischio di impresa.
2.5. D’altra parte nel nostro ordinamento
interno, lasciando da parte la disciplina giuridica del
volontariato, anche in diritto civile il fine di lucro non
costituisce un elemento essenziale della nozione di
operatore economico, titolare di un’azienda.
Infatti, il nostro codice di diritto
civile, mentre definisce l’imprenditore come chi esercita
professionalmente una attività economica per la produzione o
lo scambio di beni e servizi, omettendo qualsiasi
indicazione circa il fine di lucro, poi, anche nel
disciplinare l’istituto delle società, distingue tra società
commerciali con fini di lucro e società cooperative
caratterizzate dallo scopo mutualistico.
2.6. Né portano a diverse conclusioni le argomentazioni
esposte dalla ASL appellata (a difesa della pronuncia di
inammissibilità del ricorso), secondo cui la partecipazione
alla gara delle associazioni di volontariato sarebbe
preclusa sia dal fatto che la legge sul volontariato n.
266/1991 stabilisce l’assenza del fine di lucro sia dal
fatto che causerebbe una violazione del principio di libera
concorrenza, operando una grave turbativa delle logiche di
mercato.
Infatti, da un lato, la fissazione nel
bando del criterio della offerta più vantaggiosa non
comporta di per se stesso che l’associazione di volontariato
tragga dei profitti dal servizio, essendo sufficiente che
nell’offerta il prezzo sia ancorato al puntuale computo
degli oneri derivanti dalla prestazione, individuando,
quindi, il livelli del profitto zero, mentre, per altro
verso, come la Corte di Giustizia ha affermato di recente
(su ordinanza di rinvio pregiudiziale effettuato da questa
Sezione per questione con aspetti analoghi, vedi CGE su
C-113/2014) la esigenza di tutelare la
concorrenza va bilanciata, anche a livello comunitario, con
altri principi quali quello della solidarietà, della
economicità e dell’equilibrio del bilancio, che, nel
trasporto di urgenza e di infermi, hanno un peso notevole,
trattandosi di una attività dai preminenti profili socio
sanitari, che il soggetto pubblico ha interesse ad offrire
alla generalità alle condizioni più accessibili.
Non va, infatti, trascurata la considerazione che la stessa
stazione appaltante viene avvantaggiata dalla circostanza
che la gara, grazie alla partecipazione anche delle
associazioni di volontariato, si concluda con l’affidamento
del servizio trasporto ambulanza a condizioni economiche più
favorevoli con evidente vantaggio sotto il profilo sia
finanziario sia di accessibilità del servizio. |
PUBBLICO IMPIEGO:
La condotta del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il
telefono di ufficio per fini personali, al di fuori dei casi
di urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni,
integra il reato di peculato d’uso allorché produca un danno
apprezzabile al patrimonio della Pubblica Amministrazione o
di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità
dell’ufficio.
Viceversa, deve ritenersi penalmente irrilevante se non
presenta conseguenze economicamente e funzionalmente
significative.
---------------
3. Ferma -quindi- la qualifica di incaricato di pubblico
servizio ricoperta dal
Ca., pienamente fondate si rivelano, come premesso,
le doglianze espresse dal
primo ricorso sulla configurabilità, oggettiva e soggettiva,
del reato di peculato d'uso
attribuito al ricorrente.
4. Prima ancora che nell'analisi dell'elemento soggettivo
dell'ascritto reato di
peculato d'uso, da effettuarsi anche alla luce della prassi
risalente nel tempo e anteriore
all'assunzione della carica presidenziale dell'imputato
instaurata presso AMSC in merito
alla dotazione con uso "illimitato" di cellulari aziendali
conferita a dirigenti e vertici della
struttura e segnatamente ai "presidenti", l'impugnata
sentenza di appello (mutuando
carenze della confermata decisione di primo grado) delinea
una motivazione gravemente
deficitaria sulle componenti strutturali della fattispecie
criminosa ex art. 314, comma 2,
c.p. (ritenuta alla luce della ricordata sentenza Vattani
delle Sezioni Unite del
20.12.2012) e tale da prefigurare sotto più aspetti, a causa
di una omessa o incompleta
contestualizzazione storica della vicenda processuale, la
stessa oggettiva insussistenza
del reato.
4.1. Già sul piano della offensività della condotta, quale
produttiva di danno per
l'ente pubblico Comune di Gallarate, socio unico della AMSC
S.p.A., appaiono difettare -a
tutto concedere- elementi di concretezza della fattispecie
criminosa ipotizzata.
Non è
revocabile in dubbio, infatti, che il complessivo importo
delle telefonate di natura privata
effettuate -in tesi- in modo abusivo dal Ca., pari
alla somma di euro 350 maturata
nell'arco di un periodo di tempo di oltre due anni, assuma
oggettivi contorni di irrisorietà
(id est insussistenza), se rapportata (come in definitiva
riconoscono entrambe le
sentenze di merito) alla globalità delle poste di bilancio
societarie e all'imponente entità
dei costi aziendali (migliaia di euro) annualmente sostenuti
all'epoca dei fatti (anni 2007/2009) dalla AMSC per l'uso
dei telefoni cellulari conferiti a dipendenti e vertici
della
società.
Non è casuale, del resto,
che la stessa menzionata sentenza Vattani delle Sezioni
Unite (Sez. U, n. 19054/13 del 20.12.2012, Rv. 255296)
individui uno dei requisiti
integrativi della fattispecie del peculato d'uso nella
"apprezzabilità" del danno prodotto al
patrimonio della persona offesa (sia questa la pubblica
amministrazione o un terzo in
danno dei quali avvenga la condotta appropriativa) ovvero
determini, alternativamente,
un'effettiva concreta lesione alla "funzionalità"
dell'ufficio o servizio del pubblico ufficiale
o incaricato di pubblico servizio agente. Con l'inferenza,
quindi, della "irrilevanza" penale
della condotta che risulti priva di tali connotazioni
produttive di esiti economici e
funzionali significativi (cfr., in tema di uso per fini
personali del telefono di ufficio, in
linea con Sez. U, Vattani: Sez. 6, n. 46282 del 24/09/2014,
Brancato, Rv. 261009; Sez.
6, n. 50944 del 04/11/2014, Barassi, Rv. 261416).
4.2. Senz'altro carente va considerata -come dedotto dalla
difesa dall'imputato (in
sede di appello e di odierno ricorso per cassazione)-
l'analisi svolta da entrambe le
sentenze di merito e segnatamente da quella di appello
sull'elemento soggettivo del
reato, quando si abbia riguardo alle emergenze processuali,
pur ampiamente ripercorse
dai giudici di merito, asseveranti la storica esistenza
della diffusa prassi in seno alla
AMSC di un uso promiscuo di auto di servizio e soprattutto
di telefoni aziendali riservato
agli organi di vertice della società. Dato suscettibile di
indurre, proprio sotto l'aspetto del
dolo, un ragionevole dubbio sulla consapevolezza del
Ca. dell'antigiuridicità
dell'ascritto contegno di un uso improprio e penalmente
illecito del cellulare dell'azienda
(cfr., ex multis: Sez. 6, n. 32801 del 02/02/2012, Bracchi,
Rv. 253270).
4.3. Ciò chiarito, tuttavia dirimente -per pregiudizialità
storica e logica- si rivela
l'analisi, affatto deficitaria, delle medesime emergenze
processuali operata dalla Corte di
Appello (sulla scia delle valutazioni della sentenza di
primo grado, pur sottoposte
dall'appellante a stringenti critiche ignorate o
sommariamente disattese) con riguardo
alla oggettiva configurabilità e, dunque, giuridica
sussistenza dell'elemento materiale
della fattispecie del peculato d'uso ascritta al Ca..
In vero sconcertante appare la valutazione operata dai
giudici di appello del
documento 16.07.2001, definito "allegato" alla delibera di
nomina del Ca. quale
presidente del C.d.A. della società AMSC, che assegna
all'imputato un cellulare con uso
illimitato per motivi di ufficio e per motivi personali. In
proposito la sentenza impugnata
adduce a sospetto di autenticità tale atto, vuoi perché non
sarebbe stato reperito
(rectius consegnato alla p.g. a seguito dell'ordine di
esibizione documentale del p.m.) in
fase di indagini preliminari, vuoi perché la conferma della
effettiva esistenza del
documento riveniente dalla testimonianza del direttore
generale dell'epoca Er.Fo., che pur ne ha
avvalorato l'autenticità riconoscendo come propria la firma
recata
dall'atto, lascerebbe spazio a dubbi sulla attendibilità del
testimone.
Come si evidenzia nel primo ricorso dell'imputato, la Corte
di Appello ambrosiana
non soltanto ha irragionevolmente creduto di valorizzare
talune altre testimonianze di
funzionari della AMSC, che non hanno negato l'esistenza del
ridetto "allegato", asserendo
soltanto di non averne avuto notizia o di non averlo visto,
pur a fronte delle
testimonianze dei predecessori del Ca. e in
particolare del teste avv. Ma.
(che ha assicurato di non aver mai saputo di un eventuale
divieto di un uso promiscuo
del cellulare aziendale in sua disponibilità: "io lo
utilizzavo liberamente") e dello stesso
direttore del personale ing. Ga. (che ha riferito di
aver fatto uso di un cellulare della
AMSC anche per scopi personali fin dalla sua assunzione, nel
2001, come dirigente della
società), ma ha altresì offerto una travisante lettura del
valore dimostrativo dell'allegato
in parola.
Da un lato, a sostegno della inveridicità del documento, mai
espressamente
enunciata, si adduce la "stranezza" della sua mancata
consegna in sede di esibizione e
comunque la sua omessa formale archiviazione tra gli atti
della AMSC. Ciò senza che si
sia tenuto conto della multiforme dislocazione degli uffici
della società e in ogni caso
senza nessun accertamento o approfondimento dibattimentali
pur ben possibili (anche ex
art. 603 c.p.p.).
Da un altro lato si adduce, per espungere
l'atto dal novero di quelli
utilizzabili ai fini della decisione (sino a definirlo tamquam non esset), l'ulteriore
"stranezza" della diversità palese della firma apposta
sull'allegato dall'ing. Fo.,
sebbene questi l'abbia riconosciuta come propria, da altre
firme del dirigente presenti su
diversi documenti. Ciò senza che sia stato svolto un
qualsiasi accertamento tecnicografico
(perizia), non certo eludibile -per l'indubbia decisività
del dato fattuale- con il
noto canone di libera valutazione della prova per cui il
giudice diviene peritus peritorum,
e soprattutto senza nessuna verifica della generica
affermata "inattendibilità" del
riconoscimento della sottoscrizione da parte del testimone Fo..
Affermazione, questa, incongrua e contraddittoria sotto un
triplice profilo.
In primo luogo perché da siffatto assunto non sono tratte le
logiche conseguenze
giuridiche in ordine alla effettiva falsità della
testimonianza del Fo. (che avrebbe
imposto la trasmissione delle sue dichiarazioni al pubblico
ministero per il reato di cui
all'art. 372 c.p.).
In secondo luogo perché le dichiarazioni
del Fo. sono giudicate
smentite da una singolare interpretazione della deposizione
del direttore del personale
Ga.; testimonianza che, nella evidente neutralità delle
sue valenze descrittive, non
solo non contraddice il direttore generale Fo., ma
sembra avvalorarne (nei termini
già prima indicati) l'addotta evenienza dell'uso promiscuo
del telefono aziendale
assegnato fin dal 2001 ai vertici della AMSC.
In terzo
luogo, infine e specialmente,
perché -a tutto voler concedere- la affermazione della
inutilizzabilità del documento (c.d.
allegato 1), che pure oggettivamente accredita siffatta
evenienza, e della congiunta inattendibilità testimoniale
del Fo., oltre ad essere apodittica e incoerente,
appartiene al genere degli argomenti che provano troppo. Per
il semplice motivo che, se
in tesi il documento e la testimonianza del Fo. debbono
considerarsi falsi, cioè in
altre parole precostituiti per sostenere la linea difensiva
del ricorrente, non è dato
comprendere (come puntualmente segnala il primo ricorso)
perché mai il Fo. non si
sia curato di apporre sull'atto acquisito nel corso del
giudizio di merito una propria firma
che non desse adito a incertezze o illazioni quali quelle
sviluppate nella sentenza di
appello.
Ora, dinanzi all'esposto quadro ricompositivo degli elementi
processuali sottesi
alla regiudicanda e al di là di ogni ulteriore inferenza
sulla carente risposta offerta dalla
sentenza impugnata ai convergenti rilievi critici formulati
dall'appellante imputato, è
agevole e sufficiente osservare che la categoria della
"stranezza" evocata dalla stessa
decisione per svalutare un dato acquisito al processo
(documento allegato 1;
testimonianza Fo.), per di più confortato da altre fonti
descrittive, ha meri connotati
metagiuridici e, di per sé e in difetto di altri concreti
elementi storici, non ha dignità
processuale e logico-probatoria.
Per l'effetto, alla stregua della ricostruzione dei dati del
processo elaborata dalle
due conformi decisioni di merito (salva, in appello, la
riqualificazione del reato ai sensi
dell'art. 314, comma 2, c.p.), la sentenza di appello deve
essere cassata senza rinvio
perché il fatto criminoso contestato a Gi.Ca.
non sussiste (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1327). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, il
proprietario del sito ove i rifiuti son stati illecitamente
depositati, o a fine di abbandono o a fine di smaltimento,
non risponde, per la sola ragione della sua qualifica
dominicale rispetto al terreno o comunque al sito in
questione, dei reati dì realizzazione e gestione di
discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso
in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti stessi, in
quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un
obbligo giuridico di impedire l'evento lesivo, il che
potrebbe verificarsi solo nell'ipotesi, che non risulta
essere stata riscontrata nel presente caso, in cui il
proprietario abbia compiuto autonomi atti di gestione o di
movimentazione dei rifiuti.
In assenza, pertanto, di un obbligo giuridico di impedire
l'evento ed in assenza di alcuna prova in ordine alla sua
cooperazione nella determinazione dello stesso (cooperazione
che, peraltro, potrebbe, in linea di principio, realizzarsi
anche laddove vi sia in capo al proprietario del terreno la
consapevolezza di aver ceduto la disponibilità di quello ad
un terzo acciocché costui vi realizzi una discarica
abusiva), nessuna responsabilità può essere attribuita al
titolare del terreno che ometta di vigilare sulle condotte,
tanto più se abusive dal punto di vista civilistico, di chi,
in assenza di un valido titolo ovvero sulla base di un
titolo finalizzato ad un uso non illecito della cosa, abbia
la materiale disponibilità del terreno in questione.
---------------
Oggetto del sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma
1, cod. proc. pen. può ben essere qualsiasi bene -a chiunque
appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato-
purché esso sia, sebbene indirettamente, collegato al reato
e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire
pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze
del reato ovvero di agevolazione della commissione di
ulteriori fatti penalmente rilevanti.
---------------
Il ricorso, con le precisazioni che saranno di seguito
svolte, è, comunque, infondato e, pertanto, lo stesso deve
essere rigettato.
Rileva, infatti, il Collegio come il ragionamento svolto dal
Tribunale del riesame sia -ancorché solo in parte ed in modo
tale da non pregiudicarne, data la perspicuità delle
restanti argomentazioni, la correttezza del dispositivo-
erroneo e illogico.
Invero, erra il Tribunale di Roma nell'attribuire a carico
della Casentini, in quanto proprietaria del fabbricato e del
terreno ove è stato rinvenuto un deposito incontrollato di
rifiuti, pericolosi e non pericolosi, una posizione definita
di responsabilità rispetto alla condotta criminosa ivi in
corso di realizzazione.
Invero, questa Corte ha precisato in più occasioni che in
materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, il
proprietario del sito ove i rifiuti son stati illecitamente
depositati, o a fine di abbandono o a fine di smaltimento,
non risponde, per la sola ragione della sua qualifica
dominicale rispetto al terreno o comunque al sito in
questione, dei reati dì realizzazione e gestione di
discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso
in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti stessi, in
quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un
obbligo giuridico di impedire l'evento lesivo, il che
potrebbe verificarsi solo nell'ipotesi, che non risulta
essere stata riscontrata nel presente caso a carico della
Ca., in cui il proprietario abbia compiuto autonomi atti di
gestione o di movimentazione dei rifiuti (Corte di
cassazione Sezione III penale, 01.10.2014, n. 40528; idem
Sezione III penale, 19.12.2013, n. 49327).
In assenza, pertanto, di un obbligo giuridico di impedire
l'evento ed in assenza di alcuna prova in ordine alla sua
cooperazione nella determinazione dello stesso (cooperazione
che, peraltro, potrebbe, in linea di principio, realizzarsi
anche laddove vi sia in capo al proprietario del terreno la
consapevolezza di aver ceduto la disponibilità di quello ad
un terzo acciocché costui vi realizzi una discarica
abusiva), nessuna responsabilità può essere attribuita al
titolare del terreno che ometta di vigilare sulle condotte,
tanto più se abusive dal punto di vista civilistico, di chi,
in assenza di un valido titolo ovvero sulla base di un
titolo finalizzato ad un uso non illecito della cosa, abbia
la materiale disponibilità del terreno in questione.
Del tutto illogico è il rilievo svolto dal Tribunale del
riesame nella parte in cui ravvisa un titolo di
responsabilità a carico della Ca. nel fatto che questa non
abbia formalizzato in base ad un titolo negoziale la
situazione possessoria del terreno in favore del Ma.; al
riguardo infatti non può non rilevarsi che l'eventuale
assenza di un valido titolo che legittimi il possesso del
terzo costituirebbe, semmai, elemento scriminante rispetto
alla condotta del proprietario del terreno, il quale non
avrebbe neppure cooperato col terzo tramite la messa a
disposizione dell'area da questo destinata alla
realizzazione della discarica.
Rileva, tuttavia, questa Corte che la fallacia sul punto del
ragionamento del Tribunale del riesame non è comunque
fattore idoneo a privare per il resto di legittimità
l'ordinanza impugnata.
Questa, infatti, si fonda essenzialmente non sulla esigenza
di assicurare i futuri effetti della eventualmente
disponenda confisca del terreno ai sensi dell'art. 240 cod.
pen. (il che presupporrebbe l'esistenza di elementi tali da
consentire la ravvisabilità nella condotta ipotizzata a
carico del titolare del bene sequestrato dei profili
dell'illecito penale), ma sul fine di sottrarre il terreno
ove in maniera indiscussa è in corso di realizzazione la
attività illecita oggetto della provvisoria imputazione
mossa alla ricorrente ed a tale Ma.Mo., possessore del
terreno de quo, alla libera disponibilità di quest'ultimo
onde rimuovere il pericolo che il reato in provvisoria
contestazione possa protrarsi o, comunque, essere portato a
conseguenze ulteriori.
Tanto riscontrato, va, perciò, ribadito, come questa Corte
ha in passato puntualizzato, che oggetto del sequestro
preventivo di cui all'art. 321, comma 1, cod. proc. pen. può
ben essere qualsiasi bene -a chiunque appartenente e,
quindi, anche a persona estranea al reato- purché esso sia,
sebbene indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato
in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di
aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato
ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti
penalmente rilevanti (Corte di cassazione, Sezione V penale,
24.03.2010, n. 11287; idem Sezione IV penale, 12.08.2009, n.
32964).
Ricorrendo le predette condizioni nel caso in esame la
ordinanza del Tribunale di Roma va ritenuta, fatta la
precisazione di cui alla parte iniziale della presente
sentenza, pienamente legittima ed il ricorso proposto dalla
Casentini avverso si essa deve essere rigettato, con le
derivanti conseguenze, precisate in dispositivo, in tema di
regolamento delle spese processuali a carico della medesima
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1158). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimi i lavori tardivi. Fuori legge le
opere non completate in tre anni.
Una sentenza della Corte di cassazione interviene sui
termini dei permessi.
Sono illegittimi i lavori edilizi che non sono stati
iniziati entro il termine di un anno dal rilascio del
permesso e non sono stati completati entro il triennio
successivo. In quanto la competente amministrazione all'atto
del rilascio del permesso a costruire indica chiaramente i
termini fissati per l'inizio e il termine finale delle opere
oggetto di ristrutturazione.
Questo è quanto sostiene la Corte di Cassazione, Sez. III
penale, con la
sentenza
14.01.2016 n. 1152 in materia di termini prefissati per i
lavori edilizi.
Sottolineano i giudici di piazza Cavour,
mentre per quanto concerne la ultimazione dei lavori questo
termine non può essere, di regola, superiore alla durata di
tre anni dall'inizio delle opere, per dare inizio a esse il
titolare del permesso è onerato ad attivarsi entro un anno
dal rilascio del permesso.
Siffatti termini sono, infine,
suscettibili di essere prorogati, con provvedimento
motivato, solo in presenza di fatti sopravvenuti
indipendenti dalla volontà del titolare medesimo. Va,
altresì, precisato che, come rilevato dalla giurisprudenza
amministrativa, nel vigente contesto normativo, così come
d'altra parte in quello precedentemente applicabile, non è
ravvisabile la presenza di alcuna norma o principio di
diritto che imponga l'emanazione di un provvedimento
espresso riguardo alla intervenuta decadenza, posto che la
legge stessa disciplina in via diretta la durata della
concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la
proroga.
Con la conseguenza, quindi, che la decadenza della
concessione edilizia per mancata osservanza del termine di
inizio dei lavori opera di diritto e che il provvedimento
pronunciante la decadenza, se eventualmente adottato, ha
carattere meramente dichiarativo di un effetto già
verificatosi ex se, in via diretta, in ragione
dell'infruttuoso decorso del termine prefissato.
A seguito
della entrata in vigore dell'articolo 30 del decreto legge
21.06.2013 decreto legge n. 69 (cosiddetto decreto del
fare), convertito con modificazioni con la legge 09.08.del 2013 n. 98, ai fini della configurabilità del reato
previsto dall'articolo 44 del dpr n. 380 del 2001, gli
interventi di ristrutturazione edilizia, consistenti nel
ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi,
eventualmente demoliti o crollati, debbono ritenersi
assoggettati al rilascio del necessario permesso a costruire
se non è possibile accertare la preesistente volumetria
delle opere che, qualora ricadano, come nel caso in
questione, in zona paesaggisticamente vincolata e sono
altresì assoggettate all'obbligo di rispettare anche la
precedente sagoma dell'edificio.
Pertanto sostengono i giudici di Cassazione che
correttamente il tribunale del riesame ha ritenuto che
sussistessero gli elementi per la conservazione del
sequestro in ragione dell'assorbente motivo della
intervenuta inefficacia del permesso a costruire.
Alla luce di tutto ciò ricordano i giudici di piazza Cavour
non essendo stati iniziati i lavori nel termine di un anno
dal rilascio del permesso a costruire e non essendo stati
gli stessi completati entro il triennio, non possono essere
ritenuti legittimi in quanto non validamente assentiti con
un permesso a costruire in corso di validità
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso, essendo risultato infondato, deve essere,
pertanto, rigettato, col conseguente accollo della spese
processuali a carico del ricorrente
Rileva, infatti, la Corte, esaminando le doglianze contenute
nell'impugnazione proposta dal Fa. e confrontandole con la
motivazione della ordinanza impugnata, che quest'ultima si
fonda, sia pure sotto molteplici profili, essenzialmente sul
presupposto della sussistenza in capo al ricorrente
dell'obbligo di dotarsi di idoneo permesso a costruire per
la realizzazione delle opere oggetto di sequestro e della
sua perdurante validità.
Assume in tale prospettiva valenza assorbente l'esame del
motivo di ricorso formulato dal Fa. con il quale egli ha
dedotto la illegittimità della ordinanza impugnata nella
parte in cui essa sarebbe stata emessa in violazione
dell'art. 15 del dPR n. 380 del 2001 laddove nella stessa si
è affermata la sussistenza del fumus commissi delicti
per avere il ricorrente realizzato l'immobile oggetto di
sequestro dopo che il permesso a costruire n. 74 del 2007 a
lui rilasciato era divenuto inefficace per essere scaduto il
termine di decadenza previsto dall'art. 15 del dPR n. 380
del 2001 per l'inizio delle opere assentite.
Premessa, infatti, la necessità per il Fa. di dotarsi di un
valido permesso a costruire per la realizzazione delle opere
per cui è processo -atteso che,
pur a seguito della entrata in vigore dell'art. 30 del
decreto legge n. 69 del 2013, convertito con modificazioni
con legge 98 del 2013, ai fini della configurabilità del
reato previsto dall'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, gli
interventi di ristrutturazione edilizia, consistenti nel
ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi,
eventualmente demoliti o crollati, debbono ritenersi
assoggettati al rilascio nel necessario permesso a costruire
se non è possibile accertare la preesistente volumetria
delle opere che, qualora ricadano, come nel caso in
questione, in zona paesaggisticamente vincolata, sono
altresì assoggettate all'obbligo di rispettare anche la
precedente sagoma dell'edificio
(Corte di cassazione, Sezione III penale, 30.09.2014, n.
40342; idem Sezione III penale, 07.02.2014, n. 5912)- rileva
questa Corte che correttamente il Tribunale del riesame
della misura cautelare reale ha ritenuto che sussistessero
gli elementi per la conservazione del sequestro in ragione
dell'assorbente motivo della intervenuta inefficacia del
citato permesso a costruire n. 74 del 2007.
Va, infatti, ricordato che,
secondo quanto prescrive l'art. 15 del dPR n. 380 del 2001,
all'atto del rilascio del permesso a costruire la competente
Amministrazione indica anche i termini fissati per l'inizio
ed il termine delle opere assentite; invero, mentre per
quanto concerne la ultimazione dei lavori questo termine non
può essere, di regola, superiore alla durata di tre anni
dall'inizio delle opere, per dare inizio ad esse il titolare
del permesso è onerato ad attivarsi entro un anno dal
rilascio del permesso; siffatti termini sono, infine,
suscettibili di essere prorogati, con provvedimento
motivato, solo in presenza di fatti sopravvenuti
indipendenti dalla volontà del titolare medesimo.
Va, altresì, precisato che, come rilevato dalla
giurisprudenza amministrativa,
nel vigente contesto normativo, così come d'altra parte in
quello precedentemente applicabile, non é ravvisabile la
presenza di alcuna norma o principio di diritto che imponga
l'emanazione di un provvedimento espresso riguardo alla
intervenuta decadenza, posto che la legge stessa disciplina
in via diretta la durata della concessione e, in via
tassativa, le ipotesi per ottenerne la proroga: con la
conseguenza, quindi, che la decadenza della concessione
edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei
lavori opera di diritto e che il provvedimento pronunciante
la decadenza, se eventualmente adottato, ha carattere
meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi ex
se, in via diretta, in ragione dell'infruttuoso decorso
del termine prefissato
(Consiglio di Stato, Sezione IV, 18.05.2012, n. 2915; nello
stesso senso, cioè in quello della automaticità della
inefficacia per l'inutile decorrenza del termine fissato per
l'inizio o l'ultimazione dei lavori assentiti, anche Tar del
Lazio, Sezione II-bis, 05.05.2015, n. 6356).
Premesso quanto sopra deve convenirsi con il Tribunale di
Pescara nel rilevare che, non essendo stati iniziati i
lavori realizzati dal Fa. oltre il termine di un anno dal
rilascio del permesso a costruire n. 74 del 2007 e non
essendo stati gli stessi completati entro il triennio, detti
lavori, in disparte ogni altra considerazione, non possono
essere ritenuti legittimi in quanto non validamente
assentito con un permesso a costruire in corso di validità. |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di ristrutturazione edilizia -
Ripristino o ricostruzione di edifici o parti di essi
demoliti o crollati - Permesso a costruire - Necessità -
Zona paesaggisticamente vincolata - Obbligo di rispettare
anche la precedente sagoma - Artt. 3, 15, 30, e 44 dPR n.
380/2001.
Pur a seguito della entrata in vigore dell'art. 30 del
decreto legge n. 69 del 2013, convertito con modificazioni
con legge 98 del 2013, ai fini della configurabilità del
reato previsto dall'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, gli
interventi di ristrutturazione edilizia, consistenti nel
ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi,
eventualmente demoliti o crollati, debbono ritenersi
assoggettati al rilascio nel necessario permesso a costruire
se non è possibile accertare la preesistente volumetria
delle opere che, qualora ricadano in zona paesaggisticamente
vincolata, sono altresì assoggettate all'obbligo di
rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio (Corte
di cassazione, Sezione III penale, 30.09.2014, n, 40342;
idem Sezione III penale, 07.02.2014, n. 5912) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1152 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso a costruire - Inizio e termine delle
opere - Proroga con provvedimento motivato, solo in presenza
di fatti sopravvenuti indipendenti dalla volontà del
titolare - Effetti - Decadenza del permesso a costruire -
Inutile decorrenza del termine fissato per l'inizio o
ultimazione dei lavori.
Ai sensi dell'art. 15 del dPR n. 380 del 2001, all'atto del
rilascio del permesso a costruire la competente
Amministrazione indica anche i termini fissati per l'inizio
ed il termine delle opere assentite; invero, mentre per
quanto concerne la ultimazione dei lavori questo termine non
può essere, di regola, superiore alla durata di tre anni
dall'inizio delle opere, per dare inizio ad esse il titolare
del permesso è onerato ad attivarsi entro un anno dal
rilascio del permesso; siffatti termini sono, infine,
suscettibili di essere prorogati, con provvedimento
motivato, solo in presenza di fatti sopravvenuti
indipendenti dalla volontà del titolare medesimo.
Va, altresì, precisato che, nel vigente contesto normativo,
non é ravvisabile la presenza di alcuna norma o principio di
diritto che imponga l'emanazione di un provvedimento
espresso riguardo alla intervenuta decadenza, posto che la
legge stessa disciplina in via diretta la durata della
concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la
proroga: con la conseguenza, quindi, che la decadenza della
concessione edilizia per mancata osservanza del termine di
inizio dei lavori opera di diritto e che il provvedimento
pronunciante la decadenza, se eventualmente adottato, ha
carattere meramente dichiarativo di un effetto già
verificatosi ex se, in via diretta, in ragione
dell'infruttuoso decorso del termine prefissato (Consiglio
di Stato, Sezione IV, 18.05.2012, n. 2915; nello stesso
senso, cioè in quello della automaticità della inefficacia
per l'inutile decorrenza del termine fissato per l'inizio o
l'ultimazione dei lavori assentiti, anche Tar del Lazio,
Sezione II-bis, 05.05.2015, n. 6356) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1152 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Zone protette, stop alle pale eoliche.
Bocciato un ricorso contro il divieto di costruire nelle
aree a tutela speciale.
Consiglio di Stato. Non sufficiente per una deroga il fatto
che nelle vicinanze sia già operativo un altro impianto.
Il divieto di
costruzione di pale eoliche nelle zone di protezione
speciale (Zps) è assoluto e non ammette deroghe. Nemmeno per
l’esistenza di altri impianti già attivi nella stessa zona
né per il «favor» dell’Ue all’“energia pulita” da fonti
rinnovabili.
È destinata a far giurisprudenza la
sentenza
14.01.2016 n. 83 del Consiglio
di Stato – IV Sez.– che ha
bocciato i ricorsi con cui un’azienda contestava a una
Regione la mancata autorizzazione a un parco eolico in
un’area Zps e Iba («importante per gli uccelli»), senza aver
prima avviato l’iter di Valutazione di impatto ambientale
(Via).
Appellandosi ai princìpi di non discriminazione e
proporzionalità in materia (Corte Ue, 2/2011), la ricorrente
riteneva sempre d’obbligo la Via e chiedeva l’«ok» al
progetto perché in ogni caso nella stessa area c’erano già
le pale di un altro operatore e avrebbe prodotto l’energia
pulita voluta dalla Ue (Direttiva 2009/28/Ce recepita con
Dlgs 28/2011).
Per l’Ente, la procedura era inutile dato che sulle Zps il
divieto di realizzare tali opere prescinde da esami
d’impatto. Recepito con leggi regionali come in questo caso,
il divieto è stato così stabilito dal ministero
dell’Ambiente nel 2007 (articolo 5, Dm 17 ottobre): attuando
le direttive “Uccelli” 79/409/Cee e “Habitat” 92/43/Cee e
integrando le norme già adottate (Dpr 357/1997), ha fissato
criteri minimi uniformi di tutela per Zps e zone speciali di
conservazione (Zsc), con la sola deroga per opere
commerciali istruite prima (soggette poi a Via).
Validando il «no» automatico alla domanda (deposito 2009) e
richiamando la citata decisione della Corte Ue, i giudici
hanno ribadito che «la norma pone un divieto assoluto di
realizzazione di nuovi impianti eolici nelle Zps,
prescindendo dalla necessità di una previa valutazione di
incidenza ambientale», ma precisando come «(...) non vale ad
escludere l’operatività del divieto la circostanza che nella
stessa zona sia presente ed operativo un impianto da fonte
rinnovabile».
Quest’ultimo, «avuto riguardo alla peculiare finalità di
tutela della normativa, lungi da giustificare la pretesa
attenuazione del divieto, ne giustifica invece una più
rigida applicazione, trovandosi di fronte ad ambito
territoriale già compromesso ove l’esigenza di conservazione
risulta senza dubbio maggiore».
Per Palazzo Spada, inoltre, se «concesso nella vigenza della
stessa normativa statale e regionale (…) non si sarebbe di
fronte a disposizioni normative contenenti un trattamento
discriminatorio, quanto piuttosto ad un provvedimento
amministrativo illegittimo rilasciato all’altro operatore
economico», se invece concesso prima è del tutto escluso
essendovi allora altre norme.
A detta del collegio, lo “stop” rispetta pure la
proporzionalità poiché «riferito ai soli impianti eolici e
non anche a tutte le altre tipologie di produzione di
energia rinnovabile». In base alla sentenza poi, «in linea
generale il “favor” espresso per la realizzazione di
impianti energetici da fonte rinnovabile non è in sé
espressione di un interesse pubblico in assoluto prevalente
sugli altri che con lo stesso possano venire in conflitto»,
tantomeno qui con una disciplinata «esigenza di preservare,
mantenere e ristabilire per determinate specie ornitiche una
varietà ed una superficie di habitat» (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Per i box interrati servono le distanze di
sicurezza. Consiglio di Stato. Lecito agire contro il
costruttore dell’area adiacente l’edificio.
La costruzione di un parcheggio
interrato nell’area adiacente a quella di un condominio deve
essere realizzata a distanza legale dalle fondazioni del
caseggiato. In caso contrario, l’amministratore è
legittimato a impugnare il permesso di costruire che
consente la realizzazione della struttura interrata
potenzialmente dannosa per il bene comune.
Sono questi i
principi affermati dalla recente
sentenza 14.01.2016 n. 81 del Consiglio di
Stato, Sez. IV.
Il caso: un condominio, venuto a conoscenza del permesso di
costruire rilasciato a una società per realizzare un
parcheggio interrato in un’area contigua a quella del
proprio complesso immobiliare, impugnava il provvedimento
davanti al Tar, lamentando principalmente una carente
attività istruttoria e la violazione delle norme sulle
distanze tra le costruzioni, che avrebbe determinato
pericolose interferenze della nuova opera co n le fondazioni
del caseggiato. Del resto gli uffici comunali non avevano
svolto idonee indagini, come emergeva con evidenza dalla
mancata indicazione del palazzo sulle tavole grafiche
presentate dal richiedente il permesso di costruire, avendo
i grafici indicato l’edificio come area non rilevata.
Perciò il Tar dava torto alla società di costruzioni, che
proponeva appello, mettendo in rilievo come il progetto
assentito prevedesse, nella parte fuori terra, la
realizzazione del parcheggio alla prescritta distanza di un
metro e mezzo dal confine dell’area condominiale, nonché
contestando la legittimazione dell’amministratore a
richiedere l’annullamento del provvedimento rilasciato.
Secondo il Consiglio di Stato, che confermava il giudizio di
primo grado, il Comune deve essere messo in condizione di
verificare che, anche a livello sotterraneo, sia rispettata
la distanza di sicurezza fra costruzioni. In altre parole,
la legittimità del permesso di costruire è sempre legata
alla valutazione della mancanza di impedimenti alla
realizzazione dell’intervento da assentire e, in
particolare, all’inesistenza di interferenze concrete o
anche potenziali, specialmente per quanto riguarda le
fondazioni (soprattutto in zona sismica) di edifici vicini.
Tali pericolose interferenze sono però certe se la distanza
tra l’opera da realizzare e plinti di un fabbricato
condominiale sia inferiore a quella prescritta dalla legge,
rendendo superfluo disporre ulteriori indagini. Infatti la
sovrapposizione degli elementi strutturali del parcheggio a
quelli dei fabbricati esistenti incide sul piano della
sicurezza della staticità dei fabbricati, per cui potrebbero
determinarsi cedimenti del caseggiato.
A fronte di questa situazione sussiste la piena
legittimazione dell’amministratore di condominio a impugnare
il permesso di costruire, in quanto viene fatto valere non
un preteso diritto di proprietà sulle fondazioni, ma la
pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, cioè
alla completa verifica della sussistenza di tutti i
presupposti per il rilascio del titolo edilizio (articolo Il Sole 24 Ore
del 09.02.2016). |
COMPETENZE PROGETTUALI: L'ingegnere può lavorare su edifici storico-artistici.
Tar Bologna.
Lo studio di ingegneria ben può aggiudicarsi i lavori di
risanamento anche se è un edificio di interesse
storico-artistico l'immobile che desta preoccupazioni al
comune emiliano colpito dal terremoto del 2012. Inutile per
i concorrenti rivendicare la competenza esclusiva degli
architetti quando i lavori oggetto della procedura pubblica
sono interventi di risanamento che non incidono sui profili
estetici del fabbricato vincolato.
È quanto emerge dalla
sentenza 13.01.2016 n. 36 pubblicata dalla I Sez. del TAR
Emilia Romagna-Bologna.
Deve rassegnarsi, l'architetto rimasto escluso dai
lavori: stavolta non conta che l'ingegnere non abbia lo
stesso senso estetico nella progettazione perché
l'intervento che l'amministrazione intende far realizzare
punta al mero ripristino strutturale della porzione delle
strutture lesionate dal sisma; insomma: si deve procedere ad
attività di riparazione con rafforzamento locale, tanto che
le relative prestazioni da erogare restano inquadrate nella
sfera del risanamento e della salvaguardia dell'immobile
danneggiato.
Si tratta di intervenire sulla struttura
dell'edificio per ripararla e consolidarla: si rientra
quindi nelle opere di edilizia civile riconducibili alla
«parte tecnica» di cui all'articolo 52, comma 2, del regio
decreto 2537/1925, nella lettura ampia che ne ha dato la
giurisprudenza, comprendendo tutte le lavorazioni che non
incidono sui profili estetici e di rilievo culturale degli
edifici vincolati.
Spese di giudizio compensate per la
complessità della questione
(articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
si tratti di interventi edilizi eseguiti in area
assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985
e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R.
n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra
interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero
in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che
la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti
gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
---------------
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della
natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto:
l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non
deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata
tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si
ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso,
di cui peraltro l'interessato non può non essere a
conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di
controllo.
---------------
Per le opere residue, il ricorso è invece destituito di
fondamento.
Non convince il primo mezzo di gravame, ove si lamenta che
il Comune ha omesso di qualificare gli abusi commessi in
termini di totale difformità o variazioni essenziali
rispetto alla concessione edilizia n. 125/1990, in quanto
“Laddove si tratti di interventi edilizi eseguiti in area
assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985
e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R.
n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra
interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero
in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che
la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti
gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali”
(cfr. TAR Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 640).
Nemmeno convince il terzo mezzo di gravame, col quale si
lamenta la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento, in quanto “L'ordine di demolizione conseguente
all'accertamento della natura abusiva delle opere
realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi,
è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in
quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione
di avvio del procedimento, trattandosi di una misura
sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura
vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di
fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può
non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua
sfera di controllo” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 14.05.2015, n. 2411)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - APPALTI: Condanna
della p.a. alla corresponsione di somme: la non capienza dei
capitoli di bilancio non giustifica l'ente.
Il TAR Lombardia-Brescia ha accolto ricorso per ottemperanza
ai sensi dell’art. 114 cpa proposto allo scopo di recuperare
il credito derivante da condanna del Ministero della Salute
al risarcimento per responsabilità processuale aggravata ex
art. 96 c.p.c.
Tenendo conto del tempo già trascorso e del superamento dei
limiti di tollerabilità, il TAR ha ritenuto preferibile
nominare direttamente il commissario ad acta, al
quale ha demandato il compito di adottare tutti i
provvedimenti amministrativi e contabili necessari, fino
all’emissione del mandato di pagamento a favore del
ricorrente, senza fissare alcun compenso a questo proposito
trattandosi di un dirigente dell’amministrazione convenuta
in giudizio.
Precisa il TAR "che la mancanza di
disponibilità finanziarie su un apposito capitolo di
bilancio non è un’esimente per non onorare i debiti
dell’amministrazione accertati mediante sentenza.
L’amministrazione è quindi tenuta, direttamente o su impulso
del commissario ad acta, a operare le necessarie variazioni
di bilancio per reperire fondi sufficienti al pagamento
delle somme dovute, anche modificando le priorità di spesa
precedentemente stabilite"
(commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it).
----------------
... per l'ottemperanza alla sentenza del Tribunale di
Cremona n. 33 del 05.04.2013, che ha respinto l’opposizione
ex art. 615 cpc del Ministero della Salute, condannando lo
stesso a versare al convenuto in opposizione € 1.000 a
titolo di risarcimento per responsabilità processuale
aggravata ex art. 96, comma 3 cpc, e ha inoltre disposto la
distrazione delle spese ai difensori An.Fi.Ol., Al.Ol. e
Ma.Co. per un importo pari a € 1.000, oltre a IVA e CPA;
...
1. Il Tribunale di Cremona con sentenza n. 33 del 05.04.2013
(passata in giudicato) ha respinto l’opposizione ex art. 615
cpc del Ministero della Salute in una controversia relativa
alla rivalutazione monetaria annuale sull’indennità
integrativa speciale, che costituisce la seconda componente
dell’indennizzo per infermità da emotrasfusioni ex art. 2,
comma 2, della legge 25.02.1992 n. 210.
Il Ministero è stato condannato a versare al convenuto in
opposizione (e attuale ricorrente) -OMISSIS- la somma di €
1.000 a titolo di risarcimento per responsabilità
processuale aggravata ex art. 96, comma 3 cpc.
2. Copia della sentenza con formula esecutiva è stata
notificata al Ministero il 28.02.2014.
3. Il Ministero non ha ancora corrisposto il risarcimento
per responsabilità processuale aggravata.
4. Essendo decorso il termine di centoventi giorni ex art.
14, comma 1, del DL 31.12.1996 n. 669, il ricorrente, con
atto notificato il 20.07.2015 e depositato il 21.07.2015, ha
proposto ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 114 cpa,
allo scopo di recuperare il proprio credito. È stata chiesta
anche l’applicazione delle penalità di mora ex art. 114,
comma 4-e cpa.
5. Il Ministero si è costituito in giudizio chiedendo la
reiezione del ricorso.
6. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) oltre al termine dilatorio di centoventi giorni dalla
notificazione del titolo esecutivo, come previsto dall’art.
14, comma 1, del DL 669/1996, è ormai scaduto anche il
termine di tolleranza di sei mesi concesso dalla Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo nella procedura Pinto (v. CEDU
GC 29.03.2006, Cocchiarella, punto 89; CEDU Sez. II
21.12.2010, Gaglione, punto 34), qui richiamabile per
analogia a decorrere dal passaggio in giudicato della
sentenza ex art. 324-327 cpc;
(b) tenendo conto del tempo già trascorso e del superamento
dei limiti di tollerabilità, si ritiene preferibile nominare
direttamente il commissario ad acta, che dovrà
adottare tutti i provvedimenti amministrativi e contabili
necessari, fino all’emissione del mandato di pagamento a
favore del ricorrente.
Questo compito è attribuito al responsabile della DG
Vigilanza sugli Enti e Sicurezza delle Cure presso il
Ministero della Salute, in considerazione dell’attuale
competenza specifica di tale articolazione organizzativa in
materia di indennizzi. Trattandosi di un dirigente
dell’amministrazione convenuta in giudizio, non appare
necessario fissare alcun compenso;
(c) il commissario ad acta dovrà far conseguire al
ricorrente il risarcimento per responsabilità processuale
aggravata fissato nella sentenza n. 33/2013 e le spese
liquidate nella presente sentenza;
(d) il termine entro cui il commissario ad acta dovrà
emettere il mandato di pagamento è stabilito in sessanta
giorni dal deposito della presente sentenza;
(e) una volta decorso inutilmente tale termine, il
commissario ad acta dovrà aggiuntivamente
corrispondere al ricorrente un importo pari a € 300 per ogni
mese (o frazione di mese) di ritardo, fino al saldo;
(f) occorre precisare che la mancanza di disponibilità
finanziarie su un apposito capitolo di bilancio non è
un’esimente per non onorare i debiti dell’amministrazione
accertati mediante sentenza (v. CEDU, Cocchiarella, cit.,
punto 90; CEDU, Gaglione, cit., punto 35).
L’amministrazione è quindi tenuta, direttamente o su impulso
del commissario ad acta, a operare le necessarie
variazioni di bilancio per reperire fondi sufficienti al
pagamento delle somme dovute (v. CEDU, Cocchiarella, cit.,
punto 101; CEDU, Gaglione, cit., punto 59), anche
modificando le priorità di spesa precedentemente stabilite.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con le
prescrizioni e i termini di cui sopra
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 12.01.2016 n. 37 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella tutela paesaggistica no a divieti eccessivi.
Tar Brescia.
Va bene la tutela del panorama in campagna, ma non si può
bloccare l'impianto fotovoltaico che ben si fonde col tetto
dell'edificio rurale se un filare d'alberi basterebbe a
schermare i pannelli e a evitare ingombri alla vista per il
panorama. E ciò anche se sull'area grava un vincolo
paesistico, perché si trova vicino al fiume.
È quanto emerge
dalla
sentenza
12.01.2016 n. 27, pubblicata dalla I Sez. del
TAR Lombardia-Brescia.
Intangibilità irragionevole - Accolto il ricorso del
proprietario dell'immobile dopo il niet della
Soprintendenza: eccessivo il diniego integrale di sanatoria,
annullato il provvedimento adottato dallo sportello unico
delle attività produttive del comune. Una barriera di
piante, per esempio, ben potrebbe scongiurare i riflessi del
sole dai pannelli alla strada.
In effetti la Soprintendenza
non considera che vicino all'immobile «incriminato» esistono
altri impianti fotovoltaici, peraltro di grandi dimensioni.
E lo riconosce anche il comune. È vero: si tratta di
installazioni che risultano al di fuori della zona
sottoposta al vincolo paesistico, mentre il fabbricato
dell'interessato viene considerato un punto di riferimento
nella zona, che costituisce un continuum agricolo.
Ma non
sarebbe ragionevole imporre l'immodificabilità di una
piccola porzione del territorio solo perché si trova più
vicina a un corso d'acqua, quando strutture di grande
impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine,
che pure appartengono allo stesso contesto agricolo.
Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016).
---------------
MASSIMA
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) per quanto riguarda la tempestività e l’ammissibilità
del ricorso, si ritiene che l’impugnazione degli atti
presupposti possa avvenire contestualmente alla
presentazione del ricorso contro l’ultimo atto della serie
(nello specifico, il diniego di sanatoria paesistica emesso
dal Comune);
(b) dopo la notifica dell’ordinanza di rimozione, infatti,
il ricorrente aveva l’alternativa tra l’immediata
impugnazione in sede giudiziale e la ricerca di una
soluzione in via amministrativa, attraverso la procedura di
accertamento di conformità paesistica. Avendo scelto la
seconda strada, il ricorrente poteva legittimamente
attendere la pronuncia finale del Comune.
La circostanza che il parere della Soprintendenza sia,
contemporaneamente, un atto endoprocedimentale e una
decisione vincolante può consentire un’impugnazione
immediata, quando vi sia un interesse ad anticipare i tempi
del giudizio, ma non crea un onere in questo senso.
La certezza del diritto sulla posizione dell’amministrazione
è in ogni caso collegata all’atto che formalmente chiude la
procedura, la quale prima di tale momento potrebbe avere
sviluppi ulteriori e diversi, qualora il Comune o il privato
sottoponessero alla Soprintendenza elementi nuovi non
considerati nel parere negativo;
(c) passando al merito, occorre sottolineare che
l’installazione di pannelli fotovoltaici è attualmente
incentivata, e resa obbligatoria per i nuovi edifici, in
coerenza con l’obiettivo di interesse nazionale del
passaggio alla produzione di energia da fonti rinnovabili
(v. art. 11 del Dlgs. 03.03.2011 n. 28);
(d) pertanto,
non è più possibile applicare ai pannelli fotovoltaici
categorie estetiche tradizionali, le quali porterebbero
inevitabilmente alla qualificazione di questi elementi come
intrusioni
(v. TAR Brescia Sez. I 04.10.2010 n. 3726).
Occorre invece focalizzare l’attenzione sulle modalità con
cui i pannelli fotovoltaici sono inseriti negli edifici che
li ospitano e nel paesaggio circostante;
(e)
valutazioni più conservative, ma non necessariamente
ostative, sono ammissibili in relazione ai beni immobili
dichiarati o qualificati ex lege di interesse
culturale
(v. parte seconda del Dlgs. 42/2004)
e in relazione agli edifici, o insiemi di edifici, per i
quali sia riconosciuto uno specifico valore paesistico
(v. art. 136, comma 1-b-c, del Dlgs. 42/2004),
nonché a proposito degli edifici che negli strumenti
urbanistici risultino espressamente sottoposti a particolari
forme di tutela;
(f)
quando il vincolo sia essenzialmente di natura ambientale,
come nel caso in esame, l’osservazione si sposta invece dal
singolo edificio allo scenario nel quale l’edificio è
inserito. Le valutazioni circa la compatibilità paesistica
dei pannelli fotovoltaici non possono quindi basarsi sulle
caratteristiche costruttive, per tutelare una presunta
conformità a modelli edificatori tradizionali, ma devono
limitarsi a stabilire se le innovazioni, percepite nel
contesto, siano fuori scala o dissonanti;
(g)
diventa quindi decisiva non tanto la superficie dei pannelli
fotovoltaici ma la qualità dei lavori di inserimento nella
falda. Sotto
questo profilo, la relazione tecnico-paesistica dell’ing.
Co. evidenzia una significativa cura dei dettagli (colore
scuro dei pannelli, assenza di cornice e di rialzi in falda,
rispetto della morfologia del tetto);
(h) per quanto riguarda gli aspetti propriamente paesistici,
e in particolare il rischio di alterazione del contesto
agricolo, la Soprintendenza ha omesso di valutare
l’indicazione fornita dal Comune, oltre che dal ricorrente,
circa la prossimità di impianti fotovoltaici di grandi
dimensioni.
È vero che si tratta di installazioni esterne alla zona
vincolata, ma se l’edificio del ricorrente è visto come
parte di un continuum agricolo, le caratteristiche
assunte nel tempo dall’ambiente circostante dovrebbero
comunque costituire un punto di riferimento. Non sarebbe
infatti ragionevole imporre l’immodificabilità di una
piccola porzione del territorio solo perché si trova più
vicina a un corso d’acqua, quando strutture di grande
impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine,
appartenenti al medesimo contesto agricolo;
(i)
la Soprintendenza non ha poi applicato in alcun modo la
regola della proporzionalità. Occorre infatti sottolineare
che i pannelli fotovoltaici del ricorrente si fondono
nell’edificio senza creare ingombro visivo sull’orizzonte, e
possono essere schermati facilmente dai percorsi viari e dai
punti di osservazione pubblici attraverso una cortina
vegetale.
Per tutelare il paesaggio sarebbero state quindi sufficienti
prescrizioni più dettagliate sulle misure di mitigazione,
mentre appare eccessivo il diniego integrale di sanatoria.
10. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati. La
Soprintendenza conserva il potere, da esercitare entro 60
giorni dal deposito della presente sentenza, di formulare
prescrizioni di dettaglio sulle misure di mitigazione.
11. La complessità delle valutazioni paesistiche e la
presenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti
giustificano l’integrale compensazione delle spese di
giudizio. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sui compensi occhio alle date. Nuovi parametri su
liquidazioni post decreto del 2012.
I giudici della Cassazione pongono l'accento sui tempi dei
pagamenti agli avvocati.
In tema di spese processuali, i nuovi parametri cui devono
essere commisurati i compensi degli avvocati in luogo delle
abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual
volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento
successivo alla data di entrata in vigore del dm 20.07.2012 n. 140 e si riferisca al compenso spettante ad un
avvocato che, a quella data, non abbia ancora completato la
propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione
abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora
erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione
omnicomprensiva di «compenso» la nozione di un corrispettivo
unitario per l'opera complessivamente prestata.
È quanto affermato dai giudici della VI Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
11.01.2016 n. 241.
Il caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini prendeva
le mosse dal fatto che il tribunale in data 29.05.2013
emetteva decreto di pagamento a favore dell'avvocato Tizio
per onorario in relazione all'attività svolta a favore di
Caio. Avverso tale decreto interponeva opposizione il
difensore lamentando l'erronea applicazione della normativa
prevista dal dm 140 del 2012, l'omessa applicazione degli
aumenti tariffari previsti per i processi davanti al
Tribunale in composizione monocratica, in subordine
l'erronea applicazione della diminuzione del compenso
operata dal giudice nella misura del 50%.
Si costituiva il
ministero dell'economia, eccependo il difetto di
legittimazione. Integrato il contraddittorio si costituiva
il ministero della giustizia, contestando quanto dedotto
dall'opponente. Il tribunale con ordinanza rigettava
l'opposizione e condannava l'opponente al pagamento delle
spese del giudizio. A parere del tribunale, alla luce del
principio espresso dalle Sezioni unite (sent. n. 7405 del
2012), nella specie trovava applicazione la nuova tariffa di
cui al dm 140 del 2012.
Correttamente il giudice aveva
applicato le tariffe previste per l'attività professionale
applicando l'aumento del 20% trattandosi di attività svolta
innanzi al gip/gup. Alla luce della normativa di cui
all'art. 9 del dm 140 del 2012, corretta era l'applicazione
della riduzione alla metà degli importi previsti a titolo di
compenso. L'avvocato chiedeva la cassazione di questa
ordinanza.
Secondo i giudici di piazza Cavour il tribunale
non avrebbe tenuto conto -e lo avrebbe dovuto fare- che
l'attività per la quale si chiedeva il compenso era stata
svolta e completata sotto la vigenza delle precedenti
tariffe professionali (dm 127 del 2004), posto che il dm 140
del 2012 è entrato in vigore il 23.08.2012, e l'attività
professionale di che trattasi era stata completata,
comunque, il 30.07.2012 così come attestato dal deposito
della sentenza di primo grado che è avvenuto, appunto, il 30.07.2012.
Pertanto, la liquidazione al difensore di cui si dice
avrebbe dovuto essere effettuata, applicando le tariffe
professionali di cui al dm 127 del 2004
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.02.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Il sottosuolo si può usare ma si valuta caso per
caso. Va verificato se i lavori possano impedire in futuro
dei servizi comuni.
Scavi e opere. La Cassazione sullo «sfruttamento» da parte
del singolo condòmino.
Cambio di rotta per
la Cassazione sull’utilizzo del sottosuolo da parte del
singolo condomino. Secondo una recente sentenza, questo
utilizzo non configura di per sé un uso illegittimo, essendo
necessaria invece un’indagine, caso per caso, al fine di
verificare se l’utilizzo del singolo condomino precluda in
assoluto l’uso del sottosuolo per passaggio di servizi a uso
comune (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 11.01.2016 n. 234).
Già in precedenza la suprema Corte aveva sostenuto che «In
tema di condominio negli edifici, non è automaticamente
configurabile un uso illegittimo della parte comune
costituita dall’area di terreno su cui insiste il fabbricato
e posano le fondamenta dell’immobile, in ipotesi di
abbassamento del pavimento e del piano di calpestio eseguito
da un singolo condomino, dovendosi a tal fine accertare o
l’avvenuta alterazione della destinazione del bene, vale a
dire della sua funzione di sostegno alla stabilità
dell’edificio, o l’idoneità dell’intervento a pregiudicare
l’interesse degli altri condomini al pari uso della cosa
comune» (sentenze n. 8119/2004 e n. 19915/2014).
L’orientamento consolidato riguardo la possibilità di
eseguire, nel sottosuolo, scavi per ricavarne cantine, box
eccetera è, però, sempre stato quello del divieto di
appropriarsi del sottosuolo con opere che potessero essere
conglobate nella proprietà privata, in quanto illegittime in
base all’articolo 1102 del Codice civile perché
sottrarrebbero l’area a ogni possibilità di godimento da
parte degli altri condomini (sentenze di Cassazione n.
11667/2015, Tar Puglia n. 128/2015 e 22835/2006).
L’articolo 1117 n. 1 del Codice civile annovera tra i beni
di proprietà comune, tra gli altri, il suolo su cui sorge
l’edificio e le fondazioni e , in via presuntiva, anche il
sottosuolo. Tuttavia, con sentenza 5895/2015 la stessa
Cassazione ha precisato che per determinare la proprietà,
contesa tra due condòmini, del locale ottenuto abusivamente
da uno di essi mediante escavazione nell’area sottostante al
suo appartamento e asportazione di terreno, occorre dapprima
gradatamente accertarsi se la proprietà di tale locale sia
attribuita dal titolo, ovvero sia altrimenti da riconoscersi
acquisita per usucapione, o, infine, se esso, per la sua
struttura, debba considerarsi non tra le parti comuni
dell’edificio di cui all’articolo 1117 del Codice civile,
quanto, piuttosto, destinato a uso esclusivo.
Il richiamo alle indagini oggettive è presente anche nella
sentenza 234/2016, nella quale un condòmino del piano
terreno –che aveva eseguito, nel sottosuolo, un vano per la
collocazione di una caldaia per il termosifone e due cantine
di cui una con l’accesso dall’esterno– veniva citato in
giudizio da un altro condòmino per violazione del proprio
diritto al pari godimento delle parti comuni, nonché per
l’alterazione della funzione primaria dell’area di sedime
del fabbricato, la cui originaria funzione era quella di
sostegno dell’immobile e di passaggio di condotte e tubi a
servizio del condominio. Si richiamava anche il pericolo per
la stabilità dell’immobile e chiedeva, pertanto, il
ripristino dello stato dei luoghi.
I giudici di legittimità si sono uniformati al principio
innovativo per il quale l’utilizzo del sottosuolo da parte
del singolo condòmino non comporta, automaticamente, un uso
non consentito della cosa comune. Precisando che se da un
lato è pacifico che si possa utilizzare il sottosuolo per il
passaggio di tubature per lo scarico fognario e
l’allacciamento del gas a vantaggio delle unità immobiliari,
trattandosi di un uso conforme all’articolo 1102 del Codice
civile, in quanto non limita, né condiziona, l’analogo uso
degli altri comunisti (Cassazione, sentenza 18661/2015). Non
è scontato, invece, che debba considerarsi illegittima di
per se l’escavazione del sottosuolo di un edificio
condominiale e l’utilizzo dello spazio ricavato al vantaggio
esclusivo di un condòmino.
La limitazione all’uso e al godimento del sottosuolo da
parte degli altri condòmini, come l’appropriazione del bene
comune, se il volume risultante dalla escavazione venga
inglobato nella proprietà esclusiva di un condomino, con la
sottrazione definitiva ad ogni possibilità di futuro
godimento da parte degli altri, devono essere provate di
volta in volta attraverso un’indagine che verifichi, di
fatto, se questo utilizzo precluda in assoluto l’uso del
sottosuolo per passaggio di servizi a uso comune, non
potendosi configurare un uso illegittimo dell’area comune
(Cassazione, sentenza 234/2016) (articolo Il Sole 24 Ore
del 09.02.2016). |
PATRIMONIO: Buche stradali, chi paga i danni.
Secondo il Tribunale di Napoli prevale l’obbligo di
manutenzione del bene custodito.
Risarcimenti. Giurisprudenza divisa sulle responsabilità
degli enti pubblici per gli incidenti causati dal dissesto
del manto viario.
In caso di caduta da un motociclo a causa di una buca
stradale, al Comune va attribuita una responsabilità
presunta, lasciando all’ente gestore della strada l’onere di
dimostrare che la caduta sia avvenuta per altra ragione, tra
cui anche la stessa imperizia o imprudenza del motociclista.
Lo ribadisce il
TRIBUNALE di Napoli con la
sentenza 08.01.2016 n. 144.
Secondo il giudice, il potere di controllo su un bene di
proprietà, va inteso come effettiva possibilità di governare
il bene stesso e quindi di farlo oggetto di attività di
controllo della sua pericolosità e di intervento per
manutenzione tutte le volte che si renda necessario. Spetta
quindi all’ente proprietario della strada dimostrare che la
caduta sia stata imputabile ad un fattore estraneo al
proprio onere di custodia della via.
Ma sulla responsabilità più o meno rigida
dell’amministrazione proprietaria dell’area, nel senso che
ogni buca o insidia costituisce sempre una responsabilità
dell’ente pubblico, la giurisprudenza è da tempo divisa.
Una parte della magistratura di legittimità e di merito,
infatti, ritiene che anche se al soggetto proprietario della
strada aperta al pubblico può essere attribuita una
responsabilità per colpa ai sensi dell’articolo 2043 del
Codice civile per non avere osservato le comuni norme di
prudenza nel controllo delle strade, tale colpa va valutata,
da parte del giudice, alla luce del grado di prudenza ed
attenzione posta dal conducente del motociclo nel percorrere
la stessa strada.
La Corte di cassazione con la sentenza n.
18865 del 24.09.2015, ha sostenuto ad esempio che la
possibilità per l’utente danneggiato di percepire o
prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di
pericolo occulto vale ad escludere la presenza dell’insidia
come causa dell’incidente.
Non basterebbe, insomma, secondo tale orientamento, la
semplice caduta in una buca a costituire insidia stradale,
perché il giudice deve sempre valutare se il conducente
abbia comunque guidato con prudenza e con l’attenzione
doverosa anche verso gli stessi possibili ostacoli
notoriamente presenti sul manto stradale (si veda anche
l’ordinanza della Cassazione del 09.03.2015 n. 4661).
Un altro orientamento, più favorevole per così dire alle
vittime di tali cadute, attinge invece al principio di
responsabilità presunta in capo all’ente proprietario della
strada, ai sensi dell’articolo 2051 del Codice civile che
pone una sorta di responsabilità oggettiva o automatica in
capo al custode, sempre tenuto quindi a garantire
l’incolumità dell’utenza. In questa direzione va la sentenza
emessa dal Tribunale di Ivrea il 09.01.2015, secondo la
quale la responsabilità viene meno solo quando il soggetto
tenuto alla custodia ed al controllo sul bene provi il caso
fortuito, da intendersi sia come fattore esterno
imprevedibile, sia come fatto colpevole del terzo e dello
stesso danneggiato.
Il Tribunale di Napoli, nel ripercorrere le differenti tesi
giuridiche che normalmente reggono il contenzioso stradale
di questo genere, aderisce a quest’ultimo orientamento, che
attribuisce al Comune una responsabilità presunta per
l’accaduto, lasciando che sia poi l’ente gestore della
strada a dimostrare che la caduta sia avvenuta per altra
ragione, tra cui anche la stessa imperizia o imprudenza del
motociclista (perché ad esempio teneva una velocità
eccessiva).
I giudici partenopei hanno quindi condannato il Comune di
Napoli, ritenendo che l’ente pubblico sia venuto meno ad un
obbligo di manutenzione della pubblica via, poiché ha
lasciato che l’insidia stradale improvvisa e non avvertibile
potesse costituire il motivo di cadute accidentali da parte
dei passanti.
Anche i tempi di intervento caratterizzano l’onere di
diligente custodia in capo al proprietario della via
pubblica, perché la presenza di una insidia stradale deve
determinare l’obbligo di un immediato intervento riparatore
proprio per delimitare (con avvisi) ovvero eliminare (con la
coperture necessarie) il tratto guastato e pericoloso per il
pubblico transito. Qualora dunque l’ente proprietario della
strada non dimostri che la caduta sia stata imputabile ad
altro fattore estraneo al proprio onere di custodia della
via, il Comune deve essere condannato, come nel ?caso di
specie, al risarcimento di tutti i danni alla persona patiti
dal conducente del veicolo rovinato a terra senza colpa (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Appare
veramente arduo, se non impossibile, configurare la
realizzazione di una piscina come un’attrezzatura per lo
svago e il tempo libero, alla stessa stregua di un dondolo o
di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di
svago.
La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con
opere invasive sul sito in cui viene realizzata, tant’è che
per la sua realizzazione occorre munirsi di relativo titolo
ad aedificandum, di talché è di palmare evidenza la
diversità di tale struttura con le attrezzature per lo
svago.
---------------
Con riferimento al
primo dei suddetti ricorsi la Sezione è chiamata a
verificare, in relazione ai motivi di gravame all’uopo
denunciati, la legittimità o meno della delibera n. 6/14 con
cui il Consiglio del Parco di Portofino, avuto riguardo
all’attivata procedura di approvazione di un SUA di
iniziativa privata presentato dalla Società Montanino per la
riqualificazione del complesso monumentale della Cervara, ha
fornito una specifica interpretazione in ordine alla
disposizione di cui all’art. 26, comma 3, lettera d), punto
3), riguardante le piscine.
In primo grado la Montanino srl ha contestato
l’interpretazione autentica di detta norma, oltreché la
stessa adozione dell’atto consiliare in parola, se ed in
quanto tale determinazione si riveli ostativa alla
realizzazione di una piscina inserita nel progetto di
riqualificazione del complesso immobiliare costituito
dall’ex Convento di San Girolamo della Cervara (di cui al
proposto SUA); e il Tar, con sentenza n. 1887/14, ha accolto
il relativo gravame.
I controinteressati sigg.ri Bi. contestano l’esattezza delle
osservazioni e prese conclusioni del primo giudice; e le
doglianze formulate col secondo e terzo motivo di gravame
(da esaminarsi congiuntamente per ragioni di logica
connessione) in ordine alla erroneità del decisum si
rivelano fondate, nei sensi di cui appresso.
L’Ente Parco di Portofino, con deliberazioni del Consiglio
n. 17/2010 e 22/2011, ha approvato le norme di attuazione
della variante del regolamento per la riqualificazione del
patrimonio edilizio.
L’art. 26 di detto atto, che ha cura di dettare la normativa
per le mete e strutture del turismo storico, tra cui è
inserito il complesso della Cervara, così prevede: “sono
ammessi gli interventi di cui alle lettere agli articoli 6,
7, 8, 9 della legge regionale 06/06/2008 n. 16. Eventuali
altri interventi finalizzati alla razionalizzazione o al
potenziamento delle attrezzature di servizio e funzionali al
miglioramento dell’offerta turistico-ricettiva potranno
essere proposti mediante specifici strumenti urbanistici
attuativi previsti dall’art. 19 della l.r. n. 12/1995
corredati da un piano aziendale di sviluppo che ne dimostri
l’esigenza, nel rispetto della destinazione alberghiera
tradizionale quali l’Albergo Portofino Vetta, il Cenobio de
Dogi, l’Albergo Splendido, dell’attuale destinazione per il
Covo di Nord–Est nell’ambito della proprietà a valle della
strada provinciale di Portofino, e di una destinazione
polifunzionale turistico-culturale e congressuale per il
complesso della Cervara.
Gli interventi previsti per il complesso monumentale della
Cervara saranno subordinati a S.U.A la cui convenzione
disciplinerà anche l’uso pubblico della struttura…”.
L’articolo in questione, specificamente occupandosi, poi,
alla lettera d), del “Complesso Monumentale della Cervara”,
stabilisce al punto 3, a proposito degli interventi di
recupero e valorizzazione ammessi, quanto segue: “E’
ammessa la realizzazione di una o due serre in ferro e vetro
per una superficie massima complessiva di 60 mq, funzionali
alla manutenzione del giardino", nonché ”la
realizzazione di attrezzature per lo svago e il tempo libero
nell’area retrostante il complesso monumentale”.
Il Consiglio del Parco di Portofino, con l’atto in
contestazione, è intervenuto per meglio spiegare la
disposizione regolamentare appena citata, interpretandola
nel senso che la frase per “attrezzature per lo svago e
il tempo libero” va intesa in senso restrittivo,
escludendo dalle stesse attrezzature le piscine.
Ebbene, tale assunto esegetico, ad avviso del Collegio,
appare congruo e ragionevole, dovendosi ritenere corretta la
non inclusione di manufatti costituenti piscine tra le opere
di svago e tempo libero.
Il primo giudice giunge ad affermare la erroneità
dell’assunto esegetico reso dall’Organo consiliare dell’Ente
Parco, sulla scorta di una serie di osservazioni non del
tutto logiche, contraddittorie e, per certi versi,
singolari, ad avviso dello scrivente Collegio.
Rileva in primo luogo il Tar che le prescrizioni dettate dal
suindicato Regolamento sono generiche ed astratte, ma
l’osservazione è smentita per tabulas ove si
consideri che il corpus di norme dettate a tutela dei valori
paesaggistico-ambientali e culturali del territorio inserito
nel Parco prende in considerazione i singoli siti, tra cui
quello specificatamente contemplato e appositamente
disciplinato del complesso monumentale della Cervara, sicché
non si vede in che modo possa dedursi la genericità delle
prescrizioni dettate.
Al contrario, si è in presenza di una disciplina che detta
regole di comportamento e di attività, avendo di mira i
diversi siti monumentali e paesaggistici, presi
singolarmente in considerazione con riferimento alle
caratteristiche di ciascuno di essi e ai correlati valori da
preservare.
Non si può quindi condividere il rilievo, pure formulato dal
Tar, secondo cui le prescrizioni del Regolamento, come
interpretate dal Consiglio con l’atto de quo, si
risolvono in un divieto generalizzato, rinvenendosi invece
nel testo normativo in questione puntuali e armoniche
prescrizioni finalizzate alla salvaguardia di un territorio
avente una straordinaria valenza culturale, oltreché
paesaggistico-ambientale.
Nondimeno, al di là delle non persuasive asserzioni circa il
carattere generale delle prescrizioni contenute nel
decisum, scendendo sul piano sostanziale, andando, cioè,
a verificare in concreto la problematica sollevata dalla
norma interpretativa resa dal Consiglio del Parco di
Portofino e della quale il primo giudice non si è dato
carico di occuparsi, appare veramente arduo se non
impossibile configurare la realizzazione di una piscina come
un’attrezzatura per lo svago e il tempo libero, alla stessa
stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei
giardini o nei luoghi di svago.
La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con
opere invasive sul sito in cui viene realizzata, tant’è che
per la sua realizzazione occorre munirsi di relativo titolo
ad aedificandum, di talché è di palmare evidenza la
diversità di tale struttura con le attrezzature per lo
svago.
La riprova di quanto appena rilevato viene fornita proprio
con riferimento alla piscina che si intende “costruire”
con il SUA proposto dalla Montanino srl, laddove è prevista
la “realizzazione di una piscina e sottostanti volumi
tecnici e spogliatoi” e cioè una serie di manufatti
aventi per forma e consistenza la natura di struttura
edilizia e che per ciò stesso non sono nemmeno lontanamente
paragonabili alle attrezzature di tipo precario utilizzate
per ragioni di svago e tempo libero.
Quanto sopra vale altresì a smentire la tesi di parte
resistente secondo il quale il combinato disposto degli
artt. 12 e 13 delle norme di Piano, recanti la disciplina
degli interventi ammessi in zona D2 (quella in cui è incluso
anche il complesso monumentale della Cervara), consentirebbe
la realizzazione delle piscine.
Invero, il successivo art. 14 di dette Norme precisa che è
possibile la realizzazione di ”piscine stagionali di
modeste dimensioni”, ma in tale nozione non può certo
farsi rientrare la prevista realizzazione di un manufatto
del genere di quello che si intende dar vita con il S.U.A.
in rilievo, con la realizzazione di una piscina avente
caratteristiche tipologiche di ben altra consistenza.
In forza delle su estese considerazioni le censure dedotte
con il secondo e terzo motivo d’impugnazione si rivelano
fondate, con conseguente accoglimento del proposto appello (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza
08.01.2016 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea di principio, la legittimatio ad causam
per la contestazione di un titolo edilizio da parte di un
proprietario di un immobile è data dal collegamento stabile
tra l’immobile del ricorrente e il sito interessato alla
realizzazione del manufatto.
La giurisprudenza si è fatta carico di specificare in
dettaglio il suindicato concetto, precisando come
l’interesse ad agire per il proprietario/vicino sussiste
ogniqualvolta l’intervento edilizio/urbanistico incida
negativamente sul bene di proprietà del ricorrente/vicino,
così da comprometterne la fruizione o il valore del bene
stesso.
---------------
Le dedotte censure sono prive di giuridico fondamento.
In linea di principio, la legittimatio ad causam per
la contestazione di un titolo edilizio da parte di un
proprietario di un immobile è data dal collegamento stabile
tra l’immobile del ricorrente e il sito interessato alla
realizzazione del manufatto (Cons. Stato Sez. IV 22/09/2014
n. 4764).
La giurisprudenza si è fatta carico di specificare in
dettaglio il suindicato concetto, precisando come
l’interesse ad agire per il proprietario/vicino sussiste
ogniqualvolta l’intervento edilizio/urbanistico incida
negativamente sul bene di proprietà del ricorrente/vicino,
così da comprometterne la fruizione o il valore del bene
stesso (cfr. Cons. Stato Sez. IV 5715/2012; idem 8364/2010;
6619/2007; 3947/2006).
Ciò precisato, è pacifico nella specie che i sigg.ri Bi.
sono proprietari di un immobile sito in prossimità dell’ex
Convento, sì che tale oggettivo dato assicura senz’altro la
condizione legittimante della vicinitas.
Inoltre, in relazione ai profili sostanziali dell’interesse
ad agire, avuto riguardo alla tipologia dell‘intervento
edilizio autorizzato e, in particolare, alle implicazioni
urbanistiche da questo derivanti, non si può negare la
sussistenza nella specie di riflessi di tipo negativo sulla
posizione dei ricorrenti, tenuto conto, in particolare, del
maggior traffico veicolare e pedonale dovuto all’afflusso
degli utenti alla struttura polifunzionale in questione,e
dell’incidenza di tali circostanze in ordine ad una più
limitata fruizione degli spazi di accesso, stazionamento e
parcheggio della strada di via della Cervara.
Non senza considerare che gli attuali appellanti possono
vantare una legittima pretesa alla conservazione dello stato
dei luoghi dove insistono i beni dagli stessi utilizzati
anche per gli aspetti paesaggistico-ambientali in ipotesi
suscettibili di essere compromessi, con conseguente
detrimento del valore delle loro proprietà immobiliari.
La sussistenza di concreti profili di interesse a ricorrere
sopra evidenziati impedisce di ravvisare nella impugnativa
originariamente proposta dagli attuali appellanti principali
gli estremi di un atto emulativo, né quelli di una generica,
indifferenziata rivendicazione fatta dai sigg.ri Bi. (uti
cives), rinvenendosi viceversa nella specie una
specifica lesione di posizioni giuridiche soggettive
differenziate di cui gli stessi sono titolari, nel che si
invera l’interesse ad agire e quindi la piena ammissibilità
del gravame originario, oltreché di quello all’esame (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza
08.01.2016 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
B&b vietati nel condominio. Attività contrapposta
alle finalità abitative dell'immobile.
Retromarcia della Cassazione rispetto a una pronuncia
precedente sugli affittacamere.
Bed & breakfast nuovamente vietato in condominio qualora una
norma regolamentare imponga la tutela del decoro e della
tranquillità dell'edificio. Si fa dunque nuovamente incerta
la questione dell'utilizzo degli appartamenti da parte dei
condomini per ospitare a pagamento soggetti terzi.
A distanza di nemmeno un anno e mezzo da una precedente
decisione che, al contrario, aveva dato il via libera allo
svolgimento di detta attività, la seconda sezione civile
della Cassazione sembra aver mutato indirizzo.
Se, infatti,
con la sentenza n. 24707 dello scorso 20.11.2014 (si
veda ItaliaOggi Sette dell'01/12/2014), i giudici di
legittimità avevano espressamente ritenuto che il bed &
breakfast non comportasse un mutamento di destinazione d'uso
delle unità immobiliari, che sarebbe quindi rimasto pur
sempre abitativo, con la recente
sentenza 07.01.2016 n. 109, Sez. II civile, detta attività è invece stata definita
assolutamente contrapposta alle finalità abitative
dell'immobile.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano citato in giudizio un
altro comproprietario per sentire dichiarare la contrarietà
al regolamento condominiale dell'attività di affittacamere
che lo stesso aveva dichiarato di essere in procinto di
svolgere nell'unità abitativa di sua proprietà sita nello
stabile condominiale.
I predetti condomini avevano quindi richiesto al tribunale
che, a seguito dell'accertamento di tale divieto
regolamentare, fosse inibito l'avvio dell'attività. Il
condomino convenuto in giudizio, nell'opporsi alle richieste
avversarie, aveva sostenuto la necessità di
un'interpretazione del regolamento, che risaliva addirittura
al 1920, maggiormente consona al mutato contesto sociale e
normativo (il riferimento era stato operato alla legge n.
18/1997 della Regione Lazio, successivamente abrogata, che
aveva inteso favorire una ripresa dell'attività alberghiera
e recettizia in occasione del Giubileo del 2000) e aveva
anche evidenziato come nello stabile condominiale fossero
state avviate in passato già numerose attività commerciali
che, a suo modo di vedere, avevano di fatto comportato una
modifica per fatti concludenti della clausola contrattuale.
La decisione della Suprema corte.
Nella sentenza dello scorso 7 gennaio i giudici di
legittimità hanno in primo luogo rigettato l'eccezione del
condomino convenuto per cui il fatto che in altre unità
immobiliari dello stabile condominiale fossero state
intraprese nel corso del tempo svariate attività
commerciali, imprenditoriali e professionali avrebbe di
fatto superato il divieto regolamentare in questione,
lasciandolo per così dire sulla carta.
La Cassazione, infatti, ha confermato sul punto
l'interpretazione letterale del regolamento condominiale
operata dai giudici di merito, evidenziando come eventuali
violazioni del divieto contrattuale non possano far
presumere un mutamento di volontà da parte dell'intera
compagine condominiale.
La seconda sezione civile della Suprema corte,
contrariamente a quanto affermato non più di un anno e mezzo
fa, ha quindi ritenuto che l'attività di affittacamere,
giudicata del tutto sovrapponibile a quella alberghiera e a
quella di bed & breakfast, sia del tutto contrapposta alle
finalità abitative dell'immobile. Occorre osservare come nel
caso deciso con la sentenza n. 24707/2014 il regolamento
condominiale vietasse di destinare le unità immobiliari a
uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio
professionale privato, mentre nella vicenda portata più
recentemente all'esame della Suprema corte la disposizione
regolamentare risultava più specifica, vietando
espressamente la destinazione delle unità immobiliari
private a «case di alloggio», come pure «di concedere in
affitto camere vuote o ammobiliate».
Tuttavia occorre anche
evidenziare come nella sentenza n. 24707/2014 la Cassazione,
facendo proprie le conclusioni alle quali erano prevenuti i
giudici di appello, avesse evidenziato proprio il fatto che
lo svolgimento dell'attività di affittacamere non
comportasse una modificazione della destinazione d'uso per
civile abitazione delle unità immobiliari interessate, con
la conseguenza di non ritenere sostenibile
un'interpretazione del predetto divieto regolamentare nel
senso di riservare l'abitazione delle unità immobiliari
soltanto ai condomini e ai loro congiunti.
---------------
La clausola del regolamento può
stabilire la destinazione d'uso.
La questione dei vincoli all'utilizzo delle parti di
proprietà esclusiva site in condominio è quindi più che mai
aperta.
In linea generale ogni condomino può liberamente disporre
della propria unità immobiliare, purché non generi
particolari problemi per gli altri comproprietari.
Particolari clausole del regolamento però possono vietare
che gli appartamenti facenti parte dell'edificio
condominiale vengano destinati allo svolgimento di attività
ritenute pregiudizievoli per il decoro, la tranquillità o la
sicurezza di coloro che vi abitano.
Simili limitazioni, per essere valide, devono però essere
contenute nei c.d. regolamenti contrattuali, ossia in quelli
predisposti dal costruttore dell'edificio o dall'originario
unico proprietario o, in alternativa, deliberati
dall'assemblea con il consenso unanime di tutti i condomini
e con successiva trascrizione della deliberazione nei
registri immobiliari.
Visto l'impatto che tali clausole regolamentati possono
avere sulla libera disponibilità della proprietà privata, i
predetti divieti e le predette limitazioni devono infatti
risultare da una volontà chiaramente fatta propria da tutti
i condomini nei relativi atti di acquisto o manifestata
sempre dalla totalità di essi in una delibera assembleare.
Appare utile anche specificare che una legge regionale non
può, ingerendosi nella disciplina di rapporti condominiali
tra privati, imporre dei limiti di questo tipo, prevedendo
ad esempio l'obbligo dell'approvazione dell'assemblea dei
condomini per l'esercizio di determinate attività (ecco
perché la Corte costituzionale ha dichiarato
l'incostituzionalità di una norma della regione Lombardia
che subordinava l'apertura di un bed & breakfast
all'autorizzazione dell'assemblea).
È poi altrettanto importante che questo tipo di clausole
siano redatte in modo chiaro ed esplicito e utilizzino
espressioni che non diano luogo a possibili incertezze
applicative.
Molto spesso, infatti, nelle clausole del regolamento si
indicano soltanto i pregiudizi alla collettività
condominiale che si intendono evitare, richiamando quindi i
concetti di quiete, tranquillità, riposo e simili.
In questi casi è allora necessario procedere a un esame
specifico della singola situazione al fine di valutare se
l'attività svolta in concreto nell'unità immobiliare leda il
diritto degli altri condomini di godere in modo pacifico del
proprio bene.
Ciò premesso, appare quindi necessario effettuare volta per
volta una equilibrata attività di interpretazione del
disposto regolamentare.
Così, ad esempio, se nel regolamento vi è il divieto di
svolgere attività notturne nelle unità immobiliari, non sarà
certo possibile aprire nello stabile una panetteria con
annesso laboratorio, ma non per questo si potrà pretendere
di vietare la vendita al pubblico di pane durante il giorno.
Se, al contrario, è previsto il divieto di attività che
comportino un maggiore afflusso di persone nelle parti
comuni, non sarà certo possibile svolgere attività
commerciali aperte al pubblico nelle parti interne del
condominio e si potrebbe anche valutare negativamente il
compimento di ulteriori atti, quali ad esempio la locazione
separata di box pertinenziali a soggetti non condomini o di
cantine a uso magazzino, sempre per persone esterne alla
compagine condominiale.
L'ipotesi più semplice dal punto di vista applicativo è
sicuramente quella in cui nel regolamento sia riportata la
specifica elencazione delle attività che si ritengono
vietate.
In tal caso è infatti sufficiente accertare che quella
svolta dal condomino nel proprio appartamento non rientri
tra quelle non ammesse. In ogni caso è possibile che nel
regolamento vengano utilizzati entrambi i criteri di
individuazione delle attività vietate (cioè quello della
loro espressa elencazione e quello del riferimento ai
pregiudizi che si ha intenzione di evitare): in tal caso
deve ritenersi, da un lato, che l'elenco delle attività
vietate non sia tassativo e che il divieto si estenda anche
a tutte le destinazioni non espressamente menzionate che
siano comunque idonee a provocare i pregiudizi che si
intendono evitare, dall'altro lato che tutte le attività
specificamente indicate siano di per sé vietate, senza
necessità di verificare in concreto l'idoneità a recare i
pregiudizi suddetti
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.02.2016). |
VARI:
Cassazione. Cdc, società cancellata? È estinta.
L'iscrizione della cancellazione delle società di capitali e
delle società cooperative (articolo 2495 del c.c.) dal
Registro imprese, avendo natura costitutiva, estingue le
società, anche se sopravvivono rapporti giuridici dell'ente.
Tale procedura di cancellazione non si applica alle vicende
estintive dell'impresa individuale in quanto in tale forma
giuridica vi è coincidenza tra il soggetto
fisico–l'imprenditore e il soggetto giuridico–l'impresa.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione
-Sez. VI civile- con
l'ordinanza
07.01.2016 n. 98 in merito alla non estensibilità dell'articolo
2495 del c.c. alle vicende estintive della qualità di
imprenditore individuale.
Il fatto in sintesi: un
imprenditore individuale proponeva reclamo presso la corte
d'appello avverso la pronuncia con la quale il tribunale
aveva dichiarato il fallimento della propria ditta. In
particolare, per sottrarsi al fallimento, l'uomo sosteneva
che aveva cessato la sua attività imprenditoriale ed era
stato già cancellato dal registro delle imprese. Di
conseguenza, piuttosto che fallire, avrebbe potuto liquidare
il proprio patrimonio personale, capiente rispetto ai debiti
complessivi accumulati.
La Corte ha rigettato il reclamo e
ha confermato il fallimento. I giudici di legittimità
respingono il ricorso e affermano il principio secondo il
quale «la disciplina di cui all'articolo 2495 c. c. (nel
testo introdotto dall'art. 4 del dlgs n. 6 del 2003) non è
estensibile alle vicende estintive della qualità di
imprenditore individuale».
Mentre, infatti, con l'estinzione dell'impresa collettiva
viene meno la duplicità dei centri di imputazione dei
rapporti giuridici, individuati, da un lato, nelle persone
fisiche che partecipano all'attività d'impresa (e sulle
quali, dopo l'estinzione, ricadono, nei limiti della loro
partecipazione, gli effetti della precedente attività
sociale) e, dall'altro, nel soggetto collettivo (dotato di
personalità giuridica o di sola autonomia patrimoniale),
l'imprenditore individuale si identifica con la persona
fisica che compie l'attività d'impresa
(articolo ItaliaOggi
del 02.02.2016). |
TRIBUTI:
Imu agricola su terreni montani non retroattiva.
Il pagamento dell'Imu per i terreni agricoli collinari o
montani, determinato secondo le nuove regole introdotte
dall'articolo 22, comma 2, del Dl 66/2014, è illegittimo per
l'anno 2014. La norma tributaria, infatti, non può prevedere
effetti retroattivi, dacché le modificazioni possono aver
efficacia solamente a decorrere dal periodo d'imposta
successivo alla loro emanazione; ciò in base all'articolo 3
della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del
contribuente), secondo cui le norme tributarie non possono
avere efficacia retroattiva.
Lo ha stabilito la Ctp di Grosseto, nella sentenza
28.12.2015 n. 402/04/2015.
Un contribuente della provincia toscana avanzava istanza di
rimborso, relativamente all'Imu corrisposta per un terreno
agricolo situato in un'area collinare per l'anno 2014.
L'obbligo di pagamento, infatti, era stato introdotto con il
dl 66/2014 (a cui è poi seguito decreto attuativo), che
modificava i criteri di esenzione dall'imposta, introducendo
i parametri dell'altitudine e della qualità del proprietario
(coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale).
Le nuove regole, dettate nell'anno 2014, avevano effetti
anche sull'anno in corso; tant'è che, in presenza di decreto
attuativo emanato dopo la scadenza della prima rata Imu
(prevista per giugno 2014), i proprietari di terreni che in
base a questa nuova regolamentazione non erano più esenti,
hanno dovuto corrispondere l'intero importo (prima rata e
saldo) nella scadenza di dicembre. Secondo i nuovi criteri,
i terreni agricoli montani ora esenti Imu sono solo quelli
che ricadono in comuni sopra i 601 metri di altitudine, in
base all'elenco comuni italiani pubblicato sul sito internet
dell'Istat alla colonna «Altitudine dal centro».
Se, invece,
il comune si trova tra 601 e 281 metri, l'esenzione Imu
scatta solo per terreni di coltivatori diretti e
imprenditori agricoli professionali, iscritti alla
previdenza agricola. La Ctp di Grosseto ha accolto il
ricorso del contribuente, stabilendo la debenza del rimborso
per l'Imu versata nell'anno 2014.
Infatti, spiega la Commissione, «secondo l'articolo 3 della
legge 27.07.2000 n. 212, le disposizioni tributarie non
possono avere efficacia retroattiva e, relativamente ai
tributi periodici, le modificazioni introdotte devono
applicarsi solo a partire dal periodo d'imposta successivo a
quello in corso alla data di entrata in vigore delle
disposizione che le prevedono».
Le spese del giudizio sono
state compensate, in relazione alla particolarità e novità
del fatto oggetto di discussione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
.. rappresentato e difeso da ... domiciliato presso il suo
studio in Grosseto come in atti, ha presentato ricorso
contro il comune di Orbetello avverso il silenzio rifiuto
all'istanza di rimborso Imu emesso il ... notificato il ...
a seguito dell'istanza di rimborso presentata dal ricorrente
in relazione al versamento per l'anno 2014 effettuato il
04/03/2015 per 2.108,00. Ravvisava il ricorrente in quella
sede l'incostituzionalità del dl 66/2014 disciplinante le
nuove modalità di liquidazione dell'imposta e la violazione
da parte della medesima normativa di quanto disposto nello
statuto del contribuente.
Il comune emetteva esplicito
diniego a tale istanza rilevando l'assenza di pronunciamenti
giurisprudenziali sulla normativa in oggetto di
contestazione e l'impossibilità da parte dell'ente di
pronunciarsi in merito alla questione di illegittimità
costituzionale sollevata dal ricorrente. Rileva il
ricorrente che la vecchia normativa in materia, uniformata a
una politica di sostegno nazionale e comunitario,
individuava le aree agricole svantaggiate bisognevoli di
esenzione dal pagamento dell'imposta attraverso l'utilizzo
di un elenco di terreni elaborato sulla base di più deficit
strutturali o appartenenti a comprensori di bonifica montana
e non solo caratterizzati dal loro livello altimetrico.
La
nuova normativa fa invece riferimento alla sola posizione
altimetrica, cioè altezza media del territorio comunale
elaborato dall'Istat e finisce per tassare terreni che
invece si presentano economicamente svantaggiati e
bisognevoli di essere tutelati secondo quanto previsto e
attuato dalla normativa nazionale e comunitaria in materia
di sostegno alla politica agraria [omissis] Il dl 24.01.2015
n. 4 ha previsto misure urgenti in materia di Imu per il
2015 ma con effetti anche per il decorso anno 2014.
Con il
primo motivo il ricorrente ha eccepito in riferimento al
predetto dl del 24.01.2015 n. 4, la violazione dell'art. 3
dello statuto del contribuente. Il collegio ritiene
meritevole di accoglimento detta eccezione in quanto,
concordemente con quanto sostenuto nel ricorso, la
previsione di pagamento per l'anno 2014 è illegittima.
Infatti, secondo l'art. 3 della L. 27.07.2000 n. 212, le
disposizioni tributarie non possono avere efficacia
retroattiva e relativamente ai tributi periodici, le
modificazioni introdotte devono applicarsi solo a partire
dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data
di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono,
l'accoglimento del primo motivo è assorbente e rende
superfluo l'esame degli ulteriori motivi ed eccezioni del
ricorso.
Nulla in ordine alle spese di giudizio tenuto conto
della particolarità del fatto oggetto di discussione
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.02.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L'omissione costa cara.
Se si omette la documentazione in giudizio per disattenzione
dell'avvocato il cliente dovrà essere risarcito.
È quanto affermato dai giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
23.12.2015 n. 25963.
I giudici di piazza Cavour hanno confermato il principio
secondo cui, in tema di responsabilità professionale
dell'avvocato, una eventuale mancanza nell'indicazione delle
prove indispensabili per l'accoglimento della domanda
costituisce di per sé manifestazione di negligenza del
difensore, salvo che lo stesso avvocato dimostri di non aver
potuto adempiere per fatto che non può essere a lui imputato
o di avere svolto tutte le attività che potevano essergli
ragionevolmente richieste.
Inoltre gli Ermellini hanno
evidenziato che rientra nei doveri di diligenza
professionale dell'avvocato, non solo la consapevolezza che
la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda
espone il cliente alla soccombenza, ma anche che il cliente,
normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del
processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla
cognizione dei giudice.
Nel caso sottoposto all'attenzione
dei giudici della Cassazione, a tale principio si era
attenuto anche il giudice d'appello, il quale aveva
affermato che «colui che agisce in confessoria servitutis ha
l'onere di fornire la prova dell'esistenza del diritto, e
che tale onere non viene meno a fronte di ammissioni del
convenuto, trattandosi dell'esistenza di un diritto reale,
rimanendo salva soltanto la possibilità per il giudice di
avvalersi degli elementi che scaturiscono dalle ammissioni
del convenuto nella valutazione delle risultanze della prova
offerta dall'attore (ex plurimis, Cass., sez. 2ª, sentenza
n. 8527 del 1996)»
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.02.2016).
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MASSIMA
2.1. - Le doglianze, che possono essere esaminate
congiuntamente perché connesse, sono infondate.
2.1.1. - Il ricorrente censura valutazioni effettuate nel
diverso giudizio, definito con la sentenza del Tribunale di
Rovereto, passata in giudicato, che ha respinto la domanda
proposta da Ma.Pe., assistito dall'avv. Pe..
Le suddette valutazioni non possono evidentemente costituire
oggetto di rivalutazione nel presente giudizio, mentre si
deve confermare il principio secondo cui,
in tema di responsabilità professionale dell'avvocato, la
mancata indicazione delle prove indispensabili per
l'accoglimento, della domanda costituisce di per sé
manifestazione di negligenza del difensore, salvo che il
predetto dimostri di non aver potuto adempiere per fatto a
lui non imputabile o di avere svolto tutte le attività che,
nel caso di specie, potevano essergli ragionevolmente
richieste, tenuto conto che rientra nei suoi doveri di
diligenza professionale non solo la consapevolezza che la
mancata prova degli elementi costitutivi della domanda
espone il cliente alla soccombenza, ma anche che il cliente,
normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del
processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla
cognizione del giudice
(ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 8312 del
2010).
A tale principio si è attenuto il giudice d'appello, il
quale ha ritenuto, nel solco della consolidata
giurisprudenza di legittimità, che colui
che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di
fornire la prova dell'esistenza del diritto, e che tale
onere non viene meno a fronte di ammissioni del convenuto,
trattandosi dell'esistenza di un diritto reale, rimanendo
salva soltanto la possibilità per il giudice di avvalersi
degli elementi che scaturiscono dalle ammissioni del
convenuto nella valutazione delle risultanze della prova
offerta dall'attore
(ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 8527 del
1996).
2.1.2. - Nel caso di specie, posto che il sistema tavolare,
ai fini della opponibilità ai terzi di una servitù, richiede
l'iscrizione della servitù nella partita tavolare relativa
al fondo servente, a fronte dell'eccezione del convenuto di
carenza di prova documentale, l'avv. Pe. non aveva svolto
tutte le attività che gli potevano essere ragionevolmente
richieste, in particolare non aveva prodotto l'iscrizione
del titolo nella partita tavolare del fondo servente. |
CONSIGLIERI REGIONALI: Consiglieri regionali, paletti alle indennità.
Sentenza della Cassazione sui costi degli spostamenti.
La Cassazione fissa dei paletti rigidi in tema di indennità
di trasporto erogate a favore dei consiglieri regionali.
Infatti con la recentissima
sentenza
22.12.2015 n. 50255 (VI Sez. pen.), la Suprema corte
ha ritenuto che le indennità di trasporto percepite dai
consiglieri regionali per l'utilizzo del proprio mezzo nella
tratta pari alla distanza tra il luogo di residenza e quello
di esercizio del mandato rientrano tra le erogazioni a danno
dello stato, o di altri enti pubblici, se ottenute
indebitamente.
La Cassazione afferma che la residenza di un soggetto non
coincide con il formale dato anagrafico, ma si può definire
tale soltanto «l'abituale volontaria dimora in un dato luogo
contrassegnata sia dal fatto oggettivo della stabile
permanenza in quel luogo, sia dall'elemento soggettivo della
volontà di rimanervi, manifestata in fatti univoci,
evidenzianti tale intenzione».
La sentenza evidenzia che il legislatore sanziona sia la
truffa ai danni dello stato, sia la condotta del soggetto
che mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni
e documenti falsi ottiene «contributi, finanziamenti, mutui
agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque
denominate, concessi o erogati dallo stato o da altri enti
pubblici».
La seconda ipotesi di reato è prevista da una norma che si
può definire sussidiaria rispetto a quella che definisce la
truffa in quanto è destinata ad operare qualora la condotta
presa in considerazione non presenti gli elementi degli
artifici e raggiri e dell'induzione in errore.
Secondo la Cassazione la ratio della norma in questione va
ravvisata nella volontà del legislatore di sanzionare
l'indebita percezione delle erogazioni in genere, qualunque
sia la loro denominazione, elargite dallo stato o da altri
pubblici soggetti e ciò giustifica l'inclusione in tale
ambito delle indennità rilasciate dalla regione ai propri
consiglieri, a titolo di rimborso, per le spese di trasporto
affrontate per il raggiungimento del luogo di esercizio del
mandato.
La Suprema corte precisa che questa conclusione è avvalorata
dalla previsione nella norma di una sanzione (soltanto
amministrativa) anche per la percezione di contributi di
modesta consistenza (articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Limiti alla pasticceria rumorosa.
Sentenza cds.
Il laboratorio artigianale di produzione di pasticceria che
rivende al pubblico i suoi prodotti deve ritenersi
assimilato ad un pubblico esercizio e pertanto il sindaco ha
facoltà di regolarne l'orario di apertura. Come se si
trattasse di un esercizio commerciale qualunque.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato -Sez. V- con la
sentenza 21.12.2015 n. 5810.
Un pasticceria è stata sanzionata dai
vigili per violazione delle disposizioni locali sugli orari.
Contro questa determinazione punitiva l'interessato ha
proposto ricorso ai giudici amministrativi ma senza
successo.
Un laboratorio artigianale che vende al pubblico i
suoi prodotti deve ritenersi assimilato a un esercizio
commerciale se non addirittura ad un pubblico esercizio,
specifica il collegio. Per questo motivo correttamente il
sindaco ha facoltà di regolare l'attività di vendita al
dettaglio dei generi alimentari, in conformità all'art. 50
del dlgs 267/2000.
Solo una interpretazione puramente formale potrebbe
assimilare i laboratori con vendita diretta dei prodotti ad
attività artigianali in senso stretto. Si tratta di esercizi
commerciali veri e propri che vanno regolati dal comune
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2016).
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MASSIMA
Le censure sono infondate.
L’appellante fornisce un’interpretazione assolutamente
restrittiva e comunque errata dell’art. 50 del D.Lgs. n. 267
del 2000, ignorando in questo il tenore del comma 7 dello
articolo, richiamato nelle premesse dell’ordinanza impugnata
a fondamento principale della medesima, con la quale il
Sindaco di Lucca ha disposto la chiusura per le ore una
delle notti dalla domenica al venerdì e per le ore due del
sabato di pizzerie da asporto, gelaterie e yogurterie,
rosticcerie e friggitorie ed appunto pasticcerie, tutti
locali dello stesso genere, in quanto accomunati dal dato
dell’immediata vendita pubblica al dettaglio di generi
alimentari prodotti in loco dai venditori.
L’art. 50, comma 7, predetto dispone che ”Il sindaco,
altresì, coordina e riorganizza, sulla base degli indirizzi
espressi dal consiglio comunale (…) gli orari degli esercizi
commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici,
nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente
competenti delle amministrazioni interessate, (…) al fine di
armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze
complessive e generali degli utenti”.
Ora, solamente un’interpretazione puramente formale potrebbe
assimilare gli esercizi presi in considerazione
dall’ordinanza sindacale a puri laboratori artigiani, del
tutto liberi a differenza degli ordinari esercizi
commerciali dalla necessità di una regolamentazione
dell’attività di vendita o del consumo in loco e
considerarli conseguentemente esenti dalle norme locali che
devono coordinare gli orari di rivendita.
Appare del tutto evidente che
una pizzeria da asporto o una gelateria o ancora una
pasticceria, ove il dato prevalente dell’attività è lo
smercio nei confronti di una collettività indistinta che
frequenta i locali di vendita, rientri naturalmente tra i “pubblici
esercizi” di cui al predetto comma 7 dell’art. 50 D.Lgs.
n. 267 del 2000 ed è altrettanto evidente che tra le “esigenze
generali” deve essere compresa la salvaguardia della
quiete pubblica ed il normale riposo nelle ore notturne; e
poiché è anche fatto notorio che tale tipo di attività
artigianale con conseguente vendita al dettaglio comporta un
afflusso di persone e più in generale assembramenti in
genere ben più rumorosi di un ordinario esercizio di
vicinato, è del tutto plausibile che le previsioni del comma
7 in parola debbano ritenersi ricomprendere tali tipi di
forma mista artigianale/commerciale.
Per completezza va aggiunto che l’ordinanza sindacale è
stata correttamente preceduta dalla deliberazione consiliare
n. 46 del 24.04.2004, che ha dettato gli indirizzi per la
riorganizzazione degli orari. |
APPALTI:
File bloccati, illegittime le esclusioni dalle
gare.
Non è colpa della ditta che partecipa a una gara d'appalto
se l'ente pubblico non è in grado di aprire i file
dell'offerta presentata.
È questa, in soldoni, la motivazione con la quale il TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 18.12.2015 n. 1646, ha bacchettato un comune foggiano, colpevole di non
avere le competenze di base e i software adatti per la
ricezione dei documenti della procedura di gara telematica.
La vicenda processuale nasce dal ricorso di una ditta
pugliese che si era vista esclusa da una gara, indetta dal
Comune di Chieuti, nel Foggiano, tramite la piattaforma
informatica Mepa, per la fornitura di arredi d'ufficio.
L'ente aveva motivato la mancata accettazione dell'offerta
con l'impossibilità di aprire i file firmati digitalmente
dal legale rappresentante dell'impresa, reputandoli
danneggiati.
A nulla, peraltro, era valso il successivo
invio degli stessi documenti, stavolta con firma autografa,
ma considerati dalla commissione di gara non corrispondenti
ai primi. Ad aggiudicarsi la fornitura, così, era stata
un'altra ditta, la sola ad avere presentato un'offerta
alternativa.
Fondamentale per decidere la causa si è rivelata la disamina
del perito della ricorrente, le cui risultanze sono state
recepite dal collegio giudicante. La perizia tecnica di
parte, infatti, ha dimostrato la perfetta integrità e
leggibilità dei file trasmessi, imputando la mancata lettura
della documentazione esclusivamente alla responsabilità del
Comune. «La p.a.», si legge nella motivazione, «avrebbe
facilmente potuto ovviare all'inconveniente registrato
disponendo un supplemento istruttorio, anche con l'ausilio
di personale all'uopo maggiormente qualificato, in grado di
procedere all'utilizzo dei programmi informatici necessari,
onde poter agevolmente procedere all'apertura dei file
trasmessi».
Il Tar, pertanto, ha giudicato illegittima l'esclusione
dalla gara della ricorrente, pur non potendo invalidare
l'aggiudicazione all'impresa concorrente, divenuta
esecutrice integrale della fornitura. La gara non potrà
essere rinnovata, ma la ditta esclusa potrà comunque agire
nei confronti della p.a. con un separato giudizio
risarcitorio
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.02.2016). |
TRIBUTI: Pubblicità, il cartellone abusivo versa l’imposta.
Tributi locali. Pagamento dovuto nonostante l’autorizzazione
scaduta per la semplice esposizione del messaggio alla
visione del pubblico.
Anche l’impianto pubblicitario abusivo è soggetto
all’imposta sulla pubblicità. E questo perché il presupposto
impositivo è collegato alla semplice esposizione del
messaggio promozionale. Infatti, se così non fosse, sarebbe
sin troppo comodo installare un mezzo pubblicitario abusivo
e usufruire dello stesso senza pagare la relativa imposta.
Ad affermarlo è la
sentenza 17.12.2015 n. 972/1/2015 della Ctp di
Caltanissetta (presidente e relatore Monteleone).
La vicenda scaturisce dal ricorso presentato da una società
di capitali contro l’avviso di accertamento emesso dalla
concessionaria del servizio di pubblicità di un Comune
relativamente all’imposta dovuta per l’anno 2011.
Nello specifico, il tributo si riferiva a impianti
pubblicitari la cui autorizzazione all’installazione, a suo
tempo rilasciata dal Comune, era scaduta. La ricorrente,
considerato che l’ente locale, nonostante le richieste in
sanatoria presentate, non aveva ancora provveduto al suo
rinnovo, riteneva che l’imposta non fosse dovuta in quanto
si trattava, conseguentemente, di impianti pubblicitari
installati abusivamente.
La concessionaria della riscossione resisteva e la Ctp
respingeva il ricorso, condannando la società istante anche
a pagare le spese processuali. I giudici, innanzitutto,
osservano che, in base all’articolo 5 del Dlgs 507/1993
(Revisione e armonizzazione dell’imposta comunale sulla
pubblicità), il presupposto impositivo è rappresentato dalla
diffusione di messaggi pubblicitari attraverso forme di
comunicazione visive o acustiche. Soggetto passivo, inoltre,
è colui che dispone, a qualsiasi titolo, del mezzo
attraverso il quale il messaggio promozionale è diffuso.
Appare quindi evidente, sostiene la commissione, che il
pagamento dell’imposta è correlato alla semplice esposizione
dell’impianto pubblicitario, indipendentemente dalla
intervenuta o meno autorizzazione alla sua installazione.
In caso contrario, evidenziano i giudici, sarebbe
relativamente semplice installare abusivamente un mezzo
pubblicitario e usufruire dello stesso senza corrispondere
la relativa imposta con “l’aberrante risultato” che il
tributo sarebbe dovuto soltanto da colui che abbia ottenuto
l’apposita autorizzazione.
A sostegno di quanto rilevato i giudici richiamano il
principio enunciato dalla Cassazione con la sentenza
183/2004 per il quale, nei casi di omessa dichiarazione e,
quindi, di pubblicità abusiva, il termine di decadenza per
l’accertamento del tributo decorre dalla data in cui la
dichiarazione stessa avrebbe dovuto essere presentata. Va
anche rilevato, osserva l’organo giudicante, che l’articolo
24, comma 4, del Dlgs n. 507/1993, prevede che i mezzi
pubblicitari esposti abusivamente possono essere sequestrati
a garanzia del pagamento, oltre che delle spese di rimozione
e di custodia, anche dell’imposta.
In conclusione, per la Ctp di Caltanissetta, il presupposto
impositivo va, quindi, ricercato nella semplice esposizione
del messaggio pubblicitario indipendentemente dalla
presenza, o meno, dell’autorizzazione alla sua diffusione (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.02.2016). |
APPALTI:
Giudizi sugli appalti, limiti al pluricontributo
unificato.
D'accordo, il contributo unificato multiplo nei giudizi
sugli appalti pubblici è conforme ai principi eurounitari
con tanto di bollino blu della Corte di giustizia Ue, che ha
dato il via libera con la sentenza 61/2014, pubblicata il 6
ottobre scorso. Ma non è detto che si debba sempre pagare
l'ulteriore tributo: deve infatti escludersi la debenza
quando il ricorso per motivi aggiuntivi si limita a ribadire
le stesse censure riferite all'intervenuta aggiudicazione
definitiva della gara.
È quanto emerge dalla
sentenza 03.12.2015 n. 2840, pubblicata dal TAR
Sicilia-Catania, IV Sez..
Illegittimità derivata.
È accolto il motivo di ricorso dell'azienda che chiede di
essere esentata dal versamento. È vero: la Corte Ue che ha
affermato che la legge italiana sui contributi multipli in
caso di ricorsi avverso la stessa aggiudicazione non
contrasta col diritto eurounitario perché la somma da pagare
resta comunque compresa nel 2% del valore della gara e,
dunque, non ostacola il ricorso alla giustizia.
Ma la Corte di Lussemburgo ha pure sottolineato che spetta
al giudice nazionale accertare se gli oggetti dei ricorsi «non
sono effettivamente distinti o non costituiscono un
ampliamento considerevole dell'oggetto della controversia
già pendente»: in tal caso bisogna «dispensare
l'amministrato dall'obbligo di pagamento di tributi
giudiziari cumulativi».
Nella specie il focus della lite non si allarga perché il
ricorso di limita a ribadire, fra l'altro per illegittimità
derivata, le censure rivolte contro l'attribuzione dei
lavori
(articolo ItaliaOggi
del 05.02.2016). |
TRIBUTI: L’area che non produce rifiuti va «denunciata» al Comune.
Tributi locali. Il caso dell’esenzione dalla Tarsu per una
zona adibita a centrale telefonica.
Le aree
occupate da centrali telefoniche non producono rifiuti, ma
l’esenzione dalla Tarsu dipenderà da una tempestiva denuncia
al Comune che indichi specificamente siti e locali destinati
a questo.
Lo afferma la
sentenza 02.10.2015 n. 713/01/15 della Ctp di Caltanissetta
(presidente D’Agostini, relatore Di Bella), aggiungendo che,
se il Comune non assume alcun provvedimento dopo aver
ricevuto la comunicazione, non può richiedere il pagamento
del tributo.
La società aveva proposto ricorso contro una cartella di
pagamento emessa per un’annualità Tarsu in relazione a una
vasta superficie in cui si trovavano uffici, archivi e
servizi ma anche un’area adibita a centrale telefonica non
presidiata. Il Comune aveva classificato l’intero immobile
come destinato a civile abitazione.
La società contestava la legittimità dell’imposizione
tributaria perché entro il 20 gennaio dell’anno di
riferimento aveva inoltrato al Comune una denuncia di
parziale esenzione nella quale indicava l’estensione
dell’area esclusivamente destinata a centralina. La società
aveva versato la quota del tributo imputabile alla porzione
di edificio destinata a uffici e archivi, ma formalizzando
la non acquiescenza sulla restante pretesa tributaria
dell’ente. In seguito alla denuncia il Comune non aveva dato
alcuna risposta alla richiesta di esenzione e aveva emesso
iscrizione a ruolo per l’intera area.
La Ctp di Caltanissetta ha ritenuto illegittimo il modo di
procedere seguito dal Comune tanto da non limitarsi ad
annullare la cartella ma da arrivare a condannare l’ente a
pagare le spese del giudizio.
I giudici hanno ricordato che la Tarsu ha come presupposto
la potenzialità di produzione di rifiuti di un immobile, non
la sua abitabilità. E la circolare del Mef 95/E del 22.06.1994 indica come esenti le superfici che per natura o
assetto sono tali da impedire obiettivamente la produzione
di rifiuti. Le centrali telefoniche sono occupate da
attrezzature e la presenza dell’uomo è sporadica o manca del
tutto.
Spetta al contribuente l’onere di dimostrare una simile
situazione di fatto che vale a vincere la presunzione di
produzione di rifiuti, altrimenti valida per tutte le aree
occupate. Quando sia stata inoltrata al Comune la denuncia
con la quale il contribuente si assume la responsabilità di
ciò che in essa è attestato, l’ente potrà accertare
l’effettiva sussistenza dei presupposti per l’esenzione con
eventuale recupero del tributo non versato.
Se il Comune non procede ad alcuna verifica e richiede
ugualmente il pagamento del tributo, deve tenere presente
che ha comunque l’onere di esternare il titolo e le ragioni
giustificative della pretesa. E non potrà limitarsi a
richiamare la presunzione di produzione di rifiuti senza
prendere posizione sui fatti dedotti con la richiesta di
esenzione.
Pertanto, nel giudizio promosso dal contribuente,
il Comune deve provare i fatti costitutivi della sua
pretesa (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Relativamente
agli interventi di ripristino di
edifici diruti, occorre distinguere l'ipotesi in cui
esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione
tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual
caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e
dunque di ristrutturazione), dall'ipotesi in cui,
invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura
perimetrali e privo di copertura (nel qual caso gli
interventi in questione non possono essere classificati come
interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di
nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi
sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell'edificio da recuperare).
---------------
Fondata è invece l’azione di annullamento della concessione
edilizia, sotto il profilo –di carattere assorbente– dedotto
con il primo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti
hanno dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art.
31 L. 457/1978 e dell’art. 69 del P.U.C., per avere il
comune di Genova qualificato come restauro e risanamento
conservativo, anziché come nuova costruzione, un intervento
su di un manufatto privo di essenziali parti strutturali
(segnatamente, la copertura).
Difatti, “per quanto riguarda gli interventi di
ripristino di edifici diruti, occorre distinguere
l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di
mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato
di conservazione tale da consentire la sua fedele
ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di
demolizione e ricostruzione, e dunque di ristrutturazione),
dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo
edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di
copertura (nel qual caso gli interventi in questione non
possono essere classificati come interventi di restauro e
risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la
mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare)”
(TAR Campania, IV, 23.12.2010, n. 28002).
Donde l’erronea qualificazione dell’intervento, che –del
resto- anche qualora fosse qualificabile come
ristrutturazione, necessiterebbe comunque del reperimento
dei parcheggi pertinenziali ex art. EM3 1.8 del P.U.C.
(profilo dedotto con il quarto motivo di ricorso)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 17.02.2011 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'01.02.2016 |
ã |
La costruzione realizzata in un'area diversa da
quella risultante dal progetto approvato integra
l'ipotesi di totale difformità, anche se tale
spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito
dello stesso lotto.
* * *
Sui distinguo tecnico-giuridici degli
interventi edilizi in difformità totale o
parziale ovvero in variazione
essenziale. |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Tutela del paesaggio e interventi in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale.
La giurisprudenza di questa Corte ha
costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in
un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato
integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non
riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera
autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi
di totale difformità di lavori dal provvedimento
abilitativo, per cui è
configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello
di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità
esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area
diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche
se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito
dello stesso lotto.
Lo spostamento da un luogo ad un altro
determina, invero, una vera e propria alterazione della
costruzione autorizzata, che integra un'opera
sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non
legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità
comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del
DPR 380/2001, si considera in "totale difformità"
l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e
sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato
realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente
diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche,
plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione.
E non può essere revocato in dubbio che
opere "spostate", in modo significativo (tra i nove
ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato
integrino una difformità totale, e come tali debbano
considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate"
dal provvedimento originario (esse invero risultano
sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse
alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
---------------
Per di più, nel caso di specie, risultando l'area
sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la
distinzione tra "totale difformità" e "parziale
difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo
paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004,
possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli
derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di
questa Corte, secondo
cui, in tema di tutela del paesaggio, anche
a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n.
42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al
Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi
decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi
atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la
compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
---------------
Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha
ribadito, infatti, che in presenza di
interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai
fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è
indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R.
06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli
interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo,
inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità totali.
E, dall'altro, che occorresse, per
l'intervento "diverso", nuova autorizzazione
paesaggistica.
---------------
2.1. Risulta
pacificamente in punto di fatto (non venendo neppure
sostanzialmente contestato dai ricorrenti) che le opere
erano state posizionate in modo diverso rispetto a quanto
previsto in progetto.
Il Tribunale ha dato atto che i consulenti, dopo aver
eseguito le coordinate dei sei aerogeneratori, come
risultanti dalle tavole tecniche, avevano proceduto a
localizzare le opere in corso di realizzazione con sistema
di rilevazione satellitare. E, attraverso tale ineccepibile
metodo operativo, che trovava peraltro conforto nei rilievi
effettuati dall'ausiliario forestale, dott. Cr., si era
accertato una indiscutibile divergenza tra il dato delle
coordinate di progetto con quello delle opere in corso.
Risultava, infatti, uno spostamento significativo delle
opere, oscillante tra i 9 metri ed i 28 metri, rispetto a
quanto era stato autorizzato con il progetto.
Sulla base di tale accertamento, ineccepibilmente il
Tribunale ha ritenuto che fosse configurabile il fumus
del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001 (pag.
15 ord.).
La giurisprudenza di questa Corte,
a partire da quella più datata, ha
costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in
un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato
integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non
riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera
autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi
di totale difformità di lavori dal provvedimento
abilitativo (Cass.
sez. 3 n. 5224 del 20/03/1981), per cui è
configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello
di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità
esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area
diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche
se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito
dello stesso lotto
(Cass. sez. 3 n. 3178 del 27/01/1982).
Lo spostamento da un luogo ad un altro
determina, invero, una vera e propria alterazione della
costruzione autorizzata, che integra un'opera
sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non
legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità
comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del
DPR 380/2001, si considera in "totale difformità"
l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e
sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato
realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente
diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche,
plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione
(Cass. sez. 3 n. 40541 del 18/06/2014).
E non può essere revocato in dubbio che
opere "spostate", in modo significativo (tra i nove
ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato
integrino una difformità totale, e come tali debbano
considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate"
dal provvedimento originario (esse invero risultano
sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse
alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
Ha già osservato il Tribunale, inoltre, che contrariamente
all'assunto difensivo l'intervento non può considerarsi di "variante
di tipo non sostanziale" neppure ai sensi e per gli
effetti della disciplina speciale prevista dal D.L.vo
03.03.2011 n. 28, in quanto l'art. 5, comma 3, esclude dalle
categorie degli interventi sostanziali, oltre quelli che non
comportano variazioni delle dimensioni fisiche degli
apparecchi, della volumetria delle strutture, quelli che non
comportano "variazioni dell'area destinata ad ospitare
gli impianti stessi".
2.2. Per di più, nel caso di specie, risultando l'area
sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la
distinzione tra "totale difformità" e "parziale
difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo
paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004,
possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli
derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di
questa Corte (cfr. Sez. 3 n. 41078 del 20/09/2007), secondo
cui, in tema di tutela del paesaggio, anche
a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n.
42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al
Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi
decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi
atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la
compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
In applicazione di tale principio si è ritenuto che il Piano
Urbanistico Territoriale Tematico della Regione Puglia,
riconducibile alla categoria dei piani urbanistico
territoriali con specifica considerazione dei valori
paesistici ed ambientali, costituisca un intervento di
pianificazione a carattere generale efficace su tutto il
territorio regionale, non limitato alle aree ed ai beni
elencati dall'art. 82, quinto comma, DPR n. 616 del 1977
ovvero alle aree già sottoposte ad uno specifico vincolo
paesistico.
Il PUTT/P, quindi, oltre gli effetti di direttiva nei
confronti della pianificazione comunale, produce anche
effetti diretti nei confronti dei privati, con vincoli
generali e particolari, purché pertinenti alla specifica
tematica del piano stesso ed estende la sua portata, oltre
che ai beni vincolati, anche a zone non soggette al regime
di tutela paesistica, ma ugualmente ritenute meritevoli di
considerazione in quanto espressione della più generale
potestà urbanistica regionale in materia
paesaggistico-ambientale.
Il Tribunale ha accertato che l'impianto in corso di
realizzazione insistesse in ATE di Tipo C, e che all'interno
di tale ambito gli interventi di trasformazione fossero
ammessi solo se compatibili con la qualificazione
paesaggistica.
Del resto in data 17/05/2010 la stessa Regione Puglia non
esprimeva parere favorevole (salvo poi a modificarlo
inopinatamente dopo pochi mesi) per gli aerogeneratori 1, 2,
3, 4, 5, in quanto collocati in ATE di Tipo C e in contrasto
con i relativi indirizzi di tutela (2.02) del PUTT.
Da tutto ciò consegue, da un lato, che, a seguito dello
spostamento dell'ubicazione dell'opera, comunque si rendesse
necessario nuovo permesso di costruire (da conseguire con
ricorso alla procedura dell'autorizzazione unica).
Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha
ribadito, infatti, che in presenza di
interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai
fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è
indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R.
06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli
interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo,
inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità totali
(Cass. sez. 3 n. 37169 del 06/05/2014; sez. 3 n. 1486 di
03/12/2013 ed in precedenza Sez. 3 n. 16392 del 17/02/2010).
E, dall'altro, che occorresse, per
l'intervento "diverso", nuova autorizzazione
paesaggistica.
Perfino gli interventi eseguibili mediante dia (ora scia)
necessitano, infatti, del preventivo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo (cfr. ex multis
Cass. pen. sez. 3 n. 8739 del 21.01.2010), configurandosi in
mancanza il reato di cui all'art. 181 D.L.gs. n. 42 del 2004
(Cass. pen. sez. 3 n. 15929 del 12.01.2006).
Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che fosse
configurabile il fumus sia del reato di cui all'art.
44, lett. c), DPR 380/2001, sia del reato di cui
all'art. 181 D.L.vo 42/2004 (tratto da www.lexambiente.it
- Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
17.12.2015 n. 49669). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non determina l'estinzione del reato
edilizio, ai sensi del combinato disposto degli
artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
con effetti temporanei o relativo soltanto a parte
degli interventi abusivi realizzati o, ancora,
subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò
contrasta ontologicamente con gli elementi
essenziali dell'accertamento di conformità, i quali
presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere
e la loro integrale conformità alla disciplina
urbanistica.
---------------
Il concetto della totale difformità è
antitetico rispetto a quello della parziale
difformità e ciò giustifica il diverso approccio
valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che
deve essere eseguita su base normativa, dell'una o
dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un
intervento costruttivo, specificamente individuato,
che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo,
venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse
da quelle fissate a livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone
invece un intervento costruttivo che esclude una
valutazione frammentaria di esso e che perciò va
riguardato unitariamente e nel suo complesso posto
che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le
opere eseguite in totale difformità dal permesso di
costruire come quelle "che comportano la
realizzazione di un organismo edilizio integralmente
diverso per caratteristiche tipologiche,
planovolumetriche o di utilizzazione da quello
oggetto del permesso stesso...".
Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, TUE richiama un
concetto di "totale difformità"
ancorato, più che al confronto tra la singola
difformità e le previsioni progettuali
dell'intervento edilizio, alla comparazione
sintetica tra l'organismo programmato nel progetto
assentito e quello che è stato realizzato con
l'intervento edilizio scaturito dall'attività
costruttiva, con la conseguenza che, mentre il
metodo valutativo utilizzabile per definire il
concetto di "parziale difformità"
ha carattere analitico, quello destinato ad
accertare la "totale difformità" si fonda su
una valutazione di sintesi collegata alla
rispondenza o meno del risultato complessivo
dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato
rappresentato nelle previsioni progettuali, le
uniche prese in considerazione in fase di assenso
amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già
pervenuta la giurisprudenza di questa Corte quando,
nel previgente e non antitetico assetto normativo,
aveva chiarito che si ha
difformità totale di un manufatto edilizio
allorché i lavori riguardino un'opera diversa da
quella prevista dall'atto di concessione: diversa
per conformazione, strutturazione, destinazione,
ubicazione; mentre si configura la difformità
parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della
costruzione e si concretizzino in divergenze
qualitative e quantitative non incidenti sulle
strutture essenziali dell'opera.
---------------
2.4. Sul punto, quanto alla doglianza circa la
negata valenza del permesso in sanatoria come causa
estintiva del reato urbanistico, la Corte di appello
si è attenuta alla giurisprudenza di questa Corte
secondo la quale non determina
l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di
costruire in sanatoria con effetti temporanei o
relativo soltanto a parte degli interventi abusivi
realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di
opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con
gli elementi essenziali dell'accertamento di
conformità, i quali presuppongono la già avvenuta
esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica
(Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini ed altro,
Rv. 250477).
Nella specie, il permesso di costruire in sanatoria
è stato concesso con specifiche prescrizioni, è poi
pacifico che l'autorimessa seminterrata,
ipoteticamente sanabile, sia stata esclusa dalla
sanatoria stessa, essendone stata prevista la
demolizione e, a dimostrazione dell'inammissibilità
di una sanatoria parziale o condizionata alla
demolizione di una parte degli interventi, la Corte
di appello ha anche correttamente rilevato come,
dall'esame della pratica di sanatoria, anche altre
opere siano state sottratte all'accertamento dì
conformità essendo stata prevista anche
l'eliminazione dei muri di chiusura della loggia e
la risistemazione esterna del terreno, così da
incidere sull'altezza del piano di calpestio del
fabbricato rispetto al piano di campagna.
2.5. Corretto deve ritenersi anche l'approdo cui i
Giudici dell'appello sono pervenuti nel ritenere
configurata la fattispecie della difformità totale
procedendo ad valutazione concernente l'opera nel
suo insieme e stigmatizzando il contrario approccio
pronosticato dai ricorrenti e diretto a valutare
singolarmente le varie difformità parcellizzando
l'esame critico degli interventi.
Dalla valutazione unitaria dell'immobile realizzato,
la Corte ha tratto corretto e logico argomento per
desumere la realizzazione di un organismo
integralmente diverso da quanto previsto nell'atto
di assenso sul rilievo del macroscopico incremento
volumetrico comportante la realizzazione di un
immobile di dimensioni molto più ampie, traslato sul
terreno, con un'autorimessa seminterrata non
prevista dal permesso di costruire.
Il concetto della totale
difformità è antitetico rispetto a quello della
parziale difformità e ciò giustifica il
diverso approccio valutativo e comparativo per la
riconoscibilità, che deve essere eseguita su base
normativa, dell'una o dell'altra tipologia di
difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un
intervento costruttivo, specificamente individuato,
che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo,
venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse
da quelle fissate a livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone
invece un intervento costruttivo che esclude una
valutazione frammentaria di esso e che perciò va
riguardato unitariamente e nel suo complesso posto
che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le
opere eseguite in totale difformità dal permesso di
costruire come quelle "che comportano la
realizzazione di un organismo edilizio integralmente
diverso per caratteristiche tipologiche,
planovolumetriche o di utilizzazione da quello
oggetto del permesso stesso...".
Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, TUE richiama un concetto
di "totale difformità" ancorato, più
che al confronto tra la singola difformità e le
previsioni progettuali dell'intervento edilizio,
alla comparazione sintetica tra l'organismo
programmato nel progetto assentito e quello che è
stato realizzato con l'intervento edilizio scaturito
dall'attività costruttiva, con la conseguenza che,
mentre il metodo valutativo utilizzabile per
definire il concetto di "parziale difformità"
ha carattere analitico, quello destinato ad
accertare la "totale difformità" si
fonda su una valutazione di sintesi collegata alla
rispondenza o meno del risultato complessivo
dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato
rappresentato nelle previsioni progettuali, le
uniche prese in considerazione in fase di assenso
amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già
pervenuta la giurisprudenza di questa Corte quando,
nel previgente e non antitetico assetto normativo,
aveva chiarito che si ha
difformità totale di un manufatto edilizio
allorché i lavori riguardino un'opera diversa da
quella prevista dall'atto di concessione: diversa
per conformazione, strutturazione, destinazione,
ubicazione; mentre si configura la difformità
parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della
costruzione e si concretizzino in divergenze
qualitative e quantitative non incidenti sulle
strutture essenziali dell'opera
(Sez. 3, n. 1060 del 07/10/1987, dep. 30/01/1988,
Ferrali Rv. 177490).
2.6. A questo punto, appare chiaro come sia del
tutto irrilevante il richiamo nelle doglianze dei
ricorrenti alla legislazione regionale per desumere,
rispetto alle singole difformità e non alle anomalie
nel loro complesso, il carattere di variazione non
essenziale dei singoli interventi (come ad esempio
dell'autorimessa) e ciò sulla base del disposto
dell'art. 32 TUE e del rinvio alla legislazione
regionale integrativa.
Nel caso di specie, attesa la clausola di salvezza
posta in apertura delle disposizione, l'art. 32 TUE
non è applicabile stante la natura totale delle
difformità edilizie unitariamente riguardate e di
conseguenza alcun effetto giuridico produce la
legislazione regionale nella determinazione
integrativa delle variazioni essenziali in presenza
appunto di conclamate totali difformità (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.06.2014 n. 40541 - udienza). |
IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'obbligo
di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana –previsto
dall’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994- costituisce una
regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e
dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima
conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a
tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza
sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per
incompatibilità- dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs.
n. 165/2001, che ha fissato il criterio della «adeguata
pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della regola
di carattere generale.
Non rileva -in contrario- l’art. 32 della legge n. 69 del
2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore
delle disposizioni –anche di rango secondario- che in
precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti
amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
Sicché, la mancata pubblicazione del bando di concorso sulla
Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla sua
impugnazione da parte di chi abbia interesse a parteciparvi,
senza bisogno ovviamente di proporre la domanda di
partecipazione, la cui mancanza è dipesa proprio dalla
mancata pubblicazione del bando, in violazione della
normativa vigente.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Piemonte, Sez. II,
n. 1312/2015, resa tra le parti, concernente la graduatoria
finale del concorso a un posto di istruttore amministrativo
contabile.
...
1. Con la sentenza impugnata, il TAR per il Piemonte ha
accolto il ricorso di primo grado n. 607 del 2015 ed ha
annullato tutti gli atti del procedimento concorsuale,
indetto dal Comune di Gavi per la copertura di un posto di
istruttore amministrativo contabile.
Il TAR ha ravvisato la fondatezza della censura con cui il
ricorrente in primo grado ha lamentato che il bando di
concorso non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica.
2. Con l’appello in esame, la vincitrice del concorso ha
impugnato la sentenza del TAR, chiedendo che in sua riforma
il ricorso di primo grado sia respinto.
Ella ha dedotto che –contrariamente a quanto ha ritenuto il
TAR– la mancata pubblicazione del bando sulla Gazzetta
Ufficiale va considerata legittima, a seguito della entrata
in vigore dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che ha
previsto l’obbligo delle Amministrazioni di pubblicare i
provvedimenti sui propri siti informatici.
3. Ritiene la Sezione che le censure dell’appellante, così
riassunte, vadano respinte.
3.1. Come ha rilevato la Sezione (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. V, 08.06.2015, n. 2801), l'obbligo di pubblicazione dei
bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana –previsto dall’art. 4
del d.P.R. n. 487 del 1994- costituisce una regola generale
attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma
terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima
conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a
tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza
sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per
incompatibilità- dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs.
n. 165/2001, che ha fissato il criterio della «adeguata
pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della
regola di carattere generale.
Neppure rileva in contrario l’art. 32 della legge n. 69 del
2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore
delle disposizioni –anche di rango secondario- che in
precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti
amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
3.2. La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla
Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla sua
impugnazione da parte di chi abbia interesse a parteciparvi,
senza bisogno ovviamente di proporre la domanda di
partecipazione, la cui mancanza è dipesa proprio dalla
mancata pubblicazione del bando, in violazione della
normativa vigente.
4. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto, con
conferma della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.01.2016 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Comune non ha pubblicato il bando di concorso
sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per estratto. L’omessa
pubblicazione del bando configura l’insanabile violazione
dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994, che prevede, per gli
enti locali, la possibilità di sostituire la pubblicazione
integrale del bando con l’avviso di concorso contenente gli
estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine
per la presentazione della domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra la
previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. n.
165 del 2001, recante principi in materia di procedure di
reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita
a prescrivere la “adeguata pubblicità della selezione” senza
specificare altro in ordine alla pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale.
---------------
A diversa conclusione non può giungersi sulla base dell’art.
32 della legge n. 69 del 2009, come vorrebbero le parti
resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che gli
obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si
intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici
delle amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di contro,
il settimo comma dell’art. 32 prevede espressamente che “è
fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale
dell’Unione Europea, nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana e i relativi effetti giuridici…”, in tal
modo confermando l’obbligatorietà della pubblicazione dei
bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli effetti
giuridici che a tale pubblicazione conseguono.
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più
corretta del settimo comma dell’art. 32, la “salvezza”
dell’obbligatorietà e degli effetti della pubblicità in
Gazzetta Ufficiale non può essere oggettivamente
circoscritta oggettivamente alle sole gare d’appalto
disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006. Il comma recita: “è
fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale
dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici, nonché
nel sito informatico del Ministero delle infrastrutture e
dei trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico presso
l’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, prevista dal codice di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163”. L’ultimo inciso, ossia il
riferimento all’art. 7 del Codice degli appalti pubblici,
non può che essere riferito alla pubblicità mediante
l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza (oggi
Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32 della legge
n. 69 del 2009, che conferma nei termini descritti e senza
limitazioni l’obbligo di pubblicità nella Gazzetta
Ufficiale, non si pone alcuna questione di prevalenza della
norma di rango legislativo sulla norma anteriore di rango
regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994), come
invece affermato dalla difesa del Comune.
---------------
... per l'annullamento:
- del bando di “concorso pubblico per esami per
l'assunzione a tempo indeterminato di n. 1 istruttore
amministrativo contabile - cat. C - posizione economica C1,
presso il Comune di Gavi (AL), Servizio Finanziario" del
19.02.2015;
- della graduatoria finale di concorso del 30.03.2015, in
cui risultano classificati al primo posto El.Fi. ed al
secondo posto Gr.Po.Ma.;
- dell’atto di diniego di accesso civico prot. n. 3365 in
data 08.05.2015, con cui il Comune di Gavi ha rigettato
l’istanza presentata dal ricorrente ai sensi dell’art. 5 del
d.lgs. n. 33 del 2013, avente ad oggetto il regolamento
comunale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (ovvero
altro regolamento recante le norme sull’accesso all’impiego
nel Comune di Gavi), nonché l’estratto della pubblicazione
del bando sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana
o sugli altri mezzi di informazione o portali telematici;
...
4. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Il Comune di Gavi non ha pubblicato il bando di concorso
sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per estratto.
L’omessa pubblicazione del bando configura l’insanabile
violazione dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994, che
prevede, per gli enti locali, la possibilità di sostituire
la pubblicazione integrale del bando con l’avviso di
concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione
della scadenza del termine per la presentazione della
domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra la
previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. n.
165 del 2001, recante principi in materia di procedure di
reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita
a prescrivere la “adeguata pubblicità della selezione”
senza specificare altro in ordine alla pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.02.2010 n.
871).
A diversa conclusione non può giungersi sulla base dell’art.
32 della legge n. 69 del 2009, come vorrebbero le parti
resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che gli
obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si
intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici
delle amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di contro,
il settimo comma dell’art. 32 prevede espressamente che “è
fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale
dell’Unione Europea, nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana e i relativi effetti giuridici…”, in
tal modo confermando l’obbligatorietà della pubblicazione
dei bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli effetti
giuridici che a tale pubblicazione conseguono (in questo
senso: Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 12.12.2013
n. 934; TAR Lazio, sez. III-quater, 01.04.2014 n. 3554; TAR
Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 22.02.2013 n. 145; TAR
Sicilia, Catania, Sez. II, 08.06.2012 n. 1474).
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più
corretta del settimo comma dell’art. 32, la “salvezza”
dell’obbligatorietà e degli effetti della pubblicità in
Gazzetta Ufficiale non può essere oggettivamente
circoscritta oggettivamente alle sole gare d’appalto
disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006. Il comma recita: “è
fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale
dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici, nonché
nel sito informatico del Ministero delle infrastrutture e
dei trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico presso
l’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, prevista dal codice di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163”. L’ultimo inciso, ossia
il riferimento all’art. 7 del Codice degli appalti pubblici,
non può che essere riferito alla pubblicità mediante
l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza (oggi
Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32 della legge
n. 69 del 2009, che conferma nei termini descritti e senza
limitazioni l’obbligo di pubblicità nella Gazzetta
Ufficiale, non si pone alcuna questione di prevalenza della
norma di rango legislativo sulla norma anteriore di rango
regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994), come
invece affermato dalla difesa del Comune di Gavi.
Il motivo, pertanto, è fondato e comporta l’annullamento del
procedimento concorsuale e della graduatoria finale
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 31.07.2015 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
VARI: Bonus
mobili ed elettrodomestici (Agenzia delle
Entrate, gennaio 2016). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI LOCALI - VARI:
MEZZI AEREI A PILOTAGGIO REMOTO (ENAC,
regolamento 21.12.2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 4 del 29.01.2016, "Modifiche al
regolamento regionale 27.07.2009, n. 2 «Contributi alle
unioni di comuni lombarde, in attuazione dell’articolo 20
della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle
comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di
comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato di
funzioni e servizi comunali)»" (regolamento
regionale 27.01.2016 n. 2). |
APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: G.U.
29.01.2016 n. 23 "Deleghe al Governo per l’attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014,
sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti
erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture" (Legge
28.01.2016 n. 11). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U.
28.01.2016 n. 22 "Modifica e abrogazione di disposizioni
di legge che prevedono l’adozione di provvedimenti non
legislativi di attuazione, a norma dell’articolo 21 della
legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs.
22.01.2016 n. 10). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
G.U. 23.01.2016 n. 18 "Testo
del decreto-legge 25.11.2015, n. 185, coordinato con la
legge di conversione 22.01.2016, n. 9,
recante: «Misure urgenti per interventi nel territorio.
Proroga del termine per l’esercizio delle deleghe per la
revisione della struttura del bilancio dello Stato, nonché
per il riordino della disciplina per la gestione del
bilancio e il potenziamento della funzione del bilancio di
cassa»".
---------------
Di particolare interesse si legga:
►
Art. 15. - Misure
urgenti per favorire la realizzazione di impianti sportivi
nelle periferie urbane |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO -
VARI: G.U.
22.01.2016 n. 17 "Disposizioni in materia di
depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della
legge 28.04.2014, n. 67" (D.Lgs.
15.01.2016 n. 8). |
VARI: G.U.
22.01.2016 n. 17 "Disposizioni in materia di abrogazione
di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie
civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge
28.04.2014, n. 67" (D.Lgs.
15.01.2016 n. 7). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
F. P. Garzone,
L’indebito ricorso ai
“progetti obiettivo” come forma di remunerazione del
pubblico impiego: v’è ancora spazio per una tutela penale
della Pubblica Amministrazione? (TRIBUNALE di Taranto –
Sez. II, sentenza 16.10.2014 n. 2156) (26.01.2016
- tratto da www.diritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Il caso concreto. – 2. Il primo nodo
problematico: la “salomonica” scelta del P.M. di imputazione
alternativa delle fattispecie di truffa ai danni della
Pubblica Amministrazione e peculato. – 3. La distrazione di
fondi pubblici può configurare peculato? – 4. Derive
“contrattuali” del legislatore e riflessi incondizionati
sulla fattispecie di abuso d’ufficio. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G. Amendola,
Rifiuti. La Cassazione: i materiali da demolizione sono
sempre rifiuti, mai sottoprodotti (22.01.2016
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Verderosa,
Il vincolo paesistico dei corsi d’acqua: Deroghe, aspetti
urbanistici, urbanizzazione di fatto, limitazione
all'esclusione, irrilevanza dei corsi d’acqua minori
(08.01.2016 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
R. D'Isa, I
RAPPORTI DI VICINATO - Compendio sui rapporti di vicinato in
forza dei seguenti istituti: 1) IL DIVIETO DEGLI ATTI DI
EMULAZIONE - 2) LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI - 3) Le Luci
e le Vedute - 4) LE IMMISSIONI - 5) LO STILLICIDIO, LO SCOLO
ED IL DIRITTO SULLE ACQUE ESISTENTI NEL FONDO - 6) LE AZIONI
A TUTELA DELLA PROPRIETÀ - 7) LE AZIONI A TUTELA DEL
POSSESSO (22.01.2016 - tratto da http://renatodisa.com).
---------------
1 Introduzione Pag. 5
2 IL DIVIETO DEGLI ATTI DI
EMULAZIONE Pag. 10
A Introduzione Pag. 10
B Elementi costitutivi Pag. 13
C Casistica Pag. 17
D Atti emulativi e condominio Pag. 24
3 LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI Pag. 27
A Introduzione e la disciplina generale Pag. 27
B La ratio delle distanze Pag. 35
C Il sistema della prevenzione Pag. 38
D Brevi cenni sulle norme nazionali e le norme locali (regolamenti
e piani regolatori) Pag. 52
E La deroga mediante convenzione tra privati Pag. 65
F Nozione di costruzione Pag. 67
G Le distanze legali ed il condominio Pag. 94
H La tutela e questioni processuali Pag. 97
I Lo Jus superveniens Pag. 110
4 Le Luci e le Vedute Pag. 112
A Introduzione Pag. 112
B Le luci Pag. 120 - 1 Le luci irregolari Pag. 122 - 2 Le luci sul muro di confine Pag. 126
- 3 Il diritto di chiudere le luci Pag. 127
C Le Vedute Pag. 132 - 1 I presupposti Pag. 134 - 2 Vedute dirette, oblique, laterali, ad appiombo
e le relative distanze Pag. 142
D La disciplina per il Condominio e/o Comunione Pag. 154
E Lo Jure servitutis Pag. 164 - 1 Modifiche comportanti aggravio di servitù Pag.
168 - 2 Modifiche non comportanti aggravio di servitù
Pag. 169 - 3 Estinzione del diritto di servitù Pag. 171
F Usucapione della minor distanza Pag. 174
G La tutela Pag. 178 - 1 L’azione volta a regolarizzare la servitù ex
art. 902 c.c. Pag. 182 - 2 Le azioni possessorie Pag. 185
5 LE IMMISSIONI Pag. 190
A Introduzione Pag. 190
B Concetto di tollerabilità Pag. 193
C Presupposti e requisiti delle immissioni Pag. 202
D Le azioni a tutela Pag. 209
E Le fattispecie penali Pag. 220
6 LO STILLICIDIO, LO SCOLO ED IL DIRITTO
SULLE ACQUE ESISTENTI NEL FONDO Pag. 237
A Lo stillicidio Pag. 237
B Le Acque Pag. 245 - 1 Diritto sulle acque esistenti nel fondo Pag.
245 - 2 Apertura di nuove sorgenti e altre opere Pag.
247 - 3 Conciliazione di opposti interessi Pag. 251 - 4 Scolo delle acque Pag. 254
- 5 Consorzi per regolare il deflusso delle acque
Pag. 262
7 LE AZIONI A TUTELA DELLA PROPRIETÀ Pag.
267
A Azione di rivendicazione Pag. 267 - 1 La probatio diabolica Pag. 271
- 2 Il titolo Pag. 276 - 3 Il rapporto con l’azione di restituzione Pag.
280 - 4 Il rapporto con l’azione di regolamento di
confini Pag. 291 - 5 Il rapporto con l’azione negatoria Pag. 293
- 6 Il rapporto con l’opposizione di terzo
all’esecuzione (art. 619 c.p.c.) e con l’opposizione
all’esecuzione (art. 615 c.p.c.) Pag. 294 - 7 Il rapporto con l’azione di petizione
ereditaria Pag. 295 - 8 Questioni processuali Pag. 298 - 9 Prescrizione Pag. 308
B Azione negatoria Pag. 309 -
1 Il sistema della prova Pag. 315 -
2 Casistica Pag. 318 -
3 La legittimazione processuale attiva e passiva Pag. 323 -
4 Prescrizione Pag. 327 -
C Azione di regolamento di confini Pag. 328 -
1 La natura giuridica ed i presupposti Pag. 328 -
2 Il rapporto con l’azione di rivendica Pag. 332 -
3 La legittimazione processuale attiva e passiva Pag. 333 -
4 Gli oneri ed i mezzi probatori Pag. 335 -
5 Le convenzioni tra proprietari ed il loro valore Pag. 340
D Apposizioni di termini Pag. 342 -
1 La natura giuridica Pag. 342 -
2 Il rapporto con l’azione di regolamento dei confini Pag.
343
8 LE AZIONI A TUTELA DEL POSSESSO Pag. 345
A In generale Pag. 345 -
1 Termine annuale Pag. 348 -
2 Risarcimento danni Pag. 352
B L’autotutela (vim vi repellere licet) Pag. 354
C C) Rapporti tra le azioni Pag. 352
D D) La disciplina Pag. 359 -
1 La competenza Pag. 360 -
2 La legittimazione attiva Pag. 363 -
3 La legittimazione passiva Pag. 374 -
4 Oggetto della domanda Pag. 381 -
5 Prova del possesso ed eccezioni Pag. 383 -
6 Provvedimento Pag. 386 -
7 Rapporti fra giudizio possessorio e giudizio petitorio
Pag. 388
E Azione di reintegrazione (o di spoglio) Pag. 392 - 1 Il termine annuale Pag. 399
F Azione di manutenzione Pag. 402 -
1 La legittimazione Pag. 411 -
2 Termine di decadenza Pag. 412
G Le azioni di nunciazione (o quasi possessorie) Pag. 413
1 L’azione di nuova opera Pag. 414 - 2 L’azione di danno temuto Pag. 419
- 3 Le differenze tra le due azioni Pag. 421 |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
RUP – ruolo di responsabile dei lavori.
Ai sensi dell’art. 10, comma 2, del
d.p.r. 207/2010, nel settore dei contratti pubblici, il
responsabile del procedimento assume il ruolo di
responsabile dei lavori ex art. 89 del d.lgs. 81/2008 ai
fini del rispetto delle norme in materia di sicurezza e
salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro.
Art. 10 d.lgs. 163/2006 – art. 89 d.lgs. 81/2008
----------------
- RITENUTO, pertanto, che nella
realizzazione di lavori pubblici, a carico del responsabile
unico del procedimento e responsabile dei lavori «grava
una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza
non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono
redatti i piani di sicurezza, ma anche durante il loro
svolgimento, ove è previsto che debba svolgere un’attività
di sorveglianza del loro rispetto»
(cfr. Corte di Cassazione, sez. IV penale, sentenza
15.11.2011, n. 41993); dunque, tale ruolo
di garanzia non può essere assunto dall’appaltatore
... (parere
di precontenzioso 16.12.2015 n. 228 - rif. PREC 175/15/L
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Responsabile del procedimento – componente della commissione
di gara.
L’articolo 84 del d.lgs. n. 163/2006,
dettato a garanzia della trasparenza e della imparzialità
amministrativa nella gara, impedisce unicamente la presenza
nella commissione di gara di soggetti che abbiano svolto
un’attività idonea ad interferire con il giudizio di merito
sull’appalto di cui trattasi, in grado, cioè, di incidere
–il che è da dimostrare nel caso concreto, sulla base di
indizi gravi, precisi e concordanti– sul processo formativo
della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone
condizionare l’esito.
Articolo 39 del d.lgs. n. 163/2006
Articolo 84 del d.lgs. n. 163/2006
---------------
- CONSIDERATO infine che, per quanto concerne l’ulteriore
motivo di doglianza relativo al ruolo del responsabile del
procedimento in qualità di componente della commissione,
stante l’esiguità degli elementi forniti al riguardo in sede
di contestazione, in questa sede, è possibile esclusivamente
richiamare il consolidato orientamento di questa Autorità e
della giurisprudenza amministrativa in materia (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4438 e Consiglio
Stato, sez. V, 04.03.2011, n. 1386).
È stato infatti precisato che l’articolo 84
del d.lgs. n. 163/2006, dettato a garanzia della trasparenza
e della imparzialità amministrativa nella gara, impedisce
unicamente la presenza nella commissione di gara di soggetti
che abbiano svolto un’attività idonea ad interferire con il
giudizio di merito sull’appalto di cui trattasi, in grado,
cioè, di incidere
–il che è da dimostrare nel caso concreto, sulla base di
indizi gravi, precisi e concordanti– sul
processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle
offerte, potendone condizionare l’esito
(in tal senso, parere n. 46 del 21.03.2012 e parere n. 130
del 07.07.2011).
Ed è stato altresì evidenziato che
l’articolo 84 mira a prevenire il pericolo concreto di
possibili effetti disfunzionali derivanti dalla
partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti che
siano intervenuti a diverso titolo nella procedura
concorsuale, impedendo la partecipazione alla commissione di
soggetti che, nell’interesse proprio o in quello privato di
alcuna delle imprese concorrenti, abbiano assunto o possano
avere assunto compiti di progettazione, di esecuzione o di
direzione di lavori oggetto della procedura di gara e ciò a
tutela del diritto delle parti del procedimento ad una
decisione amministrativa adottata da un organo terzo ed
imparziale (cfr.
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 13 del
07.05.2013).
Ed è stato, infine, ulteriormente sottolineato il rilievo di
una valutazione di tipo sostanziale e non formale della
possibile incompatibilità, precisando che,
ai fini dell’articolo 84, ferme restando le finalità
anzidette, rileva altresì che tale incompatibilità riguardi
effettivamente il contratto del cui affidamento si tratta e
non possa riferirsi genericamente ad incarichi
amministrativi o tecnici generalmente riferiti ad altri
appalti e che, in ogni caso, di tale situazione di
incompatibilità, deve essere fornita adeguata e ragionevole
prova, non essendo sufficiente in tal senso il mero sospetto
di una possibile situazione di incompatibilità non apparendo
neanche di per sé sufficiente la circostanza che il soggetto
abbia predisposto materialmente il capitolato speciale
d’appalto, «occorrendo invero non già un qualsiasi
apporto al procedimento di approvazione dello stesso, quanto
piuttosto una effettiva e concreta capacità di definirne
autonomamente il contenuto, con valore unicamente vincolante
per l’amministrazione ai fini della valutazione delle
offerte, così che, in definitiva, il contenuto prescrittivo
sia riferibile esclusivamente al funzionario»
(cfr. Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 226 del
22.01.2015 e sez. V, sentenza n. 1565 del 23.03.2015);
- RITENUTO, pertanto, di poter richiamare, nel caso di
specie, gli enunciati principi interpretativi relativi
all’interpretazione dell’articolo 84 (parere
di precontenzioso 22.12.2015 n. 221 - rif. PREC 180/15/S
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali – requisito
di esecuzione
L’iscrizione all’Albo Nazionale dei
Gestori Ambientali è requisito di esecuzione e non di
partecipazione.
---------------
- CONSIDERATO che, in relazione al primo motivo di
doglianza, relativo al requisito dell’iscrizione all’Albo
Gestori Ambientali, il consolidato orientamento di questa
Autorità ha precisato che l’iscrizione
all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali costituisce un
requisito di esecuzione e non di partecipazione alle gare
per l’affidamento degli appalti relativi allo svolgimento
delle attività di raccolta e smaltimento rifiuti a norma
dell’articolo 212 del d.lgs. 152/2006, “dovendo i bandi
prevedere una specifica clausola in base alla quale non si
procederà alla stipulazione del contratto in caso di mancato
possesso della relativa iscrizione”
(cfr. parere n. 152 del 09.09.2015; nonché AG 7-09 del
23.04.2009 e parere di precontenzioso n. 89 del 29.04.2010);
- CONSIDERATO, inoltre, che spetta alla
stazione appaltante valutare nei confronti dei concorrenti
in concreto il possesso di tale requisito secondo la
corretta individuazione della relativa categoria e
classifica ai fini dell’esecuzione del servizio e al momento
della stipula del contratto;
- RITENUTO pertanto che, nel caso di specie, tale
valutazione sia stata effettuata in un momento antecedente a
quello previsto dall’ordinamento e che, pertanto,
l’esclusione del concorrente, per tale motivo, non appare
legittima (parere
di precontenzioso 22.12.2015 n. 221 - rif. PREC 180/15/S
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI: Appalto esecuzione lavori, la variante è legittima.
Per l'Autorità anticorruzione è conforme alla norma vigente.
In un appalto di sola esecuzione dei lavori è legittima la
richiesta di varianti migliorative e l'obbligo per il
progettista incaricato dall'impresa di sottoscrivere gli
elaborati e i grafici allegati all'offerta tecnica
dell'impresa stessa.
È quanto ha affermato l'Anac, con il
parere di precontenzioso 16.12.2015 n. 220 - rif. PREC
86/15/L, relativo a un appalto di
sola esecuzione di lavori, contenente varianti migliorative
in sede di offerta chieste in un appalto di sola esecuzione.
Nel caso sul quale si è espressa l'Anac si trattava di
verificare la conformità alla normativa vigente di una
prescrizione contenuta nel bando di gara, relativa alla
richiesta di sottoscrizione da parte del professionista
abilitato e incaricato dal concorrente, delle relazioni e
dei grafici allegati all'offerta tecnica presentata da una
impresa per un appalto di sola esecuzione dei lavori.
Secondo l'Autorità la clausola è legittima in considerazione
degli aspetti tecnici contenuti negli elaborati, relativi a
varianti progettuali migliorative e le ragioni di tale
legittimità vanno individuate nel fatto che la stazione
appaltante ha optato per aggiudicare il contratto di sola
esecuzione con il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, ai sensi dell'art. 83 dlgs 163/2006, con
prevista applicazione del metodo aggregativo-compensatore di
cui all'allegato G del dpr 207/2010 (regolamento attuativo
del codice dei contratti pubblici). Generalmente questi
contratti si affidano con ricorso al prezzo più basso, ma
nulla esclude che si utilizzi l'altro criterio, scelto dalla
stazione appaltante.
Su questo punto l'Authority ha
confermato che la scelta del criterio «è rimessa, caso per
caso, alla stazione appaltante» così come «la scelta del
peso da attribuire a ciascun criterio di valutazione
dell'offerta in relazione alle peculiarità specifiche
dell'appalto e, dunque, all'importanza che, nella specifica
ipotesi, hanno il fattore prezzo e i contenuti qualitativi,
garantendo comunque, con riferimento al peso complessivo, un
rapporto di prevalenza dei criteri qualitativi rispetto a
quelli quantitativi».
Di conseguenza, ha asserito l'Autorità, le scelte contenute
nelle clausole della lex specialis (nello specifico la
richiesta di sottoscrizione degli elaborati parte dal
progettista incaricato dall'impresa) rientrano nella
discrezionalità della stazione appaltante, «che può essere
sindacata», come ribadito dalla giurisprudenza
amministrativa, «solo se manifestamente illogica o
irragionevole».
Riguardo alle varianti l'Autorità ha ricordato i seguenti
quattro punti:
1) ammissibilità di varianti migliorative
riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio,
purché non si traducano in una diversa ideazione
dell'oggetto del contratto, che si ponga come del tutto
alternativo rispetto a quello voluto dalla p.a;
2) l'importanza che la proposta tecnica sia migliorativa
rispetto al progetto base e che l'offerente dia contezza
delle ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le
variazioni alle singole prescrizioni progettuali;
3) l'esistenza della prova che la variante garantisca
l'efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese
alla prescrizione variata;
4) il riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità
alla commissione giudicatrice, trattandosi dell'ambito di
valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Varianti progettuali migliorative in sede di offerta – firma
da parte del progettista sui relativi elaborati tecnici.
Nell’ambito della tipologia di appalto
di sola esecuzione di lavori, con previste varianti
migliorative in sede di offerta, è conforme alla normativa
di settore la richiesta di sottoscrizione, da parte di un
professionista di cui all’art. 90 d.lgs. 163/2006, delle
relazioni illustrative e dei grafici allegati alla relativa
offerta tecnica, tenuto conto degli aspetti tecnici
contenuti nei suddetti elaborati.
Art. 76 d.lgs. 163/2006.
...
Offerta economicamente più vantaggiosa – Criteri di
valutazione e attribuzione punteggio - metodo aggregativo -
compensatore.
Quando per l'aggiudicazione della gara
sia stato prescelto il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa, la scelta del peso da attribuire a ciascun
criterio di valutazione dell’offerta è rimessa, alla
stazione appaltante, in relazione alle peculiarità
specifiche dell’appalto e, dunque, all’importanza che, nella
specifica ipotesi, hanno il fattore prezzo e i contenuti
qualitativi, garantendo, con riferimento al peso
complessivo, un rapporto di prevalenza dei criteri
qualitativi rispetto a quelli quantitativi.
Art. 83 d.lgs. 163/2006.
---------------
- CONSIDERATO, con riferimento al primo profilo di doglianza
che, in generale, ai sensi dell’art. 76 d.lgs. 163/2006, le
varianti progettuali in sede di offerta, per essere
ammissibili, devono essere coerenti al progetto messo a base
di gara e devono rispettare le prescrizioni del capitolato
speciale d’appalto;
- CONSIDERATO sul punto quanto affermato dall’Autorità che
ritiene "La variazione migliorativa, tuttavia, è
legittimamente ammessa sempre che sia riconducibile nella
sfera delle migliori modalità esecutive del progetto base,
da individuare in quelle soluzioni tecniche che consentano
di realizzare quanto progettato in modo da garantire una
migliore qualità delle lavorazioni dedotte in contratto,
salve restando le scelte progettuali fondamentali già
effettuate dall'Amministrazione. Attiene ai compiti della
Commissione di gara valutare la rispondenza delle varianti
ai livelli prestazionali stabili dal progetto posto a base
di gara” (cfr. Parere di precontenzioso, 27.05.2010, n.
107);
- TENUTO CONTO di quanto elaborato dalla giurisprudenza
amministrativa circa alcuni criteri guida relativi alle
varianti in sede di offerta (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
19.02.2003, n. 923; Sez. V, 09.02.2001, n. 578; Sez. IV,
02.04.1997, n. 309) quali:
1) ammissibilità di varianti migliorative riguardanti le
modalità esecutive dell’opera o del servizio, purché non si
traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del
contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto
a quello voluto dalla p.a;
2) importanza che la proposta tecnica sia migliorativa
rispetto al progetto base e che l’offerente dia contezza
delle ragioni che giustificano l’adattamento proposto e le
variazioni alle singole prescrizioni progettuali; 3)
esistenza della prova che la variante garantisca
l’efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese
alla prescrizione variata;
4) riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità
alla commissione giudicatrice, trattandosi dell’ambito di
valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa;
- CONSIDERATO altresì che “condizione di ammissibilità
delle varianti al progetto preliminare o definitivo previste
dal bando di gara e dai relativi allegati tecnici, ai sensi
dell’art. 76, del d.lgs. n. 163/2006, è che queste non
alterino in misura rilevante, le caratteristiche
strutturali, prestazionali e funzionali dell’opera, a
garanzia della par condicio dei concorrenti (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 23.01.2012 n. 285; Id., Sez. V, 20.02.2009
n. 1019) e che il bando di gara ed i relativi allegati
tecnici precisino con chiarezza i confini entro i quali
devono collocarsi le eventuali varianti al progetto
preliminare o definitivo” (In tal senso parere di
Precontenzioso 23.04.2013, n. 68);
- RILEVATO che nel caso di specie, l’oggetto dell’appalto
afferisce alla sola esecuzione di lavori, non rientrando
nelle diverse ipotesi previste dall’art. 53, comma 2,
lettere b) e c), d.lgs. 163/2006, dove si è richiesto agli
operatori economici il possesso di requisiti prescritti per
i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati,
da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento
con soggetti qualificati per la progettazione;
- RITENUTO che la prescrizione contenuta al punto 3 –
Contenuto offerta tecnica, lettera d.1) del disciplinare di
gara che richiede la sottoscrizione, da parte di un
professionista abilitato e incaricato dal concorrente, non
certo dell’offerta tecnica bensì delle relazioni
illustrative e dei grafici ad essa da allegare, appare
condivisibile e coerente con la disciplina di settore tenuto
conto degli aspetti tecnici contenuti nei suddetti
elaborati;
- TENUTO CONTO inoltre che il criterio prescelto dalla
stazione appaltante nella procedura de qua è quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi
dell’art. 83 d.lgs. 163/2006 con prevista applicazione del
metodo aggregativo-compensatore di cui all’allegato G del
d.p.r. 207/2010;
- CONSIDERATO in generale, come evidenziato dall’Autorità
nella determinazione n. 7/2011, che il Codice dei Contratti
precisa che il criterio sopra citato fonda l’aggiudicazione
dei contratti pubblici non tanto su una valutazione
meramente economica, quanto su una complessa integrazione
tra il dato economico e quello tecnico e qualitativo;
integrazione che avviene applicando criteri di valutazione
quantitativi (prezzo, tempo di esecuzione, durata della
concessione, ecc.) o qualitativi (caratteristiche estetiche
e funzionali, qualità, pregio tecnico, ecc.) inerenti alla
natura, all’oggetto ed alle caratteristiche del contratto;
- CONSIDERATO altresì che l’art. 83, comma 5, d.lgs.
163/2006 stabilisce che le stazioni appaltanti debbano
utilizzare metodologie tali da consentire l’individuazione
dell’offerta economicamente più vantaggiosa con un unico
parametro numerico finale, mediante un’analisi integrata di
una pluralità di criteri di valutazione,
- RILEVATO che strettamente connessa alla scelta dei criteri
di valutazione è ovviamente l’indicazione della relativa
ponderazione e, cioè, l’utilità che il singolo elemento di
valutazione riveste per la stazione appaltante rispetto alla
totalità degli elementi di valutazione dell’offerta per
quello specifico appalto;
- CONSIDERATO che la scelta del peso o punteggio da
attribuire a ciascun criterio di valutazione dell’offerta è
rimessa, caso per caso, alla stazione appaltante, in
relazione alle peculiarità specifiche dell’appalto e,
dunque, all’importanza che, nella specifica ipotesi, hanno
il fattore prezzo ed i contenuti qualitativi.
Conseguentemente, le scelte concretamente poste in essere
nelle clausole della lex specialis rientrano nella
discrezionalità della stazione appaltante, che può essere
sindacata, come ribadito dalla giurisprudenza
amministrativa, solo se manifestamente illogica o
irragionevole;
- RITENUTO che l’impostazione corretta tra il peso dei
criteri qualitativi e quello dei criteri quantitativi, in
particolare del prezzo, deve essere, nei riguardi del peso
complessivo, in rapporto di prevalenza a favore dei criteri
qualitativi rispetto ai criteri quantitativi, al fine di non
frustrare la ratio stessa dell’offerta economicamente
più vantaggiosa, che postula la ottimale ponderazione del
rapporto qualità/prezzo;
- CONSIDERATO che, coerentemente con le considerazioni sopra
svolte, nel caso in esame, appare che la stazione appaltante
abbia dato comunque prevalenza al criterio qualitativo
rispetto ai restanti criteri quantitativi (prezzo e tempo),
Il Consiglio
Ritiene che, nei limiti di cui in motivazione,
nell’ambito della tipologia di appalto di sola
esecuzione di lavori, con previste varianti migliorative in
sede di offerta, è conforme alla normativa di settore la
richiesta di sottoscrizione, da parte di un professionista
di cui all’art. 90 d.lgs. 163/2006, delle relazioni
illustrative e dei grafici allegati alla relativa offerta
tecnica, tenuto conto degli aspetti tecnici contenuti nei
suddetti elaborati.
Quando per l'aggiudicazione della gara sia stato prescelto
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è
rimessa, caso per caso, alla stazione appaltante la scelta
del peso da attribuire a ciascun criterio di valutazione
dell’offerta in relazione alle peculiarità specifiche
dell’appalto e, dunque, all’importanza che, nella specifica
ipotesi, hanno il fattore prezzo e i contenuti qualitativi,
garantendo comunque, con riferimento al peso complessivo, un
rapporto di prevalenza dei criteri qualitativi rispetto a
quelli quantitativi
(parere
di precontenzioso 16.12.2015 n. 220 - rif. PREC 86/15/L
- link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Vicesindaco necessario.
In mancanza lo sostituisce l'assessore anziano.
La nomina del sostituto del primo cittadino è indispensabile.
Come deve essere individuata la figura del vicesindaco in
caso di mancata nomina dello stesso da parte del sindaco in
carica?
L'art. 46 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2,
prevede che il sindaco nomina i componenti della giunta, tra
cui un vicesindaco, e ne dà comunicazione al consiglio nella
prima seduta successiva all'elezione.
La nomina del vicesindaco, anche secondo quanto indicato
nella circolare ministeriale n. 2379 del 16/02/2012, è
indispensabile per l'esercizio delle indefettibili funzioni
sostitutive del sindaco impedito o assente.
Nel caso in specie, lo statuto del comune stabilisce che «il
sindaco designa il vicesindaco. In mancanza, i poteri di
supplenza sono svolti dall'assessore più anziano di età».
L'unica interpretazione che possa fornirsi alla citata norma
statutaria, alla luce dell'articolo 53, comma 2, del Testo
unico sugli enti locali (decreto legislativo n. 267/2000)
che prevede la sostituzione del sindaco, nei casi ivi
indicati (tra cui l'assenza o l'impedimento temporaneo) da
parte del solo vicesindaco, è quella secondo la quale, in
mancanza di designazione è vicesindaco di diritto
l'assessore più anziano, non essendo ammissibili ulteriori
figure istituzionali che lo possano sostituire nelle proprie
competenze quale organo monocratico ovvero quale capo della
giunta.
Pertanto, ferma restando l'assoluta necessità di ottemperare
al disposto di legge che richiede l'esplicita designazione
del vicesindaco da parte del sindaco, la citata norma
statutaria fornisce, nelle more, il necessario strumento per
l'individuazione della figura vicaria del sindaco
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum strutturale per le sedute del
Consiglio.
Qual è la normativa da applicare, in ordine alla definizione
del quorum strutturale stabilito per la validità delle
sedute del consiglio comunale, in caso di contrasto tra
previsione statutaria e norma regolamentare?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei
consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il
limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto
la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge
all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve
essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del
«terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie è stato rilevato un contrasto tra la
previsione recata dallo statuto comunale e la disciplina
prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio
dell' ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede, in
prima convocazione, la presenza della maggioranza assoluta
dei consiglieri assegnati al fine della validità delle
sedute ed, in seconda convocazione, la presenza di almeno
sei consiglieri, non computando il sindaco. Ai sensi della
norma regolamentare è, invece, previsto che, per la validità
delle sedute di seconda convocazione, sia necessaria la
presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati su un
totale di dodici consiglieri oltre al sindaco.
Secondo il principio della gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del citato Testo unico
sugli enti locali, che disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e
dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la
citata disposizione regolamentare dovrebbe essere
disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno comporre la discrasia evidenziata;
l'ente dovrà, pertanto, porre in essere un intervento
correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle
citate fonti di autonomia locale
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'invalidità civile e la disabilità.
DOMANDA:
Una dipendente di questo Comune è stata riconosciuta
invalida civile ai sensi dell'art. 3, comma 1, della legge
104/1992.
Si chiede se può fruire dei permessi mensili previsti dalla
citata legge.
RISPOSTA:
L'art. 33 della legge 104/1992 prevede che il lavoratore
disabile, con rapporto di lavoro pubblico o privato, in
situazione di gravità, ai sensi dell'art. 3, comma 3 della
legge 104 possa usufruire alternativamente dei permessi di
tre giorni mensili o di permessi orari giornalieri nella
seguente misura: due ore al giorno per un orario giornaliero
di sei ore, ovvero di un'ora al giorno per un orario
giornaliero inferiore alle sei ore.
L’invalidità civile e la disabilità sono due condizioni
differenti, da dimostrare attraverso specifiche procedure.
L’invalida civile riconosciuta ai sensi dell'art. 3, comma
1, della legge 104/1992, in quanto tale non. ne ha diritto;
se acquisisce la certificazione di cui al comma 3 dello
stesso articolo della stessa legge, potrà chiedere di
poterne fruire. Il dipendente disabile grave che chiede (o
il disabile per il quale si chiedono i permessi ) deve
essere in situazione di disabilità grave ai sensi dell’art.
3, comma 3, della legge 104/1992 riconosciuta tale
dall’apposita Commissione Medica Integrata (art. 4, comma 1,
L. 104/1992).
Il lavoratore dipendente in situazione di disabilità grave,
se riconosciuto, avrà la possibilità di fruire
alternativamente per ogni mese di 2 ore di permesso al
giorno per ciascun giorno lavorativo del mese ovvero di 3
giorni interi di permesso al mese anche frazionabili in ore.
Il testo della legge 104/1992 reca infatti nei primi 3
commi: ”1. E' persona handicappata colui che presenta una
minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o
progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di
relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare
un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.
2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni
stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla
consistenza della minorazione, alla capacità complessiva
individuale residua e alla efficacia delle terapie
riabilitative.
3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto
l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere
necessario un intervento assistenziale permanente,
continuativo e globale nella sfera individuale o in quella
di relazione, la situazione assume connotazione di gravità.
Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità
nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.”
Dal predetto testo si evince che il disabile riconosciuto,
per poter fruire dei permessi deve ottenere il
riconoscimento di gravità da parte della Commissione
specifica (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Reato di turbativa di scelta del
contraente da parte di un amministratore, si consuma anche
se poi le pressioni non vengono accolte dal funzionario?
IL CASO: Il Sindaco di un comune aveva
promesso ad un imprenditore locale, che gli assicurava il
suo appoggio nella prossima campagna elettorale,
l'aggiudicazione dell'appalto di raccolta e smaltimento dei
rifiuti solidi urbani.
Per dare esecuzione alla promessa, nell'estate 2010, il
sindaco e l'assessore ai lavori pubblici tenevano numerosi
incontri con l’imprenditore ed il suo professionista di
fiducia, e decidevano la riorganizzazione della raccolta
rifiuti con l'istituzione di un apposito servizio di
comunicazione e controllo, che sarebbe stato assegnato
all’imprenditore.
In tale prospettiva l’imprenditore preparava le bozze dei
bandi di gara, che il sindaco, nell'ottobre 2010,
sottoponeva al responsabile dell'Ufficio lavori pubblici,
per la formalizzazione. La funzionaria non accettava
l'imposizione e, nel mese di dicembre, predisponeva
autonomamente i bandi di gara, suscitando le reazioni del
sindaco, dell'assessore e dello stesso imprenditore.
In particolare il sindaco premeva affinché l'importo della
base d'asta fosse abbassato; le rimproverava, inoltre, di
avere inserito, per la partecipazione alla gara, il
requisito -che l’imprenditore non possedeva- di avere svolto
negli ultimi tre anni servizi analoghi a quello oggetto del
bando e l'aveva perciò invitata a correggere il bando o a
ritirarlo.
La funzionaria resistette alle richieste e l’imprenditore fu
costretto ad associarsi ad altro soggetto.
Sussiste il reato di turbata libertà di scelta del
contraente anche se la funzionaria non aveva ceduto alle
indebite pressioni?
(Risponde l’Avv. Guido Paratico)
La norma che disciplina il reato di turbata libertà di
scelta del contraente, è l’art. 353-bis del Codice Penale,
entrato in vigore il 07.09.2010, che così dispone: “Salvo
che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con
violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o
altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento
amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o
di altro atto equipollente al fine di condizionare le
modalità di scelta del contraente da parte della pubblica
amministrazione è punito con la reclusione da sei mesi a
cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032”.
La nuova fattispecie di cui sopra, ha inteso sanzionare le
turbative del "procedimento amministrativo diretto a
stabilire il contenuto del bando o di altro atto
equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta
del contraente".
Il legislatore, dunque, per contrastare con maggiore
efficacia il fenomeno della turbativa d'asta, che nelle sue
varie manifestazioni può investire anche il procedimento
formativo del bando di gara, condizionandone il contenuto in
modo tale che un determinato soggetto possa essere favorito
nell'aggiudicazione ancor prima della sua apertura, mettendo
in pericolo, da un lato, il buon andamento della P.A. e,
dall'altro, la libera concorrenza tra i partecipanti alla
gara, ha introdotto un nuovo reato di pericolo, che,
affiancando l'originario art. 353 c.p., tende a reprimere le
condotte di turbativa poste in essere antecedentemente alla
pubblicazione del bando, che finora sfuggivano alla sanzione
penale (v., in motivazione, Sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013,
dep. 07/11/2013).
L'azione delittuosa consiste nel turbare mediante atti
predeterminati il procedimento amministrativo di formazione
del bando, allo scopo di condizionare la scelta del
contraente.
Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine
dell'azione, è evidente che il reato si consuma
indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo.
Per integrare il delitto, quindi, non è necessario che il
contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo
tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior
ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente
condizionata. E' sufficiente, invece, che si verifichi un
turbamento del processo amministrativo, ossia che la
correttezza della procedura di predisposizione del bando sia
messa concretamente in pericolo (Sez. 6, n. 44896 del
22/10/2013, cit.), attraverso l'alterazione o lo sviamento
del suo regolare svolgimento, e con la presenza di un dolo
specifico qualificato dal fine di condizionare le modalità
di scelta del contraente da parte della P.A..
Considerando il tenore letterale della formulazione adottata
dal legislatore e la ratio della nuova previsione
normativa, non v'è dubbio che nella nozione di "atto
equipollente" ivi menzionata rientra qualunque
provvedimento alternativo al bando di gara, adottato per la
scelta del contraente, ivi inclusi, pertanto, quelli
statuenti l'affidamento diretto (Sez. 6, 23.10.2012, n.
43800).
Ne discende che l'ambito di applicazione della nuova
disposizione si estende a qualsiasi forma di aggiudicazione
che prescinda dalla celebrazione di una gara e alla stessa
fase di selezione dello strumento di aggiudicazione, oltre
che a tutte quelle situazioni in cui l'attività illecita si
risolva nella stessa elusione del rispetto di una regolata
procedura concorrenziale.
Nel caso di specie, si deve svolgere una particolare
disamina, poi, della distinzione tra “dialogo tecnico”
per la preparazione del capitolato e vera e propria
collusione.
Da quanto evidenziato nella narrazione del fatto in
questione, emerge come la collusione intesa a condizionare
il contenuto del bando a favore dell'imprenditore sia
dimostrata dalla sequenza di fatti sopra richiamati, che
smentiscono che vi sia stato solo un "dialogo tecnico".
In realtà, gli incontri tra il Sindaco e l’imprenditore,
avevano lo scopo di studiare l'organizzazione del servizio
di raccolta dei rifiuti e di preparare il bando non per
soddisfare gli interessi della pubblica amministrazione
bensì quelli di un singolo imprenditore legato agli
amministratori da rapporti extraistituzionali.
Per di più, non vi è dubbio sulla sussistenza del reato
anche se la funzionaria ha di fatto rifiutato di recepire le
pressioni ricevute.
Come sopra osservato, infatti, per integrare il delitto non
è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente
modificato in modo tale da condizionare la scelta del
contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del
contraente venga effettivamente condizionata.
E' sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del
processo amministrativo, ossia che la correttezza della
procedura di predisposizione del bando sia messa
concretamente in pericolo.
Il che, nella fattispecie, è avvenuto quando il sindaco ha
consegnato la bozza del bando, frutto di collusione, al
funzionario responsabile dell'ufficio competente per gli
appalti pubblici, ordinando che fosse convertita senza
modificazioni nel bando pubblico.
La disobbedienza del funzionario che rifiutò l'imposizione
ha impedito, quindi, l'inquinamento del bando, ma non ha
cancellato la turbativa oggettivamente arrecata al
procedimento amministrativo mediante l'intervento diretto
del sindaco sul funzionario a quel procedimento preposto
(tratto dalla newsletter 26.01.2016 n. 134 di http://asmecomm.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'assenza per visita medica.
DOMANDA:
Il Tar del Lazio, con le sentenze n. 5711/2015 e n.
5714/2015, ha recentemente annullato la circolare n. 2/2014
della Funzione Pubblica nella parte in cui viene imposto ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art.
1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 di avvalersi
obbligatoriamente dei permessi per documentati motivi
personali,secondo la disciplina prevista dai CCNL, o di
istituti contrattuali similari o alternativi (come i
permessi brevi o la banca delle ore), per giustificare
l’assenza dovuta all’effettuazione di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici secondo la
suddetta nuova disciplina.
Ne consegue che, secondo il collegio, la citata novella
legislativa non può avere un carattere immediatamente
precettivo, ma deve comportare, per la sua applicazione
anche mediante atti generali quali circolari o direttive,
una più ampia revisione della disciplina contrattuale di
riferimento. Quindi, la stessa troverà il suo naturale
elemento di attuazione nella disciplina contrattuale da
rivisitare e non in atti generali che impongono modifiche
unilaterali in riferimento a CCNL già sottoscritti.
In attesa delle modifiche contrattuali in materia e di
eventuali ulteriori indirizzi da parte della Funzione
Pubblica, le amministrazioni possono nel frattempo stabilire
le opportune linee operative in merito (anche attraverso
l’emanazione di circolari interne ai dipendenti).
L’INPS nel messaggio 18/05/2015, n. 3366, recependo le
decisioni del TAR del Lazio, ha ritenuto di fornire le
seguenti indicazioni (non direttamente rivolte agli Enti
Locali, ma che possono essere prese come riferimento per
eventuali discipline interne), riesumando gli indirizzi già
impartiti dalla Funzione Pubblica nella circolare della
Funzione Pubblica n. 10/2011 (par. 3, pag. 5) e nella
precedente circolare n. 8/2008, sezione 1.2: le assenze per
visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici potranno essere imputate dai dipendenti anche a
malattia, secondo i criteri applicativi previgenti, ferma
restando la possibilità (non più l’obbligo) per gli
interessati di usufruire dei permessi per motivi personali o
familiari, permessi brevi, o banca delle ore, ecc..
Sia nel caso in cui l’assenza sia imputata a malattia sia
qualora sia imputata a permessi per motivi personali e
familiari, il dipendente dovrà documentare l’assenza
mediante attestazione redatta dal medico o dal personale
amministrativo della struttura pubblica o privata che ha
erogato la prestazione (attestazione di presenza, da
presentare al dipendente, per il successivo inoltro
all’amministrazione di appartenenza, oppure trasmessa
direttamente a quest’ultima per via telematica a cura del
medico o della struttura; nel caso di trasmissione
telematica, la mail dovrà contenere il file scansionato in
formato PDF dell’attestazione).
Da tale attestazione dovranno risultare: la qualifica e la
sottoscrizione del soggetto che la redige; l’indicazione del
medico e/o della struttura presso cui si è svolta la visita
o la prestazione; il giorno, l’orario di entrata e di uscita
del dipendente dalla struttura sanitaria erogante la
prestazione.
Siamo a chiedere il vostro illustre parere in merito ai
seguenti interrogativi. Si domanda:
- è possibile che in caso di assenza per prestazioni
specialistiche sia il dipendente a richiedere che la sua
assenza sia giustificata come “assenza per malattia”
semplicemente presentando l’attestazione della struttura
medica che ha erogato la prestazione, senza che sia
necessario l’invio telematico del certificato ad opera del
medico curante?
- E' quindi possibile che la malattia possa essere
autocertificata dal dipendente?
- A fronte di una prestazione specialistica, che potrebbe
anche avere la durata di dieci minuti (analisi del sangue) e
che non comporta situazione di incapacità lavorativa è
possibile (per quanto sopra detto) che il dipendente sia
assente per l’intera giornata lavorativa giustificando
l’assenza come “malattia”? O per assentarsi per
l’intera giornata è necessaria un’attestazione medica da cui
risulti che il paziente non è in grado di riprendere
l’attività lavorativa?
- Non è quindi più obbligatorio il rilascio del certificato
medico telematico, ma può veramente essere lasciata
discrezionalmente la scelta a capo del lavoratore
dipendente?
RISPOSTA:
La scelta di utilizzo dell’uno o dell’altro tra i
giustificativi ammessi, compete al dipendente che si trovi a
doversi assentare dal lavoro per visite, terapie,
prestazioni specialistiche o esami diagnostici; il predetto
sulla base della specifica esigenza, potrà valutarne anche
la possibile assimilabilità alla malattia, fermo restando
che dovrà essere fatta salva di volta in volta, per il
giustificativo prescelto, la procedura prescritta per la
validazione dell’assenza imputabile allo stesso. Quindi, nel
caso di utilizzo del giustificativo di malattia, non sarà
possibile prescindere da quanto normalmente prescritto per
potersi avvalere dello stesso.
Pertanto:
1) Sarà possibile che, qualora debba assentarsi per
prestazioni specialistiche o accertamenti diagnostici,
terapie o visite, il dipendente possa richiedere che la
propria assenza sia giustificata come “assenza per
malattia”, presentando un certificato del proprio medico di
base o dello specialista che attesti tale imprescindibile
necessità e indichi quando e dove sarà effettuata la
prestazione, trasmettendo copia del certificato per via
telematica all’Inps; al datore di lavoro sarà poi presentata
l’attestazione della struttura medica che ha erogato la
prestazione, con le relative precisazioni circa la durata
della prestazione e la permanenza del dipendente presso la
struttura medica in questione.
2) Non è ammissibile né possibile in alcun modo che
l’assenza imputabile a malattia possa essere autocertificata
dal dipendente. Se il dipendente sceglie di computare
l’assenza in parola nel giustificativo di malattia, deve
seguire la procedura prescritta per questo in tutti i passi
rispettando ognuna delle condizioni previste. Se l’ente
intende adottare come riferimento di massima il contenuto
della circolare Inps, sarà bene che precisi con chiarezza
questa condizione per non trovarsi poi al centro di un
possibile contenzioso senza fine. Solo un medico può
certificare una malattia, quindi solo un medico può attivare
la procedura di convalida di assenza per malattia nei modi e
termini di legge prescritti. Se non è possibile fare
rientrare l’assenza nelle norme prescritte per la
certificazione di malattia, dal dipendente dovrà essere
usato un diverso giustificativo tra quelli possibili.
3) L’assenza per malattia non è frazionabile al di sotto
della misura minima di una giornata; per una prestazione di
10 minuti, è chiaro che dovrà essere utilizzato un diverso
giustificativo.
4) le terapie salvavita sono fatte salve, il medico
certifica preventivamente il periodo in cui saranno
effettuate e le condizioni del dipendente precisando la
necessità o non necessità di riposo e cure dopo aver
effettuato le stesse; la struttura presso cui sono state
effettuate, certifica le stesse, indicando giorni e ore.
5) la discrezionalità del dipendente è nella scelta del
giustificativo; individuato questo, deve essere poi in grado
di seguire senza deroga alcuna la relativa procedura e le
regole prescritte per lo stesso, compresi i vincoli, i
limiti, i termini, i tempi, le modalità e le trattenute
stipendiali.
6) La regolamentazione che sarà adottata, deve essere
possibilmente chiara e completa.
7) Anche l’Aran precisa riguardo la giustificabilità di
queste particolari assenze che, se l’orientamento
giurisprudenziale consolidato consente di ricondurre
nell’ambito dell’istituto della malattia le assenze
correlate ad accertamenti clinici preventivi, diagnostici, a
visite mediche, a prestazioni medico specialistiche, e se
legittimamente il dipendente può assentarsi per tali
motivazioni, utilizzando detto istituto, le assenze,
ricondotte alla malattia, ne seguono l’intera disciplina e
devono essere calcolate anche nel periodo di comporto
contrattuale, fermo restando che, in alternativa a questo,
il CCNL consente di fruire di permessi retribuiti, e che in
entrambi i casi, le assenze devono essere attestate
attraverso regolare certificazione medica (anticipata, nel
caso dell’utilizzo del giustificativo di malattia, in
assenza di ricovero, anche dalla certificazione del medico
di base o specialista trasmessa in via telematica all’Inps,
per il successivo iter) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L'occupazione usurpativa.
DOMANDA:
Negli anni 70 il Comune realizzò una strada comunale su
parte di terreno di proprietà privata, allargando
l'esistente sedime stradale verso le adiacenti proprietà
private. L'allora Sindaco con una semplice lettera al
proprietario si impegnava all'esecuzione dei lavori stradali
cercando di occupare il minor spazio possibile e
promettendo, al fine di evitarne l'esproprio, un compenso di
Lire 500/mq per il terreno occupato.
Ora l'erede chiede una definizione della pratica con la
presa in carico da parte dell'Ente dell'area privata
occupata dal sedime stradale ed il riconoscimento
dell'indennità. Quanto sopra, posto che la citata "promessa"
risulta essere alquanto anomala, vista la totale assenza di
un atto di cessione bonaria dell'immobile, e l'assenza di un
eventuale provvedimento deliberativo di Giunta o di
Consiglio in merito, se non per l'affidamento dei lavori.
Rilevato che ai sensi della L. 448/1998 l'accorpamento
gratuito al demanio non è da intendersi possibile in quanto
non vi è la disponibilità del proprietario, si chiede in che
modo possa essere eventualmente riconosciuto il diritto
rivendicato dal richiedente, considerata anche la
rivalutazione della somma "promessa"
nell'eventualità, ad avviso dello scrivente alquanto remota,
che tutto ciò sia possibile.
RISPOSTA:
Il caso prospettato può essere inquadrato all'interno della
fattispecie dell’occupazione usurpativa in quanto avvenuta
in assenza di un valido titolo espropriativo. Secondo quanto
disposto dalla giurisprudenza prevalente, tale fenomeno
realizza un’ipotesi di fatto illecito generatore di danno ex
art. 2043 cod. civ. (Cass. SU 10962/2005, Cons. Stato
2285/2005). Per tali ragioni, l’erede dell’originario
proprietario avrebbe effettivamente il diritto a veder
risarcito il danno derivante dalla costruzione della strada
comunale su parti di terreno di sua proprietà.
Tuttavia, l’azione per rivendicare tale diritto è sottoposta
alla prescrizione quinquennale: l’art. 2947 cod. civ.
rubricato "Prescrizioni del diritto al risarcimento del
danno" afferma che tale diritto si prescrive in cinque
anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. In tal
caso, sarà necessario, dunque, accertare il momento di
avvenuta conclusione dei lavori di costruzione della strada
(momento conclusivo a partire dal quale è possibile
stabilire l’intervenuta mutazione dei luoghi), e, inoltre,
il compimento di eventuali atti interruttivi della
prescrizione da parte del danneggiato (atti di diffida ecc).
Qualora questi non fossero rinvenuti e l’ultimazione dei
lavori fosse avvenuta in un tempo superiore ai cinque anni
da quando l’erede ha fatto valere il suo diritto, questo non
potrebbe rivendicare alcuna pretesa nei confronti del comune
a causa della maturazione del tempo della prescrizione.
Anche a voler superare le considerazioni relative alla
prescrizione del risarcimento del danno, nel caso in cui
l’ente comunale volesse sanare ex post tale e
volesse, quindi, acquisire le parti di terreno occupate
durante la costruzione della strada comunale, potrebbe
ricorrere all'istituto della cessione volontaria ai sensi
della normativa vigente.
È importante valutare con attenzione tale opzione in quanto
–risultando ormai perfezionata l’occupazione acquisitiva– la
corresponsione di un’indennità (qualunque sia la misura)
potrebbe configurare fattispecie di responsabilità erariale
ex art. 1, c. 4, della Legge n. 20/1994 (link a
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PATRIMONIO:
La vendita all'asta dell'escavatore.
DOMANDA:
Mediante asta pubblica è stato venduto ad un privato un
escavatore per un valore di € 1.500,00. La fattura di
acquisto di tale bene non è mai stata registrata nei
registri di acquisto in quanto non rilevante ai fini IVA
perché attività istituzionale (manutenzione delle strade).
Si chiede pertanto: L’ente ha l’obbligo dell’emissione della
fattura? In caso affermativo come dovrà essere fatta la
fattura (esente ai sensi dell’art. 10, comma 27-quinquies,
L. 633/1972)? Se ad acquistare il bene fosse una ditta che
richiede la fattura, l’ente, come dovrà comportarsi, visto
che agisce come un privato?
RISPOSTA:
La cessione del bene in oggetto è fuori campo IVA in quanto
non effettuata nell’esercizio di attività commerciale ex
art. 4 del DPR 633/1972. Pertanto non deve essere emessa
fattura invocando l’esenzione di cui all’art. 10, c. 1, n.
27-quinquies), del citato decreto, trattandosi di regime
riservato ad operazioni effettuate nell’esercizio d’impresa,
riferite a beni per i quali, all’atto dell’acquisto, non è
stata operata la detrazione per carenza di requisiti
oggettivi.
Il Comune, pertanto, nel caso di specie può (l’emissione di
documento non è obbligatoria) emettere un documento/ricevuta
privo dei requisiti di cui all’art. 21 del DPR 633
(fattura), assoggettato ad imposta di bollo, dichiarando che
il corrispettivo è fuori campo IVA in quanto la cessione è
effettuata al di fuori dell’esercizio di attività
commerciale per carenza del presupposto soggettivo ex art.
4, c. 1, del DPR 633/1972 (link a
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ENTI LOCALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Referendum senza limiti. La consultazione abrogativa è
ammissibile. Legittimo interrogare i
cittadini sulla cessione della farmacia comunale.
È ammissibile una proposta di referendum abrogativo popolare
in ordine alla scelta dell'amministrazione locale,
deliberata dal consiglio comunale, di cedere la titolarità
della farmacia comunale?
L'ordinamento italiano presta una particolare attenzione
alla partecipazione diretta del cittadino nella vita delle
istituzioni locali. Giova ricordare, in proposito, che
l'Italia ha fatto propri i principi della Carta europea
dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la
relativa convenzione, poi ratificata con la legge
30.12.1989, n. 439.
L'articolo 3 della Carta, al comma 2, riconoscendo alle
collettività locali il diritto di regolamentare ed
amministrare, nell'ambito della legge, una parte importante
di affari pubblici mediante consigli e assemblee costituiti
da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario,
diretto e universale, in grado di disporre di organi
esecutivi responsabili nei loro confronti, ha precisato,
altresì, che «detta disposizione non pregiudica il
ricorso alle assemblee di cittadini, al referendum, o ad
ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini
qualora questa sia consentita dalla legge».
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi
del cittadino trovano una loro concretizzazione nel Tuel n.
267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica
dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non
meramente facoltativo dello statuto. Un rinvio allo statuto
è previsto dal comma 3 dell'art. 8 del citato decreto
legislativo n. 267/2000, in merito alla previsione di forme
di consultazione della popolazione, nonché alle procedure
per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte di
cittadini singoli o associati dirette a promuovere
interventi per la migliore tutela di interessi collettivi
con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo
esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì,
previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero
di cittadini, che devono comunque riguardare materie di
esclusiva competenza locale
Il referendum, si configura, dunque, quale elemento
meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che
una volta previsto deve essere compiutamente disciplinato
dal regolamento. Rispetto alla normativa previgente è stata
ampliata la valenza dell'istituto del referendum popolare,
attualmente configurabile non più solo come consultivo
(unica tipologia prevista nell'originale formulazione della
legge n. 142 del 1990 e volta a consentire la consultazione
della popolazione su rilevanti questioni di interesse
locale), ma anche come abrogativo (di provvedimenti a
carattere generale degli organi istituzionali e burocratici
dell'ente), propositivo (per approvare proposte di atti
avanzate dalla stessa amministrazione o da altri soggetti),
confermativo, di indirizzo e oppositivo-sospensivo.
In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario
in materia resta ampio con riguardo all'oggetto del
referendum (che è sufficiente che rientri tra le materie di
competenza esclusiva dell'ente), alla determinazione del
numero dei partecipanti per la sua validità e alla
possibilità di prevedere effetti consequenziali per
l'amministrazione locale legati all'esito del referendum,
con il solo limite della conservazione del potere
decisionale in capo agli organi di governo.
Nel caso prospettato, l'amministrazione locale ritiene
dubbia la possibilità di espletare il referendum abrogativo,
in relazione alla circostanza che l'alienazione della
farmacia comunale è stata prevista nel bilancio di
previsione dell'ente. Ciò alla luce della disposizione
statutaria che prevede la possibilità di indire referendum
abrogativi, propositivi o consultivi, con una serie di
esclusioni in materia «di tributi locali e di tariffe, di
attività amministrative vincolate da leggi statali o
regionali».
Tuttavia, i proventi che scaturiscono dall'eventuale
alienazione della farmacia comunale, non possono certo
assimilarsi a «tributi locali o tariffe», i quali
hanno una connotazione giuridica ben precisa. Peraltro,
l'alienazione della farmacia comunale non scaturisce da
un'attività amministrativa vincolata da leggi. Infatti, la
legge n. 475 del 02.04.1968, che disciplina il servizio
farmaceutico, pur derogata dall'art. 11, comma 3, del dl n.
1/2012 convertito il legge n. 27/2012 nella parte in cui si
prevede il diritto di prelazione dei comuni in ordine alla
metà delle farmacie che si rendano vacanti o di nuova
istituzione (art. 9), non impone, comunque, l'alienazione
delle farmacie già in possesso del comune.
Pertanto, non sussistono motivi ostativi all'indizione del
referendum
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
NEWS |
APPALTI: Inchiesta
sulla pasticciata Riforma degli appalti pubblici che è stata
approvata da poco.
La riforma appalti ai raggi X.
Nel primo articolo ci sono ben 87 commi o subordinati.
La precedente normativa era stata congegnata per consentire
di attuare le più grosse ruberie.
Questo articolo –e quelli successivi dedicati alla riforma
degli appalti che il Senato ha approvato nei giorni scorsi-
hanno un contenuto tecnico, che abbiamo cercato di rendere
di agevole lettura. Il lettore giudicherà se ci siamo
riusciti. Una riforma, dunque, considerata importante per
tutto il sistema dei pubblici appalti e delle pubbliche
forniture, gravemente interessato da una serie di scandali
che costituiscono la costante del settore da trent'anni a
questa parte.
Segnalo subito che gli strumenti tecnici per prevenire la
corruzione sono sostanzialmente due: una buona legge e una
buona Amministrazione. La legge deve contenere i principi
cui devono ispirarsi, in modo inderogabile, gli operatori
nell'indire le procedure per scegliere l'appaltatore.
L'Amministrazione si deve dotare di norme di comportamento
tali da permettere che le gare si svolgano in un regime di
concorrenza reale. Né finta né virtuale per devianze
corruttive che si insinuano nel procedimento a causa di
funzionari corruttibili e corrotti.
Detta così, sembra una cosa semplice: invece non lo è, dato
che i varchi esistenti nella legislazione precedente erano
tanti e tali da rendere legittime le più grandi porcate che
si possono immaginare. Il tutto perché c'erano tali margini
di discrezionalità (tutti connessi alla definizione
dell'elenco dei partecipanti e alla valutazione qualitativa
delle offerte) da lasciare mano libera ai manigoldi che
intendevano favorire qualcuno.
Insisto: quando si parla di qualità dell'offerta,
riferendosi a caratteristiche progettuali o a materiali o a
prestazioni specifiche, si entra nel campo della pura
opinabilità, nella quale sguazzano funzionari tecnici e
amministrativi al soldo di qualche ditta interessata ad
aggiudicarsi un certo lavoro o una certa fornitura.
I due punti che abbiamo indicato (una buona legge e una
buona Amministrazione) vengono prima, concettualmente e
praticamente, delle competenze dall'Autorità anticorruzione,
ormai trasformatasi in una vera e propria agenzia, che
rischia di avvitarsi su stessa per la quantità crescente di
prestazioni a essa richiesta dal governo e dal Parlamento.
Nell'attuale situazione, non è chiaro a che punto del
procedimento si collochi la possibilità di intervento di
Raffaele Cantone e dei suoi uffici. Allo stato dei fatti,
l'intervento dell'Anticorruzione può avvenire in ogni
momento e innestarsi addirittura nella scelte delle imprese
cui estendere l'invito. Non che ci sia qualcosa da dire
rispetto a una modalità di intervento che è piuttosto un
happening caso per caso, ma c'è molto da dire su un
legislatore e un'Amministrazione che non si pongono il
problema di definire in modo stabile il ruolo
dell'Anticorruzione, la tempistica dei suoi interventi, le
conseguenze degli stessi. Una concezione troppo penalistica
che, consentendo di spaziare, di fatto, rende aleatoria
l'efficacia delle attività di prevenzione e di repressione.
È un po' come l'obbligatorietà dell'azione penale, che è più
una grida manzoniana, all'interno della quale vige la più
vasta discrezionalità, più che una reale, cogente capacità
di agire in tutte le situazioni nelle quali emerga la
sintomatologia di un reato.
L'aspetto peggiore di una simile situazione è dato dal fatto
che i vertici politici delle Amministrazioni entrano
nell'ordine di idee Tanto c'è Cantone con la sua Authority,
dimenticando di intervenire sulle strutture per imporre
procedure e scelte trasparenti e legittime, all'interno
delle quali non può trovare spazio nessun tentativo di
sviamento dei pubblici poteri.
Questo, di fondo, è il tema rispetto al quale la riforma
approvata nei giorni scorsi dovrebbe porsi come uno
svolgimento. Vediamo meglio e da vicino, questa nuova legge
di settore. Essa si chiama Deleghe al governo per
l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/23/UE e
2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di
concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure
d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua,
dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché
per il riordino della disciplina vigente in materia di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
In soldoni, un'ennesima legge-delega che lascia al governo
il compito di adottare i decreti (che, correttamente, vanno
chiamati legislativi o delegati) specifici sulla materia
interessata e divisibili in due categorie: attuazione di
norme europee, norme nazionali (autonome). La riforma di cui
parliamo, quindi, è in gran parte obbligata dall'entrata in
vigore di una nuova normativa europea, ma il prodotto in
essa contenuto è frutto della confusione (in senso tecnico
giuridico) tra norme derivate e norme autonome. Secondo la
mia opinione sarebbe stato molto meglio dividere chiaramente
in due l'operazione riforma, adottando un breve
provvedimento legislativo di richiamo alle norme europee (di
per sé già cogenti) e poi uno stringato testo riguardante
l'assetto nazionale del settore.
Chi abbia voglia di guardare con i propri occhi, consultando
il testo con i lavori parlamentari, visibile nei siti di
Senato e di Camera, vedrà come, invece, la tecnica
legislativa sia stata quella di mescolare il tutto e,
peggio, di concentrare in un unico articolo, il n. 1, in 87
tra commi, subordinati e numeri, tutta la materia, smentendo
in modo clamoroso uno dei principi che faticosamente
andavano affermandosi nel processo legislativo: norme
semplici, prive di richiami, comprensibili a qualsiasi
cittadino che sappia leggere e scrivere.
Un'utopia, certo,
ma, soprattutto, una prescrizione di tendenza che il governo Renzi avrebbe dovuto cogliere e fare propria, giacché la
chiarezza e la trasparenza dovrebbero essere gli strumenti
irrinunciabili di affermazione di qualsiasi attività
riformista. Invece no, poiché l'illeggibilità della legge
non riguarda solo gli appalti, ma l'intero scibile
legislativo del ministero presieduto da Matteo Renzi.
---------------
Appalti, legge scritta coi piedi. Nel punto b) sono state
ficcate 159 parole, senza un punto. Doveva essere un modello di semplicità e chiarezza: in un
solo articolo, 87 prescrizioni.
Oggi cercheremo di raccontare i contenuti di questa riforma
degli appalti su cui pesa come un macigno una modalità
legislativa rivolta tutta all'illeggibilità del testo. In
passato, lo ricordo en passant, le difficile interpretazione
della legge è stata sempre usata per permetterne il peggiore
uso possibile.
Un unico articolo con 87 prescrizioni e la sensazione che si
vada avanti e indietro nella materia senza avere avanti agli
occhi un disegno organico e realistico delle esigenze di
moralizzazione e di semplificazione del settore.
Due concetti, moralizzazione e semplificazione, che vanno
sempre insieme.
Il punto a) del 1° comma suscita l'ilarità. Stabilisce,
infatti, un divieto di introduzione o di mantenimento di
livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti
dalle direttive europee.
E la mafia, la camorra e la ndragheta? La domanda che sorge
spontanea leggendo queste parole. Non si dà e prende atto
che le situazioni concrete in ogni nazione sono diverse tra
loro e influenzate da precipui fattori ambientali. È vero
che i cosiddetti livelli di regolazione sono molto elevati,
ma è anche vero che essi lasciano, come vedremo, margini
eccessivi di discrezionalità ai funzionari infedeli.
Poiché nulla accade per caso, è utile riflettere sulle
prescrizioni di questa legge-delega.
Il punto b) (159 parole, senza un punto) precisa che sarà
adottato un unico testo normativo con contenuti di
disciplina adeguata anche per gli appalti di lavori, servizi
e forniture denominato «codice degli appalti e dei contratti
di concessione» ... (qui l'italiano è quello di un oratore
ubriaco che non ha consapevolezza di dove cominci e termini
il suo discorso) nel quale saranno comprese le misure
legislative per l'affidamento, la gestione e l'esecuzione
degli appalti pubblici, garantendo l'ordinata transizione
tra la previgente e la nuova disciplina (una precisazione
densa di significato, nel senso che l'ordinata transizione
non può che voler dire che ciò è fatto è fatto, o meglio chi
ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato).
Una evidente tautologia se non fosse, appunto, per
l'ordinata transizione.
Il punto c) riguarda la necessità di prescrizioni tecniche
per l'accessibilità delle persone con disabilità, anche qui
una tautologica ripetizione di normative in essere che
potrebbero essere richiamate con una semplice circolare.
Il punto d) è paradossale, in quanto prescrive una drastica
riduzione e razionalizzazione delle disposizioni vigenti e
un più alto livello di certezza del diritto e di
semplificazione dei procedimenti. Attenzione: quando il
legislatore mira in alto che dichiarazioni reboanti, c'è
sempre qualcosa da nascondere. In questo caso, si vuole
nascondere la complessità e la farraginosa illeggibilità di
un testo che dovrebbe rappresentare la svolta finale per
entrare nella dirittura d'arrivo una modalità trasparente e
sicura per tutto il sistema pubblico.
Si ribadisce poi la necessità di predisporre procedure non
derogabili per gli appalti pubblici e le concessioni e per
ottenere una significativa riduzione dei tempi relativi alle
procedure (la ripetizione è nella legge: procedure per
procedure) di gara e alla realizzazione delle opere
pubbliche.
Mentre sarebbe opportuno che l'autorità giudiziaria aprisse
un fascicolo per identificare coloro che hanno insegnato
l'italiano agli estensori (e votatori) di una simile
bestialità lessicale, risulta oscuro il senso di questa
affermazione (punto e) del comma 1). Già nel punto d) s'era
parlato di riduzione e semplificazione e la ripetizione
induce, come sempre, qualche sospetto. Infatti, il
legislatore delegato, il governo, potrebbe considerare il
punto d) e il punto e) concettualmente diversi per
inventarsi qualcosa che, invece di elevare il livello di
certezza del diritto, permetta di introdurre norme di
recupero delle discrezionalità in discussione perché
costituiscono la via attraverso la quale far tornare di
scena la corruzione.
Il punto g) vuole semplificazione, rapidità, trasparenza e
imparzialità (concetto, questo, introdotto qui per la prima
volta in questo testo) per le gare sotto soglia, al di sotto
cioè dei livelli di valore nei quali deve essere applicata
la normativa dell'Unione europea.
Il punto h) impone l'indicazione puntuale (ma se è
indicazione non può non essere puntuale) delle norme che si
applicano a ogni procedura e il punto i) la digitalizzazione
delle procedure stesse anche al fine di favorire l'accesso
delle micro, piccole e medie imprese.
Si tratta dell'ennesima affermazione demagogica, priva di
significato giuridico che si incontra nella legge. Infatti,
se si digitalizza si rende più facile a tutti l'accesso
all'informazione e ai procedimenti concorsuali. Non solo
alle micro, piccole e medie imprese, che non possono trovare
nessun, ripeto nessuno, strumento di favore diverso da
quello (che dovrebbe essere garantito) della libera
concorrenza.
Viene poi la questione della protezione civile, la cui
gestione -quando riguarda le emergenze- deve coniugare la
tempestività con il divieto di procedure in deroga a quelle
ordinarie con l'eccezione delle singole fattispecie connesse
a particolari esigenze collegate alle situazioni
emergenziali. Chiunque può notare la dizione contorta e
contraddittoria di questa norma: 1) tempestività; 2) niente
deroghe; 3) deroghe (eccezioni) per le situazione
emergenziali, cioè tutte quelle derivanti da eventi
calamitosi.
Ed ecco l'ultima ciliegina odierna. Il punto m) reintroduce
il controllo preventivo della Corte dei conti, mediante una
sua apposita sezione, per gli appalti secretati (carceri,
caserme e altri impianti militari e, in alcuni casi,
giudiziari).
Ma se c'è già l'Anticorruzione? O l'Anticorruzione va bene
per quelli pubblici, ma non va bene per quelli secretati?
Perché si teme qualche indiscrezione?
L'unico movente di una simile norma è quella di riesumare il
controllo cartolare e di legittimità della Corte dei conti
per consentire una maggiore possibilità di manovra agli
operatori dell'oscuro settore.
--------------
Troppe le indicazioni aggirabili. Riduttiva la capacità
economico finanziaria delle imprese.
Oggi si parte con i beni culturali. Non voglio privare i
lettori dello spasso (e dell'indignazione) che deriva dalla
lettura della norma: riordino ... contratti ... beni culturali
...
anche tenendo conto della particolare natura di questi beni
(se non l'avesse detto questa pessima legge-delega nessuno
avrebbe tenuto conto) e della peculiarità delle tipologie di
interventi, prevedendo altresì modalità innovative per le
procedure di appalto relative a lavori, servizi e forniture
e di concessione di servizi, comunque nel rispetto delle
disposizioni di tutela previste dal codice dei beni
culturali e del paesaggio ?garantendo la trasparenza e la
pubblicità degli atti.
Anche questa è una ripetizione, lessicalmente obbrobriosa,
di indicazioni già formulate, che non aggiunge nulla al
testo precedente, salvo la confusione (ai fini di una
lettura razionale e coordinata) derivante da concetti
generici la cui applicazione –vedrete- sarà così elastica da
permettere le peggiori nefandezze.
Non possiamo illuderci: l'esperienza ci insegna che, dove ci
sono indicazioni verbali, concetti, non numeri, si entra nel
campo della peggiore discrezionalità, quella che permette di
truccare le gare, di truccare i lavori, di truccare i conti
per fare intascare più del dovuto al beneficato di turno.
Così è anche per il successivo punto p) che vuole garantire
la sostenibilità energetica e ambientale facendo anche
ricorso al criterio di aggiudicazione basato sui costi del
ciclo di vita e stabilendo un maggiore punteggio per i beni,
i lavori e i servizi che presentano un minore impatto sulla
salute e sull'ambiente.
Qualcuno potrebbe ricordarmi che questa è una legge-delega,
una legge, non di disposizioni precise, ma di principi. Ma
quando i principi non sono chiari, le norme delegate non lo
saranno a loro volta: si realizza così la catena viziosa
intorno alla quale si è sviluppata e si svilupperà la
corruzione. C'è poi il punto q) dedicato ai cardini della
trasparenza e della lotta alla corruzione. Vediamoli da
vicino: individuare i casi in cui –in via eccezionale- (ma
come si delimita l'eccezionalità? Lo dovremmo vedere nei
decreti delegati) è possibile ricorrere alla procedura
negoziata senza precedente pubblicazione del bando di gara;
unificazione delle banche dati; previsione di poteri di
vigilanza e di controllo (finalizzati a evitare la
corruzione e i conflitti di interesse, favorendo trasparenza
e digitalizzazione). La legge vuole poi la definizione di un
sistema premiale e punitivo per chi denuncia o non denuncia
le richieste estorsive e indicazione delle norme del codice
(penale?) la cui violazione determinerà la comminazione di
sanzioni amministrative da parte dell'Anac.
Con il punto r) si dovrebbe entrare, finalmente, nel cuore
delle questioni, si parla, infatti, della capacità
economico-finanziaria, ivi compresa quella organizzativa e
professionale attinenti e proporzionali all'oggetto dell'appalto. Questa
norma va letta con la successiva, punto qq) che prescrive il
riassetto, la revisione dei sistemi di garanzia per
l'aggiudicazione e l'esecuzione degli appalti pubblici, al
fine di renderli (i sistemi di garanzia) proporzionati e
adeguati alla natura delle prestazioni. In queste
prescrizioni, si nasconde l'intento di reiterare i vizi del
sistema in vigore. Infatti le garanzie (che dovrebbero
essere bancarie e a prima chiamata) sono il cuore del
sistema, quel cuore che può permettere il peggio corruttivo
o, viceversa, garantire la regolarità delle prestazioni.
La proporzionalità, fortemente difesa dal sistema delle
imprese, significa la limitazione dell'impegno di garanzia
alla quota di lavoro corrispondente a uno stato
d'avanzamento. Per chiarire: se un contratto prevede che i
pagamenti avvengano ogni volta che si raggiunge l'importo di
1 miliardo, ecco che la garanzia che l'appaltatore deve
prestare corrisponde a quella frazione di lavoro, salvo le
ulteriori ritenute cautelative. Il metodo in vigore nei
tender (bandi) internazionali prevede, invece, che la ditta
presti all'Amministrazione una garanzia (bancaria a prima
chiamata) pari al valore complessivo dei lavori da svolgere.
Questo ha non solo un effetto sull'esecuzione dell'opera, ma
ha altresì un effetto (da sempre non gradito in Italia)
moralizzatore della concorrenza. Nel senso che se una ditta
ha una documentata capacità finanziaria, organizzativa e
tecnica (tre concetti diversi tra loro che questa pessima
legge invece riunisce nell'ambito unico della capacitò
economico-finanziaria giacché precisa -come abbiamo visto-
ivi compresa quella organizzativa e professionale attinenti
e proporzionali all'oggetto dell'appalto) per 10 miliardi,
potrà concorrere a un solo appalto da 10 miliardi avendo
tutto l'interesse di completarlo presto e bene, per poter
poi concorrere a un altro appalto e via dicendo.
Se invece, avendo una capacità da 10 miliardi, le è
consentito di concorrere a 10 appalti da 10 miliardi in
quanto la sua garanzia rimane ancorata all'entità di stati
di avanzamento da 1 miliardo, sarà evidente che, in questo
modo, sarà aggirata ogni misura di prudenza nell'affidare i
lavori e sarà permessa un'attività nettamente superiore a
quella capacità economico-finanziaria che, a parole, la
legge vorrebbe difendere. Poiché queste scelte non avvengono
a caso, la logica conseguenza (quod dixit voluit) che il
legislatore è ben consapevole delle conseguenze delle sue
prescrizioni e, quindi, complice delle eventuali deviazioni.
Il punto t) vuole attribuire all'Anac le più ampie funzioni
di promozione dell'efficienza, del sostegno allo sviluppo
delle migliori pratiche, della facilitazione dello scambio
di informazioni tra stazioni appaltanti compresi poteri di
controllo, raccomandazione, intervento cautelare di
deterrenza e sanzionatorio, nonché adozione di atti di
indirizzo ... dotati di efficacia vincolante ... A prima vista,
sembra trattarsi di un'abnorme espansione dei compiti dell'Anac
che si appresta a diventare una burocrazia sovrapposta alla
normale burocrazia che, essa sì avrebbe bisogno di obblighi
precisi stabiliti dalla legge.
Se, com'è sicuro, le regioni
vorranno mantenere la loro autonomia, rifiutando di
contribuire alla realizzazione di una banca dati 100%, sarà
difficile che l'Anac possa esercitare le proprie funzioni su
tutti gli appalti. Finirà per intervenire in ritardo e, più
frequentemente, su segnalazioni (denunce), riproponendo quel
controllo successivo attribuito alla Corte dei conti, la cui
morte venne stabilita in nome della rapidità delle
procedure.
---------------
Sono sopravvissute le varianti. Che trasformano, in lucrosi,
gli appalti sotto costo.
Concludiamo oggi il nostro rapido esame della legge delega
sui lavori pubblici, sulle concessioni e sulle forniture.
Ci sembra singolare che la legge introduca, al punto z),
dopo la riduzione degli oneri documentali, la possibilità,
per i partecipanti alle gare di integrazione documentale non
onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della
domanda, purché non attenga agli elementi oggetto di
valutazioni sul merito dell'offerta.
Una norma singolare che può generare un serio contenzioso in
ordine al significato delle parole qualsiasi elemento di
natura formale e non attenga agli elementi oggetto di
valutazioni.
Il principio fondamentale dell'ordinamento è: le offerte che
arrivano entro il termine anche orario previsto nel bando di
gara debbono contenere tutti gli elementi formali,
sostanziali e finanziari previsti nel bando pena esclusione.
Normalmente, un presidente o una commissione di gara
effettua la cosiddetta spunta delle carte pervenute, proprio
per constatare che ci sono tutte quelle che ci vogliono e
per escludere le offerte manchevoli anche di uno solo dei
documenti richiesti. Una norma precisa che non si presta a
interpretazioni, proprio per evitare che la legge si
applica, ma per gli amici si interpreta.
Facciamo un passo in avanti e occupiamoci delle varianti. In
proposito, vogliamo richiamare questa norma (punto ee):
previsione che ogni variazione in corso d'opera debba essere
adeguatamente motivata e giustificata unicamente da
condizioni impreviste e imprevedibili. Anche questo è uno
dei cuori del problema: la soluzione scelta ripete la
normativa esistente e non garantisce affatto che non si
ricorra a variazioni di comodo. La parola adeguatamente
definisce la permanenza della discrezionalità
dell'Amministrazione che può, approvando la variazione,
trasformare in lucroso un appalto aggiudicato sotto costo.
Così la parola unicamente.
Se leggiamo il testo senza i due avverbi ci rendiamo conto
che, depurato da essi, avrebbe tutto un altro senso:
previsione che ogni variazione in corso d'opera debba essere
motivata e giustificata da condizioni impreviste e
imprevedibili.
Purtroppo, la tecnica legislativa utilizzata a fini di
sviamento del potere legislativo provoca effetti
incontrollabili e rischiosi proprio per i fini che la legge
proclama di voler perseguire.
E ora veniamo al punto finale di questa esposizione: il
punto ff) che definisce il criterio di offerta
economicamente più vantaggiosa, seguendo un approccio
costo/efficienza, quale il costo del ciclo di vita e
includendo il «miglior rapporto qualità-prezzo» valutato con
criteri oggettivi (sic!)
L'offerta economicamente più vantaggiosa non può che essere
quella economicamente più vantaggiosa. Cioè quella che
presenta il massimo ribasso. Se il massimo ribasso fosse
coniugato con l'invito a partecipare a tutte le ditte che ne
fanno richiesta che posseggano i requisiti minimi previsti e
che prestano cauzione per l'intero valore dell'opera non ci
sarebbe dubbio che l'offerta più vantaggiosa sarebbe quella
che offre il prezzo minore. Nella legislazione italiana
(finanziaria del 1987) era stato introdotto (per volere del
ministro del Tesoro, Giovanni Goria) il prezzo chiuso, uno
speciale tipo di appalto che non consentiva il ricorso alla
revisione dei prezzi, alle varianti, ma che presentava un
regime premiale per le ditte che avessero terminato i lavori
nei termini fissati o, addirittura, in anticipo. Si
disincentivava la tendenza a portare avanti i lavori
all'infinito, denunciando situazioni impreviste e
imprevedibili, concordando migliorie, lucrando insomma
sull'inefficienza della pubblica Amministrazione e sulla
corruzione di alcuni suoi esponenti.
L'istituto non ebbe fortuna, per l'opposizione del sistema
delle imprese e di quello delle stazioni appaltanti tutti
protesi a cercare i modi per accentuare l'ingiustificato e
ingiustificabile lucro delle imprese stesse (e per vie
traverse dei funzionari).
Un'ultima amenità. Si dispone che per l'incarico di
responsabile, direttore e collaudatore dei lavori, si
istituisca un (ennesimo) albo presso il ministero delle
infrastrutture, nel quale si attingeranno per sorteggio i
nomi dei professionisti cui attribuire una delle tre
funzioni.
La sublimazione dell'inefficienza dell'Amministrazione, ma
il riconoscimento legislativo della sua incapacità di
scegliere con consapevolezza un professionista cui affidare
un importante incarico.
Con questa fiducia nei dirigenti dello Stato e nella riforma
della pubblica Amministrazione che, per carità di Patria, ci
siamo astenuti dal commentare punto per punto, concludiamo
questo breve excursus della riforma degli appalti, cui si
potrebbero dedicare non 4 ma 40 articoli di commento per
evidenziarne tutte le pecche, le contraddizioni e le
trappole inserite a favore di chi vuol distorcere l'attività
amministrativa.
Raffaele Cantone non è né può essere la panacea. Usato in
questo modo è l'alibi per continuare con il vecchio andazzo
(articoli ItaliaOggi del 27-28-29-30.01.2016). |
APPALTI: Iter
semplificati e tempi certi per le gare.
Appalti/ in g.u. la legge di riforma del codice,
in vigore dal 13 febbraio.
Procedure semplificate e tempi certi di gara e di
realizzazione delle opere. E un occhio di favore alle
piccole e medie imprese e ai subappaltatori. Questo anche
mediante una maggiore diffusione di informazioni,
utilizzando gli strumenti della rete per le gare telematiche
e per la pubblicazione degli avvisi: appalti, dunque,
semplici, digitalizzati, senza inutili complicazioni
burocratiche.
È quanto prevede la legge delega per la riforma degli
appalti pubblici, approvata definitivamente dal senato, che
rivoluziona l'attuale dlgs 163/2006 e che tocca anche il
processo amministrativo sugli appalti.
La legge 28.01.2016, n. 11, contenente «Deleghe al Governo per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014,
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture», è stata pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale n. 23 del 29.01.2016 ed
entrerà in vigore il prossimo 13 febbraio.
Tra gli obiettivi
(si veda da ultimo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016), più
qualità dell'opera pubblica, meno varianti in corso d'opera
che fanno aumentare i costi, più sicurezza per i
subappaltatori e più centrali di committenza
(articolo ItaliaOggi del 30.01.2016). |
ENTI LOCALI: Riforma Pa, tutte le partecipate sotto il controllo di Corte
conti.
Legge Madia. Completato il lavoro sui testi dei primi 11
decreti attuativi.
Tutti gli
amministratori delle società partecipate potranno essere
chiamati dalla Corte dei conti a risarcire il danno erariale
creato dalle loro scelte che, ovviamente per dolo o colpa
grave, colpiscono l’azienda o l’ente socio.
Lo prevede l’ultima versione del testo unico sulle
partecipate, uno degli 11 decreti attuativi che ieri hanno
assunto una veste definitiva e sono pronti a partire per il
loro iter fra Conferenza unificata, Consiglio di Stato e
commissioni parlamentari.
Quello dedicato alle società partecipate, insieme alla
riforma parallela sui servizi pubblici locali, sono stati i
testi che hanno impegnato di più gli uffici del Governo nel
lavoro di limatura e coordinamento normativo, mentre altri
provvedimenti, dalla conferenza dei servizi al codice
dell’amministrazione digitale fino alle norme
anti-assenteismo sono stati chiusi giorni fa.
Sulle partecipate, i confini della responsabilità erariale,
e quindi della possibilità per la Corte dei conti di
contestare i danni prodotti dall’azione degli
amministratori, sono strati fra i temi più dibattuti. Per
capire i termini del problema bisogna partire dalla
situazione attuale, che in base alle regole fissate dalla
Cassazione (in particolare nella sentenza 26283/2013 delle
Sezioni unite) concentra l’azione delle sezioni
giurisdizionali della Corte dei conti sulle società in house
che per Statuto escludano la presenza di soci privati.
Le
prime bozze del nuovo testo unico restringevano
ulteriormente l’ambito delle competenze dei magistrati
contabili, sulla base di un’impostazione che ha avuto varie
declinazioni nelle diverse versioni del testo ma che in
pratica assoggettava gli amministratori delle partecipate al
giudice ordinario, e chiedeva alla Corte dei conti di
occuparsi solo degli enti soci, e in particolare dei danni
prodotti dalla mancata vigilanza sulle aziende. Questa
ipotesi aveva acceso l’allarme dell’associazione dei
magistrati contabili, anche perché le contestazioni del
giudice ordinario scattano in seguito all’azione di
responsabilità, in uno scenario quindi improbabile per la
comunanza di interessi fra gli amministratori e gli enti
proprietari che li scelgono.
Nella sua formulazione definitiva, invece, il testo cambia
rotta, al punto che secondo questa impostazione sarebbe
sufficiente la presenza nel capitale di una quota pubblica
per aprire le porte alle indagini dei magistrati contabili.
Vale la pena di ricordare che in passato, prima
dell’intervento con cui la Cassazione ha fissato i parametri
oggi in vigore, in qualche caso la Corte dei conti ha
contestato nelle società miste pubblico-private un danno
“pro quota”, cioè proporzionale al peso della partecipazione
pubblica.
Per addentrarsi nelle possibile ricadute operative, però, è
presto, anche perché è facile prevedere che sulla novità,
frutto di un lavorio che ha incrociato il piano tecnico e
quello politico, si riaprirà una discussione speculare a
quella che ha accompagnato le prime versioni del testo: ad
animarla saranno in questo caso gli amministratori delle
partecipate, che nella riforma incontrano anche una
riduzione dei posti nei cda, con la regola
dell’amministratore unico nelle società più piccole, e la
previsione di nuovi tetti alle indennità (sul punto la
riforma riprende le cinque fasce previste dall’ultima
manovra.
L’altro aspetto su cui hanno agito le “limature” al testo
riguarda l’elenco delle società, da Invimit ad Anas fino a
Coni servizi, che eviteranno i limiti alle partecipazioni o
gli obblighi di dismissione previsti dagli articoli 4 e 5
del decreto. Sul versante dei servizi pubblici locali,
invece, la versione definitiva del testo conferma la riforma
del trasporto pubblico (anticipata sul Sole 24 Ore del 25
gennaio) e lo stralcio dei nuovi limiti all’in house,
destinati però a riemergere presto nell’ambito dei
provvedimenti attuativi della delega sugli appalti (articolo Il Sole 24 Ore del
29.01.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni piccoli: sono da accorpare. Il Pd vuol fondere questi
enti sotto i 5 mila abitanti. Le fusioni volontarie (anche se sono lautamente incentivate)
procedono troppo lentamente.
Cambia la geografia. Si cancellano i piccoli Comuni. Dopo le
Province tocca a loro. C'è già una prima della classe. E' la
Regione Emilia-Romagna dove ben 22 Comuni si sono fusi nel
2015 e altri 18 lo stanno per fare. Tanto che il presidente
della Regione, Stefano Bonaccini, ha cantato vittoria su
Twitter.
Matteo Renzi lo ritiene tra i provvedimenti necessari per
razionalizzare il sistema amministrativo. La legge sulla
spending review prevede bonus di vario tipo per chi si
unisce. A cui si aggiungono delibere approvate in alcune
Regioni. I Comuni, tra bastone e carota, stanno passando da
8.046 a meno di ottomila. Un'ulteriore accelerata è attesa
nel 2017.
Non è ancora la sforbiciata che vuole Renzi ma è un primo
passo poiché chi ha pochi abitanti non riesce a sostenere i
costi di taluni servizi. Il colpo di grazia dovrebbe
avvenire con la proposta di legge (Atto
Camera n. 3420) di una ventina di deputati
Pd, capeggiati da Emanuele Lodolini, in arrivo in
parlamento. Prevede la fusione obbligatoria dei Comuni sotto
i 5000 abitanti. Si tratterebbe di un colpo di spugna
sull'Italia dei piccoli Comuni: ne sparirebbero 5562.
Ovviamente si fronteggiano favorevoli e contrari. C'è chi ha
già contratto matrimonio e sembra felice: per esempio in
provincia di Rimini è nato il Comune unico di
Montescudo-Monte Colombo, a Trento quello di Amblar-Don e di
Dimaro-Folgarida, a Brescia è la volta di Biennio-Prestine,
a Pavia di Corteolona-Genzone. Della faccenda degli
accorpamenti, che è una piccola rivoluzione considerando
storia e tradizioni italiane, se ne sta parlando a Firenze,
con la due-giorni (incominciata oggi) del forum «Città
metropolitane, il rilancio parte da qui» (promosso dall'Anci,
l'associazione dei Comuni). Ovvero Comuni meno piccoli
possono contare di più in una programmazione territoriale
che vedrà protagoniste le città metropolitane insieme alle
Regioni (si spera senza troppi conflitti).
La forza delle città metropolitane (che dovrebbero supplire
alla sparizione dei piccoli Comuni) è illustrata in una nota
dell'Anci: le città metropolitane di Torino, Milano,
Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli,
Reggio Calabria, Palermo, Catania, Messina e Cagliari
coinvolgono il 36% della popolazione, generano oltre il 40%
del valore aggiunto e il 28% delle esportazioni, raccolgono
il 35% delle imprese e il 56% delle multinazionali insediate
nel paese e sono la sede di 55 atenei universitari e di
circa la metà delle startup innovative.
Il convegno si svolge a Firenze (Palazzo Vecchio) e proprio
in Toscana, in provincia di Arezzo, ben tre Comuni sono
sulla strada dell'unione: Chiusi della Verna, Chitignano e
Castel Focognano. Se il referendum che è stato indetto dai
tre consigli comunali dirà sì, nascerà un unico Comune con 6
mila abitanti.
Renzi aveva previsto in un primo tempo l'obbligatorietà
dell'accorpamento dei servizi, un modo per spingere i
piccoli Comuni all'aggregazione. Poi nella legge
milleproroghe il diktat è slittato al primo gennaio del
prossimo anno. Dice Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e
vicepresidente dell'Anci: «Vanno definiti bacini omogenei
per la gestione associata dei servizi, a prescindere dalle
dimensioni dei Comuni coinvolti, per arrivare a un riassetto
complessivo del governo territoriale. Siamo pronti a
contribuire a scrivere con il governo una legge che metta
insieme i Comuni per davvero, in maniera efficace ed
efficiente».
Aggiunge Massimo Castelli, coordinatore Anci
per i piccoli Comuni: «L'impasse normativa in cui versano i
piccoli Comuni ha dimostrato che l'unione obbligatoria dei
servizi non funziona in molte parti del Paese. È chiaro che
questa situazione blocca il processo invece di portarlo
avanti, così com'è chiaro che l'obbligatorietà per legge è
servita a far metabolizzare la necessità per i Comuni di
unire le forze e diventare più forti. Ora però facciamo
scegliere ai sindaci il come».
Nessun dubbio che ci sia bisogno di por mano a un ridisegno
del mosaico comunale. Una Regione come la Lombardia (10
milioni di abitanti) deve rapportarsi addirittura con 1.528
Comuni. E i quasi seimila Comuni (in Italia) con meno di 5
mila abitanti non riescono ormai a fare i bilanci.
Però il fronte dei contrari è piuttosto numeroso. Qualche
esempio. Il sindaco di Stazzema (Lucca), Maurizio Verona, ha
scritto ai parlamentari Pd che hanno presentato la proposta
di legge per rendere obbligatoria la fusione tra i Comuni
under 5.000: «La storia dell'Italia si fonda su quella dei
Comuni e i confini comunali sono spesso il frutto non tanto
di astratte divisioni territoriali ma di una storia di
comunità diverse: nonostante il passare degli anni, il
Comune con le sue istituzioni resta il presidio della
democrazia di un territorio già colpita dal taglio dei
consiglieri comunali e quindi della rappresentanza».
Al presidente della Camera, Laura Boldrini, ha scritto
invece il sindaco di Bassiano (Latina), Domenico Guidi: «Ho
letto i 3 miseri articoli con cui i parlamentari firmatari,
vorrebbero di colpo cambiare la geografia dei Comuni
d'Italia. Un'iniziativa sciagurata e deplorevole che
porterebbe i nostri territori allo sconvolgimento pressoché
totale».
Mentre a Spilamberto (Modena) è incominciata una raccolta di
firme contro l'accorpamento dei Comuni.
C'è però anche un sindaco di un piccolo Comune, San Giovanni
Lupatoto (Verona), Federico Vantini, (fa parte della
direzione nazionale Pd), che è convinto che l'accorpamento
sia la medicina giusta: «È evidente che la situazione dei
Comuni è critica. Serve un indirizzo chiaro, che semplifichi
il sistema degli enti locali, è impossibile permettersi più
di ottomila Comuni. L'unione oggi è facoltativa, occorre un
atto forte del governo, che superi i campanilismi e
incentivi la fusione con un patto pluriennale che permetta
subito ai Comuni che si uniscono di investire in opere
pubbliche e servizi ai cittadini»
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti p.a., decide la politica. Graduatorie non
vincolanti. Ruolo con sezioni regionali.
L'Anci ha inviato al ministro Madia una nota in vista
dell'attuazione dell'art. 11 della delega.
La dirigenza? Che sia assoggettata interamente alla
politica. L'Anci ha inviato al ministro della funzione
pubblica, Maria Anna Madia, una nota interpretativa (nota
25.01.2016 n. 13/VSG/SD-16 di prot.), che in
realtà consiste nell'indicazione di come i sindaci
vorrebbero venisse attuata la riforma della dirigenza.
A ben
vedere, del corposo scritto dell'Anci a rilevare e indicare
concretamente come i sindaci vorrebbero si attuasse
l'articolo 11 della legge 124/2015 è un passaggio molto
chiaro della lettera che il presidente dell'associazione,
Piero Fassino, rivolge al titolare di palazzo Vidoni: «Dare
una nuova veste al principio di separazione fra atti di
gestione e potere di indirizzo politico, assicurando merito
e professionalità della nuova classe dirigente, nell'ambito
di un rafforzato e discrezionale potere di scelta da parte
dei sindaci».
Tutto sommato, l'Anci coglie, senza troppi
giri di parole, la reale portata della riforma della
dirigenza. Nonostante il documento inviato a palazzo Vidoni
ridondi continuamente delle parole «merito» e
«professionalità» i sindaci hanno perfettamente compreso in
cosa consista la «svolta» della legge: la creazione di una
fortissima dipendenza dei dirigenti pubblici dalla politica,
la quale potrà, ma soprattutto, intende essere dotata di un
potere pieno, «discrezionale» e, dunque, sostanzialmente
insindacabile di scegliere (o lasciare a casa) il dirigente
che più risulti gradito (o sgradito).
È una chiara risposta
all'orientamento della giurisprudenza costituzionale
consolidatosi dopo il 2007, allorché la Consulta ha
considerato l'incostituzionalità di norme tendenti a precarizzare la dirigenza, rendendola sottomessa a logiche
di appartenenza politica e vicinanza partitica, tali da
comprometterne l'autonomia e la professionalità. Secondo la
Corte costituzionale la dirigenza pubblica deve attuare
l'indirizzo politico, ma nel rispetto della legalità e
utilizzando gli strumenti tecnici dei quali deve avvalersi
con autonomia tecnica, rispondendo per questo non solo agli
organi di governo, ma a tutte le giurisdizioni, oltre che
disciplinarmente.
L'Anci, al contrario, ravvede nella legge 124/2015 e nella
creazione del ruolo unico dirigenziale l'opportunità per
attribuire ai sindaci (e alla politica) un potere di
affidare gli incarichi tale da sfuggire a ogni sindacato e
controllo. Lo strumento è, in effetti, segnato e già
chiarito dalla disciplina degli incarichi ai direttori delle
aziende sanitarie: nonostante specifiche commissioni
tecniche gestiranno i ruoli dirigenziali e le procedure per
la selezione dei dirigenti cui assegnare gli incarichi,
queste commissioni non produrranno graduatorie che vincolino
i sindaci: spetterà alla politica scegliere liberamente tra
«rose» di candidati. L'unico problema sarà far sì che nelle
«rose» siano presenti i dirigenti considerati già a monte
«vicini».
Allo scopo, l'Anci consiglia alla funzione pubblica di
articolare il ruolo unico dei dirigenti locali in una serie
di sotto-sezioni regionali. Lo scopo è chiaro: avvicinare
quanto più possibile alla «discrezionalità» dei
sindaci il processo di selezione dei dirigenti, così da
poter avere un'influenza forte proprio sulla composizione
delle «rose» dei candidati ai quali conferire gli
incarichi
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI: Contratti pubblici in bilico.
Incertezza normativa in attesa del nuovo codice in fieri.
Rischio ricorsi nel periodo di transizione fra la disciplina
in vigore e l'attuazione della riforma.
Proroga a fine anno e non più a luglio per la qualificazione
delle imprese e dei progettisti e per l'anticipazione
contrattuale al 20%; evitare vuoti normativi in attesa del
nuovo codice dei contratti pubblici.
Sono queste le
richieste avanzate dalla commissione ambiente della camera
nel corso dell'esame del decreto legge 192/2015 «milleproroghe»
e contenute nelle diverse proposte emendative depositate.
Il quadro che emerge vede la normativa sui contratti
pubblici in bilico fra disposizioni in vigore, essenziali
per il settore, e una nuova disciplina in fieri che ha
l'ambizioso compito di riunire in un unico testo direttive,
nuovo codice e parti dell'attuale regolamento. Una
situazione complessivamente di difficile gestione anche
perché il rapido avvio della «consultazione pubblica» sul
decreto delegato attuativo della legge delega (ufficialmente
il testo non c'è) che dovrebbe concludersi, in prima fase,
domenica 31 gennaio, dimostra l'intenzione del governo di
arrivare rapidamente (al fine del rispetto del termine del
18 aprile) al decreto unico attuativo che recepirà le
direttive e riformerà il codice attuale.
In sede parlamentare invece si sta affrontando l'iter di
conversione del decreto legge «milleproroghe» (decreto legge
30.12.2015, n. 210) in cui sono contenute alcune
importanti norme per le imprese di costruzioni e per i
progettisti.
In particolare sono tre le norme di rilievo del decreto: la
prima prevede la proroga a fine luglio (data in cui secondo
la legge delega dovrebbe chiudersi il recepimento e la
riforma del codice appalti laddove si scegliesse di emanare
due decreti, ipotesi che sembra accantonata) della
disposizione dell'attuale codice dei contratti pubblici che
consente alle imprese di dimostrare la cifra d'affari in
lavori, nonché le attrezzature e dell'organico facendo
riferimento all'ultimo decennio antecedente la
sottoscrizione del contratto con la Soa (società organismo
di attestazione).
La seconda disposizione è di interesse dei progettisti che
fino al 31 luglio potranno qualificarsi nelle gare con i
migliori cinque anni del decennio (fatturato) e con i
migliori tre anni del quinquennio (personale). I diversi
emendamenti presentati nelle commissioni di merito (affari
costituzionali e bilancio) spostano il termine da fine
luglio a fine dicembre.
Questa richiesta di modifica viene poi espressa in termini
netti anche nel parere che ha dato la commissione ambiente
della camera con riguardo alla terza norma di particolare
interesse per la tutela delle imprese in questa difficile
contingenza economica che è quella che eleva dal 10 al 20%
l'anticipazione dell'importo contrattuale . Nel decreto
legge si prevede il differimento del norma introdotta nel
2014 dalla legge 192 fino alla fine di luglio. Ma i molti
emendamenti, spesso identici, presentati presso le
commissioni competenti sono finalizzati a spostare
l'efficacia della norma a dicembre 2016.
È stata la commissione ambiente, territorio e lavori
pubblici della camera, nel parere reso alle commissioni
competenti, a sollecitare il differimento a tutto il 2016
per evitare ogni ipotesi di vuoto normativo legando la
proroga anche all'effettiva entrata in vigore del complesso
disegno di riforma. Va infatti tenuto presente che è la
legge delega a prevedere, in caso di unico decreto delegato
(ed è questa la scelta compiuta dalla commissione
ministeriale) che il decreto sia emanato entro il 18 aprile,
ma che nel decreto debba essere prevista una disciplina
transitoria ad hoc (oltre a «opportune disposizioni di
coordinamento e finali») di cui ovviamente non si può sapere
il contenuto e l'arco temporale.
A valle poi dovranno
entrare in vigore le linee guida Mit-Anac. Il che proietta
il settore verso un periodo non breve di coabitazione di
norme diverse e di possibili incertezza normative legate
anche all'impostazione eccessivamente discrezionale
dell'operazione di riforma, con rischi di ricorsi e di altri
problemi
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Bandiera bianca sui mini-enti.
Biglio: un Patto sui piccoli comuni ma senza imposizioni.
L'Anpci, da poco aperta anche gli enti fino a 15.000
abitanti, illustra le iniziative per il futuro.
Sui piccoli comuni sventola bandiera bianca. Non si tratta
però di un segno di resa, ma di un messaggio chiaro al
governo per resettare tutto e scrivere «insieme», ma
soprattutto «democraticamente», il «Patto» per
un'amministrazione vicina alla gente.
Ieri in conferenza
stampa l'Anpci ha illustrato le iniziative per rispondere
alla proposta di legge
(Atto
Camera n. 3420) presentata da 20 deputati Pd con in testa il
parlamentare marchigiano Emanuele Lodolini, che prevede la
fusione obbligatoria dei municipi sotto i 5 mila abitanti.
E
anche se la proposta di legge appare a tutti più
un'iniziativa personale che un progetto condiviso dalla
maggioranza del Partito democratico (la scorsa settimana se
ne sono apertamente dissociati i deputati Federico Fornaro
ed Enrico Borghi) non si sentono al sicuro. Quanto accaduto
recentemente in Toscana, per esempio, preoccupa non poco.
La
regione guidata da Enrico Rossi, denuncia l'Anpci, ha deciso
di procedere ugualmente alla fusione del comune di Abetone
con il comune di Cutigliano, nonostante gli abitanti del
primo si siano nettamente espressi in senso contrario nel
referendum. «Un precedente gravissimo e pericoloso per tutti
i piccoli comuni e per la democrazia italiana», osserva la
presidente dell'Anpci e sindaco di Marsaglia (Cn) Franca
Biglio che ha annunciato la disponibilità dell'Associazione
a mobilitarsi al fianco dell'amministrazione comunale e dei
cittadini di Abetone, «nonché di tutti i piccoli comuni
mortificati da imposizioni dall'alto irrispettose
dell'autonomia locale».
Nella conferenza stampa di ieri, i
sindaci dell'Anpci si sono rivolti direttamente al premier
Matteo Renzi. E lo hanno fatto parafrasando le parole del
noto brano di Franco Battiato. «Mr. Presidente non ho più
voglia di subire, mi rimetto in battaglia, i tempi stanno
per cambiare», scandiscono i primi cittadini dell'Anpci. Che
proseguono: «Per fortuna il mio civismo non mi fa accettare
quelle leggi particolari per campagne elettorali, slogan e
proclami per avere più carisma e sintomatico potere».
«Al presidente del consiglio vogliamo rivolgere un appello»,
prosegue la numero uno dell'Anpci. «Non si limiti sempre e
solo ad ascoltare le grandi associazioni delle autonomie che
le danno sempre ragione e spesso anche cattivi consigli,
come nel caso della legge Delrio, pur di mantenere i propri
privilegi. Ascolti anche, una volta tanto, i sindaci di
trincea se si vuole davvero salvare il Paese. Noi siamo
pronti a fare la nostra parte con il massimo impegno e
disponibilità ma non siamo disposti ad ubbidire senza
garanzie di salvezza per i nostri cittadini. Apra
urgentemente un tavolo con noi ed ascolti le nostre
proposte».
L'Anpci da sempre rivendica di potersi sedere in Conferenza
unificata quanto meno come uditori in attesa di una modifica
del Tuel che consenta la partecipazione vera e propria alle
sedute. Un sogno realizzato (quando agli Affari regionali
c'erano Graziano Delrio e Maria Carmela Lanzetta) ma
improvvisamente interrotto. Da dicembre, infatti
l'associazione è stata estromessa dalla Conferenza
unificata.
«Il 17 dicembre scorso una delegazione dell'Ancpi
si è presentata in via della Stamperia per partecipare
all'Unificata, ma a essa è stato fatto divieto di entrare in
sala riunioni per una espressa disposizione in tal senso. Ho
scritto al ministro Angelino Alfano e al sottosegretario
Gianclaudio Bressa per chiedere spiegazioni ma non ho
neanche ricevuto una risposta», denuncia Biglio.
La battaglia dell'Anpci sarà portata avanti non attraverso
slogan urlati, bensì con una mobilitazione ponderata e
democratica da svolgersi a livello locale ma anche
nazionale. A Volterra (Pi) il 12 marzo si svolgerà una
grande manifestazione per dire no alle fusioni obbligatorie
e per la difesa delle autonomie locali. La scelta del comune
pisano è particolarmente significativa perché l'ente ha
recentemente aderito all'Anpci pur avendo più di 5 mila
abitanti (10.760 per la precisione).
Una possibilità che,
grazie a una recente modifica statutaria, l'Anpci offre a
tutti i municipi fino a 15 mila abitanti. Da marzo fino al
referendum sulla riforma costituzionale, previsto per il
mese di ottobre, verranno organizzate assemblee pubbliche
nei comuni, consigli comunali aperti per informare la
popolazione non solo sulla difficoltà oggettive in cui i
piccoli comuni sono costretti a vivere, ma anche
sull'attacco alla democrazia portato «dalla farsa del nuovo
senato delle autonomie».
«Renzi ha detto che se non passa il
referendum se ne andrà a casa», osserva Franca Biglio.
«Bene, i nostri cittadini andranno a votare in massa e
sapranno cosa fare se, nel frattempo, per i piccoli comuni
non sarà stato scritto il patto che chiediamo a garanzia
della loro sopravvivenza nel rispetto dell'autonomia
organizzativa e decisionale dei sindaci e degli
amministratori»
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016). |
URBANISTICA: Consumo del suolo, il ddl penalizza municipi e pmi.
Consentire l'utilizzo senza limiti dei proventi dei titoli
edilizi rilasciati per la manutenzione ordinaria e
straordinaria delle opere di urbanizzazione realizzate.
Opere che altrimenti andrebbero incontro a sicuro degrado,
dequalificando l'ambiente urbano circostante e rendendo
necessari ulteriori interventi di manutenzione con
conseguenti maggiori oneri economici.
Il ddl sul consumo del
suolo rischia inoltre di essere troppo penalizzante,
soprattutto per i piccoli comuni. Perché per esempio
renderebbe illegittima la rivendicazione dell'Imu su diritti
edificatori previsti ma non più attivabili. Prospettiva
questa «dalle conseguenze economiche insostenibili per i
comuni che si vedrebbero coinvolti in contenziosi fiscali
infiniti, destinati a produrre mancate entrate per cifre
esorbitanti».
Sono queste le due osservazioni critiche mosse
dall'Anpci al testo del disegno di legge in materia di «Contenimento
del consumo di suolo e riuso del suolo edificato» (Atto
Camera n. 2039) che, presentato quasi due anni fa
dall'ex ministro delle politiche agricole Nunzia De
Girolamo, è ancora all'esame delle commissioni ambiente e
agricoltura della camera.
Le osservazioni sono contenute in
uno schema di ordine del giorno che l'Anpci ha predisposto
per i comuni associati affinché i rispettivi sindaci lo
trasmettano al premier Matteo Renzi, ai ministri
dell'ambiente e dell'agricoltura Gian Luca Galletti e
Maurizio Martina e ai presidenti delle commissioni VIII e
XIII di Montecitorio. L'Anpci, pur apprezzando l'impianto
generale del ddl, ritiene assolutamente indispensabile che
vengano garantiti i diritti acquisiti. Perché una loro
compressione si porrebbe in contrasto con la «generale
politica di incentivo della crescita e dell'occupazione,
obiettivo da tutte le istituzioni riconosciuto come
un'esigenza vitale per il Paese». Sulla stessa lunghezza
d'onda Franco Biraghi, presidente di Confindustria Cuneo.
«Questo testo sarebbe una iattura per l'economia e le pmi
perché nessuno di noi potrà più programmare la propria
attività e il proprio sviluppo aziendale. Da un giorno
all'altro, infatti, potremmo sentirci dire che il terreno
industriale acquistato in passato nella prospettiva di
ampliare il nostro capannone improvvisamente è diventato
agricolo. Chi investirà più?».
Il no di Biraghi al ddl 2039 non è un rifiuto a priori, né
tantomeno un atteggiamento favorevole al consumo del suolo,
ma solo una ferma opposizione all'approccio sanzionatorio
del testo «basato su una pioggia di divieti per le
attività economiche e soprattutto industriali»
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Partecipate, andata e ritorno.
Ma il rientro all'ente d'origine non è un diritto dei
lavoratori. Il dlgs attuativo della delega Madia chiarisce uno degli
aspetti più controversi della materia.
Il personale a suo tempo trasferito dagli enti locali alle
società partecipate potrà tornare alle dipendenze
dell'amministrazione pubblica.
Il decreto legislativo attuativo della legge 124/2015 in
tema di riordino delle società pubbliche contribuisce a
chiarire uno degli aspetti più controversi delle
partecipazioni locali: la cosiddetta «clausola di rientro»
del personale locale, trasferito alle società a seguito di
esternalizzazioni di servizi.
In moltissimi casi nei contratti di servizio tra enti locali
e società è stata inserita la clausola che ha previsto,
appunto, la possibilità per l'ente locale di riassumere nei
propri ruoli i dipendenti trasferiti, nel caso di
reinternalizzazione dei servizi o, comunque, di cessazione
delle attività delle società.
Non poche sezioni regionali della Corte dei conti hanno
considerato legittime queste clausole contrattuali,
nonostante esse non fossero previste da nessuna fonte
normativa.
Resta il dato che, comunque, la presenza di clausole di tale
genere, di fonte solo negoziale, lasciano in piedi il
rischio che si tratti di esternalizzazioni solo elusive dei
vincoli di spesa del personale, di fatto aggirati mediante
un'apparente cessazione del rapporto di lavoro tra ente
locale e dipendente trasferito alla società, che in realtà
nasconde nella sostanza un semplice distacco di personale
che garantisce al personale comunale trasferito il
successivo rientro nei ruoli comunali, laddove la società o
l'ente dovesse successivamente essere soppresso.
Lo schema di decreto legislativo chiarisce, indirettamente,
l'illegittimità di tali clausole dei contratti di servizio.
Non avendo, infatti, natura di interpretazione autentica,
introduce per la prima volta nell'ordinamento la possibilità
della reinternalizzazione dei rapporti di lavoro,
possibilità negata a fonti di natura contrattuale, dal
momento che solo la legge, ai sensi dell'articolo 97 della
Costituzione, può regolare il reclutamento dei dipendenti
pubblici.
Oltre tutto, lo schema di decreto legislativo non prevede un
diritto soggettivo assoluto dei dipendenti delle società a
suo tempo trasferiti ad esse dai comuni. Questa possibilità
viene introdotta, in considerazione della circostanza che a
suo tempo i dipendenti interessati vennero reclutati per
concorso.
Tuttavia, le reinternalizzazioni, a riprova
dell'assenza di un vero e proprio «diritto di rientro»
(oggetto, invece, spesso dei contratti di servizio) potranno
avere corso «solo nei limiti delle necessità di ricambio di
personale all'interno dell'amministrazione interessata», e a
condizione che ciascuna amministrazione «valuti» la
possibilità di reinternalizzare i dipendenti a suo tempo
trasferiti, rinunciando così a reclutamenti tramite
concorsi, ma comunque nel rispetto dei vincoli normativi
posti alla spesa di personale ed alla percentuale di
turnover
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La trasparenza non è più una palla al piede
Addio alla scheda informativa relativa ai procedimenti
amministrativi che si sarebbe dovuta produrre
automaticamente, in applicazione dell'articolo 23 del dlgs
33/2013.
Lo schema di decreto legislativo di riforma della normativa
sulla trasparenza amministrativa modifica in modo radicale
ed estesissimo il dlgs 33/2013, nel tentativo di renderlo di
più semplice utilizzo, eliminando gli eccessi di burocrazia
incautamente introdotti tre anni fa, per effetto dei quali
la trasparenza, per quanto migliorata, per le p.a. è
sostanzialmente una palla al piede burocratica.
L'articolo 23 del dlgs 33/2013 era una tra le norme più
discutibili e le maggiori fonti di lavoro oggettivamente di
utilità solo formalistica. La norma attualmente obbliga le
pubbliche amministrazioni a pubblicare e aggiornare ogni sei
mesi, in distinte partizioni della sezione «amministrazione
trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli
organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con
particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di autorizzazione o concessione; scelta del
contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi;
concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e
progressioni di carriera; accordi stipulati
dall'amministrazione con soggetti privati o con altre
amministrazioni pubbliche. Tutti dati e informazioni già
oggetto di altre pubblicazioni, così da creare un'inutile
ridondanza, doppioni, e lavoro improduttivo.
La previsione più velleitaria dell'articolo 23 del dlgs
33/2013 è il comma 2, ai sensi del quale «per ciascuno dei
provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 sono
pubblicati il contenuto, l'oggetto, la eventuale spesa
prevista e gli estremi relativi ai principali documenti
contenuti nel fascicolo relativo al procedimento. La
pubblicazione avviene nella forma di una scheda sintetica,
prodotta automaticamente in sede di formazione del documento
che contiene l'atto».
Si confermano le duplicazioni delle informazioni già
presenti in altre parti dei siti «amministrazione
trasparente» e, soprattutto, si pretende il miracolo
informatico della produzione automatica della scheda
contenente i dati richiesti. Miracolo che, ovviamente,
nessun ente è riuscito a produrre, sicché la conseguenza è
stata un'immane produzione di data entry fine a se stessa.
Il governo, con lo schema di decreto legislativo, prende
atto del fallimento della disposizione in esame e dispone
l'abolizione del comma 2 dell'articolo 23.
Ma, anche il comma 1 viene radicalmente modificato. Infatti,
non sarà più necessario pubblicare e aggiornare
semestralmente gli elenchi dei provvedimenti in materia di
autorizzazione e concessione e di concorsi, visto che i dati
sono tutti comunque reperibili mediante altri canali.
Per quanto riguarda i dati relativi agli appalti, di fatto
basterà il collegamento ipertestuale alle pagine della
«sezione amministrazione trasparente» che già contengono i
dati richiesti.
Infine, in merito alla fattispecie degli «accordi
stipulati dall'amministrazione con soggetti privati o con
altre amministrazioni pubbliche», che ha creato
moltissima confusione in quanto non risultava chiaro quali
fossero tali accordi (convenzioni? appalti? ecc.), lo schema
di decreto legislativo precisa che si tratta esclusivamente
di quelli previsti dagli articoli 11 e 15 della legge
241/1990.
Si tratta, quindi, o degli accordi integrativi o sostitutivi
del provvedimenti amministrativi (articolo 11), oppure delle
convenzioni per la gestione di attività comuni tra
amministrazioni o tra queste e privati (articolo 15)
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2016). |
APPALTI: Criteri base per gli appalti verdi. Standard minimi di gara.
E bonus dalle stazioni appaltanti. In Gazzetta il decreto con i paletti ambientali. Capacità
ecologica degli appaltatori ai raggi X.
Un appalto può essere definito «verde» dalla p.a. se include
almeno i criteri di base. Le stazioni appaltanti però sono
invitate a utilizzare anche i criteri premiali quando
aggiudicano la gara con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa. Tra i criteri ambientali
minimi di base c'è quello della selezione dei candidati.
Secondo questo criterio l'appaltatore deve dimostrare la
propria capacità di applicare misure di gestione ambientale,
conformemente alle normative vigenti.
Queste le novità
contenute nel dm 24.12.2015 del ministero
dell'ambiente (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21.01.2015 n. 16) con il quale vengono adottati i criteri
ambientali minimi (Cam) per l'affidamento di servizi di
progettazione e lavori per la nuova costruzione,
ristrutturazione e manutenzione di edifici e per la gestione
dei cantieri della pubblica amministrazione.
Vengono forniti i criteri minimi sia per gruppi di edifici
che per singoli edifici. Tra le specifiche tecniche dei
gruppi di edifici è da segnalare l'inserimento naturalistico
paesaggistico, la sistemazione delle aree verde e il
mantenimento della permeabilità dei suoli. Tra le specifiche
tecniche del singolo edificio è stata inserita la
prestazione energetica (nei nuovi progetti l'indice di
prestazione energetica globale deve essere uguale ad A2),
l'approvvigionamento energetico, il risparmio idrico,
l'illuminazione naturale ecc..
Inoltre vengono illustrate le specifiche tecniche dei
componenti edilizi come calcestruzzi, laterizi, prodotti in
legno ecc., di cui vengono per esempio specificate la
quantità che bisogna riciclare. Nelle specifiche tecniche
del cantiere vengono esplicitati i criteri da seguire nelle
demolizioni, per i materiali usati in cantiere, per gli
scavi ecc..
Infine vengono definiti i criteri minimi premiali come il
miglioramento prestazionale del progetto, l'uso di materiali
rinnovabili, la distanza di approvvigionamento dei prodotti
da costruzione e il miglioramento delle prestazioni
ambientali dell'edificio
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti, 30 kg in proprio.
Dal 02.02.2016 le imprese agricole di cui all'articolo
2135 del codice civile, nonché i barbieri e parrucchieri,
gli istituti di bellezza e tatuaggio e piercing, che
producono rifiuti pericolosi, compresi quelli aventi codice Cer 18.01.03, relativi ad aghi, siringhe e oggetti taglienti
usati, possono trasportarli, in conto proprio, per una
quantità massima fino a 30 kg al giorno, a un impianto che
effettua operazioni autorizzate di smaltimento.
Lo prevede
l'art. 69 della legge n. 221/2015 (cosiddetto collegato
ambiente) che entrerà in vigore il 02.02.2016.
L'obbligo di registrazione nel registro di carico e scarico
dei rifiuti e l'obbligo di comunicazione al catasto dei
rifiuti tramite Mud, si intendono assolti attraverso la
compilazione e conservazione, in ordine cronologico, dei
formulari di trasporto
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Dal 22/1 ecovalutazioni Via e Vas più trasparenti.
Dal 22.01.2016 sono scattati nuovi indirizzi
metodologici dei provvedimenti di valutazione d'impatto
ambientale. Con una maggiore chiarezza ed esaustività delle
prescrizioni contenute nei provvedimenti di valutazione
ambientale di competenza statale anche al fine di superare
le principali criticità riscontrate nella fase di attuazione
del proponente e nella fase di verifica dell'ottemperanza
delle prescrizioni da parte dell'ente di controllo.
Queste
le novità contenute nel decreto del ministero dell'ambiente
del 24.12.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.
16 del 21 gennaio) sugli indirizzi metodologici per la
predisposizione dei quadri prescrittivi nei provvedimenti di
valutazione ambientale di competenza statale.
Vista la
particolare rilevanza e complessità degli argomenti oggetto
dei provvedimenti di valutazione ambientale gli «indirizzi»
sono finalizzati a uniformare i contenuti dei quadri
prescrittivi nell'ambito dei pareri espressi. Tanto che sono
strumenti a disposizione della commissione tecnica per la
verifica dell'impatto ambientale Via e Vas, della direzione
generale per le autorizzazioni e le valutazioni ambientali
del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e
del mare, della direzione generale belle arti e paesaggio e
della direzione generale archeologia del ministero per i
beni e le attività culturali e del turismo un atto di
indirizzo. Allo stesso tempo gli «indirizzi»
forniscono ai soggetti proponenti l'opera o l'intervento un
quadro di riferimento certo ed esplicito per l'attuazione
delle prescrizioni dei provvedimenti di valutazione
dell'impatto ambientale.
I nuovi indirizzi, in caso di procedura coordinata Via
(valutazione impatto ambientale) e Aia (autorizzazione
integrata ambientale) servono per coordinare i quadri
prescrittivi anche al fine di evitare sovrapposizioni,
duplicazioni o incoerenze tra le prescrizioni relative alla
valutazione dell'impatto ambientale e quelle relative
all'autorizzazione integrata ambientale (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aree agricole contaminate, la regione aiuta la
bonifica.
In arrivo le regole dopo ben dieci anni per la bonifica dei
siti inquinati delle aree agricole. Gli eventuali vincoli
e/o restrizioni all'utilizzo del suolo individuati all'esito
della valutazione di rischio devono essere riportati nel
certificato di destinazione urbanistica. La regione, sulla
base di apposito programma che individua le priorità di
intervento e le risorse disponibili, può finanziare, in
tutto o in parte, le attività di bonifica, fatta salva la
ripetizione delle somme impiegate e relativi interessi nei
confronti del responsabile della contaminazione. I criteri
di priorità definiti dalla regione sono resi pubblici sui
siti internet istituzionali.
Questo è quanto si legge nella bozza del provvedimento del
ministero dell'ambiente (emanata di concerto con ministero
salute e politiche agricole) che attua l'art. 241 del dlgs
n. 252/2006 in merito alla bonifica dei siti contaminati
delle aree agricole.
Dopo un'attesa di dieci anni la
conferenza unificata del 17.12.2015 ha dato il via al dlgs
recante «regolamento relativo agli interventi di
bonifica, ripristino ambientale e di messa in sicurezza,
d'emergenza, operativa e permanente, delle aree destinate
alla produzione agricola e all'allevamento» ai sensi
dell'art. 241 del decreto legislativo 03.04.2006 n. 152.
«Se all'esito della valutazione del rischio le
concentrazioni (di contaminazione) riscontrate nel suolo
sono compatibili con l'ordinamento colturale effettivo e
potenziale o con il tipo di allevamento su di esso
praticato, è presentata alla regione e, nel caso di aree
ricadenti nel perimetro dei siti di interesse nazionale, al
ministero dell'ambiente un'istanza di conclusione del
procedimento, corredata della documentazione tecnica
inerenti la valutazione di rischio. Entro i 60 giorni
successivi alla presentazione dell'istanza,
l'amministrazione competente può richiedere l'effettuazione
di ulteriori controlli oppure dichiarare concluso il
procedimento» (articolo ItaliaOggi del 27.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Silenzio-assenso
anche per i nullaosta ambientali.
Basta meline
in conferenza di servizi. Le riunioni tra amministrazioni
per l’autorizzazione di opere e interventi sul territorio
dovranno svolgersi in tempi certi, privilegiando lo scambio
di documenti via mail e senza più poteri di veto, magari
azionabili semplicemente ritardando all’infinito il rilascio
di un parere indispensabile a un progetto. Incluse le
valutazioni di impatto ambientale, che ora ricadono nel
perimetro del silenzio-assenso.
La nascita di una conferenza
di servizi semplificata, senza riunioni fisiche, da
concludere entro 60 giorni per gli interventi minori;
l’introduzione del silenzio-assenso per le opere sottoposte
a Via e per i nullaosta paesaggistici, insieme
all’inversione dell’onere di ricorso al Consiglio dei
ministri, in caso di dissenso da parte di un ente di tutela
sono le misure più innovative contenute
nel decreto destinato a rivoluzionare l’assetto delle
conferenze dei servizi, all’interno del pacchetto dei
provvedimenti di riforma della Pa.
Introdotte dalla legge 241/1990 con l’obiettivo di evitare
paralisi burocratiche, le conferenze di servizi si sono
invece rivelate nel tempo la sede principe per bloccare i
piccoli e grandi progetti invisi a questa o a quella
amministrazione, attraverso gli escamotage più vari:
assenze, veti, ritardi, assunzione di provvedimenti in
autotutela capaci di annullare le decisioni già assunte.
Negli ultimi 25 anni si sono succeduti infiniti tentativi di
cambiare le cose accelerando le decisioni, ora si punta alla
stretta finale.
Per raccogliere i pareri e assumere le decisioni sugli
interventi minori andrà in scena una conferenza di servizi
semplificata. Da svolgere in modalità «asincrona». Cioè
senza la presenza fisica dei rappresentanti delle
amministrazioni coinvolte attorno a un tavolo. Ma con
scambio di documenti via mail.
La conferenza deve essere indetta entro cinque giorni dalla
ricezione della domanda e deve concludersi in tempi certi. E
stretti. Ai partecipanti vengono assegnati 60 giorni
(termine perentorio) per fornire il proprio parere. Il
termine sale a 90 giorni per gli enti di tutela ambientale,
paesaggistica o culturale. La mancata pronuncia entro questa
scadenza viene considerata alla stregua di un assenso
incondizionato. Poi ci sono cinque giorni per chiudere, con
una decisione, positiva o negativa, basata sulle «posizioni
prevalenti». Se non ci sono vincoli fanno in tutto 70
giorni, invece dei 105 precedenti, senza contare i 30 giorni
iniziali prima di indire la conferenza, che ora non ci sono
più.
Per progetti più complessi , o in caso di di flop della
conferenza semplificata, scatta la conferenza «simultanea»,
in cui però la presenza contemporanea dei vari
rappresentanti alle riunioni può essere assicurata anche per
via telematica. Anche qui la conclusione del procedimento
deve avvenire entro 60 giorni dalla prima riunione.
Ciascun ente potrà farsi rappresentare da un unico soggetto.
Soprattutto, però, cambierà il modo in cui lo Stato
partecipa alla conferenza. Le amministrazioni non potranno
partecipare in modo autonomo ma avranno un rappresentante
unico. In caso di disaccordo, le altre amministrazioni
potranno formalizzare il loro parere negativo ma non
potranno incidere sulla volontà del rappresentante unico,
salvo richiedere un intervento in autotutela.
Forte semplificazione anche per i progetti da sottoporre a
Via. In questi casi si procede con una sola conferenza di
servizi da svolgere però sempre in forma simultanea. E non
con due procedimenti paralleli come accaduto finora. Ma la
maggiore novità è che anche per le opere sottoposte a Via
d’ora in avanti si applicheranno le condizioni previste
dalla nuova conferenza di servizi. Inclusa la presunzione di
silenzio-assenso nel caso in cui il rappresentante del
ministero dell’ Ambiente non abbia partecipato alla riunione
e non abbia espresso posizione o non abbia motivato il
dissenso. Resta ferma la disciplina per le opere sottoposte
a Via statale e per le opere strategiche della legge
obiettivo
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Moduli e sportelli unificati per segnalazioni più facili.
Si devono
attendere ancora uno o più decreti legislativi per conoscere
esattamente le attività economiche soggette ad una di queste
tre procedure(o regimi amministrativi): Scia, autorizzazione
espressa, silenzio-assenso (ovvero autorizzazione con
possibilità di silenzio-assenso).
Sono tutte attività definite regolamentate perché il loro
avvio è subordinato al possesso di requisiti personali
dell’imprenditore e/o di requisiti per l’accesso al mercato
dell’impresa.
Attività libere
Questa operazione di classificazione produrrà indirettamente
un importantissimo risultato: tutte le attività non comprese
si intendono libere e per il loro avvio basterà una
comunicazione. Ci sarà da definire il destinatario di dove è
ubicata la sede e l’azienda?
La bozza di decreto legislativo di attuazione dell’articolo
5 della legge 124/2015 si limita per ora a fornire maggiori
certezze circa gli adempimenti a carico di chi avvia
un’attività soggetta a Scia.
Alcune delle novità introducono, anche in modo indiretto,
integrazioni e correzioni alle disposizioni sulla Scia
contenute negli articoli 19 e 21 della legge 241/1990 da
ultimo modificata con l’articolo 6 della stessa legge
124/2015.
Certo, dopo ben sette modifiche in cinque anni dei due
articoli chi professionalmente si occupa di Scia si sta
chiedendo se questo sarà l’ultimo ritocco almeno per qualche
anno.
Bando a documenti superflui
Il primo obiettivo del decreto è quello di mettere a
disposizione del cittadino tutte le informazioni necessarie
ed eliminare i documenti superflui.
Sui siti delle Pa destinatarie della Scia dovranno essere
pubblicati i moduli unificati relativi alle attività
economiche, come già attuato per la richiesta dei titoli
edilizi, e come previsto dall’Agenda della semplificazione
(articolo 24 legge 114/2014).
Poiché solo una parte del contenuto dei moduli può essere
unificato a livello nazionale causa diversità normative
nelle Regioni e nei Comuni, viene imposto alle Pa di inserire nel sito, per ciascuna categoria di attività:
-
situazioni, qualità personali e fatti che devono essere
autocertificati da chi compila la Scia;
-
le attestazioni di competenza dei tecnici abilitati;
-
le dichiarazioni di conformità sul possesso dei requisiti
rilasciate a chi si rivolge alle Agenzie per le imprese,
strutture private autorizzate dal Ministero dello Sviluppo
Economico ma oggi presenti in poche province.
Per evitare ingiustificate richieste di dati e documenti da
parte degli enti questi devono specificare per ciascuno le
norme che li prevedono.
Nuovo sportello
Ogni Pa deve indicare il proprio “sportello di
interlocuzione unica” dove saranno trattati anche i
procedimenti “connessi” che competono ad enti diversi da
quello dove è ubicato lo sportello. L’interrogativo è
immediato: quale relazione vi è tra questo sportello (Siu?)
e il Suap?
Viene inoltre regolamentato il caso in cui per avviare una
attività occorre più di una Scia: può essere presentata una
unica Scia che comprende tutte le documentazioni ma ogni Pa
controllerà i documenti di competenza.
L’attività può essere iniziata dalla data di presentazione
della Scia unica. Se al controllo risulta carente dei
requisiti l’ente che ha ricevuto la Scia, se ritiene
possibile regolarizzarla, prescrive le misure al segnalante,
ma sospende l’attività solo se le dichiarazioni sono false o
l’attività incide su interessi sensibili come ambiente e
beni culturali. Con un’agevolazione rispetto alle più rigide
regole in vigore (articolo Il Sole 24 Ore del
26.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO -
VARI: Norme retroattive.
Depenalizzazione per il passato.
Decreto pubblicato in G.U. In vigore dal 6 febbraio.
Sanzione amministrativa retroattiva: si applica anche ai
reati depenalizzati dal decreto legislativo approvato dal
governo il 15.01.2016 e non ancora giudicati.
La norma transitoria del decreto legislativo di
depenalizzazione (dlgs 15.01.2016, n. 8, pubblicato in
G.U. n. 17 del 22.01.2016 insieme con il dlgs 15.01.2016, n. 7 in materia di abrogazione di reati)
prevede, infatti, l'applicabilità delle sanzioni
amministrative alle violazioni anteriormente commesse. E se
il fatto è stato punito con sentenza penale, questa viene
revocata e ne cessano gli effetti.
Per i procedimenti pendenti, quindi, si assisterà a un
passaggio di fascicoli dalle procure e dai tribunali alle
autorità amministrative competenti a irrogare la sanzione.
Ma vediamo il dettaglio dell'operazione.
Si prenda un reato depenalizzato commesso anteriormente alla
(futura) data di entrata in vigore del decreto in commento
(per esempio, una guida senza patente o un omesso versamento
di ritenute da parte del datore di lavoro o un'omessa
verifica della clientela ai fini antiriciclaggio).
Ci si chiede che sorte abbia questo reato.
Può capitare che non sia pendente nessun procedimento penale
oppure che lo stesso sia pendente oppure che sempre il
medesimo procedimento penale sia già stato definito con una
sentenza irrevocabile.
Prima ipotesi: nessun procedimento pendente. In questo caso
il fatto verrà accertato e sanzionato dall'autorità
amministrativa con l'applicazione della sanzione
amministrativa. La norma transitoria del decreto
legislativo, infatti, prevede che le disposizioni che
sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si
applichino anche alle violazioni commesse anteriormente alla
data di entrata in vigore del decreto stesso. Lo stesso vale
l'altro decreto legislativo di trasformazione di reati in
illeciti civili (per esempio, l'ingiuria) approvato dal
governo insieme al decreto in commento.
Attenzione, senza la norma transitoria sarebbe stato un
completo colpo di spugna. Senza la norma transitoria a un
reato depenalizzato non si potrebbe più applicare la
sanzione penale (abolita) e non si potrebbe applicare
retroattivamente la sanzione amministrativa.
Va notato che la legge delega 67/2014 non indicava
espressamente la previsione di una norma transitoria. Il
governo l'ha inserita per evitare vuoti di tutela oltre che
una vistosa disparità di trattamento tra chi ha commesso il
fatto durante la vigenza della norma penale (e destinato,
senza nessuna norma transitoria, a non avere nessuna
sanzione) e chi ha commesso il fatto dopo la
depenalizzazione (e destinatario di una sanzione
amministrativa).
Seconda ipotesi: procedimento pendente già definito, prima
dell'entrata in vigore della depenalizzazione, con sentenza
di condanna o decreto irrevocabili. In questo caso, il
giudice dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto,
dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come
reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Cioè il giudice
dell'esecuzione revoca la condanna e vengono meno gli
effetti penali della stessa. La condanna per un reato
depenalizzato, quindi, non conta più, per esempio, per una
eventuale recidiva, per la sospensione condizionale, per la
concessione di benefici di legge, non è causa ostativa per
eventuali concorsi pubblici, autorizzazioni o licenze ecc..
Terza ipotesi: procedimento pendente presso l'autorità
giudiziaria e non ancora definito. In questo caso i
fascicoli dovranno essere trasmessi (dalle procure o dai
tribunali, a seconda dello stato del procedimenti)
all'autorità amministrativa competente entro 90 giorni. A
meno che non sia già decorso il termine di prescrizione del
reato. A quel punto l'autorità amministrativa (prefettura,
comune, ministeri a seconda della singola normativa) inizia
il procedimento per applicare la sanzione pecuniaria
amministrativa.
C'è, infine, una norma di chiusura sulla quantificazione
della sanzione.
Ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del
decreto legislativo (06.02.2016) non può essere
applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un
importo superiore al massimo della pena originariamente
inflitta per il reato. Si prenda la guida senza patente, che
verrà punita con la sanzione amministrativa fino a 30 mila
euro, ma per i fatti anteriori non si potrà andare oltre i
9.032 euro (attuale articolo 116, comma 15, codice della
strada). Inoltre ai fatti anteriori non si applicano le
sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente
decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti
pene accessorie
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Amministratori, conti di vetro. Sanzionato chi non rende
pubblici i propri patrimoni. RIFORMA MADIA/ Lo prevede lo schema di decreto sulla
trasparenza nella p.a..
Sanzionati gli amministratori locali che non rendono
pubblica la propria situazione patrimoniale. Pubblicazione
degli atti semplificata nei piccoli comuni e negli organi e
collegi professionali. Chiunque avrà diritto di accedere ai
dati detenuti dalla p.a. anche ulteriori rispetto a quelli
da essa pubblicati.
Sono tra le novità dello schema di decreto legislativo
attuativo della legge 124/2015 dedicato alla modifica della
normativa anticorruzione specificamente riguardante la
trasparenza (dlgs 33/2013), approvato il 20 gennaio scorso
dal consiglio dei ministri, che corregge alcuni dei difetti
più evidenti della normativa vigente.
Accesso. In particolare, si amplia il diritto di accesso a
dati e documenti, secondo modalità più realmente aderenti al
freedom of information act: l'accesso civico, non legato a
un interesse collegato direttamente ai dati e ai documenti,
non riguarderà più solo i dati oggetto di pubblicazione
nella sezione «amministrazione trasparente» dei portali
delle varie amministrazioni pubbliche.
Chiunque, infatti, avrà diritto di accedere ai dati detenuti
dalla p.a. anche ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione, purché si rispettino i limiti relativi alla
tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente
rilevanti e la disciplina della privacy.
Il diritto di accesso così ampliato non incontrerà alcuna
limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del
richiedente e le domande non dovranno essere motivate e
trasmesse d'ufficio alla struttura competente. Qualora
l'accesso si riferisca a dati pubblicati su «amministrazione
trasparente» l'istanza può essere altresì presentata al
responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza.
Le p.a. dovranno rispondere non oltre 30 giorni dalla
presentazione dell'istanza, trasmettendo al richiedente i
dati richiesti, ovvero, nel caso in cui l'istanza abbia a
oggetto dati di pubblicazione obbligatoria, pubblicando sul
sito il dato. Decorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta,
questa si intende respinta. L'Autorità nazionale
anticorruzione, sentito il garante per la protezione dei
dati personali nel caso in cui siano coinvolti dati
personali, con propria delibera adottata, previa
consultazione pubblica, in conformità con i principi di
proporzionalità e di semplificazione, può identificare i
dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione
obbligatoria ai sensi della disciplina vigente per i quali
la pubblicazione in forma integrale è sostituita con quella
di informazioni riassuntive, elaborate per aggregazione.
Meno adempimenti. Uno dei problemi maggiormente rilevanti
posti dal dlgs 33/2013, in particolare alle amministrazioni
di più ridotte dimensioni, consiste nell'eccesso di
adempimenti di pubblicazione dei dati.
Il caricamento e l'aggiornamento della sezione
«amministrazione trasparente» richiede davvero troppo tempo
ed energie sottratte allo svolgimento delle concrete
attività.
Il governo ha preso atto di questo e prevede una serie di
correttivi, avvalendosi dell'apporto dell'Anac. Questa,
attraverso il Piano nazionale anticorruzione potrà
introdurre modalità semplificate per i comuni con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti e per gli organi e
collegi professionali.
Non solo: si rivoluziona il contenuto dell'articolo 9 del
dlgs 33/2013 in modo che alle varie p.a. sia risparmiato
l'onere di duplicare l'imputazione dei dati. Laddove,
infatti, esistano già banche dati pubbliche centralizzate
(come, per esempio, PerlaPA per il personale) alle quali gli
enti debbano versare dati coerenti con quelli imposti dal
dlgs 33/2013, basterà che le amministrazioni titolari di
queste banche dati li rendano pubblici perché vi sia
l'adempimento.
Il dlgs attuativo spazza via anche la velleitaria
disposizione contenuta nell'articolo 23 del dlgs 33/2013,
che imponeva di duplicare i contenuti dei provvedimenti
amministrativi.
Dirigenti. La riforma amplia l'obbligo in capo ai dirigenti
pubblici di comunicare gli emolumenti complessivi percepiti
a carico della finanza pubblica, anche per verificare il
rispetto del tetto massimo dei 240 mila euro annui: la p.a.
di appartenenza pubblica sul proprio sito istituzionale
l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun
dirigente.
Sanzioni per gli amministratori. Si modifica il comma 3
dell'articolo 47, che sanziona gli amministratori locali
intenzionati a non rendere pubblica la propria situazione
patrimoniale. La riforma attribuisce all'Anac la competenza
a irrogare le sanzioni.
Dirigenti apicali. Lo schema di decreto legislativo anticipa
la sostituzione dei segretari comunali con i dirigenti
apicali, che vengono espressamente menzionati nel nuovo
testo dell'articolo 1, comma 7, della legge 190/2012,
anch'essa oggetto di alcune modifiche, tendenti ad ampliare
i poteri dell'Anac e la responsabilità dei dirigenti e dei
singoli dipendenti nell'attuazione della disciplina
anticorruzione
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Anticorruzione in mano al dirigente apicale.
Anticorruzione in mano al «dirigente apicale» negli enti
locali. Lo schema di decreto legislativo attuativo della riforma
Madia in tema di trasparenza e anticorruzione anticipa i
tempi dell'abolizione della figura del segretario comunale e
si porta avanti col lavoro.
Si prevede, infatti, la modifica
del testo dell'articolo 1, comma 7, della legge 190/2014 il
cui contenuto novellato sarà il seguente: «L'organo di
indirizzo individua, di norma tra i dirigenti in servizio,
il Responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza, disponendo le eventuali modifiche organizzative
necessarie per assicurare funzioni e poteri idonei per lo
svolgimento dell'incarico con piena autonomia ed
effettività. Negli enti locali, il responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza è
individuato, di norma, nel segretario o nel dirigente
apicale, salva diversa e motivata determinazione».
Le novità del testo sono due.
In primo luogo, si riunisce in
un'unica norma la regolazione della nomina sia del
responsabile della corruzione, sia di quello della
trasparenza, specificando che tale responsabilità coincide
con un incarico unico. Lo schema di decreto legislativo,
allo scopo di non lasciare l'incarico anticorruzione una
semplice onorificenza, di fatto impone alle amministrazioni
di creare strutture amministrative al servizio del
responsabile per rendere effettive le sue competenze.
Resta
il problema dell'autonomia: pur enunciata dalla legge, è
evidente che la provenienza dell'incarico dall'organo di
indirizzo politico inficia di molto i margini di autonomia
del responsabile.
La seconda novità riguarda gli enti
locali: il testo ancora una volta dispone che ex lege (non
occorre alcun provvedimento formale) il responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza è il
segretario, ma fa emergere la new entri del «dirigente
apicale»: cioè quella figura che dovrebbe sostituire i
segretari comunali.
La particolarità consiste nel fatto che
la riforma dell'anticorruzione e trasparenza dovrebbe vedere
la luce definitiva entro maggio-giugno, quando ancora non
dovrebbe nemmeno essere partito l'iter per l'approvazione
del dlgs attuativo della legge 124/2015 relativo alla
riforma della dirigenza, ove si prevede la sostituzione dei
segretari comunali con il dirigente apicale.
Insomma, il governo, tanto per essere chiaro sulla sorte dei
segretari, intende accelerare i tempi e dare da subito
ingresso al dirigente apicale, anche nelle more del
completamento della riforma della dirigenza
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, altri canoni di efficienza.
Per l'ape.
Aggiornate le norme per l'efficienza energetica degli
edifici della regione Lombardia e il rilascio dell'Ape. Tra
le più importanti novità vi è l'esclusione dall'obbligo di
allegazione dell'Ape per i provvedimenti giudiziali relativi
trasferimenti immobiliari conseguenti a procedure esecutive
o concorsuali. Inoltre costituisce un inadempimento del
certificatore l'assenza dell'indicazione degli interventi
migliorativi nell'apposita sezione dell'Ape.
È con il decreto regionale Lombardia n. 224/2016 che viene
chiarita la corretta applicazione, del decreto del
30/07/2015 n. 6480 in alcuni ambiti, per l'efficienza
energetica degli edifici e per il relativo Ape.
L'indicazione degli interventi migliorativi può essere
omessa solo qualora il certificatore dichiarerà, in caso di
edifici di classe A3 e A4, che ulteriori interventi
migliorativi non sarebbero convenienti in termini di
costi/benefici. Il libretto d'impianto dovrà essere unito
all'Ape destinato all'acquirente dell'edificio e non
necessariamente allegato all'atto di compravendita.
La dichiarazione di conformità del certificatore che, con la
nuova veste funge anche da dichiarazione sostitutiva
dell'atto di notorietà con cui il professionista dichiara
che la copia cartacea è conforme al file depositato nel
catasto energetico edifici regionale. Il decreto specifica
più dettagliatamente i requisiti degli impianti di
illuminazione, i requisiti di trasmissione termica dei
serramenti e dell'involucro opaco con isolamento in
intercapedine o dall'interno, in caso di riqualificazione
energetica.
Inoltre contiene le disposizioni normative relative alla
sostituzione del generatore di calore, all'installazione di
pompe di calore di potenza inferiore a 15 kW e di impianti
alimentati a biomassa e all'obbligo di integrazione delle
fonti energetiche rinnovabili. Il decreto contiene anche le
disposizioni a cui attenersi nel caso di ampliamento
volumetrico
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vecchi immobili ancora senza garanzie antirumore.
Nessun obbligo di certificazione dei decibel.
Acustica. Regole e parametri ad hoc soltanto in
sette Regioni.
A distanza di
oltre vent’anni dalla legge sull’inquinamento acustico, il
quadro normativo antirumore è ancora incompleto. Ma non
mancano Regioni e persino singoli Comuni, che in assenza di
regole nazionali, hanno varato leggi che rendono di fatto
obbligatoria la certificazione acustica dell’edificio in
caso di compravendita o di locazione.
La legge 447/1995, con l’articolo 3, comma 1, lettera a), ha
previsto la determinazione dei requisiti acustici passivi
degli edifici attraverso un decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, poi approvato nel 1997. La stessa
legge prevedeva anche un secondo decreto che avrebbe fornito
l’indicazione dei criteri per la progettazione, l’esecuzione
e la ristrutturazione delle costruzioni edilizie ai fini
della tutela dall’inquinamento acustico. Questo secondo
provvedimento non è stato mai promulgato (e difficilmente lo
sarà) per evidenti limiti tecnici operativi a formulare
queste prescrizioni in modo standard.
Ciò nonostante il Dpcm 05.12.1997 è considerato, e numerose
sentenze lo confermano, pienamente cogente e a livello
regionale non vi sono indicazioni di tipo costruttivo.
Finora c’è solo un tentativo del Comune di Bologna, che nel
suo regolamento edilizio in vigore dal 2008, propone alcune
soluzioni di stratigrafie standard che dovrebbero garantire
il rispetto dei limiti (ma il condizionale è d’obbligo
poiché la tecnica di calcolo, in realtà, è molto complessa e
cambia da caso a caso per cui è difficile fornire
indicazioni standard).
I valori limite
Nel decreto sono contenuti limiti differenziati per
tipologia di costruzione: dalle residenze all’albergo, dalla
scuola all’ospedale, dall’ufficio al negozio. Fanno
eccezione gli edifici a destinazione esclusivamente
produttiva (ma se in un capannone produttivo vi è anche solo
un ufficio, quel vano è soggetto ai limiti di legge).
I valori contenuti nel Dpcm sono da applicarsi sia sugli
edifici con autorizzazione concessa a partire dalla entrata
in vigore del decreto (nel febbraio 1998) che sugli edifici
oggetto di ristrutturazione, come ben specificato dal
Consiglio superiore dei lavori pubblici durante l’adunanza
del 26.06.2014.
Il Consiglio ha ribadito che le disposizioni
del Dpcm «devono essere applicate anche in caso di
ristrutturazioni di edifici esistenti che prevedano il
rifacimento anche parziale di impianti tecnologici e/o di
partizioni orizzontali o verticali (solai, coperture, pareti
divisorie, ecc.) e/o delle chiusure esterne dell’edificio
(esclusa la sola tinteggiatura delle facciate), oppure la
suddivisione di unità immobiliari interne all’edificio».
Anche il ministero dell’Ambiente si è espresso in questo
senso (circolare prot. n. 3632/Siar/98 del 01.09.1998).
Le norme regionali
Anche a livello regionale sette Regioni si sono espresse:
Calabria, Marche, Sardegna, Lombardia, Umbria, Friuli
Venezia Giulia e Puglia. In Sardegna, Lombardia e Friuli si
precisa che il progetto deve essere redatto da un «tecnico
in acustica» ai sensi della legge 447/1995; in Sardegna e
Lombardia, oltre a Umbria e Puglia, si specifica che il
decreto del 1997 si applica anche alle ristrutturazioni
(questa è una precisazione ridondante).
Solo in Calabria e nelle Marche, oltre a quanto specificato
in tutte le altre Regioni, si prevede anche l’obbligatorietà
del certificato acustico che attesti i valori di isolamento
in opera (come prevede il Dpcm 05.12.1997) da allegare
all’atto di acquisto o al contratto di locazione.
In più, la certificazione acustica ottenuta mediante
collaudo in opera deve essere ripetuta ogni 10 anni in caso
di locazione o di rivendita (articolo Il Sole 24 Ore del
25.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti, diventano obbligatori i «criteri
ambientali minimi». Gare. Le novità operative con l’entrata
in vigore della legge 221/2015.
Le regole per
la gestione degli appalti nel rispetto dell’ambiente
diventano vincolanti per le amministrazioni aggiudicatrici,
che devono applicare misure specifiche nella definizione dei
capitolati, dei requisiti di partecipazione e dei criteri di
valutazione delle offerte.
La legge 221/2015 codifica le disposizioni che danno
attuazione ai principi del green public procurement, dopo
una lunga fase di sperimentazione avviata con la legge
296/2006 e con i decreti attuativi dei criteri ambientali
minimi (Cam), rafforzata dal 2011 dall’entrata in vigore
dell’articolo 281 del Dpr 207/2010 che ha reso obbligatoria
per le stazioni appaltanti l’analisi dell’impatto ambientale
degli appalti e la loro gestione tenendo conto di soluzioni
per la riduzione di emissioni e rifiuti.
Le nuove norme sono anzitutto (articolo 16) finalizzate a
sostenere il miglioramento qualitativo dell’organizzazione
degli operatori economici in chiave ambientale, premiando il
possesso della certificazione Emas con la riduzione del 30%
della cauzione provvisoria (con un’integrazione delle norme
esistenti nell’articolo 75 del Codice dei contratti che già
prevedevano la riduzione del 50% per il possesso della
certificazione di qualità).
La legge 221/2015 amplia il quadro degli elementi che
possono essere utilizzati nella valutazione delle offerte
analizzate con il metodo dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, stabilito dall’articolo 83 del Codice,
permettendo alle stazioni appaltanti di utilizzare, quali
possibili criteri per la parte tecnico-qualitativa delle
proposte:
a) il possesso di un marchio di qualità ecologica (Ecolabel)
su almeno il 30% dei servizi o beni oggetto della fornitura;
b) soluzioni organizzative o metodologiche che consentano un
uso più efficace delle risorse o lo sviluppo di dinamiche
economiche che promuovano ambiente e occupazione, mediante
riduzione di emissioni inquinanti o contenimento di uso
delle risorse energetiche;
c) soluzioni che definiscano la compensazione delle
emissioni di gas serra.
Le amministrazioni devono specificare nel bando i dati che
devono essere fornite dagli operatori economici per
dimostrare le loro capacità rispetto ai nuovi criteri,
rapportandoli al ciclo di vita dei servizi, delle forniture
o dei lavori.
Ulteriore novità è l’obbligatorio utilizzo dei criteri
ambientali minimi, definiti dal ministero dell’Ambiente:
questi elementi devono essere utilizzati nella definizione
almeno delle specifiche tecniche e prestazionali esplicitate
nel capitolato speciale, potendo l’amministrazione
utilizzarli anche per i requisiti di partecipazione (con
riferimento specifico alla capacità tecnico-professionale) e
per i criteri di valutazione delle offerte per tutti gli
appalti che abbiano ad oggetto elementi disciplinati dagli
stessi Cam. L’obbligo è riferito all’intero dimensionamento
dell’appalto per gli appalti di fornitura di lampade e a
led, di apparecchiature elettroniche per l’ufficio e di
servizi energetici per gli edifici.
L’obbligo è riferito invece ad almeno il 50% del
dimensionamento per gli appalti aventi ad oggetto i servizi
di pulizia, di ristorazione collettiva, di gestione del
verde pubblico e di gestione dei rifiuti urbani, oltre alle
forniture di toner, di carta da fotocopie, di prodotti
tessili e di arredi per l’ufficio (articolo Il Sole 24 Ore del
25.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Trasparenza. Accesso civico, l’interessato può
opporsi in 10 giorni.
L’accesso civico diventa strumento di conoscenza estesa per
i cittadini, ma le amministrazioni devono pubblicare con
modalità di maggior dettaglio molte informazioni e
documenti.
Lo schema di decreto legislativo sulla trasparenza e
sull’anticorruzione amplia la portata dell’attuale quadro
normativo, fornendo tuttavia alcune specificazioni
sull’ambito di applicazione soggettiva del Dlgs 33/2013,
esplicitando tra i soggetti pubblici tenuti gli ordini e i
collegi professionali, le fondazioni e le associazioni
partecipate che abbiano le caratteristiche di organismi di
diritto pubblico, ma sottraendo le società quotate
partecipate dalle Pa.
Lo schema di decreto delinea in capo all’Autorità nazionale
anticorruzione un significativo potere di semplificazione in
ordine agli obblighi di pubblicazione per gli enti locali di
minori dimensioni o, comunque, per amministrazioni pubbliche
con assetto organizzativo limitato.
Le nuove norme introducono una gestione rivoluzionaria
dell’accesso ai documenti e alle informazioni da parte dei
cittadini, con la riformulazione dell’articolo 5 del Dlgs
33/2013, stabilendo che allo scopo di favorire forme diffuse
di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali
e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di
accedere ai dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione in base
al decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di
interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti.
L’esercizio del nuovo accesso civico non è sottoposto ad
alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del
richiedente, il quale deve presentare un’istanza che
identifica chiaramente i dati richiesti, ma che non richiede
motivazione.
L’amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso,
se individua soggetti controinteressati, è tenuta a dar loro
comunicazione e questi possono presentare motivata
opposizione entro 10 giorni.
L’amministrazione deve trasmettere tempestivamente i dati
richiesti o pubblicare il documento per il quale è previsto
un obbligo dal Dlgs 33/2013, ma se non lo fa entro 30 giorni
dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di
diniego esplicito o per silenzio, il richiedente può
presentare ricorso al Tar. L’accesso civico è tuttavia
negato quando la conoscenza dei dati possa recare un
pregiudizio a rilevanti interessi nazionali (sicurezza
pubblica, difesa, eccetera) oppure possa incidere sulla
tutela di uno di particolari interessi privati, tra i quali
spiccano la protezione dei dati personali, la libertà e la
segretezza della corrispondenza, oltre agli interessi
economici e commerciali di una persona fisica o giuridica.
L’accesso civico è contemperato da una serie di limiti, che
le nuove norme esplicitano riformulando l’articolo 7 del
Dlgs 33/2013, mentre permane la disciplina del diritto di
accesso ai documenti stabilita dalla legge 241/1990,
delineandosi una distinzione particolare.
Lo schema di decreto apporta molte modifiche agli obblighi
specifici di pubblicazione di dati e documenti (recependo
anche quelli recentemente introdotti dalla legge di
stabilità 2016 per gli incarichi nelle partecipate), ma
interviene anche sulla legge 190/2012.
Le nuove disposizioni ridelineano il processo formativo del
piano nazionale anticorruzione e stabiliscono per gli enti
locali di minori dimensioni la possibilità di predisporre il
proprio in forma aggregata. In questo quadro il ruolo del
responsabile della prevenzione della corruzione è
rafforzato, riconducendolo nei Comuni alla figura del
segretario o del dirigente apicale (articolo Il Sole 24 Ore del
25.01.2016 -
tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO -
VARI:
Illeciti depenalizzati: fedina pulita e
portafoglio vuoto. Dopo i dlgs
approvati il 15 gennaio, sanzioni salate e procedura
amministrativa o civile.
La depenalizzazione imbocca due strade, che portano la prima
davanti a un funzionario amministrativo e la seconda davanti
al giudice civile. Molti reati cambiano pelle e si
trasformano alcuni in illeciti amministrativi e altri,
invece, in illeciti civili.
La manovra attuata con la riforma approvata dal governo il
15 gennaio scorso è doppia. Da un lato, abbiamo la
depenalizzazione classica con subentro di sanzioni
amministrative (quindi abbiamo sempre una p.a. che punisce,
ma senza intaccare la libertà personale e, comunque, fuori
dal circuito delle aule penali); dall'altro lato assistiamo
a una manovra da gambero: un passo indietro delle autorità
penali, per lasciare (criticamente si potrebbe dire:
abbandonare) il campo e la vittima a farsi le proprie
ragioni in una causa civile per ottenere il risarcimento del
danno, salvo, poi, fare un mezzo passo avanti e incassare (o
tentare di incassare) una aggiuntiva sanzione punitiva,
disposta dal giudice civile a favore dello stato.
I due decreti legislativi (il n. 7 e il n. 8, pubblicati
sulla G.U. n. 17 del 22/01/2016) in commento si possono
considerare da più punti di vista, ma hanno un tratto in
comune: alleggerire il carico di lavoro delle procure e dei
tribunali.
A parte questo e, con un occhio agli effetti della riforma,
il responsabile scansa condanne ed effetti penali, ma, se
viene beccato dalla p.a. (titolata a irrogare la subentrata
sanzione amministrativa) oppure se viene condannato a
risarcire il danno e a pagare l'aggiuntiva sanzione per il
nuovo illecito civile, non è detto che sia un bene, perché
la sanzione amministrativa o l'importo del danno, aumentato
della sanzione civile, rischia di essere pesante sul
portafoglio.
Se però la condotta illecita non emerge (perché la p.a. non
la scopre o perché la vittima non promuove un'azione
civile), per il responsabile sarà un colpo di spugna.
D'altra parte il successo della deterrenza di una reazione
sanzionatoria (penale, amministrativa o civile) dipende
dalla effettività della reazione e cioè dal rapporto tra
illeciti commessi e illeciti sanzionati. Anche per le
sanzioni amministrative e civili, il sistema avrà successo
se riuscirà a reagire (e a dare tutela alla collettività e
alla vittima) in tutte o quasi tutte le volte, che verrà
commesso un illecito. Anzi è proprio questo un argomento a
favore delle riforme: il sistema penale non ce la fa e certi
illeciti rimangono solo sulla carta, la persona offesa non
ne ha alcun beneficio e, anche quando si arriva a una
condanna a pena pecuniaria, lo stato, con spese
sproporzionate per irrogare la sanzione e organizzare la
riscossione, riesce a incassare solo 6/7 euro su 100.
Tanto vale, è la filosofia dei due procedimenti, ottenere
almeno un risultato economico: spendere meno risorse per
indagini e processi penali; tanto vale scommettere sul fatto
che l'autorità amministrativa sarà più efficiente e che il
cittadino abbia voglia e soldi per iniziare una causa
civile, scommettendo ancora una volta sull'efficienza della
giustizia civile.
Certo per misurare l'effettività di una riforma (anzi due)
bisognerà attendere un lasso di tempo per potere computare
un primo bilancio. Nell'immediato, e senza dover aspettare,
ci sono comunque effetti oggettivi. Sono effetti favorevoli
ai responsabili coinvolti in procedimenti penali, che
traggono vantaggio dalla depenalizzazione (è già un
beneficio) e che forse in futuro subiranno una sanzione
amministrativa oppure una causa per danni più sanzione
civile punitiva.
La sanzione (derubricata) viene rinviata e
il responsabile (non solo profitta del rinvio) ma ha già
subito un tornaconto nel fatto che non ci saranno
conseguenze sul piano dell'onorabilità (la fedina penale non
viene toccata: è come prendere una multa per avere
parcheggiato in sosta vietata), non si subiranno indagini e
processi penali. Per i procedimenti pendenti ci sono effetti
sfavorevoli per le vittime: magari avevano la sicurezza che
qualcosa si era mosso o che, addirittura, per esempio, il
procedimento aveva già prodotto una rinvio a giudizio e ora
cade tutto e bisogna, se si vuole ottenere qualcosa,
ricominciare da capo.
C'è, poi, dal lavoro da fare per le procure e i tribunali
penali: bisogna fare il passaggio di consegne all'autorità
amministrativa e comunque chiudere i procedimenti per reati
derubricati in sanzioni civili. È l'ultimo atto da compiere
(per il sistema penale), anche se ci vorrà un bel po' di
tempo, ma lo si farà sapendo che non c'è più un flusso di
procedimenti in entrata.
Nell'immediato, per i reati depenalizzati in illeciti
amministrativi, le autorità amministrative dovranno gestire
(dedicando risorse e personale) il flusso in entrata sia
delle pendenze di procure e tribunali sia organizzare
l'accertamento e la repressione di fatti commessi dopo la
riforma.
Sempre nell'immediato, se la riforma dei reati trasformati
in illecito civile avesse followers, ci sarebbe da lavorare
per chi ha un ruolo nella soluzione delle controversie
civili (avvocati, tribunali civili, organismi di mediazione,
ecc.).
Come saranno puniti i reati. Le nuove sanzioni
amministrative si articolano in tre fasce:
- da 5.000 a 10.000 euro per i reati puniti con la multa o
l'ammenda non superiore nel massimo a euro 5.000;
- da 5.000 a 30.000 euro per i reati puniti con la multa o
l'ammenda non superiore nel massimo a 20.000 euro;
- da 10.000 a 50.000 euro per i reati puniti con la multa o
l'ammenda superiore nel massimo a 20.000 euro.
In genere si tratta di sanzioni più alte delle precedenti
penali. Tuttavia, ai fatti commessi prima della data di
entrata in vigore del dlgs non può essere applicata una
sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore
al massimo della pena originariamente inflitta per il reato.
Il procedimento è regolato dalla legge del 1981 n. 689, e
quindi la sanzione viene irrogata con una ordinanza
ingiunzione. Per i ricorsi contro le ordinanze si applica il
dlgs 150/2011.
I procedimenti pendenti. Le sanzioni amministrative sono
retroattive: si applicano anche ai reati commessi prima
dell'entrata in vigore del dlgs e non ancora giudicati con
sentenza definitiva. Tre le ipotesi. La prima è che non sia
pendente nessun procedimento. In questo caso il fatto verrà
accertato e sanzionato dall'autorità amministrativa con
l'applicazione della sanzione amministrativa.
Se il procedimento pendente è già stato definito, prima
dell'entrata in vigore della depenalizzazione, con sentenza
di condanna o decreto irrevocabili, il giudice
dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando
che il fatto non è previsto dalla legge come reato e vengono
meno gli effetti penali della stessa.
Se, invece, il procedimento è pendente presso l'autorità
giudiziaria e non ancora definito, i fascicoli dovranno
essere trasmessi all'autorità amministrativa competente
entro 90 giorni. A meno che non sia già decorso il termine
di prescrizione del reato. A quel punto l'autorità
amministrativa inizia il procedimento per applicare la
sanzione pecuniaria amministrativa.
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Derubricazione ma non per tutti i reati.
Sono depenalizzati e scontano una sanzione amministrativa
tutte le violazioni (attualmente reato) per le quali è
prevista la sola pena della multa o dell'ammenda. Non sono
depenalizzati i reati previsti dal codice penale, tranne
alcune eccezioni e quelli previsti in alcune leggi speciali,
che riguardano settori particolarmente delicati: edilizia e
urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, alimenti e
bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza
pubblica, giochi d'azzardo e scommesse, armi ed esplosivi,
elezioni e finanziamento ai partiti, proprietà intellettuale
e industriale. Del codice penale sono depenalizzati gli atti
osceni (527), pubblicazioni e spettacoli osceni (528),
rifiuto di prestazione d'opera in caso di tumulto (652),
abuso della credulità popolare (668), turpiloquio (726).
Anche i reati in materia di immigrazione, allo stato, non
sono depenalizzati.
Sono depenalizzati tre reati in materia antiriciclaggio
previsti dall'art. 55 dlgs 231/2007: contravvenzioni agli
obblighi di identificazione della clientela da parte di
intermediari, professionisti e revisori, l'omessa o tardiva
o incompleta registrazione di tutta la documentazione e di
tutte le informazioni, per i 10 anni previsti dalla legge,
sulle operazioni (art. 36)e le omesse comunicazioni di cui
sono obbligati agenti di cambio, ai mediatori creditizi e
agli agenti in attività finanziaria (art. 36).
Sono
depenalizzati l'impedito controllo dell'attività di
revisione legale, prevista dall'art. 29 dlgs 39/2010 e
l'omesso versamento delle ritenute da parte del datore di
lavoro, per un importo non superiore a euro 10.000 annui.
Più sanzioni amministrative anche per il noleggio di falsi
audio, video (in violazione del diritto d'autore) e il reato
di guida senza patente (art. 116, comma 15, codice della
strada (dlgs 285/92).
Altre fattispecie depenalizzate
riguardano l'installazione o l'esercizio di impianti di
distribuzione automatica di carburanti per uso di
autotrazione in mancanza di concessione e l'inosservanza
delle prescrizioni dell'autorizzazione per la coltivazione
di piante da cui estrarre sostanze stupefacenti.
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Ristoro al cittadino e allo stato.
Se la vittima ottiene il risarcimento in sede
civile, il giudice tiene conto anche dell'Erario.
Illecito civile con strascico punitivo dello stato. Il
decreto legislativo sulla abrogazione di reati e
introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili,
approvato dal governo il 15.01.2016, introduce un istituto
ibrido.
C'è un fatto, che è valutato negativamente dalla legge, ma
il rimprovero al trasgressore scatta solo se il privato
prende l'iniziativa di chiedere i danni in un processo
civile. E fin qui nulla di diverso da quanti capita in una
normale richiesta danno. Per i reati depenalizzati, c'è una
coda. Se arriva una condanna al risarcimento del danno,
allora lo stato torna in pista: il giudice civile, che ha
liquidato il danno, deve anche ricordarsi dell'Erario e
condannare il responsabile a pagare una sanzione a favore
delle casse pubbliche.
In sostanza la vittima è padrona di decidere se fare o non
fare la causa al trasgressore, cosicché l'interesse pubblico
a sanzionare una certa condotta è subordinato all'iniziativa
del privato.
Con la conseguenza che se il privato non fa nulla, allo
stesso modo lo stato non muoverà un dito.
La sorte dei reati depenalizzati si valuterà a consuntivo.
Da subito, però, la vittima perderà la possibilità di
attivare una tutela pubblica (quella penale): nel confronto
con l'aggressore la vittima non potrà contare sul fatto che
lo stato, attivato ad esempio da una querela, disponga dei
mezzi e della forza pubblica a sua difesa. Anzi è la persona
offesa che farà da apripista alla tutela di un interesse
pubblico.
Quindi l'interesse offeso dal reato depenalizzato è pubblico
(tanto che la sanzione è incamerata dallo stato), ma non a
tal punto da giustificare l'utilizzo della magistratura
penale per le indagini e la repressione. Vediamo a quali
reati si applica questo cambio dei connotati.
Un primo gruppo di illeciti è punito con la sanzione
pecuniaria civile da 100 a 8.000 euro (che si aggiunge al
risarcimento del danno).
Si tratta dell'ingiuria, anche con il mezzo informatico o
telematico: la commette chi offende l'onore o il decoro di
una persona presente, o mediante comunicazione telegrafica,
telefonica, informatica o telematica, o con scritti o
disegni, diretti alla persona offesa. Si tratta anche della
sottrazione di cosa comune, commessa da un comproprietario,
socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un
profitto, si impossessa della cosa comune sottraendola a chi
la detiene, salvo che il fatto sia commesso su cose
fungibili e il valore di esse non ecceda la quota spettante
al suo autore. Di questo primo gruppo fanno anche parte il
danneggiamento di cose mobili o immobili e l'appropriazione
di cose smarrite o ricevute per errore o caso fortuito.
Un secondo gruppo di illeciti civili è punito con una più
grave sanzione pecuniaria, da 200 a 12.000 euro. Si tratta
di falsità nelle scritture private, dell'abuso di un foglio
firmato in bianco, della distruzione di una scrittura
privata vera, dell'ingiuria, mediante nell'attribuzione di
un fatto determinato o commessa in presenza di più persone.
Gli illeciti di falso nelle scritture private saranno
sanzionati anche quando riguardano un documento informatico
privato con efficacia probatoria.
Applicazione.
Le nuove disposizioni sulle sanzioni pecuniarie civili del
decreto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente
alla data della sua entrata in vigore, salvo che il
procedimento penale sia stato definito con sentenza o con
decreto divenuti irrevocabili.
Così il decreto legislativo, che però apre molti problemi
pratici con riferimento alle violazioni commesse
anteriormente alla entrata in vigore del decreto legislativo
in commento. Il decreto non chiarisce le modalità attraverso
le quali il giudizio penale in corso sia dichiarato estinto
e, se del caso, convertito in un procedimento civile per il
risarcimento e le sanzioni civili. Potrebbe infine essere
disciplinata anche l'ipotesi residuale di giudizi civili per
azioni risarcitorie in corso, riferite a reati già definiti
con sentenza irrevocabile.
Si aggiunge, però, che, i problemi della norma transitoria
riguardano le sole sanzioni da pagare allo stato. Nei limiti
del termine di prescrizione, l'interessato potrà sempre
iniziare una causa civile per ottenere il risarcimento del
danno, a prescindere dal fatto che possano o meno applicarsi
le sanzioni pecuniarie civili.
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Per la sanzione pecuniaria civile non è
ammessa copertura assicurativa.
Le sanzioni pecuniarie civili saranno applicate dal giudice
competente a conoscere dell'azione di risarcimento del
danno. Il giudice deciderà, d'ufficio, sull'applicazione
della sanzione al termine del giudizio, se accoglierà la
domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa.
I
lavori preparatori ricordano che l'azione di risarcimento
può essere accolta anche nel caso in cui la condotta sia
colposa: in tale ipotesi non è applicabile la sanzione
punitiva civile. La sanzione pecuniaria civile non può
essere applicata nemmeno quando il processo è iniziato senza
che si abbia la certezza che il responsabile abbia avuto
effettiva conoscenza del procedimento.
Al procedimento, anche ai fini della irrogazione della
sanzione pecuniaria civile, si applicano le disposizioni del
codice di procedura civile, in quanto compatibili. Questo
porterà a qualche problema applicativo, ad esempio per il
regime delle prove.
Nel giudizio civile il giudice può dare ragione a una parte
se l'altra non contesta i fatti o su basi presuntive: ci si
chiede se questo sarà sufficiente anche a giustificare una
sanzione pubblicistica (sostitutiva di quella penale) e
forse meritevole di un più alto grado di garanzie per
l'incolpato.
Cosa cambia. Rispetto alla normativa mandata in soffitta
cambiano molte cose. In particolare prima si poteva andare
dalla polizia e sporgere querela e, poi, chiedere i danni
nel procedimento penale. Venendo a mancare il canale della
tutela penale, la vittima non può più sporgere querela o
denuncia, ma deve iniziare una causa civile. Nella causa
civile dovrà dare prova del danno e dovrà provare i fatti
posti a base della domanda.
Se il fatto è di poco conto, magari la persona offesa sarà
portata a lasciar perdere, disincentivata da costi e tempi
della giustizia civile.
Se così sarà il responsabile la farà franca.
A chi vanno i soldi. Mettiamo che il privato si attivi e
che, per un fatto doloso, si arriva alla condanna al
risarcimento del danno e al pagamento della sanzione
pecuniaria.
I soldi della sanzione civile vanno all'Erario pubblico. La
relazione illustrativa riferisce che il governo, tra le
diverse opzioni possibili (destinazione dei proventi allo
stato, destinazione dei proventi alla persona offesa
dall'illecito, destinazione dei proventi in parte allo stato
e in parte alla persona offesa), ha optato per la
destinazione pubblicistica, in considerazione della funzione
generale preventiva e compensative a sottesa alla minaccia
della sanzione pecuniaria civile nonché della vocazione
pubblicistica di quest'ultima.
Sarà un decreto del ministro della giustizia da emanarsi
entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto
legislativo a stabilire termini e modalità per il pagamento
della sanzione pecuniaria civile.
Il giudice civile potrà disporre, in relazione alle
condizioni economiche del condannato, che il pagamento della
sanzione pecuniaria civile sia effettuato in rate mensili
(non inferiori a 50 euro) da due a otto. In ogni caso, il
condannato può estinguere la sanzione civile pecuniaria in
una unica soluzione in qualsiasi momento.
Per il pagamento della sanzione pecuniaria civile non è
ammessa la copertura assicurativa. Anche se nei dossier
parlamentari, relativi ai lavori preparatori, si osserva che
non sono previste misure sanzionatorie per chi contravvenga
a tale divieto, né a carico dei singoli né a carico di
assicurazioni. L'obbligo di pagamento delle sanzioni
punitive civile, al contrario di quello al risarcimento del
danno, non si trasmette agli eredi.
Chi paga. Obbligato a pagare allo stato la sanzione
pecuniaria è la persona condannata al risarcimento del danno
per fatto doloso.
Se il fatto è commesso da più persone, ciascuna di esse è
obbligata a pagare la sanzione pecuniaria civile, che non si
suddivide.
Quanto si paga. La forbice è molto ampia. Per un gruppo di
illeciti (ingiuria, sottrazioni di cose, danneggiamenti) si
va da 100 a 8 mila euro. Per i fatti relativi alle scritture
private false, all'ingiuria aggravata si va da 200 euro a 12
mila euro.
Il giudice avrà un ampio potere discrezionale, ma dovrà
attenersi ad alcuni parametri generali. Dovrà tenere conto
di: gravità della violazione; reiterazione dell'illecito;
arricchimento del soggetto responsabile; opera svolta
dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle
conseguenze dell'illecito; personalità dell'agente;
condizioni economiche dell'agente.
Si ha reiterazione quando l'illecito civile sia compiuto
entro quattro anni dalla commissione di un'altra violazione
sottoposta a sanzione pecuniaria civile, che sia della
stessa indole e che sia stata accertata con provvedimento
esecutivo.
Per poter contestare la reiterazione si consulterà (una
volta varato) registro automatizzato in cui siano iscritti i
provvedimenti di applicazione delle sanzioni pecuniarie
civile: sul punto si attende un decreto del ministro della
giustizia
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
False presenze, la flagranza legittima il
licenziamento. Le novità contro i
«furbetti» negli enti pubblici al test dello Statuto dei
lavoratori.
Le nuove norme appena varate per combattere i «furbetti del
cartellino» potrebbero essere vanificate dallo Statuto dei
lavoratori, laddove la fragranza di reato sarà scoperta con
l'utilizzo di sistemi di video sorveglianza il cui utilizzo
è disciplinato dall'articolo 4 dello Statuto, recentemente
riscritto dal Jobs act.
Partiamo dai provvedimenti approvati. Con uno degli schemi
di decreto legislativo per la riforma della p.a., il governo
interviene direttamente sul procedimento disciplinare
applicabile al caso della «falsa attestazione della presenza
in servizio», meglio nota alle cronache come i «furbetti del
cartellino». Cos'è cambiato rispetto all'attuale regime, che
peraltro resta in vigore per tutte la altre fattispecie
rilevanti a livello disciplinare? Molto. Modificando l'art.
55 del dlgs 30.03.2001 n. 165 il procedimento disciplinare
definisce l'iter da seguire per giungere al licenziamento
del dipendente colto in flagranza.
I punti cardine del provvedimento sono diversi. Eccoli nello
specifico. In primo luogo, risponderanno disciplinarmente
oltre all'autore del comportamento illecito anche coloro che
hanno agevolato con condotte omissive o attive la
perpetuazione della violazione. Una volta accertata la
violazione, il responsabile della struttura ha l'obbligo di
sospendere il lavoratore entro le 48 ore successive.
L'eventuale vizio «formale» consistente nel mancato rispetto
del termine non comporta la decadenza dell'azione
disciplinare. Vi sarà invece, la responsabilità, anche
disciplinare, del dipendente che ha cagionato tale vizio
procedurale.
Il procedimento disciplinare dovrà esaurirsi nel termine dei
30 giorni. Laddove vi siano i presupposti per il
riconoscimento di danni ulteriori, si potrà procedere alla
deduzione di essi e successivamente all'azione di
responsabilità nei confronti dell'ex dipendente che dovrà
rimborsare allo Stato i danni ulteriori, come la reputazione
e l'immagine derivanti dalla sua condotta illecita. Viene
introdotta l'omissione di atti d'ufficio: il responsabile di
servizio competente che non procede ove necessario al
procedimento disciplinare nei confronti del dipendente colto
in fragranza, sarà responsabile del reato di «omissione di
atti d'ufficio».
Per la fattispecie di «falsa attestazione della presenza in
servizio» accertata «in flagranza» ovvero «mediante
strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o
della presenza», vi sarà una procedura più snella, più
veloce, obbligatoria, foriera di responsabilità anche
risarcitoria, e ciò anche per coloro che abbiano agevolato
con la loro condotta attiva od omissiva, la perpetuazione
del comportamento fraudolento.
Ci saranno sicuramente temi giuridici da affrontare prima di
poterne apprezzare gli effetti e le tenute della nuova
norma: l'introduzione del concetto «penalistico» della
flagranza, la fruibilità delle registrazioni come prove
processuali e altro ancora.
Se da un punto di vista dell'efficacia giuridica dovremo
aspettare gli esiti degli eventuali contenziosi, possiamo
comunque affermare che sotto il profilo della deterrenza, lo
schema di decreto ha certamente un efficace impatto.
L'introduzione dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare,
unitamente alla denuncia dei fatti al pubblico ministero per
l'esercizio della relativa azione penale e la segnalazione
alla Corte dei conti per l'eventuale azione di
responsabilità per danni all'immagine della pubblica
amministrazione, hanno decisamente il loro peso.
E ancora, è stata introdotta una norma in assenza della
quale vi sarebbe stata la vanificazione dell'intero impianto
normativo: la previsione dell'esonero dalla responsabilità
erariale del dirigente in caso di annullamento del
licenziamento da parte del giudice adito dal dipendente.
In tal senso, infatti, non si può nascondere il fatto che
gran parte dei procedimenti disciplinari nella pubblica
amministrazione non sono partiti o non si sono conclusi con
sanzioni proprio perché i dirigenti o i responsabili del
servizio temevamo di essere sottoposti al giudizio della
Corte dei conti per i danni conseguenti ad un giudizio di
illegittimità del licenziamento.
Questo tema è strettamente collegato al più ampio dibattito
circa l'applicazione del rinnovato art. 18 dello Statuto dei
lavoratori e delle tutele crescenti anche nell'ambito della
pubblica amministrazione e, più in generale al dibattito
circa la «certezza» del diritto e, soprattutto, alla
certezza della «pena».
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Modalità di controllo scriminante.
Il meccanismo attraverso il quale si giunge ad accertare il
comportamento illecito del dipendente, alla luce delle norme
attuali, diventa una discriminante fondamentale per
l'efficacia dei provvedimenti appena approvati.
La formulazione della norma introduce il concetto di
flagranza, principio di derivazione penalistica ed afferente
alla perpetuazione di reati.
Chiarito che la fattispecie tipica di flagranza si realizza
allorquando il dipendente viene colto in modo diretto e
attuale nell'atto di violare la normativa, il tema si deve
spostare alla verifica da «remoto».
Tale verifica, come sappiamo, avviene attraverso l'utilizzo
normalmente di sistemi di video sorveglianza il cui utilizzo
è disciplinato dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori che,
peraltro, è stato recentemente ritrascritto ad opera di uno
dei decreti del Jobs act.
Ed è proprio in questa materia che potremmo avere,
nonostante tutto, ciò che è stato detto delle risultanze
processuali e giudiziali di segno opposto rispetto alla
necessità dell'allontanamento dei «furbetti».
Non sarebbe il primo caso che, nonostante amplia
documentazione mediatica e mediaticamente spesa circa
l'evidente comportamento illecito di lavoratori (esempio:
lavoratori che rubano dalle valigie dei passeggeri,
lavoratori che timbrano e se ne vanno, lavoratori che
durante la malattia vanno a fare corse e maratone, e così
via), la verità processuale non consente la dichiarazione di
legittimità del licenziamento.
Ciò perché, ad esempio, le prove raccolte non possono
trovare ingresso all'interno del processo magari perché
raccolte in violazione della normativa vigente.
Strettamente collegato a tale aspetto vi è poi la
considerazione di natura organizzativa, gestionale ed
economica circa i costi derivanti dalla applicazione di
controlli come quelli del «caso di Sanremo».
Questo esempio pone in luce come il tempo necessario a
definire il procedimento disciplinare sia in realtà quasi
irrilevante rispetto ai due anni che l'autorità giudiziaria
ha impiegato per raccogliere le informazioni: non vi è chi
non possa vedere lo squilibrio e l'insostenibilità di un
simile sistema.
Allora il tema passa dalla velocità o meno del procedimento
alla semplificazione delle modalità di reperimento delle
informazioni volte ad accertare il compimento di atti
illeciti da parte dei lavoratori sul luogo di lavoro.
In questo tema entrano in gioco i sindacati e la volontà
vera e reale di tentare di arginare tali fenomeni. Sotto
questo profilo, ad avviso di chi scrive, una differenza tra
«pubblico» e «privato» c'è: i dipendenti della
pubblica amministrazione sono pagati con denaro pubblico e
pertanto forse una qualche eccezione anche dal punto di
vista del «controllo della prestazione» si potrebbe
immaginare
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
TRIBUTI: Imu,
agevolazioni su misura. Riduzioni per immobili in comodato e
canone concordato. Le misure della
legge di Stabilità. Vincoli per i comuni sugli aumenti delle
tariffe.
I titolari degli immobili dati in comodato d'uso gratuito a
parenti in linea retta destinati ad abitazione principale
pagano Imu e Tasi in misura ridotta.
L'articolo 1 della legge di Stabilità 2016 (208/2015)
abolisce il potere di assimilazione dei comuni e prevede una
riduzione del 50% della base imponibile. Trattamento
agevolato anche per gli immobili locati a canone concordato,
per i quali è concessa una riduzione per entrambi i tributi
del 25%.
Mani legate invece per i comuni, ai quali viene
sottratto per il 2016 il potere di aumentare aliquote e a
tariffe limitatamente alle entrate tributarie, con l'unica
eccezione rappresentata dalla tassa rifiuti. Non sono
soggetti a questo vincolo gli enti che sono in stato di predissesto o dissesto.
Comodato gratuito.
I fabbricati dati in comodato a parenti in linea retta entro
il primo grado (padre/figlio) non possono più essere
assimilati con regolamento comunale all'abitazione
principale. È stato infatti abrogato il comma 2
dell'articolo 13 del dl 201/2011, laddove prevedeva che le
amministrazioni comunali potessero assimilare alle prime
case le unità immobiliari concesse in comodato gratuito dal
titolare ai parenti in linea retta entro il primo grado.
L'agevolazione, però, operava limitatamente alla quota di
rendita risultante in catasto non eccedente il valore di 500
euro o se il comodatario faceva parte di un nucleo familiare
con un Isee non superiore a 15 mila euro annui.
L'articolo 1, comma 10, della legge di Stabilità, dunque,
sottrae ai comuni il potere regolamentare di assimilare i
suddetti immobili alle prime case e introduce una nuova
tipologia di agevolazione che produce effetti sia per la
Tasi sia per l'Imu. I beneficiari possono fruire di una
riduzione della base imponibile Imu, che è la stessa
dell'imposta sui servizi indivisibili, nella misura del 50%,
purché sussistano le condizioni richieste dalla norma. Nello
specifico, il comodante deve avere la residenza anagrafica e
la dimora nel comune in cui è ubicato l'immobile concesso in
comodato. Oltre all'immobile concesso in comodato, può
essere titolare di un altro immobile nello stesso comune,
che deve essere utilizzato come propria abitazione
principale, purché non si tratti di un fabbricato di pregio,
classificato nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9
(immobili di lusso, ville e castelli). Quest'ultimo
requisito è imposto anche per l'unità immobiliare data in
comodato. Dalla formulazione letterale della norma emerge
che i vincoli sono molto stringenti.
Si discute in questi
giorni sul limite di legge che porta a escludere il
beneficio qualora il comodante possieda un altro immobile o
comunque una quota di possesso e viene auspicato un
intervento ministeriale per superare questa previsione. In
realtà la disposizione, pur essendo quantomeno discutibile,
è piuttosto chiara e non è consentito andare oltre il suo
tenore letterale. Le disposizioni di legge che prevedono
agevolazioni, secondo l'insegnamento della Cassazione, sono
di stretta interpretazione. Quindi, neppure al Ministero
dell'economia è consentito fornire interpretazioni estensive
o arbitrarie. Il possesso di altri immobili, e in questa
nozione rientrano non solo i fabbricati, ma anche le aree
edificabili e i terreni agricoli, al di là dell'uso cui sono
destinati, anche in presenza di una piccola quota di
possesso (per esempio, il 10% di un'area edificabile) è di
impedimento a potere godere del trattamento agevolato.
Il comodante, inoltre, è tenuto a indicare nella
dichiarazione Imu il possesso dei requisiti anche in capo al
comodatario e deve registrare il contratto.
Francamente questo adempimento risulta eccessivo. Sarebbe
stato sufficiente richiedere una scrittura privata
autenticata, per assicurare la certezza della data di
decorrenza del contratto e, per l'effetto, dell'agevolazione
fiscale. La registrazione del contratto di comodato, tra
l'altro, pone a carico del contribuente degli oneri.
Infatti, il titolare dell'immobile è obbligato a versare al
fisco l'imposta fissa di registro che ammonta a 200 euro.
Immobili a canone concordato.
Trattamento agevolato anche per gli immobili locati a canone
concordato. I commi 53 e 54 della legge di Stabilità
dispongono uno sconto del 25% sia per l'Imu che per la Tasi.
Entrambe le disposizioni citate richiamano la legge
431/1998, che contiene la disciplina delle locazioni e del
rilascio degli immobili adibiti a uso abitativo. A
prescindere dal fatto che i comuni prevedano per questi
fabbricati un'aliquota ordinaria o agevolata, una volta
calcolate le imposte, va versato solo il 75% del loro
ammontare.
Aliquote e tariffe 2016.
L'articolo 1, comma 26, della legge di Stabilità 2016
(208/2015) non consente di introdurre nuovi tributi, per
esempio l'imposta di soggiorno o l'addizionale comunale
Irpef, se già non istituiti con regolamento comunale negli
anni precedenti. È previsto il blocco dei tributi, che
impedisce aumenti di aliquote e tariffe e delle addizionali
per il 2016, a prescindere dal momento in cui siano state
adottate le relative delibere. Non rientra nel blocco solo
la Tari, il cui gettito serve a coprire integralmente il
costo del servizio di smaltimento rifiuti. Possono
deliberare gli aumenti di aliquote e tariffe solo gli enti
locali che deliberato il predissesto o il dissesto.
In ordine agli effetti del blocco, in passato si è espressa
la Corte dei conti, sostenendo che è preclusa, per
l'appunto, anche l'istituzione di nuovi tributi (imposta di
scopo, imposta di soggiorno, imposta di sbarco, addizionale
Irpef). La ratio legis è quella di impedire l'introduzione
di nuovi balzelli per evitare un aumento dell'imposizione a
livello locale. Peraltro, non solo è impossibile ritoccare
in aumento aliquote o tariffe, ma è anche escluso che
possano essere aboliti benefici già deliberati dagli enti
(riduzioni di aliquote, detrazioni), che comunque
inciderebbero sul carico fiscale e darebbero luogo a un
innalzamento della tassazione.
Questi vincoli, però, non producono effetti per le entrate
che hanno natura patrimoniale o extratributaria. Al
riguardo, dubbi e incertezze sono emerse sulle entrate che
devono sottostare al divieto imposto dalla legge e questo
dipende anche dalla loro controversa natura. Tuttavia, va
ricordato che il canone per l'occupazione di spazi e aree
pubbliche (Cosap) ha natura patrimoniale. In questo senso si
è espressa la Corte costituzionale con la sentenza 64/2008.
Sono entrate patrimoniali anche il canone idrico e il canone
depurazione.
Non è ammesso l'aumento delle tariffe, invece,
per il canone installazione mezzi pubblicitari (Cimp) che,
nonostante la trasformazione da imposta a canone
eventualmente operata dall'amministrazione comunale,
mantiene la sua natura tributaria. La qualificazione
giuridica di entrata fiscale è stata riconosciuta al Cimp
sempre dalla Consulta. Soggiace al blocco anche il diritto
sulle pubbliche affissioni
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti,
autocompost allargato. Attività estesa ai residui di
provenienza non domestica. In vigore
dal 02.02.2016 le nuove eco-regole previste dalla legge
221/2015.
Dal 02.02.2016 entrano a far parte dell'Ordinamento
giuridico le attese e nuove norme ambientali previste
dall'oramai noto «Green Economy» in materia, tra le altre,
di gestione dei rifiuti, tutela delle acque, appalti
pubblici verdi.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 18.01.2016
(n. 13) della legge 28.12.2015 n. 221 recante «Disposizioni
in materia ambientale per promuovere misure di green economy
e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali»
è infatti scattato il periodo di vacatio legis che
porterà all'entrata in vigore delle nuove eco-regole alla
suddetta data, sebbene l'effettiva efficacia di alcune norme
in materia di rifiuti potrebbe slittare al 2017.
Gestione dei rifiuti.
Le novità interessano il tracciamento dei residui, la
gestione di particolari categorie di residui e la conduzione
di alcune operazioni (si veda l'anticipazione su ItaliaOggi
Sette del 04/01/2016). Tra le norme in materia di
tracciamento che appaiono svolgere la loro efficacia fin
dall'entrata in vigore del «Green Economy» vi sono
quelle semplificative (assolvimento obblighi di tenuta
registri, Mud e Sistri tramite conservazione formulari di
trasporto) che attraverso la rivisitazione del dl 201/2011
vengono confermate (alla luce della nuova disciplina su
tracciamento telematico) per il comparto benessere ed
allargate (dal punto di vista oggettivo) a tutti i rifiuti
pericolosi e (da quello soggettivo) agli imprenditori
agricoli.
Meno evidente è invece il termine di efficacia delle nuove
regole, parimenti semplificative, per la tenuta dei
formulari di trasporto da parte delle imprese agricole e per
quella dei registri di carico/scarico da parte dei
manutentori d'impianti idrici che con la novella del dlgs
152/2006 sono delegabili a terzi.
La nuova legge modifica infatti sul punto gli articoli 190 e
193 del dlgs 152/2006, senza tuttavia specificare quale
delle loro ultime due versioni, ossia se quella precedente
alla riformulazione effettuatane dal dlgs 205/2010 (da
osservare, in base al c.d. «regime transitorio Sistri»,
fino al prossimo 31.12.2016) oppure quella riscritta da
quest'ultimo (efficace solo a partire dal 01.01.2017, in
virtù delle stesse norme transitorie).
Nel silenzio del Legislatore, salvi suoi successivi
interventi di chiarimento e/o interpretazione, il principio
della successione di leggi nel tempo appare suggerire che la
novella apportata dal Green economy incide sulla versione
degli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 come modificati (ratione
temporis) dal suddetto dlgs 205/2010 (in vigore già dal
31.10.2013) ma la cui efficacia è stata come accennato
congelata (ad opera del dl 210/2015, c.d. «Milleproroghe
2016») fino al 31.12.2016.
Stessa considerazione sembra poter essere effettuata sulla
stretta operata dal Green economy in relazione alla gestione
dei rifiuti metallici ferrosi e non ferrosi, che con la
modifica dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 (anch'esso
modificato dal citato dlgs 205/2010, con parallelo
slittamento di efficacia) dovrà essere dai produttori essere
affidata unicamente a professionisti.
Efficacia contestuale all'entrata in vigore del Green
Economy appare invece investire le disposizioni in materia
di terre e rocce da scavo (che non riguarderanno i materiali
lapidei e litolidi provenienti da attività dell'industria
estrattiva) e le mini sanzioni inserite nell'articolo 255
del dlgs 152/2006 per l'abbandono di «piccolissimi»
rifiuti (quali i prodotti da fumo, scontrini, fazzoletti di
carta, gomme da masticare) sul suolo, nelle acque e negli
scarichi.
Efficaci sempre dal febbraio 2016 saranno le disposizioni
sull'allargamento dell'autocompostaggio ai residui di
provenienza non domestica (con parallela riduzione, come per
l'utenza domestica, della tariffa rifiuti) e quelle
semplificatorie sul compostaggio effettuato da terzi, nonché
quelle che (novellando il dlgs 36/2003) riformulano la
disciplina sul conferimento in discarica di rifiuti (con una
stretta sulle deroghe all'obbligo di preventivo trattamento
e l'abolizione definitivo del divieto di avviare a tale
smaltimento rifiuti con «Pci» superiore a 13mila kJ/kg).
Sempre dall'entrata in vigore del Green Economy il tributo
speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi
(cd. «eco-tassa») previsto dalla legge 549/1995
(recante norme di razionalizzazione delle finanza pubblica)
sarà esteso ai rifiuti inviati agli impianti di
incenerimento senza recupero energetico.
Efficacia dal 02.02.2016 anche per le norme che consentono
il riutilizzo come ammendanti e fertilizzanti dei rifiuti in
plastica compostabile certificata Uni En 13432:2002,
compresi i prodotti sanitari assorbenti non provenienti da
ospedali e assimilati, previo (se necessario) processo di
sanificazione novità che arrivano con la modifica del dlgs
75/2010 nella parte in cui indica i rifiuti urbani
impiegabili previo trattamento come materiali da aggiungere
al suolo per conservarne o migliorarne le caratteristiche.
Tutela delle acque.
Mediante la modifica dell'articolo 101 del dlgs 152/2006 il
Green Economy assimila fin da subito alle acque reflue
domestiche ai fini dello scarico in pubblica fognatura
quelle di vegetazione da frantoi oleari, purché generate da
olive prodotte in regione da aziende site in terreni
ostativi a smaltimento tramite fertirrigazione e
irrigazione, previo trattamento per assicurare il rispetto
di valori limite locali e salvo bando del Gestore locale per
criticità del sistema di depurazione.
Stretta da febbraio 2016 sulla responsabilità per il
trasporto su acque di beni a potenziale inquinante, laddove
con la modifica della legge 979/1982 in materia di difesa
del mare si dispone invece l'obbligo per il proprietario del
carico di munirsi di idonea polizza assicurativa per la
copertura integrale dei rischi anche potenziali.
Appalti pubblici verdi.
Attraverso la modifica dell'attuale Codice appalti (dlgs
163/2006, destinato nel medio periodo ad essere sostituito
dai nuovi provvedimenti di adeguamento alle ultime norme Ue
in materie di approvvigionamento delle p.a.), la nuova legge
221/2015 spinge fin da subito sull'acquisto di beni e
servizi verdi da parte degli uffici pubblici, da un lato
rendendo più appetibile per le imprese che li offrono la
partecipazione alle gare, dall'altro rafforzando gli
eco-criteri che le stazioni appaltanti dovranno osservare
per la scelta dei loro fornitori.
Sotto il primo profilo sono previsti sconti (fino al 30%)
sulle cauzioni da fornire in sede di partecipazione a gare
pubbliche per le imprese fornite di certificazione Emas (il
marchio comunitario che garantisce la qualità ambientale
dell'azienda), Ecolabel (che garantisce i prodotti offerti)
o Iso di settore.
Sotto il secondo profilo viene invece sancito (in primo
luogo) che, in caso di utilizzo del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, il bando di gara debba
prevedere tra i criteri di valutazione (per i beni quanto
per i servizi) oltre quelli già previsti (caratteristiche
ambientali e contenimento di consumi energetici e risorse
ambientali) anche: il possesso del marchio Ecolabel per
almeno il 30% dei prodotti; la considerazione dell'intero
ciclo di vita del bene o del servizi; la compensazione delle
emissioni di gas serra dell'azienda calcolate secondo
raccomandazione 2013/179/Ue.
Ancora, viene trasformata da discrezione in vero e proprio
obbligo per la p.a. il fondare gli appalti sui criteri
ambientali elaborati (ed elaborandi) dal Minambiente in
relazione a specifiche categorie di prodotti sulla base del
dm 11.04.2008 (come recentemente aggiornato dm 25.07.2011),
prodotti tra cui attualmente figurano: lampade; servizi
energetici per edifici; attrezzature elettriche ed
elettroniche d'ufficio; carta per copia; ristorazione
collettiva; servizi di igiene e pulizia; prodotti tessili ed
arredi d'ufficio; servizi di gestione di rifiuti urbani e
verde pubblico; cartucce e toner per stampanti
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO -
VARI: Depenalizzazione dal 6 febbraio.
Dalle omesse ritenute all’ostacolo ai revisori: 40 reati
fuori dal penale.
Sanzioni. In «Gazzetta Ufficiale» i decreti sull’operazione:
misure applicabili anche ai processi in corso.
Pacchetto
depenalizzazione al via dal 6 febbraio. I due decreti
legislativi, numeri 7 e 8 (il primo sull'abrogazione di
reati e sostituzione con sanzioni civili, il secondo con la
depenalizzazione vera e propria), sono stati pubblicati
sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 17 con la data del 22 gennaio.
Così tra 15 giorni un nutrito numero, circa una quarantina,
di reati (tra cui le omesse ritenute entro i 10 mila euro,
l’ostacolo ai revisori, la coltivazione di stupefacenti per
fini terapeutici, le ingiurie) non dovrà più essere oggetto
dell’attenzione delle Procure per essere invece dirottato a
vario titolo sul versante amministrativo.
Merita però una particolare attenzione la fase transitoria:
per quanto riguarda la depenalizzazione, si prevede che la
sostituzione di sanzioni penali con misure amministrative si
applica anche alle violazioni commesse anteriormente al 6
febbraio, sempre che il procedimento penale non sia stato
definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.
Se i procedimenti penali per i reati depenalizzati sono
stati definiti, prima del 6 febbraio, con sentenza di
condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione
è tenuto a revocare la sentenza o il decreto, dichiarando
che il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Inoltre, ai fatti commessi prima della data di entrata in
vigore del presente decreto non può essere applicata una
sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore
al massimo della pena originariamente inflitta per il reato;
a questi fatti non si applicano le sanzioni amministrative
accessorie introdotte dal decreto, a meno che le stesse
sostituiscano corrispondenti pene accessorie.
L’autorità giudiziaria, entro il prossimo 6 maggio, dispone
la trasmissione all’autorità amministrativa competente, a
seconda dell’illecito oggetto di contestazione, degli atti
dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in
illeciti amministrativi. Salvo che il reato risulti
prescritto o estinto per altra causa alla medesima data.
Se l’azione penale non è stata ancora esercitata, la
trasmissione degli atti è disposta direttamente dal pubblico
ministero che, in caso di procedimento già iscritto, annota
la trasmissione nel registro delle notizie di reato. Se il
reato risulta estinto per qualsiasi causa, il pubblico
ministero richiede l’archiviazione; la richiesta ed il
decreto del giudice che la accoglie possono avere ad oggetto
anche elenchi cumulativi di procedimenti.
Se l’azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia
sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla
legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti.
Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice
dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è
previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai
soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza
che riguardano interessi civili.
L’autorità amministrativa notifica gli estremi della
violazione agli interessati; entro 90 giorni è possibile
l’ammissione al pagamento in misura ridotta, pari alla metà
della sanzione, oltre alle spese del procedimento.
Per quanto riguarda invece il secondo decreto, diverso è il
meccanismo: prevede sì la cancellazione di alcuni reati, ma
aggiunge alla sanzione amministrativa il risarcimento del
danno. La persona offesa potrà ricorrere al giudice civile
per il risanamento del danno; il magistrato, accordato
l’indennizzo, per alcuni illeciti stabilirà anche una
sanzione pecuniaria che sarà incassata dall’erario dello
Stato.
Con decreto del ministro della Giustizia, di concerto col
Mef, saranno stabiliti termini e modalità per il pagamento
della sanzione pecuniaria civile e forme per la riscossione
dell’importo. Il giudice può disporre, in relazione alle
condizioni economiche del condannato, che il pagamento della
sanzione pecuniaria civile sia effettuato in rate mensili da
2 a 8. Ogni rata non può essere inferiore a 50 euro. Il
condannato può estinguere la sanzione civile pecuniaria in
ogni momento, mediante un unico pagamento. Per il pagamento
della sanzione pecuniaria civile non è ammessa alcuna forma
di copertura assicurativa (articolo Il Sole 24 Ore del
23.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In azienda spiate à gogo. Obbligo di segnalazione
a tutti i livelli. La pdl sul «whistleblowing»
imporrà la revisione dei modelli 231.
Segnalare in modo circostanziato gli illeciti che, in buona
fede, si ritiene siano stati compiuti in azienda sarà
obbligatorio. Non solo per il management, ossia coloro che
svolgono funzioni di rappresentanza, amministrazione o
direzione della società, ma anche per i dipendenti e i
collaboratori.
L'identità dell'autore della soffiata dovrà
rimanere segreta, al pari dell'informazione rivelata. E sarà
vietato qualunque atto discriminatorio, diretto o indiretto,
nei confronti del segnalante, salvo il caso in cui i
soggetti accusati debbano difendersi dai reati di
diffamazione o calunnia. Chi discriminerà l'autore delle
soffiate andrà incontro a sanzioni disciplinari.
Così cambieranno i modelli organizzativi 231, finalizzati
alla prevenzione dei reati nelle aziende, se la proposta di
legge sul «whisteblowing», approvata giovedì in prima
lettura dalla camera (si veda ItaliaOggi di ieri e di
giovedì 21 gennaio) sarà confermata anche al senato.
La
proposta (Atto
Camera n. 3365), presentata dal Movimento 5 Stelle (prima
firmataria l'onorevole Francesca Businarolo) e poi recepita
in commissione dal Pd, introduce nel nostro ordinamento
l'istituto di origine anglosassone del «whisteblowing»,
sperimentato con successo in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti. Nazioni dove è assicurata massima tutela a chi
segnala gli illeciti compiuti in ambito lavorativo.
L'istituto, concepito inizialmente in ambito pubblicistico
come deterrente per la commissione dei più frequenti reati
contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione,
peculato), è stato potenziato nel corso dell'esame
parlamentare non solo incrementando i poteri dell'Anac,
(l'Autorità anticorruzione) a cui spetterà vigilare che
l'autore della soffiata non subisca discriminazioni, ma
anche, come detto, estendendo le tutele anche al privato.
In entrambi i settori potranno godere delle protezioni
previste per i «whistleblower» non solo i dipendenti, ma
anche i collaboratori che a vario titolo lavorano per
l'amministrazione o per l'azienda.
Per quanto riguarda gli statali, la denuncia potrà essere
fatta al responsabile della prevenzione della corruzione
dell'ente di appartenenza, all'Anac, all'autorità
giudiziaria o alla Corte dei conti. In caso di atti
discriminatori l'Anac potrà applicare all'autore della
condotta una sanzione amministrativa pecuniaria, da 5.000 a
30.000 euro.
Nel settore privato, invece, l'adozione di
misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che
effettuano le segnalazioni potrà essere denunciata
all'Ispettorato nazionale del lavoro dallo stesso «whistleblower»
o dai sindacati. Così recita la proposta di legge che
introduce modifiche ad hoc al dlgs n. 231/2001.
Il
provvedimento prevede la nullità del licenziamento ritorsivo
o discriminatorio operato nei confronti dell'autore della
segnalazione. Saranno nulli gli atti di demansionamento
contro il lavoratore. Quando vi siano elementi che facciano
pensare a un licenziamento di natura ritorsiva, spetterà al
datore di lavoro l'onere di provare la legittimità del
comportamento dell'azienda
(articolo ItaliaOggi del 23.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Procedimenti. Tempi dimezzati su richiesta.
Dimezzamento dell'iter dei procedimenti amministrativi su
richiesta. Per usufruire della riduzione dei tempi fino al
50%, ciascun ente locale potrà individuare ogni anno, entro
il 31 gennaio, gli insediamenti produttivi, le opere di
interesse generale, le infrastrutture strategiche o le
attività imprenditoriali suscettibili di produrre effetti
positivi sull'economia e chiedere alla presidenza del
consiglio il dimezzamento dei termini dei relativi
procedimenti.
Entro il 28 febbraio palazzo Chigi potrà completare l'elenco
di progetti da accelerare ed entro il 31 marzo tutti gli
interventi ammessi a godere della corsia preferenziali
saranno individuati con dpcm.
Il dlgs sull'accelerazione e
la semplificazione dei procedimenti amministrativi,
approvato in via preliminare dal governo nel consiglio dei
ministri di mercoledì, chiama in causa gli enti locali che
avranno un ruolo attivo nella individuazione dei progetti da
velocizzare. Non solo. In caso di mancato rispetto dei
termini, assegna al sindaco o al presidente di regione un
ruolo attivo per sveltire le pratiche.
La presidenza del consiglio, previa deliberazione del
consiglio dei ministri, potrà infatti delegare agli
amministratori locali l'esercizio del potere sostitutivo per
velocizzare i procedimenti su insediamenti produttivi, opere
e attività imprenditoriali di interesse esclusivo, o
prevalente, della regione, del comune o della città
metropolitana.
Come detto, la riduzione dei tempi potrà arrivare fino al
50% e potrà essere prevista in riferimento ai singoli
procedimenti oppure al complesso dei procedimenti necessari
per la realizzazione dell'intervento, anche successivi
all'eventuale svolgimento della conferenza dei servizi. Nel
caso in cui il termine sia già parzialmente decorso, la
riduzione, si legge nel decreto, opererà con riferimento al
periodo successivo.
Per l'esercizio del potere sostitutivo sia palazzo Chigi che
gli enti locali potranno avvalersi di personale in possesso
di elevate competenze tecniche, ma senza ulteriori oneri per
il bilancio dello stato
(articolo ItaliaOggi del 23.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Scia allo sportello unico. E un modello standard
di segnalazione. Il Consiglio dei
ministri vara il dlgs con la nuova disciplina di inizio
attività.
Sportello unico per la Scia; modello unico standardizzato;
rinvio a successivi decreti per l'individuazione dei singoli
procedimenti sottoposti a Scia, silenzio-assenso e
autorizzazione; per tutti gli altri procedimenti basterà la
sola comunicazione.
È quanto prevede lo schema di decreto attuativo della
riforma della p.a. approvato dall'ultimo Consiglio dei
ministri che ridisegna, semplificandola, la disciplina sulla
Scia (segnalazione certificata di inizio attività).
In realtà il decreto rinvia a successivi decreti
l'individuazione dei procedimenti che saranno oggetto di
Scia o di silenzio assenso e di quelli per i quali sarà
necessaria l'espressa autorizzazione. A parte questi
procedimenti per tutti quelli non previsti nei decreti si
applicherà il principio generale per cui «ciò che non è
espressamente disciplinato è soggetto a comunicazione».
Il decreto prevede che dovrà essere l'amministrazione
destinataria della Scia a informare il privato, attraverso
la pubblicazione sul proprio sito, di un modello unificato
(uguale sul tutto il territorio) previsto dal decreto
90/2014. Se nel modulo non sono indicati i documenti da
produrre a corredo dell'istanza, l'amministrazione dovrà
specificarli in relazione alla «specificità del caso».
In
particolare si stabilisce che per ogni procedimento deve
essere chiarito l'elenco degli stati, qualità personali e
fatti che possono essere oggetto della dichiarazione
sostitutiva, di certificazione o di atto di notorietà e le
asseverazioni e attestazione dei tecnici abilitati o le
dichiarazioni di conformità dell'agenzia delle imprese (in
tutti i casi deve poi essere citata la fonte normativa
dell'obbligo concernente la produzione dei documenti).
Dovrà poi essere indicato sempre sul sito quale sia lo
«sportello di interlocuzione unica» (lo «sportello unico»),
anche in caso di procedimenti connessi di competenza di
altre amministrazioni o di articolazioni territoriali della
stessa amministrazione. L'Amministrazione può anche
istituire più sportelli unici ma solo per consentire al
cittadino una pluralità di accessi sul territorio. La
mancata individuazione dello sportello unico (ma anche la
richiesta di documenti che non andavano richiesti) determina
grave inadempimento ai doveri di ufficio, perseguibile
disciplinarmente.
Nei casi di procedimenti connessi il termine per la
convocazione della conferenza dei servizi (che dovrà
esprimersi la massimo entro 60 giorni, come prevede l'altro
decreto attuativo) decorre dalla data di presentazione della
Scia allo sportello unico dell'amministrazione. Prova di ciò
dovrà essere data con il rilascio da parte dell'ufficio
competente della ricevuta di avvenuta presentazione e di
completezza della documentazione stessa. Se invece la Scia
viene inviata per posta o per e-mail il termine per
convocare la conferenza dei servizi decorre dalla ricezione
della documentazione.
Possibile anche la presentazione di una segnalazione unica
se per certe attività si richiedono più Scia; in questo caso
l'attività può essere iniziata dalla data di presentazione
della segnalazione unica, mentre le amministrazioni
coinvolte dovranno controllare i requisiti e, se chiederanno
l'adozione di misure queste dovranno essere adottate entro
30 giorni. La sospensione delle attività potrà essere
motivata soltanto da pericoli per la tutela dell'interesse
pubblico, della salute, dell'ambiente, del paesaggio e dei
beni culturali, della sicurezza e della difesa nazionale
(per le attività edilizie può essere disposta «solo in
presenza di attività non veritiere», oltre che per il
pericolo nei casi elencati in precedenza).
Per le attività edilizie, se necessarie autorizzazioni
espresse, si indice la conferenza dei servizi e l'inizio
dell'attività rimane subordinato al rilascio delle
autorizzazioni. Se l'attività edilizia è soggetta a Scia il
decreto chiarisce che è sempre unica e sostituisce tutte le
altre segnalazioni, asseverazioni, comunicazioni e notifiche
(articolo ItaliaOggi del 23.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Sportello
Scia per le imprese. Autorizzazioni in due mesi e stop ai
cantieri solo per false dichiarazioni.
La
semplificazione della Scia, ovvero la segnalazione
certificata di inizio attività, una delle procedure più
utilizzate dalle imprese o nell’edilizia, impone alle
amministrazioni non solo di dare risposte in tempi certi ma
di garantire ai privati uno “sportello unico” cui
rivolgersi.
Anche nei casi in cui le pratiche da mettere
insieme fossero più d’una. Una volta presentata la Scia,
l’amministrazione che la riceve valuta se sono necessari
pareri di altre amministrazioni e nel caso convoca entro 5
giorni una Conferenza dei servizi in via telematica, che
dovrà chiudersi entro 60 giorni. In più l’amministrazione
deve pubblicare sul proprio sito il modulo unificato e
standardizzato con le indicazioni di ulteriori documenti
richiesti.
Lo “sportello unico” cui si fa riferimento nella bozza del
decreto di attuazione della delega approvato ieri in primo
esame dal Cdm potrebbe farci ricordare il vecchio “sportello
unico per le attività produttive” (Suap) ma in veste
rafforzata. Non averlo costituisce grave inadempienza che fa
scattare le procedure disciplinari. E anche l’eventuale
richiesta al cittadino o impresa di documenti ulteriori
rispetto a quelli previsti sarà considerata inadempienza
sanzionabile sotto il profilo disciplinare. Per il privato
che, presentata la Scia, apre il suo cantiere, arriva poi la
certezza che la sospensione delle attività può arrivargli
solo in casi gravi, come le attestazioni non veritiere e
casi di pericolo per l’interesse pubblico mentre se gli
errori sono solo formali arriva solo la richiesta di
correzione.
Ieri la ministra Marianna Madia ha confermato che questo
decreto rappresenta solo il «primo passo» per la
semplificazione della Scia. Il secondo, previsto nei
prossimi mesi, arriverà con la presentazione di una sorta di
“catalogo dei procedimenti” per i quali serve una Scia,
oppure un’autorizzazione espressa oppure ancora quelli che
potranno procedere con il silenzio-assenso. Quello che, in
pratica, dovrebbe diventare il passepartout per le imprese
che vogliono avviare una attività con la certezza del quadro autorizzatorio richiesto.
Il decreto Scia va letto insieme con quello di
semplificazione della Conferenza servizi, che come si diceva
non potrà durare più di 60 giorni, viaggerà d’ora in poi in
via telematica con la regola del silenzio-assenso e con un
rappresentante unico per oggi amministrazione coinvolta.
«Nel peggiore dei casi più sfortunato una conferenza dei
servizi potrà avere una durata massima di 5 mesi» ha
spiegato ieri Matteo Renzi in conferenza stampa per poi
aggiungere: «vorrei essere di nuovo sindaco per vedere in
funzione queste nuove regole».
Contro le decisioni assunte
da una conferenza dei servizi nel limite massimo di 10
giorni possono esprimere un dissenso le amministrazioni
preposte a interessi sensibili (tutela ambiente, tutela paesaggistico-territoriale o storico-artistico, o della
salute o della pubblica incolumità) e lo faranno presentando
un’opposizione alla presidenza del Consiglio dove, se non
riesce a comporre la questione proposta da un ministro
competente entro 15 giorni, si delibera direttamente in un
Cdm cui possono partecipare i presidenti delle Regioni o
delle province autonome interessate. In quest’ultimo caso la
durata massima di una conferenza dei servizi versione Madia
potrebbe arrivare, appunto, a 5 mesi prima della chiusura.
Ieri il premier ha anche posto molta enfasi sulla terza
azione di semplificazione introdotta con un regolamento che
punta a dimezzare i tempi per le autorizzazioni di grandi
opere o grandi insediamenti ad elevato impatto economico e
occupazionale ricorrendo ai poteri sostitutivi della
presidenza del Consiglio.
Marianna Madia ha assicurato che l’intera attuazione della
delega sarà garantita «entro la legislatura» e che con i
decreti approvati mercoledì è stato dato il via a metà delle
norme necessarie: «Provvedimenti scritti con grande serietà
e che hanno tutti una cogenza, sono previste sanzioni per
assicurare che queste misure non resteranno sulla carta».
È il caso del testo unico sulle partecipate. A vigilare
sulla razionalizzazione, con poteri ispettivi e sostitutivi
fino al commissariamento, sarà una unità di monitoraggio
attivata al Mef. Le amministrazioni controllanti dovranno
fare una ricognizione delle partecipazioni e, entro il primo
anno, eliminare quelle non necessarie, con più
amministratori che dipendenti, che fatturano per 3 anni meno
di un milione o che risultino in sovrapposizione con altri
servizi. Tagli anche alle poltrone: la regola è
l’amministratore unico ma si potrà mantenere un Cda con 3 o
5 componenti, e arriva una disciplina sulle crisi d’impresa.
I
n fase di prima applicazione si indicheranno le partecipate
escluse dalla nuova regulation oltre alle quotate e quelle
che hanno emesso titoli entro dicembre. «Noi ci siamo dati
come termine il 31 dicembre di quest’anno, ma immaginiamo
già nei prossimi 90 giorni di poter portare un elenco delle
aziende che avranno subito l’applicazione delle norme e
quindi un primo elenco delle aziende chiuse» ha detto ieri
il sottosegretario alla Funzione pubblica, Angelo Rughetti,
intervistato da Radio 24 (articolo Il Sole 24 Ore del
22.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assenteisti licenziati in 30 giorni.
Procedura straordinaria per chi è colto in flagranza o
scoperto con strumenti di registrazione.
Pubblico impiego. Lo schema di decreto approvato dal
Consiglio dei ministri sulle misure per contrastare chi bara
sulle presenze al lavoro.
Lo schema di
decreto legislativo sul licenziamento disciplinare presenta
aspetti di significativa novità rispetto alla disciplina
vigente, che pure non manca di specifiche disposizioni volte
a reprimere condotte abusive da parte dei lavoratori
pubblici sul rispetto dell'orario di lavoro.
Già il Dlgs 150/2009 era, infatti, intervenuto in materia al
fine di sanzionare tali comportamenti, introducendo nel
Testo unico sul lavoro pubblico come specifica ipotesi di
licenziamento senza preavviso la «falsa attestazione della
presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente»
(articolo 55-quater, lettera a), del Dlgs 165/2001) e
prevedendo in tale ipotesi anche l'applicazione di sanzioni
penali (articolo 55-quinquies, comma 1, del medesimo Testo
unico).
Tali previsioni non hanno però adeguatamente fronteggiato la
diffusione di fenomeni di assenteismo e pertanto, nel quadro
di una generale revisione della disciplina dei procedimenti
e delle sanzioni disciplinari prevista dalla legge delega
sul pubblico impiego 124/2015 (articolo 17, comma 1, lettera
s), si è colta l'occasione, anche sull'onda di eclatanti
fatti di cronaca, per misure maggiormente incisive e idonee
a dare effettività alle norme sanzionatorie.
Il legislatore, innanzitutto, specifica, estendendone
l'ambito, il comportamento che integra gli estremi della
falsa attestazione in servizio, da ravvisarsi in «qualunque
modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di
terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre
in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente
presta servizio circa il rispetto dell'orario di lavoro».
L'aspetto sul quale maggiormente si interviene è quello
relativo alla previsione di un procedimento disciplinare
“speciale”, in quanto derogatorio rispetto a quello
ordinario previsto dall'articolo 55-bis del Dlgs 165/2001.
Presupposto per l'attivazione di tale procedimento è che la
falsa attestazione della presenza sia accertata «in
flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di
registrazione degli accessi o delle presenze».
Se non sussiste tale presupposto, e quindi se la falsa
attestazione della presenza sia rilevata al di fuori dei due
casi sopra indicati, si applicheranno le norme del
procedimento disciplinare ordinario.
Il procedimento disciplinare speciale è anticipato
dall'applicazione della sospensione cautelare senza
stipendio, che deve essere disposta entro 48 ore dalla
conoscenza della notizia.
Anche in questo caso sono evidenti i profili di specialità
della sospensione cautelare prevista dallo schema di decreto
rispetto a quella contemplata dai contratti collettivi dei
diversi comparti: si tratta di una sospensione obbligatoria,
priva di un termine finale di durata, non retribuita.
Contestualmente al provvedimento di sospensione, il
responsabile della struttura deve trasmettere gli atti
all'ufficio per i procedimenti disciplinari, che dovrà
avviare immediatamente il procedimento e concluderlo entro
trenta giorni dalla ricezione degli atti o dal momento in
cui è venuto a conoscenza dei fatti.
Nell'ambito di tale procedimento non si fa menzione né
dell'audizione del lavoratore né di termini a difesa, dai
quali tuttavia non sarà possibile prescindere non potendosi
ammettere, in linea di principio, una compressione delle
esigenze difensive che anche nei casi di flagranza o di
rilevamento mediante strumenti di sorveglianza o di
registrazione delle presenze debbono poter essere rispettate
e consentite.
L'accelerazione dei termini di attivazione e di chiusura del
procedimento, quindi, se da un lato può costituire
un'apprezzabile misura che consente di dare una risposta
effettiva ed efficace a comportamenti intollerabili, non può
relegare il lavoratore a un ruolo di mero soggetto passivo,
senza alcuna voce in capitolo né ai fini dell'applicazione
della sospensione né ai fini dell'irrogazione della sanzione
del licenziamento prevista per questa tipologia di
inadempimento.
Dovrà essere, quindi, consentito in ogni caso al medesimo,
onde evitare l'illegittimità del procedimento disciplinare,
di essere ascoltato a sua difesa o produrre scritti
difensivi in termini compatibili con la chiusura del
procedimento.
---------------
Azione di responsabilità per il danno d’immagine.
I controlli. La segnalazione alla Corte dei conti:
risarcimento almeno pari a sei mensilità.
Nella nuova
disciplina del licenziamento disciplinare per i pubblici
dipendenti la previsione di una tempistica più veloce
rispetto a quella prescritta per il procedimento
disciplinare ordinario consente di intervenire con maggiore
efficacia rispetto a situazioni in cui risulti manifesta, a
causa della flagranza del comportamento o della rilevazione
attraverso strumenti obiettivi, la sussistenza della
condotta illecita del lavoratore che abbia attestato
falsamente la propria presenza in servizio.
A fianco di tali misure, ve ne sono altre approvate nel
decreto legislativo che consentono non solo una maggiore
deterrenza rispetto a tali comportamenti, ma anche
l'assunzione di più adeguate responsabilità da parte di chi
svolge ruoli dirigenziali e l'applicazione di misure
sanzionatorie nei confronti di chi favorisca in qualche modo
i comportamenti elusivi del rispetto dell'orario di lavoro.
È ampiamente riscontrato, infatti, che comportamenti di
questo genere spesso attecchiscano laddove non vi sia un
adeguato controllo da parte degli organi preposti e la
complicità, anche solo silente, da parte dei colleghi.
Sotto il profilo della deterrenza, il decreto, oltre a
confermare la sanzione del licenziamento, già peraltro
contemplata per questa tipologia di condotte dal decreto
legislativo 165/2001, modificato dal Dlgs 150/2009, prevede
che, entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare
(e quindi quando ancora non sia scaduto il termine dei
trenta giorni previsto a chiusura del procedimento), debba
essere effettuata la denuncia dei fatti al Pubblico
ministero in sede penale e la segnalazione alla Procura
regionale della Corte dei conti.
Anche in quest'ultimo caso è prevista una tempistica
definita per l'esercizio dell'azione di responsabilità da
parte della procura della Corte dei conti per il
risarcimento del danno all'immagine, subito dall'ente di
appartenenza del lavoratore per i comportamenti illeciti di
cui quest'ultimo si sia reso colpevole, da determinarsi
sulla base di una liquidazione equitativa comunque in misura
non inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio oltre a
interessi e spese di giustizia.
Non meno incisive sono le misure disposte dal decreto per
rendere effettivo il controllo da parte del dirigente sulle
condotte di falsa attestazione della presenza assunte dai
dipendenti e la conseguente attivazione del procedimento
disciplinare.
Ove, infatti, il dirigente (o il responsabile del servizio
competente negli enti privi di dirigenza), in presenza di
tali fatti, ometta di avviare l'azione disciplinare e di
segnalare gli addebiti all'ufficio per i procedimenti
disciplinari si espone alla sanzione del licenziamento.
Il dirigente è punibile con la medesima sanzione anche
nell'ipotesi in cui non abbia adottato il provvedimento
della sospensione cautelare nei confronti del dipendente
colto in flagrante o la cui falsa attestazione sia rilevata
dagli strumenti di sorveglianza o di registrazione delle
presenze.
Tali condotte sono state altresì qualificate dal decreto
come omissione di atti d'ufficio e in quanto tali
riconducibili a quelle previste dall'articolo 328 del Codice
penale.
Nella versione finale del decreto non è stata più inserita
la previsione di un esonero della responsabilità del
dirigente in caso di annullamento del licenziamento da parte
del giudice adito dal dipendente: misura che avrebbe potuto
consentire di superare uno degli ostacoli più avvertiti
dalla dirigenza per l'esercizio dell'azione disciplinare e
cioè il rischio di dover rispondere dei danni erariali
connessi alle conseguenze derivanti dall'annullamento della
sanzione espulsiva.
Inoltre, chiunque abbia «agevolato con la propria condotta
attiva o omissiva la condotta fraudolenta» risponde della
violazione commessa, e dunque è passibile di sanzioni
disciplinari.
La previsione di tali possibili sanzioni (cui si aggiungono
quelle già introdotte dal Dlgs 150/2009 per chi non
collabora con il titolare dell'azione disciplinare o rende
al medesimo dichiarazioni false e reticenti) dovrebbe quindi
consentire di contrastare le condotte, spesso assunte per un
malinteso concetto di solidarietà tra colleghi, che hanno
agevolato la diffusione di pratiche assenteiste (articolo Il Sole 24 Ore del
22.01.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Riordinata la disciplina dell’accesso ai dati Pa.
Decreto. Anticorruzione.
Tra i decreti
approvati da Palazzo Chigi nell’ambito della delega Pa ce
n’è anche uno dedicato al «riordino della disciplina
riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni» che
modifica molte delle disposizioni contenute nel decreto
legislativo 33 del 2013.
In particolare, l’Autorità nazionale anticorruzione, sentito
il Garante per la privacy nel caso in cui siano coinvolti
dati personali, può «identificare i dati, le informazioni e
i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria»
(prevedendo modalità semplificate per i Comuni con
popolazione inferiore a 15mila abitanti e per gli organi e
collegi professionali).
Con riferimento al cosiddetto “accesso civico”, chiunque,
allo scopo di favorire forme diffuse di controllo e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, ha
diritto di verificare i dati detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, le quali devono rispondere ad eventuali
richieste «tempestivamente, e comunque non oltre 30 giorni
dalla presentazione dell’istanza», salvo il
silenzio-diniego.
Rifiuto che è necessario per evitare un pregiudizio
rilevante, verosimile e specifico alla sicurezza nazionale,
alla difesa, alle relazioni internazionali, alla stabilità
finanziaria ed economica dello Stato, alla conduzione di
indagini penali ovvero al segreto di Stato.
Sempre nell’ottica della trasparenza l’agenzia per l'Italia
digitale è chiamata a gestire un sito internet denominato
“Soldi pubblici” per consentire l’accesso ai dati dei
pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Il decreto
stabilisce poi obblighi generalizzati di pubblicazione
relativi ai contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture.
Altri interventi riguardano poi la legge n. 190 del 2012 e
il Piano nazionale anticorruzione che avrà durata triennale
e costituirà atto di indirizzo per le pubbliche
amministrazioni per individuare i principali rischi di
corruzione e le misure di contrasto.
Si riconoscono infine all’Autorità nazionale anticorruzione
maggiori poteri ispettivi, di richiesta di notizie,
informazioni e documenti, nonché di rimozione di
comportamenti contrastanti con i piani e le regole sulla
trasparenza citati (articolo Il Sole 24 Ore del
22.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nei modelli 231 l’obbligo di segnalazione.
Ddl «Whistleblowing». Il disegno di legge approvato ieri
dalla Camera passa al Senato - Per le imprese private
vincolo di «report» per tutti i dipendenti, nel settore
pubblico niente premi ma tutele più estese.
Nessun
incentivo, ma garanzie piene. La Camera ha approvato ieri,
con una larga maggioranza, che comprende anche il Movimento
5 Stelle (promotore del provvedimento, peraltro), il disegno
di legge
(Atto
Camera n. 3365)
che rafforza in chiave anticorruzione la tutela di
chi segnala illeciti. Ferocemente contraria invece Forza
Italia.
Lo spiega Francesco Paolo Sisto che contesta «una
barbarie giuridica che introduce negli ambienti di lavoro,
pubblici e privati, un clima invivibile di accusa segreta.
La differenziazione tra segnalazione, denuncia e delazione è
speciosa; il risultato, alla fine, è uno solo: un meccanismo
di sospetto diffuso, un “un contro l’altro armati” che non
produrrà alcun effetto sul denunciante, ma sarà catastrofico
per chi è denunciato, anche se ingiustamente».
La nuova legge, che ora passa al Senato, integra e amplia
l’attuale disciplina prevista dalla legge Severino: da un
lato infatti rafforza la norma già in vigore per gli
impiegati pubblici, comprendendo gli enti pubblici economici
e gli enti di diritto privato sotto controllo pubblico,
dall’altro allarga la tutela al settore privato, inserendo
specifici obblighi a carico delle società nei modelli
organizzativi previsti dalla 231.
Per quanto riguarda il perimetro pubblico, la segnalazione
di condotte illecite di cui il dipendente è venuto a
conoscenza nello svolgimento del proprio lavoro può essere
fatta al responsabile della prevenzione della corruzione
oppure direttamente all’Anac (l’Autorità anticorruzione
presieduta da Raffaele Cantone), alla magistratura ordinaria
o anche a quella contabile.
La segnalazione deve essere fatta in buona fede e il disegno
di legge precisa che la buona fede esiste quando la
segnalazione è circostanziata, corroborata cioè da elementi
non palesemente infondati, ed è stata fatta «nella
ragionevole convinzione, fondata su elementi di fatto, che
la condotta illecita segnalata si sia verificata». La buona
fede è invece sicuramente esclusa quando il dipendente ha
agito con colpa grave.
La versione del testo approvata ieri mattina esclude quel
riconoscimento di «forme di premialità» che era stata
inserita inizialmente dalla commissione Giustizia quando la
segnalazione si è rivelata fondata.
Previsione che molto aveva fatto discutere soprattutto per
gli eventuali utilizzi strumentali e spregiudicati cui si
sarebbe esposta. Cancellata la previsione, è stato però
rafforzato l’impianto delle tutele che esclude qualsiasi
ritorsione sul dipendente, escludendo che possa essere
demansionato, licenziato, trasferito oppure infine, con
norma di chiusura, sottoposto a qualsiasi misura
organizzativa con effetti negativi. L'ente che ha adottato
la misura discriminatoria rischia, al netto di ogni altro
profilo di responsabilità, una sanzione da parte dell’Anac
da 5mila a 30mila euro.
È vietato rivelare l’identità del whistleblower, ma non sono
ammesse segnalazioni anonime. Il segreto sul nome, in caso
di processo penale, non può comunque protrarsi oltre la
chiusura delle indagini preliminari.
Nell’ambito invece di un eventuale procedimento
disciplinare, il dipendente può rivelare la propria identità
solo quando questa è indispensabile per difesa
dell’incolpato.
Sul versante delle imprese private, la chiave di volta è
rappresentata dai modelli organizzativi previsti dal decreto
231 del 2001. Viene infatti previsto, tra i contenuti del
modello, l’obbligo a carico sia dei vertici sia dei semplici
dipendenti sia dei collaboratori «di presentare a tutela
dell’integrità dell’ente segnalazioni circostanziate di
condotte illecite che in buona fede, sulla base della
ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto,
ritengano si siano verificate». Condotte, si specifica,
rilevanti per il decreto (che contiene un’ampia lista dei
reati presupposto) (articolo Il Sole 24 Ore del
22.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Segnalatori
di illeciti tutelati.
Ok camera.
Segnalatore di illeciti («whistleblower») tutelato: il
dipendente che avviserà, infatti, di reati o irregolarità
verificatisi in ambito lavorativo non potrà subire
ritorsioni, come il trasferimento ad altro incarico. E la
protezione varrà sia nel settore pubblico (pure per
collaboratori e consulenti, e per chi opera in aziende che
forniscono beni e servizi alla p.a.), sia in quello privato.
Sono i contenuti della proposta di legge (Atto
Camera n. 3365) che ieri
ha ottenuto il primo via libera dall'aula della camera, con
281 sì, 71 no e 18 astenuti ed è passata all'esame dei
senatori (si veda anche ItaliaOggi di ieri).
L'iniziativa
del M5s (in seguito modificata, nelle commissioni di
Montecitorio, dal Pd) ricalca l'esperienza sperimentata con
successo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna del «whistleblowing»
(che letteralmente significa «soffiatore nel fischietto»),
rivisitata e forte di un ampliamento del perimetro tracciato
dalla cosiddetta legge Severino (190/2012), attraverso il
conferimento di un ruolo rilevante all'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) guidata da Raffaele Cantone.
Nel
dettaglio, la norma prevede che il dipendente che, in buona
fede, comunicherà ai responsabili anticorruzione,
all'Authority o ai magistrati ordinari e contabili episodi
di illeciti di cui ha avuto contezza non potrà essere
sanzionato, né demansionato, o licenziato, trasferito o
sottoposto ad altre misure ritorsive; qualora, invece,
subisca «atti discriminatori» l'Anac applicherà al
responsabile di tali azioni una sanzione pecuniaria
amministrativa fino a 30.000 euro.
Protetta l'identità del «whistleblower»
(ma la segretezza, in caso di processo penale, non potrà
protrarsi oltre la chiusura delle indagini preliminari),
però non saranno ammesse segnalazioni anonime. Nessuna
tutela, tuttavia, se l'informatore è stato condannato in
sede penale (anche in primo grado) per calunnia,
diffamazione o altri reati commessi con la denuncia. Anzi,
costerà caro trasmettere rapporti errati, o infamanti
sull'operato dei propri colleghi, o responsabili poiché, se
verrà accertata l'infondatezza della segnalazione, oppure la
mancanza di buona fede, scatterà il procedimento
disciplinare a carico del falso «whistleblower». Che
rischierà pure il licenziamento in tronco
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Tempi stretti sui furbetti. Procedimento
disciplinare entro 30 giorni. Lo
schema di decreto legislativo sui dipendenti pubblici
infedeli.
Sospensione cautelare entro 48 ore dalla conoscenza del
fatto e procedimento disciplinare da avviare immediatamente
e concludere entro 30 giorni.
Il decreto legislativo approvato mercoledì scorso dal
Governo per sanzionare più efficacemente e velocemente i
dipendenti pubblici infedeli che attestino falsamente la
loro presenza in giudizio modifica, per la fattispecie, in
maniera drastica il procedimento disciplinare.
False attestazioni.
Il decreto introduce un nuovo comma 1-bis all'articolo
55-quater del dlgs 165/2001 allo scopo di precisare meglio
e, soprattutto, di estendere la fattispecie delle false
attestazioni della presenza in servizio. Dunque, costituisce
falsa attestazione «qualunque modalità fraudolenta posta in
essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il
dipendente in servizio o tranne in inganno l'amministrazione
presso la quale il dipendente presta servizio circa il
rispetto dell'orario di lavoro».
La questione, quindi, non
riguarda solo la timbratura di inizio e fine orario, ma
anche la presenza in servizio durante l'orario. La norma,
quindi, si estende a qualsiasi tipo di allontanamento dal
servizio, non supportato dalle corrette giustificazioni
normativamente e contrattualmente previste. La
responsabilità non solo ricade su chi attesta falsamente la
propria presenza, ma anche nei riguardi di chiunque
favorisca, collaborando o omettendo di impedire l'azione
fraudolenta.
Sospensione cautelare.
Non licenziamento entro 48 ore, ma sospensione cautelare
entro 48 ore, come era del resto inevitabile: il
licenziamento non può che conseguire al procedimento
disciplinare. La sospensione deve essere disposta laddove
l'assenza fraudolenta sia accertata in flagranza, oppure
provata da strumenti di sorveglianza o registrazione degli
accessi e non sarà necessaria la preventiva audizione del
dipendente sospeso.
Il provvedimento, dunque, viene adottato
«inaudita altera parte», ma dovrà essere motivato e,
appunto, emesso entro 48 ore, a seconda da chi conosca per
primo l'evento, alternativamente dal responsabile della
struttura di appartenenza del dipendente, o dall'ufficio per
i procedimenti disciplinari. Le 48 ore decorrono dal momento
della conoscenza dell'evento: si pone, però, il problema di
come comprovare il momento in cui i soggetti competenti alla
sospensione acquisiscono la conoscenza piena del fatto.
In
ogni caso, si tratta di un termine ordinatorio: laddove la
sospensione sia disposta oltre il termine, infatti, non si
verifica né la decadenza dall'azione disciplinare, né
l'inefficacia della sospensione cautelare tardiva. Il testo
fa salva la responsabilità del dipendente che adotti con
ritardo la sospensione, senza precisare di che genere di
responsabilità si tratti.
Procedimento disciplinare.
Il punto maggiormente delicato della riforma riguarda
l'azione disciplinare. Laddove la sospensione cautelare sia
adottata dal responsabile della struttura, questo deve
trasmetterla all'ufficio dei procedimenti disciplinari,
perché avvii il procedimento. Ricevuti gli atti, l'ufficio
avvia «immediatamente» il procedimento: ma, l'avverbio
«immediatamente» non aiuta certo a comprendere entro che
termini l'azione debba partire.
Inoltre, la riforma
stabilisce che il procedimento debba concludersi entro 30
giorni. Ma, non sono fissati termini per l'esposizione delle
difese del dipendente, garanzia fondamentale ed
imprescindibile. Poiché la riforma non deroga espressamente
alle disposizioni su durata e fasi del procedimento
disciplinare dettate dall'articolo 55-bis del dlgs 165/2001,
potrebbero aprirsi infiniti e incerti contenziosi sulle
questioni procedurali
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Un'identità digitale per dialogare con la p.a..
Un'identità digitale, attraverso cui accedere e utilizzare i
servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni, e
al domicilio digitale (Spid), in collegamento con l'anagrafe
della popolazione residente. Spid sarà l'identificativo con
cui un cittadino si farà riconoscere dalla pubblica
amministrazione, mentre il domicilio digitale sarà
l'indirizzo on line al quale potrà essere raggiunto dalle
pubbliche amministrazioni.
Lo prevede un decreto legislativo recante norme di
attuazione dell'articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124
(riforma Madia), che modifica e integra il codice
dell'amministrazione digitale (Cad) di cui al decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82.
Il governo ha anche approvato sempre in via preliminare e
sempre in attuazione della riforma Madia un dlgs che
consente di presentare presso un unico ufficio, anche in via
telematica, un unico modulo standard e valido in tutto il
paese di segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Disco verde pure a uno schema di dlgs il quale, accanto o in
alternativa a procedure ordinarie (Conferenza dei servizi,
silenzio assenso), consente a comuni e regioni di
individuare, con cadenza annuale, investimenti strategici di
grande rilevanza finanziaria e forte impatto occupazionale
per i quali richiedere alla presidenza del Consiglio dei
ministri una procedura accelerata.
Oltre allo schema di dlgs
con le norme in materia di riorganizzazione,
razionalizzazione e semplificazione della disciplina
concernente le autorità portuali (si veda ItaliaOggi di
ieri) e a quello di razionalizzazione delle funzioni di
polizia e assorbimento del Corpo forestale dello stato nei
carabinieri, il consiglio dei ministri ha approvato il
decreto di revisione e semplificazione delle disposizioni in
materia di prevenzione della corruzione pubblica e
trasparenza. Al di fuori della riforma Madia, via libera
allo schema di decreto di attuazione della direttiva in
merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a
beni immobili residenziali e modifiche alla disciplina degli
agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi
(anticipato su Italiaoggi di ieri).
Infine le nomine. Ok al
collocamento fuori ruolo del ministro plenipotenziario Maria
Angela Zappia per lo svolgimento dell'incarico di
consigliere diplomatico del presidente del Consiglio dei
ministri, nonché del ministro plenipotenziario Vincenzo
Schioppa Narrante per lo svolgimento dell'incarico di
segretario generale dell'Istituto universitario europeo (articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
ENTI LOCALI:
Le partecipate potranno fallire. Vietato
soccorrere le società strutturalmente in perdita. RIFORMA
P.A./ Il dlgs di riforma spazza via ogni dubbio. Necessario
un piano di rilancio.
Le partecipate potranno fallire. Cade il tabù
dell'intangibilità dei carrozzoni pubblici che ora, se mal
gestiti, saranno inequivocabilmente soggetti alle norme in
materia di fallimento, concordato preventivo e
amministrazione delle grandi imprese in crisi. I giudici,
finora piuttosto divisi sul tema, non potranno più trovare
scuse per negare il fallimento.
Le società con i conti in rosso non potranno continuare a
drenare risorse agli enti soci perché il ripianamento delle
perdite, anche se attuato con aumento di capitale o
trasferimento di partecipazioni, non sarà più la via maestra
per continuare a mantenersi in linea di galleggiamento.
Servirà un piano di ristrutturazione aziendale da cui
emergano «concrete prospettive di recupero». Anche perché
gli enti soci avranno le mani legate, non potendo effettuare
aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di
credito, né rilasciare garanzie a favore delle partecipate
che abbiano registrato perdite per tre esercizi consecutivi.
La regola non varrà però per le quotate. La fallibilità
delle partecipate costituisce il clou del dlgs varato in
prima lettura dal consiglio dei ministri di mercoledì sera,
assieme ad altri dieci provvedimenti tutti attuativi della
riforma della p.a. voluta dal ministro Marianna Madia.
L'obiettivo è ridurre drasticamente la galassia delle oltre
7.700 società, disboscando i rami secchi a cominciare dalle
«scatole vuote», ossia quelle società che per più di tre
anni consecutivi non abbiano depositato il bilancio né
compiuto atti di gestione. Entro un anno dalla riforma, esse
verranno cancellate d'ufficio dal registro delle imprese.
Ogni anno ciascun ente pubblico dovrà effettuare un
monitoraggio dell'andamento delle società di cui detiene
partecipazioni (dirette o indirette). Qualora vengano
rilevate anomalie dovrà scattare la razionalizzazione, da
attuarsi mediante fusione, liquidazione o cessione. Per
esempio, i tagli saranno obbligatori in presenza di società
prive di dipendenti (o con più amministratori che
dipendenti) o che abbiano registrato nel triennio un
fatturato medio inferiore al milione di euro, o ancora dopo
quattro bilanci chiusi in perdita su cinque esercizi (ma la
regola non varrà per le società che gestiscono servizi di
interesse generale).
Per le partecipate degli enti locali si prevedono regole
ad hoc in caso di risultato di esercizio negativo. Le
amministrazioni locali dovranno accantonare in un apposito
fondo vincolato un importo pari alla perdita che non sia
stata immediatamente ripianata. L'accantonamento dovrà
avvenire in misura proporzionale alla quota di
partecipazione e in pratica costituirà una zavorra che gli
enti locali controllanti dovranno accollarsi in caso di
perdita. Le somme torneranno disponibili solo quando le
perdite verranno ripianate
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La conferenza dei servizi si fa in tre. Decisioni
in 60 giorni. Conferenza di servizi razionalizzata sì, ma la
semplificazione vera appare lontana.
Il decreto legislativo di riordino dell'istituto della
conferenza di servizi, parte integrante del pacchetto di 11
dlgs approvati dal governo mercoledì notte, potrà anche
riuscire nell'intento di abbreviare di molto procedimenti
che in alcuni casi duravano anni, ma l'opera di
razionalizzazione sarà talmente improba che il risultato,
nonostante la sua potenziale efficacia, meriterà ulteriori
interventi semplificatori.
Vi saranno solo tre tipi di conferenza di servizio. La prima
è la conferenza «istruttoria», attivabile sia
dall'amministrazione procedente, sia su iniziativa del
privato interessato. Essa ha lo scopo di realizzare un esame
contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in uno o
più procedimenti amministrativi connessi e si svolge in
forma semplificata asincrona, o con altre modalità definite
dall'amministrazione procedente. Lo scopo di questa
conferenza non è decidere, ma acquisire elementi per
decidere.
La seconda conferenza è quella «decisoria». Deve essere
indetta quando la decisione positiva sia subordinata
all'acquisizione di pareri, intese, nulla osta o altri atti
di assenso comunque denominati, resi da amministrazioni
diverse o anche da gestori di beni o servizi pubblici. Può
anche essere indetta su richiesta del privato interessato se
la propria attività risulti subordinata a più atti di
assenso della pubblica amministrazione.
La conferenza «preliminare» potrà essere indetta
dall'amministrazione competente nel caso di progetti di
particolare complessità, riguardanti insediamenti
produttivi, su richiesta motivata dell'interessato. Nel caso
in cui si debbano realizzare opere pubbliche e di interesse
pubblico, questo tipo di conferenza si esprime sui progetti
preliminari, per indicare le condizioni necessarie per
ottenere gli assensi necessari in fase di progetto
definitivo.
Forma semplificata.
È indetta entro cinque giorni dall'avvio d'ufficio o su
istanza del procedimento. Le amministrazioni convocate
possono chiedere integrazioni documentali o chiarimenti
entro il termine fissato dall'amministrazione procedente,
che comunque non può superare i 20 giorni; la richiesta di
integrazione o chiarimenti né sospende, né interrompe i
termini procedurali.
Entro 60 giorni dall'indizione, le amministrazioni coinvolte
dovranno rendere alla procedente le proprie decisioni. È una
conferenza «asincrona» perché le amministrazioni
esprimono in sede autonoma le proprie decisioni; ma la p.a.
procedente può indire una conferenza «sincrona», cioè
con la partecipazione simultanea alla riunione delle
amministrazioni
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
ENTI LOCALI:
Fusioni in libertà. Niente forzature per i
comuni. Fornaro e Borghi (Pd)
sconfessano la pdl Lodolini.
Sulla fusione obbligatoria dei comuni sotto i 5.000 abitanti
il Pd sconfessa se stesso.
A prendere le distanze dalla proposta di legge
Atto Camera n. 3420
(depositata alla camera da una ventina di onorevoli dem con
in testa il deputato marchigiano Emanuele Lodolini)
anticipata su ItaliaOggi del 15 gennaio, sono due
parlamentari piemontesi: Federico Fornaro, esponente della
sinistra Pd e componente della Bicamerale per il federalismo
fiscale, ed Enrico Borghi, presidente dell'Uncem.
Entrambi
parlano apertamente di una «iniziativa individuale che non
rientra nel solco del processo di riforma avviato con la
legge Delrio e con la riforma costituzionale». La proposta
di legge individua nella soglia demografica di 5.000
abitanti la popolazione minima affinché un comune possa
esistere autonomamente. E obbliga chi ne ha meno a fondersi
entro due anni, pena l'intervento d'imperio delle regioni,
costrette anche loro ad accorpare i comuni se non vorranno
perdere il 50% dei trasferimenti.
Secondo i deputati
proponenti, la ricetta individuata sarebbe l'unica per far
decollare le fusioni che, in questi anni, «nonostante i
cospicui incentivi e i contributi previsti da leggi statali»
sono state pochissime. E la soglia di 5.000 abitanti sarebbe
la «dimensione ottimale» per garantire servizi efficienti e
ottimizzazione delle risorse. Ma i due deputati piemontesi
non la pensano allo stesso modo. «La proposta», dicono, «non
risponde ad un approccio corretto per dare efficienza al
sistema delle autonomie locali. «Non servono imposizioni
dall'alto o forzature».
Franca Biglio, presidente dell'Anpci,
prende atto ma resta cauta. «Alle parole», dice, «devono
seguire i fatti perché finora tutte le norme prodotte da
questo governo, dalla legge Delrio alle centrali uniche,
dall'assoggettamento degli enti sotto i mille abitanti agli
obiettivi contabili all'esclusione di Anpci dalla
Stato-città dimostrano un'unicità di pensiero che va nella
direzione di escludere i sindaci dei piccoli comuni»
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
APPALTI:
Incentivi per gli appalti verdi. Cauzioni ridotte
e obbligo per la p.a. di consumi sostenibili.
Pubblicato in G.U. il Collegato ambientale che
promuove misure di green economy.
Agevolazioni per le imprese con certificazioni ambientali
Emas e Ecolabel che partecipano alle gare pubbliche; sconti
sull'importo delle garanzie fideiussorie richieste nei bandi
di gara e valutazioni premiali in sede di offerta.
Sono queste alcune delle novità principali derivanti
dall'avvenuta pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (n. 13
del 18.01.2016) della legge 28.12.2015, n. 221
recante «Disposizioni in materia ambientale per promuovere
misure di green economy e per il contenimento dell'uso
eccessivo di risorse naturali» (il cosiddetto collegato
Ambiente).
Il testo contiene alcune novità (e ulteriori modifiche al
codice dei contratti pubblici) che, in particolare, mirano a
introdurre i cosiddetti «appalti verdi» attraverso un
incentivo per gli operatori economici che partecipano ad
appalti pubblici e sono muniti di attestazione Emas (che
certifica la qualità ambientale dell'organizzazione
aziendale) o di marchio Ecolabel (che certifica la qualità
ecologica di «prodotti», comprensivi di beni e servizi).
Il beneficio previsto dalla legge 221 consiste in una
riduzione del 30% per i possessori di registrazioni Emas;
del 20% per i possessori della certificazione Uni En Iso
14001, o del marchio Ecolabel, della «cauzione» a corredo
dell'offerta prevista dall'articolo 75, comma 7, del Codice
dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture.
Lo stesso articolo introduce la compensazione delle
emissioni di gas serra associate alle attività dell'azienda
calcolate secondo i metodi che saranno stabiliti in base
alla raccomandazione della commissione europea 2013/179/Ue
concernente le prestazioni ambientali dei prodotti e delle
organizzazioni. Per promuovere l'adozione dei sistemi Emas
ed Ecolabel si dispone che nella formulazione delle
graduatorie costituisca elemento di preferenza la
registrazione Emas delle organizzazioni pubbliche e private
e la richiesta di contributi per l'ottenimento della
certificazione Ecolabel di prodotti e servizi, per
l'assegnazione di contributi, agevolazioni e finanziamenti
in materia ambientale.
La legge stabilisce, inoltre, come procedere
all'applicazione dei «criteri ambientali minimi» negli
appalti pubblici per le forniture e negli affidamenti di
servizi: si prevede l'obbligo, per gli appalti di forniture
di beni e di servizi, di prevedere nei relativi bandi e
documenti di gara l'inserimento almeno delle specifiche
tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei
«Criteri ambientali minimi (Cam)», ai sensi del piano
d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel
settore della pubblica amministrazione, per l'acquisto di
servizi energetici per gli edifici, di attrezzature per
l'ufficio e di lampade.
Tale obbligo si applica, per almeno il 50% del valore delle
forniture, dei lavori o dei servizi oggetto delle gare
d'appalto, anche ad altre categorie di beni e servizi:
affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani;
forniture di cartucce e toner; affidamento del servizio di
gestione del verde pubblico; carta per copie; ristorazione
collettiva; prodotti tessili; arredo per l'ufficio e
affidamento del servizio di pulizia e fornitura di prodotti
per l'igiene.
La legge affida un ulteriore compito all'Osservatorio dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture,
ossia monitorare l'applicazione dei criteri ambientali
minimi. (modifica l'articolo 7 del Codice dei contratti) e
dispone che i bandi-tipo contengono indicazioni per
l'integrazione dei criteri ambientali minimi di cui ai
decreti attuativi del piano d'azione per la sostenibilità
ambientale dei consumi nel settore della pubblica
amministrazione (modifica l'articolo 64 del Codice dei
contratti)
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Gare Ue, formulario unico.
Obbligatorio dal 18.04.2016.
Formulario unico per partecipare alle gare di appalto di
livello comunitario obbligatorio dal 18 aprile prossimo.
È quanto deriva dal regolamento di esecuzione Ue) 2016/7
della Commissione Ue del 05.01.2016 (pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea L 3 del 06.01.2016), che contiene il modello di formulario per il
documento di gara unico europeo.
Il documento, che
rappresenta uno degli strumenti previsti a livello Ue per
semplificare la partecipazione alle gare pubbliche, è
previsto dall'articolo 59 della direttiva 2014/24, e
consiste in una dichiarazione formale predisposta dall'
operatore economico rispetto a quanto previsto dagli atti di
gara.
In particolare, si riferisce alle dichiarazioni di non
trovarsi in una delle situazioni nelle quali gli operatori
economici devono o possono essere esclusi, di soddisfare i
pertinenti criteri di selezione e di rispettare, se del
caso, le norme e i criteri oggettivi fissati al fine di
limitare il numero di candidati qualificati da invitare a
partecipare. Il documento, che dovrà essere utilizzato dal
18 aprile, è finalizzato a ridurre gli oneri amministrativi
derivanti dalla necessità di produrre un considerevole
numero di certificati o altri documenti relativi ai criteri
di esclusione e di selezione.
Tale documento deve contenere
le informazioni indicate chiaramente e in anticipo dalle
amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori
nell'avviso di indizione di gara e il regolamento consente
agli operatori economici di riutilizzare le informazioni
fornite in un DgUe già utilizzato in una procedura di
appalto precedente, purché siano ancora valide e pertinenti.
Il documento dovrà essere prodotto solo in forma elettronica
come prevede l'articolo 59, paragrafo 2, secondo comma,
della direttiva 2014/24/Ue; l'applicazione di tale
disposizione può comunque essere rinviata fino al 18.04.2018.
Pertanto, le due versioni del DgUe, elettronica e su
carta, possono coesistere al più tardi fino al 18.04.2018. Se più operatori economici compartecipano alla
procedura di appalto sotto forma di raggruppamento, comprese
le associazioni temporanee, dovrà essere presentato per
ciascuno degli operatori economici partecipanti un DgUe
distinto con le informazioni richieste; DgUe distinti
saranno presentati anche nel caso in cui l'operatore
economico faccia affidamento sulle capacità di uno o più
soggetti
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Sanremo, «validi» gli arresti domiciliari per gli
assenteisti.
Pa. Il via libera dalla Cassazione.
Quando
l’assenteismo diventa una «prassi consolidata», portata
avanti «in modo sistematico», può giustificare le misure
cautelari a carico dei dipendenti, perché suggerisce il
rischio concreto di ripetizione del reato.
Su queste basi la Corte di Cassazione - Sez. II penale, nella
sentenza
26.01.2016 n. 3289, mette il bollino sugli arresti
domiciliari e sull’obbligo di firma decisi dal giudice delle
indagini preliminari del Tribunale di Imperia nei confronti
di 25 dipendenti del Comune di Sanremo, fra cui il vigile
della celebre timbratura in slip diventato suo malgrado
l’icona della vicenda.
Le contestazioni del Tribunale puntano alla «falsa
attestazione» della presenza in servizio, cioè il reato
specifico per l’assenteismo nel pubblico impiego introdotto
a suo tempo dalla riforma Brunetta (articolo 69, comma 1, del Dlgs 150/2009), a cui si affiancano la truffa aggravata, il
falso ideologico e l’interruzione di pubblico servizio. Per
il gruppo dei 25 che si è rivolto alla Suprema corte
(all’interno dei 35 arrestati nell’inchiesta Stakanov che in
tutto coinvolge 195 persone), il pm ha chiesto e il gip ha
disposto due ordini di misure cautelari: l’arresto
domiciliare per i casi più gravi e l’obbligo di firma per
gli altri.
A motivarli, accanto al rischio di allungare la
lista dei reati, c’è il pericolo di inquinamento delle
prove, tanto più che le indagini sono ancora in corso: in
questo quadro, si affaccerebbe anche «l’agevole possibilità»
di concordare versioni di comodo per respingere le obiezioni
dei magistrati.
Nel tentativo di contrastare le decisioni del Gip, in
realtà, il ricorso in Cassazione ha puntato più sulla
procedura che sul merito, accusando di fatto il giudice di
aver “copiato e incollato” le informazioni del pubblico
ministero aderendo in modo acritico alla sua descrizione.
Così facendo, mancherebbe quindi la «valutazione autonoma»
dei gravi indizi di colpevolezza, che la riforma del Codice
di procedura penale (articolo 8, comma 1 della legge
47/2015) impone per convalidare le misure cautelari.
Nella ricostruzione della Cassazione, però, il lavoro svolto
dal giudice appare parecchio più “originale”: è vero, spiega
la sentenza, che il Gip ha rimandato a un «corposissimo
numero di elementi investigativi» del pubblico ministero
(pedinamenti, fotografie, video, timbrature eccetera), ma
poi ne ha tratto valutazioni autonome, come dimostra il
fatto che alcuni arresti domiciliari sono stati trasformati
nell’obbligo di firma (articolo Il Sole 24 Ore del
27.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Nelle
controversie riconducibili alle fattispecie regolate dagli
artt. 1150 e 936 c.c. nessun indennizzo a carico del
proprietario del fondo può essere preteso dal terzo
costruttore che abbia realizzato l’opera in violazione della
normativa edilizia, autonomamente commettendo nel primo
caso, o concorrendo nel secondo, i reati previsti dalle
singole disposizioni penali che sanzionano le condotte
illecite: ciò non tanto perché possano essere poste in
dubbio la sussistenza o l’entità della locupletazione del
proprietario del fondo nella prospettiva di un ordine di
demolizione da parte della pubblica amministrazione
competente, quanto piuttosto perché è da ritenere in
contrasto con i principi generali dell’ordinamento ed in
particolare con la funzione dell’amministrazione della
giustizia che possa l’agente conseguire indirettamente, ma
pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era
ripromesso di ottenere nel porre in essere l’attività
penalmente illecita e che in via diretta gli è precluso
dagli artt. 1346 e 1418 c.c..
---------------
Con il primo
motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa
applicazione degli artt. 936, 1346 e 1418 c.c. in relazione
all'art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., per avere la corte
d'appello proceduto alla liquidazione dell'indennità in
presenza di un'opera realizzata in difformità della
rilasciata concessione, così da costringere il proprietario
a richiedere successiva sanatoria e da determinarne la
condanna in sede penale.
In particolare, D'As., procedendo all'edificazione
dell'appartamento, aveva operato in difformità della licenza
edilizia rilasciata dal Comune di Partinico a Ga.Gi.,
realizzando una veranda chiusa non prevista nel progetto,
con aumento della relativa cubatura e in violazione delle
norme imperative al tempo cogenti: per effetto di tale
condotta il predetto Ga. aveva subito un procedimento e una
condanna in sede penale, resa con sentenza del 05.06.1981, e
aveva dovuto proporre domanda di sanatoria.
Sul punto i ricorrenti hanno richiamato la giurisprudenza di
questa Corte in forza della quale l'autore di un illecito
non è titolato a richiedere l'indennità ex art. 936 c.c., e
ciò anche nel caso in cui il proprietario del fondo si giovi
dell'opera per avere regolarizzato l'immobile con la
concessione in sanatoria.
Il motivo non è fondato.
La corte palermitana ha rilevato che per l'immobile
edificato dall'odierno controricorrente era stata rilasciata
regolare concessione edilizia n. 23 del 17.05.1977 e che
Ga.Gi. aveva subito una condanna in sede penale con sentenza
resa dal pretore di Partinico "per la realizzazione del
II piano in assenza di concessione edilizia e per aver
chiuso a veranda una terrazza del I piano: quindi, la
difformità sarebbe consistita unicamente in tale opera".
E' da aggiungere, a quest'ultimo riguardo, che i ricorrenti
si dolgono proprio del fatto che Ga.Gi. abbia subito le
ripercussioni della violazione edilizia concernente il primo
piano dell'edificio (e avente ad oggetto la nominata
chiusura della veranda), violazione posta in essere da
D'As., il quale non era invece responsabile degli abusi
riferiti al secondo piano del fabbricato (cfr. pagg. 12 e 13
ricorso).
La sentenza impugnata ha poi evidenziato che con riferimento
ai due illeciti (quelli concernenti, rispettivamente, il
primo in secondo piano dell'edificio) era stata rilasciata
concessione in sanatoria n. 329/2000 (in cui era oltretutto
richiamata la concessione del 1977: dal che la corte
ricavava una conferma dell'esistenza del titolo che
autorizzava la realizzazione del corpo di fabbrica del primo
piano). Il giudice d'appello ha quindi concluso nel senso di
non potersi in alcun modo negare la locupletazione in favore
del proprietario: ciò in quanto "l'immobile non è
precario essendo escluso qualsiasi pericolo di demolizione
dello stesso".
Ciò detto, da una prima angolazione deve richiamarsi il
principio consolidato per cui
ove
l'esecuzione delle opere abusive da parte di un terzo, con
materiali propri, su suolo altrui, configuri un illecito
penale, il proprietario non gli deve corrispondere alcun
indennizzo (per
tutte: Cass. 25.02.2011, n. 4732; Cass. 29.01.1997, n. 888;
Cass. 10.09.1997, n. 8834), poiché, sul piano civilistico,
il manufatto abusivo deve ritenersi carente di valore per il
fondo. Infatti, in caso di costruzione
eretta senza titolo concessorio -ovvero di opere eseguite in
contrasto con la stesso- il diritto dominicale relativo a
quell'opera è caratterizzato da spiccata precarietà quanto
al suo contenuto di ricchezza acquisita, poiché i
provvedimenti autoritativi previsti dalla legge si risolvono
nell'espressione di una qualità giuridica immanente a quel
manufatto e da esso non separabile
(Cass. 13.04.1995, n. 4269, richiamata da Cass. 22.08.2003,
n. 12347).
Tale situazione viene evidentemente meno per effetto della
regolarizzazione urbanistica del manufatto, operata, come
nel caso in esame, con la concessione in sanatoria richiesta
da Ga.Gi.. Infatti, a norma dell'art. 38 l. 47/1985
l'oblazione estingue il reato edilizio e, concessa la
sanatoria, viene meno la possibilità di applicare le
sanzioni amministrative conseguenti all'abuso; inoltre, ove
nei confronti del richiedente la sanatoria sia intervenuta
con sentenza definitiva di condanna per il reato, viene
fatta annotazione della oblazione nel casellario giudiziale
e in tale caso non si tiene conto della condanna ai fini
dell'applicazione della recidiva e del beneficio della
sospensione condizionale della pena. La concessione in
sanatoria restituisce quindi senz'altro l'immobile a uno
stato di conformità al diritto e, come correttamente
rilevato dalla corte di appello, esclude che lo stesso sia
oggetto di una futura demolizione per la violazione della
disciplina edilizia ad esso applicabile.
Il discorso non si esaurisce, tuttavia, nei rilievi fin qui
svolti.
Da una seconda angolazione, va infatti osservato che questa
Corte ha in passato ritenuto che nelle
controversie riconducibili alle fattispecie regolate dagli
artt. 1150 e 936 c.c. nessun indennizzo a carico del
proprietario del fondo può essere preteso dal terzo
costruttore che abbia realizzato l'opera in violazione della
normativa edilizia, autonomamente commettendo nel primo
caso, o concorrendo nel secondo, i reati previsti dalle
singole disposizioni penali che sanzionano le condotte
illecite: "ciò non tanto perché possano essere poste in
dubbio la sussistenza o l'entità della locupletazione del
proprietario del fondo nella prospettiva di un ordine di
demolizione da parte della pubblica amministrazione
competente, quanto piuttosto perché è da ritenere in
contrasto con i principi generali dell'ordinamento ed in
particolare con la funzione dell'amministrazione della
giustizia che possa l'agente conseguire indirettamente, ma
pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era
ripromesso di ottenere nel porre in essere l'attività
penalmente illecita e che in via diretta gli è precluso
dagli artt. 1346 e 1418 c.c."
(Cass. 17.05.2001, n. 6777; in senso conforme, Cass.
14.12.2011, n. 26853).
E' da ricordare, in proposito, che a norma dell'art. 38, 5°
co. 1. n. 47/1985, i soggetti indicati all'articolo 6 della
legge, tra cui è ricompreso il costruttore del manufatto,
che intendevano fruire dei benefici penali previsti dallo
stesso art. 38 e dall'art. 39, dovevano presentare al comune
autonoma domanda di oblazione, con le modalità di cui
all'articolo 35. Sulla base di tale disciplina, in difetto
di un'attivazione nel senso indicato, la sanatoria
conseguita dal proprietario non giovava allo stesso
costruttore, il quale, non essendosi autonomamente adoperato
onde conseguire l'estinzione del reato, versava
nell'illecito e non poteva legittimamente pretendere di
conseguirne il frutto per via giudiziaria (Cass. 17.05.2001,
n. 6777).
Il quadro normativo originario è peraltro mutato, dal
momento che il primo comma dell'art. 24 l. n. 136/1999 ha
disposto: "Il secondo comma dell'articolo 38 della legge
28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni, deve
intendersi nel senso che la corresponsione per intero
dell'oblazione, purché compiuta da uno dei soggetti
legittimati a presentare la domanda di cui all'articolo 31
della stessa legge, estingue nei confronti di tutti i
soggetti interessati i reati di cui all'articolo 41 della
legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni,
all'articolo 17 della legge 28.01.1977, n. 10, e successive
modificazioni, all'articolo 221 del testo unico delle leggi
sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n. 1265,
e agli articoli 13, primo comma, 14, 15 e 16 della legge
05.11.1971, n. 1086".
Quindi il predetto art. 24, 1° co., estende
l'effetto estintivo del reato -conseguente al pagamento
effettuato da coloro che sono legittimati ai sensi dell'art.
31 l. n. 47 del 1985- a tutti i soggetti responsabili, a
prescindere dalla presentazione di autonoma domanda di
condono.
Discende da ciò che con il pagamento dell'oblazione da parte
di Ga. è venuto meno anche il concorso nel reato da parte di
D'As.. Per il che nulla osta a che il medesimo si veda
riconosciuto l'indennizzo di cui all'art. 936 c.c. (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
II,
sentenza 25.01.2016 n. 1237). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di
un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle
funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua
qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano
rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la
conoscenza (art. 326, comma primo, cod. pen.) risulta
infatti integrato da un dolo generico, che consiste nella
coscienza e volontà di rivelare notizie o di agevolarne la
loro conoscenza da parte di terzi, nella consapevolezza del
loro carattere segreto e della violazione dei loro doveri di
funzione.
Per gli indicati contenuti quindi l’intento dell’agente non
è quello di recare danno al privato che pertanto patisce per
la descritta condotta di eventuali pregiudizi non in via
diretta, ma quale riflessa conseguenza destinata a rilevare
ai fini della risarcibilità derivante da reato, ma non a
legittimare il privato stesso all’esercizio dei poteri
processuali destinati ad incidere sulle sorti dell’azione
penale (artt. 408, 409, 410 cod. proc. pen.).
---------------
1. Per consolidato orientamento di legittimità,
nel reato di rivelazione ed utilizzazione di segreto
di ufficio, la persona offesa deve essere individuata
esclusivamente nella p.A., risultando l'interesse tutelato
rappresentato dal buon funzionamento dell'amministrazione
attraverso il dovere di fedeltà del funzionario. Al privato
invece può, al più, attribuirsi la qualità di terzo
danneggiato, negandosi, per tale via, al medesimo la
legittimazione a ricorrere per cassazione contro il
provvedimento di archiviazione e ad attivare i meccanismi di
controllo processuale di cui agli artt. 408-410 cod. proc.
pen. (Sez. 6, n.
4170 del 06/11/2012, Minolfi, Rv. 254239; Sez. 6, n. 19307
del 22/04/2008, Rv. 239883, Petrella; Sez. 6, n. 5141 del
18/12/2007, Cincavalli; Sez. 6, n. 2675 del 24/09/1998,
Piccirilli; Sez. 6, n. 3598 del 12/10/1995, Ferretti).
1.1. L'argomento portato in ricorso per il quale il
trattamento riservato ai danneggiati del reato di falsa
perizia, i quali sarebbero stati avvisati, nel corso di un
incontro con il rappresentante della pubblica Accusa, della
prossima chiusura delle indagini e del disposto rinvio a
giudizio del Pa., indagato per il reato di cui all'art. 373
cod. pen., deporrebbe per la legittimazione del Pa. stessa
ad ottenere avviso della richiesta archiviazione nel
derivato procedimento di rivelazione di segreti di ufficio,
è del tutto incongruo.
Lo stesso, nella diversità delle condotte poste in raffronto
di operata, in fatto, partecipazione ai danneggiati degli
esiti delle indagini e di mancato avviso del provvedimento
di archiviazione, non è destinate a sostenere alcun critico
ripensamento dell'affermato indirizzo della Corte sul
carattere monoffensivo del reato di rivelazione del segreto
di ufficio.
1.2. Gli esiti interpretativi cui è giunta la giurisprudenza
di legittimità nella individuazione degli interessi lesi, e
quindi delle categorie delle persone offese, per talune
delle tipologie di reato (tra i quali il peculato e l'abuso
d'ufficio), non valgono ad estendere, di contro a granitica
giurisprudenza di legittimità, in capo al danneggiato dal
reato di rivelazione del segreto di ufficio quel diritto al
contraddittorio riconosciuto invece in fase di indagine alla
persona offesa, destinataria come tale dell'avviso del
decreto di archiviazione (art. 409, comma 2, cod. proc. pen.).
L'elemento soggettivo del reato oggetto dell'opposta
archiviazione che accompagna la condotta per la quale
«Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di
un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle
funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua
qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano
rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la
conoscenza» (art. 326, comma primo, cod. pen.) risulta
infatti integrato da un dolo generico, che consiste nella
coscienza e volontà di rivelare notizie o di agevolarne la
loro conoscenza da parte di terzi, nella consapevolezza del
loro carattere segreto e della violazione dei loro doveri di
funzione.
Per gli indicati contenuti quindi l'intento
dell'agente non è quello di recare danno al privato che
pertanto patisce per la descritta condotta di eventuali
pregiudizi non in via diretta, ma quale riflessa conseguenza
destinata a rilevare ai fini della risarcibilità derivante
da reato, ma non a legittimare il privato stesso
all'esercizio dei poteri processuali destinati ad incidere
sulle sorti dell'azione penale (artt. 408, 409, 410 cod.
proc. pen.).
Siffatti poteri sono invece riconosciuti
all'offeso, in quanto la lesione del bene giuridico di cui
egli è portatore riceve espresso riconoscimento dalla stessa
obiettiva struttura del reato e dal correlato estremo
soggettivo (diversa sarebbe invece, ad esempio, l'ipotesi
delittuosa descritta dal terzo comma dell'art. 326 cod. pen.
ove l'espresso richiamo, proprio di un dolo specifico,
all'intento dell'agente di procurare, con l'assunta condotta
di illegittimo utilizzo di notizie di ufficio destinate a
rimanere segrete, un altrui danno ingiusto può ritenersi
estendere la platea dei soggetti offesi al privato)
(massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
VI penale,
sentenza 22.01.2016 n. 3048). |
APPALTI: Utile d'impresa insindacabile.
Non costituisce anomalia nell'offerta.
L'entità dell'utile di impresa indicato in una offerta per
un appalto pubblico non è sindacabile tranne che per
macroscopici errori di valutazione o di fatto; è infatti
stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale
l'offerta deve essere considerata anomala.
È quanto ha
affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 22.01.2016 n. 211 rispetto a un profilo di
rilievo nell'ambito della valutazione di anomalia delle
offerte come è quello della indicazione del cosiddetto utile
di impresa.
Nel caso esaminato una ditta aveva formulato un'offerta
nella quale era indicato un costo del lavoro per un
contratto di durata basso ma non ritenuto anomalo. La
sentenza conferma il giudizio di primo grado che aveva
legittimato l'operato della stazione appaltante.
I giudici hanno affermato che in una gara pubblica la
valutazione di anomalia dell'offerta va condotta con
riguardo al caso concreto, «poiché un utile all'apparenza
modesto può comportare un vantaggio significativo sia per la
prosecuzione in sé dell'attività lavorativa (il mancato
utilizzo dei propri fattori produttivi è comunque un costo),
sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum
derivanti per l'impresa dall'essere aggiudicataria e
dall'aver portato a termine un appalto pubblico».
Non è quindi possibile stabilire una soglia minima di utile
al di sotto della quale l'offerta deve essere considerata
anomala, al di fuori dei casi in cui il margine positivo
risulta pari a zero. Viene infatti rimarcato che la
valutazione di anomalia si traduce in un giudizio ampiamente
discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità
tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e
macroscopica erroneità o irragionevolezza.
Il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta non
ha infatti carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta
economica; viceversa il suo scopo è quello di accertare in
concreto che l'offerta, complessivamente, risulti
attendibile ed affidabile rispetto alla corretta esecuzione
dell'appalto.
L'esclusione dalla gara dell'offerente per l'anomalia della
sua offerta è l'effetto di una valutazione di complessiva
inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere e
non può avere a oggetto il dettaglio sui singoli aspetti
(articolo ItaliaOggi del 29.01.2016).
---------------
MASSIMA
A tal proposito, occorre rammentare alcuni principi
enunciati dalla giurisprudenza, che si attagliano al caso di
specie.
Nella gara pubblica la valutazione di
anomalia dell'offerta va fatta considerando tutte le
circostanze del caso concreto, poiché un utile all'apparenza
modesto può comportare un vantaggio significativo sia per la
prosecuzione in sé dell'attività lavorativa (il mancato
utilizzo dei propri fattori produttivi è comunque un costo),
sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum
derivanti per l'impresa dall'essere aggiudicataria e
dall'aver portato a termine un appalto pubblico, cosicché
nelle gare pubbliche non è possibile stabilire una soglia
minima di utile al di sotto della quale l'offerta deve
essere considerata anomala, al di fuori dei casi in cui il
margine positivo risulta pari a zero
(Consiglio di Stato, sez. III, 10/11/2015, n. 5128).
Il giudizio sull’anomalia è un giudizio
ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di
discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di
manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; il
giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della
Pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità,
ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, ma non
procedere ad una autonoma verifica della congruità
dell'offerta e delle singole voci, che costituirebbe
un'inammissibile invasione della sfera propria della
Pubblica amministrazione e tale sindacato rimane limitato ai
casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di
valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o
inficiate da errori di fatto
(Consiglio di Stato, sez. V, 02/12/2015, n. 5450).
Il procedimento di verifica dell'anomalia
dell'offerta non ha carattere sanzionatorio e non ha per
oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare in
concreto che l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile
ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione
dell'appalto.
Esso mira piuttosto a garantire e tutelare l'interesse
pubblico concretamente perseguito dall'Amministrazione
attraverso la procedura di gara per l'effettiva scelta del
miglior contraente possibile ai fini dell'esecuzione
dell'appalto, così che l'esclusione dalla gara
dell'offerente per l'anomalia della sua offerta è l'effetto
della valutazione (operata dall'Amministrazione appaltante)
di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine
da raggiungere.
Un sindacato nel dettaglio sui singoli aspetti è, dunque,
precluso al giudice amministrativo, cui non è consentito
procedere ad una autonoma valutazione della congruità o meno
di singole voci, non potendosi esso sostituire ad una
attività valutativa rimessa, quanto alla sua intrinseca
manifestazione, unicamente all'Amministrazione procedente
(Consiglio di Stato, sez. VI, 14/08/2015, n. 3935; sez. V,
22/12/2014, n. 6231). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Titoli, agrotecnici e periti agrari pari sono.
La sentenza del consiglio di stato.
Illegittima l'esclusione dal concorso del candidato non
iscritto all'albo dei periti agrari richiesto dal bando ed
iscritto invece a quello degli agrotecnici e agrotecnici
laureati. Ciò in quanto i due diplomi sono equiparabili.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
20.01.2016 n. 172, in
relazione al fatto che tra i due diplomi (di agrotecnico e
di perito agrario) la totale equiparazione è stata
confermata anche dall'articolo 55 del dpr 05.06.2001, n.
328 che prevede le medesime classi di laurea (1, 7, 8, 17,
20, 27, 40) per l'accesso alla professione di agrotecnico
laureato e di perito agrario laureato.
«E ciò», precisa la
sentenza, «essendo da considerare ormai superata la
duplicazione del corso di studi, nata per affiancare al
corso tradizionale un piano di studi di natura sperimentale,
mentre persiste una differenziazione tra le aree
professionali cui non può che accedersi attraverso il
superamento del relativo esame di abilitazione».
A tale
proposito la V Sezione ha rilevato che «doveva comprendersi»
il significato della segnalazione a suo tempo inviata al Miur dall'Autorità Garante della concorrenza e del mercato
il quale, con nota del 21 settembre 2009, sottolineava che
la limitazione dell'accesso all'esame di abilitazione per
l'esercizio della professione di agrotecnico ai soli
soggetti titolari del diploma di agrotecnico avrebbe
costituito una barriera all'ingresso della professione di
agrotecnico non necessaria né proporzionata, stante
l'equiparazione dei titoli di studio.
Il Cds ha seguito il
medesimo ragionamento; perché accertata l'equipollenza dei
titoli di studio, non può essere disgiunta la conseguente
abilitazione ed iscrizione al relativo albo, visto che
opposta interpretazione porterebbe a conclusioni del tutto
illogiche: equipollenza dei titoli di studio, ma diversità
dell'esame di abilitazione con l'equipollenza priva di
significato.
E ciò proprio sulla base della segnalazione
dell'Autorità garante pubblicata sul bollettino 37/2009 e
diretta al Miur in riferimento al bando di indizione per
l'anno 2009 della sessione degli esami di stato per
l'abilitazione all'esercizio della libera professione di
agrotecnico. Fu in tale occasione che il Garante rilevò
l'irragionevolezza che due titoli di studio vengano
dichiarati equipollenti per certi aspetti e non per altri
(articolo ItaliaOggi del 23.01.2016).
---------------
MASSIMA
- Vista la sentenza impugnata con la quale è stato
ritenuto non ammissibile alla procedura concorsuale per un
posto di istruttore tecnico categoria C presso la Provincia
di Sassari l’attuale appellante, in quanto privo del titolo
costituito dall’iscrizione all’albo dei periti agrari
richiesto dal bando ed invece iscritto all’albo
professionale degli agrotecnici e agrotecnici laureati;
- Viste le censure sollevate con l’appello concernenti
l’equivalenza del diploma di agrotecnico e della relativa
iscrizione all’apposito albo professionale;
- Considerato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato
si è pronunciata recentemente più volte sull’equipollenza
dei titoli di studio in questione e da ultimo con il parere
24.10.2012 n. 4335, della Sezione II, in cui si è rammentato
il precedente l’analogo parere della III Sezione n. 195 del
10.03.1998, secondo cui
tra i due diplomi (di agrotecnico e di perito agrario) vi è
una totale equiparazione -confermata anche dall’art. 55 del
d.P.R. 05.06.2001, n. 328 che prevede le medesime classi di
laurea (1, 7, 8, 17, 20, 27, 40) per l’accesso alla
professione di agrotecnico laureato e di perito agrario
laureato- essendo da considerare ormai superata la
duplicazione del corso di studi, nata per affiancare al
corso tradizionale un piano di studi di natura sperimentale,
mentre persiste una differenziazione tra le aree
professionali cui non può che accedersi attraverso il
superamento del relativo esame di abilitazione;
- Rilevato che doveva comprendersi il significato della
segnalazione inviata al Ministro dell’istruzione,
dell’Università e della Ricerca dall’Autorità Garante della
concorrenza e del mercato con nota in data 21.09.2009, in
cui si è sottolineata che la limitazione dell’accesso
all’esame di abilitazione per l’esercizio della professione
di agrotecnico ai soli soggetti titolari del diploma di
agrotecnico avrebbe costituito una barriera all’ingresso
della professione di agrotecnico non necessaria né
proporzionata, stante l’equiparazione dei titoli di studio.
-
Ritenuto che l’equipollenza dei titoli di studio di cui
sopra non possa essere disgiunta dalla conseguente
abilitazione ed iscrizione al relativo Albo professionale
anche in dipendenza di quanto riportato dalla nota in data
21.09.2009 dell’Autorità Garante della concorrenza e del
mercato e visto che opposta interpretazione porterebbe a
conclusioni del tutto illogiche –equipollenza dei titoli di
studio, ma diversità dell’esame di abilitazione– nel qual
caso l’equipollenza rimarrebbe priva di significato. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Nel contratto di locazione di un immobile per uso
diverso da quello di abitazione, la mancanza delle
autorizzazioni o concessioni amministrative che condizionano
la regolarità del bene sotto il profilo edilizio –e, in
particolare, la sua abitabilità e la sua idoneità
all’esercizio di un’attività commerciale o, come nella
specie, professionale– costituisce inadempimento del
locatore che giustifica la risoluzione del contratto ai
sensi dell’art. 1578 c.c., a meno che il conduttore non sia
a conoscenza della situazione e l’abbia consapevolmente
accettata.
Solo quando l’inagibilità o l’inabitabilità del bene attenga
a carenze intrinseche o dipenda da caratteristiche proprie
del bene locato, si da impedire il rilascio degli atti
amministrativi relativi alle dette abitabilità o agibilità e
da non consentire l’esercizio lecito dell’attività del
conduttore conformemente all’uso pattuito, può configurarsi
l’inadempimento del locatore, fatta salva l’ipotesi in cui
quest’ultimo abbia assunto l’obbligo specifico di ottenere
tali atti.
---------------
3.1. Il motivo é infondato.
3.2. In tema di obblighi del locatore in relazione ad
immobili adibiti ad uso non abitativo si sono registrati
due diversi orientamenti nella giurisprudenza di
legittimità.
Secondo un primo indirizzo (Cass. 13.03.2007, n.
5836; Cass. 08.06.2007, n. 13395; Cass. 01.12.2009, n. 25278
e Cass. 25.01.2011, n. 1735) nei contratti di locazione
relativi ad immobili destinati ad uso non abitativo, grava
sul conduttore l'onere di verificare che le caratteristiche
del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per
lo svolgimento dell'attività che egli intende esercitarvi,
nonché al rilascio delle necessarie autorizzazioni
amministrative; ne consegue che, ove il conduttore non
riesca ad ottenere tali autorizzazioni, non è configurabile
alcuna responsabilità per inadempimento a carico del
locatore, e ciò anche se il diniego sia dipeso dalle
caratteristiche proprie del bene locato; la destinazione
particolare dell'immobile, tale da richiedere che lo stesso
sia dotato di precise caratteristiche e che ottenga
specifiche licenze amministrative, diventa rilevante, quale
condizione di efficacia, quale elemento presupposto o,
infine, quale contenuto dell'obbligo assunto dal locatore
nella garanzia di pacifico godimento dell'immobile in
relazione all'uso convenuto, solo se abbia formato oggetto
di specifica pattuizione, non essendo sufficiente la mera
enunciazione, in contratto, che la locazione sia stipulata
per un certo uso e l'attestazione del riconoscimento
dell'idoneità dell'immobile da parte del conduttore.
Secondo il diverso orientamento (Cass. 28.03.2006 a
7081; Cass. 07.06.2011, n. 12286, Cass. 19.07.2008, n.
20067), che dà, a vario titolo, rilievo al difetto della
documentazione in parola, nel contratto di locazione di un
immobile per uso diverso da quello di abitazione, la
mancanza delle autorizzazioni o concessioni amministrative
che condizionano la regolarità del bene sotto il profilo
edilizio -e, in particolare, la sua abitabilità e la sua
idoneità all'esercizio di un'attività commerciale o, come
nella specie, professionale- costituisce inadempimento del
locatore che giustifica la risoluzione del contratto ai
sensi dell'art. 1578 c.c., a meno che il conduttore non sia
a conoscenza della situazione e l'abbia consapevolmente
accettata.
Con sentenza del 16.06.2014, n. 13651, questa Corte,
operando una sintesi ed un coordinamento dei citati
orientamenti, ha ritenuto che solo quando
l'inagibilità o l'inabitabilità del bene attenga a carenze
intrinseche o dipenda da caratteristiche proprie del bene
locato, sì da impedire il rilascio degli atti amministrativi
relativi alle dette abitabilità o agibilità e da non
consentire l'esercizio lecito dell'attività del conduttore
conformemente all'uso pattuito, può configurarsi
l'inadempimento del locatore, fatta salva l'ipotesi in cui
quest'ultimo abbia assunto l'obbligo specifico di ottenere
tali atti. A tale
ultimo orientamento, ribadito da 19.12.2012, n. 26907,
ritiene il Collegio di dare continuità.
La Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei
principi di diritto sopra enunciati e condivisi dal
Collegio, in quanto ha evidenziato (v. p. 5 della sentenza)
che non è stato previsto contrattualmente alcun obbligo in
capo al locatore, per eventuali licenze e autorizzazioni e
che anzi era stato pattuito (art. 14) l'esonero di ogni
responsabilità nel caso di difetto, diniego o revoca di
concessioni o licenze di autorizzazioni amministrative e,
dunque, anche caso di diniego di autorizzazione per
l'esercizio dell'attività. La Corte ha pure affermato che
nella specie non poteva ritenersi che il conduttore non
avesse conosciuto i vizi del bene o che locatore li avesse
taciuti al momento della consegna dell'immobile, avendo il
conduttore preso visione del bene prima della sottoscrizione
del contratto, sicché ben ne conosceva lo stato, che aveva
voluto e accettato con la sottoscrizione del contratto, e
quindi l'idoneità o meno dello stesso all'esercizio
dell'attività.
A tanto va aggiunto che correttamente la Corte di merito ha
ritenuto non applicabile, al caso all'esame, la disciplina
di cui all'art. 1579 c.c., difettando nella specie la prova
della totale inidoneità del bene all'uso convenuto, in
quanto in ricorso non risultano neppure dedotte le ragioni
per le quali non sia stata ottenuta "la licenza ad uso
medico", del cui mancato rilascio da parte del Comune si
duole il ricorrente (v. ricorso p. 10), né che tale rilascio
sia stato definitivamente negato, né risulta sia stata data
prova della mala fede del locatore genericamente asserita
dal ricorrente (v. ricorso p. 12), evidenziandosi, altresì,
che la Corte di merito ha pure affermato che nulla é stato
provato e neppure dedotto circa il mancato totale utilizzo
dell'immobile di cui il conduttore ha avuto la disponibilità
e la detenzione, avendolo riconsegnato solo in data
28.09.1995.
Del resto, anche in questa sede, il Pi. ha sostenuto di non
aver utilizzato il bene secondo l'uso convenuto, senza al
riguardo far neppure riferimento a elementi probatori a
sostegno di tale affermazione (v. ricorso p. 14),
limitandosi poi a sostenere (v. ricorso p. 16) che la
necessità di adoperarsi presso il Comune per ottenere la
licenza avrebbe creato "uno stato di obiettiva incertezza
incidendo negativamente sul pieno godimento dell'immobile"
(massima tratta da
http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III
civile,
sentenza 18.01.2016 n. 666). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il diritto a scegliere la sede di lavoro
attribuito dall’art. 33, comma 5, Legge n. 104/1992 ai
familiari di soggetti portatori di handicap non è assoluto,
potendo essere esercitato «ove possibile»: in applicazione
del principio del bilanciamento degli interessi, non può
essere fatto valere qualora il suo esercizio leda in misura
consistente le esigenze economiche ed organizzative del
datore di lavoro, poiché in tali casi, soprattutto per
quanto attiene ai rapporti di lavoro pubblico, potrebbe
determinarsi un danno per la collettività.
---------------
7. Procedendo ad esame congiunto dei motivi, deve
premettersi che la l. 05.02.1992 n. 104, legge-quadro per
l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate, al c. 3 dell’art. 33, per quanto qui
rileva, prevede che “a condizione che la persona
handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore
dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con
handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine
entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora
i genitori o il coniuge della persona con handicap in
situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni
di età oppure siano anche essi affetti da patologie
invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire
di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da
contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il
predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un
lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona
con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo
stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il
diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche
adottivi, che possono fruirne alternativamente….”.
Il successivo c. 5, nel testo rilevante ratione temporis
in relazione alla domanda (presentata il 07.09.2007) e
quindi prima della modifica apportata dall’art. 24 della l.
04.11.2010 n. 183, prevede che “il genitore o il
familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o
privato, che assista con continuità un parente o un affine
entro il terzo grado handicappato, ha diritto a scegliere,
ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio
domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso
ad altra sede”.
8. Il testo delle richiamate disposizioni
legislative non consente di limitare il diritto alla
mobilità solo alle fattispecie in cui la situazione di
handicap del soggetto assistito fosse esistente solo al
momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro.
L’espressione “ha diritto di scegliere”, infatti, non
può essere riferita solo al momento iniziale del rapporto di
impiego pubblico, in cui è disposta l’assegnazione della
sede di lavoro, ma deve essere letta con riferimento alla
ratio generale della legge n. 104, di approntare
strumenti di tutela della persona handicappata che esaltino
la naturale spinta solidaristica nascente dal vincolo
familiare e che si aggiungano alle tutele offerte dai
pubblici servizi di assistenza.
La centralità di tale concetto di tutela è stata posta in
rilievo dalla giurisprudenza proprio in relazione al momento
in cui il diritto della persona handicappata deve essere
rapportato al diritto alla mobilità del pubblico dipendente,
tanto nel caso che il vincolo di assistenza venga invocato
per evitare il trasferimento
(Cass. 09.07.2012 n. 9201), tanto che venga
invocato per ottenere il trasferimento
(Cass. 03.08.2015 n. 16298, ove il dato interpretativo
letterale viene rafforzato con la comparazione con il
successivo c. 6, che regola la fattispecie della persona in
situazione di handicap che chiede lo spostamento di sede,
alla quale non viene posta alcuna preclusione e si consente
il trasferimento, senza distinguere se la situazione
soggettiva sia intervenuta prima dell’instaurazione o in
costanza del rapporto di lavoro).
9. Fatta questa premessa generale di contenuti, deve
richiamarsi la giurisprudenza di legittimità ulteriore a
proposito della disciplina del diritto alla mobilità.
Il comma 5 dell’art. 33 ora in esame deve essere
interpretato nel senso che il genitore o il
familiare lavoratore che assista con continuità un parente o
un affine entro il terzo grado handicappato, con lui
convivente, ha diritto di scegliere la sede di lavoro più
vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito
senza il suo consenso ad altra sede, solo se ciò sia
possibile in relazione alle esigenze di servizio. Il
diritto, in virtù dell’inciso contenuto nella norma, secondo
il quale esso può essere esercitato ove possibile, in
applicazione del principio del bilanciamento degli
interessi, non può essere fatto valere qualora l’esercizio
leda in misura consistente le esigenze economiche ed
organizzative dell’azienda (se si verta in situazione di
lavoro privato) ed implica che l’handicap sia grave o,
comunque, richieda un’assistenza continuativa
(Cass. 27.05.03 n. 8436).
Il diritto non è assoluto e privo di
condizioni e implica un recesso del diritto stesso, ove
risulti incompatibile con le esigenze economiche e
organizzative del datore di lavoro, poiché in tali casi,
soprattutto per quanto attiene ai rapporti di lavoro
pubblico, potrebbe determinarsi un danno per la collettività
(Cass. 25.01.2006 n. 1396 e 27.03.2008 n. 7945) (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 15.01.2016 n. 585). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze professionali: il confine del riparto tra
ingegneri e architetti.
Circa il compimento di attività di
progettazione e direzione lavori che, riguardando opere
relative ad un bene di interesse storico-artistico
assoggettato a tutela ex d.lgs. n. 42 del 2004, sarebbero
riservate alla competenza degli architetti, il Collegio
ritiene necessario chiarire quale sia l’àmbito di
applicabilità dell’invocato art. 52, comma 2, del r.d. n.
2537 del 1925.
Si tratta della previsione secondo cui “…le opere di
edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico
ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati
dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l’antichità e le belle
arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma
la parte tecnica ne può essere compiuta tanto
dall’architetto quanto dall’ingegnere”, da intendere
–secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale–
nel senso che non la totalità degli interventi concernenti
gli immobili di interesse storico e artistico deve essere
affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma
solo le parti di intervento di edilizia civile che
riguardino scelte culturali connesse alla maggiore
preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’àmbito
del restauro e risanamento degli immobili di interesse
storico e artistico, restando invece nella competenza
dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia le
attività progettuali e di direzione dei lavori che
riguardano l’edilizia civile vera e propria, quali –in
particolare– le lavorazioni strutturali ed impiantistiche,
se si limitano, ad es., alla messa in sicurezza
dell’immobile e alla revisione degli impianti senza
intaccare l’aspetto estetico dell’edificio.
----------------
... per
l'annullamento
della determinazione n. 32 del 06.05.2015, con cui
l’Unione Reno Galliera provvedeva all’aggiudicazione
definitiva dei servizi di “ingegneria ed architettura,
progettazione preliminare, definitiva, esecutiva, redazione
del piano di manutenzione, direzione lavori, misure e
contabilità, coordinamento progettazione ed esecuzione
afferenti il recupero del Castello di Bentivoglio a seguito
dei danni causati dal terremoto - 1° stralcio di
attuazione”;
-
per quanto occorrer possa, della determinazione n. 68 in
data 19.09.2014 del Comune di Bentivoglio (relativa
all’avvio della procedura di affidamento dell’incarico di
progettazione e direzione lavori del primo stralcio degli
interventi di ripristino sull’immobile Castello di
Bentivoglio) nella sola parte in cui non prevede l’invio
delle lettere di invito a soggetti professionalmente idonei,
della determinazione n. 3 in data 06.02.2015
dell’Unione Reno Galliera nella sola parte in cui approva
l’elenco dei soggetti da invitare alla gara, dell’elenco
stilato dall’Unione Reno Galliera (circa i soggetti da
invitare alla gara) nella sola parte in cui include anche
l’ing. Ma.Pi, della lettera di invito alla gara
inviata all’ing. Ma.Pi., dei verbali di gara nella
sola parte in cui la Commissione ha prima ammesso, poi
valutato ed infine aggiudicato provvisoriamente l’incarico
all’ing. Ma.Pi. e alla Politecnica Ingegneria ed
Architettura Soc. Coop., delle verifiche svolte in capo al
soggetto aggiudicatario al fine di integrare l’efficacia
dell’aggiudicazione provvisoria, della comunicazione di
aggiudicazione definitiva inviata via PEC al ricorrente in
data 18.05.2015;
- ...per la declaratoria….
di inefficacia del contratto stipulato tra l’Unione Reno
Galliera e/o il Comune di Bentivoglio e il raggruppamento
composto dall’ing. Ma.Pi. e dalla Politecnica
Ingegneria ed Architettura Soc. Coop.;
-
del diritto del ricorrente di subentrare nel suddetto
contratto e/o nell’esecuzione dello stesso;
- ..per la condanna…
delle Amministrazioni convenute al risarcimento del danno
ingiusto, in forma specifica o, in mero subordine, per
equivalente, determinandone il quantum in via equitativa;
...
Il ricorso è infondato.
Quanto, innanzitutto, al denunciato illegittimo invito alla
gara dell’ing. Pi. per il compimento di attività di
progettazione e direzione lavori che, riguardando opere
relative ad un bene di interesse storico-artistico
assoggettato a tutela ex d.lgs. n. 42 del 2004, sarebbero
riservate alla competenza degli architetti, il Collegio
ritiene necessario chiarire quale sia l’àmbito di
applicabilità dell’invocato art. 52, comma 2, del r.d. n.
2537 del 1925.
Si tratta della previsione secondo cui “…le
opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere
artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici
contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l’antichità
e le belle arti, sono di spettanza della professione di
architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto
dall’architetto quanto dall’ingegnere”, da intendere –secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale–
nel senso che non la totalità degli interventi concernenti
gli immobili di interesse storico e artistico deve essere
affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma
solo le parti di intervento di edilizia civile che
riguardino scelte culturali connesse alla maggiore
preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’àmbito
del restauro e risanamento degli immobili di interesse
storico e artistico, restando invece nella competenza
dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia le
attività progettuali e di direzione dei lavori che
riguardano l’edilizia civile vera e propria, quali –in
particolare– le lavorazioni strutturali ed impiantistiche
(v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 09.01.2014 n.
21), se si limitano, ad es., alla messa in sicurezza
dell’immobile e alla revisione degli impianti senza
intaccare l’aspetto estetico dell’edificio (v. TAR Sicilia,
Catania, Sez. I, 29.10.2015 n. 2519).
Orbene, nel deliberare l’avvio della procedura di ricerca
dell’affidatario dell’incarico in questione, il Comune di
Bentivoglio approvava il «documento preliminare all’avvio
della progettazione» ex art. 15 del d.P.R. n. 207 del 2010,
il quale precisava –tra l’altro– che “l’intervento è volto
al ripristino strutturale della porzione delle strutture
lesionate dal sisma” e che si doveva provvedere ad
“interventi di riparazione con rafforzamento locale”, così
inquadrando le relative prestazioni in una sfera di misure
di risanamento e salvaguardia dell’immobile danneggiato da
ricondurre all’àmbito di operatività dell’art. 3 del
regolamento allegato all’ordinanza commissariale n. 120 del
2013 (“Per la realizzazione degli interventi di riparazione
con rafforzamento locale degli edifici ricompresi nel
Programma, che presentano danni lievi, oltre la riparazione
del danno, si dovrà conseguire, tenendo conto del tipo e del
livello del danno, un incremento della capacità
dell’edificio di resistere al sisma mediante opere di
rafforzamento locale progettate ai sensi del punto 8.4.3.
delle “Norme tecniche per le costruzioni” approvate con il
D.M. 14/01/2008”).
Si trattava, quindi, di intervenire
essenzialmente sulla struttura dell’edificio per ripararla e
consolidarla attraverso opere di edilizia civile
riconducibili alla c.d. «parte tecnica» di cui all’art. 52,
comma 2, del r.d. n. 2537 del 1925, nella lettura ampia che
ne ha dato la giurisprudenza, ovvero restandone ricomprese
tutte le lavorazioni che non incidono sui profili estetici e
di rilievo culturale degli edifici vincolati.
Dal che, alla luce del particolare contesto in cui
l’intervento di ripristino dell’edificio andava effettuato –ovvero la rimozione dei pregiudizi strutturali prodotti
dagli eventi sismici del 20 e 29.05.2012 e
l’apprestamento di misure idonee a proteggere l’immobile dal
rischio di simili fatti naturali–, la corretta
individuazione della figura professionale dell’ingegnere
quale soggetto abilitato a curare la relativa progettazione
e direzione dei lavori.
Peraltro, la stessa lettera di
invito alla procedura negoziata, con valore di lex specialis
della selezione, indicava tra quelli ammessi alla gara i
“soggetti di cui all’art. 90, comma 1 lett. d), e), f),
f-bis) del D.Lgs. 12.04. 2006 n. 163, nonché imprese e
società, individuati dalla Centrale Unica di Committenza. Si
specifica che: - le Società di Ingegneria …”, scelta
dell’Amministrazione che il ricorrente non ha censurato (a
pag. 11 del ricorso viene detto: “…La lettera di invito
(DOC. 4A già allegato) in sé non è atto illegittimo, in
quanto sul punto né vieta, né consente esplicitamente la
partecipazione alla procedura di ingegneri, geometri, periti
edili etc. essendo un documento molto generale; ciò che è
illegittimo è l’invio della stessa ad un soggetto non
legittimato a riceverla…”) e che ha invece necessariamente
informato ogni ulteriore determinazione fondata sui
requisiti di ammissione all’incarico, con la conseguenza
che, anche ad eventualmente ritenere non corretta nella
fattispecie l’applicazione dell’art. 52, comma 2, del r.d.
n. 2537 del 1925, osta all’accoglimento della doglianza (e
anche delle successive) la circostanza che la normativa di
gara aveva chiaramente operato una scelta in ordine al
novero delle figure professionali abilitate a parteciparvi.
Né, quindi, si può concordare con il ricorrente circa
l’indebito impiego del modulo del raggruppamento temporaneo
di professionisti per recuperare a posteriori un requisito
di ammissione di cui il soggetto invitato sarebbe stato ab
origine privo. Correttamente, insomma, l’ing. Pi.,
invitato uti singulus, ha presentato l’offerta quale
mandatario del costituendo raggruppamento con la Politecnica
Ingegneria ed Architettura Soc. Coop., ai sensi dell’art.
37, comma 12, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Quanto, poi, alla circostanza che il raggruppamento
aggiudicatario si sarebbe limitato ad indicare le quote di
partecipazione del 51% e del 49%, senza asseritamente
renderne comprensibili la corrispondenza ai requisiti di
capacità spesi, alla parte di esecuzione dell’incarico e
all’entità dei corrispettivi economici spettanti, il
Collegio ritiene sufficiente richiamare quanto già rilevato
dalla giurisprudenza in ordine alla tematica della
corrispondenza tra quota di partecipazione, quota di
esecuzione del servizio e quota di qualificazione in caso di
raggruppamento temporaneo di professionisti affidatario di
un’attività di progettazione.
A tal proposito,
indipendentemente dalle variazioni medio tempore intervenute
circa la previsione di cui all’art. 37, comma 13, del d.lgs.
n. 163 del 2006, è stato evidenziato che la peculiarità del
rapporto di progettazione, ove considerato in maniera
unitaria dalla stessa Amministrazione, non richiede la
corrispondenza tra qualificazione dell’operatore economico
riunito ed effettiva esecuzione dell’incarico, dovendosi
ritenere quest’ultima un’espressione unitaria dello staff
progettista (v., tra le altre, TAR Puglia, Bari, Sez. II, 16.05.2014 n. 616). Donde l’infondatezza della doglianza,
in assenza di residue incertezze circa l’effettivo ricorrere
dei requisiti di ammissione alla gara.
Quanto, ancora, alla denunciata assegnazione dell’incarico
di coordinamento delle attività specialistiche ad un
architetto della società mandante e all’addotto necessario
affidamento della sottoscrizione del progetto e della
direzione dei lavori a quello stesso architetto, si tratta –ove e nei limiti in cui avverrà– del naturale riparto di
funzioni tra i componenti del raggruppamento, in sé non
rivelatore di un’elusione dei requisiti di ammissione alla
gara, né indicativo di un’incompatibilità con le quote di
partecipazione al raggruppamento (che si è già visto non
assumere rilevanza nei termini prospettati dal ricorrente).
Né inficia l’esito della gara il rilievo che il
raggruppamento aggiudicatario ha prevalso sugli altri
concorrenti in virtù di un’offerta tecnica risultata
meritevole per le esperienze professionali maturate dalla
società mandante e solo in minima parte per i titoli vantati
dall’ing. Pi., in quanto l’istituto del raggruppamento
temporaneo fra operatori economici è uno strumento
finalizzato proprio a rafforzare la compagine che si propone
per l’appalto o l’incarico di progettazione, non solo per
farvi partecipare soggetti singolarmente sprovvisti dei
requisiti richiesti, ma anche per sommare titoli curriculari
o attività pregresse nel settore che rendano più affidabile
e competitiva l’offerta in gara.
Del resto, in linea con
tale principio, la stessa lettera di invito alla procedura
negoziata aveva nella fattispecie precisato, a proposito
della «adeguatezza offerta sotto il profilo curriculare»,
che “…Tale documentazione può riguardare –nel caso di
concorrente costituito da soggetti riuniti temporaneamente
oppure da riunirsi o da consorziarsi– interventi,
singolarmente considerati, progettati, da uno qualsiasi dei
soggetti che costituisce o che costituirà il raggruppamento
temporaneo…”.
Quanto, inoltre, alla mancata verifica di congruità
dell’offerta prescelta, il ricorrente intende riferirsi alla
previsione di cui all’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 163
del 2006 (“Nei contratti di cui al presente codice, quando
il criterio di aggiudicazione è quello dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, le stazioni appaltanti
valutano la congruità delle offerte in relazione alle quali
sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti
relativi agli altri elementi di valutazione, sono entrambi
pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti
massimi previsti dal bando di gara”).
Sennonché l’art. 266
del d.P.R. n. 207 del 2010 (Regolamento di esecuzione del
Codice dei contratti pubblici), nell’occuparsi delle
modalità di svolgimento delle gare relative ai servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria, stabilisce che
l’offerta economica è costituita da un “ribasso percentuale
unico, definito con le modalità previste dall’articolo 262,
comma 3, in misura comunque non superiore alla percentuale
che deve essere fissata nel bando in relazione alla
tipologia dell’intervento”, per ragioni di affidabilità
dell’offerta precisate nelle premesse del medesimo d.P.R. n.
207 del 2010 (“…Ritenuto che, in relazione all’articolo 266,
comma 1, la disposizione che impone al bando di gara per
l’affidamento dei servizi di ingegneria e di architettura di
stabilire una misura percentuale massima di ribasso
consentito, a seconda del tipo di intervento, sia necessaria
a garantire la qualità delle prestazioni, minata da
eccessivi ribassi …”); il che, come è evidente, rende non
applicabile a simili selezioni l’accertamento automatico di
cui all’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006,
giacché è la stessa lex specialis della gara a stabilire
ex
ante la soglia di tollerabilità del ribasso, e semmai può
operare la diversa previsione di cui all’art. 86, comma 3
(“In ogni caso le stazioni appaltanti possono valutare la
congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi
specifici, appaia anormalmente bassa”), in esito cioè ad una
valutazione rimessa caso per caso all’apprezzamento
discrezionale della stazione appaltante.
Nella fattispecie,
allora, risultando rispettato il limite di ribasso del 30%
fissato dalla lettera di invito, si sarebbe potuta al più
avviare una verifica rimessa all’autonoma iniziativa
dell’ente, che non ha però ritenuto sussistenti le
condizioni particolari per promuoverla, né il ricorrente ha
del resto fornito elementi utili in tal senso.
Né, infine, v’è motivo di lamentare la mancata effettuazione
dei controlli sul possesso dei requisiti, da compiere ai
sensi dell’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006. In tale sede,
a dire del ricorrente, sarebbero dovute emergere quelle
stesse irregolarità e carenze già evidenziate con le
precedenti censure, la cui accertata infondatezza però rende
comprensibili le ragioni dell’esito positivo delle verifiche
conclusive.
In definitiva, il ricorso va respinto (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 36 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Spetta
al Sindaco e non al dirigente ordinare la rimozione dei
rifiuti abbandonati sul territorio.
Per pacifica giurisprudenza, l’art. 192,
comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione speciale
sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n.
267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco la
competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie
alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal
comma 2.
La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art.
107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000.
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1. Con l’ordinanza n. 12 del 15.03.2007, il Responsabile del
Settore Vigilanza del Comune di Rivello ha intimato all’Anas
-ai sensi dell’art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 22 del 1997- di
procedere entro 30 giorni dalla notifica di tale ordinanza
alla rimozione dei rifiuti abusivamente abbandonati in una
zona limitrofa alla strada statale n. 585 «Fondovalle del
Noce», tra il km. 25,500 ed il km. 25,600, avente una
superficie di circa 100 mq., con lo smaltimento a propria
cura e spese, esibendo poi al Comune la prova dell’avvenuto
smaltimento;
2. Con il ricorso di primo grado, proposto al TAR per la
Basilicata, la s.p.a. ANAS ha impugnato l’ordinanza n. 12
del 15.03.2007, deducendo la violazione degli artt. 7, comma
2, lett. d), 13, 14, comma 3, 21, 49, comma 2, e 58, comma
3, D.Lgs. n. 22/1997, e degli artt. 192 e 198 D.Lgs. n.
152/2006 (per insussistenza del dolo o della colpa), degli
artt. 3, 7 e 8 L. n. 241/1990, nonché il proprio difetto di
legittimazione passiva, l’incompetenza del Dirigente
comunale in luogo del Sindaco, ed eccesso di potere per
difetto di istruttoria, travisamento dei fatti,
insussistenza dei presupposti.
Il Comune di Rivello si è costituito in giudizio ed ha
sostenuto l’inammissibilità del ricorso, per mancata
impugnazione della presupposta nota del Comando della
Stazione dei Carabinieri di Lagonegro n. 1464 del
26.02.2007, recante la segnalazione della presenza dei
rifiuti e per la mancata notifica del ricorso al medesimo
Comando.
Il Comune, in subordine, ha chiesto che il ricorso sia
respinto, perché infondato.
3. Con la sentenza n. 488 del 29.06.2007, il Tar,
prescindendo dalle eccezioni di inammissibilità, ha respinto
il ricorso, rilevandone l’infondatezza.
4. Con l’appello in esame, notificato l’08.10.2007, la
s.p.a. Anas ha impugnato la sentenza del TAR, riproponendo
le censure respinte in primo grado.
Il Comune di Rivello si è costituito in giudizio ed ha
ribadito le eccezioni di inammissibilità già formulate in
primo grado, chiedendo comunque la reiezione dell’appello.
5, La Sezione ritiene che vadano respinte le eccezioni di
inammissibilità del ricorso di primo grado, riproposte in
questa sede dal Comune di Rivello, poiché il verbale del
Comando della Stazione dei Carabinieri di Lagonegro n. 1464
del 26.02.2007 costituisce null’altro che la denuncia che ha
attivato l’esercizio del potere comunale: esso, quale atto
meramente istruttorio e di informazione dei fatti accaduti,
non ha un carattere autonomamente lesivo della sfera
giuridica dell’appellante.
6. Passando all’esame delle censure formulate in primo grado
e riproposte con l’atto d’appello, ritiene la Sezione che
risulta fondata la censura con cui è stata dedotta
l’incompetenza del Responsabile del Settore Vigilanza.
Per la pacifica giurisprudenza di questa Sezione, l’art.
192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione
speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del
D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco
la competenza a disporre con ordinanza le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti
previste dal comma 2.
La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art.
107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V,
29.08.2012, n. 4635; id., 12.06.2009, n. 3765; id.,
10.03.2009, n. 1296; id., 25.08.2008, n. 4061).
7. La fondatezza della censura di incompetenza comporta
l’assorbimento delle altre censure formulate
dall’appellante, sicché in questa sede diventa irrilevante
l’esame degli aspetti della legittimità sostanziale del
provvedimento impugnato in primo grado.
8. Per le ragioni che precedono, in accoglimento
dell’appello, il ricorso di primo grado va accolto, con il
conseguente annullamento dell’atto impugnato n. 12 del
15.03.2007, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune di
Rivello
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.01.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Tecnico comunale ed illegittimo rilascio di una concessione
edilizia.
In materia di abuso d’ufficio, per la sussistenza del reato
non è sufficiente l’aver agito con dolo diretto o eventuale,
ma occorre che l’evento di danno e quello di vantaggio sia e
realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta
e non risulti semplicemente realizzato come risultato
accessorio di questa.
Con tale affermazione la Cassazione ha annullato la condanna
inflitta a due responsabili comunali che avevano rilasciato
illegittimamente una concessione edilizia in quanto non
erano stati considerati elementi fondamentali, come la
specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato
motivazionale su cui poggiava il provvedimento, il contesto
e il tenore dei rapporti tra l’agente e il soggetto che dal
provvedimento avevano ricevuto il vantaggio patrimoniale e
subito il danno
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 07.01.2016 n. 87). |
ESPROPRIAZIONE:
Condannato il comune a pagare delle somme a
titolo di risarcimento danni da «occupazione acquisitiva» se
ciò è avvenuto a causa di un errore del Ctu che ha
localizzato i terreni in un posto diverso da quello dove in
realtà sono.
In questi casi non può esercitarsi l’azione revocatoria
concessa quando la svista è del giudice, e chiarendo che se
la sentenza è correttamente motivata non è esperibile
neppure il rimedio di legittimità
(massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sezz.
unite civili,
sentenza 07.01.2016 n. 67). |
APPALTI:
Concessionari, il progettista non può fare il
commissario. Sentenza del Tar Trento
sull'incompatibilità nei concorsi.
Chi ha progettato un'opera o ha svolto attività di
consulenza per il soggetto concedente non può fare parte
della commissione di valutazione delle offerte.
È quanto ha stabilito il TRGA Trentino Alto Adige-Trento con la
sentenza 05.01.2016 n. 11 rispetto a un affidamento disposto da
una società concessionaria autostradale rispetto al quale si
discuteva se fosse incompatibile ai sensi dell'articolo 84,
comma 4, del codice dei contratti pubblici, la partecipazione
alla commissione di un soggetto che in precedenza aveva
svolto attività per quella determinata opera a favore del
soggetto concedente.
I giudici premettono che, in quanto «organismo di diritto
pubblico ai sensi e per gli effetti del codice dei contratti
pubblici» la società concessionaria autostradale rientra
nell'ambito applicativo della direttiva 2004/18/Ce, anche ai
sensi dell'art. 11, comma 5, lett. c), della legge n. 498
del 1992, ed è qualificabile come amministrazione
aggiudicatrice.
In quanto tale, quindi, la società concessionaria deve
essere considerata al pari di una amministrazione
aggiudicatrice e tenuta all'applicazione del codice dei
contratti pubblici con l'effetto ulteriore dell'attrazione
dell'attività contrattuale attinente all'esercizio del
servizio di cui essa è concessionaria.
Nel caso specifico il comma 4 dell'art. 84 del codice dei
contratti pubblici recita: «I commissari diversi dal
presidente non devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta».
Tale norma, si legge nella sentenza, impedisce la presenza
nella commissione di soggetti che abbiano svolto un'attività
idonea a interferire con il giudizio di merito sull'appalto,
cioè in grado di incidere sul processo formativo della
volontà che ha condotto alla valutazione delle offerte,
potendone condizionare l'esito.
La sentenza ha in particolare chiarito che l'incompatibilità
opera per soggetti che hanno svolto incarichi, relativi alla
medesima gara, «di progettazione, verifica della
progettazione, predisposizione della legge di gara e
simili», per i professionisti che hanno fornito consulenza
per la redazione degli atti di gara e per i funzionari che
hanno contribuito alla redazione degli stessi, nonché per i
dirigenti che hanno elaborato propedeutici studi di
fattibilità.
Scopo della norma è prevenire il pericolo concreto di
possibili effetti disfunzionali derivanti dalla
partecipazione, alle commissioni giudicatrici, di soggetti
che sono intervenuti a diverso titolo nella predisposizione
degli atti della procedura concorsuale.
Il fine ultimo è rendere effettiva la distinzione tra i
soggetti che hanno definito i contenuti e le regole della
procedura e quelli che ne debbono fare applicazione nella
fase di valutazione delle offerte.
Non può quindi essere nominato commissario di gara un
professionista che «si era limitato alla predisposizione
e alla redazione» degli atti posti a base della gara,
successivamente approvati dal comune che gli aveva affidato
l'incarico
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
5.1. La censura è fondata.
Il comma 4 dell’art. 84 del codice dei contratti pubblici
recita: “i commissari diversi dal
presidente non devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
5.2.
Tale norma, è stato precisato, “impedisce la presenza
nella commissione di soggetti che abbiano svolto un’attività
idonea ad interferire con il giudizio di merito
sull’appalto, cioè in grado di incidere sul processo
formativo della volontà che ha condotto alla valutazione
delle offerte, potendone condizionare l’esito”
(cfr. C.d.S., sez. VI, 21.07.2011, n. 4438).
Essa si riferisce dunque:
- ai soggetti che hanno svolto incarichi, relativi
alla medesima gara, “di progettazione, verifica della
progettazione, predisposizione della legge di gara e simili”
(cfr. C.d.S., sez. VI, 29.12.2010, n. 9577; sez. V,
27.05.2011, n. 4450);
- ai funzionari che hanno partecipato alla procedura
relativa al contratto del cui affidamento si discute
esprimendo parere favorevole al progetto con puntuali
prescrizioni tecniche
(cfr. C.d.S., sez. V, 22.06.2012, n. 3682);
- ai professionisti che hanno fornito consulenza per
la redazione degli atti di gara e ai funzionari che hanno
contribuito alla redazione degli stessi
(cfr. C.d.S., sez. V, 14.06.2013, n. 3316);
- ai dirigenti che hanno elaborato propedeutici studi
di fattibilità, tenuto conto che la legge ha preferito
subordinare l’interesse della conoscenza approfondita degli
atti di gara a quello (ritenuto prevalente) di una netta
separazione fra chi “prepara” quegli atti e chi
invece deve valutare le offerte presentate dai diversi
concorrenti
(cfr. C.d.S., sez. V, 13.10.2014, n. 5057).
5.3. L’Adunanza plenaria, dal canto suo, ha puntualizzato
che
la previsione legislativa in esame è volta a prevenire il
pericolo concreto di possibili effetti disfunzionali
derivanti dalla partecipazione, alle commissioni
giudicatrici, di soggetti che sono intervenuti a diverso
titolo nella predisposizione degli atti della procedura
concorsuale. La regola mira, dunque, a conservare la
distinzione tra i soggetti che hanno definito i contenuti e
le regole della procedura e quelli che ne debbono fare
applicazione nella fase di valutazione delle offerte.
L’interesse pubblico rilevante diventa quindi “non tanto
e non solo quello della imparzialità, cui è in ogni caso
riconducibile”, ma, soprattutto, “la volontà di
assicurare che la valutazione sia il più possibile
oggettiva, e cioè non influenzata dalle scelte che l’hanno
preceduta, se non per ciò che è stato dedotto formalmente
negli atti di gara”
(cfr. C.d.S., Ad.Pl., 07.05.2013, n. 13).
In altri termini, come ha già avuto occasione di rilevare
questo Tribunale, “la prescrizione
legislativa in esame mira ad assicurare due concorrenti ma
distinti valori: quello dell’imparzialità, per evitare
indebiti favoritismi da parte di chi conosce
approfonditamente le regole del gioco avendo contribuito
alla loro gestazione, nascita e formalizzazione; quello
dell’oggettività, ad evitare che lo stesso autore di quelle
regole dia ad esse significati impliciti, presupposti,
indiretti o, comunque, effetti semantici che risentano di
convinzioni o concezioni preconcette che hanno indirizzato
la formulazione delle regole stesse”
(cfr. sentenza 31.01.2014, n. 30).
6.1. Non giova alla Stazione appaltante sostenere, nelle
deduzioni difensive, che il geom. Gu. si sarebbe limitato a
“redigere” gli atti di gara nel senso della materiale
compilazione degli stessi, i quali sono stati poi “approvati”
dal responsabile del procedimento ing. Co., unico detentore
di competenze decisionali finali.
A questo proposito è sufficiente rilevare che la vicenda
fattuale sottostante alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria
da ultimo citata (la n. 13 del 2013), riguardava proprio il
caso di un professionista che “si era limitato alla
predisposizione, … alla redazione” degli atti posti a
base della gara, successivamente approvati dal Comune che
gli aveva affidato l’incarico.
È stato in tale occasione che il Giudice d’appello ha
precisato che il comma 4 dell’art. 84 del d.lgs. n. 163 del
2006 risponde alla esigenza di “rigida separazione della
fase di preparazione della documentazione di gara con quella
di valutazione delle offerte in essa presentate”, a
garanzia della neutralità del giudizio e in coerenza con la
ratio generalmente sottesa alle cause di
incompatibilità dei componenti degli organi amministrativi.
6.2. Né è condivisibile l’affermazione, proveniente sempre
dalla Società Autobrennero in sede difensiva, che il geom.
Gu. sarebbe un impiegato ordinario sprovvisto di poteri
decisionali. Tale asserzione, difatti, risulta smentita in
punto di fatto non solo dalla determinazione n. 1319 del
2014 qui in esame, che per giustificare la nomina del Gu.
quale membro della commissione tecnica lo qualifica “esperto
nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del
contratto”, ma anche dalla circostanza -evidenziata
dalla ricorrente e non smentita dalla Stazione appaltante-
che il nominato Gu. è il “Direttore dell’esecuzione del
contratto” del servizio di pulizia delle stazioni
autostradali e delle pertinenze varie attualmente in essere
(cfr. pag. 12 della memoria della ricorrente di data
28.11.2015). Il che comporta, evidentemente, che
-trattandosi di un compito proprio- non era richiesto un
atto formale di incarico per la redazione degli atti di
gara.
7. Da quanto esposto appare quindi evidente che il geom. Gu.,
avendo redatto, in quanto Direttore competente, i documenti
che hanno fissato le norme per regolare il servizio di
pulizia oggetto di gara, ne ha concretamente ed
effettivamente definito il contenuto. Egli,
conseguentemente, versava in situazione di incompatibilità a
far parte della commissione giudicatrice, il che impediva il
suo utilizzo nella valutazione della parte tecnica delle
proposte per la gestione del medesimo servizio presentate
dai potenziali aggiudicatari.
8. Va pertanto disposto l’annullamento della determinazione
dell’amministratore delegato di Autobrennero n. 1319 del
2014 con cui è stata nominata la commissione tecnica. Ciò
comporta, in modo caducante, il travolgimento per
illegittimità derivata di tutti gli atti posteriori della
procedura fino all'affidamento del servizio, con il
conseguente assorbimento delle censure che si appuntano
avverso le successive fasi della gara.
Per effetto di quanto disposto, spetta alla Società
Autobrennero la rinnovazione della gara a partire dalla fase
di presentazione delle offerte (cfr., in termini, C.d.S.,
sez. V, n. 5057 del 2014, cit.). Si tratta, infatti, di
un’ipotesi in cui il vizio dell'aggiudicazione comporta
l'obbligo di rinnovare la gara, ai sensi dell’art. 122
c.p.a., che fa riferimento proprio "alla luce dei vizi
riscontrati" per i casi in cui il vizio determini
necessariamente "l'obbligo di rinnovare la gara"
(cfr., in termini, C.d.S., Ad.Pl., n. 13 del 2013, cit.). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Atti amministrativi accessibili anche se sequestrati.
Tar del Lazio. Sentenza sul caso-Xylella.
Con l’assenso
dei magistrati penali, anche gli atti amministrativi
sequestrati sono accessibili a chi ne ha titolo, anche se la
pubblica amministrazione non ha più gli originali né le
copie.
Il TAR Lazio-Roma,
Sez. II-ter,
sentenza
04.01.2016 n. 7, ha ordinato così al
ministero delle Politiche agricole di consentire l’accesso
ai documenti con cui nel 2010 autorizzò l’importazione del
batterio Xylella fastidiosa per un corso di studio
all’Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di Bari.
La richiesta era stata presentata da 19 aziende salentine ad
agricoltura biologica «direttamente investite» dalle misure
statali e regionali contro il disseccamento degli ulivi
infettati dal batterio. Il ministero aveva opposto
silenzio-rigetto, ritenendo non più possibile fornire gli
atti poiché nel frattempo sottoposti dalla Procura di Lecce
a sequestro probatorio (articolo 253 del Codice di procedura
penale) in originale e senza il rilascio di alcuna copia.
Per le ricorrenti, invece, l’accesso –negato dallo Iam e in
parte dalla Regione (ma poi concesso)- era legittimo per la
difesa del proprio «diritto alla sopravvivenza aziendale e
dell’interesse legittimo al ripristino della legalità
violata» anche in altri giudizi.
Accogliendo il ricorso, il Tar ha spiegato che anche se si è
ormai stabilito (Consiglio di Stato, sentenza 1170/1996) che
«il regime di segretezza di cui all’articolo 329 del Codice
ci procedura penale (obbligo del segreto, ndr) non
costituisce un motivo legittimo di diniego all’accesso dei
documenti, fintantoché gli stessi siano nella disponibilità
dell’amministrazione e il giudice che conduce l’indagine
penale non li abbia acquisiti con uno specifico
provvedimento di sequestro», l’accesso va garantito anche
quando, come nel giudizio in esame, «risulta comprovato che
l’amministrazione intimata non è nella detenzione materiale
dei documenti (...)» sotto sequestro.
I giudici hanno precisato che in questi casi ai sensi
dell’articolo 258 del Codice di procedura penale l’autorità
giudiziaria può fare estrarre copia degli atti e dei
documenti sequestrati, restituendo gli originali, e, quando
il sequestro di questi è mantenuto, può autorizzare la
cancelleria o la segreteria a rilasciare gratuitamente copia
autentica a coloro che li detenevano legittimamente:
l’estrazione di cui al menzionato articolo 258 del Codice di
procedura penale è consentita, ovviamente, in relazione alle
specifiche esigenze di segretezza degli atti di indagine che
solo l’autorità giudiziaria procedente può valutare in
concreto, soppesando i diversi interessi coinvolti e la
relativa richiesta è proponibile, a sua volta, solo da parte
di coloro che “detenevano legittimamente” gli atti
sequestrati, ovvero, nel caso di specie, l’amministrazione
destinataria della richiesta di accesso ex lege 241/1990» (articolo Il Sole 24 Ore del
28.01.2016).
---------------
MASSIMA
I) In esito alla richiesta di accesso presentata al
Ministero, quest’ultimo ne ha negato l’accoglimento
allegando di esservi impedito dall’avvenuto assoggettamento
dei documenti richiesti ad avvenuto sequestro probatorio dei
documenti richiesti, in originale e senza che siano rimaste
delle copie nella disponibilità dell’Amministrazione, da
parte dell’Autorità Giudiziaria; tesi che viene ribadita in
giudizio da parte dalla difesa dell’Avvocatura ad eccezione
degli atti relativi ai pareri del Comitato Tecnico
Scientifico e del Comitato Fitosanitario Nazionale, per i
quali l’Avvocatura deduce che i ricorrenti non avrebbero
interesse alla loro ostensione in quanto detti provvedimenti
hanno costituito il presupposto istruttorio per l’emanazione
del DM n. 2777 del 26.09.2014, il quale ha tuttavia
cessato di esplicare effetti, essendo stato abrogato dal
successivo DM 19.06.2015, art. 25 (“misure di emergenza
per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di Xylella
fastidiosa (Well e Raju) nel territorio della Repubblica
Italiana”).
Quanto alla prima delle eccezioni difensive, si osserva che,
in linea di principio, la giurisprudenza è orientata nel
ritenere che il regime di segretezza di cui all'art. 329 c.p.p. non costituisce un motivo legittimo di diniego
all'accesso dei documenti, fintantoché gli stessi siano
nella disponibilità dell'Amministrazione e il giudice che
conduce l'indagine penale non li abbia acquisiti con uno
specifico provvedimento di sequestro (così TAR Palermo, sez. II, 03/11/2014, n. 2656; v. anche Consiglio Stato , sez. IV,
28.10.1996, n. 1170; TAR Aosta, sez. I, 06.04.2011 n. 26, richiamati nella decisione da cui è tratta la
massima riportata; in forza di tale principio, è stato, ad
esempio, ritenuto illegittimo il diniego di accesso in caso
di documenti già sottoposti a sequestro, ma solo in copia e
con restituzione all’Amministrazione dell’originale da parte
dell’Autorità Giudiziaria, v. TAR Catania, sez. III 24.11.2011 n. 2783; in ordine all’efficacia preclusiva
dell’accesso agli atti scaturente dal sequestro probatorio,
si veda anche TAR Roma, sez. II 01.04.2015 n. 4910).
Nel caso di specie, risulta dal verbale di sequestro
probatorio (che è stato operato il 14.05.2015 dal
Comando Provinciale di Lecce del Corpo Forestale dello
Stato, su delega del PM ex art. 253 cpp), che la
documentazione d’interesse è stata acquisita (peraltro in
conseguenza della circostanza che i medesimi documenti non
hanno potuto essere appresi presso lo IAM che ha opposto la
propria immunità giurisdizionale) in originale e senza che
siano state lasciate copie nella disponibilità
dell’Amministrazione; si indica che i medesimi documenti
“saranno custoditi a cura” del Comando procedente “a
disposizione dell’A.G. mandante”.
In base a ciò, risulta comprovato che l’Amministrazione
intimata non è nella detenzione materiale dei documenti di
cui è richiesto l’accesso.
Tuttavia, deva osservarsi che, ai sensi dell’art. 258 c.p.p.
l’Autorità Giudiziaria può fare estrarre copia degli atti e
dei documenti sequestrati, restituendo gli originali, e,
quando il sequestro di questi è mantenuto, può autorizzare
la cancelleria o la segreteria a rilasciare gratuitamente
copia autentica a coloro che li detenevano legittimamente:
l’estrazione di cui al menzionato art. 258 c.p.p. è
consentita, ovviamente, in relazione alle specifiche
esigenze di segretezza degli atti di indagine che solo
l’Autorità Giudiziaria procedente può valutare in concreto,
soppesando i diversi interessi coinvolti e la relativa
richiesta è proponibile, a sua volta, solo da parte di
coloro che “detenevano legittimamente” gli atti sequestrati,
ovvero, nel caso di specie, l’Amministrazione destinataria
della richiesta di accesso ex lege 241/1990.
Pertanto,
ad attento esame del rapporto tra il diritto di
accesso agli atti amministrativi disciplinato dagli artt. 22
e ss. della l. 241/1990 e l’obbligo di segretezza sugli atti
di indagine ex art. 329 c.p.p., va ritenuto che l’effetto
impeditivo al rilascio dei documenti richiesti scaturente
dal provvedimento giudiziario di sequestro ex art. 253 e ss.
c.p.p. si verifica solo allorché l’Amministrazione, avendone
fatto richiesta, non abbia ottenuto dall’A.G. procedente
l’estrazione di copie consentita dall’art. 258 c.p.p..
Infatti, mentre di per sé il richiedere l’estrazione di
copie dei documenti sequestrati ex art. 258 c.p.p. è una
facoltà di chi li deteneva legittimamente, quanto
l’Amministrazione sequestrataria riceve una istanza di
accesso agli atti (sequestrati) da parte di un privato
avente titolo a richiederlo, allora l’evasione dell’istanza
comporta l’obbligo, esigibile in buona fede e secondo
diligenza, di esercitare tale facoltà allo scopo di porre in
essere quel diligente sforzo possibile secondo le
circostanze concrete per soddisfare l’interesse legittimo
della parte interessata ad ottenere la conoscenza dei dati e
delle informazioni cui ha titolo (e ciò naturalmente a
condizione che sia stato verificato, in capo al richiedente,
il possesso delle condizioni soggettive legittimanti ad
effettuare l’accesso agli atti e questo risulti impedito
solamente dalla circostanza della sussistenza del sequestro,
tutte condizioni che, nel caso di specie, non sono poste in
dubbio).
Alla stregua delle predette considerazioni il ricorso in
parte qua risulta fondato nei limiti di cui sopra.
Parimenti, quanto agli atti relativi ai pareri che, secondo
l’Avvocatura, non sarebbero più attuali, il ricorso è
fondato e meritevole di accoglimento.
Secondo la giurisprudenza, “il diritto alla trasparenza
dell'azione amministrativa costituisce situazione attiva
meritevole di autonoma protezione indipendentemente dalla
pendenza e dall'oggetto di una controversia giurisdizionale
o di una potenziale controversia tra i privati (come
prospettato dall’AGEA nella nota di diniego dell’istanza di
cui all’odierno ricorso) e non è condizionata al necessario
giudizio di ammissibilità e rilevanza cui è subordinata la
positiva delibazione di istanze a finalità probatorie, tanto
che è rimesso al libero apprezzamento dell'interessato di
avvalersi della tutela giurisdizionale prevista dall'art. 25
della legge n. 241 del 1990 ovvero di conseguire la
conoscenza dell'atto nel diverso giudizio pendente tra le
parti mediante la richiesta di esibizione istruttoria (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 12.04.2000 n. 2190).
In
tale ottica è stato altresì rilevato che il diritto di
accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale
alla difesa in giudizio della situazione sottostante,
essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo
bene della vita così che la domanda giudiziale tesa ad
ottenere l'accesso ai documenti è indipendente non solo
dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta
valere l'anzidetta situazione (Cons. Stato, sez. VI del 12.04.2005 n. 1680)
ma anche dall'eventuale infondatezza od
inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente,
una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre (Cons.
Stato, Sez. VI, 21.09.2006 n. 5569)…Invero,
l’accesso ai documenti va consentito anche quando la
relativa istanza è preordinata alla loro utilizzazione in un
giudizio, senza che sia possibile operare alcun
apprezzamento in ordine alla ammissibilità ovvero alla
fondatezza della domanda o della censura che sia stata
proposta o che si intenda proporre, la cui valutazione
spetta soltanto al giudice chiamato a decidere”
(Consiglio di Stato, 7183/2010; si vedano anche le pronunce
di questa Sezione del TAR Lazio, nr. 9034/2015 del
07.07.2015 e 1958/2015 del 03.02.2015).
Nel caso di specie, la pretesa della parte ricorrente è
strumentale, così come dedotto, non solamente ad una
esigenza di difesa in giudizio, ma ad una più generale
conoscenza delle circostanze di fatto che hanno determinato
l’insorgenza dell’infezione del batterio di cui si discute
al fine dell’apprezzamento delle modalità con cui
contrastarne la diffusione, essendone direttamente incise
secondo quanto ampiamente esposto in atti.
Entro i descritti limiti, il ricorso, in parte qua, è
fondato ed è meritevole di accoglimento, con la condanna del
Ministero resistente a consentire l’accesso agli atti ed ai
documenti richiesti di cui dovrà essere assicurata la
necessaria esibizione ed eventuale estrazione di copia a
richiesta delle parti interessate, previa richiesta
all’Autorità Giudiziaria procedente di rilascio delle
relative copie ai sensi dell’art. 258 c.p.p. ed a condizione
del relativo esito, per quanto riguarda i documenti
sottoposti a sequestro.
La richiesta ex art. 258 c.p.p. dovrà essere proposta
all’A.G. procedente entro il termine di giorni trenta dalla
comunicazione della presente sentenza o sua notifica a cura
di parte; in caso di avvenuto rilascio delle copie o degli
originali da parte dell’A.G. dei documenti d’interesse, il
relativo accesso in favore delle parti odierne ricorrenti
dovrà essere assicurato entro il termine dei trenta giorni
successivi, previa la corresponsione dei relativi costi di
riproduzione.
Gli altri documenti dovranno essere resi accessibili, in
visione e con estrazione di relativa copia se richiesta,
entro il termine di giorni trenta dalla comunicazione della
presente sentenza o sua notifica a cura di parte. |
EDILIZIA PRIVATA:
Inammissibilità della sanatoria condizionata.
Deve escludersi la possibilità della
cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto
che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di
specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle
opere il requisito della conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali
provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto
l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad
interventi già ultimati e stabilisce come la doppia
conformità debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione
della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad
un'attività vincolata della P.A., consistente
nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni
legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
---------------
4. Invero, come
questa Corte ha già avuto modo di affermare, deve escludersi
la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata,
caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono
subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi
lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della
conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non
posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi
illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si
riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e
stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al
momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della
presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad
un'attività vincolata della P.A., consistente
nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni
legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di ordine discrezionale (v. Sez. 3, n.
7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422; Sez. 3, n. 47402
del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973; Sez. 3, n. 19587
del 27/04/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3 n. 23726
del 24/02/2009, Peoloso, non massimata; Sez. 3, n. 41567 del
04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro, Rv. 238020; Sez.
3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro, Rv.
226897 ed altre prec. conf.).
Tali principi, pienamente condivisi dal Collegio, devono
pertanto essere ribaditi
(tratto da
www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2015 n. 51013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Opere nel sottosuolo.
Poiché l'art. 181 del D.Lgs. n. 42 del
2004 vieta l'esecuzione di lavori "di qualsiasi genere" su
beni paesaggistici senza la prescritta autorizzazione o in
difformità di essa, il vincolo ambientale-paesaggistico si
palesa operante anche con riferimento alle opere da
realizzarsi nel sottosuolo, implicando anche queste ultime
una utilizzazione del territorio idonea a modificarne
l'assetto.
---------------
2. Nel caso di specie, al
contrario, i giudici di appello, nel richiamare la sentenza
di primo grado, hanno fatto integralmente proprie le
argomentazioni sostenute dal primo giudice senza fornire
puntuale risposta alle censure mosse dalla difesa con i
motivi di gravame.
Invero, nell'affermare la responsabilità dell'imputata, il
giudice di primo grado si era limitato a rilevare
l'inserimento nel paesaggio "di elementi nuovi ed
alteranti, richiedenti la necessità del parere paesaggistico"
e che la ricorrente "non aveva ottenuto il parere da
parte della autorità preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico".
La difesa, in sede di gravame, aveva censurato la decisione
del primo giudice, evidenziando la circostanza che le opere
poste in essere erano dirette al mero recupero ambientale di
un terrapieno a rischio di crollo in conseguenza di
infiltrazioni, che avevano reso franosa la zona interessata
dall'intervento.
Dal punto di vista soggettivo, la difesa aveva censurato,
altresì, la mancanza di motivazione della sentenza di primo
grado atteso che, di fronte alle precisazioni fornite circa
la buona fede dell'imputata, non una parola era stata spesa
per spiegare le ragioni per cui la previsione dei piani
urbanistici locali non potesse giustificare l'assenza di
colpa dell'imputata, o quantomeno l'insussistenza di un
errore scusabile.
3. Orbene, la Corte territoriale, pur a fronte di specifiche
censure quanto alla sussistenza dei presupposti oggettivi e
soggettivi del reato contestato, si è limitata a confermare
la decisione del primo giudice senza fornire adeguata
risposta alle censure formulate.
Effettivamente, poiché l'art. 181 del
D.Lgs. n. 42 del 2004 vieta l'esecuzione di lavori "di
qualsiasi genere" su beni paesaggistici senza la
prescritta autorizzazione o in difformità di essa, il
vincolo ambientale-paesaggistico si palesa operante anche
con riferimento alle opere da realizzarsi nel sottosuolo,
implicando anche queste ultime una utilizzazione del
territorio idonea a modificarne l'assetto.
Tuttavia, nella vicenda in esame, la difesa aveva
evidenziato che l'imputata era stata costretta ad avviare le
opere di manutenzione a causa del pericolo di frane
conseguenti alle infiltrazioni di acqua nel terreno.
4. Nella motivazione della sentenza impugnata, si legge che
le opere realizzate non potevano essere considerate come
opere di manutenzione straordinaria, riferendo che si era
trattato della realizzazione di una trave di fondazione di
cemento armato lunga 12 metri e larga 1,30 metri con uno
sbancamento di terreno di circa 100 mq, interessando una
superficie di circa 120 mq. e sottolineando che, al momento
dell'accertamento erano in corso i lavori di trivellazione
per la realizzazione di pali in cemento armato.
Ma i giudici non hanno indicato le ragioni per cui hanno
escluso la sussistenza del pericolo di cedimento, pure
sostenuta dall'imputata, a fronte della situazione di
notoria fragilità dell'assetto idrogeologico dei luoghi, e
dunque, delle ragioni per cui l'opera non poteva essere
qualificata come manutenzione straordinaria, volta a
fronteggiare tale pericolo. Parimenti, nella motivazione
sono state disattese le argomentazioni difensive con una
motivazione apodittica e senza alcuna ulteriore
precisazione.
5. Pertanto, a giudizio del Collegio, la motivazione della
sentenza impugnata risulta lacunosa laddove il giudice del
gravame non ha preso in considerazione i motivi di ricorso
proposti dalla difesa della ricorrente in ordine alla
sussistenza dell'elemento oggettivo e soggettivo della
fattispecie incriminatrice per cui è processo neppure per
escluderne la rilevanza.
Del pari va censurata la carenza motivazionale in punto di
valutazione della offensività della condotta realizzata. È
ben vero che, sotto questo profilo, nella giurisprudenza di
legittimità si è affermato il principio secondo cui,
il reato previsto dal D.Lgs. 22.01. 2004,
n. 42, art. 181, qualificabile come di pericolo astratto,
non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo
pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione
di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che
siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene
giuridico tutelato
(tra le varie, cfr. Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013 Rv.
254493; Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011 Rv. 245908).
Si è precisato, altresì, che
l'individuazione della potenzialità lesiva di detti
interventi deve essere effettuata mediante una valutazione
ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato
un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di
intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene
giuridico tutelato
(v. ex plurimis, Sez. 3, n. 14461 del 07/02/2003, Carparelli,
Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 06/02/2003, De Marzi, Rv.
224465; Sez. 3, n. 12863 del 13/02/2003, Abbate, Rv. 224896;
Sez. 3, n. 10641 del 30/01/2003, Spinosa, Rv. 224355)
e che, proprio per tali ragioni, è
richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente
preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche
modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina
urbanistica ed edilizia.
6. Peraltro, questa Corte intende ribadire l'essenzialità
del cd. principio di offensività (Sez. 3, n. 2733 del
26/11/1999, P.M. in proc. Gajo, Rv. 215868; Sez. 3, n. 44161
del 23/10/2001, Zucchini, Rv. 220624) ricordando anche
quanto osservato, sul tema, dalla Corte Costituzionale
(sentenza n. 247 del 1997), secondo la quale
anche per i reati ascritti alla categoria di quelli
formali e di pericolo presunto od astratto è sempre devoluto
al sindacato del giudice penale l'accertamento in concreto
dell'offensività specifica della singola condotta, dal
momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a
repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la
riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta
e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 c.p.
(sentenza n. 360 del 1995).
Invero, come precisato (Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011,
Fanciulli, Rv. 251244, cit.), il principio
di offensività deve essere considerato non tanto sulla base
di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto,
piuttosto, per l'attitudine della condotta a porre in
pericolo il bene protetto
(affermazione peraltro successivamente ribadita in Sez. 3,
n. 13736 del 26/02/2013, Manzella, Rv. 254762 e,
precedentemente, formulata in Sez. 3, n. 2903 del
20/10/2009, Soverini, Rv. 245908).
7. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha omesso di
dare conto degli elementi fattuali che assumono
significativo rilievo ai fini della valutazione di incidenza
delle opere sull'assetto del paesaggio.
Sotto questo profilo, infatti, la sentenza impugnata si è
limitata ad affermare che l'opera realizzata era di notevole
entità e logicamente prodromica ad altra opera, senza
fornire, tuttavia, ulteriori indicazioni. Ad avviso del
Collegio, si tratta di considerazioni lacunose, che non
consentono di evidenziare la concreta offensività
dell'intervento posto in essere dall'imputata.
Alla luce delle argomentazioni svolte, la sentenza impugnata
deve essere quindi annullata con rinvio per un nuovo esame
ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2015 n. 51002 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporto e terzo estraneo al reato.
L'art. 259 del d.lgs. n. 152 del 2006
deve essere interpretata nel senso che, al fine di evitare
la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto utilizzato
per la gestione abusiva dei rifiuti, incombe al terzo
estraneo al reato che ne sia il proprietario l'onere di
provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito del
mezzo gli era ignoto e non era collegabile ad un suo
comportamento negligente.
---------------
4. - I ricorsi delle imputate sono inammissibili. Con essi
ci si limita, infatti, a formulare generiche e indimostrate
asserzioni circa un preteso errore di destinazione nel quale
le stesse sarebbero incorse nel condurre l'autocarro con i
rifiuti e Circa una sostanziale mancanza di riprovazione
sociale del comportamento tenuto nel contesto del campo
nomadi nel quale esse vivono.
E ciò, a fronte della dettagliata e coerente motivazione
della sentenza impugnata, nella quale si dà, oltretutto
conto delle insanabili contraddizioni tra le giustificazioni
dei fatti fornite dalle imputate e da un ulteriore testimone
sentito.
Con il ricorso non si contestano, del resto, la materialità
del fatto e la mancanza di qualsivoglia titolo abitativo per
il trasporto dei rifiuti, i quali consistevano perlopiù in
rottami ed erano abusivamente condotti presso una ditta
specializzata nell'acquisto del ferro.
5. - È invece fondato il ricorso del pubblico ministero, con
cui si lamenta l'erronea applicazione dell'art. 259 del
d.lgs. n. 152 del 2006. Tale disposizione deve, infatti,
essere interpretata nel senso che, al fine
di evitare la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto
utilizzato per la gestione abusiva dei rifiuti, incombe al
terzo estraneo al reato che ne sia il proprietario l'onere
di provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito del
mezzo gli era ignoto e non era collegabile ad un suo
comportamento negligente
(ex plurimis, sez. 3, 16.01.2015, n. 18515, rv.
263772; sez. 3, 17.01.2013, n. 9579, rv. 254749).
Il Tribunale non ha fatto corretta applicazione di tale
principio, perché ha proceduto alla restituzione del mezzo
al terzo proprietario sul rilievo della mancanza in atti di
elementi da cui desumere un suo coinvolgimento materiale o
psicologico nel reato, così sostanzialmente sottraendo
quest'ultimo all'onere di provare positivamente la sua buona
fede (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2015 n. 51001 - tratto da
www.lexambiente.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
In tema di azione di indebito arricchimento nei
confronti della P.A. conseguente all’assenza di un valido
contratto d’opera, l’indennità prevista dall’art. 2041 cod.
civ. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale
subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del
contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso
avrebbe percepito nell’ipotesi che il rapporto negoziale
fosse stato valido ed efficace.
---------------
3) Il primo motivo di ricorso principale deve essere
disatteso.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che le
domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza
causa, quali azioni che riguardano entrambe diritti eterodeterminati,
si differenziano, strutturalmente e tipologicamente, sia
quanto alla
"causa petendi" (esclusivamente nella seconda rilevando come
fatti
costitutivi la presenza e l'entità del proprio impoverimento
e
dell'altrui locupletazione, nonché, ove l'arricchito sia una
P.A., il
riconoscimento dell'utilitas da parte dell'ente), sia quanto
al
"petitum" (pagamento del corrispettivo pattuito o
indennizzo).
Ne
consegue che, nel procedimento di opposizione a decreto
ingiuntivo
-al quale si devono applicare le norme del rito ordinario,
ai sensi
dell'art. 645, secondo comma, e, dunque, anche l'art. 183,
quinto
comma, c.p.c- è ammissibile la domanda di arricchimento
senza
causa avanzata con la comparsa di costituzione e risposta
dall'opposto (che riveste la posizione sostanziale di
attore) soltanto
qualora l'opponente abbia introdotto nel giudizio, con
l'atto di
citazione, un ulteriore tema di indagine, tale che possa
giustificare
l'esame di una situazione di arricchimento senza causa. In
ogni altro caso, all'opposto non è consentito di proporre,
neppure in via
subordinata, nella comparsa di risposta o successivamente,
un'autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui
inammissibilità è rilevabile d'ufficio dal giudice (Cass.
S.U. 27.12.2010 n. 26128).
Nel caso in esame, la necessità, per l'opposto, di
introdurre, in
via subordinata, la domanda di arricchimento senza causa, è
conseguenza della difesa del Comune opponente, che ha
contrastato
l'azione contrattuale proposta dal Rizzi assumendo
l'invalidità
dell'incarico professionale e la sua inidoneità ad impegnare
l'ente
territoriale, perché non legittimamente conferito con
delibera
dell'organo competente e con adeguata previsione di spesa.
Tale
domanda, pertanto, essendo stata proposta dall'opposto nella
comparsa di costituzione di primo grado, deve ritenersi
ammissibile
(cfr. Cass. 04.10.2013 n. 22754).
Deve aggiungersi che, con riguardo a procedimento pendente
(come il presente) alla data del 30.04.1995 -per il
quale trovano
applicazione le disposizioni di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., nel
testo vigente anteriormente alla "novella" di cui alla legge
n. 353 del
1990-, il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso
del
giudizio di primo grado, risulta posto a tutela della parte
destinataria
della domanda. Pertanto, la violazione di tale divieto -che
è
rilevabile anche d'ufficio, non essendo riservata alle parti
l'eccezione di novità della domanda- non è sanzionabile in
presenza di un
atteggiamento non oppositorio della parte medesima,
consistente
nell'accettazione esplicita del contraddittorio o in un
comportamento
concludente che ne implichi l'accettazione (Cass. Sez. Un.
22.05.1996 n. 4712).
Nella specie, dall'esame diretto degli atti, consentito per
la
natura procedurale del vizio denunciato, si evince che nel
rassegnare
le conclusioni di primo grado (integralmente trascritte a
pag. 4 della
sentenza del Tribunale) il Comune di San Donà del Piave ha
chiesto
"respingersi la domanda subordinata dell'opposto difettando,
nel
caso, i presupposti per l'esperibilità dell'eccezione ex
art. 2041 c.c.
e, comunque, per mancato arricchimento del Comune".
L'opponente,
pertanto, difendendosi nel merito, ha tenuto un
comportamento
concludente, implicante accettazione del contraddittorio
sulla
domanda subordinata proposta dalla controparte nella
comparsa di
costituzione.
4) Anche il secondo motivo è privo di fondamento.
Come è stato più volte chiarito da questa Corte,
l'azione di
responsabilità che, a norma dell'art. 23 D.L. n. 66 del 1989
(convertito in legge n. 144 del 1989 e riprodotto senza
sostanziali
modifiche dall'art. 35 D.Lgs. n. 77 del 1995) è esperibile
dai privati
contro gli amministratori e i funzionari di Province, Comuni
e
Comunità Montane per prestazioni e servizi resi senza il
rispetto delle prescritte formalità, comporta che,
limitatamente ai suddetti
enti e alle indicate situazioni, il privato, disponendo di
un'azione
diretta, non può esperire nei confronti della P.A. l'azione
sussidiaria
di arricchimento senza causa. Tuttavia, non potendosi, in
difetto di
espressa previsione normativa, affermare la retroattività
del citato
D.L. n. 66, deve ritenersi l'esperibilità dell'azione di
indebito
arricchimento per tutte le prestazioni e i servizi resi alla
P.A.
anteriormente all'entrata in vigore di tale normativa, non
difettando
il requisito della sussidiarietà per il fatto che il privato
può agire
direttamente contro chi -amministratore o funzionario- abbia
invalidamente commissionato le opere o i servizi, atteso che
la
responsabilità diretta di funzionari e dipendenti pubblici è
posta
dall'art. 28 Cost. su di un piano alternativo e paritetico
(Cass. 03.08.2000 n. 10199; Cass. 20.08.2003 n. 12208; Cass. 11.05.2007 n.
10884;
Cass. 26.06.2012 n. 10636).
Alla luce di tali principi, correttamente la sentenza non
definitiva della Corte di Appello ha ritenuto ammissibile la
domanda
subordinata di arricchimento senza causa proposta
dall'opposto nei
confronti del Comune opponente, avendo accertato che
l'attività di
progettazione dell'architetto Rizzi è stata effettuata in
epoca
anteriore all'entrata in vigore del d.l. n. 66/1989.
Non rileva, in contrario, che l'utilitas del Comune sia
stata
conseguita in epoca successiva all'entrata in vigore di tale
normativa, in quanto il citato art. 23, nel disporre al
terzo comma
che qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere
assistita da un
conforme provvedimento dell'organo munito di potere
deliberativo e
da uno specifico impegno contabile registrato nel competente
bilancio di previsione, e nello stabilire al quarto comma
che, in
mancanza, il rapporto obbligatorio si instaura direttamente
"tra il
privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che
abbiano
consentita la fornitura", individua chiaramente nella
esecuzione
della prestazione del privato il momento genetico
dell'obbligazione a
carico dell'amministratore o funzionario dell'ente che
l'abbiano
consentita.
5) Il terzo motivo, nella parte in cui si duole del ritenuto
riconoscimento dell'utilitas da parte del Comune, è privo di
fondamento.
Si rileva, al riguardo, che, in tema di azione di indebito
arricchimento nei confronti della P.A., il riconoscimento
dell'utilità
dell'opera o della prestazione può avvenire anche in maniera
implicita, mediante l'utilizzazione dell'opera o della
prestazione
consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi
dell'ente. In
particolare, l'adozione da parte del competente organo
dell'Amministrazione di un Piano Urbanistico
Particolareggiato,
elaborato da un professionista per conto della stessa
Amministrazione, configura un implicito riconoscimento
dell'utilità dell'attività svolta dal professionista
medesimo, senza che a tal fine
sia necessario che all'adozione del Piano abbia fatto
seguito il
completamento dell'iter amministrativo di approvazione
definitiva,
poiché l'approvazione definitiva del Piano può essere
rilevante ai
fini dell'adozione dello strumento urbanistico, ma non ai
fini del
riconoscimento dell'utilità della prestazione del
professionista (Cass.
30.04.2008 n. 10922).
Nella specie, pertanto, legittimamente la Corte di Appello
ha
ritenuto sufficienti, ai fini del riconoscimento
dell'utilità dell'opera,
le delibere degli organi comunali di adozione dei Piani
Particolareggiati elaborati dal Ri., a prescindere dal
completamento dell'iter amministrativo di approvazione
definitiva di
tali Piani.
Il motivo in esame, al contrario, risulta fondato nella
parte in
cui censura i criteri seguiti dal giudice di merito nella
quantificazione dell'indennizzo ex art. 2041 c.c..
Come è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte,
in
tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della
P.A.
conseguente all'assenza di un valido contratto d'opera,
l'indennità
prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della
diminuzione
patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in
virtù del
contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso
avrebbe percepito nella ipotesi che il rapporto negoziale
fosse stato valido ed
efficace (Cass. S.U. 11.09.2008 n. 23385).
Pertanto, ai fini della determinazione dell'indennizzo
dovuto al
professionista, non possono essere assunte come parametro le
tariffe
professionali, ancorché richiamate da parcelle vistate
dall'Ordine
competente (Cass. Sez. Un. 27.01.2009 n. 1875),
non
trattandosi in
questo caso di corrispettivo per prestazioni professionali
rese dal
professionista nell'esecuzione di un contratto con un
cliente, per le
quali è giustificato il ricorso alla tariffa professionale,
ma di una
somma che va liquidata in forza delle risultanze
processuali, se ed in
quanto si sia verificato un vantaggio patrimoniale a favore
della
P.A., con correlativa perdita patrimoniale della controparte
(Cass.
18.02.2010 n. 3905).
Nella specie, la sentenza definitiva della Corte di Appello,
nel
liquidare in favore del Ri., a titolo di indennizzo ex
art. 2041 c.c.,
una somma pari a quella chiesta con le parcelle fatturate
conformi
alla tariffa professionale, vistate dal Consiglio
dell'Ordine, ha
disatteso tali principi, avendo riconosciuto al
professionista un
importo corrispondente al compenso che il medesimo avrebbe
potuto
pretendere in caso di valido conferimento dell'incarico di
redazione
dei Piani Particolareggiati in questione.
S'impone, di conseguenza, la cassazione nella parte de qua
della sentenza definitiva impugnata, con rinvio ad altra
Sezione della Corte di Appello di Venezia, la quale, ai fini
della determinazione
dell'indennizzo dovuto al Rizzi per l'attività prestata in
favore del
ricorrente, dovrà attenersi ai principi di diritto innanzi
enunciati. Il
giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del
presente
giudizio di legittimità (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 23.12.2015 n. 25957). |
VARI:
Il soggetto che possiede un bene per un certo
numero di anni per cui può diventarne legittimo proprietario
grazie all’usucapione, non può vedersi interrotto il termine
nel caso dovesse inviare una lettera con l’intenzione di
voler in futuro diventare proprietario del bene dal presunto
titolare.
---------------
2.1.- Il motivo è infondato.
Va qui osservato che –come afferma autorevole dottrina e
anche la giurisprudenza di questa Corte– si possono
distinguere due ipotesi di interruzione del possesso
ad usucapionem: interruzione “naturale”
e interruzione “civile”; ricorre la prima
allorché il possessore è stato privato del possesso per
oltre un anno per fatto di un terzo (ad es. in conseguenza
di uno spoglio del bene). Si tratta, invece, di interruzione
civile, ogni qual volta, contro il possessore è stata
esercitata una domanda giudiziale tesa a contestare la
legittimità del potere esercitato sulla cosa (siano esse
azioni di rivendica e/o di restituzione).
A sua volta, va qui osservato –come ha già detto questa
Corte in altra occasione– che poiché, con il rinvio fatto
dall’articolo 1165 c.c., all’articolo 2943 c.c., risultano
tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso,
non è consentito attribuire efficacia interruttiva
ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, per quanto
con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare
il diritto, giacché la tipicità dei modi di interruzione
della prescrizione non ammette equipollenti
(v. Cass. 12.09.2000 n. 12024; Cass. 21.05.2001 n. 6910;
Cass. 01.04.2003 n. 4892; Cass. 11.06.2009 n. 13625),
con la conseguenza che non può riconoscersi
efficacia interruttiva del possesso (oltre che ad atti che
comportino, per il possessore, la perdita materiale del
potere di fatto sulla cosa) se non ad atti giudiziali
diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del
possesso nei confronti del possessore usucapente.
D’altra parte, per escludere la sussistenza
del possesso utile all’usucapione non è sufficiente il
riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa
l’altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il
possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata
o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà
non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare,
atteso che l'”animus possidendi” non consiste nella
convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì
nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le
corrispondenti facoltà
(Cass. 9671/2014; 26641/2013; 7847/2008; 10230/2002).
La Corte di Bologna ha osservato ed ha applicato
correttamente questi principi. Infatti, come ha avuto modo
di chiarire, la Corte di Bologna: “la lettera in
questione volta al compimento di un’attività negoziale
finalizzata ad ottenere il trasferimento di proprietà del
bene posseduto, non escludeva che il possessore avesse
avuto, comunque, l’intenzione di possedere la cosa come
propria, non essendo necessario l’intento di pervenire
all’acquisto della proprietà per usucapione e ben potendo,
la lettera in questione essere interpretata, anche come
manifestazione di volontà rivolta ad ottenere la
regolarizzazione in qualsiasi modo dell’acquisto".
Così, come la Corte di Bologna correttamente ha affermato
che “la semplice consapevolezza del possessore circa la
spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come
proprio, non è infatti, sufficiente al fine del
riconoscimento idoneo ad interrompere il termine utile ad
usucapire, essendo necessario che il possessore per il modo
in cui questa conoscenza è rivelata o per il fatto in cui
essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di
attribuire il diritto reale al suo titolare" (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
II civile,
sentenza 22.12.2015 n. 25764). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Delitto paesaggistico e principio di
offensività.
In tema di reati ambientali, il positivo
accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso
edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la
punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181, comma
1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua
integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in
quanto il rilascio di tale provvedimento non implica
"automaticamente" che l'opera realizzata possa ritenersi "ex
ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene
giuridico tutelato, tanto sul rilievo che il principio di
offensività deve essere inteso come attitudine della
condotta a porre in pericolo il bene protetto.
---------------
2. E' qui sufficiente ricordare, in aggiunta alle corrette
considerazioni espresse in parte qua dalla Corte del
merito, come, ai fini della lamentata mancanza di lesività
in ordine al fatto di reato ascritto agli imputati
ricorrenti, questa Corte abbia recentemente affermato il
principio di diritto in base al quale, in
tema di reati ambientali, il positivo accertamento di
compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in
zona vincolata non esclude la punibilità del reato di
pericolo di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua integrazione
un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il
rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente"
che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante"
inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico
tutelato (Sez. 3,
n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263978),
tanto sul rilievo che il principio di offensività
deve essere inteso come attitudine della condotta a porre in
pericolo il bene protetto.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha dato conto
della fondamentale circostanza che l'area, nel suo complesso
e non il singolo immobile, era stata dichiarata di notevole
interesse pubblico, tanto che il decreto ministeriale
istitutivo del vincolo aveva imposto "l'obbligo di
presentare alla competente Soprintendenza, per la preventiva
approvazione, qualsiasi progetto di lavori che si
intendessero effettuare nella zona", tenuto altresì
conto che fra le ragioni del vincolo vi era non solo il
pregio architettonico dei singoli edifici, ma altresì "il
quadro naturale di particolare importanza visibile da vari
punti del centro urbanistico".
Pertanto i giudici, dandone congrua motivazione, hanno
valutato l'intervento idoneo a compromettere gli interessi
paesaggistici pervenendo alla corretta conclusione circa la
sussistenza di un'effettiva messa in pericolo del paesaggio,
oggettivamente insita nella minaccia ad esso portata e
valutabile come tale ex ante, nonché una violazione
dell'interesse dalla P.A. ad una corretta informazione
preventiva ed all'esercizio di un efficace e sollecito
controllo.
...
Nel pervenire a tale
conclusione, la Corte distrettuale ha disatteso la
consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale
la permanenza del reato di edificazione
abusiva, anche in danno degli interessi paesaggistici,
termina, con conseguente consumazione della fattispecie di
reato, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria
o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi,
ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo
l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello
della emissione della sentenza di primo grado
(Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv.
260498; Sez. 3, n. 43147 del 08/10/2003, Genova, Rv. 226498;
Sez. 3, n. 8563 del 14/01/2003, Gargiulo, Rv. 224980; Sez.
3, n. 38136 del 25/09/2001, Triassi, Rv. 220351).
Da ciò consegue che, stante la natura
permanente del reato, la consumazione perdura per tutto il
tempo in cui continua l'attività edilizia illecita, ed il
suo momento di cessazione va individuato o nella sospensione
dei lavori, sia essa volontaria o imposta "ex auctoritate",
tanto a seguito di sospensione amministrativa quanto per
intervenuto sequestro penale, o nella ultimazione dei lavori
per il completamento dell'opera o, infine, nella sentenza di
primo grado, ove i lavori siano proseguiti dopo
l'accertamento e sino alla data del giudizio.
Quindi anche la sospensione volontaria dal
proseguire i lavori, quale desistenza consistente in un
comportamento inequivoco di definitiva cessazione della
condotta antigiuridica, comporta la cessazione della
permanenza del reato di costruzione abusiva, anche se la
violazione sia stata commessa in zona protetta dal vincolo
paesaggistico, sicché non occorre che la sospensione sia
stata necessariamente imposta ex auctoritate o che
l'ordine di sospensione debba essere efficace e non perento.
Ciò che rileva, e che deve essere rigorosamente provato o
risultare dagli atti, è che l'attività antigiuridica sia
cessata in quanto con la sua interruzione, volontaria o
imposta, viene meno l'ulteriore compromissione del bene
giuridico tutelato.
...
5. Il ricorso del
Procuratore generale è, in astratto, fondato posto che
la sanzione specifica della rimessione in
pristino ha una funzione direttamente ripristinatoria del
bene offeso e quindi si riconnette al preminente interesse
di giustizia sotteso all'esercizio dell'azione penale.
Peraltro l'obbligo di ripristino si colloca
su un piano diverso ed autonomo rispetto a quello dei poteri
della pubblica amministrazione e delle valutazioni della
stessa, configurandosi come conseguenza necessaria sia
dell'esigenza di recuperare l'integrità dell'interesse
tutelato, sia del giudizio di disvalore che il legislatore
ha dato all'attuazione di interventi modificativi del
territorio in zone di particolare interesse ambientale
(Sez. 3, n. 4135 del 20/02/1998, Settimi A., Rv. 210504;
Sez. 3, n. 3195 del 13/11/2008, dep. 23/01/2009, P.G. in
proc. Amico, Rv. 242175).
Tuttavia la declaratoria di estinzione del
reato per prescrizione impedisce, per pacifica
giurisprudenza di questa Corte, la pronuncia da parte del
giudice penale dell'ordine di rimessione in pristino.
Infatti, l'ordine di rimessione in pristino
dello stato dei luoghi a spese del condannato, previsto per
il reato paesaggistico, va obbligatoriamente emesso, ai
sensi dell'art. 181, comma 2, d.lgs. n. 42 del 2004, con la
sentenza di condanna o con sentenze a questa equiparate
(come la sentenza di applicazione della pena su accordo
delle parti e, in tal caso, pure in difetto di accordo, o il
decreto penale di condanna), in quanto si tratta di
statuizioni obbligatorie e sottratte alla disponibilità
delle parti (Sez.
3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli, Rv. 240539).
Ne consegue che, in mancanza
dell'emanazione di una sentenza di condanna o ad essa
equiparata, l'ordine di rimessione in pristino non va emesso
o, se disposto, va revocato nel caso di declaratoria di
estinzione del reato per prescrizione dal giudice
dell'impugnazione, fermo restando l'autonomo potere-dovere
dell'autorità amministrativa di disporlo o di riattivarlo
(Sez. 3, n. 4798 del 06/02/2003, dep. 06/02/2004, Buono, Rv.
229346; Sez. 3, n. 51010 del 24/10/2013, Criscuolo, Rv.
257916; Sez. 3, n. 42703 del 07/07/2015, Pisani, non mass.)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.12.2015 n. 49990 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'accertamento di compatibilità paesaggistica, così
conseguito, comporta l'estinzione del reato di cui all'art.
181 D.Lgs. n. 42 del 2004 e di ogni altro reato in materia
paesaggistica e quindi, non si estende ai reati edilizi.
Il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001 non può determinare
l'estinzione del reato di cui all'art. 181 D.L.vo n.
42/2004.
A norma dell'art. 45 DPR 380/2001, infatti, il rilascio in
sanatoria del permesso di costruire estingue i reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
La giurisprudenza di questa Corte (a partire da quella
formatasi in relazione agli artt. 13 e 22 L. 47/1985) ha
costantemente affermato che l'effetto estintivo non opera
nei confronti dei reati aventi oggettività giuridica
diversa, come quelli relativi a violazioni di disposizioni
dettate dalle leggi in materia di costruzioni in zona
sismica, di opere in conglomerato cementizio o di vincoli
ambientali e paesaggistici. Tali disposizioni, infatti, pur
riguardando l'attività edificatoria sono "diverse"
sotto il profilo della ratio e degli obiettivi
perseguiti, da quelle in materia urbanistica.
Per quanto riguarda specificamente i reati paesaggistici
previsti dal D.L.vo 42/2004, si è rilevato che essi sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività diversa,
rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio
sotto il profilo edilizio.
---------------
2.3. Si assume, però, dai ricorrenti che tali reati
dovrebbero, comunque, ritenersi estinti (con conseguente
illegittimità dell'applicazione della misura cautelare
reale) a seguito del rilascio di permesso di costruire in
sanatoria e di accertamento di compatibilità paesaggistica.
Rileva il Collegio che l'assunto difensivo non possa essere
accolto per le ragioni, di seguito esposte, che integrano i
rilievi svolti dal Tribunale sul punto.
Secondo la stessa prospettazione difensiva l'effetto
estintivo dovrebbe essere determinato dal rilascio di
permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001
da parte del Comune di San Vito dei Normanni (n. 802/E del
16/12/2014) e dall'accertamento di compatibilità
paesaggistica effettuato dalla Regione Puglia, con nota del
09/10/2014.
L'art. 36 DPR 380/2001 prevede che il responsabile
dell'abuso o il proprietario possano ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda (cd. "doppia conformità").
Ma tale "condizione" non sussiste, essendo l'opera in
contrasto, come si è visto, con le previsioni del PUTT.
Inoltre il permesso di costruire in sanatoria, rilasciato
dal Comune di San Vito dei Normanni, è subordinato alla "condizione
che prima della entrata in esercizio dell'impianto sia
acquisito il diritto di servitù area per le particelle e per
le porzioni di particelle non previste nell'elenco dei Piano
Particellare ed Esproprio autorizzato" (al momento del
rilascio del permesso in sanatoria quindi non vi era alcun
titolo in ordine all'area occupata dalle opere realizzate).
In ogni caso, il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001 non può determinare
l'estinzione del reato di cui all'art. 181 D.L.vo n.
42/2004.
A norma dell'art. 45 DPR 380/2001, infatti, il rilascio in
sanatoria del permesso di costruire estingue i reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
La giurisprudenza di questa Corte (a partire da quella
formatasi in relazione agli artt. 13 e 22 L. 47/1985) ha
costantemente affermato che l'effetto estintivo non opera
nei confronti dei reati aventi oggettività giuridica
diversa, come quelli relativi a violazioni di disposizioni
dettate dalle leggi in materia di costruzioni in zona
sismica, di opere in conglomerato cementizio o di vincoli
ambientali e paesaggistici. Tali disposizioni, infatti, pur
riguardando l'attività edificatoria sono "diverse"
sotto il profilo della ratio e degli obiettivi
perseguiti, da quelle in materia urbanistica (cfr. ex
multis Cass. sez. 3 02.07.1994 n. 7541; Cass. sez. 3
26.06.1997 n. 6225; Cass. sez. 3 n. 11511 del 15.02.2002;
Cass. sez. 3 22.05.2006 n. 17591; Cass. Sez. 3 n. 11271 del
17.02.2010).
Per quanto riguarda specificamente i reati paesaggistici
previsti dal D.L.vo 42/2004, si è rilevato (Cass. sez. 3 n.
37318 del 03.07.2007) che essi sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività diversa,
rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio
sotto il profilo edilizio (v. anche Corte Cost., ord.
21.07.2000 n. 327).
2.4. Ma il reato di cui all'art. 181 D.L.vo 42/2004 non può
ritenersi estinto neppure per effetto dell'accertamento di
compatibilità paesaggistica, effettuato dalla Regione Puglia
con nota del 09/10/2014.
Era principio consolidato che il successivo rilascio
dell'autorizzazione paesistica, da parte dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo, non determinasse
l'estinzione del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 art.
181 (già art. 163 D.Lgs. n. 490/1999) poiché tale effetto
non era previsto da alcuna disposizione legislativa (cfr.
ex multis Cass. pen. sez. 3, 04/02/1999 ric. De
Laurentis).
Anche la Corte Costituzionale aveva osservato che "la
sopravvenienza dell'autorizzazione è irrilevante ai fini
della sottoposizione a sanzione penale ai sensi della L. n.
431 del 1985, art. 1-sexies (sentenza n. 318 del 1994);
infatti l'autorizzazione intervenuta dopo l'inizio
dell'attività soggetta al necessario previo controllo
paesaggistico non è sufficiente per rimuovere in via
generale l'antigiuridicità penalmente rilevante
dell'attività già compiuta in assenza di titolo abilitativo"
(cfr. ordinanza n. 158 del 1998).
L'art. 146, comma 12, D.Lgs n. 42/2004 ha ribadito
espressamente che "l'autorizzazione paesaggistica.... non
può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi".
Sennonché, derogando a siffatto consolidato principio, il
comma 36 dell'art. L. 308/2004 ha aggiunto all'art. 181
D.L.vo n. 42/2004 il comma 1-ter, prevedendo una valutazione
postuma della compatibilità paesaggistica, sia pure in
limitati casi.
Tale norma stabilisce, infatti, che "ferma restando
l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di
cui all'art. 167, qualora l'autorità amministrativa
competente accerti la compatibilità paesaggistica secondo le
procedure di cui al comma 1-quater, la disposizione di cui
al comma 1 non si applica: a) per il lavori, realizzati in
assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dell'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria ai sensi dell'art. 3 del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380".
2.4.1. Nel caso di specie, come si è visto in precedenza, ci
si trova in presenza dì opere che erano state realizzate in
area diversa da quella autorizzata, per cui rispetto ad essa
si è determinata quanto meno la realizzazione di nuove
superfici utili.
2.4.2. Neppure è applicabile (non è stato neppure invocato e
non ne ricorrono palesemente le condizioni) il comma 37
dell'art. L. 308/2004 che ha introdotto una ipotesi di
sanatoria per lavori abusivi compiuti, in zone sottoposte a
vincolo, entro il 30.09.2004, sempre che intervenga ex
post l'accertamento di compatibilità paesaggistica.
La norma non prevede alcuna esclusione in relazione
all'entità dell'abuso ("lavori compiuti su beni
paesaggistici"), -cfr. cass. pen. sez. 3 n. 15946 del
05.04.2006-, ma subordina la sanatoria alla condizione che:
a) le tipologie edilizie realizzate ed i materiali
utilizzati, anche se diversi da quelli indicati
nell'eventuale autorizzazione, rientrino tra quelli previsti
ed assentiti dagli strumenti di pianificazione
paesaggistica, ove vigenti, o, altrimenti, siano giudicati
compatibili con il contesto paesaggistico;
b) i trasgressori abbiano previamente pagato la sanzione
pecuniaria di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004 art. 167
maggiorata da un terzo alla metà ed una sanzione pecuniaria
aggiuntiva determinata dall'autorità amministrativa
competente.
Peraltro, l'accertamento di compatibilità paesaggistica,
così conseguito, comporta l'estinzione del reato di cui
all'art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004 e di ogni altro reato in
materia paesaggistica e quindi, non si estende ai reati
edilizi: al contrario della legge 326/2003 (art. 42, comma
43, n. 1) che estendeva la sanatoria anche al reato per la
violazione del vincolo, analoga previsione non è contenuta
nel comma 37 sopra richiamato (tratto da www.lexambiente.it
- Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
17.12.2015 n. 49669). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Informazioni ambientali con accesso ampio.
Tar Venezia. La Pa deve consentire copia dei documenti a chi
ne faccia richiesta tutelando ciò che è segreto industriale
in senso stretto.
Il diritto all’accesso all’«informazione ambientale» va
garantito a chiunque ne faccia richiesta e anche tutelando i
dati coperti da segreto industriale la Pa deve consentire la
copia dei documenti e non solo la visione.
Il TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 17.12.2015 n. 1335, ha così accolto il
ricorso di un privato al quale la Regione aveva negato la
copia degli elaborati tecnici e progettuali presentati da
una azienda per la domanda di concessione di una derivazione
d’acqua a uso idroelettrico.
L’ente, che aveva motivato il proprio “no” solo dopo il
richiamo del difensore civico interpellato del caso,
riteneva che l’obbligo di «tutela della proprietà
intellettuale e del know-how in essi contenuto» -come
invocato dalla società- ammettesse soltanto la visione degli
atti richiesti.
La domanda era stata presentata secondo la disciplina sull’«accesso
del pubblico all’informazione ambientale» definita in
ambito comunitario per garantire la «più ampia
trasparenza» su questo tipo di documenti (Dlgs 195/2005,
attuazione direttiva 2003/4/Ce che abroga la 90/313/Cee).
La normativa (comma 3, articolo 1) stabilisce che «l’autorità
pubblica rende disponibile (...) l’informazione ambientale
detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi
debba dichiarare il proprio interesse», ma nei “casi
di esclusione del diritto d’accesso” (articolo 5) –tra
gli altri, il «pregiudizio alla riservatezza delle
informazioni commerciali o industriali» e ai «diritti di
proprietà intellettuale»- obbliga la Pa ad applicarne i
dettami «in modo restrittivo, effettuando, in relazione a
ciascuna richiesta di accesso, una valutazione ponderata fra
l’interesse pubblico all’informazione ambientale e
l’interesse tutelato dall’esclusione».
Il Tar, ammettendo l’ipotesi di un «accesso parziale»
nei diversi casi d’esclusione fissati da tali norme, ha
spiegato che in ogni caso «la legittima esigenza di
tutela del segreto industriale non esime l’amministrazione
da un puntuale esame delle ragioni opposte, non potendosi in
altri termini l’amministrazione limitare ad assumere come
irrimediabilmente ostativo l’avviso della ditta
controinteressata ai fini dell’ostensione piuttosto che
dell’estrazione di copia (...)».
Perciò in questo caso «ben si sarebbe potuto consentire
un accesso parziale, escludendosi solo ed esclusivamente
quelle informazioni direttamente attinenti con il segreto
industriale da tutelare» e, come sottolineato, «(...)
consentendosi appunto l’estrazione di copia di tutta la
documentazione progettuale che non afferisca direttamente a
profili involgenti il segreto industriale, secondo una
valutazione necessariamente restrittiva in ordine agli
eventuali profili ostativi».
Nella sentenza, oltre a ordinare alla Regione di fornire
anche la copia dei documenti amministrativi sulla questione
considerata senza dubbio “ambientale”, i giudici
amministrativi hanno poi precisato che «(...)
l’amministrazione non avrebbe potuto, in presenza di una
chiara indicazione da parte del difensore civico regionale,
limitarsi alla mera riproposizione di quanto già affermato,
con l’adozione di un atto meramente confermativo e non di un
atto eventualmente di motivata conferma come espressamente
richiesto dal difensore civico regionale»
(articolo Il Sole 24 Ore del
27.01.2016).
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MASSIMA
Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato secondo
quanto specificato infra.
È pacifico che nella specie si controverta
in ordine a un procedimento relativo a informazioni
ambientali secondo quanto previsto dal decreto legislativo
numero 195 del 2005: orbene prevede l’articolo 3, comma 1,
che l’autorità pubblica rende disponibile secondo le
disposizioni del presente decreto l’informazione ambientale
detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi
debba dichiarare il proprio interesse, prevedendo i casi di
esclusione all’articolo cinque, in base al quale deve essere
effettuata una valutazione ponderata fra l’interesse
pubblico all’informazione ambientale e l’interesse tutelato
dall’esclusione dall’accesso, con applicazione restrittiva
da parte dell’amministrazione, consentendosi, se del caso,
un accesso parziale.
Detto che la legittima esigenza di tutela del segreto
industriale non esime l’amministrazione da un puntuale esame
delle ragioni opposte, non potendosi in altri termini
l’amministrazione limitare ad assumere come
irrimediabilmente ostativo l’avviso della ditta
controinteressata ai fini dell’ostensione piuttosto che
dell’estrazione di copia, nel caso in esame ben si sarebbe
potuto consentire un accesso parziale, escludendosi solo ed
esclusivamente quelle informazioni direttamente attinenti
con il segreto industriale da tutelare.
Ed è in tali termini che deve essere accolta la domanda
presentata, consentendosi appunto l’estrazione di copia di
tutta la documentazione progettuale che non afferisca
direttamente a profili involgenti il segreto industriale,
secondo una valutazione necessariamente restrittiva in
ordine agli eventuali profili ostativi.
Da ultimo l’amministrazione non avrebbe potuto, in presenza
di una chiara indicazione da parte del difensore civico
regionale, limitarsi alla mera riproposizione di quanto già
affermato, con l’adozione di un atto meramente confermativo
e non di un atto eventualmente di motivata conferma come
espressamente richiesto dal difensore civico regionale.
In tale quadro il ricorso deve essere accolto con condanna
dell’amministrazione resistente al pagamento delle spese di
giudizio liquidate come in dispositivo. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Il reato previsto dall'art. 256, comma primo,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (attività di gestione di rifiuti
non autorizzata), è ascrivibile al titolare dell'impresa
anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato
dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta
vietata.
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1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente osservare, con riferimento al primo
motivo di ricorso, che le censure formulate nell'atto di
impugnazione fanno quasi esclusivamente riferimento ad una
condotta di abbandono di rifiuti che non è, tuttavia, quella
contestata nel caso in esame, avendo l'imputazione
espressamente ad oggetto le attività di raccolta e
stoccaggio di rifiuti, evidentemente in assenza di titolo
abilitativo.
L'art. 183, comma 1, lett. o), d.lgs. 152/2006 descrive la
raccolta come «il prelievo dei rifiuti, compresi la
cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta,
ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla
lettera "mm", ai fini del loro trasporto in un impianto di
trattamento». La successiva lettera aa) definisce
inoltre lo stoccaggio come «le attività di smaltimento
consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di
rifiuti di cui al punto D15 dell'allegato B alla parte
quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero
consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti
di cui al punto R13 dell'allegato C alla medesima parte
quarta».
Il punto D15 dell'allegato B alla parte quarta riguarda il «deposito
preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da
D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della
raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».
Le operazioni cui si riferisce l'allegato B sono quelle di
smaltimento, definito dalla lettera z) dell'art. 183 d.lgs.
152/2006 come «qualsiasi operazione diversa dal recupero
anche quando l'operazione ha come conseguenza secondaria il
recupero di sostanze o di energia. L'Allegato B alla parte
IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo
delle operazioni di smaltimento».
Tra le operazioni descritte nell'allegato B figura, al punto
D1, il «deposito sul o nel suolo» che, sulla base di
quanto riportato in sentenza, sembra essere quella rilevante
nel caso di specie.
2. Risulta infatti dalla decisione impugnata che,
all'atto dell'accertamento da parte della polizia
giudiziaria presso l'area di cava nella disponibilità della
società del ricorrente, il 02/07/2009, venivano sorpresi due
operai intenti a «vagliare» «qualche centinaio di
metri cubi» di «materiale composto da terre e rocce e
rifiuti provenienti da demolizione stradali ed edili di
varia natura (pezzi di cemento, pezzi di asfalto, altre
demolizioni, mattoni)».
Ad un successivo sopralluogo del 10/07/2009 erano state
realizzate «7 trincee sul fondo di cava, sia sulla
porzione di area destinata esclusivamente all'attività di
cava, sia sulla porzione destinata all'attività di recupero
rifiuti».
Sempre da quanto specificato in sentenza, emerge che tale
attività aveva come finalità la «ricomposizione mediante
riempimento» della cava ad attività ormai cessata.
Sulla base di quanto verificato in fatto dal Tribunale,
dunque, appare corretto il riferimento, effettuato
nell'imputazione, alle attività di gestione in esso
indicate, mentre del tutto inconferenti risultano i richiami
del ricorrente ad attività di abbandono mai contestata.
3. Risulta parimenti rilevato in fatto dal giudice del
merito che dette attività erano svolte, quanto meno in
parte, sulla zona di cava nella quale non era autorizzata
l'attività di recupero (peraltro diversa da quelle accertate
dalla polizia giudiziaria) e che l'area oggetto
dell'intervento era accessibile ai soli dipendenti della
società ed, infatti, tali erano coloro che vennero trovati
sul posto.
L'attività di gestione illecita veniva
dunque svolta nella sede operativa della società, indicata
anche nel capo di imputazione ed era certamente obbligo del
legale rappresentante della società medesima, in assenza di
particolari assetti societari o specifiche deleghe di
funzioni, prendere cognizione della violazione di specifici
obblighi di legge da parte dei dipendenti, considerando
anche che egli avrebbe beneficiato dei vantaggi conseguiti
dalla società dall'inosservanza delle specifiche
disposizioni in materia di rifiuti.
Va peraltro ricordato, a tale proposito, che
la responsabilità per la attività di gestione non
autorizzata non attiene necessariamente al profilo della
consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo
scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza
per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per
evitare illeciti nella predetta gestione e che
legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla
direzione dell'azienda
(Sez. 3, n. 47432 del 05/11/2003, Bellesini ed altri, Rv.
226868. Conf. Sez. 3, n. 19332 del 11/03/2009, Soria, non
massimata; Sez. 3, n. 23971 del 25/05/2011, Graniero, Rv.
250485. Vedi anche Cass. Sez. 3, n. 45932 del 03/05/2013,
Manti, non massimata; Sez. 3 n. 15989 del 14/03/2007,
Minella, non massimata).
4. Va pertanto ribadito che il reato
previsto dall'art. 256, comma primo, d.lgs. 03.04.2006, n.
152 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata), è
ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo
della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno
posto in essere la condotta vietata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.12.2015 n. 49591). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora il privato rinunci
o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando
sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, viene meno
la giustificazione causale della corresponsione di somme a
titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione.
Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso
all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove
tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento
risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di
dare, cosicché l'importo versato va restituito.
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4. Il ricorso è fondato per
l’accoglimento del terzo motivo, con cui parte ricorrente
ritiene non dovuta la somma in questione per non avere
utilizzato la concessione relativa.
4.1. Reputa il Collegio che non sussistono ragioni per
discostarsi dal principio, ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il
privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire
ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo
edilizio, venga meno la giustificazione causale della
corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione. Il contributo
concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività
di trasformazione del territorio e quindi, ove tale
circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta
privo della causa dell'originaria obbligazione di dare,
cosicché l'importo versato va restituito (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 02.02.1988 n. 105; id. 12.06.1995 n. 894 e
23.06.2003 n. 3714; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
24.03.2010 n. 728; TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 12.03.2008
n. 2294; TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890; TAR Parma 07.04.1998
n. 149; da ultimo TAR Marche, sez. I, sent. 06.02.2015 n.
114 e TAR Puglia Bari, sez. III, 17.03.2015 n. 420).
4.2. Al riguardo prive di pregio sono le affermazioni del
Comune secondo cui “l’odierna ricorrente non ha mai
comunicato alla amministrazione de qua la propria intenzione
di rinunciare al titolo edilizio di che trattasi, né ha
presentato alcuna istanza di sgravio”; né ha rilievo
che, solo con missiva del 27.10.2015, la sig.ra Ma. ha
chiesto il detto rimborso.
Il Comune, peraltro, non risulta che, in riscontro a detta
richiesta, abbia contestato l’utilizzo del titolo, bensì che
abbia solo rilevato che, a seguito di controlli effettuati,
non risultavano versate le dette somme all’Amministrazione.
4.3. La fondatezza di tale motivo, con assorbimento degli
ulteriori, comporta l’accoglimento della domanda avanzata,
con accertamento e declaratoria che la sig.ra Ma.Fr.Ma. non
è debitrice della somma contestata nei confronti del Comune
di San Fili e il conseguente annullamento della cartella
impugnata.
4.4. L’accoglimento della domanda di annullamento per
mancata utilizzazione del permesso di costruire, in tale
specifico caso, però, non comporta la restituzione della
somma da parte del Comune (a cui, peraltro, si fa cenno solo
in seno al II motivo), atteso che il pagamento, dalla
documentazione agli atti, non risulta sia stato effettuato
al Comune, bensì a soggetto, non legittimato
dall’Amministrazione a riceverlo, che poi non abbia
effettuato il versamento alla stessa; in tal caso, resta
salva l’applicazione delle regole civilistiche stabilite per
la ripetizione nei confronti di colui che ha ricevuto il
pagamento indebito, ovviamente nella sussistenza di tutti i
presupposti di legge (TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. II,
sentenza 11.12.2015 n. 1921 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oneri aggiuntivi per mitigare in fase di
ristrutturazione. Giurisprudenza.
Anche a carichi urbanistici invariati.
I problemi del
rumore possono generare aggravi economici nelle
ristrutturazioni edilizie: lo sottolinea il
Consiglio di Stato, IV
Sez., con la
sentenza 29.10.2015 n. 4950, favorevole al Comune di
Torino in una controversia sul regime di onerosità di un
titolo edilizio.
Si discuteva in particolare della
ristrutturazione di un edificio risalente all’inizio del
900, inizialmente suddiviso in 34 unità immobiliari su
quattro piani, con destinazione commerciale e residenziale,
del quale si prevedeva la completa demolizione e
ricostruzione con sagoma diversa, con nove piani ma nei
limiti della superficie lorda di pavimento preesistente. Le
unità immobiliari venivano ridotte da 34 a 24 e sarebbero
stati realizzati oltre 20 posti auto nel sottosuolo.
Un intervento del genere, nella logica del carico
urbanistico, avrebbe dovuto escludere oneri aggiuntivi
perché sia il parametro dei residenti che quello della
superficie presentavano una contrazione. Il Comune tuttavia
ha preteso il pagamento di oneri aggiuntivi per la riduzione
dell’impatto acustico, sottolineando che sarebbe stato
necessario stendere, in prossimità dell’intervento, asfalto
fonoassorbente. Secondo le misurazioni dell’ente locale,
l’insediamento avrebbe consentito l’utilizzo di residenze in
cui si superava il limite di rumore derivante dal traffico
veicolare.
L’impresa riteneva di non pagare, invocando il principio
secondo il quale gli oneri di urbanizzazione, dal 1977 in
poi (legge n. 10), rispondono all’esigenza di dotare il
tessuto edilizio di adeguati servizi (rete viaria, fognature
eccetera), utilizzando il parametro del “carico
urbanistico”. Il Comune invece insisteva nella pretesa
economica, invocando i sopravvenuti standard di benessere
regolati da norme successive all’epoca di costruzione, ed in
particolare la normativa sul contenimento del rumore (legge
n. 447/1995).
Secondo i giudici, quest’ultima tesi è quella legittima,
anche se la ristrutturazione riguardava un edificio
ultracentenario che non generava un appesantimento
dell’urbanizzazione nei parametri dei servizi pubblici
coinvolti (cioè sotto l’aspetto delle opere di
urbanizzazione). Il Consiglio di Stato sottolinea infatti le
differenti finalità tra gli oneri di urbanizzazione e le
norme sulla mitigazione acustica (legge n. 447/1995, Lr
Piemonte n. 52/2000 e regolamento del Comune di Torino n.
318/2006), sicché anche una ristrutturazione che diminuisca
il carico urbanistico può restare soggetta ai necessari
adeguamenti sotto l’aspetto acustico. Di conseguenza, la
ristrutturazione va assoggettata ai più elevati standard
richiesti da norme sopravvenute.
Nel caso specifico, il Comune ha legittimamente richiesto il
pagamento di circa 26mila euro per ovviare al problema del
superamento dei limiti acustici, tramite l’utilizzo sulla
viabilità pubblica di asfalto fonoassorbente. Quindi, anche
se la pianificazione urbanistica vale solo per il futuro e
recepisce tutte le preesistenze (Consiglio di Stato,
sentenza n. 1052/2007), ciò non esclude che le norme
relative a standard qualitativi tecnologici ed ambientali
siano di immediata applicazione: ciò, del resto, allo stesso
modo in cui anche gli impianti vanno adeguati agli standard
sopravvenuti (articolo Il Sole 24 Ore del
25.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Un premio al legale in gamba. Il giudice può
decidere di aumentare la parcella.
La decisione del tribunale di Verona in sede di definizione
delle spese di lite.
Il giudice aumenta al parcella all'avvocato bravo.
La III Sez. civile del TRIBUNALE di Verona ha emesso la
sentenza 29.10.2015 che tende a qualificare la professione
legale: il giudice, applicando l'art. 4, comma 8, dm n.
55/2014, ha aumentato il compenso dell'avvocato vincitore,
riconoscendone quindi le sue capacità nell'espletamento
dell'ufficio legale.
Il giudice veronese, regolamentando le spese di lite,
sosteneva che andavano poste a carico dell'attrice opponente
in applicazione dei principio della soccombenza. Alla
liquidazione delle somme spettanti a titolo di compenso si
procedeva sulla base del dm 55/2014.
In particolare, secondo il giudice, il compenso per le fasi
di studio ed introduttiva poteva essere determinato
assumendo a riferimento i valori medi di liquidazione,
mentre quello per la fase istruttoria e per la fase
decisionale andava quantificato in una somma pari ai
corrispondenti valori medi di liquidazione, ridotti del 30 %
alla luce della considerazione che la prima è consistita
nella sola partecipazione a due udienze, mentre nella fase
decisionale parte convenuta ha ripreso le medesime
argomentazioni che avevano già svolto in precedenza.
Inoltre nel caso di specie, risultava possibile applicare
l'art. 4, comma 8, del dm n. 55/2014, potendo qualificarsi
la difesa della convenuta opposta come «manifestamente
fondata», secondo l'espressione utilizzata da tale
norma.
La norma in esame ha quindi previsto un'ipotesi di
soccombenza qualificata, riconoscibile ex officio dal
giudice, avente «la duplice finalità non solo di
«scoraggiare pretestuose resistenze processuali» ma
soprattutto di valorizzare, premiandola, l'abilità tecnica
dell'avvocato che, attraverso le proprie difese, sia
riuscito a far emergere che la prestazione del suo assistito
era chiaramente e pienamente fondata nonostante le difese
avversarie» (così testualmente il richiamato parere del
Consiglio di stato e in termini pressoché identici la
relazione ministeriale al dm 55/2014).
Tale disposizione secondo il giudice scaligero viene in
rilievo nei casi in cui il difensore di una parte riesca a
far emergere la fondatezza nel merito dei propri assunti e,
specularmente, l'infondatezza degli assunti di controparte,
senza dover ricorrere a prove costituende e quindi solo
grazie ai proprio apporto argomentativo.
Volendo esemplificare si può pensare ai casi in cui la causa
risulti di pronta soluzione sulla base di prove documentali
di facile intelligibilità ovvero perché involge questioni
giuridiche relativamente semplici o ancora perché non vi è
stata contestazione dei fatti rilevanti ai fini della
decisione (articolo ItaliaOggi Sette del 25.01.2016). |
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