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AGGIORNAMENTO AL 22.01.2016 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Bonus edilizi, le novità 2016.
La legge di Stabilità 2016 (legge 28.12.2015, n. 208) ha
prorogato fino al 31.12.2016 le detrazioni «potenziate» per
gli interventi di recupero del patrimonio edilizio e per
quelli finalizzati al risparmio energetico (con la novità
dei dispositivi per il controllo remoto degli impianti di
riscaldamento e per i contribuenti «no tax area»).
Stesso
prolungamento di un anno anche per il «bonus arredi»,
riconosciuto a chi acquista mobili e grandi elettrodomestici
destinati a immobili oggetto di lavori di ristrutturazione,
a fianco del quale è stato introdotto un nuovo «bonus
mobili», riservato alle giovani coppie che comprano (e
arredano) l'abitazione principale.
Il panorama delle detrazioni fiscali per risparmio
energetico, ristrutturazioni e arredi, dopo la manovra,
presenta normative e casistiche articolate e riconducibili
ai temi che verranno illustrati di seguito: (... segue)
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.01.2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 22.01.2015, "Integrazione
delle disposizioni in merito alla disciplina per
l’efficienza energetica degli edifici approvate con decreto
6480 del 30.07.2015" (decreto
D.U.O. 18.01.2016 n. 224). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
G.U. 21.01.2016 n. 16
"Adozione dei criteri ambientali minimi per l’affidamento
di servizi di progettazione e lavori per la nuova
costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici per
la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione e
criteri ambientali minimi per le forniture di ausili per
l’incontinenza" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 24.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
G.U. 21.01.2016 n. 16 "Indirizzi metodologici per la
predisposizione dei quadri prescrittivi nei provvedimenti di
valutazione ambientale di competenza statale" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 24.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI:
G.U. 20.01.2016 n. 15, suppl. ord. n. 1, "Ripubblicazione
del testo della legge 28.12.2015, n. 208, recante:
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)»,
corredato delle relative note (Legge
pubblicata nel supplemento ordinario n. 70 alla Gazzetta
Ufficiale - Serie generale - n. 302 del 30.12.2015)". |
APPALTI - AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA -
ESPROPRIAZIONE:
G.U. 18.01.2016 n. 13 "Disposizioni in materia ambientale
per promuovere misure di green economy e per il contenimento
dell’uso eccessivo di risorse naturali" (Legge
28.12.2015 n. 221).
---------------
Si legga, al riguardo, anche:
Dossier del Servizio Studi sull’A.S. n. 1676-A -
Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di
green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di
risorse naturali (ottobre 2015, n. 237). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
VARI:
Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale
(ANCE di Bergamo,
circolare 15.01.2016 n. 13). |
APPALTI:
Oggetto: Decreto-Legge “Milleproroghe”: le disposizioni
inerenti gli appalti pubblici (ANCE di Bergamo,
circolare 15.01.2016 n. 12). |
APPALTI:
Oggetto: Nuove soglie comunitarie per gli appalti
pubblici dal 01.01.2016 (ANCE di Bergamo,
circolare 15.01.2016 n. 11). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale –
scadenza del 30.04.2016 - Servizio di ANCE Bergamo per la
compilazione e presentazione del MUD (ANCE di Bergamo,
circolare 15.01.2016 n. 10). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
Oggetto: Legge di stabilità 2016 – n. 208 del 28.12.2015
- Principali misure di natura fiscale (ANCE di Bergamo,
circolare 15.01.2016 n. 9). |
ENTI
LOCALI - VARI: Oggetto:
pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie per
violazione delle norme del Codice della Strada, mediante
bonifico bancario e strumenti elettronici di pagamento
(Ministero dell'Interno,
nota 14.01.2016 n. 300/A/227/16/127/34 di prot.). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: le modifiche apportate dal D.Lgs. 151/2015 al
Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro D.Lgs.
81/2008
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 11.01.2016 n. 649). |
APPALTI:
Oggetto: Testo approvato dalla Camera dei Deputati per
l’invio al Senato - Delega appalti (AC 3194-A) (Rete
Professioni Tecniche,
circolare 22.12.2015 n. 40/2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Oggetto: Chiarimenti sui titoli di accesso all'esame di
stato per la sez. A dell'albo degli Ingegneri (Ministero dell'Istruzione,
dell'università e della ricerca,
nota 21.12.2015 n. 23591 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Direttiva
per disciplinare la conduzione dei procedimenti di rilascio,
riesame e aggiornamento dei provvedimenti di autorizzazione
integrata ambientale di competenza del Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
direttiva 16.12.2015 n. 274 di prot.). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Via libera Anac ai mini-acquisti nei Comuni
medio-piccoli. Fino a 40mila euro.
Via libera dall’Autorità
anticorruzione ai mini-acquisti «non centralizzati» anche
nei Comuni sotto i 10mila abitanti, quando le somme in gioco
non superano i 40mila euro.
Lo comunica lo stesso presidente dell’Anac, Raffaele
Cantone (comunicato
del Presidente 08.01.2016), che in questo modo chiude il cerchio dopo che il
comma 501 della legge di stabilità ha risolto il
“corto-circuito” dei piccoli acquisti.
Soggette a un continuo tira e molla fatto di proroghe e
correttivi, infatti, le regole sulla centralizzazione degli
acquisti, che vietano alle amministrazioni di operare in
autonomia nel reperimento di beni e servizi e impongono di
rivolgersi ai vari soggetti aggregatori previsti dalla
norma, avevano escluso i mini-acquisti solo negli enti con
più di 10mila abitanti.
Questa situazione, effetto
probabilmente più del caos prodotto dai continui correttivi
che di una reale scelta strategica, aveva quindi determinato
il blocco, negli ultimi mesi del 2015 non coperti dalle
proroghe precedenti, degli acquisti fino a 40mila euro nei
Comuni fino a 10mila abitanti, cioè in 7.712 enti su 8mila.
In base a queste regole, infatti, l’Anac non poteva
rilasciare il codice identificativo gara (Cig), condizione
essenziale perché l’operazione sia legittima. Ora, chiarisce
l’Autorità, la macchina dei Cig può ripartire, in attesa del
prossimo cambio di regole (articolo Il Sole 24 Ore del
13.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti, Cig per gli enti sotto i 10 mila
abitanti. L'Anac dà l'ok al rilascio
del codice identificativo gara.
Via libera al rilascio del codice identificativo gara (Cig)
per i comuni con meno di 10 mila abitanti che intendono
affidare contratti di importo fino a 40 mila euro.
È quanto chiarisce l'Autorità nazionale anticorruzione
(comunicato
del Presidente 08.01.2016) rettificando il comunicato del presidente Raffaele Cantone
del 10.11.2015 nel quale aveva esplicitato come l'Anac
non potesse rilasciare il Cig ai comuni con meno di 10 mila
abitanti per acquisiti fino a 40 mila euro.
La precisazione si è resa necessaria a seguito delle
modifiche introdotte dall'art. 1, comma 501, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) che
consente ai comuni con popolazione inferiore ai 10 mila
abitanti di procedere, senza ricorrere alle centrali di
committenza, alla stipula dei contratti di importo fino a 40
mila euro. In particolare la legge di stabilità prevede che
«all'articolo 23-ter, comma 3, del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, con legge 11.08.2014, n. 114, sono apportate le seguenti
modificazioni: b) le parole «con popolazione superiore a 10
mila abitanti» sono soppresse».
Fino all'approvazione della legge 208 per questi comuni era
invece vietata la possibilità di procedere ad acquisti
autonomi per importi inferiori a 40 mila euro, anche se il
divieto era stato più volte differito fino ad arrivare
all'entrata in vigore a novembre 2015. In presenza del
divieto l'Anac per rendere effettivo l'obbligo di ricorso
alla centrale di committenza, aveva affermato che, anche in
base a quanto stabilito del comma 3-bis dell'articolo 33 del
codice dei contratti pubblici, non avrebbe rilasciato il
codice identificativo gara ai comuni con meno di 10 mila
abitanti che avessero avuto intenzione (a quel punto
violando la legge) di esperire procedure di affidamento per
acquisiti fino a 40 mila senza rivolgersi a un soggetto
aggregatore della domanda.
Arriva quindi adesso la rettifica del presidente Anac che,
per la sopraggiunta modifica normativa, corregge il
comunicato di novembre chiarendo che, dal 1° gennaio scorso,
l'Autorità provvede a rilasciare il Cig a tutti i comuni che
procedono all'acquisto di lavori servizi e forniture di
importo inferiore a 40 mila euro a decorrere dal 01.01.2016.
La precisazione rileva anche perché è la legge stessa
a precisare che il mancato rilascio del codice
identificativo di gara, comporta (o meglio, avrebbe
comportato, in caso di violazione dell'obbligo), quale
sanzione accessoria espressamente prevista dalla legge n.
136/2010 in tema di lotta alla criminalità organizzata, la
nullità assoluta dei contratti stipulati per violazione
della disposizioni sulla tracciabilità dei flussi finanziari
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi liberi dai partiti.
Non sono configurabili come organi delle liste. Non è
ammissibile alcuna interferenza sul loro funzionamento.
È legittima la diffida, operata dai presentatori di una
lista civica nei confronti di due dei tre consiglieri eletti
nell'ambito della medesima lista, a utilizzare le
corrispondenti prerogative, in materia di costituzione di
gruppi e commissioni consiliari?
In linea generale, l'esistenza dei gruppi consiliari non è
espressamente prevista dalla legge, ma si desume
implicitamente da quelle disposizioni normative che
contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125
del decreto legislativo n. 267/2000).
I mutamenti che possono
sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in
consiglio comunale per effetto di dissociazioni
dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a
diversi gruppi esistenti, sono ammissibili.
Tuttavia, sono i
singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di
organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme,
statutarie e regolamentari, nella materia, nell'ambito
dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta dal
citato art. 38 del citato Tuel.
Tali mutamenti modificano i rapporti tra le forze politiche
presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi
ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non
può non influire sulla composizione delle commissioni
consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
Del resto, la possibilità di transitare da un gruppo ad
altro, o di costituire nuovi gruppi non potrebbe non essere
finalizzata alla formazione delle commissioni consiliari,
che, come è noto, non sono componenti indispensabili della
struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei
consigli, alle quali, una volta istituite deve partecipare
almeno un rappresentante di ciascun gruppo.
Nella
fattispecie, lo statuto comunale, prevedendo la facoltà di
istituire le commissioni consiliari, dispone l'obbligo del
rispetto del criterio proporzionale, assicurando,
correttamente, la presenza di almeno un rappresentante per
ogni gruppo. Il regolamento disciplina i gruppi, prevedendo
che i consiglieri eletti nella medesima lista formino, di
regola, un gruppo consiliare, anche unipersonale. I nuovi
gruppi sono ammessi solo se costituiti da almeno due
consiglieri, mentre il consigliere che nel corso del mandato
rimanga da solo nel gruppo precostituito, mantiene le
prerogative. La fonte regolamentare non contiene, invece,
specifiche disposizioni che prevedano l'ipotesi della
espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di
appartenenza originario, fatta salva, piuttosto, la
previsione di potersi distaccare dal gruppo originario.
Pertanto, il rapporto tra il candidato eletto ed il partito
di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente
rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la
assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio
comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla
lista o partito che li ha candidati» (Tar Puglia, sez.
di Bari sentenza n. 506/ 2005).
Peraltro, con la stessa sentenza il Tar Puglia ha affermato
che nel nostro sistema legislativo la «lista» è lo strumento
a disposizione dei cittadini per presentare all'elettorato i
propri candidati ed esaurisce la sua funzione giuridica al
momento delle elezioni che si concludono con la
proclamazione degli eletti, atto anteriore e del tutto
autonomo rispetto alla convalida. Ne consegue che
all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili
quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere
in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante
sia per un membro del gruppo di riferimento, sia per gli
organi assembleari dell'ente.
Il Tar Lazio, con sentenza n. 16240/2004, ha precisato che i
gruppi consiliari rappresentano, per un verso, la proiezione
dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso,
costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto
articolazioni interne di un organo istituzionale; «è
dunque possibile distinguere due piani di attività dei
gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il
rapporto del singolo gruppo con il partito politico di
riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico,
in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti
necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli
organi assembleari, contribuendo ad assicurare
l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le
diverse posizioni politiche e programmatiche».
Pertanto, qualora, come nel caso di specie, non sussistano
disposizioni regolamentari che disciplinino i rapporti tra
il partito (o lista) di riferimento dei consiglieri e i
gruppi costituiti, non appare possibile alcuna interferenza
dei primi nei riguardi dei secondi. Spetta, infatti, al
consiglio comunale la valutazione dell'opportunità di
indicare anche le ipotesi in argomento, al fine di
assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato
svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare
(articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La valutazione del personale in comando.
DOMANDA:
Questo ente capofila del Distretto sociosanitario
comprendente 24 comuni è sede del NUP (Nuovo Ufficio di
Piano) la cui responsabilità è stata attribuita al
Responsabile del Settore Socio Educativo di questo comune.
Le competenze relative al Servizio Integrato di Accesso
(SIA) per tutti i comuni del Distretto, che opera in staff
al NUP, sono svolte da un’Assistente Sociale che, essendo
dipendente di uno dei 24 comuni del Distretto, è stata
distaccata a tempo pieno presso questo ente capofila.
In considerazione della posizione di responsabilità
rivestita a livello sovracomunale, questo comune ha
attribuito alla medesima una posizione organizzativa (in
precedenza attribuita dal comune di appartenenza). Gli
obiettivi alla stessa attribuiti sulla base della
programmazione decisa dal Comitato di Distretto (di cui
fanno parte i Sindaci dei 24 comuni) sono stati ricompresi
nel PEG-PDO del Settore Socio Educativo ed approvati
nell’ambito del PEG PDO di questo comune.
Come per le altre PO si vorrebbe sottoporre la succitata
Responsabile a valutazione da parte del Nucleo di
Valutazione di questo ente.
Si chiede se la procedura individuata può ritenersi corretta
o, diversamente, quale potrebbe essere una soluzione
organizzativa più idonea.
RISPOSTA:
La questione relativa alle modalità di valutazione del
personale in comando o distacco presso un altro ente, con
riferimento ai parametri degli obiettivi individuali e
comportamenti organizzativi, attiene agli aspetti
organizzativi che ogni datore di lavoro dovrebbe affrontare
e risolvere nell'ambito della fase attuativa dei criteri
definiti in sede di contrattazione decentrata.
Le prestazioni e i risultati del personale in posizione di
comando (o distacco) dovrebbero essere oggetto di
valutazione sulla base di una specifica relazione
illustrativa formulata dal dirigente dell'ente presso il
quale il lavoratore ha prestato servizio nell'anno di
riferimento; a tal fine lo stesso dirigente dovrebbe essere
opportunamente informato sulle regole definite dalla
contrattazione decentrata dell'ente di formale appartenenza
del lavoratore, anche per la elaborazione della stessa
scheda di valutazione utilizzata per tutti gli altri
dipendenti.
Infatti, solo il dirigente che in concreto utilizza le
prestazioni del lavoratore può disporre delle conoscenze
necessarie per poterle anche valutare, anche se l'ente di
appartenenza del personale in distacco potrebbe prevedere e
richiedere un momento di verifica della relazione e della
scheda di valutazione predisposta dal dirigente dell'ente
utilizzatore, al fine di evitare ingiustificate disparità di
trattamento.
Le predette indicazioni trovano sostanziale conferma
nell’art. 19 del CCNL del 22/01/2004 che sancisce
esplicitamente il diritto del personale comandato o
distaccato a partecipare alla valutazione per l’attribuzione
della progressione economica presso l’ente di appartenenza.
Nel caso concreto l'ente utilizzatore è il Distretto
sociosanitario (costituito da 24 comuni), al cui interno è
situato il Nuovo Ufficio di Piano. Poiché il Distretto non
ha un Nucleo di valutazione ma soltanto un Comitato di
Distretto responsabile della programmazione, la valutazione
della responsabile del NUP è stata correttamente rimessa al
Nucleo dell'ente capofila, che valuterà il conseguimento
degli obiettivi alla stessa attribuiti sulla base della
programmazione decisa dal Comitato di Distretto.
La valutazione così operata potrà essere sottoposta anche ad
un ulteriore verifica da parte del comune di appartenenza,
presso cui la dipendente già rivestiva una posizione
organizzativa (link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La trattenuta per i ritardi.
DOMANDA:
In data 17/12/2015 l'ufficio personale comunicava al
sottoscritto che un dipendente dell'Ufficio Tecnico ha
accumulato nel C.A. n. 171,38 ore di ritardi.
In ragione di quanto sopra si chiede quale sia la procedura
per la contestazione di tale comportamento ed il recupero
delle somme percepite a seguito del lavoro non svolto.
RISPOSTA:
Il CCNL dei dipendenti EE.LL. prevede espressamente il
recupero contabile con trattenuta stipendiale del lavoro non
prestato mensilmente, e non recuperato con maggiori
prestazioni nel mese immediatamente successivo, entro il
secondo mese successivo a quello della mancata prestazione,
a cura del settore personale.
L’Ufficio competente deve provvedere immediatamente a tale
recupero, nel primo mese utile, e il responsabile preposto
dovrà richiamare il dipendente al rispetto dell’orario, come
da codice disciplinare espressamente previsto dal CCNL. Il
proseguire in tale comportamento comporterà ovviamente
l’avvio di un procedimento disciplinare. La trattenuta dovrà
essere completa, comprensiva anche di oneri diretti e
indiretti (le assenze superano il mese convenzionalmente
pari a 152 ore).
La trattenuta dovrà essere scaglionata, non potendo superare
i limiti di legge mensili, ma verrà disposta mensilmente in
mensilità contigue, sino ad esaurimento del debito. Il tempo
non lavorato nei mesi da gennaio in poi, se non recuperato
in soluzione unica mese per mese, nel mese immediatamente
successivo, sarà oggetto di trattenuta nel mese seguente
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: Assenteisti,
sospensione rapida. Contestabile anche il danno di immagine
- Per i dirigenti reato coprire i dipendenti.
Consiglio dei ministri/1. La stretta con la riforma della
Pa: stop entro 48 ore e procedimento disciplinare chiuso in
30 giorni.
Sospensione
cautelare senza stipendio e contraddittorio entro 48 ore da
quando viene accertata la falsa attestazione della presenza
in servizio. Immediato avvio del procedimento disciplinare,
che dovrà concludersi entro 30 giorni. La condotta della
«falsa attestazione» sul luogo di lavoro rileverà anche
davanti alla Corte dei conti, con l’introduzione, ed è una
novità: l’azione di responsabilità «per danno d’immagine»
della Pa nei confronti del dipendente assenteista (che se
condannato dai magistrati contabili dovrà corrispondere
all’erario minimo sei mensilità di stipendio, oltre
interessi e spese di giustizia).
Si irrobustiscono pure le sanzioni nei confronti dei
dirigenti responsabili del “travet” infedele: l’eventuale
inerzia costituirà fattispecie disciplinare punibile con il
licenziamento e in aggiunta, ed è un’altra novità, il loro
comportamento sarà qualificato come «omissione d’atti di
ufficio».
La
bozza in ingresso in Consiglio dei ministri, ieri notte,
del Dlgs con il primo giro di vite contro i “furbetti” del
cartellino conferma la linea dura annunciata dal governo:
rispetto a oggi, viene definita espressamente la fattispecie
della «falsa attestazione della presenza in servizio»: cioè
qualsiasi modalità fraudolenta posta in essere, anche da
terzi, per far risultare il dipendente in servizio e così
trarre in inganno l’amministrazione.
«La tecnica legislativa
utilizzata è piuttosto ampia dal punto di vista oggettivo e
soggettivo -spiega Sandro Mainardi, ordinario di diritto
del Lavoro all’università di Bologna- in quanto vengono
ricomprese sia le condotte dirette che quelle indirette
(ingannevoli) di frodi riferite non solo alla totale assenza
dal servizio ma anche alle porzioni di orario di lavoro
all’interno della giornata lavorativa. Inoltre, a conferma
dell’inasprimento disciplinare, è licenziabile non solo chi
commette la frode, ma anche chi la favorisce con condotte
attive od omissive, comprese, forse, anche quelle di chi,
pur a conoscenza dei fatti, non li ha riferiti
all’amministrazione».
La bozza di Dlgs conferma che l’accertamento della falsa
presenza in ufficio può avvenire in flagranza o mediante
strumenti di sorveglianza e registrazione di accessi e
presenze. La sospensione è disposta dal dirigente
responsabile o dall’Upd (Ufficio procedimenti disciplinari),
se ne viene a conoscenza per primo.
Oltre al procedimento disciplinare “velocizzato”, la
condotta “assenteista” può essere anche fonte di
responsabilità penale (scatta la denuncia) e, come detto,
erariale: qui la Corte dei conti è tenuta a dedurre
l’interessato per danno d’immagine entro tre mesi dalla
conclusione della procedura di licenziamento (l’azione di
responsabilità è esercitata entro i 120 giorni successivi
alla denuncia, senza possibilità di proroga). L’ammontare
del danno d’immagine risarcibile è rimesso alla valutazione
del magistrato «anche in relazione alla rilevanza del fatto
per i mezzi d’informazione» e comunque l’eventuale condanna
non può essere inferiore a sei mensilità di retribuzione.
Le nuove norme rafforzano pure la stretta sul dirigente
responsabile dell’ufficio dell’assenteista. Oltre a
prevedere che la mancata sospensione cautelare e la mancata
attivazione del procedimento disciplinare (tramite
segnalazione all’Upd) possono essere causa di licenziamento
per lo stesso dirigente, il legislatore definisce la
condotta espressamente come «omissione di atti di ufficio».
«Si evoca, così, la fattispecie di reato dell’articolo 328,
comma 2, del Codice penale -aggiunge Mainardi-
sottolineando che gli obblighi del dirigente in questo
ambito corrispondono, più che ad una prerogativa del datore
di lavoro, a una vera e propria “funzione pubblica” di un
pubblico ufficiale» (articolo Il Sole 24 Ore del
21.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Stretta sui furbetti del cartellino. Sospesi
entro 48 ore anche i complici. Dirigenti a rischio.
L'attuazione della delega Madia parte dal
dlgs sui licenziamenti disciplinari degli statali.
Sospensione dal lavoro senza stipendio entro 48 ore per gli
statali «furbetti del cartellino» scoperti ad attestare il
falso sulla propria presenza in ufficio. Rischierà il posto
non solo chi altera i sistemi di rilevamento delle presenze
o invia falsi certificati medici, ma anche chi si avvale
dell'aiuto di terzi per risultare in servizio.
Quindi per esempio chi si fa timbrare il cartellino dal
collega. In questo caso sia lo statale assenteista sia il
«complice» risponderanno entrambi di falsa attestazione. E
rischierà il posto anche il dirigente responsabile che
dovrebbe sospendere dal servizio l'assenteista e non lo fa o
non avvia il relativo procedimento disciplinare.
Parte dai licenziamenti l'attuazione della legge delega
Madia sulla riforma della p.a. (legge n. 124/2015) che aveva
chiesto al governo di accelerare e rendere certi i tempi
dell'azione disciplinare.
L'esecutivo lo ha fatto con un
dlgs che modifica l'attuale normativa, ossia il T.u. del
pubblico impiego (dlgs n. 165/2001) nel testo novellato
dalla legge Brunetta (dlgs n. 150/2009), con disposizioni ad
hoc per introdurre un giro di vite sulla falsa attestazione
delle presenze, tema divenuto assai sensibile dopo lo
scandalo al comune di Sanremo che ha portato all'arresto di
35 dipendenti e all'avvio di indagini su altri 195.
Presupposto per l'irrogazione della sanzione sarà
esattamente quanto avvenuto nel comune ligure:
l'accertamento della violazione in flagranza o attraverso
strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi.
Situazioni, spiega la relazione di accompagnamento al
decreto, «che consentono una immediata e presumibilmente
certa contestazione al dipendente».
In questo caso scatterà l'immediata sospensione dal lavoro
senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato. La
sospensione sarà irrogata dal dirigente responsabile della
struttura di appartenenza del dipendente con provvedimento
motivato e in tempi strettissimi: immediatamente o entro 48
ore dal momento in cui il dirigente è venuto a conoscenza
della violazione. Ma il mancato rispetto di questa
tempistica sprint non comporterà la decadenza dell'azione
disciplinare né l'inefficacia dell'azione cautelare. Una
volta ricevuti gli atti, l'ufficio competente per i
procedimenti disciplinari dovrà portare a termine l'iter
entro 30 giorni. Quindi vengono più che dimezzati gli
attuali tempi che prevedono la chiusura del procedimento in
60/120 giorni. E la sospensione cautelare consentirà di
anticipare gli effetti del licenziamento.
Entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare, la
notizia della violazione dovrà pervenire sul tavolo del
pubblico ministero penale e della competente procura
regionale della Corte dei conti. I magistrati contabili, se
ci sono gli estremi per il danno all'immagine, dovranno
emettere l'invito a dedurre entro tre mesi dalla conclusione
della procedura di licenziamento per assenteismo.
L'ammontare del danno risarcibile sarà rimesso alla
valutazione equitativa del giudice che dovrà tener conto
anche della rilevanza che il caso di assenteismo ha avuto
sui media. In ogni caso la condanna non potrà essere
inferiore a sei mensilità di stipendio del dipendente
colpevole.
Come detto, la stretta sull'assenteismo coinvolgerà anche i
dirigenti (e i responsabili di servizio negli enti privi di
qualifica dirigenziale). L'omessa comunicazione della
violazione all'ufficio procedimenti disciplinari, l'omessa
attivazione del procedimento e l'omessa sospensione
cautelare costituiranno fattispecie disciplinari punibili
anch'esse con il licenziamento, integrando gli estremi del
reato di omissione d'atti d'ufficio (art. 328 cp).
Il governo rivendica il carattere innovativo del decreto che
«permetterà di superare la complessità della situazione
attuale in cui, nonostante le sanzioni disciplinari e la
responsabilità dei dipendenti pubblici, previste dagli
articoli 67-73 del dlgs 150/2009, continuano a verificarsi
casi di false attestazioni di presenze da parte dei pubblici
dipendenti». Ma i sindacati non ci stanno e parlano di
provvedimento demagogico.
«Renzi si è inventato un percorso
ripetitivo che, di fatto, avrà l'unico merito di portare la
sua firma. E questo per ingraziarsi l'opinione pubblica
italiana», ha dichiarato il segretario generale della Confsal, Marco Paolo Nigi. «Voglio ribadire che siamo a
favore del licenziamento degli assenteisti. Del resto, chi
non va a lavorare dimostra che non ne ha bisogno. Allo
stesso modo, però, vogliamo che sia riconosciuto il merito a
chi il merito ce l'ha, così come vogliamo che i procedimenti
per il licenziamento, seppur veloci, non si traducano in
processi sommari e arbitrari».
«I fannulloni vanno cacciati, perché chi truffa la pubblica
amministrazione truffa i cittadini», hanno osservato in una
nota i deputati del Movimento 5 stelle in commissione lavoro
della camera. Ma è inaccettabile, proseguono, «che anche
stavolta, nel riformare la p.a., si parta da una norma sui
licenziamenti, così come era accaduto con il Jobs act e
l'articolo 18. Il governo sfrutta ogni occasione per
precarizzare e colpire i diritti»
(articolo ItaliaOggi del
21.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Chi
denuncia casi di corruzione non dovrà temere ritorsioni.
Tutelato chi denuncia casi di corruzione nella pubblica
amministrazione, ma anche nel settore privato. Il dipendente
statale che denuncia in buona fede al responsabile della
prevenzione della corruzione del proprio ente ovvero all'Anac,
all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti le condotte
illecite o di abuso di cui sia venuto a conoscenza in
ragione del suo rapporto di lavoro non può essere, per
motivi collegati alla segnalazione, soggetto a sanzioni,
licenziato o sottoposto a misure discriminatorie. E la
stessa tutela l'avranno i collaboratori e i consulenti.
A prevederlo la proposta di legge (Atto
Camera n. 3365) che introduce nel nostro
ordinamento l'istituto anglosassone del «whistleblowing»
(ossia la tutela per chi segnala reati o irregolarità
nell'interesse pubblico) che andrà oggi al voto della camera
dei deputati.
Il provvedimento, che ha avuto come prima firmataria
l'onorevole Francesca Businarolo del M5s, e che nel corso
dell'iter parlamentare ha esteso il suo raggio di
applicazione anche al settore privato, vieta di rivelare
l'identità del segnalante a meno che ciò non sia
indispensabile per la difesa dell'incolpato. Non si prevede,
in ogni caso, la possibilità di segnalazioni in forma
anonima.
Sono previste sanzioni severe in caso di
discriminazioni nei confronti dell'autore della «soffiata».
L'Anac potrà applicare all'autore della condotta
discriminatoria una sanzione amministrativa pecuniaria, da
5.000 a 30.000 euro. Il «whistleblower» non potrà godere
dello scudo previsto dalla proposta di legge nei casi in cui
sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la
responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia
o diffamazione.
Per quanto riguarda il lavoro privato, viene modificato il
decreto legislativo n. 231/2001, sulla responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche e delle società. I
modelli organizzativi adottati dalle società dovranno
garantire la riservatezza dell'identità del «whistleblower»
e il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti
o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi
collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione.
È inoltre previsto che l'adozione di misure discriminatorie
nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni
possa essere denunciata all'Ispettorato nazionale del lavoro
(articolo ItaliaOggi del
21.01.2016). |
APPALTI:
Un solo documento per l'appalto. Per le gare Ue
basta certificati, arriva la prova preliminare.
In Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea il
formulario per l'autocertificazione dell'impresa.
Semplificata la partecipazione delle imprese agli appalti
europei grazie al documento di gara unico europeo. Il Dgue
(documento unico europeo) consisterà in un'autodichiarazione
dell'operatore economico che fornirà una prova documentale
preliminare in sostituzione dei certificati rilasciati da
autorità pubbliche o terzi.
È con il
regolamento di esecuzione Ue 2016/7 del
05.01.2016 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione
Europea n. L3/16 IT del 06.01.2016) che la commissione
Ue ha adottato il modello di formulario relativo al
documento unico europeo per le procedure di appalto cui i
paesi membri dovranno attenersi.
Il Dgue dovrebbe concorrere
a un'ulteriore semplificazione a vantaggio sia degli
operatori economici sia delle amministrazioni aggiudicatrici
e degli enti aggiudicatori anche sostituendo le variegate e
differenti forme di autocertificazione nazionali con un
modello di formulario stabilito a livello europeo. Questa
soluzione dovrebbe contribuire altresì a ridurre i problemi
connessi alla formulazione precisa delle dichiarazioni
formali e delle dichiarazioni di consenso nonché le
problematiche legate alla lingua, poiché il modello di
formulario sarà disponibile in tutte le lingue ufficiali.
Il Dgue dovrebbe così favorire una maggiore partecipazione
transfrontaliera alle procedure di appalto pubblico. Il Dgue
consisterà in una dichiarazione formale da parte
dell'operatore economico i soddisfare i pertinenti criteri
di selezione e di non trovarsi in una delle situazioni per
le quali gli stessi dovranno o potranno essere esclusi. Il
Dgue entrerà in vigore dal momento dell'adozione delle
misure nazionali di attuazione della direttiva 2014/24/Ue, e
al più tardi a decorrere dal 18.04.2016. Il modello
allegato n. 2 al regolamento 2016/7 sarà il riferimento per
tutti gli Stati membri. Dal 18.04.2016 il Dgue sarà
fornito esclusivamente in forma elettronica, in ottemperanza
all'articolo 59, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva
2014/24/Ue.
Il Dgue potrà essere utilizzato sia nell'offerta
nelle procedure aperte, sia nella richiesta di
partecipazione alle procedure ristrette, nelle procedure
competitive con negoziazione, nei dialoghi competitivi o nei
partenariati per l'innovazione. Quanto alle procedure
negoziate, in una nota alle istruzioni allegate al
regolamento, la presentazione del Dgue, si legge, sarebbe
invece pienamente giustificato e dovrebbe essere richiesto
«nei casi contraddistinti dalla possibile partecipazione di
più di un partecipante e dall'assenza di urgenza o di
caratteristiche peculiari della transazione».
L'operatore
economico potrà essere escluso dalla procedura di appalto o
essere perseguito a norma del diritto nazionale se si sarà
reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel
compilare il Dgue o, in generale, nel fornire le
informazioni richieste per verificare l'assenza di motivi di
esclusione o il rispetto dei criteri di selezione, ovvero se
non avrà trasmesso tali informazioni o non sarà stato in
grado di presentare i documenti complementari
(articolo ItaliaOggi del
20.01.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Albo ingegneri. Miur: architetti non ammessi.
L'accesso agli esami di stato per l'iscrizione all'Albo
degli ingegneri non è possibile per i possessori di diploma
di laurea in architettura del vecchio ordinamento.
Il chiarimento è arrivato dal Ministero dell'istruzione (nota
21.12.2015 n. 23591 di prot.) in
risposta a una richiesta arrivata dal Consiglio nazionale
degli ingegneri.
Il Cni aveva, infatti, informato il
ministro Stefania Giannini del fatto che, a causa di una
errata interpretazione di una nota dello stesso Miur del
2012, gli ordini provinciali della categoria professionale
stessero ricevendo numerose richieste, prontamente respinte,
di iscrizione da parte dei laureati in architettura del
vecchio ordinamento, illegittimamente ammessi dalle
università a sostenere l'esame di stato.
A seguito del
chiarimento, quindi, gli atenei non potranno più ammettere a
sostenere l'esame di stato i laureati in architettura del
vecchio ordinamento. «Ringraziamo il Miur per aver posto
fine a questo equivoco increscioso.
Ora», ha spiegato il
presidente del Cni Armando Zambrano, «sarà necessario
vigilare sulla corretta applicazione della normativa»
(articolo ItaliaOggi del
20.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI:
Obbligo di appalti «verdi» per gli acquisti della Pa.
Collegato ambientale. In «Gazzetta Ufficiale» la nuova legge.
Sulla Gazzetta
ufficiale n. 13 di ieri, 18 gennaio, è stata pubblicata la
legge che promuove misure di green economy e per il
contenimento dell’uso eccessivo delle risorse naturali.
È il
cosiddetto “Collegato ambientale” (si veda Il Sole 24 Ore
del 23, 24 e 27.12.2015) che entrerà in vigore il
prossimo 2 febbraio, compresa la sanzione da 30 a 150 euro
per abbandono di rifiuti di piccolissime dimensioni
(«scontrini, fazzoletti di carta e gomme da masticare») sul
suolo, nelle acque, nelle caditoie e negli scarichi.
La
sanzione si raddoppia per mozziconi di prodotti da fumo. E’
un affievolimento sanzionatorio rispetto al generale divieto
di abbandono di rifiuti già previsto dall’articolo 255 del
“Codice ambientale”. Cambia l’articolo 514 del Codice di
procedura civile; non sono più pignorabili gli animali di
affezione o da compagnia tenuti presso la casa del debitore
o negli altri luoghi a lui appartenenti, senza fini
produttivi, alimentari o commerciali, nonché gli animali
impiegati a fini terapeutici o di assistenza del debitore,
del coniuge, del convivente o dei figli.
Tra le numerose altre disposizioni si ricordano:
-
proroga al 31.12.2016 del termine (scaduto il 31.12.2008) entro il quale le Regioni devono redigere il
Piano di tutela delle acque in base al decreto legislativo
152/2006;
-
i contratti di fiume concorrono alla definizione e
all’attuazione delle pianificazione e tutela delle risorse
idriche, unitamente alla salvaguardia dal rischio idraulico;
-
nell’affidamento di un appalto si aggiunge il possesso del
marchio Ecolabel in misura pari o superiore al 30% del
valore delle forniture o prestazioni oggetto del contratto;
-
se il Sindaco non ravvisa criticità, le acque reflue di
vegetazione dei frantoi oleari sono assimilate alle reflue
domestiche per scarico in pubblica fognatura;
-
le regole che rendono obbligatorio il ricorso ai cosiddetti
“appalti verdi” (Gpp-Green public procurement) di beni e
servizi capaci di specifiche prestazioni ambientali previste
da appositi decreti (recanti i Cam - Criteri ambientali
minimi) molti dei quali già emanati e altri in procinto di
esserlo. Mercato che vale 50 miliardi di euro;
35 milioni di euro per il programma sperimentale di mobilità
sostenibile casa-scuola e casa-lavoro.
Sono anche
individuate misure per favorire l’istituzione nelle scuole
del mobility manager che avrà il compito di organizzare e
coordinare gli spostamenti casa-scuola-casa del personale
scolastico e degli alunni. Saranno incentivate iniziative
degli enti locali su mobilità sostenibile. Un decreto
definirà programma, modalità e criteri per presentare i
progetti;
-
la semplificazione data dalla modifica agli articoli 104 e
109, decreto 152/2006 la quale prevede che se, nelle
autorizzazioni allo scarico in mare di acque da ricerca di
idrocarburi e alla movimentazione dei fondali marini per la
posa di cavi e condotte, occorre la Via (Valutazione di
impatto ambientale) tali autorizzazioni sono concesse dalla
stessa Autorità competente al rilascio della Via;
-
con una modifica al decreto 152/2006, per raffinerie e
centrali termiche sopra i 300 MW, l’Istituto superiore di
sanità o organismi ed enti competenti può prevedere una
valutazione di impatto sanitario da svolgere nell’ambito
della Via (articolo Il Sole 24 Ore del
19.01.2016). |
VARI:
Multe ridotte, pagare non basta. Bisogna
verificare che l'accredito sia avvenuto in tempo.
Il rischio è quello di non essere ammessi al
beneficio dello sconto entro i 5 o 60 giorni.
Il cittadino che becca una multa si dovrà fare carico di
tutto. Cioè non basterà pagare tempestivamente, ma si dovrà
anche controllare che l'accredito alla pubblica
amministrazione sia avvenuto entro i termini previsti per
poter godere della riduzione. Il rischio è infatti di
vanificare lo sforzo e non essere ammessi al beneficio dello
sconto previsto per chi paga entro 5 giorni o al massimo
entro 60. Ma attenzione ai timbri postali e a tutti gli
avvisi contenuti nei verbali per non incorrere in ulteriori
sanzioni e perdite di tempo. Specialmente in materia di data
di notifica e obbligo di delazione dei dati del conducente
per la decurtazione di punteggio.
Che non sia facile districarsi tra il traffico e la
burocrazia stradale lo ha evidenziato implicitamente anche
il ministero dell'interno con la circolare del 14.01.2016 (si veda ItaliaOggi
del 16/01/2016) dedicata al pagamento elettronico delle
multe.
Siccome per la pubblica amministrazione è necessario
individuare delle linee di confine chiare, a parere
dell'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale
occorre che l'argine temporale utile a garantire l'efficacia
liberatoria del pagamento scontato o ridotto delle sanzioni
sia un dato certo, indipendente dai meccanismi bancari o da
questioni non controllabili. Poco importa se questo rischia
di diventare un boomerang per il diligente autista alle
prese con lo spiacevole contenuto della busta verde
recapitata dal portalettere. O reperita tra mille difficoltà
allo sportello postale dove ritirare una raccomandata,
specialmente con delega, è diventata una impresa coraggiosa,
al limite dell'impossibile.
Dunque recuperata la multa e pagata la stessa con i diffusi
sistemi elettronici non è finita. I cinque giorni che
garantiscono l'efficacia dello sconto del 30% a parere del
Viminale saranno rispettati solo se la valuta del pagamento
tempestivo sarà disponibile entro quel termine anche sul
conto della polizia stradale. Non basterà dunque aver
effettuato il bonifico entro 5 giorni. Occorrerà verificare
con la propria banca la data della valuta per non correre il
rischio di vedersi recapitare a casa, a distanza di qualche
tempo, una salata richiesta di integrazione.
Stesso discorso in caso di pagamento ridotto del verbale,
entro 60 giorni. Se il trasgressore, come spesso accade, si
approssimerà a effettuare il pagamento allo spirare del
termine dei 60 giorni (che non sono due mesi) il rischio è
di vedersi raddoppiare l'importo della multa. Ovvero di aver
effettuato un pagamento tempestivo, magari entro la
scadenza, con accredito della valuta in ritardo di qualche
ora.
In buona sostanza alla pubblica amministrazione in questo
caso non interessa se l'automobilista ha effettuato il
pagamento liberatorio in tempo. Serve che lo stesso
controlli attentamente anche la data dell'accredito perché
solo quel dato mette al riparo da richieste di conguaglio.
Ma non è finita. Per capire da quale momento decorrono i 5
giorni per essere ammessi allo sconto del 30% occorre
comprendere bene che una cosa è il ritiro materiale della
multa dal portalettere (in questo caso decorrono dal giorno
successivo a quello della consegna), una cosa è il ritiro
successivo in posta (in questo caso decorrono dal giorno
successivo al ritiro effettivo). Purché non siano intercorsi
oltre 10 giorni dal deposito. In questo caso infatti la
notifica si da per avvenuta il decimo giorno.
Quindi se un automobilista ritira la multa dopo due
settimane di ferie non ha più diritto al pagamento con lo
sconto perché la notifica si deve considerare avvenuta il
decimo giorno dal deposito. Attenzione infine all'invito
alla comunicazione tempestiva dei dati dell'effettivo
conducente per la decurtazione di punteggio. Chi non
dichiara nulla non rischia punti e patente ma attiverà
inevitabilmente un ulteriore verbale molto salato che spesso
giunge inaspettato all'automobilista convinto di aver già
concluso positivamente tutto il procedimento sanzionatorio
con il pagamento del primo verbale.
La questione assume spesso toni drammatici in caso di multe
seriali. Ovvero di automobilisti che incappano in numerosi
autovelox ripetuti senza saperlo
(articolo ItaliaOggi del
19.01.2016). |
APPALTI: Acquisti, la delega appalti «taglia» le convenzioni.
Centralizzazione. I criteri per i Comuni non capoluogo.
La delega per
il recepimento delle direttive comunitarie sugli appalti
appena approvata in via definitiva dal Senato
(Atto
Senato 1678-B)
ridisegna il
sistema delle centrali di committenza, puntando sulla
qualificazione e sull'ulteriore razionalizzazione per i
Comuni non capoluogo.
La lettera dd) dell'articolo 1 della legge-delega prefigura
una riorganizzazione degli organismi deputati a gestire le
macro-acquisizioni di beni, servizi e lavori su base locale,
attualmente strutturata sui quattro modelli aggregativi
individuati dall’articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei
contratti pubblici: le unioni di Comuni (se esistenti), le
stazioni uniche appaltati (Sua) presso le Province, i
soggetti aggregatori (Consip e centrali di committenza
regionali), e gli accordi tra gli stessi comuni non
capoluogo (in base a convenzioni ex articolo 30 del Tuel).
Nella delega per questi enti è stabilito l'obbligo di
ricorrere a forme di aggregazione o centralizzazione delle
committenze, a livello di Unione dei comuni, ove esistenti,
o ricorrendo ad «altro soggetto aggregatore secondo la
normativa vigente».
La previsione sembra ridurre le opzioni per le
amministrazioni comunali non capoluogo a due sole soluzioni.
Nel caso del ricorso all'Unione, i Comuni dovrebbero
ricondurre ad essa le loro gare di maggior rilievo, potendo
peraltro rimettere a questi soggetti una gestione più
organica delle strategie di area vasta o di distretto (come
già si sta sperimentando in Emilia-Romagna).
Nel caso di ricorso ai soggetti aggregatori, le linee di
referenza più immediate sono riferibili a quelli regionali e
alle Città metropolitane comprese nell'elenco predisposto
dall'Anac, secondo una prospettiva di rafforzamento già
delineata dal legislatore, a partire dall'articolo 9 della
legge 89/2014, e rafforzata recentemente con una serie di
significative previsioni contenute nella legge 208/2015
(legge di stabilità 2016).
I criteri definiti dalla legge delega non sembrano lasciare
spazio per gli accordi tra Comuni non capoluogo (sulla base
di convenzioni per la gestione associata della funzione
acquisti) nel frattempo sviluppati in molti contesti, non
necessariamente con riferimento a ambiti territoriali
corrispondenti alle Unioni (anzi, in molti casi inferiori).
Questo determinerebbe un esaurimento di queste esperienze
nell'arco di pochi mesi, posta l'entrata in vigore del nuovo
codice a metà aprile.
Il disegno che sarò sviluppato nelle nuove disposizioni
regolatrici dell'attività contrattuale può tuttavia
salvaguardare queste esperienze (in molti casi già operative
e efficienti), riportando i modelli aggregativi su base
convenzionale ad un primo livello di qualificazione per
assurgere al ruolo di «soggetti aggregatori».
Sempre al decreto legislativo spetta la definizione di
eventuali margini di operatività dei singoli Comuni non
capoluogo, attualmente garantiti dalla possibilità di
utilizzo del mercato elettronico e delle piattaforme
telematiche, oltre che dal ricorso all'affidamento diretto
entro 40mila euro per acquisti di servizi, beni e lavori
mediante procedure tradizionali (articolo Il Sole 24 Ore del
18.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti con più trasparenza e meno oneri
burocratici. Le novità contenute
nella legge delega per l'attuazione alle direttive europee
del 2014.
Le parole d'ordine sono procedure semplificate e tempi certi
di gara e di realizzazione delle opere. E un occhio di
favore deve essere riservato alle piccole e medie imprese e
ai subappaltatori. Questo anche mediante una maggiore
diffusione di informazioni, utilizzando gli strumenti della
rete per le gare telematiche e per la pubblicazione degli
avvisi: appalti, dunque, semplici, digitalizzati, senza
inutili complicazioni burocratiche.
È quanto prevede la legge delega per la riforma degli
appalti pubblici (Atto
Senato 1678-B), approvata definitivamente dal Senato, che
rivoluziona l'attuale dlgs 163/2006 e che tocca anche il
processo amministrativo sugli appalti. Si vuole più qualità
dell'opera pubblica, meno varianti in corso d'opera che
fanno aumentare i costi, più sicurezza per i subappaltatori
e più centrali di committenza. Ma andiamo per ordine.
Gli appalti pubblici in affanno.
La delega vuole intervenire
in un quadro caratterizzato da una sistemica inefficienza.
Consideriamo infatti i tempi attuali di realizzazione degli
appalti. Secondo il Rapporto 2014 del dipartimento per lo
sviluppo e la coesione economica, i tempi di attuazione di
opere che valgono meno di 100 mila euro sono di poco
inferiori a 3 anni, mentre superano i 14 anni per i progetti
dal valore di oltre 100 milioni di euro; la progettazione
degli interventi complessivamente presenta durate medie
variabili tra 2 e 6 anni, la fase di aggiudicazione dei
lavori oscilla tra 5 e 16 mesi circa, mentre i tempi medi di
realizzazione lavori variano tra 5 mesi ad oltre 7 anni.
I
tempi della fase di progettazione sommati a quelli
dell'affidamento risultano pari o superiori a quelli della
sola realizzazione. E la situazione è peggiorata rispetto
alla precedente indagine del 2011: i tempi medi di
attuazione registrano un aumento di piccola entità (da 4,4 a
4,5 anni). Il peggioramento risulta particolarmente evidente
per le opere di maggiore dimensione economica (sopra i 100
milioni di euro), dove l'incremento dei tempi è superiore al
30%.
La complessiva lunghezza deriva da carenze nelle
progettazioni degli interventi, nella complessità degli iter
autorizzativi e nell'incertezza nei circuiti finanziari,
aggravata dalla necessità di rispettare il patto di
stabilità interno, nella debolezza della governance del
progetto da parte del soggetto attuatore.
Attuazione della delega.
Per porre mano a questa situazione,
sfruttando il pretesto di direttive europee da attuare, il
governo viene delegato a adottare un decreto legislativo per
il recepimento di alcune direttive europee e per il riordino
complessivo della disciplina sui contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture. Il termine per l'adozione
della delega è il 18.04.2016.
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Pubblicazione on-line del resoconto
finanziario.
Centrali di committenza e pubblicazione dei bilanci sono gli
strumenti della spending review.
La delega prevede istituti tipici di contenimento della
spesa come la previsione dell'obbligo per le stazioni
appaltanti di pubblicare nel proprio sito internet il
resoconto finanziario al termine dell'esecuzione del
contratto e come le forme di centralizzazione delle
committenze e di riduzione del numero delle stazioni
appaltanti, effettuate sulla base del sistema di
qualificazione, con possibilità, a seconda del grado di
qualificazione conseguito, di gestire contratti di maggiore
complessità, salvaguardando l'esigenza di garantire la
suddivisione in lotti nel rispetto della normativa
dell'Unione europea.
Viene fatto salvo l'obbligo, per i comuni non capoluogo di
provincia, di ricorrere a forme di aggregazione o
centralizzazione delle committenze e anche a livello di
unione dei comuni o ricorrendo ad altro soggetto
aggregatore.
Flessibilità.
La delega recepisce gli strumenti di flessibilità previsti
dalle direttive per le procedure e gli strumenti a
disposizione delle amministrazioni aggiudicatrici, a cui è
attribuita maggiore discrezionalità nella scelta delle
soluzioni più adeguate. In tale ambito, vanno considerate le
nuove procedure disciplinate dalle direttive tra le quali la
procedura competitiva con negoziazione, del partenariato per
l'innovazione cui le amministrazioni possono far ricorso nel
caso in cui abbiano un'esigenza di prodotti, servizi o
lavori innovativi che non può essere soddisfatta acquistando
prodotti, servizi o lavori disponibili sul mercato.
Deroghe.
Pur in un quadro di semplificazione normativa, si vieta
espressamente l'affidamento di contratti attraverso
procedure derogatorie rispetto a quelle ordinarie fatta
eccezione per le urgenze di protezione civile.
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Documenti, si può integrare in seguito.
Lenzuolata di semplificazioni per le imprese: meno oneri
documentali e possibilità di integrare i documenti mancanti.
La gara è fatta per valutare le offerte, non per un salto a
ostacoli tra cavilli e formalismi. Vediamo il dettaglio
delle semplificazioni in arrivo.
Meno carta.
La delega prevede la riduzione degli oneri documentali ed
economici a carico dei soggetti partecipanti, con
attribuzione a questi ultimi della possibilità di
integrazione documentale non onerosa di qualsiasi elemento
di natura formale della domanda, purché non attenga agli
elementi oggetto di valutazioni sul merito dell'offerta.
Anche le stazioni appaltanti dovranno avere la vita più
facile con procedure semplificate per la verifica dei
requisiti generali di qualificazione delle imprese,
costantemente aggiornati.
Questo si otterrà con l'accesso a un'unica banca dati
centralizzata gestita dal ministero delle infrastrutture e
dei trasporti e con la revisione e semplificazione
dell'attuale sistema AVCpass.
La legge delega configura un sistema con due banche dati di
riferimento: una banca dati centralizzata, risultante
dall'unificazione presso l'Anac di tutte le banche dati del
settore, e una banca dati centralizzata presso il Mit, che
sembra avere come funzione principale quella di consentire
l'aggiornamento e la verifica dei requisiti generali di
qualificazione.
Documento unico di gara.
Sempre per ridurre gli oneri documentali, per i partecipanti
alle gare sarà possibile utilizzare il documento di gara
unico europeo (Dgue) o analogo documento predisposto dal
ministero delle infrastrutture e dei trasporti (Mit) per
l'autocertificazione del possesso dei requisiti di
partecipazione alle gare.
Avvisi: porte aperte all'informatica.
La legge delega richiede la revisione del sistema di
pubblicità degli avvisi e dei bandi di gara, in modo che
avvenga principalmente tramite strumenti di pubblicità di
tipo informatico.
È prevista prevedendo la definizione di indirizzi generali
da parte del ministero delle infrastrutture e dei trasporti,
d'intesa con l'Anac, al fine di garantire adeguati livelli
di trasparenza e di conoscibilità prevedendo, in ogni caso,
la pubblicazione su un'unica piattaforma digitale presso l'Anac
di tutti i bandi di gara.
Requisiti di capacità economica e
finanziaria. La
riforma prevede la riformulazione dei requisiti di capacità
economico finanziaria, tecnica, compresa quella
organizzativa, e professionale che gli operatori economici
devono possedere per partecipare alle procedure di gara,
tenendo presente l'interesse pubblico ad avere il più ampio
numero di potenziali partecipanti.
Questi requisiti di capacità devono essere attinenti e
proporzionati all'oggetto dell'appalto, i potenziali
partecipanti devono essere scelti dalle stazioni appaltanti
nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione tenendo
presente l'interesse pubblico a favorire l'accesso delle
micro, piccole e medie imprese.
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Le varianti? Solo se è necessario.
Varianti solo quando è necessario e criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa come regola. La gara serve a
garantire il miglior rapporto qualità/prezzo e a selezionare
l'operatore più affidabile. Vediamo come leggendo i principi
della legge delega.
Trasparenza.
Nell'esercizio della delega dovranno essere individuati
espressamente i casi nei quali, in via eccezionale, è
possibile ricorrere alla procedura negoziata senza
precedente pubblicazione di un bando di gara.
Deve essere assicurata comunque la trasparenza degli atti ed
il rispetto della regolarità contributiva, fiscale e
patrimoniale dell'impresa appaltatrice.
Deve essere reso obbligatorio il ricorso a conti dedicati
per le imprese aggiudicatrici di appalti pubblici attraverso
i quali regolare tutti i flussi finanziari dei pagamenti
verso tutti i prestatori d'opera e di lavoro e verso tutte
le imprese che entrano a vario titolo in rapporto con
l'impresa aggiudicatrice in relazione agli appalti
assegnati.
Inoltre si deve disegnare un sistema di penalità e
premialità per la denuncia obbligatoria delle richieste
estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari di
appalti pubblici e di servizi, comprese le imprese
subappaltatrici e le imprese fornitrici di materiali, opere
e servizi. Specifiche sanzioni dovranno essere irrogate in
caso di omessa o tardiva denuncia Deve essere garantita la
piena accessibilità e la trasparenza degli atti progettuali,
anche in via telematica, al fine di consentire un'adeguata
ponderazione dell'offerta da parte dei concorrenti.
Varianti.
La legge delega vuole ridurre il ricorso a variazioni
progettuali in corso d'opera, che molto spesso fanno
lievitare i costi.
In proposito di dovrà distinguere le variazioni sostanziali
e quelle non sostanziali. Le misure di contenimento delle
varianti dovranno applicarsi, in particolare, alla fase di
esecuzione dei lavori.
Proprio per arginare il pericolo di varianti «facili», ogni
variazione in corso d'opera dovrà essere adeguatamente,
motivata, giustificata unicamente da condizioni impreviste e
imprevedibili e debitamente autorizzata dal Rup
(responsabile unico del procedimento).
Inoltre dovrà essere sempre assicurata la possibilità, per
l'amministrazione committente, di procedere alla risoluzione
del contratto quando le variazioni superino determinate
soglie rispetto all'importo originario, e dovrà al contempo
essere garantita la qualità progettuale e la responsabilità
del progettista in caso di errori di progettazione.
Offerta più vantaggiosa.
La delega prevede l'utilizzo, per l'aggiudicazione degli
appalti pubblici e delle concessioni, del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa (Oepv), misurata
sul «miglior rapporto qualità/prezzo».
Si preferisce tale criterio di aggiudicazione (rispetto a
quello del prezzo più basso) limitando i casi e delle soglie
di importo entro le quali è consentito il ricorso al solo
criterio di aggiudicazione del prezzo o del costo, inteso
come criterio del prezzo più basso o del massimo ribasso
d'asta.
Il criterio della legge delega precisa che il «miglior
rapporto qualità/prezzo» è determinato seguendo un approccio
costo/efficacia, quale il costo del ciclo di vita e
sottolinea che il «miglior rapporto qualità/prezzo» va
valutato con criteri oggettivi sulla base degli aspetti
qualitativi, ambientali o sociali connessi all'oggetto
dell'appalto pubblico o del contratto di concessione;
regolazione espressa dei criteri, delle caratteristiche
tecniche e prestazionali nel rispetto dei principi di
trasparenza, di non discriminazione e di parità di
trattamento.
Il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa sarà
l'unico utilizzabile per l'aggiudicazione dei contratti
pubblici relativi ai servizi sociali e di ristorazione
ospedaliera, assistenziale e scolastica, escludendo in ogni
caso l'applicazione del solo criterio di aggiudicazione del
prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più
basso o del massimo ribasso d'asta. Lo stesso vale anche per
l'aggiudicazione dei contratti pubblici di servizi ad alta
intensità di manodopera, definiti come quelli nei quali il
costo della manodopera è pari almeno al 50% dell'importo
totale del contratto.
Offerte anomale.
Il decreto delegato dovrà definire le modalità di
individuazione ed esclusione delle offerte anomale, con
particolare riguardo ad appalti di valore inferiore alle
soglie di rilevanza europea. È prevista l'indicazione di
modalità, che rendano non predeterminabili i parametri di
riferimento per il calcolo dell'offerta anomala.
Partenariato.
Il decreto delegato dovrà dedicarsi alla razionalizzazione
ed all'estensione delle forme di partenariato
pubblico-privato e alla riduzione dei tempi procedurali
delle forme di attraverso la predisposizione di studi di
fattibilità.
La razionalizzazione delle forme di partenariato pubblico
privato toccherà con specifico riguardo la finanza di
progetto e la locazione finanziaria di opere pubbliche o di
pubblica utilità: strumenti che saranno incentivati mediante
il ricorso a mezzi finanziari innovativi e specifici ed il
supporto tecnico alle stazioni appaltanti, garantendo la
trasparenza e la pubblicità degli atti.
Avvalimento.
Si prevede la revisione della disciplina vigente in materia
di avvalimento, imponendo che il contratto di avvalimento
indichi nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con
particolare riguardo ai casi in cui l'oggetto di avvalimento
sia costituito da certificazioni di qualità o certificati
attestanti il possesso di adeguata organizzazione
imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara.
Si
vuole, nel contempo, rafforzare gli strumenti di verifica
circa l'effettivo possesso dei requisiti e delle risorse
oggetto di avvalimento da parte dell'impresa ausiliaria;
l'effettivo impiego delle risorse medesime nell'esecuzione
dell'appalto, al fine di escludere la possibilità di ricorso
all'avvalimento a cascata.
Non potranno, comunque, essere oggetto di avvalimento il
possesso della qualificazione e dell'esperienza tecnica e
professionale necessarie per eseguire le prestazioni da
affidare.
Rotazione.
Si prevede l'individuazione, in tema di procedure di
affidamento, di modalità volte a garantire i livelli minimi
di concorrenzialità, trasparenza, rotazione, e parità di
trattamento richiesti dalla normativa europea anche tramite
la sperimentazione di procedure e sistemi informatici già
adoperati per aste telematiche.
Gare telematiche.
La delega prevede la promozione di modalità e strumenti
telematici e di procedure interamente telematiche
d'acquisto, garantendo il soddisfacimento dell'obiettivo del
miglior rapporto qualità/prezzo piuttosto che l'indicazione
di uno specifico prodotto.
Appalti sotto soglia.
Si deve riscrivere la disciplina applicabile ai contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture eseguiti in economia
e di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria.
Gli importi delle soglie dei contratti pubblici di rilevanza
comunitaria sono pari a: 134.000 euro o 207.000 euro (a
seconda del tipo di servizio e dell'amministrazione
aggiudicatrice) per gli appalti pubblici di forniture e di
servizi; 5.186.000 euro per gli appalti di lavori pubblici e
per le concessioni di lavori pubblici. La disciplina dovrà
essere ispirata a criteri di massima semplificazione e
rapidità dei procedimenti, salvaguardando i principi di
trasparenza e imparzialità della gara.
---------------
Processo sugli appalti ancora più rapido: l'opera
pubblica non può attendere i tempi della giustizia. Il
processo sarà più rapido.
La delega impone la scritture di norme per alla
razionalizzazione dei metodi di risoluzione delle
controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche
in materia di esecuzione del contratto. Questo significa la
disciplina del ricorso alle procedure arbitrali e riduzione
dei costi a esse connessi.
Si prevede, dunque, che il
legislatore delegato emani disposizioni volte a escludere il
ricorso a procedure diverse da quelle amministrate (si
tratta dell'arbitrato celebrato sotto l'egida di
un'istituzione in genere una camera arbitrale che ne regola
diversi aspetti); e a garantire la trasparenza, la celerità
e l'economicità e assicurare il possesso dei requisiti di
integrità, imparzialità e responsabilità degli arbitri e
degli eventuali ausiliari.
Deve essere garantita l'efficacia e la speditezza delle
procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti
relativi ad appalti pubblici di lavori. Si deve poi,
prevedere, nel rispetto della pienezza della tutela
giurisdizionale, che, già nella fase cautelare, il giudice
tenga conto delle conseguenze del suo giudizio sui
contratti,
Sempre in merito di processo amministrativo, al legislatore
delegato si affida il compito di revisionare e
razionalizzare il rito abbreviato per i giudizi sugli
appalti anche mediante l'introduzione di un rito speciale in
camera di consiglio che consente l'immediata risoluzione del
contenzioso relativo all'impugnazione dei provvedimenti di
esclusione dalla gara o di ammissione alla gara per carenza
dei requisiti di partecipazione.
Per evitare lungaggini o
strumentalizzazioni sarà introdotta la previsione della
preclusione della contestazione di vizi attinenti alla fase
di esclusione dalla gara o ammissione alla gara nel
successivo svolgimento della procedura di gara e in sede di
impugnazione dei successivi provvedimenti di valutazione
delle offerte e di aggiudicazione, provvisoria e definitiva.
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Facilitazioni per le pmi.
Togliere le pmi dall'angolo e aprire le porte degli appalti
pubblici, garantendo anche da spiacevoli imprevisti nei
pagamenti, quando prendono lavori in subappalto.
Queste le
finalità della legge delega, che indica tra i principi il
miglioramento dell'accesso al mercato dei contratti pubblici
attraverso, innanzi tutto, il divieto di aggregazione
artificiosa degli appalti, prevedendo in particolare che la
dimensione degli appalti e il conseguente valore delle gare
e dei lotti in cui queste risultino eventualmente suddivise
siano adeguati al fine di garantire l'effettiva possibilità
di partecipazione da parte delle micro, piccole e medie
imprese.
Una novità assoluta è l'introduzione di misure premiali per
gli appaltatori e i concessionari che coinvolgano i predetti
soggetti nelle procedure di gara e, nell'esecuzione dei
contratti. Inoltre la mancata suddivisione in lotti dovrà
essere oggetto di specifico obbligo di motivazione.
Subappalto. Si prescrive l'introduzione, per i contratti di
lavori servizi e forniture di una disciplina specifica per
il subappalto. Nel dettaglio, il concorrente dovrà indicare
in sede di offerta le parti del contratto di lavori che
intende subappaltare; in casi specifici una terna di
nominativi di subappaltatori per ogni tipologia di attività,
prevista in progetto; dimostrare l'assenza in capo ai
subappaltatori indicati di motivi di esclusione e di
sostituire i subappaltatori relativamente ai quali apposita
verifica abbia dimostrato la sussistenza di tali motivi.
La stazione appaltante avrà l'obbligo di procedere al
pagamento diretto dei subappaltatori in caso di
inadempimento da parte dell'appaltatore o anche su richiesta
del subappaltatore, e se la natura del contratto lo
consente, per i servizi, le forniture o i lavori forniti. Se
il subappaltatore è una microimpresa o una piccola impresa,
il decreto legislativo dovrà indicare espressamente le
ipotesi in cui la stazione appaltante procederà al pagamento
diretto
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aia, modifiche sotto controllo. Interventi
rilevanti sugli impianti solo con espressa licenza.
Le indicazioni della direttiva 274/2015
sull'autorizzazione integrata ambientale.
Le modifiche a impianti sottoposti ad Autorizzazione
integrata ambientale che comportano emissione di nuove
sostanze pertinenti e significative sono da considerarsi
«rilevanti» e necessitano dunque di un preventivo e
rinnovato titolo «Aia» per poter essere legittimamente
realizzate dai gestori degli stabilimenti.
Questa una delle indicazioni che arrivano con la
direttiva Minambiente 16.12.2015 n. 274 recante la disciplina
dei procedimenti di rilascio, riesame e aggiornamento dei
provvedimenti Aia di competenza statale.
Il provvedimento,
pubblicato sul sito del Dicastero il 29.12.2015,
sebbene finalizzato a fornire indirizzi alle strutture
pubbliche interessate dalla procedura amministrativa, reca
nel suo allegato 5 dei «Criteri speditivi per individuare
alcune modifiche sostanziali Aia» che appaiono rilevanti
anche per le imprese tenute a osservare le stringenti regole
in materia dettate dal dlgs 152/2006 (c.d. Codice
ambientale).
Contesto: gli adempimenti sottesi alle
modifiche. Ex
articolo 5, comma 1, Parte II del dlgs 152/2006
costituiscono «modifiche» di impianti le variazioni (anche
di caratteristiche, funzionamento o potenziamento) che
possano produrre effetti sull'ambiente (lettera l); tali
modifiche sono altresì «sostanziali» (ex successiva lettera
l-bis) qualora producano effetti negativi e significativi
sull'ambiente, oppure, riguardando attività soggette a
valori soglia ex allegato VIII del Codice, comportino
incrementi anche di una delle grandezze previste, pari o
superiore ai valori stessi.
La realizzazione di modifiche
sostanziali è subordinata, ex articolo 29-quattuordecies del dlgs 152/2006, all'ottenimento di una nuova autorizzazione
integrata ambientale. La realizzazione di modifiche non
sostanziali, è invece subordinata (ex articolo 29-nonies
citato) alla presentazione di preventiva comunicazione alle
Autorità competenti, e solo decorsi 60 giorni dalla stessa
(senza rilievi da parte dell'Ente) è possibile realizzarle.
Le indicazioni Minambiente.
A evidenziare il confine tra modifiche sostanziali e non
sostanziali (e dunque quello tra i due diversi regimi di
adempimenti) concorrono per le Aia di competenza statale (ma
con valore, ad avviso dello scrivente, anche per quelle sub
istruttoria regionale vertendo sui principi generali della
disciplina autorizzatoria) le indicazioni della citata
direttiva 16 Minambiente 274/2015.
L'allegato 5 al
provvedimento del Dicastero appare fornire innanzitutto
chiarimenti sulle due fattispecie di modifiche espressamente
definite come «sostanziali» dall'articolo 5, comma 1,
lettera l-bis) del dlgs 152/2006: in relazione a quelle che
determinano effetti negativi significativi sull'ambiente, si
sottolinea infatti come in mancanza di parametri normativi
per la determinazione di tali caratteristiche, la decisione
sia rimessa all'Autorità competente; in relazione a quelle
che comportano variazioni di grandezze oggetto di soglia, si
evidenzia come l'incremento da valutare ai fini della
sostanzialità della modifica sia da calcolarsi a partire
dalla capacità produttiva autorizzata dal provvedimento di
«Aia iniziale» e sia costituito dalla sommatoria del valore
oggetto dell'istanza e dei valori di tutti gli eventuali
ulteriori interventi non sostanziali già realizzati
dall'applicazione della suddetta autorizzazione.
Ancora,
dalla nuova direttiva Minambiente appare emergere come siano
altresì da considerarsi «sostanziali»: le modifiche soggette
a valutazione di impatto ambientale in base allo stesso dlgs
152/2006, sia in relazione ad attività rientranti nel citato
allegato XII sia ad altre attività soggette alla medesima
Aia in quanto in quanto svolte in unità tecnicamente
connesse; le modifiche che comportano l'emissione di nuove
sostanze pertinenti significative.
In base alla stessa
direttiva 16 Minambiente 274/2015 possono invece
generalmente considerarsi non sostanziali le modifiche
(evidentemente diverse da quelle articolo 5, comma 1,
lettera l-bis, citato) che, se realizzate, consentano
comunque di condurre le attività sottese nel rispetto del
previgente quadro prescrittivo Aia (con particolar
riferimento ai valori limite autorizzati) e che non
coincidono con la realizzazione di nuove unità (ossia,
dispositivi e sistemi destinati a svolgere specifiche
attività in modo autonomo) o l'integrale sostituzione di
unità preesistenti, anche se comportanti un incremento della
capacità produttiva delle istallazioni, così come delle
quantità di materie prime lavorate o delle emissioni in
flusso di massa.
Da inquadrare invece come interventi,
diversi da mere modifiche, che necessitano invece ex dlgs
152/2006 di un vero e proprio «riesame» dell'autorizzazione
(attraverso relativa istruttoria) appaiono essere in base
allo stesso provvedimento Minambiente: gli interventi volti
a incidere sulle unità nei termini sopra citati; l'emergere
di nuovi elementi istruttori che rendono necessaria la
rivisitazione del quadro autorizzativo o modifiche al piano
di monitoraggio e controllo (in relazione a queste ultime
se, previo carteggio con l'Ispra, esse non siano state
considerate soluzioni alternative quantomeno equivalenti a
quelle originarie).
Infine, appaiono essere fuori dal campo
delle modifiche e del riesame gli interventi: finalizzati ad
adeguare le prestazioni dell'installazione alle prescrizioni
Aia; quelle che non hanno alcune effetto sull'ambiente;
quelle che non riguardano l'installazione ex articolo 5, ma
solo le unità non connesse tecnicamente (sia dal punto di
vista impiantistico che gestionale) all'impianto Aia.
Regime sanzionatorio.
A presidiare il rispetto delle norme sul regime
autorizzatorio «Aia», lo ricordiamo, è l'articolo
29-quattuordecies del Codice ambientale, ai sensi del quale:
la realizzazione di modifiche sostanziali in assenza di
autorizzazione: è punita con arresto fino a un anno o
l'ammenda fino a 26 mila euro; l'attuazione di modifiche non
sostanziali senza preventiva comunicazione o senza rispetto
dei termini previsti dalla sua notifica con la sanzione
amministrativa fino a 15 mila euro; l'attività condotta
senza autorizzazione o senza osservarne le prescrizioni,
rispettivamente (per i casi più gravi), con l'arresto fino a
due anni unitamente all'ammenda fino a 52 mila euro e con
l'ammenda fino a 26 mila euro.
La disciplina Aia in generale.
Dall'11.04.2014 la nuova disciplina sull'autorizzazione
integrata ambientale, che condiziona (sottoponendolo a un
unico titolo abilitativo) l'esercizio delle attività
industriale a elevata potenzialità inquinante al rispetto
dei più alti standard di tutela ambientale, è rappresentata
dalla Parte II del dlgs 152/2006 come riformulata dal dlgs
46/2014.
Operando dal punto di vista autorizzatorio una
distinzione tra stabilimenti sottoposti a competenza
regionale e nazionale (questi ultimi elencati nell'allegato
XII), con la riscrittura del generale allegato VIII alla
stessa Parte Seconda del «Codice ambientale» il nuovo dlgs
46/2014 ha sensibilmente allargato il campo di applicazione
dell'Aia, ricomprendendovi, tra le altre, numerose attività
relative alla gestione di rifiuti prima escluse (si veda
ItaliaOggi Sette del 16/06/2014)
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Depenalizzazione,
iter a più vie. Atti d’ufficio all’autorità amministrativa e
al giudice civile su istanza dei danneggiati.
Giustizia. Dopo il taglio ai reati possibile la revoca per
le condanne - Il Governo: rivedremo le sanzioni
sull’ostacolo ai revisori.
Le disposizioni
sulla depenalizzazione dei due decreti legislativi approvati
venerdì dal Consiglio dei ministri prevedono regole
procedurali differenti a seconda che le violazioni penali
siano trasformate in illeciti amministrativi (reati
sanzionati con la sola pena dell’ammenda o della multa o
modifica di alcuni reati del Codice penale) ovvero vengano
abrogate (reati a tutela della fede pubblica, onore e
patrimonio) con istituzione di sanzioni pecuniarie civili,
fermo il diritto al risarcimento del danno.
Reati con ammenda/multa.
Le norme hanno effetto retroattivo ma, a seconda dei casi e,
in particolare, se la violazione sia stata già oggetto (o
meno) di un procedimento penale potranno verificarsi
situazioni differenti.
Violazioni future.
Per le violazioni commesse dall’entrata in vigore del
decreto, ovvero scoperte in futuro ma relative a periodi per
i quali esse costituivano ancora reato, gli accertatori non
devono inviare la comunicazione di notizia di reato in
Procura, ma seguire le regole previste dalla legge 689/1981.
Sarà necessario procedere alla formale contestazione della
violazione, all’invio del verbale all’autorità
amministrativa competente (che cambia in base alla tipologia
di violazione), a rendere edotto il trasgressore della
possibilità di trasmettere scritti difensivi o essere
ascoltato personalmente, alla facoltà di estinguere la
violazione con pagamento in misura ridotta.
Procedimento in corso.
L’autorità giudiziaria, entro 90 giorni dalla data di
entrata in vigore del decreto, deve disporre la trasmissione
all’autorità amministrativa competente degli atti dei
procedimenti penali relativi ai reati trasformati in
illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti
prescritto o estinto per altra causa.
Azione penale non esercitata.
Nell’ipotesi in cui i verificatori abbiano inviato già la
notizia di reato ma l’azione penale non sia stata ancora
esercitata, la trasmissione degli atti è disposta dal Pm
che, in caso di procedimento già iscritto, annota la
trasmissione nel registro delle notizie di reato. Se il
reato è estinto per qualsiasi causa, il Pm richiede
l’archiviazione.
Azione penale esercitata.
Nel caso di azione penale già esercitata, il giudice
pronuncia sentenza inappellabile di assoluzione perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la
trasmissione degli atti all’autorità amministrativa
competente.
Condanna.
Se i procedimenti penali sono stati definiti prima
dell’entrata in vigore del decreto, con sentenza di condanna
o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la
sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è
previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti
conseguenti.
Reati su onore e patrimonio.
La sanzione pecuniaria viene applicata dal giudice
competente a conoscere dell’azione di risarcimento del
danno, al termine del giudizio solo nel caso in cui accolga
la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa. Le
sanzioni pecuniarie civili si applicano anche ai fatti
commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del
decreto, salvo che il procedimento penale sia stato definito
con sentenza irrevocabile di condanna.
In quest’ultima ipotesi il giudice dell’esecuzione revoca la
sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è
previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti
conseguenti. Nel caso di procedimenti penali in corso per
uno dei vari reati abrogati non sono previsti obblighi di
trasmissione degli atti dal giudice penale a quello
competente per la nuova sanzione civile.
Ne consegue che: per il principio del favor rei nei
confronti dell’indagato/imputato va dichiarata
l’archiviazione/assoluzione; la (nuova) sanzione civile
potrà esser applicata dal giudice solo se la parte
danneggiata decida di agire in sede civile per ottenere il
risarcimento del danno, non essendo prevista la trasmissione
d’ufficio degli atti dal giudice penale o dalla Procura a
quello civile competente all’irrogazione della nuova
sanzione.
L’indicazione.
Il Governo prova a spegnere sul nascere, poi, le polemiche
sulla depenalizzazione (con riduzione delle sanzioni - si
veda Il Sole 24 Ore di ieri) della condotta del manager che
ostacola i revisori accese dal Movimento Cinque Stelle.
L’ufficio legislativo della Giustizia ha, infatti, precisato
che «c’è la disponibilità a ricalibrare la sanzione»,
specificando che il perimetro in cui si è mosso l’esecutivo
era contenuto nella delega. In questo caso, però, emerge la
disponibilità ad adeguare le sanzioni ferma restando la
trasformazione in illecito amministrativo (articolo Il Sole 24 Ore del
17.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Renzi: fannulloni nella Pa licenziati in 48 ore.
La riforma. Mercoledì il sì alle norme in Consiglio dei
ministri - Sanzionabile anche il dirigente se non si attiva.
L’obbligo, in 48 ore, di far
scattare la sospensione di incarico e stipendio. E di
aprire, nello stesso arco di tempo, il procedimento
disciplinare la cui sanzione è il licenziamento del
dipendente pubblico “infedele”.
Matteo Renzi userà il pugno di ferro contro i dipendenti
pubblici fannulloni, come anticipato ieri dal Sole-24 Ore, e
annuncia l’arrivo di un mini-pacchetto di norme che
approderà mercoledì, in un Consiglio dei ministri convocato
in notturna, insieme con i primi decreti attuativi della
riforma Madia. Chi timbra e poi scappa dall’ufficio è un
«truffatore», ha spiegato il premier intervistato al Tg5, e
danneggia «la credibilità della stragrande maggioranza dei
dipendenti pubblici che lavorano bene».
«Abbiamo visto cose
pazzesche -ha poi aggiunto Renzi- come a Sanremo, dove
c’era chi timbrava in mutande e anche in queste ore si
vedono queste immagini». Da qui il giro di vite, «e se il
dirigente non procede, rischia lui stesso di andare a casa»,
ha concluso il capo del Governo.
Si accelera quindi nel riordino della disciplina dei
procedimenti disciplinari, che a questo punto escono dal
nuovo testo unico sul lavoro pubblico atteso per l’estate,
visto che la delega prevede tempi più lunghi. Le
disposizioni in corso di stesura da parte dei tecnici di
palazzo Vidoni introdurrebbero un tempo certo (48 ore,
appunto) per sospendere da lavoro e retribuzione il
dipendente colto in flagranza di illecito disciplinare (e
con prove certe - per esempio, c’è la ripresa della
telecamera della falsa attestazione della presenza in
servizio). Entro lo stesso arco di tempo dovrà partire il
procedimento che porta al licenziamento (oggi l’iter prevede
una durata di 60 giorni ma si superano i 100 effettivi - si
lavora anche per ridurre al minimo questo periodo).
Ma nel
mirino ci sarà pure il dirigente responsabile dell’impiegato
infedele: se non si attiva, risponde direttamente lui con
una sanzione disciplinare. Oggi non sempre l’azione
disciplinare viene portata a termine: su 7mila procedimenti
aperti ogni anno quelli che si chiudono con l’interruzione
del rapporto di lavoro sono poco più di 200, di cui un
centinaio per assenteismo, secondo le statistiche di
Funzione pubblica.
Come detto, queste norme verrebbero anticipate a mercoledì.
In un secondo tempo, con il nuovo testo unico previsto dalla
delega si completerà la stretta sulle regole disciplinari e
le modalità di licenziamento. Si sta studiando una
tipizzazione puntuale direttamente nella legge di quelle
fattispecie particolarmente gravi (per esempio, la
presentazione di falsi certificati medici) che fanno
scattare subito il procedimento che porta al licenziamento.
L’ipotesi delle tipizzazioni legali dei comportamenti più
eclatanti passerebbe per un rafforzamento della riforma
Brunetta (legge 15 e Dlgs 150 del 2009), dettagliando in
modo più preciso i singoli casi. Verrebbe comunque lasciata
la facoltà alle parti, attraverso la contrattazione, di
poter integrare queste ipotesi e di specificare anche i casi
in cui scatterebbero solo sanzioni conservative (e non il
licenziamento). La negoziazione avrebbe però un paletto: non
potrebbe superare la legge, e quindi annacquare la
disciplina più rigorosa introdotta dalla fonte primaria.
L’ulteriore semplificazione dei procedimenti disciplinari
passerebbe, poi, per l’accentramento in capo all’Ufficio per
i procedimenti disciplinari (l’Upd, già presente in tutte le
strutture) degli atti per irrogare sanzioni superiori al
rimprovero scritto, prevedendo termini perentori di inizio e
fine procedimento. Al responsabile della struttura (cioè al
singolo dirigente) rimarrebbe la competenza solo per il
rimprovero verbale e scritto. Il responsabile dell’ufficio
in cui opera il dipendente “infedele” manterrebbe invece la
funzione della segnalazione entro un certo termine.
Si
starebbe pensando, anche, di consentire in caso di
annullamento da parte della magistratura della procedura di
recesso per meri vizi procedurali o di forma, di poter
reiterare una seconda volta il procedimento disciplinare
(rimettendolo in termini l’amministrazione) per mandare via,
a questo punto senza più ostacoli, il dipendente reo di
comportamenti palesemente negligenti. Infine sulle visite
fiscali resta in campo l’ipotesi di una regulation
rafforzata in capo all’Inps e non più alle Asl (articolo Il Sole 24 Ore del
16.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Depenalizzato l’«ostacolo» ai revisori. Stop al
penale per i manager che frenano i controlli e per le
violazioni sulle comunicazioni antiriciclaggio.
Consiglio dei ministri. Via libera del Governo ai due
decreti legislativi che tagliano 41 reati: stralciate le
disposizioni sull’immigrazione clandestina.
Alla fine, a
ridosso della scadenza della delega, arriva al traguardo il
pacchetto depenalizzazione. Il Consiglio dei ministri di
ieri ha approvato definitivamente i due decreti legislativi
che permetteranno il taglio di alcune decine di reati (Il
Sole 24 Ore ne ha censiti 41, riportati nella tabella
pubblicata sotto). Superato lo scoglio del reato di
clandestinità, che, almeno per ora, rimane nel perimetro
penale, la riunione di ieri non ha prodotto sorprese.
Resta così confermata la depenalizzazione sia del mancato
rispetto delle prescrizioni collegate all’autorizzazione
alla coltivazione di cannabis per finalità terapeutiche sia
la guida senza patente sia l’omesso versamento di ritenute
nel limite dei 10.000 euro. Oltre che per la clandestinità
alla fine la delega non è stata esercitata anche per la
condotta di disturbo con rumori della quiete. Sul versante
dell’antiriciclaggio non sono perseguibili penalmente gli
inadempimenti relativi all’omessa identificazione e
all’omessa registrazione, con la conseguenza, però, di
sostituire a una misura pecuniaria penale (la multa fino a
13.000 euro) una sanzione amministrativa che può toccare nei
casi più gravi i 30.000 euro.
Effetto che, in realtà, riguarda anche altre condotte ed è
coerente con la volontà dell’intera operazione che è
dichiaratamente quella di attribuire maggiore forza
deterrente a una certa misura amministrativa rispetto a
un’incerta, soprattutto per il rischio prescrizione,
sanzione penale. Certo, in alcuni, casi la frattura tra
vecchio e nuovo e assai profonda.
Prendiamo, per esempio, il
caso dell’aborto clandestino o comunque del mancato rispetto
delle disposizioni della legge 194/1978: a carico della donna
sinora era prevista una multa sì, ma puramente simbolica, 51
euro; con la depenalizzazione la condotta è invece colpita
con una sanzione che può arrivare a 10.000 euro. Opposto
invece l’impatto depenalizzazione per il manager che
ostacola i revisori: sinora era prevista un’ammenda fino a
75.000 euro, mentre dopo la depenalizzazione la sanzione
pecuniaria amministrativa può essere anche solo di 10.000
(50.000 nel massimo).
In termini generali, si applica una sanzione amministrativa
pecuniaria ad alcuni reati previsti dal Codice e a tutti i
reati che sono contenuti in leggi speciali e puniti con la
sola misura della multa o dell’ammenda:
-
da 5.000 a 10.000 euro per i reati puniti con la multa o con
l’ammenda non superiore nel massimo a 5.000;
-
da 5.000 euro 30.000 per i reati puniti con la multa o con
l’ammenda non superiore nel massimo a 20.000;
-
da 10.000 a 50.000 euro per i reati puniti con la multa o
con l’ammenda superiore nel massimo a 20.000.
Rimangono dentro il sistema penale, e quindi esclusi dal
provvedimento, i reati che pur prevedendo la sola pena della
multa o dell’ammenda attengono alla normativa sulla salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro, ambiente, territorio e
paesaggio, sicurezza pubblica, giochi d’azzardo e scommesse,
armi, elezioni e finanziamento ai partiti.
Con un secondo decreto si prevede di sostituire la sanzione
penale con la sanzione pecuniaria civile, associata al
risarcimento del danno alla parte offesa. Quest’ultima potrà
così ricorrere al giudice civile per il risanamento del
danno. Il magistrato, accordato l’indennizzo, per alcuni
illeciti stabilirà anche una sanzione pecuniaria che sarà
incassata dall’Erario.
Il catalogo degli illeciti civili comprende l’ingiuria, il
furto del bene da parte di chi ne è comproprietario e quindi
in danno degli altri comproprietari, l’appropriazione di
cose smarrite: per questo gruppo la sanzione va da 100 a
8.000 euro. Raddoppia invece la sanzione civile per gli
illeciti relativi all’uso di scritture private falsificate o
la distruzione di scritture private (articolo Il Sole 24 Ore del
16.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rocce scavo più gestibili.
Più semplice gestire le rocce da scavo. Il consiglio dei
ministri ha dato via libera al secondo esame preliminare di
un dpr che semplifica la disciplina di gestione delle terre
e rocce da scavo.
Il provvedimento assorbe in un testo unico tutte le
disposizioni vigenti sulla gestione e l'utilizzo di questi
sottoprodotti, sul deposito temporaneo delle terre e rocce
da scavo qualificate come rifiuti e sulla loro gestione nei
siti oggetto di bonifica.
Rispetto al primo esame, il testo
è stato integrato e modificato sia a seguito della
consultazione pubblica rivolta a cittadini, associazioni e stakeholders del settore, che dal 19 novembre al 19 dicembre
scorso hanno potuto presentare sul sito del ministero
dell'ambiente proposte di modifica, sia sulla base del
parere della Conferenza unificata. Tra le novità introdotte:
• l'allineamento della normativa italiana a quella Ue e il
raccordo, in termini normativi, con le procedure di
valutazione di impatto ambientale;
• i soggetti che operano nel settore delle terre e rocce da
scavo non saranno più obbligati ad attendere la preventiva
approvazione del piano di utilizzo delle terre e rocce da
parte delle autorità competenti;
• fin dalla fase di predisposizione del piano di utilizzo
delle terre e rocce da scavo, i soggetti che le utilizzano
possano interagire con le Agenzie regionali e provinciali di
protezione ambientale per le verifiche tecniche, anticipando
lo svolgimento dei controlli di legge;
• arrivano procedure più veloci per attestare che le terre e
rocce da scavo soddisfano i requisiti stabiliti dalle norme
Ue e nazionali per essere qualificate come sottoprodotti e
non come rifiuti;
• si prevede il rafforzamento del sistema dei controlli e
una disciplina più dettagliata ed efficace per il deposito
intermedio delle terre e rocce da scavo qualificate come
sottoprodotti;
• si dettano tempi certi alle Arpa e Appa per svolgere le
attività di analisi
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Multe, con l'home banking vale la data di
accredito.
Nella definizione dei verbali per le violazioni del codice
della strada, qualora il trasgressore si avvalga dell'home
banking o altri analoghi strumenti elettronici, il pagamento
della sanzione pecuniaria si intende eseguito alla data di
accredito dell'importo sul conto dell'ente cui appartiene
l'organo accertatore.
L'importante chiarimento è stato fornito dal Ministero
dell'Interno con la
nota 14.01.2016 n. 300/A/227/16/127/34 di prot..
Ai sensi dell'art. 201 del codice della strada il
trasgressore, nei casi consentiti, può pagare la sanzione
amministrativa entro 60 giorni dalla contestazione o
notificazione. L'importo è ridotto del 30% se il pagamento è
effettuato entro cinque giorni. Il trasgressore può
corrispondere la somma presso l'ufficio dal quale dipende
l'agente accertatore oppure mediante versamento sul conto
corrente postale o bancario oppure per mezzo di strumenti di
pagamento elettronico.
La corretta individuazione della data di avvenuto pagamento
assume grande importanza nella definizione del procedimento
sanzionatorio. Infatti, l'art. 206 del codice della strada
dispone che, se il pagamento non è avvenuto nei termini, si
procede alla riscossione coattiva con la formazione dei
ruoli.
Il problema si pone per i pagamenti effettuati
tramite l'home banking, che prevedono l'intermediazione di
soggetti autorizzati dalla Banca d'Italia a prestare
attività di pagamento, e, in generale, per tutte le
tipologie di accreditamento che variano in funzione della
data e dell'ora in cui è stato impartito l'ordine al
prestatore di servizi. E il chiarimento ufficiale è arrivato
con la circolare del 14.01.2016 del ministero dell'interno,
che ha acquisto al riguardo il parere del ministero
dell'economia e delle finanze.
In sostanza, secondo il Viminale, mentre i pagamenti in
contanti o tramite conto corrente postale si intendono
eseguiti nella stessa data in cui è stato effettuato il
versamento, i pagamenti tramite conto corrente e bonifico
bancario o altri strumenti elettronici si intendono
eseguiti, con effetto liberatorio per il debitore, nella
data di accredito dell'importo sul conto dell'organo
accertatore (articolo ItaliaOggi del 16.01.2016). |
APPALTI:
È legge la riforma degli appalti Cantone: una
sfida per tutti. Il sì del Senato.
Legalità ed efficienza, codice «leggero».
Il Senato ha
approvato la legge delega sulla riforma degli appalti che
introduce un codice «leggero», premi alle imprese efficienti
e nuove regole sulla legalità: decreti attuativi entro il 18
aprile.
Raffaele Cantone, presidente Anac: «Sarà una sfida
per tutti».
Mai più
appalti in deroga (se non per calamità naturali), stop alle
varianti che fanno esplodere i costi delle grandi opere,
imprese valutate sulla base della reputazione conquistata in
cantiere o nello svolgimento dei servizi, freno ai ricorsi
che bloccano le opere e monopolizzano le aule dei Tar,
spinta all’innovazione con un forte impulso all’uso del Bim,
software di progettazione che consente di anticipare gli
imprevisti durante i lavori. E soprattutto una drastica
semplificazione normativa abbinata alla scelta di mettere al
centro del nuovo sistema l’Autorità Anticorruzione guidata
da Raffaele Cantone, che avrà il doppio compito di scrivere
le regole flessibili («soft law») incaricate di calare nella
realtà del mercato il nuovo impianto normativo e indirizzare
amministrazioni, imprese e professionisti con atti
finalmente vincolanti.
In una brutale sintesi è quello che promette la legge delega
(Atto
Senato 1678-B)
per la riforma degli appalti approvata ieri a larga
maggioranza dal Senato (con il sì di Forza Italia e voto
contrario dei Cinque Stelle che invece in prima lettura
avevano optato per l’astensione). Una promessa da mantenere
in fretta, attraverso il decreto legislativo chiamato ad
attuare i principi contenuti nella delega (forte di ben 72
criteri direttivi) in norme cogenti. Il decreto deve essere
approvato entro il 18 aprile, data in cui scade il termine
per recepire le tre direttive europee (23, 24 e 25/2014) che
hanno dato il la alla riforma e che il ministro delle
Infrastrutture Graziano Delrio ha ribadito di voler
rispettare.
«Da oggi il Paese ha una legge che consente
trasparenza, efficacia e legalità nelle opere pubbliche -ha twittato il ministro- Governo, Parlamento, Anac, imprese,
insieme per questa importantissima e innovativa riforma. Ora
tempi rapidi per la sua attuazione in norme semplici». A
scrivere materialmente il decreto, che non dovrebbe superare
la misura di 120-150 articoli, rispetto agli oltre 600
attuali, sarà la commissione di 19 esperti nominata da Delrio lo scorso settembre. La guida Antonella Manzione,
capo del Dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi.
Qualche bozza circola già, ma si tratta di documenti
preparatori, già a prima vista ancora largamente incompleti.
La delega approvata ieri mette in moto la seconda riforma
degli appalti nel giro degli ultimi venti anni. A innescare
la prima, con la legge Merloni del 1994 poi ampiamente
rimaneggiata e sfociata nel codice del 2006 fu Tangentopoli.
Anche oggi, le inchieste che negli ultimi mesi hanno
attraversato il mondo dei lavori pubblici - dall’Expo
commissariato a Mafia capitale, fino all’ultimo capitolo
degli appalti Anas - hanno lasciato il segno. «La corruzione
è uno dei motivi principali che hanno impedito la corretta
esecuzione delle opere pubbliche in Italia -ha spiegato in
Parlamento Delrio-. Questo codice sarà una ricetta
efficace».
Non è un caso allora la scelta di far girare il sistema
intorno ai (tanti) nuovi compiti dell’Anticorruzione. Con la
riforma che contribuirà a scrivere attraverso la «soft law»
attuativa del nuovo codice, Cantone sarà dotato di poteri di
intervento cautelari (possibilità di bloccare in corsa gare
irregolari), mentre il rispetto degli atti di indirizzo al
mercato (bandi-tipo, linee guida, pareri) diventerà
vincolante per amministrazioni e imprese.
In questa chiave
va anche letta la nascita di un albo nazionale dei
commissari di gara e il divieto di prevedere scorciatoie
normative, bypassando o semplificando le gare, per la
realizzazione di grandi eventi. Le deroghe alle procedure
ordinarie (90 quelle concesse per la realizzazione
dell’Expo) potranno essere ammesse soltanto in risposta a
emergenze di Protezione civile. All’Anac spetterà anche il
compito di qualificare le stazioni appaltanti, che saranno
abilitate a gestire i bandi per fasce di importo in base al
grado di organizzazione e competenza.
Per frenare la deriva dei tempi infiniti dei cantieri arriva
la stretta sulle varianti da cui passa l’aumento dei costi
in due casi su tre nelle grandi opere, con la possibilità di
rescindere il contratto oltre certe soglie di importo. Anche
qui è prevista una tagliola di Cantone, che potrà sanzionare
le Pa inadempienti sugli obblighi di comunicazione.
Importante anche la scelta di valutare le imprese sulla base
di un rating di reputazione che terrà conto del
comportamento tenuto nei contratti precedenti. Chi
dimostrerà di saper rispettare tempi e costi, evitando la
prassi del contenzioso per alzare il prezzo in corso d’opera
sarà premiato. Per gli altri potrà scattare invece il
cartellino rosso. Un modo per allinearsi agli standard
anglosassoni dove conta molto come viene eseguito il
contratto e non -come finora accaduto in Italia- se sono
state (spesso solo) formalmente rispettate le
complicatissime procedure dettate dal codice (articolo Il Sole 24 Ore del
15.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Le biciclette non possono ancora andare
contromano. Parere trasporti.
Le biciclette non possono ancora circolare contromano.
Neppure se il comune ha installato un pannello integrativo
derogando specificamente al senso unico di marcia.
Lo ha ribadito il Ministero dei Trasporti con il parere n.
4635/2015.
Localmente la creatività delle singole amministrazioni ha
dato vita a percorsi originali poco coerenti con i principi
della sicurezza stradale. Una delle ipotesi più comuni
riguarda la realizzazione di un tracciato ciclabile sulla
carreggiata stradale, con senso di marcia contrario a quello
consentito ai veicoli a motore.
È evidente che in questa ipotesi si crea un potenziale
conflitto tra conducenti antagonisti e tra segnali stradali.
Da una parte infatti, specifica il ministero, con
l'apposizione del segnale di senso unico si comunica alla
generalità degli utenti che tutta la strada è a disposizione
per i veicoli orientati correttamente.
Dall'altra si confida nella larghezza della corsia di marcia
e nel fatto che i veicoli mantengano il margine destro della
strada. L'unica alternativa praticabile per permettere alle
biciclette di circolare in esclusiva in senso contrario a
quello di marcia secondo il ministero consiste
nell'istituire una direzione obbligatoria per i veicoli a
motore.
In pratica in questo modo l'utente stradale non ha a
disposizione tutta la corsia di marcia ma deve tenere la
destra rigorosa. E le biciclette possono teoricamente
circolare in deroga in senso contrario senza rischiare
incidenti
(articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
ENTI LOCALI: Il
Pd vuole tagliare 5.700 comuni. Municipi sotto i 5.000
abitanti obbligati a fondersi. Alla
camera spunta una proposta di legge choc. Mini enti sul
piede di guerra.
Dagli incentivi alle minacce, dall'associazionismo spontaneo
alle fusioni forzose. Non ci sarà scampo per i piccoli
comuni, perché per poter esistere un municipio dovrà avere
almeno 5.000 abitanti. Chi ne ha meno dovrà fondersi,
altrimenti ci penseranno le regioni a intervenire d'imperio
per accorpare i comuni.
E se non lo faranno, i governatori rischieranno il taglio
dei trasferimenti. Fantascienza? Nient'affatto.
La «soluzione finale» per i mini enti è scritta nero su
bianco in una proposta di legge (Atto
Camera n. 3420) del Partito democratico (primo
firmatario il deputato Emanuele Lodolini) presentata a metà
novembre e già assegnata alla commissione affari
costituzionali della camera. La tempistica dà da pensare e
rivela un atteggiamento quantomeno poco uniforme all'interno
del Pd in materia di enti locali.
Fallito l'associazionismo forzoso delle funzioni (come
testimoniato dall'ennesimo rinvio dell'obbligo, questa volta
al 31.12.2016, disposto dall'ultimo decreto milleproroghe), proprio mentre in parlamento si discuteva di
come superare questo modello coercitivo favorendo invece
processi di aggregazione dal basso, sulla base di ambiti
ottimali anche su base provinciale (come proposto dall'Anci,
ma la soluzione non convince molti piccoli comuni), e mentre
la legge di stabilità 2016 raddoppiava i contributi per le
unioni e le fusioni «spontanee», incentivandole anche con
una deroga su misura al tetto del turnover, tra le fila del
Pd si pensava a una ricetta molto più «spicciola».
Anche perché, ammettono i 20 deputati proponenti,
«nonostante i cospicui incentivi e i contributi previsti da
leggi statali» le fusioni sono state pochissime. Meglio,
dunque, usare la forza.
Via con un tratto di penna 5.652 comuni, il 70% del totale
dei municipi italiani, che, se la proposta di legge
diventasse realtà, avrebbero due anni di tempo per fondersi
con altri enti fino a raggiungere la soglia minima di 5.000
abitanti. Sarebbe questa, secondo i 20 deputati Pd, l'unica
via «per ridurre la frammentarietà dei comuni italiani e
favorire il raggiungimento di dimensioni più adeguate, atte
a consentire un netto miglioramento della qualità e
dell'efficacia dei servizi offerti ai cittadini». Perché
secondo Lodolini & C. la fascia demografica tra 5.000 e
10.000 abitanti sarebbe la «dimensione ottimale» per un
comune, quella che consente il mantenimento di una
dimensione a misura d'uomo coniugandola con servizi
efficienti e ottimizzazione delle risorse.
Non solo. Le fusioni sarebbero «ineludibili», si legge nella
relazione di accompagnamento alla proposta, perché
servirebbero a fronteggiare il rischio di un neocentralismo
regionale. Dopo la riforma delle province, l'eccessiva
frammentazione amministrativa in piccoli comuni finirebbe
per ricondurre in capo alle regioni le funzioni un tempo
prerogativa degli enti intermedi. Quindi per mantenerle
nell'ambito comunale, via alle fusioni di massa. Chi non si
unirà «spontaneamente» entro 24 mesi, sarà accorpato
d'imperio dalle regioni, ma a quel punto perderà il diritto
a godere di tutti i benefici previsti dalla legge per le
fusioni. E se, nei successivi due anni, i governatori non
avranno disciplinato con legge regionale gli accorpamenti
forzosi, per le regioni scatterà il taglio ai trasferimenti
erariali: meno 50% dei contributi non destinati a finanziare
sanità e trasporto pubblico locale. Insomma, ce n'è un po'
per tutti.
Ma i proponenti si difendono: due anni sono un periodo di
tempo congruo per avviare le fusioni «autonomamente, dal
basso e secondo criteri di omogeneità, rispettosi delle
caratteristiche fisiche dei territori e delle tradizioni».
Franca Biglio, presidente dell'Anpci, l'Associazione
nazionale dei piccoli comuni italiani, non ci sta. E, quali
che siano le chance della Pdl di vedere la luce, annuncia
battaglia. «Convocheremo subito il direttivo per decidere il
da farsi. Una cosa è certa: non staremo con le mani in
mano», annuncia a ItaliaOggi.
«Questa proposta di legge è
pura fantascienza», prosegue, «perché la Costituzione parla
chiaro e non si può invocarla solo quando fa comodo. La
Costituzione parla di referendum, di partecipazione popolare
per decidere gli accorpamenti. Pensare di modificare il Tuel,
introducendo la soglia minima di 5.000 abitanti, è un
attacco all'autonomia decisionale, gestionale e
organizzativa, garantita dalla Carta a tutti i comuni.
Tutti, nessuno escluso»
(articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
APPALTI:
Taglio alle stazioni appaltanti. Abolito
l'incentivo per la progettazione interna alla p.a..
Dal senato arriva il via libera definitivo
alla legge delega per la riforma degli appalti.
Riduzione del numero delle stazioni appaltanti e loro
qualificazione in un sistema gestito da Anac; abolizione
dell'incentivo del 2% per la progettazione interna alle
amministrazioni; riallocazione delle funzioni della pubblica
amministrazione verso la programmazione e il controllo.
È quanto prevede per il settore pubblico la legge delega
sugli appalti pubblici e sulle concessioni (Atto
Senato 1678-B) approvata ieri
mattina a palazzo Madama con 170 voti favorevoli, 30
contrari e 40 astenuti.
Il provvedimento, che adesso dovrà essere attuato con uno o
due decreti delegati (si veda ItaliaOggi del 14.01.2016), nel dettare le linee direttrici per il recepimento
delle direttive europee e per la riforma del codice dei
contratti pubblici, delinea, fra le altre cose, un profondo
«restyling» del ruolo e delle funzioni delle pubbliche
amministrazioni.
La legge, anche per questo come per altre materie, assegna
all'Autorità nazionale anticorruzione un ruolo fondamentale
nell'attuazione di questo indirizzo di rinnovamento del
mondo delle stazioni appaltanti partendo dalla
considerazione che queste ultime devono in primo luogo
aggregarsi.
A tale riguardo la legge delega prevede, da un
lato, l'obbligo per i comuni non capoluogo di provincia di
ricorrere a centrali di committenza e ad altre forme di
aggregazione a livello comunale o ricorrendo ad altri
soggetti aggregatori della domanda e, dall'altro, un
indirizzo generale alla riduzione del numero delle stazioni
appaltanti.
Sotto quest'ultimo profilo la legge chiama in causa
l'Autorità anticorruzione che dovrà gestire un apposito
sistema di qualificazione delle amministrazioni che
bandiscono le gare, valutandone «l'effettiva capacità
tecnica e organizzativa sulla base di parametri oggettivi».
In altre parole, la riduzione delle stazioni appaltanti sarà
effettuata sulla base del sistema di qualificazione gestito
da Anac e, proprio in relazione al «grado di qualificazione
conseguito», sarà possibile garantire alle amministrazioni
di gestire «contratti di maggiore complessità».
La legge prevede poi che sia rinsaldato il rapporto fra
stazioni appaltanti e a tale proposito stabilisce che l'Anac
si attivi per promuovere «lo sviluppo delle migliori
pratiche» e la «facilitazione allo scambio di informazioni
fra stazioni appaltanti e di vigilanza».
Dall'altra parte le stazioni appaltanti potranno contare su
alcuni strumenti molto importanti che l'Autorità presieduta
da Raffaele Cantone dovrà porre in essere a supporto delle
stazioni appaltanti. Infatti a fianco delle ormai
tradizionali linee guida e atti di indirizzo, l'Anac sarà
chiamata a emanare «bandi-tipo e contratti-tipo e altri
strumenti di regolazione flessibile», con efficacia
vincolante.
L'obiettivo ultimo è anche quello di assicurare
a tutti gli operatori del settore una omogeneità procedurale
che riduca al massimo la perversa prassi dei bandi «su
misura», anche se questo dipenderà molto da come verranno
impostati i decreti delegati (o il decreto delegato, vedi ItaliaOggi del 13.01.2016), soprattutto in tema di
definizione dei requisiti minimi di accesso alle gare,
aspetto considerato fondamentale anche dal formulario sul
documento di gara unico europeo.
La parte più rilevante della legge, almeno con riguardo al
ruolo delle pubbliche amministrazioni, è quella che
stabilisce la riallocazione delle funzioni delle pubbliche
amministrazioni verso attività di programmazione (supportata
da accurati studi di fattibilità) e controllo (per esempio
con la pubblicazione sul sito web del «resoconto finanziario
al termine dell'esecuzione del contratto» e l'esclusione
dell'applicazione degli incentivi alla progettazione interna
della p.a..
In particolare, si prevede come criterio
direttivo che venga destinata una somma non superiore al 2%
dell'importo posto a base di gara alle attività tecniche
svolte dai dipendenti pubblici relativamente alle fasi della
programmazione degli investimenti, della predisposizione dei
bandi, del controllo delle relative procedure,
dell'esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei
lavori e dei collaudi.
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Ora voce al governo. Decreto entro
aprile.
Ora la palla torna al governo. L'esecutivo ha tempo fino al
18 aprile per recepire le direttive europee e fino al «31
luglio» per varare il nuovo Codice degli appalti e delle
concessioni, in base alla legge delega approvata
definitivamente ieri.
L'intenzione dell'esecutivo sarebbe
però quella di adottare entro il 18 aprile un «unico decreto
legislativo» che contenga il recepimento delle direttive, il
riordino del codice degli appalti e anche le linee guida di
carattere generale proposte dall'Anac in chiave «soft low»
(si veda quanto anticipato su ItaliaOggi del 13 gennaio
scorso). La legge delega prevede più trasparenza e
pubblicità nelle gare, più controlli con un forte ruolo di
vigilanza affidato all'Anac e un freno al ricorso alle
varianti in corso d'opera che sinora hanno consentito di far
lievitare a dismisura il costo dei lavori.
Confermato anche
il «superamento» della legge obiettivo, un termine che, ha
avuto modo di spiegare il ministro delle Infrastrutture,
Graziano Delrio, deriverebbe dalla necessità di «non
travolgere interventi per i quali siano sorti obblighi
giuridicamente vincolanti». Critico il M5S secondo cui la
dizione «giuridicamente vincolanti» rischia di ostacolare
l'effettivo stop della «fallimentare legge» voluta da Silvio
Berlusconi
(articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
APPALTI:
Per tutti i comuni acquisti in autonomia sotto i
40 mila euro.
Facoltà per tutti i comuni di procedere in autonomia sotto
la soglia dei 40.000 euro. Facoltà di derogare alle
convenzioni Consip o delle centrali di committenza regionali
quando il bene, o il servizio, offerto non sia idoneo a
soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione. Facoltà di
bypassare il MePa fino a 1.000 euro.
Sono queste le principali novità in materia di acquisti
degli enti locali previste dalla legge di stabilità 2016
(legge 208/2015). Tutte, pur confermando la generale
tendenza alla centralizzazione, puntano a rendere l'obbligo
meno rigido per le commesse di importo modesto o quando vi
siano esigenze particolari non standardizzabili.
In questa direzione si muove innanzitutto il comma 501, che
estende a tutti i comuni la possibilità di effettuare
acquisti in via autonoma sotto la soglia dei 40.000 euro. In
precedenza, la deroga era consentita ai soli municipi con
popolazione superiore a 10.000 abitanti.
Restano ferme, peraltro, le norme che impongono di fare
ricorso alle convenzioni Consip e a quelle stipulate dalla
centrali di committenza regionali. Per quanto riguarda gli
enti locali, tuttavia, tale obbligo riguarda solo le
fattispecie previste dall'art. 9, comma 3, del dl 66/2014
(che prevede l'individuazione ogni anno di categorie di beni
e servizi e relative soglie di valore al superamento delle
quali è comunque obbligatorio ricorrere a Consip o ad altri
soggetti aggregatori), dall'art. 1, comma 512, della stessa
legge 208 (per i beni e servizi informatici) e dall'art. 1,
comma 7, del dl 95/2012 (per le categorie merceologiche
energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra
rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e
telefonia mobile).
Rispetto a quest'ultima norma, peraltro,
sempre la legge 208 ha previsto, al comma 494, la
possibilità di derogare alle convenzioni se si spuntano
corrispettivi inferiori almeno del 10% per telefonia fissa e
mobile e del 3% per carburanti extra rete, carburanti rete,
energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento.
I contratti stipulati in deroga devono essere inviati all'Anac.
Inoltre, il comma 510 ha previsto un'altra possibilità di
dribblare le convenzioni, allorché il bene, o il servizio,
da esse offerto non sia idoneo al soddisfacimento dello
specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di
caratteristiche essenziali. A tal fine, occorre un'apposita
autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di
vertice amministrativo (non è chiaro se ci si riferisca al
segretario o direttore generale, ovvero, secondo altre
letture, alla giunta) e trasmessa alla Corte dei conti.
Si
può ritenere, tuttavia, che l'autorizzazione non sia
necessaria se l'acquisto riguarda categorie merceologiche
che non sono presenti nelle convenzioni. Negli altri casi,
occorrerà motivare il provvedimento confrontando in modo
tecnicamente rigoroso le caratteristiche essenziali dei beni
o servizi oggetto della convenzione e le caratteristiche
essenziali dei beni, o servizi, necessari per soddisfare il
fabbisogno dell'ente.
Infine, ricordiamo che il comma 450 della legge 296/2006
impone di fare ricorso al MePa, ma a seguito della modifica
introdotta dal comma 502 della legge 208 solo per acquisti
sopra i 1.000 euro. Trattandosi di un acquisto autonomo,
anche in tal caso sembra necessaria l'autorizzazione, salvo
il caso di assenza di convenzioni idonee
(articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Autotutela e silenzio, procedimenti rivisti.
Numerose le modifiche contenute nella delega
p.a..
La legge n. 124/2015 contenente «deleghe al governo in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»
(c.d. legge Madia) persegue l'obiettivo ambizioso di
riorganizzare profondamente le strutture e le funzioni delle
p.a., in tutte le loro articolazioni.
La legge prevede una serie di norme di immediata
applicazione, ma contiene anche numerose deleghe legislative
al governo ad adottare vari decreti legislativi. In questo
disegno riformatore si collocano specifici interventi
diretti a modificare, in alcuni aspetti, la disciplina
generale del procedimento e dell'atto amministrativo,
racchiusa nella legge n. 241/1990.
Anche per la modifica della legge n. 241/1990 gli strumenti
normativi utilizzati risultano diversificati. Importanti
innovazioni contenute nella legge n. 124/2015 sono state
immediatamente operanti e in vigore dal 28.08.2015. Si
tratta dell'art. 3 (che ha introdotto il nuovo art. 17-bis,
riguardante il «silenzio tra pubbliche amministrazioni»)
e dell'art. 6 (relativo, letteralmente, all'autotutela, ma
riguardante nello specifico gli istituti della Scia,
dell'annullamento e della sospensione d'ufficio).
Per materie ritenute di elevata difficoltà la tecnica
utilizzata è quella della delega al governo. Così avviene
all'art. 2, in tema di conferenza dei servizi, all'art. 4
relativo all'introduzione di norme per la semplificazione e
l'accelerazione dei procedimenti amministrativi e all'art. 5
con il quale si delega il governo a procedere a una precisa
individuazione dei procedimenti oggetto di Scia o di
silenzio assenso, ai sensi degli articoli 19 e 20 della
legge n. 241/1990, nonché di quelli per i quali è necessaria
l'autorizzazione espressa.
Alcuni di tali decreti legislativi dovrebbero essere oggetto
di un primo esame nel consiglio dei ministri che si terrà in
data odierna, dove si prevede che approderà un pacchetto
contenente una decina di decreti attuativi della riforma
Madia. Obiettivo dichiarato è quello di semplificare e
rendere più chiari gli adempimenti richiesti ai cittadini e
accelerare le procedure amministrative al fine di sostenere
la crescita economica.
Gli schemi di ciascun decreto legislativo saranno
successivamente trasmessi alle camere per l'espressione dei
pareri delle commissioni parlamentari competenti per materia
e per i profili finanziari e della commissione parlamentare
per la semplificazione, che si pronunciano nel termine di 60
giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il
decreto legislativo può essere comunque adottato (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Contratti decentrati, rispuntano i vincoli. Li
prevede la manovra in attesa dei decreti Madia.
Non si sono ancora sopiti i contrasti tra Ragioneria
generale dello stato e Corte dei conti, su come dovesse
essere interpretata la disposizione che «consolidava» per il
2015 le riduzioni da apportare al fondo per il trattamento
accessorio per il personale dipendente degli enti pubblici,
che già sono stati reintrodotti, con la legge di Stabilità,
nuovi vincoli alla contrattazione decentrata.
È il comma 236 della legge di stabilità 2016 a intervenire
sul punto. In attesa dei decreti attuativi della legge n.
124 del 07.08.2015 (c.d. riforma della p.a. «Madia»), a
decorrere dal 01.01.2016, si prevede che l'ammontare
complessivo delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale, anche di livello
dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001 (e
successive modificazioni e integrazioni) non può superare il
corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è,
comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale
alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del
personale assumibile ai sensi della normativa vigente.
Il limite da non superare, pertanto, sia per il fondo per il
salario accessorio dei dipendenti che per quello inerente la
retribuzione di posizione e di risultato dei dirigenti, è
rappresentato dall'importo costituito, per le stesse
finalità, nell'anno 2015.
Il precitato comma ha reintrodotto anche la riduzione
proporzionale al personale cessato. Riprendono vigore,
quindi, i metodi, entrambi riconosciuti come validi dalla
Corte dei conti, per il calcolo della decurtazione: quello
della riduzione «per rateo» e quello della «media mediata».
Resta di difficile interpretazione l'ultima parte del comma
in esame, laddove mitiga questa riduzione in considerazione
del personale «assumibile».
Non si dovrà tener conto delle cessazioni, se queste saranno
state effettivamente sostituite, oppure si potrà considerare
il personale astrattamente reclutabile? Sicuramente non
mancheranno interventi chiarificatori, ci si auspica,
possibilmente, uniformi (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Mail, no a controlli indiscriminati. Si può
superare la segretezza se è vietato l’uso personale della
posta aziendale.
Privacy e lavoro. Per la Corte dei diritti dell’uomo deve
essere esclusa la legittimità di indagini massive.
La rilevanza
mediatica della sentenza con cui la Corte europea dei
diritti dell’uomo ha ritenuto legittimi i controlli del
datore di lavoro sulle e-mail aziendali è molto superiore
rispetto ai risvolti pratici che la decisione potrà avere
nel nostro ordinamento.
La pronuncia, infatti, non legittima
affatto controlli indiscriminati sulla posta dei dipendenti
ma si limita a ribadire principi già ampiamente vigenti nel
nostro ordinamento e codificati nelle linee guida elaborate
sin dal 2007 del Garante Privacy e nello Statuto dei
lavoratori (modificato di recente nel Jobs Act).
Ma andiamo con ordine, cercando di riepilogare innanzitutto
cosa dice la sentenza. La Corte ha riconosciuto
l’applicabilità nei confronti delle comunicazioni via e-mail
delle tutele previste dalla Convenzione dei diritti
dell’uomo per tutto quanto concerne la riservatezza della
vita privata; è stata ammessa, tuttavia, la possibilità di
superare questa tutela rinforzata, in presenza di alcune
condizioni molto stringenti.
La prima condizione è che l’utilizzo per scopi personali
dello strumento informatico fornito dall’azienda sia
espressamente vietato dal datore di lavoro. Questo elemento
è essenziale in quanto -come ribadito anche dalle linee
guida del Garante privacy italiano- se esiste una
“aspettativa di segretezza” delle comunicazioni veicolate
dal dipendente con la posta aziendale, nessun controllo da
parte del datore di lavoro è lecito.
La seconda condizione individuata dalla sentenza riguarda la
proporzionalità del controllo. È da escludere -secondo i
giudici di Strasburgo, ma anche secondo le norme e le prassi
vigenti in Italia- la legittimità di controlli massivi,
attivati in assenza di un motivo specifico o comunque
eseguiti in maniera troppo estesa rispetto alle finalità che
si perseguono.
Questi concetti sono pienamente compatibili con le regole
che governano nel nostro Paese la questione: tali controlli
sono legittimi (e i relativi risultati possono essere
utilizzati a fini disciplinari) solo a condizione che gli
strumenti informatici non siano coperti da un’aspettativa di
segretezza (il Garante privacy ritiene che si debba
rimuovere tale aspettativa mediante apposite policy
aziendali), e all’ulteriore condizione che le indagini siano
effettuate in maniera lecita e proporzionata.
Il Jobs Act non ha modificato tale impostazione e, anzi, ha
introdotto (nell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori)
una tutela ulteriore per i dipendenti, stabilendo che i dati
acquisiti tramite i controlli a distanza sono utilizzabili
ai fini disciplinari solo se è stata data comunicazione
scritta, mediante l’informativa prevista dall’articolo 13
del Codice privacy, della modalità con cui saranno trattati
i dati personali. Inoltre, la sentenza di Strasburgo esamina
solo il tema della legittimità del controllo, mentre nulla
dice in merito alla congruità della sanzione comminata al
lavoratore (il licenziamento) che ha dato origine alla
controversia.
La sentenza, quindi, non è destinata a rivoluzionare le
regole esistenti; la sua rilevanza mediatica può, tuttavia,
avere l’effetto positivo di sensibilizzare l’attenzione
verso un tema troppo spesso sottovalutato. Le aziende
dovrebbero trarre spunto dalla pronuncia per verificare
l’adeguatezza delle proprie policy rispetto agli standard
richiesti dalla normativa, verificando prima di ogni cosa se
sono state adottate linee guida che affermano in maniera
chiara il divieto di utilizzo degli strumenti aziendali per
scopi personali.
I lavoratori dovrebbero invece prendere
coscienza del fatto che tutti gli strumenti informatici
aziendali possono teoricamente essere controllati dal datore
di lavoro (nei limiti sopra descritti), e che questo rischio
si può evitare mediante piccoli e semplici accorgimenti (ad
esempio, l’apertura di una casella di posta personale per
tutte le comunicazioni extra lavorative) (articolo Il Sole 24 Ore del
14.01.2016). |
APPALTI:
Più trasparenza negli appalti. Gare
digitalizzate, ribassi attenuati, Anac rafforzata.
Oggi il senato dà il via libera definitivo
alla delega che prevede la riforma del Codice.
Più trasparenza negli appalti pubblici e lotta alla
corruzione con il rafforzamento dei poteri dell'Anac;
abrogata la legge obiettivo, insieme all'attuale codice dei
contratti –che andrà riformato– e al suo regolamento
attuativo, sostituito da linee guida approvate con decreto
ministeriale; gli appalti saranno aggiudicati valutando il
migliore rapporto qualità/prezzo e non si potrà utilizzare
il prezzo più basso per i servizi intellettuali; la Pubblica
amministrazione sarà indirizzata sulle funzioni di
programmazione e controllo e si avvierà un profondo processo
di digitalizzazione delle procedure di appalto.
Sono questi alcuni dei punti dei 73 criteri direttivi
contenuti nel disegno di legge delega sugli appalti di
recepimento delle direttive su appalti e concessioni e di
riforma del codice degli appalti pubblici (Atto
Senato 1678-B) che sarà approvato
definitivamente oggi dal Senato, dopo l'emissione del parere
della Commissione bilancio.
La commissione aveva infatti
eccepito alcuni profili di criticità dal punto di vista
della copertura finanziaria, ma alla fine ha reso un parere
non ostativo con alcune raccomandazioni indirizzate, nei
fatti, al legislatore delegato al fine di evitare impatti
sulla finanza pubblica derivanti, ad esempio, dalla riforma
della garanzia globale di esecuzione o dell'applicazioni di
sanzioni per il ritardo nelle comunicazioni delle varianti
all'Anac, l'Authority anticorruzione.
L'articolato è lo stesso di quello varato dalla Camera e
quindi viene a sua volta confermata la duplice strada per
attuare la delega: un decreto unico entro aprile 2016 (di
recepimento e di riforma del codice), o due decreti
delegati, uno per attuare le direttive Ue entro il 18.04.2016 e un altro per riformare il codice dei contratti
pubblici, riordinando tutta la materia, entro il 31.07.2016).
Fra le diverse e numerose novità del testo, che introduce
anche il cosiddetto débat public per la gestione del
consenso per le grandi infrastrutture, va citata la norma
che prevede una riallocazione delle funzioni delle pubbliche
amministrazioni verso attività di programmazione (supportata
da accurati studi di fattibilità) e controllo e l'esclusione
dell'applicazione degli incentivi alla progettazione interna
della p.a..
In particolare viene destinata una somma non
superiore al 2% dell'importo posto a base di gara alle
attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici
relativamente alle fasi della programmazione degli
investimenti, della predisposizione dei bandi, del controllo
delle relative procedure, dell'esecuzione dei contratti
pubblici, della direzione dei lavori e dei collaudi.
Importante è anche la modifica della disciplina dell'appalto
integrato che dovrà essere limitato nella sua applicazione e
non utilizzabile mettendo a base di gara il progetto
preliminare. L'appalto integrato sul progetto definitivo
andrà limitato prevedendo il ricorso a tale tipo di appalto
in relazione al contenuto innovativo o tecnologico delle
opere oggetto dell'appalto o della concessione e in rapporto
al valore complessivo dei lavori.
Per quel che riguarda la
disciplina delle concessioni, il testo prevede l'obbligo di
affidamento a terzi, senza ricorso a società in house, per
una percentuale pari all'80% (con il restante 20% in house)
non solo dei lavori ma anche dei servizi e delle forniture.
È previsto il progressivo uso di metodi e strumenti
elettronici specifici, quali quelli di modellazione
elettronica e informativa per l'edilizia e le infrastrutture
(lett. oo); viene pertanto favorito l'utilizzo delle
tecnologie Bim (Building information modeling).
Per
l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e di
tutti i servizi di natura tecnica, si prevede l'utilizzo del
criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa e l'esclusione del prezzo più basso che, per gli
altri appalti sarà comunque molto limitato. Fondamentale il
rafforzamento delle funzioni dell'Anac che dovrà gestire
anche l'albo delle stazioni appaltanti. L'Autorità
presieduta da Raffaele Cantone in particolare avrà «anche
poteri di controllo, raccomandazione, intervento cautelare e
sanzionatorio, nonché di adozione di atti di indirizzo quali
linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti
di regolamentazione flessibile, anche dotati di efficacia
vincolante».
Non verranno ammesse procedure in deroga al codice dei
contratti pubblici, fatta eccezione per «singole fattispecie
connesse a particolari esigenze collegate a situazioni
emergenziali. Sarà rivista complessivamente la disciplina
delle garanzie e si prevede l'abrogazione delle disposizioni
in materia di sistema di garanzia globale di esecuzione
(performance bond) e per gli appalti in corso la sospensione
dell'applicazione delle medesime disposizioni.
Prevista anche la piena accessibilità, visibilità e
trasparenza, anche in via telematica agli atti progettuali;
ciò allo scopo di consentire un'adeguata ponderazione
dell'offerta da parte dei concorrenti, nonché tutele per i
subappaltatori, con il pagamento diretto da parte della
stazione appaltante. L'istituto del soccorso istruttorio
(per la sanatoria di irregolarità nel corso della gara)
dovrà essere sempre possibile sulle irregolarità formali, ma
senza applicazione di sanzioni
(articolo ItaliaOggi del 14.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Addio bollettino. Si paga da luglio con la
bolletta. CANONE RAI/ Comunicato con
l'Agenzia entrate.
Niente più bollettino Rai da pagare entro il 31 gennaio: il
canone verrà addebitato nella bolletta elettrica della casa
di residenza a partire dal prossimo mese di luglio, a
prescindere dalla persona a cui è intestata.
Lo hanno ricordato ieri l'Agenzia delle entrate e la Rai con
un comunicato congiunto (si veda quanto anticipato su
ItaliaOggi di ieri).
Il canone, si spiega nella nota, per effetto della legge di
Stabilità 2016 (208/2015) è dovuto una sola volta, per ogni
famiglia o per gruppo di persone residenti nella stessa
casa. Per tutte le altre abitazioni non ci sarà inoltre
alcun addebito.
In virtù dell'addebito nella bolletta elettrica, inoltre,
scompare anche il rischio di dimenticare il versamento e di
incappare nelle sanzioni per il ritardato pagamento.
L'importo per il 2016 è stato ridotto a 100 euro, diviso in
rate e comincerà ad essere integrato appunto nella bolletta
elettrica di luglio. Per qualunque dubbio o chiarimento è
sempre possibile consultare il sito
www.canone.rai.it.
Per permettere a tutti di conoscere le nuove regole, su
tutti i canali della Rai viene inoltre trasmesso a partire
da ieri uno spot che illustra le modalità della nuova
normativa. La Rai sta inoltre lavorando per attivare nei
prossimi giorni un Numero Verde gratuito con cui spiegare ai
cittadini tutti i dubbi sul nuovo canone
(articolo ItaliaOggi del 14.01.2016). |
APPALTI:
Riforma appalti al traguardo: oggi l’ok del
Senato. Contratti pubblici. Delrio: stagione nuova.
La riforma degli
appalti diventa realtà.
A oltre un anno dalla presentazione
in Parlamento arriverà probabilmente già stamattina in
Senato il via libera definitivo alla delega che punta a
rivoluzionare i contratti pubblici
(Atto
Senato 1678-B). Un sistema che muove 101
miliardi all'anno (dati Anac 2015) e che nei mesi scorsi è
stato più volte al centro delle attenzioni della
magistratura, con le inchieste sull'Expo, il Mose e Mafia
Capitale, solo per citare i casi più noti. «Gli appalti
valgono il 15% del Pil -ha sottolineato il ministro delle
Infrastrutture Graziano Delrio- questa riforma apre una
nuova stagione per l’economia e la credibilità del Paese».
Ieri l’Aula del Senato ha avviato la discussione sul
provvedimento (che raccoglie consensi anche
all'opposizione), con qualche fibrillazione, anche legata al
caso Quarto, con il Movimento Cinque Stelle che in prima
lettura aveva deciso per l'astensione. Oggi invece sono
previsti il parere (non ostativo) della commissione Bilancio
e le votazioni (ma non si attendono ulteriori modifiche) sul
testo tornato dalla Camera con oltre 40 correzioni rispetto
a quello licenziato dal Senato a luglio 2015.
Un lavoro che
ha arricchito un testo già molto articolato e ha portato a
oltre 70 i criteri cui dovrà attenersi il Governo
nell’attuare la delega. Senza peraltro poter contare su
tempi lunghi. Il termine per recepire le tre direttive Ue
che hanno dato il via all'operazione (23, 24 e 25/2014)
scade il 18 aprile. Un traguardo che come ha ribadito ieri Delrio, il governo ha intenzione di rispettare, varando in
un colpo solo il decreto destinato a recepire le direttive e
a mandare in pensione il vecchio codice del 2006.
Il passaggio alla Camera non ha stravolto il cuore della
riforma, che resta ancorato al ruolo centrale e a tutta una
serie di nuovi poteri affidati all’Autorità Anticorruzione
di Raffaele Cantone. Dal compito di qualificare le stazioni
appaltanti alla tenuta di un albo dei commissari di gara.
Gli atti dell’Autorità (delibere, bandi-tipo) diventeranno
vincolanti. Senza contare che spetterà proprio all’Anac
mettere a punto le linee guida di attuazione del nuovo
codice, che poi saranno approvate con un decreto di Porta
Pia.
«Questi nuovi poteri non sostituiranno i poteri di
regolazione del ministero che restano -ha sottolineato Delrio-. Ma la corruzione è uno dei fattori che ha impedito
di più la corretta esecuzione dei lavori e questo codice,
semplificato, risponde in modo efficace all’esigenza di
combattere il fenomeno».
Addio allora alle deroghe, paletti più severi sulle varianti
e contratti secretati, recupero del ruolo centrale della
progettazione, cancellazione del massimo ribasso, rating di
reputazione per le imprese, superamento della legge
obiettivo. «Questo testo -ha sottolineato Stefano
Esposito, relatore e “padre” del provvedimento- cambierà
radicalmente gli appalti in Italia: è una delle riforme
principali per il Paese» (articolo Il Sole 24 Ore del
13.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Controllabile la mail «aziendale». Il dipendente
aveva usato a fini personali l’account creato per servizio
clienti. Corte diritti dell’uomo. Possibile un’ingerenza di
portata limitata - Il lavoratore era poi stato licenziato.
Il controllo della posta elettronica
aziendale da parte del datore di lavoro è sì un’ingerenza
nel diritto alla vita privata, ma è compatibile con la
Convenzione dei diritti dell’uomo se di portata limitata.
È la Corte europea a
scriverlo nella sentenza 12.02.2016 nel caso Barbulescu
contro Romania. A rivolgersi a Strasburgo un cittadino
rumeno, dipendente di una società privata che, su richiesta
del datore di lavoro, aveva creato un account per rispondere
ai quesiti dei clienti. Era sorta una controversia perché il
datore di lavoro sosteneva che l’indirizzo mail era stato
usato per fini personali. Di qui il licenziamento e poi,
dopo i procedimenti dinanzi ai giudici nazionali, l’approdo
a Strasburgo su ricorso del lavoratore.
Prima di tutto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
riconosciuto che le mail rientrano nel diritto alla
corrispondenza e, quindi, sono tutelate dall’articolo 8
della Convenzione che assicura il diritto al rispetto della
vita privata, nella quale sono incluse telefonate e mail
anche dagli uffici. Inoltre, a meno che non sia avvertito
del contrario, il lavoratore ha una ragionevole aspettativa
alla tutela della propria privacy tanto più che, nel caso di
specie, non è stato chiarito se il datore di lavoro avesse
avvisato il dipendente del controllo sulla posta elettronica
e, quindi, sul trattamento dei dati.
Detto questo, però, la Corte valuta la proporzionalità
dell’ingerenza, distinguendo tra l’account personale e
quello aziendale. Nel caso arrivato a Strasburgo, l’account
era stato attivato su richiesta dell’azienda ed è
indiscutibile che il lavoratore sapesse che era proibito
utilizzare computer e risorse aziendali per fini personali.
Un elemento che fa propendere la Corte europea verso la
legittimità dell’ingerenza nella vita privata del
dipendente, tanto più che il datore di lavoro ha il diritto
di verificare l’adempimento dei compiti professionali
durante l’orario lavorativo.
Non solo: il datore di lavoro era entrato nell’account del
lavoratore credendo che vi fossero comunicazioni con i
clienti. Un elemento decisivo, per la Corte, che dà anche
rilievo al fatto che l’azienda non ha controllato altri dati
o documenti contenuti nel computer del dipendente. Segno
della ragionevolezza e della proporzionalità dell’ingerenza.
Inoltre, il lavoratore ha potuto rivolgersi ai giudici
nazionali per verificare un’eventuale violazione della
privacy e non ha spiegato perché ha utilizzato l’account
aziendale per fini personali.
Per escludere, poi, la violazione della Convenzione, la
Corte considera che durante il procedimento giurisdizionale
nazionale sono stati utilizzati diversi accorgimenti per non
svelare l’identità delle persone con cui il dipendente si
era scambiato mail e il contenuto dei messaggi è stato
diffuso in modo limitato, solo per dimostrare che non si
trattava di attività professionali, senza che lo stesso
contenuto sia stato determinante per il licenziamento. Di
qui la conclusione di un giusto bilanciamento tra i diversi
diritti in gioco (articolo Il Sole 24 Ore del
13.01.2016). |
APPALTI:
Commissari di gara a sorteggio. Procedure
digitalizzate. E limiti al prezzo più basso. APPALTI/ Già
pronta la bozza di decreto attuativo della delega (ormai in
dirittura).
Commissari di gara scelti a sorteggio dopo la scadenza del
termine per le offerte. Sempre con sorteggio si
individueranno i metodi per la determinazione dell'anomalia
delle offerte, al fine di evitare che queste siano calibrate
per guidare la gara. Digitalizzazione delle procedure di
appalto. Obbligatori entro il 2017 i metodi e gli strumenti
di modellazione elettronica e informativa per l'edilizia e
le infrastrutture. Forti limitazioni al prezzo più basso.
Affidabili a terzi le attività di «committenza ausiliaria».
Confermato il rinvio della normativa di dettaglio alle linee
guida del ministero e dell'Anac, soprattutto per i contratti
di rilievo nazionale.
E' quanto prevede la prima bozza del decreto attuativo del
disegno di legge delega appalti messa a punto dalla
Commissione ministeriale presieduta da Antonella Manzione,
capo ufficio legislativo della presidenza del Consiglio che
ha iniziato a lavorare ben prima della approvazione finale
del disegno di legge delega che è approdato ieri in Aula e
rispetto al quale dovrebbe arrivare oggi il parere della
Commissione bilancio.
Se il disegno di legge delega è ormai
consolidato e difficilmente verrà modificato (Atto
Senato 1678-B), ben diverso è
il discorso per la bozza della commissione ministeriale, un
primo elaborato con molte norme «vuote» e qualche testo
alternativo (ad esempio sulle centrali di committenza).
L'articolato disciplina le procedure per gli appalti
pubblici aventi per oggetto l'acquisizione di servizi,
forniture, lavori e opere, per i concorsi pubblici di
progettazione e per le concessioni affidati sia nei settori
ordinari che in quelli speciali (acqua, energia e trasporti)
e al suo interno sono state inserite le disposizioni delle
direttive europee del 2014 (n. 23, 24 e 25) e i riferimenti
alle norme del codice dei contratti pubblici che ad esse si
sovrappongono, oltre a diversi criteri di delega del disegno
di legge.
La disciplina è applicabile ai contratti di
rilevanza comunitaria, mentre per i contratti di rilievo
nazionale viene recepita la norma di delega del disegno di
legge relativa che richiama al rispetto dei principi (del
Trattato e generali) di economicità, efficacia,
tempestività, massima semplificazione e rapidità dei
procedimenti, non discriminazione, parità di trattamento,
proporzionalità, tutela della concorrenza, pubblicità e
trasparenza. Per quanto non previsto nel decreto e per i
contratti sotto soglia la bozza prevede un rinvio alle linee
guida emanate dal Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti e dall'Autorità nazionale anticorruzione che
sostituiranno l'attuale regolamento del Codice dei contratti
pubblici (dpr 207/2010).
La presidenza del Consiglio
manterrà una stretta vigilanza su tutta l'operazione di
recepimento delle regole europee: viene infatti prevista una
«Cabina di regia» con il compito di proporre atti di
indirizzo per l'applicazione della normativa, effettuare una
ricognizione sullo stato di attuazione del decreto e sulle
difficoltà riscontrate dalle stazioni appaltanti nella fase
di applicazione. Nella bozza viene dato forte impulso viene
alla digitalizzazione delle procedure di appalto attraverso
linee guida del Mit e dell'Anac, che dovranno prevedere
anche l'interconnessione delle Pubbliche Amministrazioni per
l'interoperabilità dei dati.
In attuazione dei criteri di
delega si punterà molto anche sulla pubblicità e sul
costante aggiornamento sul sito web della stazione
appaltante degli atti di programmazione e delle procedure di
affidamento. Si prevede che i commissari di gara, da
individuare, come dice la delega, fra soggetti iscritti in
un albo tenuto dall'Autorità nazionale anticorruzione
vengano scelti tramite sorteggio dopo la scadenza del
termine per l'invio delle offerte e il presidente della
commissione sarà scelto fra i commissari sorteggiati. Sempre
con sorteggio si individueranno i metodi per la
determinazione dell'anomalia delle offerte, al fine di
evitare che queste siano calibrate per guidare la gara.
Saranno affidabili a terzi le attività di supporto e di
«committenza ausiliarie» fra cui la consulenza sullo
svolgimento o sulla progettazione delle procedure di appalto
e la preparazione delle procedure di appalto in nome e per
conto della stazione appaltante interessata, oltre alla
gestione delle procedure. Per le iniziative in project
finance si prevede l'inserimento dei due criteri di delega
previsti dal disegno di legge, il recepimento dei contenuti
delle norme europee e dei criteri Eurostat (trasferimento
del rischio operativo) e si aggiunge che l'Anac provvederà a
garantire alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti
aggiudicatori «il supporto tecnico necessario».
Una forte
spinta viene data all'applicazione obbligatoria di metodi e
strumenti telematici di modellazione elettronica e
informativa per l'edilizia e le infrastrutture (Bim,
Building information modeling), obbligatori a partire
da sei mesi dall'entrata in vigore del decreto delegato.
Viene recepita l'indicazione del disegno di legge e delle
direttive europee a favore dell'utilizzo del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa come migliore
rapporto qualità/prezzo (obbligatorio ed esclusivo per i
servizi intellettuali), con contestuale limitazione
dell'aggiudicazione al prezzo più basso
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Canone Tv Nessun bollettino.
Scadenze.
Sul canone Rai bollettini di gennaio in soffitta. Nessuna
corsa a sanare eventuali situazioni di morosità per i
contribuenti che hanno sempre pagato l'abbonamento alla
televisione ma non sono intestatari della bolletta della
luce.
Il canone Rai in bolletta è un capitolo che si aprirà a
luglio e solo allora si darà il via alle procedure d'incasso
del dovuto all'erario. Fino a quel momento, secondo gli
esperti, nessun attacco di panico per i contribuenti iper
diligenti e che non vogliono avere problemi con il fisco.
Sarà necessario aspettare il decreto attuativo che darà
forma e contenuto alle disposizioni della legge di stabilità
(legge 208/2015).
La norma, infatti, stabilisce che il pagamento del canone
avviene in dieci rate mensili addebitate sulle fatture
emesse dall'impresa elettrica. Non prevedendo al momento
alcun metodo alternativo al pagamento.
La disposizione però rinvia al decreto del ministero dello
sviluppo economico e delle altre autorità da emanare entro
marzo 2016 in cui saranno definiti termini e modalità della
disciplina.
Inoltre sul sito della Rai al link
http://www.abbonamenti.rai.it/Ordinari/faq.aspx si trovano
le risposte alle domande frequenti degli utenti.
Al quesito «riceverò il bollettino di pagamento» si risponde
così: «No, il primo addebito nella fattura elettrica avverrà
con la prima bolletta successiva al 01.07.2016».
Chi vuole specificare di non detenere la televisione,
indicando quindi un altro contribuente come detentore
dell'abbonamento, dovrà attendere il modello di
dichiarazione emanato dall'Agenzia delle entrate.
Sarà infatti la banca dati dell'Agenzia a dover fare un
primo censimento tra le famiglie anagrafiche italiane.
Mentre la procedura di rinnovo del canone non riguarda gli
apparecchi a cui si applica il canone Rai speciale cioè gli
esercizi pubblici. Per essi si continuerà con le procedure
standard
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2016). |
GIURISPRUDENZA |
VARI: Truffa al Bancomat? La banca è responsabile. Ininfluente se
il Pin è digitato in presenza di sconosciuti.
Cassazione. L’istituto «paga» i mancati controlli anche se
il cliente non blocca la carta.
La banca deve garantire la sicurezza del servizio bancomat
per le manomissioni di terzi, anche quando il titolare della
carta non la blocca immediatamente e non fa attenzione a
nascondere il Pin quando lo digita.
La Corte di
Cassazione - Sez. I civile, con la
sentenza 19.01.2016 n. 806, ribalta un doppio
verdetto sfavorevole al ricorrente, riconoscendo la
fondatezza dei suoi motivi.
Il correntista della banca aveva tentato di eseguire un
prelievo bancomat ma l’apparecchio, dopo aver trattenuto la
carta, aveva visualizzato la scritta «carta illeggibile»
seguita da «sportello fuori servizio». Un inconveniente che
il cliente aveva segnalato al vicedirettore della filiale,
che lo aveva invitato a passare il giorno dopo; consiglio
seguito, senza però rientrare in possesso della carta, che
non era stata trovata.
Trascorsi un paio di giorni il
correntista si era accorto che dal suo conto erano stati
prelevati circa 7mila euro, un “salasso” del quale aveva
messo al corrente per iscritto il funzionario, aspettando
però ancora 24 ore prima di denunciare il tutto all’autorità
giudiziaria.
Per il Tribunale e per la Corte d’appello, il cliente è il
solo responsabile di quanto accaduto. Lo “sprovveduto”
correntista era stato vittima di una truffa da parte di uno
sconosciuto che aveva prima manomesso il bancomat, poi si
era avvicinato al ricorrente in difficoltà e con la scusa di
aiutarlo aveva memorizzato il codice. Per i giudici di
merito, a fronte di un comportamento così poco accorto -aggravato dal mancato blocco della carta- la banca non
aveva colpe.
Di parere diverso la Cassazione, secondo la quale l’istituto
di credito è venuto meno al suo dovere di diligenza
professionale (articolo 1176, secondo comma, del Codice
civile). Il vice direttore che ha raccolto la denuncia sul
cattivo funzionamento del bancomat, invece di mettersi in
allarme per la sottrazione della carta da parte dello
sportello, ha rimandato il controllo al giorno successivo.
Presenta profili di colpevolezza anche l’omessa verifica,
attraverso il circuito delle telecamere, della manomissione
del dispositivo da parte di terzi. Elementi che la Corte
d’appello non doveva sottovalutare.
La Cassazione ricorda che in una caso come quello esaminato,
a fronte di un’esplicita richiesta della parte, i giudici
dovevano verificare che l’istituto bancario avesse adottato
tutte le misure idonee a garantire la sicurezza. Per la
Suprema Corte, «la diligenza posta a carico del
professionista ha natura tecnica e deve essere valutata
tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di
riferimento e assumendo quindi come parametro la figura
dell’accorto banchiere».
Il Codice civile non precisa la misura della diligenza nelle
obbligazioni relative all’esercizio di un’attività
professionale: la valutazione, di carattere tecnico, va
commisurata alla natura dell’attività e, in particolare,
all’obbligo di custodia di uno strumento che è esposto al
pubblico ed eroga denaro. La Corte d’appello dovrà ora
tenere conto non solo di ciò che l’istituto non ha fatto,
come il mancato esame delle telecamere, ma anche di ciò che
ha fatto sbagliando, come l’ambigua indicazione di tornare
il giorno dopo senza consigliare l’immediato blocco della
carta.
Inoltre, la Corte aveva trascurato del tutto la
questione di prelievo di molto superiore al plafond
contrattuale: 7mila euro a fronte dei 2.500 consentiti
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2016).
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MASSIMA
Ai fini della valutazione della
responsabilità contrattuale della banca per il caso di
utilizzazione illecita da parte di terzi di carta bancomat
trattenuta dallo sportello automatico, non può essere
omessa, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, la
verifica dell’adozione da parte dell’istituto bancario delle
misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da
eventuali manomissioni, nonostante l’intempestività della
denuncia dell’avvenuta sottrazione da parte del cliente e le
contrarie previsioni regolamentari; infatti, la diligenza
posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve
essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera
professionale di riferimento ed assumendo quindi come
parametro la figura dell’accorto banchiere
(tratta da http://renatodisa.com). |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretari enti locali. Concorsi Pa, no estensione
deroghe.
I segretari dei Comuni e delle Province che si sono
trasferiti in altre amministrazioni per processi di mobilità
conclusi entro il 2004 non possono ottenere l’aggancio alla
dirigenza, com’è stato previsto in seguito dall’articolo 1,
comma 49, della Finanziaria per il 2005.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezz. unite civili,
nella
sentenza 19.01.2016 n. 784,
che in questo modo chiude un contenzioso molto ricco sia
davanti ai giudici di merito sia davanti a quelli di
legittimità.
Il principio-guida, sottolinea la Cassazione, è quello
dell’accesso per concorso alla Pa, che non permette
interpretazioni estensive delle eventuali deroghe (articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2016).
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MASSIMA
64. In conclusione, in continuità con i tre precedenti
di legittimità prima richiamati, deve affermarsi, il
seguente principio di diritto: "il comma 49
dell'art. 1 della legge 311 del 2004 non si applica alle
procedure di mobilità dei segretari comunali e provinciali
già concluse alla data di entrata in vigore di tale legge". |
VARI: Il comodato non vale per l’acquirente.
Beni immobili. In caso di compravendita la situazione non è
opponibile in quanto diritto personale di godimento.
In caso di
compravendita di un bene immobile concesso in comodato,
questa situazione non è “opponibile” all’acquirente, nel
senso che questi può pretendere che il comodatario cessi
immediatamente il godimento del bene e attribuisca
all’acquirente la piena disponibilità della cosa concessa in
comodato.
È quanto deciso dalla
Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella
sentenza
18.01.2016 n.
664.
Ai sensi dell’articolo 1803 del codice civile, il comodato è
il contratto in forza del quale una parte (il comodante)
consegna all’altra (il comodatario) una cosa mobile o
immobile allo scopo di consentire a quest’ultima di
servirsene per un tempo o per un uso determinato, con
l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.
In altri
termini, il comodatario è titolare di diritto personale di
godimento, con la conseguenza che si tratta di un diritto
non opponibile all’avente causa del comodante nella
titolarità del bene di cui il comodatario ha il godimento.
Il comodato è un contratto a titolo gratuito, nel senso che
il comodatario non deve al comodante alcun corrispettivo per
il godimento del bene oggetto del comodato. Il comodatario è
comunque tenuto a custodire e a conservare con la diligenza
del buon padre di famiglia il bene che gli è concesso in
comodato: il comodatario può dunque utilizzarlo per l’uso
stabilito nel contratto o per l’uso derivante dalla natura
del bene stesso.
Il comodatario deve far restituzione della cosa concessagli
in comodato entro il termine convenuto nel contratto;
mancando un’indicazione espressa di questo termine, il bene
va riconsegnato una volta che il comodatario se ne sia
servito in conformità al contratto di comodato.
La legge
comunque consente al comodante di domandare la restituzione
della cosa concessa in utilizzo al comodatario anche prima
dalla scadenza pattuita: infatti, qualora sopravvenga un
urgente e imprevisto bisogno del comodante durante il
decorso del termine convenuto o prima che il comodatario
abbia cessato di servirsi della cosa, il comodante può
pretendere la restituzione immediata della cosa concessa in
comodato. Ancora, quando il comodato sia stato stipulato
senza determinazione di durata, la legge impone al
comodatario la restituzione a semplice richiesta del
comodante.
A causa della menzionata sua natura di diritto personale di
godimento, il diritto del comodatario non è dotato delle
tipica caratteristica dei diritti reali, e cioè quella
consistente nell’imprimersi sul bene che è oggetto del
diritto per “seguirlo” in qualunque situazione esso si venga
a trovare: ad esempio, se un dato bene sia gravato da un
diritto di servitù o da un diritto di usufrutto,
l’alienazione di quel bene non pregiudica l’esercizio di
quella servitù o di quell’usufrutto, in quanto si tratta di
diritti che, essendo impressi sul bene, si impongono a
qualsiasi terzo che diventi titolare di quel bene.
Pertanto, se venga alienata una cosa che sia concessa in
comodato, il comodatario non può far valere il proprio
diritto verso il nuovo proprietario: questi può dunque
pretendere che il comodatario cessi il suo utilizzo del bene
e metta il nuovo proprietario nella condizione di poter
pienamente disporre del bene in questione.
Né al comodato è
applicabile l’articolo 1599 del codice civile che permette
l’opponibilità all’acquirente della locazione di data certa
anteriore alla compravendita: secondo la sentenza in
commento, le norme della locazione non si rendono infatti
applicabili al comodato (articolo Il Sole 24 Ore del
19.01.2016).
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MASSIMA
1.1. Il motivo è infondato.
Il contratto di comodato di un bene
stipulato dall'alienante di esso in epoca anteriore al suo
trasferimento non è opponibile all'acquirente del bene
stesso, atteso che le disposizioni dell'art. 1599 c.c. non
sono estensibili, per il loro carattere eccezionale, a
rapporti diversi dalla locazione
(Cass. 15.05.1991, n. 5454).
L'acquirente a titolo particolare della
cosa data in precedenza dal venditore in comodato non può,
quindi, risentire alcun pregiudizio dall'esistenza di tale
comodato e ha, pertanto, il diritto di far cessare, in
qualsiasi momento, a suo libito, il godimento del bene da
parte del comodatario e di ottenere la piena disponibilità
della cosa (Cass.
17.10.1992, n. 11424; Cass. 07.09.1966, n. 2343; Cass.
27.01.1964, n. 195; Cass. 13.09.1963, n. 2502).
Risulta evidente che l'inopponibilità all'acquirente del
contratto di comodato stipulato prima della vendita
dall'alienante e l'illegittimità dell'occupazione da parte
del comodatario si pongono su piani diversi.
Pertanto, alla luce dei principi sopra ricordati,
correttamente e senza incorrere in contraddizioni
motivazionali, la Corte di merito, nel determinare l'inizio
dell'occupazione illegittima del bene da parte del Comune,
ai fini del risarcimento dei danni, ha correttamente fatto
riferimento al momento in cui, con lettera ricevuta
dall'Amministrazione comunale in data 22.12.2004, il Co. ha
manifestato la sua volontà di disporre del bene acquistato,
in quanto sola dalla predetta data l'occupazione del bene in
questione da parte del Comune è diventata illegittima, in
quanto effettuata invito domino.
Va peraltro rimarcato che la Corte di merito, contrariamente
a quanto sostenuto dai ricorrenti, non considera la predetta
lettera inviata all'Amministrazione Comunale come atto di
messa in mora, ma esclusivamente come atto di manifestazione
al comodatario della volontà dell'acquirente di voler
disporre liberamente del bene. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Grava sul lavoratore assente per malattia l’onere
di dimostrare la compatibilità del lavoro nelle more svolto
presso terzi con l’infermità denunciata, e la sua inidoneità
a pregiudicare il recupero delle normali energie
psicofisiche (onere probatorio rimasto nella specie non
assolto), le relative valutazioni sono riservate al giudice
del merito.
---------------
I motivi, e segnatamente il secondo, sono parimenti
inammissibili laddove mirano, ancora, ad un diverso
apprezzamento dei fatti, in particolare circa la
particolarità della patologia sofferta e la sua
compatibilità con lo svolgimento di attività lavorativa non
pesante. Essi sono poi infondati laddove non considerano che
sarebbe stato onere del lavoratore dimostrare la
compatibilità dell'attività lavorativa svolta in favore di
terzi con l'infermità determinante l'assenza dai lavoro con
l'Associazione datrice di lavoro e col recupero delle
energie lavorative
(ex aliis, Cass. n. 4237/2015, Cass. 19.12.2000
n.15916).
Deve infine evidenziarsi l'inconferenza della giurisprudenza
citata (in particolare Cass. n. 6375/2011), inerente lo
svolgimento, da parte del lavoratore assente per malattia,
dei normali atti della vita quotidiana con espressa
esclusione dell'attività lavorativa presso terzi.
Parimenti inconferente risulta il richiamo alla sentenza n.
4237/2015 di questa Corte, contenuto nella memoria ex art.
378 c.p.c., che, oltre a ribadire che grava
sul lavoratore assente per malattia l'onere di dimostrare la
compatibilità del lavoro nelle more svolto presso terzi con
l'infermità denunciata, e la sua inidoneità a pregiudicare
il recupero delle normali energie psicofisiche
(onere probatorio rimasto nella specie non assolto), ha
ribadito che le relative valutazioni sono
riservate al giudice del merito
(Cass. 19.12.2000, n. 15916 cit.; Cass. 13.04.1999, n.
3647), riguardando peraltro il caso di lavoratore
infortunato e non ammalato (laddove solo la malattia
comporta, in via generale, una impossibilità di attendere
all'attività lavorativa), ove era pacifico che l'attività
lavorativa svolta durante la malattia presso terzi non
avesse pregiudicato la sua guarigione (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 15.01.2016 n. 586). |
CONSIGLIERI COMUNALI: L’obbligo
di astensione va verificato, in primo luogo, in relazione
alla natura degli atti a carattere generale oggetto di
deliberazione da parte dell’organo assembleare.
Secondo il chiaro dettato normativo di cui all’ultimo
periodo del comma 2 art. 78 D.Lgs. 267/2000, l'obbligo di
astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta
fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado.
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Nel merito il ricorso non merita accoglimento per le
considerazioni che seguono.
Quanto alla contestata violazione dell’art. 78 D.Lgs.
267/2000, ritiene il Collegio di poter condividere le
argomentazioni ex adversis profuse dalla difesa del
Comune resistente.
Nel caso in esame si ritiene che non sussistevano in specie
ragioni oggettive per un obbligo di astensione dei
consiglieri votanti nominalmente indicati nell’atto
introduttivo.
Ed invero, l’obbligo di astensione va verificato, in primo
luogo, in relazione alla natura degli atti a carattere
generale oggetto di deliberazione da parte dell’organo
assembleare. Secondo il chiaro dettato normativo di cui
all’ultimo periodo del comma 2 art. 78 D.Lgs. 267/2000,
l'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti
normativi o di carattere generale, quali i piani
urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della
deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di
parenti o affini fino al quarto grado.
Nel caso in esame non è revocabile in dubbio la natura del
regolamento impugnato, avente certamente carattere generale
in quanto conforma per tutto il territorio comunale le
modalità di concessione del suolo pubblico e la tipologia
degli arredi urbani collocabili sulle stesse aree.
I ricorrenti, tuttavia, non riescono a comprovare la
sussistenza dell’ulteriore elemento previsto dalla norma
appena richiamata, in presenza del quale scatta anche per
gli atti di tal natura l’obbligo di astensione. In
particolare, non è comprovata la sussistenza di una
correlazione “immediata e diretta” tra il contenuto
della delibera e gli specifici interessi del singolo
consigliere o dei rispettivi parenti o affini entro il
quarto grado.
Ed invero, come evidenziato dalla difesa del Comune
resistente, nel ricorso, lungi dall’aver individuato
quell’interesse specifico ed in correlazione immediata e
diretta con l’approvando regolamento, i ricorrenti
forniscono solo le indicazioni dei rapporti di parentele o
affinità dei consiglieri ritenuti in presunta posizione di
conflitto di interessi.
Si osserva, per altro, che la natura del provvedimento
impugnato incide in modo omogeneo sull’intero territorio
comunale quanto alle modalità concrete di occupazione di
suolo pubblico da parte di esercenti attività commerciali
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 15.01.2016 n. 118 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le associazioni di volontariato possono
partecipare alle gare di appalto.
Alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e della
giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGE 23.12.2009,
causa C-305/08) la nozione comunitaria di imprenditore non
presuppone la coesistenza dello scopo di lucro dell'impresa,
per cui l'assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa
della partecipazione ad appalti pubblici.
Quanto, in particolare, alle associazioni di volontariato,
ad esse non è precluso partecipare agli appalti, ove si
consideri che la legge quadro sul volontariato,
nell'elencare le entrate di tali associazioni, menziona
anche le entrate derivanti da attività commerciali o
produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità
di svolgere attività di impresa.
Esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese
sociali", a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha
riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile
e principale un'attività economica organizzata per la
produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità
sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale,
anche se non lucrativa.
Pertanto appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di
lucro non sia elemento idoneo ad escludere, in via di
principio, che il servizio di trasporto di urgenza e di
infermi svolto dalle associazioni di volontariato sia da
classificare nella categoria delle attività economiche in
concorrenza con gli altri operatori del settore.
La esposta nozione di imprenditore, tra l'altro, risulta
recepita anche dal Codice dei Contratti (DLGS n. 163/2006),
che si riferisce all'imprenditore come "operatore
economico" ammesso a partecipate alle gare per la
realizzazione di opere e l'affidamento di servizi senza
ulteriori specificazioni.
Pertanto, nel caso di specie, l'Associazione avendo i
requisiti per partecipare alla gara aveva interesse a
ricorrere sia avverso la parziale rettifica del bando e
degli atti successivi sia avverso la propria conseguente
esclusione dalla gara (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.01.2016 n. 116 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Abbandono di rifiuti lungo la strada.
L’art. 14 del codice della strada prescinde da qualsivoglia
accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa,
avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di
garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione” (co.
1) ed è incontestata la circostanza che i rifiuti,
trovandosi lungo il percorso stradale, "possano costituire
pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione”.
Sicché, è legittima l'ordinanza sindacale che ha ordinato
all’ANAS s.p.a. la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti
lungo il percorso extraurbano della Strada Statale n. ...7,
previa caratterizzazione degli stessi, secondo la normativa
vigente in materia, ripristinando lo stato dei luoghi e le
matrici ambientali, ove necessario, entro il termine di gg.
30 dalla notifica.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 21 del 29.09.2015
con cui il sindaco del comune di Cassano Irpino ha ordinato
alla ricorrente di procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi dell'area su cui risulta abbandonato
materiale inquinante e precisamente nel sottopaggio in
corrispondenza del km 329+350 della strada SS. 7 in località
Acquaviva;
...
Premesso che:
- con ordinanza n. 21 del 29.09.2015, prot. n. 3749, il
Sindaco del Comune di Cassano Irpino ha ordinato all’ANAS
s.p.a. la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti lungo il
percorso extraurbano della Strada Statale n. 7, al Km
329+350, previa caratterizzazione degli stessi, secondo la
normativa vigente in materia, ripristinando lo stato dei
luoghi e le matrici ambientali, ove necessario, entro il
termine di gg. 30 dalla notifica;
- con ricorso notificato il 19.11.2015 e depositato il
successivo 27 novembre, l’ANAS chiedeva l’annullamento di
tale ordine, per i seguenti motivi:
- violazione e falsa applicazione dell'art. 192, co. 3,
d.lgs. n. 152/2006, ed in particolare della direttiva
2004/35 CEE con particolare riferimento al principio “chi
inquina paga”, inesistenza del presupposto e difetto di
motivazione, non essendo di per sé sufficiente il dato non
controverso della proprietà dell’area interessata
dall’abbandono di materiale di rifiuto anche particolarmente
dannoso;
Considerato che il provvedimento qui gravato può trovare
adeguato fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada
–come giustamente eccepito dalla difesa della parte
resistente– ed a cui può attingere comunque l’ordinanza
contingibile ed urgente disposta dal Sindaco del Comune di
Cassano Irpino per la semplice ed essenziale evenienza
legata al fatto che i rifiuti in contestazione, di cui si
ordina la rimozione all’ANAS, risultano collocati lungo il
percorso extraurbano della Strada Statale n. (dato in
concreto affatto smentito dal ricorrente);
Considerato altresì che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada,
intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle
strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti
proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano
provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché
delle attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di
efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una
diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri,
perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al
Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su
strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo,
poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione
della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il
trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori
ecologici per le altre attività proprie della raccolta
rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque
interferenti, con il normale flusso della circolazione
stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o
gestore della strada che […] può razionalmente ed
efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia
della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi
possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele
idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli
operatori addetti alle pulizie” (Cons. di Stato, IV,
sent. n. 2677/2011, che conferma TAR Lazio, sent. n.
7027/2009, TAR Napoli, sent. n. 7428/2006 e TAR Basilicata
n. 441/2010);
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene
l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di
settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se
non da altra norma speciale che espressamente la privi della
sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi
individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene
previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a
ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi
dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre,
prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio
del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed
espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità
della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la
circostanza che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso
stradale, "possano costituire pericolo alla sicurezza e
fluidità della circolazione” (TAR Salerno, II, sent. n.
330/2013, n. 1373/2015 e TAR Puglia Sede d Bari, Sez. III,
n. 65 del 2015);
Ritenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni, che il
ricorso è infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.01.2016 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nel reato di abuso di ufficio, l’uso
dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo
implica che sussiste il reato solo quando l’agente si
rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio
patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed
immediata della sua condotta e come obiettivo primario
perseguito, e non invece quando egli intende perseguire
l’interesse pubblico come obiettivo primario.
In tema di abuso d’ufficio, per la configurabilità
dell’elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale,
ossia la rappresentazione e la volizione dell’evento come
conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e
obiettivo primario da costui perseguito.
---------------
3. Sotto un primo profilo, deve essere rilevato come,
secondo il consolidato insegnamento di questa Corte,
ai fini del perfezionamento del reato di abuso
d'ufficio non assume alcun rilievo, stante la sua natura di
reato di evento, l'adozione di atti amministrativi
illegittimi da parte del pubblico ufficiale agente, ma
unicamente il concreto verificarsi (reale o potenziale) di
un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo
procura con i suoi atti a sé stesso o ad altri, ovvero di un
ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi
(Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
Ne discende che il delitto di abuso
d'ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia,
sia della condotta che deve essere connotata da violazione
di norme di legge o di regolamento, che dell'evento di
vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al
diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una
duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far
discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità
del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità
della condotta
(fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza
impugnata che, in relazione alla condotta di un assessore
comunale, consistita nell'assegnazione di un immobile di
proprietà dell'ente per lo svolgimento di attività di
ristorazione con delibera di giunta adottata senza il previo
espletamento di procedure ad evidenza pubblica, aveva
ritenuto integrato il reato omettendo di verificare se il
soggetto assegnatario avesse o meno titolo a conseguire la
disponibilità dell'immobile per condurre l'attività di
ristorazione) (Sez. 6, n. 10133 del 17/02/2015 - dep.
10/03/2015, Scassellati e altro, Rv. 262800; Sez. 6, n. 1733
del 14/12/2012 - dep. 14/01/2013, Amato, Rv. 254208).
Secondo il principio della c.d. doppia
ingiustizia, è, quindi, necessario che ingiusta sia la
condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed
ingiusto sia l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto
non spettante in base al diritto oggettivo regolante la
materia, di tal che occorre operare una duplice distinta
valutazione in proposito, non potendosi far discendere
l'ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità
del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza
dell'illegittimità della condotta
(Sez. 6, n. 35381 del 27/06/2006 Rv. 234832 Moro).
La violazione di legge cui fa riferimento
l'art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del
pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano
l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano
dirette alla realizzazione di un interesse collidente con
quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un
vero e proprio sviamento della funzione
(Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia ed altri, Rv.
254124) rispetto alla quale si configura
l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la
rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza
diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo
primario da costui perseguito
(Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5,
n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706).
Tirando le fila dei principi di diritto sopra rammentati,
la prova della integrazione del reato ex art. 323 c.p. non
può esaurirsi nella verifica della violazione di legge,
dunque dell'ingiustizia del mezzo adottato, stabilendo una
erronea equivalenza fra lo strumento utilizzato ed il
risultato-evento che l'incriminazione richiede per la sua
consumazione, ma richiede altresì l'accertamento dell'evento
di vantaggio ingiusto.
4. A tale insegnamento non si è conformato il Collegio
torinese, là dove -contravvenendo ai principi appena
ricordati- si è limitato ad argomentare in merito alla
violazione del disposto dell'art. 122, comma 7, D.Lgs n.
163/2006 (Codice dei contratti pubblici) [che facoltizza le
stazioni appaltanti (nella specie il comune) ad utilizzare
la procedura negoziata, con selezione dell'appaltatore
operata mediante gara informale anziché con bando di gara,
per l'assegnazione di lavori di importo complessivo
inferiore a un milione di euro senza previo invito a
presentare le offerte rivolto a dieci o cinque operatori
economici (a secondo del valore dei lavori)] ed ha, di
contro, omesso di verificare se la società assegnataria
della convenzione avesse titolo per la gestione della
bocciofila, id est sia configurabile un vantaggio
ingiusto.
Verifica tanto necessaria nel caso di specie nel quale -come
dichiarato dallo stesso imputato all'A.G. e dato atto dalla
Corte distrettuale- già in passato l'amministrazione
comunale aveva seguito un'analoga procedura in
considerazione del fatto che, in paese, "vi è una
associazione sola che si occupa del gioco delle bocce".
5. La decisione in verifica si appalesa lacunosa anche sotto
il diverso profilo del dolo.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
nel reato di abuso di ufficio, l'uso dell'avverbio "intenzionalmente"
per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo
quando l'agente si rappresenta e vuole l'evento di danno
altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come
conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e
come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli
intende perseguire l'interesse pubblico come obiettivo
primario
(fattispecie relativa ad un sindaco che aveva rilasciato
un'autorizzazione edilizia in violazione della normativa
urbanistica sul risanamento del centro storico, allo scopo
esclusivo di favorire il recupero di abitanti nella zona del
borgo antico che si stava progressivamente spopolando con
rischio di un definitivo abbandono) (Sez. 6, n. 708 del
08/10/2003 - dep. 15/01/2004, Mannello, Rv. 227280).
In tema di abuso d'ufficio, per la
configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto il dolo
intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione
dell'evento come conseguenza diretta e immediata della
condotta dell'agente e obiettivo primario da costui
perseguito (Sez.
5, n. 3039 del 03/12/2010 - dep. 27/01/2011, Marotta Rv.
249706).
Di tali principi di legittimità non ha fatto buon governo la
Corte di merito, nella parte in cui, nel confermare il
giudizio di colpevolezza in merito al reato di cui al capo
1), ha omesso di esplicitare le ragioni sulla scorta delle
quali sia possibile ritenere integrata una prova certa
secondo il canone dell'"al di là di ogni ragionevole
dubbio" codificato all'art. 533 cod. proc. pen., che la
volontà dell'imputato fosse orientata proprio a procurare un
ingiusto vantaggio patrimoniale alla società "Jo.Cl.", e non
piuttosto a perseguire in via esclusiva gli interessi della
cittadinanza del piccolo comune di Buronzo a che il
bocciodromo potesse continuare a rimanere aperto al pubblico
(massima tratta da
http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1332). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato di omessa denuncia dei lavori e
presentazione dei progetti (...in zone sismiche) ha natura
di reato permanente, la cui consumazione si protrae sino a
quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con
l’allegato progetto, ovvero non termina l’intervento
edilizio.
La lesione dell’interesse pubblico tutelato ha carattere
continuativo poiché, malgrado la scadenza del termine di
legge, permangono pur sempre gli obblighi di informazione
dell’autorità comunale, di presentazione dei progetti e di
ottenimento dell’autorizzazione regionale, essendo anche
oltre quel termine operante il precetto di agire e rilevante
penalmente la protrazione dell’omissione e, inoltre, il
protrarsi della lesione al bene giuridico protetto è
imputabile ad una persistente condotta volontaria del
soggetto, il quale continua a “produrre l’effetto” del reato
sottraendosi al controllo dell’autorità competente.
Vi è un’intima correlazione tra la procedura di rilascio dei
permesso di costruire e quella finalizzata al conseguimento
dell’autorizzazione per l’edificazione in zona sismica: al
preavviso è attribuita una funzione di controllo della
progettazione e di primo atto di quel procedimento che,
attraverso le successive fasi della presentazione dei
progetti e del loro esame tecnico da parte degli uffici
competenti, confluisce nel finale giudizio di eseguibilità
dell’opera, atteso che senza l’acquisizione
dell’autorizzazione regionale il permesso di costruire non
potrebbe essere rilasciato, per la ragione che risulterebbe
contraddittorio il riconoscimento della natura permanente
(fino all’ultimazione dei lavori) del reato di costruzione
in carenza del titolo abilitativo edilizio ed il
disconoscimento, invece, della medesima natura al reato di
costruzione in assenza di quella autorizzazione che si pone
quale presupposto indefettibile del permesso di costruire.
---------------
3.2. - Quanto al secondo motivo di doglianza, relativo alla
prescrizione, deve preliminarmente essere affrontata la
questione della natura istantanea o permanente degli
illeciti di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 94.
Sul punto, com'è noto, vi è stato un contrasto
giurisprudenziale nell'ambito della terza sezione della
Corte di cassazione.
3.2.1. - Il più recente filone giurisprudenziale (da ultimo
sostenuto da sez. 3, 11.02.2014, n. 12235, rv. 258738; sez.
3. 04.06.2013, n. 29737, rv. 255823) ritiene che il reato di
omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti ha
natura di reato permanente, la cui consumazione si protrae
sino a quando il responsabile non presenta la relativa
denuncia con l'allegato progetto, ovvero non termina
l'intervento edilizio.
Si riprendono, in particolare, le osservazioni contenute
nella precedente sentenza sez. 3, 17.02.2011, n. 17217,
secondo cui «la lesione dell'interesse pubblico tutelato
ha carattere continuativo poiché, malgrado la scadenza del
termine di legge, permangono pur sempre gli obblighi di
informazione dell'autorità comunale, di presentazione dei
progetti e di ottenimento dell'autorizzazione regionale,
essendo anche oltre quel termine operante il precetto di
agire e rilevante penalmente la protrazione dell'omissione»
e, inoltre, «il protrarsi della lesione al bene giuridico
protetto è imputabile ad una persistente condotta volontaria
del soggetto, il quale continua a "produrre l'effetto" del
reato sottraendosi al controllo dell'autorità competente».
Secondo tale orientamento, vi è un'intima correlazione tra
la procedura di rilascio del permesso di costruire e quella
finalizzata al conseguimento dell'autorizzazione per
l'edificazione in zona sismica: al preavviso è attribuita
una funzione di controllo della progettazione e di primo
atto di quel procedimento che, attraverso le successive fasi
della presentazione dei progetti e del loro esame tecnico da
parte degli uffici competenti, confluisce nel finale
giudizio di eseguibilità dell'opera, atteso che senza
l'acquisizione dell'autorizzazione regionale il permesso di
costruire non potrebbe essere rilasciato, per la ragione che
risulterebbe contraddittorio «il riconoscimento della
natura permanente (fino all'ultimazione dei lavori) del
reato di costruzione in carenza del titolo abilitativo
edilizio ed il disconoscimento, invece, della medesima
natura al reato di costruzione in assenza di quella
autorizzazione che si pone quale presupposto indefettibile
del permesso di costruire» (nello stesso senso, sez. 3,
25.06.2008, n. 35912, rv. 241093, e sez. 3, 05.12.2007, n.
3069/2008, rv. 238629; con riferimento alla normativa
previgente, sez. 3, 19.03.1999, n. 7873, rv. 214501).
Se ne conclude che i reati previsti dai richiamati
artt. 93 e 94 e sanzionati dal successivo art. 95 del d.P.R.
n. 380 del 2000, hanno natura di reati permanenti, in quanto
il primo (art. 93) permane sino a quando chi intraprende
l'intervento edilizio in zona sismica non presenta la
relativa denuncia con l'allegato progetto ovvero non termina
l'intervento e, il secondo (art. 94), permane sino a quando
chi intraprende l'intervento edilizio in zona sismica lo
termina ovvero ottiene la relativa autorizzazione.
3.2.2. - Secondo un diverso, più risalente, orientamento
(sostenuto, da ultimo, da sez. 3, 30.05.2012, n. 37060; sez.
3, 26.05.2011, n. 23656, Rv. 250487; sez. 3, 08.10.2008, n.
41854, Rv. 241383), il termine di prescrizione delle
contravvenzioni di omessa denuncia di inizio lavori in zona
sismica, e di esecuzione dei medesimi in assenza di
autorizzazione, decorre dalla data di inizio dei lavori,
attesa la loro natura istantanea. Si fa, in particolare
applicazione del principio affermato dalle sezioni unite,
con la decisione 14.07.1999, n. 18, rv 213933, sotto la
vigenza della abrogata legge n. 64 del 1974, secondo cui: «I
reati previsti dalla legge n. 64 del 1974, artt. 17, 18 e 20
(provvedimenti per le costruzioni con particolari
prescrizioni per le zone sismiche) e consistenti
nell'omissione della presentazione della denuncia dei
lavori, e dell'avviso di inizio dei lavori, hanno natura di
reati istantanei».
Tale orientamento è stato negli anni richiamato e condiviso
da: sez. 3, 08.10.2008, n. 41858, rv. 241424; sez. 3,
08.10.2008, n. 41854, rv. 241383; sez. 3, 13.11.2003, n.
3351/2004, rv. 227396.
3.2.3. - Questo Collegio ritiene di dover aderire al primo
degli orientamenti sopra richiamati, seguito nelle più
recenti decisioni. Infatti, come da ultimo evidenziato nella
sentenza n. 12235 del 2014, la persistenza
dell'offesa al bene giuridico tutelato deve essere mantenuta
concettualmente distinta dall'apertura formale di un
procedimento amministrativo e comunque dalla possibilità di
un controllo postumo, attivate dall'adempimento tardivo del
contravventore; con la conseguenza che la persistenza della
condotta antigiuridica e la connessa protrazione della
lesione all'interesse pubblico di vigilare sulla regolarità
tecnica di ogni costruzione in zona sismica, sussistono
anche se (anzi proprio perché) l'amministrazione competente
non ha aperto un procedimento formale o non ha attivato
alcun controllo.
3.2.4. - Ne discende, quanto al caso in esame, che il reato
deve ritenersi prescritto, sia se si ritiene -come fa il
ricorrente- che le opere siano state concluse nel giugno del
2008, sia se si ritiene -come fa invece il Tribunale- che le
stesse si siano concluse nel giugno del 2009. L'ultimazione
delle opere è infatti precedente rispetto alla trasmissione
degli atti alla Regione e al rilascio della relativa
autorizzazione (26.07.2011).
Il termine prescrizionale per le contravvenzioni, che è di
cinque anni, a partire dall'entrata in vigore delle
modifiche all'art. 157 c.p. e art. 161 c.p., comma 2,
operate dalla legge n. 251 del 2005, applicabili ratione
temporis ai fatti per cui si procede, è in ogni caso
decorso alla data della pronuncia della presente sentenza (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1145). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il contratto può essere rescisso in ogni momento.
La Cassazione sugli accordi tra cliente e
professionista.
Il cliente può recedere in qualunque momento dal contratto
con il professionista anche se è previsto un termine minimo.
Ciò a meno che una valutazione del contratto non faccia
ritenere che le parti hanno inteso vincolarsi senza deroghe
alla durata.
Lo ha sancito la Suprema Corte di Cassazione -Sez. II
civile- che, con la
sentenza
14.01.2016 n. 469, ha respinto il
ricorso di un medico che chiedeva al cliente il risarcimento
del danno per aver rotto il contratto prima dei due anni
pattuiti.
Nulla da fare, dunque, per il sanitario, ingaggiato per
un'attività di anamnesi e cura, che aveva fatto causa a un
cliente al fine di ottenere il ristoro da recesso
anticipato.
La seconda sezione civile ha infatti spiegato, in fondo alle
interessanti motivazioni, che «in tema di contratto d'opera
professionale, la previsione di un termine di durata del
rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso ad nutum previsto in favore del cliente dal primo comma
dell'art. 2237 cod. civ., dovendo verificarsi in concreto in
base al contenuto del regolamento negoziale se le parti
abbiano inteso o meno vincolarsi in modo da escludere la
possibilità di scioglimento del contratto prima della
scadenza pattuita».
Infatti, scrivono ancora i Supremi giudici, in tema di
contratto di prestazione d'opera intellettuale, la
previsione della possibilità di recesso ad nutum del cliente
contemplata dall'articolo 2237 cod. civ., non ha carattere
inderogabile e quindi è possibile che, per particolari
esigenze delle parti, sia esclusa tale facoltà fino al
termine del rapporto; l'apposizione di un termine a un
rapporto di collaborazione professionale continuativa può
essere sufficiente a integrare la deroga pattizia alla
facoltà di recesso così come disciplinata dalla legge, nel
senso che a tal fine non è necessario un patto specifico ed
espresso.
Tuttavia, il giudice può stabilire la validità della deroga
solo sulla base dell'interpretazione globale del contratto.
Di diverso avviso il Procuratore generale della Suprema
corte di cassazione che aveva chiesto al Collegio di
legittimità di accogliere il ricorso del professionista e di
accordare lui il diritto al risarcimento del danno, oltre
200 mila euro
(articolo ItaliaOggi del 15.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: La
norma in questione [art. 38, comma 1, lett. f), dlgs
163/2006] "è costantemente interpretata dalla
giurisprudenza, in combinato disposto con il comma secondo
del medesimo art. 38, nel senso di imporre ai soggetti che
concorrono per l’affidamento di contratti pubblici l’onere,
a pena di esclusione, di dichiarare l’esistenza a proprio
carico di pregresse risoluzioni contrattuali, ovvero, più in
generale, di tutti i precedenti professionali dai quali
desumere, secondo l’apprezzamento discrezionale
dell’amministrazione procedente, l’(in)affidabilità del
concorrente.
Questi, in ossequio ai principi di lealtà, diligenza e buona
fede che presiedono ai reciproci rapporti delle parti nella
disciplina degli appalti pubblici, non può peraltro operare,
in sede di domanda di partecipazione, alcun “filtro” sulle
circostanze potenzialmente rilevanti ai fini delle
valutazioni che incidono sulla sua moralità professionale ed
affidabilità, trattandosi di valutazioni di esclusiva
pertinenza della stazione appaltante: il giudizio di
rilevanza di quelle circostanze non può, cioè, essere
rimesso alla stessa parte interessata, che ne deve comunque
fare dichiarazione in gara; e l’omessa dichiarazione di tali
vicende comporta la sanzione dell’esclusione, stante
l'impossibilità per l’amministrazione di effettuare le
proprie valutazioni circa la possibilità o meno di ammettere
alla gara l’impresa.
---------------
L'omessa dichiarazione della precedente risoluzione
contrattuale (nel caso di specie) determina la falsità della
dichiarazione resa in proposito dalla società ricorrente e
ne legittima, di per sé sola, l'esclusione.
In tal caso non c'è spazio per il "soccorso istruttorio"
invocato nel ricorso perché "tale istituto può essere
invocato in caso di dichiarazione incompleta, irregolare o
addirittura mancante, non già nell’ipotesi –totalmente
diversa– di una dichiarazione esistente, ma scientemente
difforme dalla realtà".
---------------
5) La causa va decisa seguendo il percorso argomentativo
tracciato da questa Sezione nella sentenza 05.12.2014 n.
1990, pronunciata in relazione ad una vicenda analoga.
Come in quel caso, anche nella presente controversia si
discute di un provvedimento di esclusione da una procedura
concorsuale indetta da ANAS, disposto sulla base di un
duplice ordine di motivi: la sussistenza di una causa
ostativa ex art. 38, comma 1, lett. f), del codice dei
contratti pubblici, connessa ad una precedente risoluzione
contrattuale disposta da altra stazione appaltante e la
falsa dichiarazione resa in proposito dal concorrente.
Come in quel caso, il Collegio ritiene decisivo per
respingere il ricorso esaminare la questione relativa al
secondo motivo di esclusione, di per sé sufficiente a
legittimare l’adozione del provvedimento impugnato.
Il disciplinare di gara indicava al paragrafo I) i documenti
che dovevano "essere inseriti, a pena di esclusione" nella
"Busta A - Documentazione Amministrativa"; tra questi
figurava una dichiarazione sostitutiva riguardante, tra
l'altro:
"j. di non aver commesso grave negligenza o malafede
nell'esecuzione delle prestazioni affidate della stazione
appaltante che bandisce la gara, né errore grave
nell'esercizio della propria attività professionale,
accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della
stazione appaltante. A tale specifico riguardo il
concorrente elenca dettagliatamente tutti gli episodi per i
quali le stazioni appaltanti (e quindi non solo ANAS spa)
hanno rilevato ipotesi riconducibili alle fattispecie di cui
all'art. 38, comma 1, lettera f), del DLgs 163/2006; tale
elencazione deve essere operata, al fine di non incorrere
nell'ipotesi di dichiarazione mendace, indipendentemente
dalle controversia al riguardo insorte, dal loro esito e dal
tempo in cui gli inadempimenti, le negligenze, gli errori
e/o ritardi sono state formalmente contestate al
concorrente".
Tale dichiarazione è stata resa in termini negativi da Ed.Mo. s.r.l., che dunque non ha fatto cenno alla risoluzione
contrattuale disposta il 05/12/2013 da Autostrade per
l'Italia s.p.a. per "un grave ritardo nell'esecuzione dei
lavori dovuto esclusivamente a grave inadempimento
dell'Appaltatore".
Detta risoluzione contrattuale è
evidentemente riconducibile alla previsione di cui all’art.
38, comma 1, lett. f), posto che il "grave ritardo" e il
"grave inadempimento" addebitati da A.S.P.I. all'odierna
ricorrente integrano la "grave negligenza" a cui fa
riferimento la disposizione citata (impregiudicato l'esito
della causa pendente davanti al Tribunale di Roma); e dunque
doveva essere dichiarata in sede di gara, a pena di
esclusione, stante l’inequivoca previsione del disciplinare.
Come chiarito nella sentenza di questo TAR, sez. I, 30.03.2015 n. 545 la norma in questione "è costantemente
interpretata dalla giurisprudenza, in combinato disposto con
il comma secondo del medesimo art. 38, nel senso di imporre
ai soggetti che concorrono per l’affidamento di contratti
pubblici l’onere, a pena di esclusione, di dichiarare
l’esistenza a proprio carico di pregresse risoluzioni
contrattuali, ovvero, più in generale, di tutti i precedenti
professionali dai quali desumere, secondo l’apprezzamento
discrezionale dell’amministrazione procedente,
l’(in)affidabilità del concorrente. Questi, in ossequio ai
principi di lealtà, diligenza e buona fede che presiedono ai
reciproci rapporti delle parti nella disciplina degli
appalti pubblici, non può peraltro operare, in sede di
domanda di partecipazione, alcun “filtro” sulle circostanze
potenzialmente rilevanti ai fini delle valutazioni che
incidono sulla sua moralità professionale ed affidabilità,
trattandosi di valutazioni di esclusiva pertinenza della
stazione appaltante: il giudizio di rilevanza di quelle
circostanze non può, cioè, essere rimesso alla stessa parte
interessata, che ne deve comunque fare dichiarazione in gara
(per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. III, 05.05.2014, n.
2289; id., sez. V, 14.05.2013, n. 2610, e 15.03.2010,
n. 1500); e l’omessa dichiarazione di tali vicende comporta
la sanzione dell’esclusione, stante l'impossibilità per
l’amministrazione di effettuare le proprie valutazioni circa
la possibilità o meno di ammettere alla gara l’impresa (così
Cons. Stato, sez. V, 21.06.2012, n. 3666)".
L'omessa dichiarazione della precedente risoluzione
contrattuale determina dunque la falsità della dichiarazione
resa in proposito dalla società ricorrente e ne legittima,
di per sé sola, l'esclusione. In tal caso non c'è spazio per
il "soccorso istruttorio" invocato nel ricorso perché "tale
istituto può essere invocato in caso di dichiarazione
incompleta, irregolare o addirittura mancante, non già
nell’ipotesi –totalmente diversa– di una dichiarazione
esistente, ma scientemente difforme dalla realtà" (così
questa Sezione si è espressa nella sentenza 31.07.2015
n. 1133; cfr., nel medesimo senso, la già citata sentenza
05.12.2014 n. 1990).
6) Tanto basta per respingere il ricorso
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 13.01.2016 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni, prevale la graduatoria più vecchia.
Cassazione. Regole Pa.
Nonostante il quasi
blocco totale alle assunzioni nelle pubbliche
amministrazioni, tengono banco alcune questioni collegate
all’utilizzo delle graduatorie esistenti.
Con il turn-over
al 25% e la situazione di stand-by per regioni ed enti
locali impegnati nel riassorbimento dei dipendenti in
soprannumero degli enti di area vasta, lo scorrimento delle
graduatorie non è certamente al primo posto nei pensieri
degli operatori.
Eppure, qualche spazio assunzionale rimane,
soprattutto se collegato all’utilizzo delle facoltà residue
degli anni precedenti. E proprio perché avviare nuove
procedure concorsuali comporta lunghi tempi di conclusione,
l’attenzione viene riposta sull’utilizzo delle graduatorie a
tempo indeterminato che, per ora, rimangono valide, per la
quasi totalità delle amministrazioni, fino al 31.12.2016.
La
sentenza
12.01.2016 n. 280 della Suprema Corte di Cassazione,
Sez. lavoro, si è occupata di un’interessante questione:
in caso di presenza di più graduatorie valide per il
medesimo profilo, qual è quella da cui è necessario partire
ai fini dello scorrimento?
I giudici ritengono che la regola
generale, in linea con i principi di correttezza e buona
fede, imparzialità e buon andamento di cui all’articolo 97
della Costituzione, sia quella di procedere utilizzando la
graduatoria di data anteriore (la più “vecchia”), in quanto
destinata a scadere per prima. Il criterio “cronologico”,
quindi, è la naturale modalità di scelta, che potrà essere
derogato solo in presenza di «circostanze di fatto o ragioni
di interesse pubblico prevalenti» (articolo Il Sole 24 Ore del
13.01.2016).
---------------
MASSIMA
6.- In primo luogo, va sottolineata l'erroneità della
qualificazione, attribuita dalla Corte romana, del carattere
di "norma di legge", all'art. 3, comma 2, del d.P.R.
30.03.2001, visto che come si desume dall'assenza del numero
di raccolta e dal contenuto dell'atto non si tratta
certamente di un atto dotato "forza di legge", ma di
un provvedimento di carattere organizzativo generale volto a
disciplinare la "Programmazione semestrale delle
assunzioni nelle pubbliche amministrazioni" (come si
legge nel titolo).
Deve anche essere ricordato che il testo del citato art. 3,
comma 2, è il seguente: "2. Nell'attesa dell'espletamento
dei concorsi per l'accesso alla qualifica di dirigente
previsti dall'art. 28, comma 2, del citato decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, le amministrazioni che hanno
formalmente comunicato alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri i posti messi a disposizione per le relative
procedure concorsuali, possono essere autorizzate alla
copertura dei posti stessi, fino ad un terzo, mediante
l'utilizzo delle graduatorie ancora vigenti di concorsi
banditi direttamente dalle medesime."
Sicché è evidente che in esso non viene dettata alcuna
disciplina per l'ipotesi, che viene qui in considerazione,
della contemporanea esistenza presso la medesima
Amministrazione di una molteplicità di graduatorie valide,
ipotesi che, peraltro, rappresenta una anomalia (vedi, in
tal senso: Cons. Stato, sez. V, 30.08.2004, n. 5636), in
quanto può comportare uno spreco di risorse umane ed
economiche da parte dell'Amministrazione.
7.- A ciò consegue che gli unici testi nei quali, all'epoca,
erano previsti "indirizzi applicativi" per l'indicata
ipotesi erano la Circolare della Funzione Pubblica
31.01.1992, n. 8498 (pubblicata sulla GU Serie Generale n.
49 del 28.02.1992 — Suppl. Ordinario n. 44) e la Circolare
della Presidenza del Consiglio dei Ministri 05.03.1993, n. 7
(pubblicata sulla GU n. 57 del 10.03.1993).
In particolare, in entrambe dette Circolari, si stabilisce
—nei rispettivi articoli 2— che le
assunzioni di personale, ivi autorizzate, "avvengono
attingendo a graduatorie di vincitori e di idonei di
concorsi già espletati valide secondo le disposizioni
vigenti nei singoli comparti" e che "in presenza di
più graduatorie, le assunzioni avvengono utilizzando quelle
di data anteriore".
8.- Del resto, deve essere considerato che l'applicazione
dell'indicato criterio risponde alla stessa logica per cui,
nel corso del tempo, a partire dall'art. 8 del testo unico
degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10.01.1957, n. 3,
come modificato dall'articolo unico, della legge 08.07.1975,
n. 305) —in base al quale: "Nel caso che
alcuni dei posti messi a concorso restino scoperti per
rinuncia, decadenza o dimissioni dei vincitori,
l'Amministrazione ha facoltà di procedere, nel termine di
due anni dalla data di approvazione della graduatoria, ad
altrettante nomine secondo l'ordine della graduatoria stessa"—
fino all'art. 35, comma 5-ter, del d.lgs. n. 165 del 2001,
nel testo attualmente vigente —secondo cui: "Le
graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale
presso le Amministrazioni pubbliche rimangono vigenti per un
termine di tre anni dalla data di pubblicazione. Sono fatti
salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi
regionali"— è
stato ampliato progressivamente il perimetro oggettivo di
applicazione dell'istituto dello scorrimento, delineandosene
il rapporto con le altre modalità di copertura dei posti
vacanti, con l'intento di ridurre l'ambito della
discrezionalità dell'Amministrazione nella scelta fra le
diverse modalità di reclutamento, pur nel persistente
riferimento al carattere "meramente eventuale" della
copertura, che impedisce di configurare la procedura di
scorrimento quale oggetto di un obbligo incondizionato
dell'Amministrazione, direttamente collegato alla
sopravvenuta vacanza del posto.
In tale percorso si collocano, come tappe
intermedie:
a) l'articolo 15, comma 7, del d.P.R. 09.05.1994, n. 487,
secondo cui le "graduatorie dei vincitori rimangono
efficaci per un termine di diciotto mesi dalla data della
sopracitata pubblicazione per eventuali coperture di posti
per i quali il concorso è stato bandito e che
successivamente ed entro tale data dovessero rendersi
disponibili";
b) l'art. 91, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL),
che ha previsto che "per gli enti locali le graduatorie
concorsuali rimangono efficaci per un termine di tre anni
dalla data di pubblicazione, per l'eventuale copertura dei
posti che si venissero a rendere successivamente vacanti e
disponibili, fatta eccezione per i posti istituiti o
trasformati successivamente all'indizione del concorso
medesimo".
Peraltro, in tutte le menzionate norme generali
l'allungamento del termine di validità delle graduatorie è
stato principalmente finalizzato al contenimento della
spesa, oltre che ad una migliore organizzazione della PA,
anche nell'ottica di rispettare i vincoli di bilancio,
sempre più stringenti, posti dall'Unione Europea, per il cui
perseguimento, con la legge costituzionale 1 del 2012, è
stato introdotto il principio del pareggio di bilancio come
vincolo costituzionale, modificando gli artt. 81, 97, 117 e
119 della Carta. Si è così arrivati al noto
d.l. 31.08.2013, n. 101 (convertito con modificazioni dalla
legge 30.10.2013, n. 125), emanato per razionalizzare le
procedure assunzionali delle Pubbliche Amministrazioni, dopo
la presa d'atto della imminente scadenza di centinaia di
graduatorie, di cui ha prorogato la validità sino a tutto il
2016.
9.- È del tutto evidente che, in simile situazione,
la stessa compresenza di più graduatorie valide per
il medesimo profilo e per la stessa Amministrazione
rappresenta una situazione patologica ed è quindi certo che
essa vada gestita in linea con i principi generali cui è
stato ispirato l'anzidetto percorso normativo e, quindi, con
la finalità di fare uso della procedura a scorrimento in
modo da evitare —o comunque ridurre— l'evenienza della
scadenza delle graduatorie.
Ne deriva che il criterio —di buona
amministrazione e, al contempo, di tutela del legittimo
affidamento degli idonei inseriti nelle graduatorie— che
maggiormente corrisponde ai suddetti obiettivi è quello
della utilizzazione prioritaria delle graduatorie di data
anteriore, come indicato nelle suddette Circolari, salva
restando la discrezionalità della decisione della PA in
ordine alla copertura delle vacanze.
Di tutto questo ha tenuto conto —fin da epoca risalente e
quindi utile per la presente fattispecie—
la giurisprudenza amministrativa,
che, con indirizzo consolidato, ha
affermato la legittimità del principio indicato nelle
suddette Circolari dell'utilizzazione prioritaria, fra più
graduatorie, della graduatoria più antica, precisando che la
scelta di seguire un criterio diverso deve essere effettuata
in presenza di circostanze particolari che devono essere
comunque esplicitate
(fra le tante: Cons. Stato, sez. V, 22.08.2003 n. 4742;
Cons. Stato, sez. V, 20.01.2004, n. 147; Cons. Stato, sez.
V, 30.08.2004, n. 5636; Cons. Stato, sez. V, 24.08.2007, n.
4484; Cons. Stato, sez. V, 28.09.2007, n. 4974; Cons. Stato,
sez. III, 26.03.2013 n. 1692; Cons. Stato, sez. V, n. 5779
del 2002, nonché TAR Sicilia Catania, sez. I, sentenza n.
1966 del 2002; TAR Sicilia Catania, sez. III, sentenza n.
633 del 2002; TAR, Puglia Lecce, sez. II, 23.02.2010, n.
590; TAR Lazio, sez. I-bis, 13.03.2014, n. 2801; TAR Lazio,
sez. III, il 19.10.2015, n. 11888).
10.- Di tale giurisprudenza, però, nella sentenza impugnata
non si fa cenno così come neppure si considera l'importante
sentenza 28.07.2011, n. 14, emessa dall'Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato, nell'esercizio del potere
nomofilattico attribuitole dall'articolo 99, comma 5, del
codice del processo amministrativo, consistente nella
possibilità di esprimere il principio di diritto
nell'interesse della legge anche in caso di dichiarazione
dell'irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità del
ricorso, dell' estinzione del giudizio.
In particolare, in tale sentenza il
Consiglio di Stato:
a) ha esaminato la questione del rapporto tra le due diverse
modalità di reclutamento del personale pubblico,
rappresentate dalla utilizzazione dei candidati idonei,
collocati in graduatorie concorsuali ancora efficaci,
attraverso il meccanismo dello "scorrimento" e dalla
la indiziane di un nuovo concorso;
b) di conseguenza, è stato chiamato a determinare se, in
presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci, la
decisione con cui l'Amministrazione avvia una nuova
procedura selettiva debba essere sorretta da una puntuale e
approfondita motivazione, volta a illustrare le ragioni
della scelta e a giustificare il sacrificio delle posizioni
giuridiche dei soggetti idonei.
Con lunga e articolata motivazione, l'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, ha risolto tali problematiche affermando
il seguente principio di diritto: "in
presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci,
l'Amministrazione, se stabilisce di provvedere alla
copertura dei posti vacanti, deve motivare la determinazione
riguardante le modalità di reclutamento del personale, anche
qualora scelga l'indizione di un nuovo concorso, in luogo
dello scorrimento delle graduatorie vigenti".
11.- A tale conclusione il Consiglio di Stato è pervenuto
anche attraverso il superamento della tesi fino ad allora
dominante nella giurisprudenza amministrativa (tra le
ultime: Cons. Stato, sez. V, 19.11.2009, n. 743; Cons.
Stato, sez. V, 19.11.2009, n. 8369; Cons. Stato, sez. IV,
27.07.2010, n. 4911) secondo cui la determinazione
amministrativa di indiziane di nuove procedure concorsuali,
anche in presenza di graduatorie efficaci, essendo
ampiamente discrezionale, non necessita di alcuna specifica
motivazione, poiché è di per sé conforme alla regola
tracciata dall'art. 97 della Costituzione.
Simmetricamente è stata considerata non condivisibile l'idea
opposta, in forza della quale la disciplina in materia di "scorrimento"
assegnerebbe agli idonei un diritto soggettivo pieno
all'assunzione, mediante lo scorrimento, che sorgerebbe per
il solo fatto della vacanza e disponibilità di posti in
organico.
Al riguardo si è sottolineato che nelle suddette circostanze
l'Amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla
copertura delle vacanze, ma deve comunque assumere una
decisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti
normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio,
alle scelte programmatiche compiute dagli organi di
indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto
rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabilire
se procedere, o meno, al reclutamento del personale.
In altri termini, resta ferma la
discrezionalità dell'Amministrazione in ordine alla
decisione relativa alla copertura del posto vacante, ma
l'Amministrazione, una volta stabilito di procedere alla
provvista del posto, deve sempre motivare sulle modalità
prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni caso,
della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei ancora
valide ed efficaci al momento dell'indizione del nuovo
concorso.
E nel motivare l'opzione preferita,
l'Amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la
circostanza che l'ordinamento attuale afferma un "generale
favore per l'utilizzazione delle graduatorie degli idonei",
che recede solo in presenza di speciali discipline di
settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni
di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque,
essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione
del nuovo concorso.
In particolare, anche la decisione di "scorrimento",
poiché rappresenta un possibile e fisiologico sviluppo delle
stessa procedura concorsuale, attuativo dei principi
costituzionali, non può essere collocata su un piano diverso
e contrapposto rispetto alla determinazione di indizione di
un nuovo concorso. Infatti, entrambi tali atti si pongono in
rapporto di diretta derivazione dai principi dell'art. 97
Cost. e, quindi, devono essere sottoposti alla medesima
disciplina, anche in relazione all'ampiezza dell'obbligo di
motivazione.
12.- Del resto, in termini generali, l'ampia portata
dell'obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi
—ormai saldamente acquisita nel nostro ordinamento, già in
epoca antecedente all'entrata in vigore della legge n. 241
del 1990— è particolarmente rilevante nei casi in cui
l'Amministrazione ha dinanzi a sé una pluralità di opzioni,
le quali possono determinare costi economici ed
amministrativi diversificati e quando deve comunque
considerare le posizioni giuridiche di determinati soggetti,
titolari di aspettative protette dall'ordinamento. Sicché il
Consiglio di Stato considera non condivisibile l'argomento
—sostenuto dall'Avvocatura Generale dello Stato, nel
presente giudizio— secondo cui le decisioni organizzative
dell'Amministrazione, comprese quelle con cui si indice un
nuovo concorso, afferendo al "merito", non
richiederebbero alcuna particolare motivazione, trattandosi
di una tesi che trascura di considerare non solo il valore
di principio dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, ma
anche la circostanza secondo cui le opzioni compiute dal
soggetto pubblico in questo ambito hanno importanti ricadute
in termini di efficacia ed efficienza e incidono, comunque,
sulle aspettative e sugli interessi dei soggetti idonei.
L'Adunanza Plenaria precisa che, parimenti,
per negare la sussistenza dell'obbligo di
motivazione, non è pertinente il richiamo alla natura di
atto generale del bando, poiché l'obbligo di motivazione non
riguarda il contenuto delle disposizioni generali racchiuse
in tale atto, bensì la determinazione con cui
l'Amministrazione stabilisce la procedura per il
reclutamento del personale.
13.- Da ultimo, il Consiglio di Stato precisa che
l'affermazione di un dovere più stringente delle
Amministrazioni di procedere prioritariamente allo
scorrimento delle graduatorie, per la copertura dei posti
vacanti, non incide sulla soluzione del problema concernente
la qualificazione della posizione giuridica del concorrente
idoneo, il quale contesti l'avvio di una nuova procedura
concorsuale, né comporta riflessi sulla giurisdizione del
giudice amministrativo.
In proposito viene richiamato il principio da tempo
consolidato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite di
questa Corte di cassazione secondo cui la contestazione
della procedura di indizione di un concorso, fondata
sull'affermazione di un "diritto allo scorrimento",
si basa sulla deduzione non già di una carenza di potere
dell'Amministrazione, ma di un vizio di violazione di legge,
la cui cognizione spetta, in ogni caso, al giudice
amministrativo.
Si ricorda, in particolare, l'articolata ordinanza
09.02.2009, n. 3055, delle Sezioni Unite, secondo cui la
contrapposizione tra la tesi, che assegna
all'Amministrazione un ampio potere di valutazione
discrezionale e l'opinione secondo la quale la disciplina
positiva obbliga l'Amministrazione a realizzare la
semplificazione e l'economia connesse all'utilizzo delle
graduatorie approvate in precedenza, escludendo senz'altro
l'espletamento di nuove procedure, costituisce "un
problema strettamente di merito, la cui soluzione, pertanto,
non interessa la giurisdizione, atteso che, anche aderendo
alla seconda delle tesi esposte, il provvedimento di
apertura della procedura concorsuale risulterebbe affetto
dal vizio di violazione di legge, non certo emanato in
carenza di potere (ovvero nullo perché viziato da "difetto
assoluto di attribuzione", ai sensi della legge n. 241 del
1990)."
14.- Da quanto fin qui si è detto si desume che, nella
specie —a prescindere dalla definizione della natura delle
richiamate Circolari, che peraltro non appaiono di tipo
meramente interpretativo, quali quelle prese in
considerazione da Cass. SU 09.10.2007, n. 23031— ciò che
conta è che il decreto dirigenziale (d.d.g.) del 18.02.2001,
con il quale è stato disposto di utilizzare a scorrimento
contemporaneamente le graduatorie di tutti e tre i
suindicati concorsi anziché di utilizzare per lo scorrimento
soltanto la graduatoria di data anteriore (nella quale erano
inseriti gli attuali ricorrenti), è da considerare viziato
perché privo della motivazione necessaria a spiegare le
ragioni per cui l'Amministrazione ha ritenuto di non
privilegiare il criterio cronologico nell'uso delle
graduatorie a scorrimento.
Tale criterio, infatti, oltre ad essere indicato dalle
Circolari suddette che all'epoca erano l'unica fonte
esistente per disciplinare l'ipotesi —patologica— della
contemporaneità di più graduatorie valide nella stessa
Amministrazione, per il medesimo profilo professionale,
provenivano da autorità gerarchicamente sovraordinate
rispetto a quella che ha emesso il citato d.d.g. e dettavano
criteri generali volti a fare sì che tutti i casi singoli
fossero trattati allo stesso modo tra loro, in linea con
quanto stabilito dal legislatore nel processo di progressivo
ampliamento del perimetro oggettivo di applicazione
dell'istituto dello scorrimento, a partire dall'art. 15,
comma 7, del d.P.R. 09.05.1994, n. 487.
Si tratta di una applicazione del generale obbligo di
motivazione dei provvedimenti amministrativi —saldamente
acquisita nel nostro ordinamento, già in epoca antecedente
all'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, come si è
detto— anche ai provvedimenti in tema di reclutamento del
personale (con il sistema dello scorrimento delle
graduatorie ovvero con quella della indizione di un nuovo
concorso), di cui la Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato con la sentenza 28.07.2011, n. 14 e la successiva
giurisprudenza amministrativa ad essa conforme hanno
definito le ragioni, ma che, anche prima, era richiesto
specialmente nell'ipotesi —che ricorre nella specie— di
mancata utilizzazione del criterio cronologico, non solo
espressamente previsto dalle Circolari suindicate ma anche
maggiormente coerente con l'allungamento dei termini di
validità delle graduatorie medesime e quindi maggiormente
rispondente ai principi di cui all'art. 97 Cost., ma non per
questo "cogente", potendo l'Amministrazione
discostarsene, purché con adeguata giustificazione.
15.- Non va, del resto, dimenticato che la Corte
costituzionale, nella sentenza n. 310 del 2010, ha ribadito
con forza che attraverso la motivazione —che è lo "strumento
volto ad esternare le ragioni e il procedimento logico
seguiti dall'autorità amministrativa"— si realizza
l'esigenza di conoscibilità dell'azione amministrativa, che
è intrinseca ai principi di buon andamento e d'imparzialità.
Infatti, soltanto la motivazione può rendere accessibile e
controllabile dagli stessi protagonisti —oltre che ed
eventualmente dagli organi giurisdizionali— le modalità
attraverso le quali gli organi amministrativi si sono
attenuti all'obbligo di favorire un contraddittorio
democratico e partecipativo con i soggetti coinvolti nei
processi decisionali pubblici, che è essenziale per
prevenire eventuali problemi derivanti dalla inevitabile
penetrazione dell'attività amministrativa di tipo
autoritativo negli spazi individuali dei singoli
destinatari.
E il Giudice delle leggi —in più occasioni e, in
particolare, nella citata sentenza n. 310 del 2010— ha anche
affermato che, ai principi di pubblicità e di trasparenza
dell'azione amministrativa, che caratterizzano il "giusto
procedimento" introdotto dalla legge n. 241 del 1990, "va
riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad
attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon
andamento dell'amministrazione (art. 97, primo comma,
Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente
protetti, come il diritto di difesa nei confronti della
stesse amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.; sul principio
di pubblicità, sentenza n. 104 del 2006, punto 3.2 del
Considerato in diritto)". Ed ha aggiunto che grazie alla
motivazione —specialmente in caso di provvedimenti
amministrativi a carattere discrezionale tanto più se dotati
di indubbia lesività per le situazioni giuridiche dei
soggetti che ne sono destinatari— si realizza la trasparenza
della PA e si rende comprensibile ai cittadini, ma anche al
giudice, il procedimento logico seguito dall'autorità
amministrativa onde consentire la verifica della legittimità
dell'atto emanato.
16. Detto questo, deve essere anche precisato che, in base
ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte
(vedi, per tutte: Cass. SU 11.07.1994, n. 6532; Cass.
14.01.2002, n. 332; Cass. 26.06.2006, n. 14728; Cass.
03.06.2015, n. 11487), al fine della disapplicazione, in via
incidentale, dell'atto amministrativo, il giudice ordinario
può sindacare tutti i possibili vizi di legittimità del
provvedimento, quindi non solo l'incompetenza e la
violazione di legge, ma anche l'eccesso di potere, di cui,
per lo, giustizia amministrativa, l'inosservanza immotivata
di Circolari del tipo di quelle che vengono qui in
considerazione, costituisce una figura tipica.
Tuttavia è altrettanto pacifico che il giudice ordinario non
abbia il potere di sostituire l'Amministrazione negli
accertamenti e valutazioni discrezionali di merito che sono
di sua esclusiva competenza.
Nella specie —come risulta confermato anche dalla citata
sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato— il
decreto dirigenziale di cui si tratta è un atto
discrezionale della PA, che, per quel che qui rileva, si
innesta in una fattispecie di tipo contrattuale, nel cui
ambito si inseriscono le domande avanzate dai ricorrenti —in
qualità di candidati utilmente collocati nella graduatoria
finale del concorso a n. 17 posti di dirigente
amministrativo indetto dal MIUR) pubblicata l'08.08.2000—
riguardanti la pretesa al riconoscimento del diritto allo "scorrimento
prioritario" della graduatoria del concorso da loro
espletato, che appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario perché con essa si fa valere, al di fuori
dell'ambito della procedura concorsuale, il "diritto
all'assunzione", senza che la contestazione investa
l'esercizio del potere dell'Amministrazione di merito, cui
corrisponde una situazione di interesse legittimo, la cui
tutela spetta al giudice amministrativo ai sensi del d.lgs.
n. 165 del 2001, art. 63, comma 4.
Ne consegue che, alla rilevata illegittimità del d.d.g. del
18.02.2001 in argomento, non può conseguire la relativa
disapplicazione.
17.- Tuttavia, quello che per il diritto amministrativo è il
vizio —nella specie di eccesso di potere, come si è detto—
derivante dalla mancata motivazione dell'atto e, in
particolare dalla mancata giustificazione dell'omesso
rispetto del criterio cronologico previsto dalle anzidette
Circolari, nel rapporto privatistico nel quale si innesta il
provvedimento amministrativo de quo tale vizio rileva
come comportamento della PA non corretto, in quanto
limitativo di posizioni di diritto soggettivo (il diritto
allo "scorrimento prioritario" in argomento) dei
destinatari dell'atto (e, in particolare, degli attuali
ricorrenti) senza alcuna esternazione delle ragioni e del
procedimento logico seguiti dall'autorità amministrativa al
riguardo.
Questo —come si desume anche dalla richiamata sentenza
costituzionale n. 310 del 2010, oltre che dalla
giurisprudenza amministrativa— si traduce nella violazione
dell'art. 97, primo comma, Cost. nonché del diritto di
difesa dei destinatari dell'atto.
E comporta anche una violazione dell'art. 3 Cost., in quanto
per effetto del suddetto atto si è venuta a creare una
situazione particolare di assunzioni di personale governata
da un criterio diverso da quello generale indicato dalle
circolati de quibus, senza alcuna giustificazione.
Tutto questo, di conseguenza, si traduce
nel mancato rispetto da parte della PA dei criteri generali
di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.),
applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di
buon andamento di cui all'art. 97 Cost., essendo stato leso,
senza alcuna motivazione, il diritto dei ricorrenti allo "scorrimento
prioritario" della graduatoria del concorso da loro
espletato, sul quale potevano fare legittimo affidamento in
qualità di idonei inseriti nella graduatoria più risalente
tra quelle ancora valide al momento dell'emanazione del
d.d.g. 18.02.2001 per posti di dirigente amministrativo del
MIUR.
Ne deriva che la situazione prodottasi, ai fini del presente
giudizio, è configurabile come inadempimento contrattuale,
suscettibile di produrre un danno risarcibile
(arg. ex: Cass. SU 23.09.2013, n. 21671). |
APPALTI:
Prima dell'aggiudicazione definitiva non
essendovi alcuna posizione consolidata dell'impresa
concorrente l'Amministrazione ben può provvedere
all'annullamento o alla revoca dell'aggiudicazione
provvisoria in favore di un concorrente.
L'aggiudicazione provvisoria quale atto che determina una
scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario
della gara non costituisce provvedimento conclusivo del
procedimento, facendo nascere in capo all'interessato solo
una mera aspettativa alla definizione positiva del
procedimento stesso.
Pertanto detta aggiudicazione, al contrario di quella
definitiva, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene
della vita, ed alla Stazione appaltante è quindi
riconosciuta la possibilità di procedere alla sua revoca o
al suo annullamento ovvero, ancora, di non procedere affatto
all'aggiudicazione definitiva.
Ne consegue che l'adozione di un provvedimento di autotutela
con riguardo all'aggiudicazione provvisoria, proprio in
quanto atto endoprocedimentale, non richiede l'inoltro agli
interessati di specifica comunicazione di avvio del
procedimento e quindi non postula la loro partecipazione al
relativo procedimento, essendo sufficiente la comunicazione
del provvedimento finale.
In altri termini, prima dell'aggiudicazione definitiva -non
essendovi alcuna posizione consolidata dell'impresa
concorrente- l'Amministrazione ben può provvedere anche in
via implicita all'annullamento o alla revoca
dell'aggiudicazione disposta in via provvisoria in favore di
un concorrente, senza che sussista l'obbligo di attivare una
specifica partecipazione procedimentale con quest'ultimo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.01.2016 n. 67 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono, il comune deve approfondire.
Il Cds sul rifiuto per un'installazione tardiva.
Non basta accertare che un termoconvettore è stato
installato tardivamente per rigettare la richiesta di
condono edilizio. Per rifiutare il beneficio occorrono
infatti indicazioni più precise sull'effettiva abitabilità
del manufatto prima del 31.12.1993.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 11.01.2016 n. 54.
Un utente ha trasformato abusivamente una cantina in un
monolocale presentando domanda di condono edilizio e
dichiarando che tutti i lavori sono stati effettuati prima
del 31.12.1993. Il comune ha rigettato la richiesta
evidenziando carenze documentali e indicazioni verbali
generiche di alcuni vicini di casa. Ma anche accertando che
successivamente a quella data l'interessato avrebbe
installato nell'abitazione un termoconvettore.
I giudici di palazzo Spada hanno censurato questa decisione.
Dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio,
specifica il collegio, risulta evidente che l'immobile in
questione aveva una propria autonomia strutturale già alla
data del 31.12.1993. Non è sufficiente il successivo
sopralluogo dei vigili che nel 1995 hanno riscontrato il
montaggio in corso di un termoconvettore per inficiare
questa dichiarazione, prosegue la sentenza.
La questione avrebbe dovuto essere meglio approfondita
eventualmente acquisendo agli atti specifiche dichiarazioni
di testimoni in grado di chiarire definitivamente se il
locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993
(articolo ItaliaOggi del
19.01.2016).
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MASSIMA
5. Nel merito, l’appello è fondato.
Dall’esame del provvedimento impugnato e dalla
documentazione fotografica prodotta in giudizio, risulta che
l’immobile in questione –alla data del 31.12.1993- aveva una
propria autonomia strutturale.
I lavori eseguiti nel corso del 1995 hanno riguardato la
separazione dell’impianto idraulico e di quello di
riscaldamento, rispetto a quelli già esistenti nell’unità
immobiliare principale rimasta in proprietà dell’attuale
appellante e non venduta, a differenza dell’immobile in
questione.
Il diniego di condono ha attribuito rilevanza decisiva agli
esposti dei condomini (il primo dell’11.08.1995), i quali
hanno lamentato il fatto che erano allora in corso i lavori
di allacciamento dell’acqua e del gas, mentre la relazione
di data 28.10.1995 della polizia municipale di Torrile si dà
atto dello svolgimento di lavori idraulici relativi al
montaggio di un termoconvettore.
Ritiene al riguardo la Sezione che l’istruttoria posta a
base del diniego non risulta adeguata,
come dedotto dall’appellante.
Gli accertamenti specifici posti in essere dal Comune hanno
riguardato infatti unicamente il montaggio –dopo la data del
31.12.1993- del termoconvettore, i cui lavori di per sé sono
compatibili con una precedente destinazione dell’immobile ad
abitazione.
Gli esposti dei vicini, oggettivamente rilevanti e da
valutare del corso del procedimento, non sono stati oggetto
di un esame in relazione alla preesistente situazione di
fatto.
In presenza della dichiarazione posta a base della istanza
di condono e di risultanze di per sé inevitabilmente
equivoche (perché si trattava di ricostruire quale fosse la
situazione alla data del 31.12.1993), il Comune non avrebbe
dovuto interpretare acriticamente il contenuto degli esposti
nel senso più sfavorevole al richiedente, ma avrebbe dovuto
chiedere ai sottoscrittori dell’esposto se alla data del
31.12.1993 il locale in questione fosse destinato a cantina
o ad abitazione.
Il vizio di cui è affetto l’atto impugnato in primo grado è
di inadeguata istruttoria, sicché –in sede di esecuzione
della presente sentenza– il Comune dovrà rinnovare il
procedimento:
a) con l’acquisizione in loco, ove sia possibile, delle
dichiarazioni di coloro che erano a conoscenza delle
circostanze (non solo di coloro che hanno sottoscritto
l’esposto, ma se del caso anche di altri proprietari o
residenti nell’edificio), allo scopo di chiarire se il
locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993;
b) verificando comunque se il medesimo locale –oltre che ‘abitato’-
era ‘abitabile’, e cioè se a quella data vi era
quanto meno un servizio igienico e quant’altro vada
considerato indispensabile perché vi fosse tale abitabilità.
In considerazione del fatto che è comunque onere del
richiedente dimostrare la sussistenza dei requisiti previsti
dalla legge per il condono (anche perché è del tutto logico
che egli e non l’Amministrazione sia in possesso di elementi
oggettivi circa l’ultimazione delle opere), in sede di
rinnovazione del procedimento l’Amministrazione dovrà
consentire all’interessato la produzione di ulteriori
elementi (quali fatture, bollette, ricevute, ecc.) volti a
ricostruire i fatti effettivamente accaduti e, in sede di
conclusione del procedimento, dovrà complessivamente
valutare l’esito dell’istruttoria.
6. Per le suesposte considerazioni, l’appello va accolto e,
in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo
grado va accolto, con il conseguente annullamento dell’atto
impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune. |
EDILIZIA PRIVATA:
Ok all'addestramento cani sui terreni a uso
agricolo.
Se lo strumento urbanistico consente interventi connessi
all'attività agricola, attività agrituristiche,
realizzazione di servizi e attrezzature pubbliche o di uso o
interesse pubblico, non c'è motivo alcuno per negare il
diritto a esercitare, in zona agricola, l'attività di
addestramento cani finalizzato alla cosiddetta pet-terapy
anche a chi non è imprenditore agricolo.
Ciò in quanto, ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 05.01.2016 n. 6, la legge
349 del 93, che regolamenta l'attività di cinotecnica, non
impone a colui che esercita l'attività di assumere
necessariamente lo status di imprenditore agricolo.
Peraltro, precisa la sentenza, le norme tecniche nella loro
formulazione letterale permettono gli interventi connessi
all'attività agricola «contemplati dalla vigente
legislazione», in tal modo effettuando un rinvio recettizio
di tipo dinamico alle disposizioni normative vigenti, tra le
quali acquistano rilevanza gli articoli 1 e 2 della
sopraindicata legge 349/1996.
Con riferimento alla disciplina
specifica che regolamenta l'attività cinotecnica, si è anche
rilevato, nell'ambiguità della norma che semplicemente
elenca le tre tipologie di attività (ossia allevamento,
selezione e addestramento delle razze canine), non si
possono ravvisare ragioni logiche per escludere la sua
operatività nel caso di iniziative limitate al solo
addestramento.
Se, in pratica, è ammessa l'attività in forma
non imprenditoriale, è ipotizzabile che la specializzazione
investa anche solo una delle tre fasi normativamente
contemplate e che l'operatore effettui le prestazioni
coinvolgendo gli animali che vengono di volta in volta
condotti in loco dai rispettivi proprietari.
Peraltro, la
cura delle patologie che affliggono talune persone mediante
l'ausilio di animali ben può rientrare nella definizione di
«servizi di interesse pubblico», adoperata
dall'amministrazione per descrivere gli interventi ammessi
nella zona ove la ricorrente intende svolgere l'attività
(articolo ItaliaOggi del 14.01.2016). |
APPALTI: Con
l’interdittiva perdere l’appalto non è automatico. Tar di
Pescara. Provvedimenti antimafia.
L’impresa colpita da interdittiva
antimafia non può perdere in automatico l’appalto se il
prefetto ne ha disposto la gestione «straordinaria e
temporanea» limitata a garantire il «completamento
dell’esecuzione del contratto» di interesse pubblico.
Il TAR
Abruzzo-Pescara -sentenza 04.01.2016
n. 1– ha così annullato la rescissione di un
contratto di gestione pubblica illuminazione decisa da un
Comune contro una cooperativa -già oggetto di informativa
antimafia (articolo 84, Dlgs 159/2011)- dopo la gestione
straordinaria ordinata dal prefetto solo per completare i
contratti in corso e ritenuti dai commissari più «urgenti e
necessari» per valore e numero di addetti.
Ciò è previsto dalle misure anticorruzione della riforma Pa
-articolo 32, Dl 90/2014- «anche nei casi in cui sia stata
emessa dal prefetto un’informativa antimafia interdittiva e
sussista l’urgente necessità di assicurare il completamento
dell’esecuzione del contratto, ovvero la sua prosecuzione al
fine di garantire la continuità di funzioni e servizi
indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché
per la salvaguardia dei livelli occupazionali o
dell’integrità dei bilanci pubblici» e anche quando il
Codice antimafia (articolo 94) consente alle stazioni
appaltanti -in via eccezionale e motivata- di mantenere le
ditte “indiziate” (opera quasi finita, fornitura essenziale
all’interesse pubblico o fornitore non sostituibile presto).
Per il Comune, invece, l’annullamento del contratto era
«doveroso» per le stesse norme, poiché per il
«completamento» in gestione straordinaria occorreva
«quantomeno un inizio di esecuzione materiale» e non come in
questo caso «solo preliminari misure organizzative (…)».
Ritenendo tale tesi «arbitrariamente restrittiva», i giudici
hanno spiegato che «il riferimento alla fase dell’esecuzione
è da intendersi nel senso proprio giuridico come fase
successiva a quella di stipula del contratto e non in quello
meramente empirico di materiale inizio della prestazione che
peraltro non è affatto contemplato dal legislatore (…)».
Il
Tar ha poi chiarito che, al contrario di quanto detta il
Codice in caso di interdittiva, nella gestione straordinaria
«si tratta di una valutazione (…) rimessa al prefetto e mira
a sterilizzare tale condizionamento mafioso, consentendo
così una gestione da esso immune, che priva quindi le
stazioni appaltanti del potere di recedere sulla base del
mero presupposto dell’interdittiva (…)».
Il Tar sottolinea che «la norma mira principalmente a
tutelare l’interesse pubblico alla prosecuzione del
rapporto... già instaurato, senza gravare l’amministrazione
dell’onere di espletare una nuova gara» e che l’appalto in
esame, «manifestamente incluso» nella gestione straordinaria
«per scelta» dei commissari (e da qui il motivo del ricorso
contro il Comune), già solo per l’alta base d’asta (29
milioni) «rientra ampiamente nei parametri specificati dal
prefetto per la selezione» (articolo Il Sole 24 Ore del
21.01.2016).
---------------
MASSIMA
2.- Il ricorso è fondato.
La tesi dell’Amministrazione deriva da una lettura
arbitrariamente restrittiva dell’articolo 32 del d.l. n. 90
del 2014.
Quest’ultimo, al comma 10, dispone che le misure previste
dal comma 1 (tra cui il potere del Prefetto di disporre “la
straordinaria e temporanea gestione dell’impresa
limitatamente alla completa esecuzione del contratto di
appalto ovvero dell’accordo contrattuale o della concessione”)
si applicano anche nei casi in cui sia stata emessa dal
Prefetto un’informativa antimafia interdittiva “e
sussista l’urgente necessità di assicurare il completamento
dell’esecuzione del contratto ovvero dell’accordo
contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di
garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili
per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la
salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei
bilanci pubblici, ancorché ricorrano i presupposti di cui
all’articolo 94, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 (…) Le
stesse misure sono revocate e cessano comunque di produrre
effetti in caso di passaggio in giudicato di sentenza di
annullamento dell’informazione antimafia interdittiva (…)
ovvero di aggiornamento dell’esito della predetta
informazione ai sensi dell’articolo 91, comma 5, del d.lgs.
n. 159 del 2011 (…)”.
Secondo il Comune resistente, l’espressone “completamento
dell’esecuzione del contratto” implicherebbe la
necessità che vi sia stata quantomeno un inizio di
esecuzione materiale dello stesso, cosa che nel caso di
specie difetterebbe, atteso che l’impresa avrebbe attuato
solo preliminari misure organizzative propedeutiche
all’esecuzione.
L’errore di tale prospettazione è evidente, atteso che essa
postula che la ratio della norma sia solo la tutela
dell’impresa a continuare un appalto per il quale ha già
iniziato l’esecuzione.
Viceversa, la norma mira principalmente a
tutelare l’interesse pubblico alla prosecuzione del rapporto
contrattuale già instaurato, senza gravare l’Amministrazione
dell’onere di espletare una nuova gara, e quindi mira a
salvaguardare l’attuazione dei principi di efficacia,
efficienza ed economicità dell’azione amministrativa.
Appare infatti rimessa al Prefetto
l’individuazione degli appalti che è opportuno completare e
la legge individua i criteri che quest’ultimo deve
utilizzare per individuarli, vale a dire l’indifferibilità
per la tutela di diritti fondamentali, la salvaguardia dei
livelli occupazionali e dei bilanci pubblici.
Il riferimento alla fase dell’esecuzione è da intendersi nel
senso proprio giuridico come fase successiva a quella di
stipula del contratto e non in quello meramente empirico di
materiale inizio della prestazione che peraltro non è
affatto contemplato dal legislatore, che viceversa ha
utilizzato espressioni del tutto generiche.
Nel caso di specie, il Prefetto di Modena, con il
provvedimento del 21.05.2015, ha disposto la continuazione
della gestione dell’impresa con riferimento “esclusivamente
ai contratti pubblici di appalto ed alle concessioni di
natura pubblica in corso di esecuzione ovvero di
completamento e tuttora in essere, di cui la CPL C. è
titolare”; il medesimo, inoltre, ha nominato i due
commissari ed ha demandato agli stessi di eseguire
preliminarmente una ricognizione di tutti i contratti
pubblici di appalto e di tutte le concessioni di natura
pubblica in corso di esecuzione o di completamento di cui
l’impresa è titolare, escludendo quelli già revocati nel
frattempo; ed ha poi disposto che gli stessi provvedessero a
selezionare, tra tali contratti, quelli “la cui
esecuzione o prosecuzione sia ritenuta urgente e necessaria,
in considerazione dell’elevato importo dell’appalto e del
considerevole numero di lavoratori dell’azienda impiegati”.
Nel caso in esame, appare evidente che i due commissari,
agendo avverso l’annullamento dell’aggiudicazione, abbiano
ritenuto di includere tra tali contratti anche quello in
questione.
Del resto, già solo per il rilevante importo posto a base
d’asta, lo stesso rientra ampiamente nei parametri
specificati dal Prefetto per la selezione.
Appare altresì evidente che il Comune resistente ha
annullato l’aggiudicazione e risolto il contratto solo
successivamente al provvedimento prefettizio di nomina dei
Commissari.
Non v’è pertanto alcun elemento che possa giustificare la
pretesa dell’Amministrazione resistente di ritenere il
contratto in disamina escluso dal provvedimento di gestione
straordinaria, risultandovi invece il medesimo
manifestamente incluso, per scelta dei Commissari nominati
dal Prefetto ed in conformità dei criteri da questo
specificati.
Né giova il riferimento al comma 3 dell’articolo 94 del
d.lgs. n. 159 del 2011, il quale si limita solo a prevedere,
nell’ambito della disciplina generale degli effetti
dell’informativa interdittiva antimafia, la possibilità
eccezionale di non procedere alla revoca o recesso dal
contratto di appalto nel caso, tra l’altro, di opera in
corso di ultimazione: “I soggetti di cui all'articolo 83,
commi 1 e 2, non procedono alle revoche o ai recessi di cui
al comma precedente nel caso in cui l'opera sia in corso di
ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi
ritenuta essenziale per il perseguimento dell'interesse
pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia
sostituibile in tempi rapidi”.
Viceversa, le misure di gestione straordinaria dell’impresa
hanno carattere distinto e speciale, in quanto mirano a
contenere in radice l’interferenza mafiosa nell’impresa.
Quindi le due disposizioni sono tra loro autonome.
Più in particolare, la facoltà di
continuare il rapporto con imprese, nonostante il
collegamento delle stesse con organizzazioni malavitose,
prevista dall’articolo 94 del d.lgs. n. 159 del 2011, è
ipotesi -data
l'evidente ratio di pieno sfavore legislativo alle
infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici-
remota e residuale, e dunque consentita al solo fine
di tutelare l'interesse pubblico attraverso una valutazione
di convenienza in relazione a circostanze particolari, quali
il tempo dell'esecuzione del contratto o la sua natura, o la
difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa di
decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata
(cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 197 del 2012);
pertanto la stazione appaltante, mentre può
richiamare l'informativa a supporto della decisione di
risolvere il contratto, senza addurre particolari
giustificazioni, ha viceversa il dovere di motivare
adeguatamente nel caso in cui, nonostante la presenza di un
inquinamento mafioso, l'interesse pubblico alla completa
esecuzione del contratto è così pregnante da legittimare
un'impresa sospetta ad effettuare lavori pubblici
(Tar Napoli, sentenza n. 860 del 2014).
Nel caso di cui all’articolo 32 del d.l. n.
90 del 2014, viceversa, la valutazione non è rimessa alla
Stazione appaltante e non riguarda la scelta se far
completare o meno l’appalto ad un’impresa in cui sussistono
infiltrazioni mafiose; si tratta di una valutazione che è
viceversa rimessa al Prefetto e riguarda una misura che mira
a sterilizzare tale condizionamento mafioso, consentendo
così una gestione da esso immune, che priva quindi le
stazioni appaltanti del potere di recedere sulla base del
mero presupposto dell’interdittiva antimafia.
La situazione di impresa sottoposta a
informativa positiva su infiltrazioni mafiose e quella di
impresa sottoposta a gestione straordinaria non sono
pertanto assimilabili, altrimenti sarebbe del tutto priva di
ragione la funzione di quest’ultimo istituto, disciplinato
dall’articolo 32 cit. del d.l. n. 90 del 2014.
Ne consegue vieppiù che la fattispecie in esame non può
rientrare nell’ambito di applicazione della clausola di cui
all’articolo 15 del contratto di appalto, invocato dalla
stazione appaltante -in virtù della quale, in caso di
accertamento positivo nella certificazione antimafia, ai
sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, il contratto sarà risolto
di diritto-.
La fondatezza del ricorso per i profili esaminati, priva di
rilevanza la questione in ordine alla retroattività o meno
del provvedimento del Prefetto di Modena, con il quale è
stata successivamente accolta l’istanza di iscrizione della
ricorrente negli elenchi dei prestatori di servizi ed
esecutori di lavori non soggetti a rischio mafioso. |
APPALTI:
Non sono assimilabili la situazione di impresa
sottoposta a informativa positiva su infiltrazioni mafiose e
quella di impresa sottoposta a gestione straordinaria.
La facoltà di continuare il rapporto con imprese, nonostante
il collegamento delle stesse con organizzazioni malavitose,
prevista dall'art. 94 del d.lgs. n. 159 del 2011, è ipotesi
-data l'evidente ratio di pieno sfavore legislativo
alle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici- remota e
residuale, e dunque consentita al solo fine di tutelare
l'interesse pubblico attraverso una valutazione di
convenienza in relazione a circostanze particolari, quali il
tempo dell'esecuzione del contratto o la sua natura, o la
difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa di
decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata;
pertanto la stazione appaltante, mentre può richiamare
l'informativa a supporto della decisione di risolvere il
contratto, senza addurre particolari giustificazioni, ha
viceversa il dovere di motivare adeguatamente nel caso in
cui, nonostante la presenza di un inquinamento mafioso,
l'interesse pubblico alla completa esecuzione del contratto
è così pregnante da legittimare un'impresa sospetta ad
effettuare lavori pubblici.
Nel caso di cui all'art. 32 del d.l. n. 90 del 2014,
viceversa, la valutazione non è rimessa alla Stazione
appaltante e non riguarda la scelta se far completare o meno
l'appalto ad un'impresa in cui sussistono infiltrazioni
mafiose; si tratta di una valutazione che è viceversa
rimessa al Prefetto e riguarda una misura che mira a
sterilizzare tale condizionamento mafioso, consentendo così
una gestione da esso immune, che priva quindi le stazioni
appaltanti del potere di recedere sulla base del mero
presupposto dell'interdittiva antimafia.
La situazione di impresa sottoposta a informativa positiva
su infiltrazioni mafiose e quella di impresa sottoposta a
gestione straordinaria non sono pertanto assimilabili,
altrimenti sarebbe del tutto priva di ragione la funzione di
quest'ultimo istituto, disciplinato dall'articolo 32 cit.
del d.l. n. 90 del 2014 (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.01.2016 n. 1 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
I costi di sicurezza contano. Nei bandi.
Niente appalti senza costi di sicurezza interni. Deve essere
esclusa dalla gara l'impresa che in sede di offerta
economica non ha indicato gli oneri necessari a evitare gli
infortuni, anche se un incombente del genere non risulta
richiesto dal bando. E ciò perché si tratta di un precetto
imperativo per qualsiasi tipo di procedura pubblica, quale
che sia la posta in palio: lavori, servizi o forniture.
Lo ribadisce il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 30.12.2015 n. 5873.
Secondo palazzo Spada il principio secondo cui ogni impresa
che partecipa a un appalto pubblico deve indicare gli oneri
di sicurezza aziendali è un obbligo che integra
«dall'esterno» la legge di gara: se non si adegua, dunque,
l'azienda resta fuori dalla procedura benché il bando non
preveda l'estromissione ad hoc
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
L'impresa che non partecipa alla gara non può
contestare la relativa procedura e l'aggiudicazione in
favore di ditte terze: eccezioni.
In materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto
e affidamenti di servizi, il tema della legittimazione al
ricorso (o titolo) è declinato nel senso che essa deve
essere correlata alla circostanza che l'instaurazione del
giudizio non solo sia proposta da chi è legittimato al
ricorso, ma anche che non appaia finalizzata a tutelare
interessi emulativi, di mero fatto, pretese impossibili o
contra ius.
L'impresa che non partecipa alla gara non può contestare la
relativa procedura e l'aggiudicazione in favore di ditte
terze; a tale regola generale va fatta eccezione, per
esigenze di ampliamento della tutela della concorrenza,
solamente in tre tassative ipotesi e cioè quando: si
contesti in radice l'indizione della gara; all'inverso, si
contesti che una gara sia mancata, avendo l'amministrazione
disposto l'affidamento in via diretta del contratto; si
impugnino direttamente le clausole del bando deducendo che
le stesse siano immediatamente escludenti (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 30.12.2015 n. 5862 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È illegittimo disporre l'acquisizione gratuita,
o, in ipotesi, effettuare questo materiale intervento
comunale, in danno di chi non è responsabile dell'abuso e
nei cui confronti sia mancata la notifica dell'ordine di
demolizione. Essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale una misura prevista per l'ipotesi di inottemperanza
all'ingiunzione di demolizione, essa postula comunque
un'inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste
conseguenze.
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di
conoscenza, che presuppone la previa notifica del
provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di
inottemperanza.
---------------
La presentazione dell'istanza di sanatoria dell'abuso
edilizio determina l’obbligo dell’amministrazione di
procedere prioritariamente all’esame della domanda di
condono, paralizzando il corso dei procedimenti per
l’applicazione delle misure repressive fino alla definizione
dell’istanza di sanatoria.
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene
sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa
è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando
un nuovo termine per l’ottemperanza da parte
dell’interessato.
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... per l'annullamento della determina dirigenziale n.
63026/14 del 29.04.2014 notificata il 07.05.2014 con la
quale il Comune di Cercola ha dichiarato l'accertamento di
inottemperanza all'ordinanza di demolizione n. 39 del 2005 e
disposto l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere realizzate;
...
2.1. Deve il
Collegio confermare la delibazione di fondatezza del ricorso
già tratteggiata nella sede monitoria, in accoglimento del
primo mezzo di gravame, con il quale il ricorrente deduce
illegittimità della disposta ed impugnata acquisizione
gratuita al patrimonio delle opere da lui realizzate,
sostenendo che la presupposta ordinanza di demolizione n.
39/2005 è stata notificata solo alla comproprietaria signora
Silvestro Raffaella, sua moglie, ma non anche a lui.
Ritiene al riguardo che l’omessa notifica del provvedimento
di demolizione rende inapplicabile nei confronti dei
comproprietari pretermessi la sanzione acquisitiva.
2.2. La doglianza è fondata, rispondendo ad ovvi principi di
tutela del diritto di difesa e di partecipazione
procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell’irrogazione della sanzione dell’acquisizione al
patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano
ricevuto regolare notifica dell’ordinanza di demolizione,
l’inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l’irrogazione della sanzione acquisitiva.
Il Consiglio di Stato ha di recente suggellato
l’orientamento che deponeva nei tratteggiati sensi (TAR
Campania–Napoli, Sez. IV, 30.01.2014 n. 711; TAR Lazio–Roma,
Sez. I–quater, n. 1788/2011; TAR Sicilia-Palermo, Sez. II
11.11.2014 n. 2783) avendo ribadito che “È illegittimo
disporre l'acquisizione gratuita, o, in ipotesi, effettuare
questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è
responsabile dell'abuso e nei cui confronti sia mancata la
notifica dell'ordine di demolizione. Essendo l'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale una misura prevista per
l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione,
essa postula comunque un'inottemperanza da parte di chi va a
patirne le pur giuste conseguenze” (Consiglio di Stato,
Sez. VI, 15.04.2015 n. 1927 ).
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di
conoscenza, che presuppone la previa notifica del
provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di
inottemperanza.
In punto di fatto deve il Collegio valutare, ex artt. 64, co.
4, c.p.a. e 116 c.p.c., l’inerzia del Comune che non ha
ottemperato all’ordine istruttorio disposto con ordinanza n.
4420/2015 (debitamente notificata al Comune a cura del
ricorrente in data 21-23/09/2015), non depositando copia
dell’ordinanza demolitoria così come notificata, nonché la
ulteriore documentazione relativa alla domanda di condono
prot. n. 18219/04.
Ragion per cui va ritenuta provata la dedotta circostanza
della omessa notifica dell’ordinanza di demolizione al
comproprietario ricorrente.
Il mancato adempimento da parte del Comune degli incombenti
istruttori disposti con riferimento alla pendenza
dell’istanza di condono induce a dar credito alle
allegazioni del ricorrente anche riguardo alle censure con
le quali si deduce la violazione degli artt. 38 e 44 della
legge n. 47 del 1985 che contemplerebbero la sospensione dei
procedimenti sanzionatori in pendenza della definizione
delle domande di condono.
Al riguardo è da osservare che per il manufatto in questione
risulta presentata domanda di condono in base alla legge n.
326 del 2003.
Orbene, per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della legge n.
47 del 1985, richiamati dall’art. 32, co. 25, del
decreto-legge n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza
di sanatoria dell'abuso edilizio determina l’obbligo
dell’amministrazione di procedere prioritariamente all’esame
della domanda di condono, paralizzando il corso dei
procedimenti per l’applicazione delle misure repressive fino
alla definizione dell’istanza di sanatoria (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 03/05/2005, n. 2137).
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene
sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa
è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando
un nuovo termine per l’ottemperanza da parte
dell’interessato (cfr. Cons. St., sez. VI, 11/09/2013, n.
4496).
Sancisce l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione
adottata in pendenza dell’esame della domanda di condono la
costante giurisprudenza d’appello (Consiglio di Stato, Sez.
V, 23.06.2014 n. 3143; Consiglio di Stato, Sez. V,
24.04.2013 n. 2280; Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012
n. 5553), seguita anche dalla Sezione in numerosissimi casi
(cfr. ex multis, TAR Campania–Napoli, Sez. III,
14.08.2013, n. 4122; TAR Campania–Napoli, Sez. III,
09.02.2013 n. 843).
Sulla medesima scia si sono infatti poste la Sezione ed il
Tribunale (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 07.12.2010, n.
27066, ID, 13.07.2010, n. 16690; TAR Campania-Napoli, Sez.
VI, 26.08.2010 , n. 17238) e più di recente TAR
Campania-Napoli, Sez. III 07.09.2012, n. 3786) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 22.12.2015 n. 5876 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata
prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in
cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di
fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
Va ribadito il principio di piena
vincolatività delle previsioni degli strumenti urbanistici
che prevedono piani attuativi e che a quest’ultimo è
possibile derogare solo in presenza della fattispecie di
origine giurisprudenziale comunemente indicata come “lotto
intercluso”.
In materia di governo del territorio, costituisce regola
generale e imperativa il rispetto delle previsioni del
p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la
pianificazione di dettaglio. Tali prescrizioni, di solito
contenute nelle n.t.a., sono vincolanti e idonee ad inibire
l'intervento diretto costruttivo.
Da questo principio derivano i seguenti corollari:
- quando lo strumento urbanistico generale prevede che la
sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello
inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere
legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo
sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso
il relativo procedimento;
- in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
- l'assenza del piano attuativo non è surrogabile con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del
rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo,
infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale
di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo;
- non sono configurabili equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa
o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a
verificare se sia tecnicamente possibile edificare
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui
indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
- lo strumento attuativo è necessario anche in presenza di
zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al
rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle
quali la pianificazione di dettaglio può conseguire
l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto.
A fronte di tale rigoroso quadro interpretativo, è stata
individuata in sede giurisprudenziale un’eccezione alla
regola della necessaria presenza di strumenti urbanistici
per la disciplina del territorio, comunemente indicata come
“lotto intercluso”.
Quest’ultima ipotesi si realizza quando l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da
costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie
e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto
conforme al p.r.g..
Si consente, in sostanza, l’intervento costruttivo diretto
purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto
perfettamente corrispondente a quella derivante
dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di
attività procedimentale per l'ente pubblico.
Solo in questi casi, quindi, lo strumento urbanistico può
considerarsi superfluo, in quanto è stata ormai raggiunta la
piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata,
raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti
dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo).
Una concessione edilizia può essere, quindi, rilasciata
anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme
di piano regolatore, solo quando venga accertato che il
lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora
edificato; vi è già stata, cioè, una pressoché completa
edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto
residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre
che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata
delle opere di urbanizzazione.
Si può quindi prescindere dalla lottizzazione convenzionata
prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in
cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di
fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e
dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all'interno, e,
vieppiù, all'esterno, del comparto attinto dall'attività
edificatoria assentita senza previa approvazione dello
strumento attuativo non implica anche quell'adeguatezza e
quella proporzionalità delle opere in parola rispetto
all'aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe
idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari
agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe,
quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore
aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di
urbanizzazione di fatto per eludere il principio
fondamentale della pianificazione e per eventualmente
aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la
pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già
compromesse o edificate.
---------------
4) Con il secondo
motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato che il
Comune non avrebbe dato conto dell’effettivo stato dei
luoghi e, in particolare, dell’effettiva necessità di opere
di urbanizzazione riguardo l’area dove insiste il lotto del
ricorrente.
Il motivo è infondato.
Si deve in questa sede ribadire il principio di piena
vincolatività delle previsioni degli strumenti urbanistici
che prevedono piani attuativi e che a quest’ultimo è
possibile derogare solo in presenza della fattispecie di
origine giurisprudenziale comunemente indicata come “lotto
intercluso”.
In materia di governo del territorio, costituisce regola
generale e imperativa il rispetto delle previsioni del
p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la
pianificazione di dettaglio. Tali prescrizioni, di solito
contenute nelle n.t.a., sono vincolanti e idonee ad inibire
l'intervento diretto costruttivo (Cons. St., sez. IV,
30.12.2008, n. 6625).
Da questo principio derivano i seguenti corollari:
- quando lo strumento urbanistico generale prevede che la
sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello
inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere
legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo
sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso
il relativo procedimento (Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n.
300);
- in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa
(Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
- l'assenza del piano attuativo non è surrogabile con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del
rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo,
infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale
di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo (TAR Campania Napoli, sez. VIII,
02.07.2015, n. 3483; Cons. Sr., sez. IV, 26.01.1998, n. 67;
Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V,
15.01.1997, n. 39);
- non sono configurabili equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa
o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a
verificare se sia tecnicamente possibile edificare
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui
indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema
(Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
- lo strumento attuativo è necessario anche in presenza di
zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al
rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle
quali la pianificazione di dettaglio può conseguire
l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto (Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n.
35880).
A fronte di tale rigoroso quadro interpretativo, è stata
individuata in sede giurisprudenziale un’eccezione alla
regola della necessaria presenza di strumenti urbanistici
per la disciplina del territorio, comunemente indicata come
“lotto intercluso”.
Quest’ultima ipotesi si realizza quando l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da
costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie
e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto
conforme al p.r.g..
Si consente, in sostanza, l’intervento costruttivo diretto
purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto
perfettamente corrispondente a quella derivante
dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di
attività procedimentale per l'ente pubblico (Cons. St., sez.
IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV,
Sent., 10.06.2010, n. 3699).
Solo in questi casi, quindi, lo strumento urbanistico può
considerarsi superfluo, in quanto è stata ormai raggiunta la
piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata,
raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti
dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo) (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 07.12.2014 n. 5488).
Una concessione edilizia può essere, quindi, rilasciata
anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme
di piano regolatore, solo quando venga accertato che il
lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora
edificato; vi è già stata, cioè, una pressoché completa
edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto
residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre
che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata
delle opere di urbanizzazione.
Si può quindi prescindere dalla lottizzazione convenzionata
prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in
cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di
fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
pari agli standard urbanistici minimi prescritti (Consiglio
di Stato, Sez. V, 31/10/2013, n. 5251; C.d.S., V,
05.12.2012, n. 6229; 05.10.2011, n. 5450; IV, 01.08.2007, n.
4276; 21.12.2006, n. 7769).
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e
dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all'interno, e,
vieppiù, all'esterno, del comparto attinto dall'attività
edificatoria assentita senza previa approvazione dello
strumento attuativo non implica anche quell'adeguatezza e
quella proporzionalità delle opere in parola rispetto
all'aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe
idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari
agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe,
quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore
aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di
urbanizzazione di fatto per eludere il principio
fondamentale della pianificazione e per eventualmente
aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la
pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già
compromesse o edificate (TAR Puglia, Lecce, sez. III,
18.01.2005, n. 164).
Nel caso di specie parte ricorrente non ha dimostrato
ricorra tale situazione e, anzi, a fronte della rilevazione
da parte del Comune dell’assenza di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria nell’area, si è limitato a depositare
una generica dichiarazione derivante dallo stesso Comune
secondo cui il terreno in questione confina con una la
strada comunale di Circumvallazione e che detta strada è già
servita con opere di urbanizzazione primaria, “quali rete
elettrica, rete idrica, rete fognante etc.”, nonché una
serie di foto della predetta strada.
Tale dichiarazione è assolutamente insufficiente
innanzitutto per la sua genericità, non dando indicazioni
sul grado di urbanizzazione dell’intera area, né sulle
specifiche opere di urbanizzazione esistenti in questione,
né tantomeno dà conto dell’adeguatezza di tali opere;
inoltre, la dichiarazione in esame fa riferimento solamente
alle opere a servizio della strada Comunale e non specifica
le aree servite da tali impianti, oltre quella
immediatamente adiacenti la medesima strada.
Ancora, la strada in questione si trova a confine del
comparto e la dichiarazione non specifica se le opere
indicate servano quello in cui si trova il fondo o quello
vicino.
Infine, in ogni caso, l’esistenza delle sole opere di
urbanizzazione primaria e non di quelle di urbanizzazione
secondaria non è sufficiente perché possa affermarsi
l’esistenza di un “lotto intercluso”.
Il motivo è, quindi, da rigettare (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 18.12.2015 n. 5801 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo giurisprudenza, l'art. 2, comma 1, l.
19.11.1968, n. 1187, prevede la durata quinquennale dei
vincoli che comportano l'inedificabilità dei suoli
discendenti dal PRG.
Tale durata è riferibile a tutti i vincoli, senza
possibilità di distinzione tra vincoli di natura sostanziale
e vincoli di natura solo strumentale, tra i secondi dei
quali rientra la subordinazione dell'edificabilità di
un'area alla previa formazione di un piano esecutivo.
Deve però escludersi che la decadenza di cui al citato art.
2 dei vincoli strumentali previsti dallo strumento
urbanistico possa applicarsi nei casi in cui, in alternativa
al piano particolareggiato, sia prevista dal piano
regolatore la possibilità di ricorso ad un piano di
lottizzazione ad iniziativa privata.
In questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una
pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata,
consentendo di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi
della P.A., esclude la configurabilità dello schema
ablatorio, e quindi, conseguentemente, la decadenza
quinquennale del relativo vincolo.
---------------
5) Con il terzo
motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto che, anche
qualora si volesse ritenere soggetta l’edificazione
nell’area in questione all’approvazione del P.I.P., tale
onere sarebbe da intendersi come vincolo di in edificabilità
assoluta, ormai decaduto in forza del decorso del periodo di
validità di cinque anni dall’entrata in vigore del PRG.
Il motivo è infondato.
Secondo giurisprudenza, l'art. 2, comma 1, l. 19.11.1968, n.
1187, prevede la durata quinquennale dei vincoli che
comportano l'inedificabilità dei suoli discendenti dal PRG.
Tale durata è riferibile a tutti i vincoli, senza
possibilità di distinzione tra vincoli di natura sostanziale
e vincoli di natura solo strumentale, tra i secondi dei
quali rientra la subordinazione dell'edificabilità di
un'area alla previa formazione di un piano esecutivo.
Deve però escludersi che la decadenza di cui al citato art.
2 dei vincoli strumentali previsti dallo strumento
urbanistico possa applicarsi nei casi in cui, in alternativa
al piano particolareggiato, sia prevista dal piano
regolatore la possibilità di ricorso ad un piano di
lottizzazione ad iniziativa privata.
In questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una
pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata,
consentendo di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi
della P.A., esclude la configurabilità dello schema
ablatorio, e quindi, conseguentemente, la decadenza
quinquennale del relativo vincolo (Cons. Stato, Sez. V,
31/10/2013, n. 5251; IV, 24.03.2009, n. 1765; V, 03.04.2000,
n. 1908).
Nel caso di specie, come peraltro indicato dal Comune, nella
memoria di costituzione e non contestato da parte
ricorrente, il PRG prevede la possibilità del ricorso a un
piano di lottizzazione ad iniziativa provata e, pertanto, il
vincolo non può considerarsi avente carattere ablatorio (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 18.12.2015 n. 5801 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sul
termine di 10 giorni che la stazione appaltante deve
assegnare all'appaltatore che sia incorso in una
irregolarità essenziale, sanabile, nella predisposizione
della gara, laddove -comunemente- veniva considerato come
perentorio a pena di esclusione e che, invece, il CdS
definisce sostanzialmente ordinatorio e suscettibile di
proroga in presenza di difficoltà oggettive dell'appaltatore
interessato.
In presenza di una obiettiva
impossibilità o difficoltà di rispettare il termine di dieci
giorni per procedere alla regolarizzazione documentale di
cui all’art. 38, comma 2-bis, del codice degli appalti,
appare possibile concedere una proroga del termine.
---------------
... per la riforma della sentenza breve del TAR
LAZIO-ROMA: SEZIONE III n. 11259/2015, resa tra le parti,
concernente affidamento dei servizi di pulizia sanificazione
ed altri servizi presso enti del servizio sanitario
nazionale - richiesta regolarizzazione cauzione provvisoria
con applicazione sanzione pecuniaria.
...
-
Vista la domanda di
sospensione dell'efficacia della sentenza del Tribunale
amministrativo regionale di reiezione del ricorso di primo
grado, presentata in via incidentale dalla parte appellante;
- Relatore nella camera di consiglio del giorno 17.12.2015
il Cons. Ni.Ru. e uditi per le parti gli avvocati Sa.St.Da.
e An.Cl.;
- Considerato che, ad un sommario esame, l’appello appare
assistito da apprezzabili elementi di fondatezza, tenuto
conto che, in presenza di una obiettiva impossibilità o
difficoltà di rispettare il termine di dieci giorni per
procedere alla regolarizzazione documentale di cui all’art.
38, comma 2-bis, del codice degli appalti, appare possibile
concedere una proroga del termine,
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta), accoglie l'istanza cautelare (Ricorso numero:
9720/2015) e, per l'effetto, sospende l'esecutività della
sentenza impugnata e fissa per la trattazione della causa
l’udienza pubblica del 17.03.2016, salvo diversa
determinazione presidenziale (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza
18.12.2015 n. 5627 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica a mezzo PEC: l'indirizzo deve essere esatto.
Ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1, l. n.
53 del 21.01.1994, “la notificazione con modalità telematica
si esegue a mezzo di posta elettronica certificata
all'indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto
della normativa, anche regolamentare, concernente la
sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti
informatici. La notificazione può essere eseguita
esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica
certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 3763 del
30/03/2015, con il quale il R.U.P. di Irpiniambiente s.p.a.
ha comunicato l'aggiudicazione definitiva della gara per
l'affidamento del servizio di pulizia sedi aziendali, di
tutti gli atti connessi e presupposti, nonché per la
condanna al risarcimento del danno
...
- Rilevata preliminarmente la fondatezza dell’eccezione di
inammissibilità del ricorso, formulata dal difensore
dell’amministrazione resistente sulla scorta della sua
notifica alla cooperativa controinteressata presso un
indirizzo di posta elettronica certificata (multiservice.amica@pec.it)
diverso da quello (multiserviceamicacoop@pec.it) risultante
dai “pubblici elenchi” (nella specie dal registro
delle imprese tenuto dalla Camera di Commercio), in
violazione dell’art. 3-bis l. n. 53/1994;
- Rilevato infatti che, ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1,
l. n. 53 del 21.01.1994, “la notificazione con modalità
telematica si esegue a mezzo di posta elettronica
certificata all'indirizzo risultante da pubblici elenchi,
nel rispetto della normativa, anche regolamentare,
concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la
ricezione dei documenti informatici. La notificazione può
essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di
posta elettronica certificata del notificante risultante da
pubblici elenchi”;
- Considerato che il mancato rispetto della citata
disposizione, la cui efficacia prescrittiva è rafforzata
dall’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente”, non può
non produrre la nullità della notificazione eseguita secondo
modalità difformi da quelle sancite dal legislatore;
- Rilevato altresì che non sussistono i presupposti per fare
applicazione dell’art. 44, comma 4, cod. proc. amm., ai
sensi del quale “nei casi in cui sia nulla la
notificazione e il destinatario non si costituisca in
giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della
notificazione dipenda da causa non imputabile al
notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per
rinnovarla”, atteso che la parte ricorrente, alla luce
del su richiamato univoco disposto normativo, avrebbe potuto
facilmente controllare che l’indirizzo pec indicato dalla
controinteressata negli atti da essa provenienti inerenti al
procedimento di gara di cui si tratta, dalla prima
utilizzato per la notifica del ricorso, non corrispondeva a
quello risultante dall’elenco della Camera di Commercio;
- Ritenuto quindi, come anticipato, che il ricorso debba
essere dichiarato inammissibile (TAR Campania-Salerno, Sez.
I,
sentenza 18.12.2015 n. 2652 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'installazione e gestione di distributori
automatici di generi alimentari rientra nella concessione di
un servizio pubblico.
Ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (codice
dei contratti pubblici), la procedura di affidamento di una
concessione di servizi non è soggetta alle norme contenute
nella parte II dello stesso codice; ed infatti, nel
delineare l'ambito oggettivo e soggettivo di applicazione
delle suddette disposizioni il cit. art. 30 stabilisce che "le
procedure di affidamento di concessioni di servizi sono
sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e
del codice dei contratti pubblici, ed invece assoggettate ai
principi desumibili dal Trattato e i principi generali
relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi
di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità".
Rientra nella concessione di un servizio pubblico
l'assegnazione del servizio costituito dalla installazione e
gestione di distributori automatici di generi alimentari
all'interno di strutture ospedaliere (TAR Puglia-Lecce, Sez.
II,
sentenza 17.12.2015 n. 3609 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione del manufatto abusivo non
è una “pena” ma una sanzione amministrativa e dunque non è
soggetto alla prescrizione.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal
giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, qualora non
sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione
amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente dall’essere stato o meno
quest’ultimo l’autore dell’abuso.
Per tali sue caratteristiche la demolizione non può
ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen.
(massima tratta da
http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 15.12.2015 n. 49331). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato di omessa denuncia dei lavori e
presentazione dei progetti sottoposti a valutazione sismica
(art. 50 d.P.R. n. 380 del 2001) può essere commesso da
chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti e,
quindi, anche dal proprietario, dal committente, dal
titolare della concessione edilizia, dal direttore e
dall’assuntore dei lavori.
---------------
3. Per ciò che concerne, invece, la violazione della
normativa antisismica di cui al capo C) dell'imputazione,
la prevalente giurisprudenza di questa Corte
qualifica come permanente il reato di omessa denuncia dei
lavori e presentazione dei progetti, osservando che la sua
consumazione si protrae sino a quando il responsabile non
presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto,
ovvero non termina l'intervento edilizio
(Sez. 3, n. 12235 del 11/2/2014, Petrolo, Rv. 258738; Sez.
3, n. 29737 del 4/6/2013, Vella Pasquale, Rv. 255823, cui si
rinvia anche per i richiami ai precedenti).
Ne consegue che, anche in questo caso, la prescrizione non
risulta ancora maturata.
4. Con riferimento a tale ipotesi contravvenzionale,
peraltro, i ricorrenti hanno posto in discussione anche la
riferibilità del reato alle loro posizioni soggettive.
Segnatamente, come rilevato in premessa, la questione è
stata sollevata dal PU., quale direttore dei lavori e
progettista e dai GE., assuntori dei lavori.
L'assunto, in entrambi i casi, è infondato.
L'articolo 95 d.P.R. 380/2001 attribuisce
la responsabilità del reato a chiunque violi le disposizioni
richiamate, cosicché la violazione assume la natura di reato
comune, che può essere quindi realizzato dal proprietario,
dal committente, dal titolare della concessione edilizia e
da qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità
dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da
coloro che abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato la
costruzione senza il doveroso controllo del rispetto degli
adempimenti di legge
(Sez. 3, n. 35387 del 24/05/2007, Trozzo, Rv. 237537; Sez.
3, n. 887 del 10/12/1999 (dep. 2000), Scardellato O, Rv.
215602; Sez. 3, n. 4438 del 10/04/1997, Biagiottì, Rv.
208031).
Con particolare riferimento alla figura del direttore dei
lavori, si è affermato che «(...) Il direttore dei lavori
risponde del reato previsto dagli artt. 93 e 94 d.P.R. n.
380 del 2001, essendo anch'egli destinatario del divieto di
esecuzione dei lavori in assenza della autorizzazione ed in
violazione delle prescrizioni tecniche contenute nei decreti
ministeriali di cui agli artt. 52 e 83 del citato d.P.R.,
atteso che le disposizioni sulla vigilanza sulle costruzioni
in zone sismiche, prevedendo un complesso sistema di cautele
rivolto ad impedire l'esecuzione di opere non conformi alle
norme tecniche, ha determinato una posizione di controllo su
attività potenzialmente lesive in capo al direttore dei
lavori» (Sez. 3, n. 33469 del 15/06/2006, Osso ed altri,
Rv. 235122. V. anche Sez. 3, n. 7775 del 05/12/2013 (dep.
2014), Damiano, Rv. 258854; Sez. 3, n. 6675 del 20/12/2011
(dep. 2012), Lo Presti, Rv. 252021).
A conclusioni analoghe si è pervenuti, come si è detto,
anche con specifico riguardo agli assuntori dei lavori (Sez.
F, n. 35298 del 24/07/2008, Sparviero, Rv. 240665. Conf.
Sez. 3, n. 35387 del 24/05/2007, Trozzo, Rv. 237537, cit.;
Sez. 3, n. 33558 del 06/06/2003, Mosca, Rv. 225555).
5. Va pertanto ribadito il principio secondo il quale
il reato di cui all'art. 95 d.RR. 380/2001 può
essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli
obblighi imposti e, quindi, anche dal proprietario, dal
committente, dal titolare della concessione edilizia, dal
direttore e dall'assuntore dei lavori
(massima tratta da
http://renatodisa.com -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
18.12.2015 n. 49991). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Organismi in house, i concorsi al Tar.
Il Cds: si tratta di soggetti di diritto
pubblico.
Tutti gli organismi in house di pubbliche amministrazioni
sono anche necessariamente organismi di diritto pubblico,
mentre non è vero il contrario (cioè non è vero che per il
solo fatto che un organismo sia qualificabile come organismo
di diritto pubblico ai fini della contrattualistica
pubblica, per ciò stesso sarà anche qualificabile come
pubblica amministrazione ai fini del riparto di
giurisdizione in tema di assunzione del personale
dipendente).
A sottolinearlo sono stati i giudici della VI Sez. del
Consiglio di Stato con
sentenza
11.12.2015 n. 5643.
Pertanto, ed è quello che si evidenzia in sede di commento, restano
devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le
controversie in materia di procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni,
in relazione all'art. 1, c. 2, del dlgs 165/2001, in base al
quale per p.a. si intendono tutte le amministrazioni dello
stato, comprese quelle a ordinamento autonomo.
I supremi
giudici amministrativi, hanno altresì richiamato in
particolare una recente sentenza delle s.u. (25.11.2013, n. 26283, punti 4. e 5.), la quale delinea i connotati
che qualificano le società in house; queste della società
hanno solo la forma esteriore ma costituiscono in realtà
articolazioni in senso sostanziale della pubblica
amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici ad
essa esterni e da essa autonomi (si vedano a tale riguardo
anche Cass., s.u., nn. 5491, 7177 e 16622/2014, tutte sul
riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e Corte
conti, e inoltre Cds, sez. VI, n. 2515 del 2015, p. 4.3. ,
sull'organismo in house come mera articolazione
organizzativa interna dell'ente).
Per quanto riguarda, poi,
la devoluzione della controversia alla giurisdizione del
giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 7, comma 2, c.p.a. «Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente
codice, si intendono anche i soggetti a esse equiparati o
comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento
amministrativo»; tale norma è già di per sé idonea a
radicare la giurisdizione del G.a. in relazione ad atti di
soggetti che, pur avendo una natura privatistica, come nel
caso degli enti pubblici economici, sono tenuti al rispetto
dei principi del procedimento amministrativo, come
senz'altro avviene nel caso di specie.
Lo conferma, se fosse
mai revocabile in dubbio, il testo dell'art. 1, comma 1-ter
della legge 241/1990 secondo cui «I soggetti privati preposti
all'esercizio di attività amministrative assicurano il
rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1»
(ovvero dei principi del procedimento amministrativo); ed è
altrettanto indubbio che un'azienda speciale, se
qualificabile come soggetto privato, è preposto (anche)
all'esercizio di attività amministrative. Dunque, già dal
combinato disposto dell'art. 7, c. 2, c.p.a., e art. 1,
comma 1-ter, della legge 241/1990 può ritenersi radicata la
giurisdizione del giudice amministrativo
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per le assunzioni alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, compresi gli enti pubblici regionali, vige
la regola del pubblico concorso di cui all’articolo 97 della
Costituzione.
La circostanza che in virtù dell’articolo 35 del Dlgs
165/2001 le assunzioni di alcune categorie di pubblici
dipendenti possano avvenire mediante espletamento di
procedure selettive, o mediante avviamento dei soggetti
iscritti nelle liste di collocamento, rappresenta una
semplificazione dello strumento tecnico del pubblico
concorso, ma non il superamento delle esigenze di
trasparenza e imparzialità insite nel concetto di
concorsualità volute dalla norma costituzionale.
---------------
Ritiene il Collegio che l'orientamento espresso nelle
richiamate decisioni del 2013 non può essere confermato e
seguito alla luce dei principi affermati nella recente
sentenza SS.UU n. 4685 del 20015 , perché in quest'ultima
sentenza risulta più volte ribadito che per le assunzioni
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tra queste
anche gli enti pubblici regionali, vige la regola del
pubblico concorso prevista dall'art. 97 Cost. e "la
circostanza che con l'art. 35, le assunzioni di alcune
categorie di pubblici dipendenti possano avvenire mediante
espletamento di procedure selettive, o mediante avviamento
dei soggetti iscritti nelle liste di collocamento,
rappresenta, dunque, una semplificazione dello strumento
tecnico (il pubblico concorso), ma non il superamento delle
esigenze di trasparenza ed imparzialità insite nel concetto
di concorsualità volute dalla norma costituzionale".
Va anche considerato che l'istituto concernente il diritto
di precedenza, attribuito ai lavoratori assunti a tempo
determinato, è stato introdotto nel nostro ordinamento
dall'art. 8-bis del D.L. 28.01.1983, n. 17, convertito nella
L. 25.03.1983, n. 79, il cui primo comma così dispone: "I
lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa a
carattere stagionale con contratto a tempo determinato,
stipulato ai sensi della L. 18.04.1962, n. 230, art. 1,
comma 2, lett. a), e successive modificazioni ed
integrazioni, hanno diritto di precedenza nell'assunzione
con la medesima qualifica presso la stessa azienda, a
condizione che manifestino la volontà di esercitare tale
diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto
di lavoro".
Il secondo comma precisa: "La condizione di cui al comma
precedente si applica anche a lavoratori assunti a nonna del
D.L. 03.12.1977, n. 876, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. 03.02.1978, n. 18 e della L.
26.11.1979, n. 598, le cui disposizioni restano in vigore e
sono estese a tutti i settori economici".
Successivamente, la L. 28.02.1987, n. 56, all'art. 23,
secondo comma, ha disposto che "I lavoratori che abbiano
prestato attività lavorative con contratto a tempo
determinato nelle ipotesi previste dal D.L. 29.01.1983, n.
17, art. 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L.
25.03.1983, n. 79, hanno diritto di precedenza
nell'assunzione presso la stessa azienda, con la medesima
qualifica quando per questa è obbligatoria la richiesta
numerica e a condizione che manifestino la volontà di
esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di
cessazione del rapporto di lavoro."
Infine -ed a prescindere dalla riforma attuata con il D.Lgs.
n. 368 del 2001, che all'art. 11, comma 1, ha disposto
l'abrogazione dell'art. 23 della legge 56/1987- con l'art.
9-bis (Lavoratori stagionali), convertito in L. 19.07.1993
n. 236, è stato sostituito il comma 2 dell'art. 23 della L.
28.02.1987, n. 56, riproducendone il testo, con la sola
eliminazione della dicitura: "quando per questa è
obbligatoria la richiesta numerica" (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 04.12.2015 n. 24743). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore, all’esterno meno limiti.
Deroga a distanze e vedute se il manufatto è classificabile
come «volume tecnico».
Barriere architettoniche. Le condizioni della giurisprudenza
amministrativa e di legittimità per superare i vincoli
all’installazione.
Posizionare un ascensore
all’esterno di un edificio può costituire una scelta tecnica
obbligata specie nei centri storici, dove gli immobili più
antichi di solito non consentono di realizzare l’impianto
all’interno del caseggiato. Da questa scelta obbligata
possono però derivare una serie di problematiche,
soprattutto in materia di distanze, di titoli abilitativi e
di autorizzazioni paesaggistiche, che la giurisprudenza ha
risolto in relazione alla natura giuridica del manufatto.
Il volume tecnico
Il TAR Liguria, Sez. I, con la
sentenza 03.12.2015 n. 1002, ha respinto il ricorso con cui un confinante aveva
impugnato il provvedimento comunale che assentiva al
condominio proprietario del palazzo di fronte la
realizzazione di un ascensore esterno. I giudici liguri
hanno affermato la natura di volume tecnico del manufatto e
hanno di conseguenza escluso la violazione delle norme in
tema di vedute e di distanze tra costruzioni (articoli 907 e
873 del Codice civile).
Nella sentenza si ricorda
innanzitutto che per volume tecnico deve intendersi
quell’opera edilizia priva di una autonomia funzionale,
anche potenziale, destinata a contenere gli impianti
serventi di una costruzione principale per soddisfarne le
esigenze tecniche. In questa nozione rientrano anche gli
impianti che non possono essere ubicati all’interno della
costruzione, ma che devono considerarsi necessari per il
pieno utilizzo dell’abitazione, tra cui, appunto,
l’ascensore.
La decisione condivide sul punto l’orientamento già espresso
dalla Cassazione (n. 2566/2011) secondo cui questa nozione
di volume tecnico rispecchia il mutamento anche demografico
della nostra società, che ormai «considera l’ascensore come
un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con
problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano
sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani
di scale che li separano dalle vie pubbliche».
Il Tar ha inoltre escluso la violazione dell’articolo 79,
comma 2, del Dpr n. 380/2001, che impone il rispetto delle
distanze anche nel caso di opere finalizzate alla
eliminazione di barriere architettoniche, nell’ipotesi in
cui tra queste ed gli altri fabbricati «non sia interposto
alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune».
Viene richiamata al riguardo la pronuncia del Consiglio di
Stato n. 6253/2012, secondo cui nell’interpretazione di tale
norma va dato rilievo al Dm n. 236/1989, ovvero il
regolamento di attuazione della legge sulle barriere
architettoniche. L’articolo 2 del decreto, infatti,
qualifica come spazio esterno «l’insieme degli spazi aperti,
anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più
edifici» e come parti comuni dell’edificio «quelle unità
ambientali che servono o che connettono funzionalmente più
unità immobiliari».
Applicando questo criterio interpretativo all’ultima parte
dell’articolo 79, comma 2, appare chiaro che il legislatore,
nel far riferimento a spazi o aree «di proprietà o di uso
comune», ha inteso richiamare non solo il dato giuridico
dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso
comune, ma anche il semplice elemento materiale
dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le
sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai
residenti di entrambi gli immobili confinanti.
Inoltre la
definizione di parte comune non presuppone che le unità
immobiliari siano parte di un medesimo edificio; anzi, dal
combinato disposto con la definizione di spazio esterno si
ricava che uno spazio esterno comune può certamente
interessare anche più edifici.
Il vincolo paesaggistico
Sempre in relazione alla natura di volume tecnico, il Tar
Campania, con la sentenza n. 6431/2014, ha poi ricordato che
in base all’articolo 7, comma 2, della legge n. 13/1989
sull’eliminazione delle barriere architettoniche, gli
ascensori esterni ai manufatti anche se alterano la sagoma
dell’edificio sono soggetti a mera autorizzazione (oggi
sostituita dalla Dia), grazie all’articolo 48 della legge n.
457/1978.
I giudici napoletani hanno anche evidenziato come la stessa
ratio che in materia urbanistica porta a escludere i volumi
tecnici dal calcolo della volumetria edificabile induce
ugualmente a escludere gli stessi dal divieto di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Dunque per i
giudici gli interventi che abbiano dato luogo alla
realizzazione di soli volumi tecnici, quali gli ascensori,
rientrano nell’eccezione di cui all’articolo 167, comma 4, lettera a), del Codice dei beni culturali (Dlgs n.
42/2004) e sono pertanto suscettibili di accertamento della
compatibilità paesaggistica (anche se, in senso contrario si
è espresso il Consiglio di Stato, sezione IV, con la
sentenza n. 2222 del 29.04.2014).
---------------
In condominio via libera possibile con 500 millesimi.
Gli spazi comuni. I contrari possono non pagare.
L’installazione
di un ascensore in un edificio che ne è sprovvisto
costituisce un’innovazione, quindi in condominio la delibera
deve essere assunta in assemblea con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno 2/3
del valore millesimale dell’edificio (articolo 1136, comma
5, del Codice civile).
È ritenuta una innovazione utile, ma consentita soltanto se
non arrechi pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del
fabbricato, non alteri il decoro architettonico o non renda
talune parti dell’edificio inservibili all’uso o al
godimento anche di un solo condomino, da intendersi come
sensibile menomazione dell’utilità che costui può trarre
dalla cosa comune.
L’uso delle parti comuni
Il concetto di inservibilità della cosa comune non può però
consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua
nomale utilizzazione, ma è costituito dalla sua concreta
inutilizzabilità secondo la sua naturale fruibilità
(Cassazione, sentenza n. 18334/2012).
La valutazione è senza dubbio più severa nel caso in cui
l’ascensore sia installato all’interno dell’edificio, dove
il sacrificio che subiscono le dimensioni delle scale o
dell’atrio è più sentito. Ma anche quando l’impianto viene
posizionato all’esterno possono insorgere problemi, fermi
restando gli identici presupposti per ritenere legittima
l’opera.
Esiste in ogni caso un “principio di solidarietà
condominiale” che ha un peso nelle decisioni tra vicini di
casa, soprattutto se agevolano chi è disabile oppure
semplicemente anziano.
Il principio è stato recepito, oltre che da consolidata
giurisprudenza (vedi da ultimo Cassazione, n. 16486/2015),
anche dalla riforma del condominio (legge n. 220/2012), che
modificando l’articolo 1120 del Codice civile ha disposto
che le innovazioni dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, tra cui appunto l’installazione
dell’ascensore, possono essere deliberate con il voto
favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea
portatori di almeno la metà del valore millesimale.
La disciplina si applica in via generale a tutti gli
edifici, non necessariamente solo a quelli in cui dimorino
soggetti affetti da menomazioni o limitazioni funzionali
permanenti, perché la norma serve a consentire la
“visitabilità” degli edifici da parte di tutti coloro che
hanno occasione di accedervi, compresi eventuali portatori
di handicap.
Le spese
Si tratta comunque di una innovazione voluttuaria, nel senso
che la decisione della maggioranza non obbliga i contrari a
partecipare alla spesa. Paga solo chi intende usufruire del
servizio.
Nulla vieta ad alcuni condomini di esprimersi favorevolmente
all’installazione e di dichiarare di non volersi
avvantaggiare dell’ascensore, con la conseguenza che coloro
che invece si servono dell’impianto dovranno sopportare
anche la quota di spesa dei condomini non aderenti.
I contrari possono sempre, anche in tempi successivi,
entrare a far parte della comunione, rimborsando le spese
sostenute dai proprietari dell’impianto, versando cioè una
quota comprensiva del costo dell’installazione e della
manutenzione straordinaria eventualmente eseguita nel corso
degli anni: il tutto tenendo magari presente, da un lato, la
svalutazione della moneta nel frattempo intervenuta e,
dall’altro, il minor valore dell’opera per vetustà, uso e
obsolescenza (articolo Il Sole 24 Ore del
18.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di demansionamento e di dequalificazione,
il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento
del danno professionale, biologico o esistenziale, che
asseritamente ne deriva –non ricorrendo automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale– non può prescindere
da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del
giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno
biologico è subordinato all’esistenza di una lesione
dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il
danno esistenziale –da intendere come ogni pregiudizio (di
natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto,
che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali
propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all’espressione e realizzazione della sua personalità nel
mondo esterno– va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi
consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo
rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva
valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche,
durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno
del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione,
frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di
progressione professionale, eventuali reazioni poste in
essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta
lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi
dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) –il cui
artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del
procedimento logico– si possa, attraverso un prudente
apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art.
115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti
dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento
presuntivo e nella valutazione delle prove.
---------------
7. Col settimo motivo del ricorso principale la ricorrente
imputa alla Corte d'appello una motivazione insufficiente e
contraddittoria su un punto decisivo della controversia
laddove la medesima ha affermato il diritto del dipendente
al risarcimento del danno da dequalificazione professionale
a decorrere dall'01.11.2004 senza aver svolto alcun
approfondimento istruttorio, ma basandosi unicamente su
elementi presuntivi.
8. Con l'ottavo motivo la ricorrente censura l'impugnata
sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115
e 116 c.p.c. laddove la Corte di merito ha affermato
l'esistenza del diritto del lavoratore al risarcimento del
danno da dequalificazione professionale a decorrere
dall'01.11.2004 senza aver svolto alcun approfondimento
istruttorio, ma basandosi unicamente su semplici
presunzioni. Osserva la Corte che anche questi due ultimi
due motivi, che possono esaminarsi unitariamente per
evidenti ragioni di connessione, sono infondati.
Invero, che la prova del danno possa fornirsi con
presunzioni è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite di
questa Corte (v. S.U. n. 6572 del 24.03.2006) che al
riguardo hanno statuito quanto segue: "In tema di
demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del
diritto del lavoratore al risarcimento del danno
professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente
ne deriva -non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale- non può prescindere da una
specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del
giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno
biologico è subordinato all'esistenza di una lesione
dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il
danno esistenziale -da intendere come ogni pregiudizio (di
natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto,
che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali
propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all'espressione e realizzazione della sua personalità nel
mondo esterno- va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi
consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo
rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva
valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche,
durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno
del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione,
frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di
progressione professionale, eventuali reazioni poste in
essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta
lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi
dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) -il cui
artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del
procedimento logico- si possa, attraverso un prudente
apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art.
115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti
dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento
presuntivo e nella valutazione delle prove."
Nella fattispecie la Corte territoriale ha adeguatamente
motivato con argomentazione logica il proprio convincimento
sulla rilevata sussistenza del danno da demansionamento
sulla base dei seguenti elementi presuntivi: - Durata della
accertata dequalificazione, collocazione del dipendente in
una posizione diversa da quella in precedenza ricoperta,
sottrazione di mansioni dal contenuto professionale più
elevato e lo spostamento del medesimo alla direzione di una
struttura qualificata dalla stessa società di minore
importanza e di minor rilievo (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 23.11.2015 n. 23838). |
EDILIZIA PRIVATA:
Responsabilità per dieci anni. Chiunque realizzi
i lavori risponde di rovina o difetto.
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE/ Lo dice la seconda sezione
civile della Cassazione.
Chiunque realizzi lavori di ristrutturazione di un edificio
sarà responsabile, così come il costruttore, per la rovina o
difetto delle opere per dieci anni.
A sottolinearlo sono stati i giudici della Corte di
Cassazione -Sez. II civile-
sentenza 04.11.2015 n. 22553.
Secondo gli Ermellini, la responsabilità ex art. 1669 c.c., potrà essere
invocata con riguardo al compimento di opere (rectius di
interventi di modificazione o riparazione) afferenti a un
preesistente edificio o ad altra preesistente cosa immobile
destinata per sua natura a lunga durata, e pertanto anche
gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione
(rectius gli esecutori delle opere integrative) possono
rispondere ai sensi dell'art. 1669 c.c. allorché le opere
realizzate abbiano una incidenza sensibile o sugli elementi
essenziali delle strutture dell'edificio ovvero su elementi
secondari od accessori, tali da compromettere la
funzionalità globale dell'immobile stesso (si vedano: Cass.
04.01.1993 n. 13; più di recente, segue la stessa linea
interpretativa, Cass. 29.09.2009 n. 20853).
Nel
processo, la parte ricorrente sosteneva che la
responsabilità per rovina e difetti di cose immobili
(regolata dall'art. 1669 c.c.) dovrebbe essere ascritta alle
sole ipotesi in cui siano riscontrabili vizi riguardanti la
costruzione dell'edificio stesso o di una parte di esso, ma
non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate
ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose
immobili, anche se destinate per loro natura a una durata.
Pertanto la fattispecie delineata dalla norma sarebbe
integrata solo quando, entro dieci anni dalla realizzazione
dell'edificio o della cosa immobile destinata per sua natura
a lunga durata, si prospettino rovina, evidente pericolo di
rovina o gravi difetti, dipendenti da vizi del suolo o
difetti della costruzione, afferenti all'edificio medesimo o
alla cosa immobile interessata.
I giudici di piazza Cavour hanno, però, richiamato l'ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale, osservando che
l'opera alla quale la norma fa riferimento, non si
identifica necessariamente con l'edificio o con la cosa
immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a
qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito
successivamente all'originaria costruzione dell'edificio,
con la conseguenza che anche il termine «compimento»,
ai fini della delimitazione temporale decennale della
responsabilità, ha ad oggetto non già l'edificio in sé
considerato, bensì l'opera, eventualmente realizzata
successivamente alla costruzione dell'edificio
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Niente cartello di divieto sulla strada chiusa.
Non ha diritto al rilascio di un passo carrabile l'utente
che risiede in una strada privata interdetta di fatto al
pubblico passaggio. Anche se nella zona è attivo un
esercizio commerciale infatti questo dato non è sufficiente
ad identificare l'uso indiscriminato della via da parte dei
cittadini.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con
la
sentenza 28.10.2015 n. 4940.
Un cittadino ha richiesto al comune il rilascio di un passo
carrabile davanti al suo garage ubicato in una strada senza
uscita di Reggio Calabria. Contro il conseguente rilascio
dell'autorizzazione alcuni vicini hanno proposto con
successo ricorso al Tar. E i giudici di palazzo Spada hanno
confermato questa decisione.
La strada in questione risulta
privata e senza uscita. Oltre a non risultare nell'elenco
delle strade comunali, specifica il collegio, l'intera area
in questione non può essere classificata a uso pubblico «non
essendo idonea a soddisfare le esigenze della collettività,
vale a dire un numero indeterminato di cittadini, essendo
del tutto priva oltre l'accesso, di qualsiasi collegamento
con la viabilità comunale».
In buona sostanza a parere del
collegio si tratta della tipica strada privata destinata ad
un uso residenziale. La presenza di un esercizio commerciale
di vicinato non smentisce questa impostazione, conclude il
Consiglio di stato. Gli indici rilevatori di un uso pubblico
dell'area non sono stati documentati e per questo motivo il
comune non poteva autorizzare un passo carrabile
(articolo ItaliaOggi Sette del
18.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: No al bar notturno se il regolamento non lo permette.
Rumori. Tribunale di Milano.
Se il regolamento di condominio vieta di destinare i
negozi a usi che rechino disturbo –sia per rumori che per
esalazioni o altro– alla restante parte del fabbricato,
l’attività di bar, soprattutto notturno, non può continuare.
Con una sentenza
attenta a alla quiete e al riposo il TRIBUNALE di Milano
(Sez. XIII civile,
sentenza 26.10.2015 n. 11944) è
intervenuto su una questione che era nata a seguito
dell’attività notturna di un bar, con continui rumori e
schiamazzi. L’amministratore di condominio conveniva in
giudizio le condòmine proprietarie e locatrici dell’unità
immobiliare a uso commerciale, nonché l’esercente, che
esercitava, in qualità di conduttore dell’immobile,
l’attività di bar in ambito condominiale.
Il condominio chiedeva la condanna a far cessare l’attività
dell’esercizio commerciale di cui sopra e, in subordine, ad
adottare le misure idonee a eliminare le immissioni di
rumore.
Il Tribunale disponeva una consulenza tecnica d’ufficio
fonometrica. In corso di causa l’attività di bar contestata
e le immissioni rumorose lamentate dal condominio cessavano.
Il Tribunale di Milano, nella Sentenza firmata da Marco
Manunta, presidente della XIII Sezione Civile, sanciva
pertanto la cessazione della materia del contendere.
Tuttavia condannava tutti i convenuti in via solidale alle
spese di giudizio, dando atto che la domanda del Condominio
era fondata e che gli avventori del bar che si trovavano
all’esterno dell’esercizio provocavano rumori, schiamazzi e
quant’altro in ore notturne, oltre la soglia di normale
tollerabilità.
Specificava poi che l’articolo 8 del regolamento
condominiale vietava «qualunque fatto che possa arrecare
(...) molestia o disturbo» e, comunque, non permetteva di
destinare i negozi ad usi non «adeguati al decoro generale»
e che recassero «disturbo –sia per rumori che esalazioni o
altro– (...) alla restante parte del fabbricato».
Alla luce di tutto questo risultava, in primo luogo, che
l’amministratore era certamente legittimato processualmente
ad agire per il rispetto del regolamento, come riconosciuto
dalla costante giurisprudenza (Cassazione, sentenza
21841/2010).
In secondo luogo, risultava evidente che la pretesa fatta
valere dall’attore si presentava fondata nei confronti di
tutte le parti convenute: dell’esercizio commerciale (bar)
per l’attività di disturbo e delle altre convenute per aver
consentito la destinazione dell’immobile di loro proprietà
all’esercizio di attività lesiva del diritto alla
tranquillità, sancito nel regolamento condominiale e
particolarmente disturbante per le modalità e gli orari di
apertura del locale (articolo Il Sole 24 Ore del
19.01.2016). |
AGGIORNAMENTO AL 13.01.2016 |
ã |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
L’Amministrazione Comunale non può
unilateralmente riqualificare come di
urbanizzazione primaria le opere che prima
concordemente erano state individuate a scomputo
degli oneri di urbanizzazione secondaria e
fissare di conseguenza, sempre in modo unilaterale,
un nuovo quadro economico ben più gravoso per la
società rispetto a quello previamente pattuito,
pretendendo la corresponsione dell’ulteriore somma
di euro 579.635,59 a titolo di oneri tabellari per
quest’ultima tipologia di urbanizzazione, in quanto
ritenuti non più scomputabili.
In altri termini, a prescindere dalla legittima
riquantificazione in sede di rilascio del titolo
edilizio degli oneri tabellari dovuti ai sensi di
legge, detta operazione si è sostanziata in una vera
e propria modifica unilaterale della convezione
nell’intera sua parte economica, venendo così ad
incidere su un rapporto contrattuale ormai
cristallizzato e, quindi, insuscettibile di
variazioni senza il consenso di tutte le parti
stipulanti.
---------------
1. Con il primo mezzo di censura la società
appellante deduce l’erroneità della gravata sentenza
laddove, nel respingere il corrispondente motivo di
ricorso, ha statuito che non può “ritenersi che
la convenzione comporti un divieto di nuova
quantificazione degli oneri edilizi in sede di
rilascio del permesso di costruire”.
Secondo Ed., infatti, tale motivazione rammostra il
travisamento in cui è incorso il Tar che non avrebbe
colto le ragioni sottese alla censura dedotta, volte
non già a contestare la possibilità di
riquantificare gli oneri di urbanizzazione
tabellarmente dovuti, bensì a contestare la modifica
unilaterale da parte dell’Amministrazione del
complessivo quadro economico convenzionalmente
pattuito.
2. La doglianza è da condividere .
3. Ed invero, dalla lettura del ricorso di primo
grado emerge chiaramente come Ed. non abbia
contestato l’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione secondo le tabelle medio tempore
intervenute, tanto è vero che si è resa disponibile
a versare –come in effetti ha poi versato– la somma
di Euro 204.462,28 derivante proprio
dall’aggiornamento di cui trattasi.
Quello che l’odierna appellante ha censurato è
stata, invece, l’unilaterale modifica della
convenzione operata dall’Amministrazione,
qualificando come opere di urbanizzazione primaria
le opere che prima concordemente erano state
qualificate di urbanizzazione secondaria -e quindi
da eseguire a scomputo dei relativi oneri- e
fissando, di conseguenza, un nuovo quadro economico
del tutto diverso ed abnorme rispetto a quello
previamente pattuito.
E detta censura, così come formulata ed argomentata,
si appalesa fondata.
Invero, come ampiamente si è dato conto nella
narrativa in fatto, alla rideterminazione del quadro
economico unilateralmente operata dal Comune è
conseguito un ben maggiore aggravio finanziario per
la società rispetto a quello derivante dal mero (e
consentito) aggiornamento tabellare degli oneri, e
ciò pur a fronte dell’inalterata consistenza delle
opere poste a carico della società che, si ricorda,
hanno un valore di gran lunga superiore agli oneri
da scomputare.
Basti al riguardo considerare che a fronte
dell’importo tabellare complessivamente dovuto per
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria pari
ad euro 1.328.772, la società ha in carico la
realizzazione di opere per un importo complessivo
stimato in euro 2.301.344 e, quindi, per un valore
superiore di circa un milione di euro.
Così, pur potendo riquantificare gli oneri tabellari
dovuti ai sensi di legge, l’Amministrazione non
poteva unilateralmente riqualificare come di
urbanizzazione primaria le opere che prima
concordemente erano state individuate a scomputo
degli oneri di urbanizzazione secondaria e
fissare di conseguenza, sempre in modo unilaterale,
un nuovo quadro economico ben più gravoso per la
società rispetto a quello previamente pattuito,
pretendendo la corresponsione dell’ulteriore somma
di euro 579.635,59 a titolo di oneri tabellari per
quest’ultima tipologia di urbanizzazione, in quanto
ritenuti non più scomputabili.
Infatti per tale via l’Amministrazione, modificando
in modo unilaterale gli accordi convenzionalmente
pattuiti, è venuta profondamente a mutare in senso
negativo il peso economico gravante sulla società:
- acquisendo opere di urbanizzazione primaria per un
valore di oltre due milioni di euro rispetto ai
544.675,99 euro tabellarmente dovuti;
- determinando l’insorgere di un nuovo credito di
euro 784.097,86 nei confronti della società, pari
all’intero importo tabellare dovuto per le opere di
urbanizzazione secondaria in quanto da ritenersi non
scomputato.
In altri termini, a prescindere dalla legittima
riquantificazione in sede di rilascio del titolo
edilizio degli oneri tabellari dovuti ai sensi di
legge, detta operazione si è sostanziata in una vera
e propria modifica unilaterale della convezione
nell’intera sua parte economica, venendo così ad
incidere su un rapporto contrattuale ormai
cristallizzato e, quindi, insuscettibile di
variazioni senza il consenso di tutte le parti
stipulanti.
4. Conclusivamente, il mutamento delle condizioni di
cui alla convenzione urbanistica stipulata il
07.09.2006 operato dal Comune di Varese in modo
unilaterale e senza consenso della parte
direttamente incisa non è ammissibile e,
conseguentemente, in modo illegittimo
l’Amministrazione ha preteso dalla società la citata
somma di Euro 579.635,59 a titolo di oneri tabellari
dovuti per le opere di urbanizzazione secondaria in
quanto da ritenersi non scomputati.
5. Attesa la natura assorbente del mezzo di censura
sopra esaminato, può prescindersi dall’esame dei
restanti motivi di ricorso .
6. Per quanto sopra, assorbito quant’altro, il
ricorso va accolto siccome fondato e per
l’effetto,in riforma della sentenza impugnata, va
accolto il ricorso proposto dalla Ed. in primo grado
con ogni consequenziale effetto, così per come in
dispositivo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.01.2015 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
E'
improprio il ricorso allo strumento
della variante urbanistica semplificata ex art. 5
del d.P.R. nr. 447 del 1998 a cagione
dell’insussistenza del presupposto fattuale
richiesto dalla stessa norma;
Invero, quest’ultima -come è noto- consente la
variante in una approvazione del progetto
dell’insediamento produttivo, laddove l’area
interessata dall’intervento abbia una destinazione
incompatibile con lo stesso, soltanto a condizione
che “lo strumento urbanistico non individui aree
destinate all’insediamento di impianti produttivi
ovvero queste siano insufficienti in relazione al
progetto presentato”.
---------------
Questa Sezione ha sempre sottolineato in modo
rigoroso il carattere eccezionale e derogatorio
della procedura disciplinata dal ricordato art. 5,
la quale non può essere surrettiziamente trasformata
in una modalità “ordinaria” di variazione dello
strumento urbanistico generale: pertanto, perché a
tale procedura possa legittimamente farsi luogo,
occorre che siano preventivamente accertati in modo
oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto
richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza
nello strumento urbanistico di aree destinate ad
insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di
queste, laddove per “insufficienza” deve intendersi,
in costanza degli standard previsti, una superficie
non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine
all’insediamento da realizzare.
Più specificamente, si è affermato che, se è vero
che il concetto di sufficienza o insufficienza delle
aree esistenti va verificato “in relazione al
progetto presentato”, il che certamente significa
che esiste un margine di flessibilità e adattabilità
di quest’ultimo, per inserirlo nel contesto
risultante dallo strumento urbanistico, resta fermo,
però, che il parametro di riferimento è costituito
dallo strumento vigente, il quale non può essere
esso oggetto di modifiche per adeguarlo alle
esigenze del proponente.
A tali rilievi, poi, va aggiunto ciò che la logica
suggerisce in relazione all’ipotesi in cui il
progetto abbia a oggetto un insediamento
commerciale, e non produttivo: ipotesi rientrante
nel d.P.R. nr. 447/1998 per effetto dell’art. 1-bis
ivi inserito dal d.P.R. 07.12.2000, nr. 440, ed alla
quale quindi si estende la previsione della variante
semplificata di cui al più volte citato art. 5,
originariamente elaborata per i soli insediamenti
produttivi.
In tali casi, è evidente che il presupposto fattuale
costituito dalla assenza o insufficienza nello
strumento urbanistico di aree a destinazione
specifica e coerente con il progetto va inteso nel
senso della necessità di verificare preventivamente
la disponibilità non soltanto di aree stricto sensu
destinate a insediamenti produttivi (zone D), ma
anche di aree con destinazione commerciale, anche se
non in via esclusiva, quali certamente sono le aree
con destinazione a zona C di espansione.
---------------
Nel caso che qui occupa, il giudizio di
“insufficienza” delle aree esistenti nel P.d.F. è
scaturito non già da una ritenuta insufficienza
delle superfici bensì da un apprezzamento
tecnico-discrezionale dell’impatto che la
realizzazione della struttura avrebbe avuto sulle
diverse e residue destinazioni impresse alle
medesime aree.
Se così stanno le cose, questa Sezione ritiene molto
discutibile che in tal modo possa dirsi integrato il
presupposto normativo de quo, attraverso un quanto
meno opinabile giudizio tecnico che ha portato il
rappresentante del Comune in sede di Conferenza di
servizi a sostenere che nelle aree in questione
avrebbero potuto essere insediati solo esercizi di
vicinato (limitazione, quest’ultima, non presente
nelle disposizioni urbanistiche vigenti e che a sua
volta è discesa dal suindicato apprezzamento
tecnico-discrezionale); è evidente, infatti, che
quella dell’inserimento della struttura commerciale
nell’area in discorso e del suo raccordo con le
altre destinazioni a questa impresse dal P.d.F. era
questione afferente alle modalità esecutive
dell’insediamento, e da affrontare in una alle altre
problematiche connesse al rilascio
dell’autorizzazione unica per l’esercizio
commerciale (così come, ad esempio, quanto al
raccordo con la viabilità esistente, su cui si
tornerà appresso).
L’aver elevato tale problematica a elemento
impeditivo a monte dell’utilizzabilità delle aree in
questione, in modo da integrare il presupposto
normativo per procedere a variante urbanistica su
altra e diversa porzione del territorio comunale,
costituisce chiaro elemento indiziario di sviamento
di potere, inteso a offrire ai proponenti il
progetto la possibilità, non consentita alla stregua
della vigente disciplina urbanistica, di operare su
aree in loro proprietà non compatibili dal punto di
vista urbanistico con l’insediamento de quo.
---------------
Il più volte citato art. 5, d.P.R. nr. 447/1998
impone di tener conto “delle osservazioni proposte e
opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi
della legge 17.08.1990, n. 1150” (comma 1), e,
quindi, delle osservazioni relative alla proposta di
variante urbanistica ritualmente formulate da chi
sarebbe legittimato a proporle in base alla
legislazione urbanistica.
--------------
In tema di legislazione nazionale e regionale sulla
pianificazione commerciale, condivisibile
giurisprudenza di primo grado ha affermato che il
principio di libertà dell’iniziativa economica
privata contenuto nell’art. 41 Cost. impone di
interpretare la disciplina di cui agli artt. 6 e 8
del decreto legislativo 31.03.1998, nr. 114 (che
sono le norme base della pianificazione regionale e
comunale in subiecta materia) non con criteri
restrittivi, ma in modo da consentirne lo
svolgimento concreto, potendo essa essere limitata
solo per gravi e preminenti motivi di interesse
pubblico: pertanto, non può essere legittimamente
negato l’insediamento di nuove strutture di vendita,
né l’ampliamento di quelle esistenti, ove il diniego
sia motivato unicamente sulla base della mancanza
della fissazione dei criteri inerenti la
programmazione locale.
---------------
... avverso e per l’annullamento e/o la riforma, previa
sospensione dei suoi effetti, della sentenza del TAR della
Campania, Sezione di Salerno, Sezione Seconda, nr. 1838/11
del 16.11.2011, non notificata, che ha respinto il ricorso (nr.
1772/2008) proposto avverso la delibera del Consiglio
Comunale di Montecorvino Rovella nr. 17 del 16.06.2008 (che
ha approvato una variante urbanistica ex art. 5 del d.P.R.
20.10.1998, nr. 447, per l’insediamento di una media
struttura commerciale di vendita), nonché i successivi
motivi aggiunti proposti, tra l’altro, avverso il
provvedimento unico conclusivo del Responsabile del Settore
Tecnico del S.U.A.P. Associato della Comunità Montana “Monti
Piacentini” nr. 2/2010 del 04.03.2010 (che ha rilasciato
il titolo edilizio per la costruzione dell’opificio
commerciale e, nello stesso tempo, l’autorizzazione per
l’apertura della struttura di vendita che dovrà esservi
allocata).
...
7. La Sezione reputa invece fondato, come già anticipato in
fase cautelare, il secondo mezzo, col quale si reitera la
censura relativa all’improprio ricorso allo strumento della
variante urbanistica semplificata ex art. 5 del d.P.R. nr.
447 del 1998, a cagione dell’insussistenza del presupposto
fattuale richiesto dalla stessa norma; quest’ultima, come è
noto, consente la variante in una approvazione del
progetto dell’insediamento produttivo, laddove l’area
interessata dall’intervento abbia una destinazione
incompatibile con lo stesso, soltanto a condizione che “lo
strumento urbanistico non individui aree destinate
all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano
insufficienti in relazione al progetto presentato”.
7.1. Al riguardo, giova premettere una sintetica
ricostruzione dell’iter procedimentale per la parte che qui
interessa, nel quale le odierne appellanti hanno ritenuto di
cogliere un atteggiamento ondivago e contraddittorio da
parte del Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di
Montecorvino Rovella.
Quest’ultimo, dopo avere genericamente attestato, nella fase
iniziale della Conferenza di servizi convocata ai sensi del
precitato art. 5 del d.P.R. nr. 447/1998, la indisponibilità
di aree utili, in occasione dell’ultima seduta della
Conferenza medesima (27.02.2008) produsse un’apposita
nota con la quale, in riscontro a sollecitazioni pervenute
ab externo, precisava che per vero nel vigente assetto
urbanistico –riveniente, come già rilevato, dal P.d.F.
all’epoca in vigore nel territorio comunale– talune aree
astrattamente idonee vi sarebbero state, ma che queste non
erano in concreto sfruttabili per la realizzazione del
progetto di cui alla proposta.
Più specificamente, a quanto era dato evincere dalla detta
nota:
a) esistevano due comparti siti in zona C di espansione, per
un’estensione complessiva di circa mq 80.000, fra le cui
destinazioni vi era anche quella commerciale, ma per questi
doveva ritenersi non possibile la realizzazione di una media
struttura di vendita (quale era quella di cui alla proposta
de qua) siccome incompatibile con la prevalente destinazione
residenziale delle dette aree, sulle quali pertanto
avrebbero potuto essere realizzati soltanto esercizi “di
vicinato”;
b) esisteva, almeno formalmente, anche un’area destinata a
P.I.P. (in località Pianella), ma su di essa vi era innanzi
tutto un problema di salute pubblica, legato alle emissioni
provenienti da un elettrodotto ivi situato, che fin dal 2002
l’A.R.P.A. aveva accertato essere superiori ai minimi
consentiti dalla legislazione regionale, al punto da indurre
il Comune a programmare l’abbandono dell’area in questione,
incaricando i tecnici redattori del nuovo P.R.G. in itinere
di individuare altra area P.I.P.;
c) in ogni caso, sempre con riguardo all’area in località
Pianella, le N.T.A. del P.I.P. (art. 5) consentivano in loco
solo le “attività commerciali all’ingrosso” (e non anche
quelle al dettaglio, quale è quella per cui è causa).
7.2. Così sommariamente ricostruita la motivazione –ritenuta legittima dal primo giudice– che ha nella specie
indotto l’Amministrazione a seguire la strada della variante
semplificata ai sensi del più volte citato art. 5, d.P.R. nr.
447/1998, e acclarato che questa faceva perno non già
sull’assenza, ma sull’insufficienza delle aree a
destinazione commerciale (pure esistenti sul territorio
comunale), è opportuno richiamare, sempre in via
preliminare, alcuni principi desumibili dalla giurisprudenza
in subiecta materia.
In particolare, questa Sezione ha sempre sottolineato in
modo rigoroso il carattere eccezionale e derogatorio della
procedura disciplinata dal ricordato art. 5, la quale non
può essere surrettiziamente trasformata in una modalità
“ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico
generale: pertanto, perché a tale procedura possa
legittimamente farsi luogo, occorre che siano
preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i
presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche
l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad
insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di queste,
laddove per “insufficienza” deve intendersi, in costanza
degli standard previsti, una superficie non congrua (e,
quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da
realizzare (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.07.2011, nr.
4308; id., 25.06.2007, nr. 3593; id., 03.03.2006, nr.
1038).
Più specificamente, si è affermato che, se è vero che il
concetto di sufficienza o insufficienza delle aree esistenti
va verificato “in relazione al progetto presentato”, il che
certamente significa che esiste un margine di flessibilità e
adattabilità di quest’ultimo, per inserirlo nel contesto
risultante dallo strumento urbanistico, resta fermo, però,
che il parametro di riferimento è costituito dallo strumento
vigente, il quale non può essere esso oggetto di modifiche
per adeguarlo alle esigenze del proponente (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, nr. 3593/2007, cit.).
A tali rilievi, poi, va aggiunto ciò che la logica
suggerisce in relazione all’ipotesi in cui il progetto abbia
a oggetto un insediamento commerciale, e non produttivo:
ipotesi rientrante nel d.P.R. nr. 447/1998 per effetto
dell’art. 1-bis ivi inserito dal d.P.R. 07.12.2000, nr.
440, ed alla quale quindi si estende la previsione della
variante semplificata di cui al più volte citato art. 5,
originariamente elaborata per i soli insediamenti
produttivi.
In tali casi, è evidente che il presupposto fattuale
costituito dalla assenza o insufficienza nello strumento
urbanistico di aree a destinazione specifica e coerente con
il progetto va inteso nel senso della necessità di
verificare preventivamente la disponibilità non soltanto di
aree stricto sensu destinate a insediamenti produttivi (zone
D), ma anche di aree con destinazione commerciale, anche se
non in via esclusiva, quali certamente sono le aree con
destinazione a zona C di espansione.
7.3. Tutto ciò premesso, nel caso che qui occupa il giudizio
di “insufficienza” delle aree esistenti nel P.d.F. è
scaturito non già da una ritenuta insufficienza delle
superfici (ché non risulta contestato da nessuno, né durante
il procedimento amministrativo, né nel presente giudizio,
che la predetta zona C fosse per estensione ampiamente in
grado di accogliere l’insediamento de quo), bensì da un
apprezzamento tecnico-discrezionale dell’impatto che la
realizzazione della struttura avrebbe avuto sulle diverse e
residue destinazioni impresse alle medesime aree.
Se così stanno le cose, questa Sezione ritiene molto
discutibile che in tal modo possa dirsi integrato il
presupposto normativo de quo, attraverso un quanto meno
opinabile giudizio tecnico che ha portato il rappresentante
del Comune in sede di Conferenza di servizi a sostenere che
nelle aree in questione avrebbero potuto essere insediati
solo esercizi di vicinato (limitazione, quest’ultima, non
presente nelle disposizioni urbanistiche vigenti e che a sua
volta è discesa dal suindicato apprezzamento
tecnico-discrezionale); è evidente, infatti, che quella
dell’inserimento della struttura commerciale nell’area in
discorso e del suo raccordo con le altre destinazioni a
questa impresse dal P.d.F. era questione afferente alle
modalità esecutive dell’insediamento, e da affrontare in una
alle altre problematiche connesse al rilascio
dell’autorizzazione unica per l’esercizio commerciale (così
come, ad esempio, quanto al raccordo con la viabilità
esistente, su cui si tornerà appresso).
L’aver elevato tale problematica a elemento impeditivo a
monte dell’utilizzabilità delle aree in questione, in modo
da integrare il presupposto normativo per procedere a
variante urbanistica su altra e diversa porzione del
territorio comunale, costituisce chiaro elemento indiziario
di sviamento di potere, inteso a offrire ai proponenti il
progetto la possibilità, non consentita alla stregua della
vigente disciplina urbanistica, di operare su aree in loro
proprietà non compatibili dal punto di vista urbanistico con
l’insediamento de quo.
...
11. Infondato è anche il motivo con cui ci si duole
dell’omesso esame delle osservazioni pervenute durante la
procedura di variante urbanistica.
Al riguardo, giova premettere che il più volte citato art.
5, d.P.R. nr. 447/1998 impone di tener conto “delle
osservazioni proposte e opposizioni formulate dagli aventi
titolo ai sensi della legge 17.08.1990, n. 1150” (comma
1), e, quindi, delle osservazioni relative alla proposta di
variante urbanistica ritualmente formulate da chi sarebbe
legittimato a proporle in base alla legislazione
urbanistica.
Orbene, non pare a questa Sezione che nella specie sia stata
del tutto omessa la considerazione delle osservazioni
pervenute: innanzi tutto, come già sopra evidenziato, è
proprio sulla scorta delle dette osservazioni che il
Responsabile del Settore Urbanistica del Comune procedette,
superando l’iniziale generica attestazione di insussistenza
di aree a destinazione commerciale, a quel peculiare
“approfondimento” sulle aree esistenti nel P.d.F. e sulla
loro insufficienza (del quale si è vista, per altro
riguardo, l’illegittimità).
Quanto sopra dimostra che le osservazioni pervenute da parte
degli aventi titolo sono state realmente esaminate e prese
in considerazione, non essendo indispensabile, a tal fine,
che nei verbali della Conferenza fosse inserita un’espressa
e specifica motivazione in replica o a confutazione di
ciascun singolo rilievo in esse formulato.
12. Va respinta anche la censura articolata in primo grado
in ordine alla pretesa illegittimità degli atti impugnati a
causa della mancanza della previa pianificazione degli
insediamenti commerciali, non essendosi il Comune di
Montecorvino Rovella ancora dotato del S.I.A.D. previsto
dall’art. 13, comma 1, della già citata l.r. nr. 1 del 2000.
Ed invero, in tema di legislazione nazionale e regionale
sulla pianificazione commerciale, condivisibile
giurisprudenza di primo grado ha affermato che il principio
di libertà dell’iniziativa economica privata contenuto
nell’art. 41 Cost. impone di interpretare la disciplina di
cui agli artt. 6 e 8 del decreto legislativo 31.03.1998, nr. 114 (che sono le norme base della pianificazione
regionale e comunale in subiecta materia), non con criteri
restrittivi, ma in modo da consentirne lo svolgimento
concreto, potendo essa essere limitata solo per gravi e
preminenti motivi di interesse pubblico: pertanto, non può
essere legittimamente negato l’insediamento di nuove
strutture di vendita, né l’ampliamento di quelle esistenti,
ove il diniego sia motivato unicamente sulla base della
mancanza della fissazione dei criteri inerenti la
programmazione locale (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2016 n. 27 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'attività cinotecnica
che –per espressa definizione
normativa– è configurabile come attività agricola, diretta
all’allevamento, addestramento e selezione delle razze
canine.
La disciplina della cd. “cinotecnica” è
racchiusa nella L. 349/1993, ai sensi della quale consiste
nell’attività “volta all'allevamento, alla selezione e
all'addestramento delle razze canine” (art. 1, comma 1),
mentre assume natura imprenditoriale agricola “quando i
redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di
altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso
soggetto” (art. 2, comma 1): tali soggetti così definiti
sono “imprenditori agricoli, ai sensi dell'articolo 2135 del
codice civile”.
Una prima riflessione conduce a ritenere plausibile, in
quanto giuridicamente ammissibile, l’espletamento
dell’attività cinotecnica in forma non imprenditoriale,
secondo quanto stabilisce lo stesso art. 2, comma 3, della
L. 349/1993 per cui “Non sono comunque imprenditori agricoli
gli allevatori che producono nell'arco di un anno un numero
di cani inferiore a quello determinato, per tipi o per
razze, con decreto del Ministro dell'agricoltura e delle
foreste da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata
in vigore della presente legge”.
A questo proposito, il D.M. 28/01/1994 statuisce che “Non
sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in
allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che
annualmente producono un numero di cuccioli inferiore alle
trenta unità”. Il legislatore regolamenta l’attività
cinotecnica svolta in forma professionale, ponendo alcuni
requisiti minimi (afferenti al reddito e al numero di capi),
in difetto dei quali il soggetto interessato non assume la
qualifica di imprenditore agricolo.
In buona sostanza, la L. 349/1993 non impone a colui che
esercita l’attività cinotecnica di assumere necessariamente
lo status di imprenditore agricolo.
----------------
Né tale conclusione si evince dalla previsione
pianificatoria del Comune per la quale nell’area ricadente
nel PLIS sono ammessi soltanto “interventi connessi
all’attività agricola, attività agrituristiche,
realizzazione di servizi e attrezzature pubbliche o di uso o
interesse pubblico”.
Innanzitutto non appare direttamente pertinente il richiamo
agli artt. 59 e ss. della L.r. 12/2005, i quali disciplinano
gli interventi edificatori in zona agricola, mentre
l’iniziativa economica di cui si controverte non prevede la
realizzazione di opere edili.
Lo stesso art. 2135 del c.c. –nello stabilire il criterio di
collegamento dell'attività economica con il fattore
produttivo “terra”, individuando le “attività connesse” come
quelle che si inseriscono nel ciclo dell'economia agricola-
è comunque rubricato “imprenditore agricolo”, e dunque si
rivolge ai soggetti che (diversamente dal caso di specie)
prestano l’attività in forma professionale.
Osserva infine il Collegio che l’art. 7 delle NTA già
citato, nella sua formulazione letterale, permette gli
interventi connessi all’attività agricola “contemplati dalla
vigente legislazione”, in tal modo effettuando un rinvio
recettizio di tipo dinamico alle disposizioni normative
vigenti, tra le quali acquistano rilevanza gli artt. 1 e 2
della L. 349/1996.
---------------
Un ulteriore profilo investe la definizione di attività
cinotecnica, che ad avviso della resistente difesa deve
necessariamente comprendere l’allevamento e la selezione
canina.
Nell’ambiguità della norma, che semplicemente elenca le tre
tipologie di attività (ossia allevamento, selezione e
addestramento delle razze canine), il Collegio non ravvisa
ragioni logiche per escludere la sua operatività nel caso di
iniziative limitate al solo addestramento.
Se, come già rilevato, è ammessa l’attività in forma non
imprenditoriale, è ipotizzabile che la specializzazione
investa esclusivamente una delle 3 fasi normativamente
contemplate e che l’operatore effettui le prestazioni
coinvolgendo gli animali che vengono di volta in volta
condotti in loco dai rispettivi proprietari.
Se è logico ritenere che, in via ordinaria, l’addestramento
sia rivolto agli animali allevati sul fondo, è comunque
ragionevole consentire che il predetto singolo segmento
qualificante dell’attività possa essere valorizzato secondo
l’indicazione (non esplicitamente preclusiva) fornita dalla
norma.
---------------
La pet therapy consiste effettivamente in un’attività
terapeutica di promozione della salute dei soggetti
beneficiari, i quali si trovano in condizioni di particolare
debolezza o fragilità: l’instaurazione di una relazione
positiva con l’animale domestico realizza un evidente
interesse di portata generale, ossia il miglioramento del
benessere degli individui in difficoltà.
La cura delle patologie che affliggono talune persone
mediante l’ausilio di animali ben può rientrare nella
definizione di “servizi di interesse pubblico”, adoperata
dall’amministrazione per descrivere gli interventi ammessi
nella zona ove la ricorrente svolge la propria attività.
---------------
...
per l'annullamento
DELL’ORDINANZA DEL RESPONSABILE DELLO SPORTELLO UNICO PER LE
ATTIVITA’ PRODUTTIVE IN DATA 05/08/2014, CHE HA DISPOSTO LA
CESSAZIONE IMMEDIATA DELL’ATTIVITA’ DI ADDESTRAMENTO CANI
ESERCITATA IN VIRTU’ DELLA SCIA DEL 16/06/2014.
...
FATTO
In data 25/11/2013 la ricorrente depositava
all’amministrazione comunale una prima SCIA per l’avvio di
una nuova attività di onoterapia, pet therapy, addestramento
(doc. 2 Comune). Con successiva SCIA presentata il
16/06/2014, la Sig.ra Mi. integrava la dichiarazione
precedente, segnalando una variazione consistente
nell’addestramento di cani –singolarmente o in gruppo– con
un massimo di 10 unità.
Con l’atto impugnato, il Commissario
aggiunto inibiva l’esercizio dell’attività, la quale si
svolgerebbe in area agricola ricadente nel Parco della Savarona, per il quale l’art. 7 delle NTA del Piano dei
Servizi consente soltanto –fino all’adozione dello
strumento di pianificazione specifico per il Parco–
“interventi connessi all’attività agricola, attività
agrituristiche, realizzazione di servizi e attrezzature
pubbliche o di uso o interesse pubblico”.
Con gravame ritualmente notificato e tempestivamente
depositato presso la Segreteria della Sezione, l’esponente
impugna il provvedimento in epigrafe, illustrando le
seguenti censure in diritto:
a) Violazione degli artt. 1 e 2 della L. 23/08/1993 n. 349,
in quanto l’attività cinotecnica –per espressa definizione
normativa– è configurabile come attività agricola, diretta
all’allevamento, addestramento e selezione delle razze
canine;
b) Violazione degli artt. 1 e 2 della L. 349/1993 sotto altro
profilo, eccesso di potere per carenza di motivazione dal
momento che, secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, in zona agricola sono del tutto incompatibili
gli insediamenti residenziali, mentre sono ammessi utilizzi
di tipo intermedio tra quello agricolo e quello edificatorio
(ad esempio, parcheggio, caccia, sport, agriturismo), tra
l’altro in assenza di opere edilizie;
c) Eccesso di potere per illogicità manifesta, dato che la
pet therapy consiste in un’attività terapeutica finalizzata
a migliorare la salute di un paziente (appartenente a fasce
fragili, come anziani, malati, disabili fisici e psichici)
avvalendosi di animali domestici come cani, gatti, cavalli,
asini, conigli, capre, maiali, volatili; dunque si realizza
un chiaro interesse pubblico, trattandosi anche di favorire
la convivenza tra uomo e cane.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione, chiedendo la
reiezione del gravame. In particolare sottolinea in punto di
fatto che la Sig.ra Mi. è priva della qualifica di
imprenditore agricolo e che l’area in cui insiste l’attività
si trova all’interno di un Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS). La ricorrente è munita della sola
agibilità sanitaria per un’attività asini-amatoriale (priva
di collegamento con l’attività economica legata
all’agricoltura).
Con la SCIA del 16/06/2014 ha introdotto
l’addestramento di cani, con conseguente trasformazione
dell’attività da amatoriale a professionale. In punto di
diritto, l’amministrazione invoca l’art. 1 della L. 349/1993,
per cui è attività riconducibile all’agricoltura soltanto
quella che contempla l’allevamento e la selezione dei cani
(in connessione inscindibile con l’addestramento), e che
presuppone in aggiunta il titolo di imprenditore agricolo
(circostanza desumibile dall’art. 7 delle NTA del Piano dei
Servizi, che richiamano gli interventi regolati all’art. 59
della L.r. 12/2005). Anche la recinzione (in precedenza
soltanto amovibile) non è consentita dall’art. 7.
Con ordinanza n. 1009, emessa alla Camera di consiglio del
05/12/2014, questo Tribunale ha motivatamente accolto la
domanda cautelare.
Alla pubblica udienza del 02.12.2015 il gravame
introduttivo è stato chiamato per la discussione e
trattenuto in decisione.
DIRITTO
La ricorrente censura il provvedimento comunale che ha
paralizzato gli effetti della SCIA depositata il 16/06/2014.
1. Ad avviso del Collegio sono anzitutto fondati i primi due
motivi di ricorso, per le ragioni illustrate di seguito.
1.1 La disciplina della cd. “cinotecnica” è racchiusa nella
L. 349/1993, ai sensi della quale consiste nell’attività
“volta all'allevamento, alla selezione e all'addestramento
delle razze canine” (art. 1, comma 1), mentre assume natura
imprenditoriale agricola “quando i redditi che ne derivano
sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività
economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto” (art.
2, comma 1): tali soggetti così definiti sono “imprenditori
agricoli, ai sensi dell'articolo 2135 del codice civile”.
1.2 Una prima riflessione conduce a ritenere plausibile, in
quanto giuridicamente ammissibile, l’espletamento
dell’attività cinotecnica in forma non imprenditoriale,
secondo quanto stabilisce lo stesso art. 2, comma 3, della L.
349/1993 per cui “Non sono comunque imprenditori agricoli gli
allevatori che producono nell'arco di un anno un numero di
cani inferiore a quello determinato, per tipi o per razze,
con decreto del Ministro dell'agricoltura e delle foreste da
emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
della presente legge”.
A questo proposito, il D.M. 28/01/1994
statuisce che “Non sono imprenditori agricoli gli allevatori
che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque
fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli
inferiore alle trenta unità”. Il legislatore regolamenta
l’attività cinotecnica svolta in forma professionale,
ponendo alcuni requisiti minimi (afferenti al reddito e al
numero di capi), in difetto dei quali il soggetto
interessato non assume la qualifica di imprenditore
agricolo.
1.3 In buona sostanza, la L. 349/1993 non impone a colui che
esercita l’attività cinotecnica di assumere necessariamente
lo status di imprenditore agricolo.
Né tale conclusione si
evince dalla previsione pianificatoria del Comune di
Quinzano d’Oglio (art. 7 delle NTA del Piano dei Servizi),
per la quale nell’area ricadente nel PLIS sono ammessi
soltanto “interventi connessi all’attività agricola,
attività agrituristiche, realizzazione di servizi e
attrezzature pubbliche o di uso o interesse pubblico”.
Innanzitutto non appare direttamente pertinente il richiamo
agli artt. 59 e ss. della L.r. 12/2005, i quali disciplinano
gli interventi edificatori in zona agricola, mentre
l’iniziativa economica di cui si controverte non prevede la
realizzazione di opere edili.
Lo stesso art. 2135 del c.c. –nello stabilire il criterio di collegamento dell'attività
economica con il fattore produttivo “terra”, individuando le
“attività connesse” come quelle che si inseriscono nel ciclo
dell'economia agricola (cfr. Corte di Cassazione, sez. I
civile –10/5/2013 n. 11237)– è comunque rubricato
“imprenditore agricolo”, e dunque si rivolge ai soggetti che
(diversamente dal caso di specie) prestano l’attività in
forma professionale.
Osserva infine il Collegio che l’art. 7
delle NTA già citato, nella sua formulazione letterale,
permette gli interventi connessi all’attività agricola
“contemplati dalla vigente legislazione”, in tal modo
effettuando un rinvio recettizio di tipo dinamico alle
disposizioni normative vigenti, tra le quali acquistano
rilevanza gli artt. 1 e 2 della L. 349/1996.
1.4 Un ulteriore profilo investe la definizione di attività
cinotecnica, che ad avviso della resistente difesa deve
necessariamente comprendere l’allevamento e la selezione
canina. Nell’ambiguità della norma, che semplicemente elenca
le tre tipologie di attività (ossia allevamento, selezione e
addestramento delle razze canine), il Collegio non ravvisa
ragioni logiche per escludere la sua operatività nel caso di
iniziative limitate al solo addestramento.
Se, come già
rilevato, è ammessa l’attività in forma non imprenditoriale,
è ipotizzabile che la specializzazione investa
esclusivamente una delle 3 fasi normativamente contemplate e
che l’operatore effettui le prestazioni coinvolgendo gli
animali che vengono di volta in volta condotti in loco dai
rispettivi proprietari.
Se è logico ritenere che, in via
ordinaria, l’addestramento sia rivolto agli animali allevati
sul fondo, è comunque ragionevole consentire che il predetto
singolo segmento qualificante dell’attività possa essere
valorizzato secondo l’indicazione (non esplicitamente
preclusiva) fornita dalla norma.
2. Appare meritevole di positivo apprezzamento anche il
terzo motivo, con il quale parte ricorrente deduce l’eccesso
di potere per illogicità manifesta, in quanto la pet therapy
consiste effettivamente in un’attività terapeutica di
promozione della salute dei soggetti beneficiari, i quali si
trovano in condizioni di particolare debolezza o fragilità:
l’instaurazione di una relazione positiva con l’animale
domestico realizza un evidente interesse di portata
generale, ossia il miglioramento del benessere degli
individui in difficoltà.
La cura delle patologie che
affliggono talune persone mediante l’ausilio di animali ben
può rientrare nella definizione di “servizi di interesse
pubblico”, adoperata dall’amministrazione per descrivere gli
interventi ammessi nella zona ove la ricorrente svolge la
propria attività.
In conclusione, la pretesa è fondata e merita accoglimento,
con conseguente annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 05.01.2016 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Il Direttore dei Lavori può ordinare varianti in
corso d'opera ancorché in carenza della preventiva
approvazione del comune.
In tema di appalto di opera
pubblica, qualora i lavori appaltati dal Comune
siano variati per ordine scritto del direttore dei
lavori, che si palesi carente dell'indicazione della
preventiva approvazione dell'amministrazione
committente, ma che successivamente siano
autorizzati con una perizia di variante e
suppletiva, ai sensi dell'art. 342 della legge
20.03.1865 n. 2248 all. F e dall'art. 13 del
capitolato generale di appalto approvato con il
d.P.R. 16.07.1962 n. 1063 (applicabili ratione
temporis), e con la conseguente delibera del
consiglio comunale, l'originaria irregolarità
dell'ordine privo di quell'indicazione deve
ritenersi sanata in virtù dell'intervenuta ratifica
dell'ordine medesimo.
---------------
4.1. L'esercizio
dello ius varlandi dell'Amministrazione,
nell'ambito del rapporto contrattuale di appalto
pubblico, incontra i limiti dettati (ratione
temporis) dall'art. 342 e ss. della L. n. 2248
del 1865 (All. F) e dagli artt. 13 e 14 del d.P.R.
n. 1063 del 1962 (Capitolato Generale 00.PP.).
4.2. Alla luce di tali previsioni,
le variazioni al progetto dell'opera pubblica
possono legittimamente intervenire in tre casi,
specificamente nominati:
a) a seguito dell'ordine scritto del Direttore dei
lavori, con la «superiore approvazione»
dell'Amministrazione appaltante;
b) in caso di assoluta urgenza, su richiesta del
D.L. (il quale dovrà darne avviso
all'Amministrazione appaltante),
c) quando sia reputato utile o necessario introdurre
variazioni o aggiunge non previste dal contratto e
che comportino variazioni di prezzo, mediante
l'approvazione da parte della D.L. di una perizia
suppletiva.
4.3. Nel caso di specie, l'impresa ricorrente
invoca, al contempo, l'esistenza di un ordine
scritto del D.L., ma anche l'esistenza di una
perizia di variante approvata dall'Amministrazione
comunale oltre che l'urgente necessità
dell'intervento.
4.4. Ma se l'urgente necessità è stata espressamente
esclusa dalla Corte territoriale, con sintetica ma
chiara motivazione (alle pp. 10-11 della sentenza),
così che è da escludere la fondatezza della
doglianza proposta al riguardo con il secondo mezzo
di cassazione, nessuna idonea considerazione è stata
espressa dal giudice distrettuale a proposito della
legittimità (o meno) delle altre due ipotesi di
esercizio del ius variandi, pure avanzate e
riscontrate nella stessa premessa motivazionale
della decisione.
4.5. In particolare, non appare
corretta l'esclusione della legittimità della prima
di tali ipotesi di esercizio del ius variandi
dell'Amministrazione (quello della variazione
determinatasi a seguito dell'ordine scritto da parte
del Direttore dei lavori, con la «superiore
approvazione» dell'Amministrazione appaltante,
di cui all'art. 342, 1° co., disp. cit.) in quanto
l'omessa indicazione dei profili formali della
approvazione da parte dell'Autorità amministrativa
nell'ordine impartito dalla Direzione Lavori, pur
avendo un preciso rilievo (avendo il significato di
esplicitare la rispondenza di esso ai voleri
dell'amministrazione appaltante), non appare
decisivo ai fini della legittimità dell'ordine non
dovendo esso necessariamente sussistere al momento
in cui il DL abbia impartito l'ordine scritto.
4.5.2. Come già questa stessa Corte ha affermato, un
tale requisito può intervenire anche in un momento
successivo, a sanatoria dell'ordine (in ipotesi
annullabile) ma formalmente dato.
4.5.3. Infatti, non solo alla luce degli artt.
21-octies e 21-nonies della L. n. 241 del 1990, non
applicabili ratione temporis, ma sulla base
dei principi che sono ad essi sottesi, invocabili
anche con riferimento al caso esaminato, in quanto
immanenti nel sistema, questa Corte
ha in passato già affermato, finanche in caso di
ordine non scritto, il principio di sanatoria,
quando
(Sez. l, Sentenza n. 5172 del 1994)
ha stabilito che «In
caso di variazioni ai lavori appaltati da un comune
non disposte con ordine scritto da parte del
direttore del lavori (come prescritto dall'art. 342
della legge 20.03.1865 n. 2248 all. F e dall'art. 13
del capitolato generale di appalto approvato con il
d.P.R. 16.07.1962 n. 1063), ma riassunte in una
perizia di variante, l'approvazione della perizia da
parte della giunta comunale che agisca in via di
urgenza con i poteri del consiglio comunale
(nella specie, sciolto ed in attesa di rinnovo)
sana l'irregolarità derivante dalla mancanza
dell'ordine scritto e comporta il riconoscimento del
diritto dell'appaltatore a ricevere il compenso per
le opere eseguite, anche se il nuovo consiglio
comunale non ratifichi la delibera della giunta,
atteso che, ai sensi dell'art. 140 del T.U. sulla
legge comunale e provinciale, di cui al R.D.
04.02.1915 n. 148, la mancata ratifica, da parte del
consiglio comunale, della delibera assunta della
giunta comunale in via d'urgenza non può elidere gli
effetti prodotti "medio tempore" dal provvedimento
della giunta.».
4.6. Ne deriva la fondatezza della censura di
violazione di legge ove la stessa sia intesa a far
rilevare l'errore, così come commesso da parte della
Corte territoriale, costituito dal mancato rispetto
del principio del richiamo formale dell'approvazione
dell'organo superiore quand'anche tale approvazione
sia intervenuta in un momento successivo, vuoi
attraverso la redazione ed approvazione della
perizia di variante, vuoi con la deliberazione di
approvazione di questa con riferimento alle opere
che non hanno formato oggetto del contratto
originario.
4.7. La Corte territoriale, infatti, ha considerato
decisiva la mancanza dell'approvazione al momento
della formulazione dell'ordine, da parte della D.L.
all'impresa, senza considerare che l'approvazione è,
tuttavia, intervenuta, sia pure in un momento di
poco posteriore.
4.8. Del resto, tale approvazione (indipendentemente
dalle successive vicende del provvedimento dapprima
dato, poi revocato ed infine confermato: da
considerarsi irrilevanti, dovendo riferirsi al solo
momento approvativo, successivo all'ordine del DL) è
consistita anche nell'approvazione di una perizia di
variante e suppletiva, secondo quella terza ipotesi
di esercizio legittimo del ius variandi da
parte dell'Amministrazione. Ciò che non ha formato
oggetto di specifica considerazione da parte del
giudice distrettuale, con violazione della norma di
legge e dell'obbligo motivazionale.
4.9. Infine, a completamento del ragionamento
giudiziale, resta del tutto esterna la questione dei
limiti quantitativi della variazione apportata
rispetto al credito dell'appaltatore (potendo questo
subire anche legittime decurtazioni ove tali limiti
siano stati superati) e rispetto al finanziamento
che l'Amministrazione abbia richiesto (profilo che
non attiene al rapporto contrattuale ma alla
provvista dei mezzi, che è problema tutto esterno al
contratto e interno all'attività della stazione
appaltante).
4.10. Ne segue la cassazione con rinvio della
sentenza affinché, in diversa composizione la Corte
territoriale riesamini le risultanze processuali
alla luce del seguente principio di diritto: "In
tema di appalto di opera pubblica, qualora i lavori
appaltati dal Comune siano variati per ordine
scritto del direttore dei lavori, che si palesi
carente dell'indicazione della preventiva
approvazione dell'amministrazione committente, ma
che successivamente siano autorizzati con una
perizia di variante e suppletiva, ai sensi dell'art.
342 della legge 20.03.1865 n. 2248 all. F e
dall'art. 13 del capitolato generale di appalto
approvato con il d.P.R. 16.07.1962 n. 1063
(applicabili ratione temporis), e con la conseguente
delibera del consiglio comunale, l'originaria
irregolarità dell'ordine privo di quell'indicazione
deve ritenersi sanata in virtù dell'intervenuta
ratifica dell'ordine medesimo"
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 18.12.2015 n. 25524). |
EDILIZIA PRIVATA:
Grandi distributori automatici con
licenza edilizia.
Per installare dei distributori automatici di
alimenti e bevande di grandi dimensioni sulle strade
con caratteristiche di ingombro non dissimili da
quelle di un chiosco serve la licenza edilizia.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con
la
sentenza 06.11.2015 n. 5064.
Un esercente titolare di concessione per
l'occupazione di suolo pubblico con distributori
automatici è entrato in conflitto con il comune di
Crotone a causa del posizionamento di un impianto
nel centro abitato.
In sede di contenzioso amministrativo il Tar ha
confermato in parte la decisione del comune
stabilendo l'irregolarità urbanistico edilizia
dell'installazione. E i giudici di palazzo Spada
hanno confermato questa decisione.
In pratica i distributori automatici di alimenti e
bevande se hanno caratteristiche dimensionali
importanti sono assimilabili a un chiosco quindi
l'impatto visivo del manufatto determina una
effettiva trasformazione dello stato dei luoghi.
Quindi al di là di tutte le altre considerazioni di
carattere amministrativo per il posizionamento degli
impianti più grandi su una strada o una piazza
comunale serve un permesso di costruire
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).
---------------
MASSIMA
... per la riforma della sentenza del TAR
CALABRIA–CATANZARO, SEZIONE II, n. 478/2015, resa
tra le parti, concernente demolizione di opere
abusivamente realizzate consistenti
nell'installazione di due distributori automatici di
bevande e alimenti;
...
... il Collegio ritiene che l’appello non possa
trovare accoglimento, per ragioni di merito che
consentono di assorbire qualsiasi questione
preliminare.
Appare infatti necessario sottolineare, in primo
luogo, che il ricordato regolamento TOSAP –nel
prescrivere i pareri del servizio dei Lavori
pubblici e del Servizio urbanistica– non avrebbe
potuto derogare alle prescrizioni, di rango
superiore, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo
Unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia), che nell’art. 3, comma 1,
lettera e), punto e.5, definisce “interventi di
nuova costruzione” –soggetti a permesso di
costruire, a norma del successivo art. 10– “l’installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati e di
strutture di qualsiasi genere, quali roulottes,
campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro,
oppure come depositi, magazzini e simili e che non
siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee, salvo che siano installati, con
temporaneo ancoraggio al suolo, all’interno di
strutture ricettive all’aperto, in conformità alla
normativa regionale di settore, per la sosta e il
soggiorno di turisti”.
L’art. 6 “attività edilizia libera”, comma 1,
lettera e), a sua volta, esclude l’esigenza di
titolo abilitativo per “le aree ludiche senza
fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici”.
I distributori automatici di
alimenti e bevande potrebbero essere inseriti, in
effetti, nell’una o nell’altra categoria, a seconda
della relativa collocazione e delle effettive
dimensioni (che solo ove molto ridotte
giustificherebbero l’assimilazione degli stessi a
meri arredi, se situati all’interno o nelle aree
pertinenziali degli edifici).
Nella situazione in esame, tuttavia,
la documentazione anche fotografica in atti
mostra un manufatto a sé stante di dimensioni non
irrisorie, destinato ad occupare circa tre metri
quadrati di suolo pubblico, con caratteristiche non
dissimili da quelle di un chiosco e di impatto
visivo tale da determinare una effettiva
trasformazione dello stato dei luoghi, con
conseguente necessità di permesso di costruire.
Non appare possibile sostenere, in
senso contrario, che la struttura di cui trattasi
–in quanto oggetto di una concessione temporanea per
l’occupazione di suolo pubblico– non fosse destinata
al soddisfacimento di esigenze stabili, in quanto
confermano la necessità del titolo edilizio la non
manifesta temporaneità dell’installazione, nonché la
prevista proroga tacita della concessione ad ogni
scadenza e la stessa impostazione difensiva
dell’appellante (che postula la trasformazione in
diritto quesito dell’affidamento, maturato in ordine
ad una determinata collocazione).
La documentazione depositata dal Comune, inoltre,
non conferma alcune prospettazioni dell’appellante,
che aveva affermato di avere accettato solo un
temporaneo spostamento, in coincidenza di lavori di
sistemazione dell’intero piazzale e della relativa
pavimentazione, con l’aspettativa di riottenere il
medesimo posizionamento al termine dei lavori
stessi.
Tali affermazioni potrebbero apparire avallate da
una nota del Comune di Crotone del 23.06.2011 (n.
prot. 34135), in cui –dato l’imminente inizio delle
opere di sistemazione– il dirigente comunale di
settore, con atto a firma anche del responsabile
unico del procedimento, comunicava la necessità e
l’urgenza di spostare il manufatto di cui trattasi “e
contestualmente di definire un nuovo e più idoneo
posizionamento nell’ambito dello stesso piazzale”:
a tale comunicazione si riferiva, appunto, la
medesima appellante nel richiedere, con nota
protocollata presso il Comune il 06.05.2013 (n. prot.
20130021541) il riposizionamento della struttura
nella piazza di originaria collocazione, in base
alla concessione di occupazione permanente di suolo
pubblico n. 31 del 30.04.2009.
Veniva ignorata, tuttavia, la comunicazione della
già citata società concessionaria Ak. s.p.a. n.
373/2011 del 25.10.2011, con cui si escludeva il
rinnovo della predetta concessione n. 31 del 2009 “alla
scadenza naturale del 31.12.2011”, con disposta
rimozione del manufatto.
Tale comunicazione faceva seguito, peraltro, al
provvedimento della medesima Ak. n. 83/2010 del
16.03.2010, che escludeva il tacito rinnovo di detta
concessione (in conformità alle clausole, contenute
nella medesima), con affermata disponibilità ad
esaminare con la ditta interessata nuove zone di
posizionamento (in effetti successivamente
individuate, con concessione n. 5 del 2012).
Di tali pregresse disposizioni non sembra sia stata
data notizia al commissario ad acta, che
registrava solo una comunicazione del Comune di non
poter rilasciare “ulteriori” concessioni di
occupazione di suolo pubblico nel piazzale di cui
trattasi (in quanto interessato da un nuovo progetto
di sistemazione), rilevando al riguardo che la ditta
Spina sarebbe già stata “attualmente titolare
della predetta concessione”.
Il Collegio non è chiamato, in ogni caso, a valutare
la pronuncia del commissario ad acta, né i
presupposti e gli effetti della revoca (che non
risulta impugnata) dell’originaria concessione di
suolo pubblico, in quanto il successivo ordine di
rimozione d’ufficio (n. 12 del 13.01.2015) risulta
emesso per assenza di titolo abilitativo, a norma
dell’art. 27 (vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia) del d.P.R. n. 380 del 2001,
che disciplina l’esecuzione di opere senza titolo su
aree di proprietà pubblica, nonché in ogni caso di
difformità dalle norme urbanistiche.
Nel ritenere che tale determinazione sia stata
legittimamente emessa, il giudice di primo grado ha
espresso considerazioni condivisibili, per le
ragioni già in precedenza illustrate, né può
sostenersi che tale giudizio violasse l’art. 112
Cod. proc. civ., non potendosi esaminare le
argomentazioni difensive della ricorrente senza un
necessario raffronto con la motivazione dell’atto
impugnato, ovvero con la necessità (anche se per il
passato non rilevata) che il manufatto in questione
richiedesse l’apposito permesso di costruire.
Ugualmente condivisibile, pertanto, in assenza di
tale necessario presupposto, non poteva che
ritenersi l’esito negativo della segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA) n. prot. 2281
del 16.01.2015.
Indipendentemente quindi da ogni considerazione
sulla tutela, invocata dall’appellante, del suo
affidamento, sta di fatto che nella situazione in
esame –posto che per “concessione permanente”
si intende un titolo stabile, ma non irrevocabile
alle scadenze, soprattutto in presenza di superiori
interessi pubblici (nel caso di specie: ragioni di
decoro della piazza oggetto di restauro)– l’unica
circostanza ai presenti riguardi addebitabile
all’Amministrazione appare, in conclusione, quella
di non essersi pronunciata –ferma la sua autonoma
valutazione al riguardo- sull’istanza di
riposizionamento, pervenuta il 06.05.2013.
Non può tuttavia ignorarsi che detta istanza non
teneva in alcun conto due successive comunicazioni (nn.
83 del 2010 e 373 del 2011), con cui la società
concessionaria del Comune per le occupazioni di
suolo pubblico escludeva il rinnovo, alla scadenza,
della concessione di cui trattasi.
In tale contesto il Collegio ritiene che debba
disporsi il rigetto dell’appello, poiché la
documentazione in atti esclude comunque sia un reale
affidamento dell’istante, sia le conseguenze
risarcitorie per il c.d. “danno da ritardo”;
tale ritardo dell’Amministrazione, nell’esplicitare
le ragioni di rigetto dell’istanza del 2013,
costituisce però, ad avviso del Collegio stesso,
ragione sufficiente per disporre la compensazione
delle spese giudiziali. |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
LA CORTE DEI CONTI SU NUOVO ORDINAMENTO CONTABILE
E SOTTOSCRIZIONE DEL CONTRATTO DECENTRATO
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 08.01.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Parziale rettifica del comunicato del Presidente del
10.11.2015 a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1,
comma 501 della legge 28.12.2015, n. 208 (comunicato
del Presidente 08.01.2016 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Estesa ai Comuni con meno di 10.000
abitanti la possibilità di procedere ad acquisti autonomi
per importi inferiori a 40.000 euro.
Con l’entrata in vigore della c.d. Legge di stabilità 2016,
è estesa anche ai Comuni con popolazione inferiore ai 10.000
abitanti la possibilità di procedere ad acquisti autonomi
per importi inferiori a 40.000 euro. Dal 01.01.2016
l’Autorità provvederà a rilasciare il Codice Identificativo
Gara - CIG - a tutti i Comuni che procedono all’acquisto di
lavori, servizi e forniture sotto l’importo indicato. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: nuova proroga dell’entrata in vigore
delle sanzioni (ANCE di Bergamo,
circolare 07.01.2016 n. 1). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
art. 12,
d.lgs. n. 81/2008 e successive modificazioni e
integrazioni - risposta al quesito in merito alla corretta
interpretazione della figura del preposto alla sorveglianza
dei ponteggi ai sensi dell'art. 136 del Testo Unico, e in
particolare ai compiti ad esso assegnati e ai requisiti di
formazione, anche in confronto con quelli ricadenti sul
preposto ex articolo 2, comma 1, lettera e) (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 29.12.2015 n. 16/2015). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modificazioni e
integrazioni - risposta al quesito in merito alla
bonifica preventiva degli ordigni bellici
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 29.12.2015 n. 14/2015). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI:
Legge di Stabilità 2016 (Legge 28.12.2015 n. 208) “Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato” Articolo unico - Nota di lettura preliminare
sulle norme di interesse dei Comuni in materia di finanza e
fiscalità locale (IFEL, 05.01.2016 (corretto
l'08.01.2016) - tratto da www.fondazioneifel.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L. Sergio,
Unioni di comuni: la nociva proroga dell’avvio delle
funzioni comunali fondamentali in forma associata - Focus
normativo e novità previste dalla legge di Stabilità 2016
(10.01.2016 - tratto da www.studiocataldi.it). |
VARI:
Legge di stabilità 2016: per i pagamenti con carta di
credito non serve il documento d'identità (05.01.2016
- link a (www.studiocataldi.it). |
APPALTI:
S. Varone,
La partecipazione degli enti pubblici alle gare di appalto e
la tutela della concorrenza - NOTA A CORTE DI GIUSTIZIA
DELL’UNIONE EUROPEA, SEZ. V, SENTENZA 18.12.2014, CAUSA
C-568/13 (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2015). |
GURI - GUUE -BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2 dell'11.01.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.12.2015, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 30.12.2015 n. 188). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 05.01.2016, "Delibera
Giunta regionale 14.12.2015 - n. X/4593 - Approvazione delle
linee guida per l’infrastruttura di ricarica dei veicoli
elettrici, pubblicata sul BURL n. 52, serie Ordinaria di
martedì 22.12.2015" (errata-corrige). |
APPALTI: G.U.U.E.
06.01.2016 n. L 3 "REGOLAMENTO
DI ESECUZIONE (UE) 2016/7 DELLA COMMISSIONE del 05.01.2016
che stabilisce il modello di formulario per il documento di
gara unico europeo". |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per il Responsabile Anticorruzione non c'è conflitto
d'interessi?
IL CASO: Il ruolo di Responsabile per la
prevenzione della sicurezza non dovrebbe essere
incompatibile con lo svolgimento di funzioni gestionali
nell'ambito del proprio settore?
Se, infatti, il Comandante della Polizia locale,
responsabile di un ufficio con competenze gestionali, non
può svolgere le attività in relazione alle quali compie
anche attività di vigilanza e controllo, perché il RPC può
ancora svolgere, senza che si intraveda un conflitto di
interessi, le funzioni proprie di detto ruolo anche se è
incaricato della responsabilità di servizi del Comune?
(Risponde l'avv. Nadia Corà)
Il ruolo di Comandante della Polizia locale, che è collegato
all'esercizio delle funzioni di controllo, è incompatibile
con funzioni di servizi di un Comune per i quali sia
necessario emettere, per le attività oggetto di controllo,
provvedimenti autorizzatori o concessori, sussistendo
un'ipotesi di conflitto di interesse, anche potenziale.
Il principio è stato ripetutamente affermato dall'ANAC con
plurimi orientamenti (Orientamento n. 19 del 10.06.2015
Orientamento n. 57 del 03.07.2014).
La ragione del conflitto, anche solo potenziale, di
interessi è da ravvisarsi nella inconciliabilità tra
funzioni di controllo da un lato e funzioni di
amministrazione attiva dall'altro lato.
Sulla necessità di tenere distinti i due ruoli l'ANAC è
intervenuta anche con riferimento a figure diverse dal
Comandante della Polizia Locale, come, ad esempio, con
riferimento al ruolo del Responsabile della corruzione (RPC)
rispetto al quale l'aggiornamento 2015 del PNA ha
manifestato seri dubbi sulla compatibilità del ruolo con le
funzioni di amministrazione attiva.
Al riguardo l'ANAC ha evidenziato che "Il RPC deve essere
scelto, di norma, tra i dirigenti amministrativi di ruolo di
prima fascia in servizio. Questo criterio è volto ad
assicurare che il RPC sia un dirigente stabile
dell'amministrazione, con una adeguata conoscenza della sua
organizzazione e del suo funzionamento, dotato della
necessaria imparzialità ed autonomia valutativa e scelto, di
norma, tra i dirigenti non assegnati ad uffici che svolgano
attività di gestione e di amministrazione attiva.
La nomina di un dirigente esterno o di un dipendente con
qualifica non dirigenziale deve essere considerata come una
assoluta eccezione, da motivare adeguatamente in base alla
dimostrata assenza di soggetti aventi i requisiti previsti
dalla legge. Considerata la posizione di indipendenza che
deve essere assicurata al RPC non appare coerente con i
requisiti di legge la nomina di un dirigente che provenga
direttamente da uffici di diretta collaborazione con
l'organo di indirizzo laddove esista un vincolo fiduciario".
Precisa ulteriormente l'Autorità che "lo svolgimento
delle funzioni di RPC in condizioni di indipendenza e di
garanzia è stato solo in parte oggetto di disciplina della
l. 190/2012 con disposizioni che mirano ad impedire una
revoca anticipata dall'incarico e, inizialmente, solo con
riferimento al caso di coincidenza del RPC con il segretario
comunale (art. 1, co. 82, della l. 190/2012).
A completare la disciplina è intervenuto l'art. 15, co. 3,
del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, che ha esteso
l'intervento dell'ANAC in caso di revoca, applicabile in via
generale.
Sono assenti, invece, norme che prevedono sia specifiche
garanzie in sede di nomina (eventualmente nella forma di un
parere dell'ANAC sulle nomine), sia misure da adottare da
parte delle stesse amministrazioni o enti dirette ad
assicurare che il RPC svolga il suo delicato compito in modo
imparziale, al riparo da possibili ritorsioni.
Nell'attesa di una chiarificazione in sede di attuazione
della l. 124/2015, si invitano tutte le pubbliche
amministrazioni, le società e gli enti di diritto privato in
controllo pubblico a regolare adeguatamente la materia, con
atti organizzativi generali (ad esempio, negli enti locali,
il regolamento degli uffici e dei servizi) e comunque
nell'atto con il quale l'organo di indirizzo individua il
dirigente e lo nomina RPC.
E' intenzione dell'Autorità verificare che gli atti di
nomina siano coerenti con tale finalità" (tratto dalla
newsletter 12.01.2016 n. 132 di http://asmecomm.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Seggi, prima gli sconfitti. Il mancato sindaco può fare
gruppo a sé. Il candidato non eletto
rappresenta non tanto la lista quanto la coalizione.
È corretta la costituzione di gruppi consiliari in un ente
in cui tre consiglieri, già candidati sindaci non eletti,
hanno comunicato di assumere la carica di capogruppo per
liste che, pur appartenendo alle proprie coalizioni, non
hanno espresso consiglieri comunali?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art.
39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia, pertanto, è regolata da apposite norme
statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali
nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli,
riconosciuta dal citato art. 38 del Tuel.
Nella fattispecie, lo statuto del comune prevede che «i
consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo
consiliare», mentre il regolamento del consiglio comunale
stabilisce che «i consiglieri eletti nella medesima lista
formano, di regola, un gruppo consiliare». La disposizione
statutaria appare, pertanto, più rigida rispetto
all'articolo del regolamento, laddove si prevede che «di
regola» i consiglieri eletti nella medesima lista formano un
gruppo consiliare.
La norma dello statuto consentendo, altresì, la mobilità tra
gruppi, prevede la costituzione del gruppo misto ove si
iscrivono di diritto, tra gli altri, i consiglieri che si
dichiarano indipendenti, e dispone che «ove una lista
presentata all'elezione abbia ottenuto un solo consigliere,
a questi sono riconosciuti i diritti e la rappresentanza
spettanti a un gruppo consiliare».
Benché non sia chiaramente desumibile se i consiglieri
interessati abbiano costituito gruppi unipersonali,
comunque, in assenza di norme regolamentari che integrino
ulteriormente la disposizione statutaria, i gruppi
unipersonali sono riconosciuti solo nei confronti dei
consiglieri eletti nell'ambito di una lista, escludendosi,
dunque, la formazione di gruppi unipersonali dopo
l'insediamento del consiglio.
L'articolo 73 del decreto legislativo n. 267/2000, che
disciplina l'elezione del consiglio nei comuni con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti, al comma 11
prevede, dopo il riparto dei seggi tra le varie liste, che
il primo seggio venga assegnato al candidato sindaco non
eletto, e, in caso di collegamento tra più liste, tale
seggio si detrae dai seggi complessivamente attribuiti al
gruppo di liste collegate.
Come ha evidenziato il Consiglio di stato, con sentenza
della V sezione, 12.12.2003, n. 8208, la normativa
sopra citata «impone palesemente di dedurre in via
prioritaria il seggio controverso da quelli riservati alla
coalizione di riferimento, e non da quelli spettanti alla
lista che lo ha presentato, e di procedere, poi
all'assegnazione di quelli rimasti mediante l'individuazione
dei quozienti più alti conseguiti dai candidati dalle liste
collegate».
Tale principio è confermato da giurisprudenza più recente
(Tar Campania, sez. I, n. 2124/2013 del 22.04.2013) la
quale ha ribadito che l'interessato «è stato proclamato
eletto non già quale candidato al consiglio comunale (di una
lista) ma quale candidato sindaco uscito sconfitto dalla
competizione, del più vasto schieramento composto da quattro
liste in conformità al già citato art. 73, comma 11».
Il candidato sindaco non eletto fa parte, quindi, del
consiglio non come esponente di una lista, ma in qualità di
maggior rappresentante della coalizione nella sua interezza.
Nel caso di specie, il primo o unico seggio attribuito al
complesso di liste collegate, compete, pertanto, al
candidato sindaco non eletto, il quale, anche in virtù del
più generale principio di rappresentanza di più liste, come
riconosciuto dal regolamento del comune in questione («di
regola») rispetto all'analoga previsione statutaria, può
costituire un gruppo autonomo, acquisendo i corrispondenti
diritti e le relative prerogative
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La
richiesta è da considerarsi inammissibile in quanto il
richiesto risulta essere:
1) sprovvisto del requisito della generalità ed astrattezza,
2) si pone in una possibile posizione di pregiudizialità
rispetto ad eventuali forme di responsabilità
amministrativo-contabile,
3) si presenta potenzialmente idoneo ad interferire con le
competenze di altri organi giurisdizionali.
Sicché, le richieste di parere non possono
essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali,
ossia non devono implicare valutazione di comportamenti
amministrativi, in particolare se connessi ad atti già
adottati o comportamenti espletati, ovvero da adottarsi e/o
in corso di adozione per i quali si chiede il conforto della
Corte al fine di evitare che l’Amministrazione,
nell’espletamento della propria attività istituzionale,
possa incorrere in censurabili violazioni di carattere
amministrativo e/o di natura erariale.
Nel caso di specie l’assenza dei prescritti requisiti della
generalità ed astrattezza appaiono evidenti in
considerazione del fatto che il quesito formulato si
inquadra in una prospettiva applicativa posto che esso
inerisce ad un caso concreto di cui l’Amministrazione
fornisce tutti i dettagli.
Per questi motivi, risulta evidente che
qualsiasi considerazione espressa dalla Sezione in ordine al
quesito formulato andrebbe inevitabilmente a condizionare
scelte di carattere discrezionale e di merito, riservate
alla competenza esclusiva dell’ente, e ad interferire con le
competenze di altri organi giurisdizionali.
---------------
Con la suindicata richiesta di parere, presentata ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, il
Sindaco e il Dirigente Area Tecnica del comune di Bussolengo
(VR), dopo aver rappresentato, con ricostruzione
estremamente dettagliata comprensiva anche dei nomi degli
incaricati, degli importi e dei dettagli del progetto
definitivo/esecutivo relativo ai lavori di riqualificazione
strutturale di alcune strade comunali, nonché delle delibere
di approvazione degli elaborati ed aver precisato di avere
in corso di approvazione il nuovo regolamento per
l’attribuzione e la ripartizione del fondo di incentivazione
per la progettazione, hanno formulato il seguente quesito:
<1) se, al personale dell'ufficio tecnico, incaricato
di svolgere le funzioni di Responsabile unico del
procedimento, progettista, direttore lavori, responsabile
della sicurezza, possa essere riconosciuto l'incentivo per
la progettazione di cui all'art. 92, del Decreto legislativo
163/2006 e smi;
2) se il personale dell'ufficio tecnico, inquadrato come
istruttore tecnico e avente la qualifica di geometra o
architetto, sia tenuto, una volta incaricato, a svolgere
dette funzioni, indipendentemente dalla corresponsione
dell'incentivo per la progettazione>.
In proposito i predetti richiedenti hanno precisato che: <Il
primo quesito riveste il carattere di generalità e attiene a
temi riguardanti la contabilità pubblica, in quanto si
tratta di stabilire la corretta natura di alcuni lavori
pubblici, da considerare come nuovi lavori o manutenzioni
straordinarie. Detta differenza risulta sostanziale e
influisce sulla spesa pubblica, in quanto nel primo caso può
essere corrisposto l'incentivo, mentre nel secondo caso non
può essere corrisposto.
Il secondo quesito è importante invece per verificare se gli
incarichi afferenti alle professioni di geometra,
architetto, ingegnere, possano essere sempre attribuiti al
personale dell'ufficio tecnico inquadrato in categoria C o
D, in quanto si verrebbe così a ridurre la spesa per la
progettazione delle manutenzioni straordinarie ed ordinarie>.
...
Quanto alle condizioni oggettive, la
richiesta è da considerarsi inammissibile in quanto il
richiesto risulta essere:
1) sprovvisto del requisito della generalità ed astrattezza,
2) si pone in una possibile posizione di pregiudizialità
rispetto ad eventuali forme di responsabilità
amministrativo-contabile,
3) si presenta potenzialmente idoneo ad interferire con le
competenze di altri organi giurisdizionali.
Si precisa, in proposito, che nell’esercizio della funzione
consultiva le Sezione regionali di controllo non possono
diventare “organi di consulenza generale delle autonomie
locali”; questo per evitare che la Corte venga
coinvolta, in varia misura “nei processi decisionali
degli enti, condizionando quell’attività amministrativa su
cui è chiamata ad esercitare il controllo che, per
definizione, deve essere esterno e neutrale” (Sezione
delle Autonomie, delibera n. 5/AUT/2006).
Pertanto le richieste di parere non possono
essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali,
ossia non devono implicare valutazione di comportamenti
amministrativi, in particolare se connessi ad atti già
adottati o comportamenti espletati, ovvero da adottarsi e/o
in corso di adozione per i quali si chiede il conforto della
Corte al fine di evitare che l’Amministrazione,
nell’espletamento della propria attività istituzionale,
possa incorrere in censurabili violazioni di carattere
amministrativo e/o di natura erariale.
Nel caso di specie l’assenza dei prescritti requisiti della
generalità ed astrattezza appaiono evidenti in
considerazione del fatto che il quesito formulato si
inquadra in una prospettiva applicativa posto che esso
inerisce ad un caso concreto di cui l’Amministrazione
fornisce tutti i dettagli.
Per questi motivi, risulta evidente che
qualsiasi considerazione espressa dalla Sezione in ordine al
quesito formulato andrebbe inevitabilmente a condizionare
scelte di carattere discrezionale e di merito, riservate
alla competenza esclusiva dell’ente, e ad interferire con le
competenze di altri organi giurisdizionali.
Sul punto, tra l’altro, esiste consolidata giurisprudenza.
In conseguenza, la richiesta all’esame è da
ritenersi inammissibile
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 23.12.2015 n. 632). |
PATRIMONIO:
Riduzione delle locazioni inapplicabile tra le
p.a..
La riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva
stipulati dalle p.a., prevista dal dl n. 95/2012, non è
applicabile nell'ipotesi in cui entrambe le parti in causa
siano ricomprese nell'alveo delle pubbliche amministrazioni.
In questo caso, infatti, non si realizza la finalità della
norma, vale a dire quella di contenere la spesa pubblica, in
quanto gli effetti monetari sarebbero del tutto neutri.
È quanto ha precisato la sezione regionale di controllo
della Corte dei conti per l'Emilia-Romagna, nel testo del
parere 15.12.2015 n. 157, con cui viene fatta
chiarezza sulla portata della norma contenuta all'articolo
3, comma 4 del dl n. 95/2012, come modificato dall'articolo
24, comma 4 del dl n. 66/2014.
In detta disposizione, lo si ricorderà, viene precisato che
per esigenze di riduzione della spesa pubblica, a partire
dall'01/07/2014 i canoni dei contratti di locazione passiva
aventi ad oggetto immobili istituzionali stipulati dalle
amministrazioni pubbliche, devono essere ridotti del 15%,
salvo diritto di recesso esercitabile dal locatore. Sulla
scorta di ciò, il sindaco del Comune di Reggio Emilia, ha
chiesto alla Corte se detta norma fosse applicabile al caso
in cui le parti in causa in un contratto di locazione
passiva appartengano entrambe all'alveo della Pubblica
amministrazione.
Per il collegio della magistratura contabile emiliana, la
disposizione in oggetto non pare applicabile nell'ipotesi in
cui il rapporto intervenga tra due pubbliche
amministrazioni. In tal senso, infatti, è preclusiva
l'interpretazione della normativa che, lo si ribadisce,
intende realizzare «il contenimento della spesa pubblica».
Ed è evidente, si legge nel parere, che la ratio
della norma non si realizza quando il rapporto, sui cui
canoni dovrebbe essere applicata la riduzione automatica del
15%, intervenga tra esse. Infatti, l'effetto pratico sarebbe
del tutto neutro rispetto all'obiettivo di contenimento
della spesa pubblica, essendo di tutta evidenza che
l'inserimento della clausola di riduzione, pur comportando
per una p.a. un risparmio del 15%, per l'altra
comporterebbe, in egual misura, un minor introito
(articolo ItaliaOggi del
07.01.2016). |
NEWS |
APPALTI:
Delega appalti, rush finale.
Al Senato.
Il ddl delega sugli appalti pubblici da oggi all'esame
dell'aula del senato; il governo auspica il varo definitivo
entro la settimana.
Dovrebbe concludersi in questi giorni il lungo esame del ddl
delega (Atto
Senato 1678-B) per il recepimento delle direttive
sugli appalti e concessioni pubbliche, avviato a fine agosto
2014 con l'approvazione in consiglio dei ministri su
proposta dell'allora ministro Maurizio Lupi.
Il provvedimento, dopo i sensibili ritocchi apportati alla
camera, in questa terza lettura al senato non è stato
modificato. Arriva in aula quindi lo stesso testo approvato
a Montecitorio nonostante alcune commissioni avessero
espresso profili di incompatibilità con le regole europee.
In particolare era stata la commissione lavoro a puntare il
dito sulla disciplina delle cosiddette clausole sociali.
L'eccezione che era stata fatta dalla commissione riguardava
il vincolo per l'assunzione di tutti i dipendenti del
contratto di appalto in essere; si eccepiva che derivasse
dalla legge e non dal contratto collettivo nazionale.
Nonostante i pareri critici, tesi al miglioramento del ddl
che, soprattutto con la prima lettura, cambiò radicalmente
forma rispetto al testo del governo, l'aula del senato darà
il suo via libera a breve consentendo quindi l'avvio
dell'iter di messa a punto dei decreti delegati. In realtà
lo stesso ddl prevede due strade: un unico decreto delegato
entro il 18 aprile oppure due decreti, uno per recepire le
direttive, l'altro per la riforma del codice appalti.
Sul fronte governativo il viceministro alle infrastrutture,
Riccardo Nencini, intervenendo in commissione per quel che
riguarda l'attuazione della delega che il parlamento
approverà, ha già prima delle vacanze natalizie confermato
l'intenzione di adottare un «unico» decreto
legislativo di attuazione delle deleghe contenute nella
riforma entro la scadenza del 18.04.2016, «anche al fine
di assicurare la piena compatibilità tra la legislazione
nazionale e quella dell'Ue».
Nel frattempo la commissione ministeriale è già al lavoro
per definire un elaborato che dovrà essere sottoposto a
consultazione pubblica prima dell'avvio dei pareri di rito,
commissioni parlamentari incluse
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Regioni.
Incarichi p.a. Sanzioni da rivedere.
Troppo eccessive le sanzioni a carico dei dirigenti p.a. che
conferiscono incarichi illegittimi e quindi nulli. Oltre a
rispondere delle conseguenze economiche degli atti adottati,
gli organi che hanno conferito incarichi in violazione del
dlgs n. 39/2013 non potranno più affidarne nessuno per un
periodo di tre mesi.
Troppo per la conferenza delle regioni che in un
documento approvato lo scorso 17 dicembre ha
chiesto di rivedere l'impianto sanzionatorio del dlgs
39/2013.
Il parlamentino dei presidenti di regione si fa forte del
parere dell'Autorità nazionale anticorruzione, anch'essa
critica nei confronti della disciplina sul conferimento di
incarichi pubblici. L'Anac non condivide la previsione di
una sanzione «automatica» senza alcuna valutazione «dei
comportamenti individuali dei componenti dell'organo che ha
conferito l'incarico».
Per questo la Conferenza delle regioni chiede che le
sanzioni vengano subordinate «al previo accertamento
della sussistenza di colpa o dolo», che siano
commisurate alla gravità della condotta e che siano
solamente di natura pecuniaria
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Anche i vigili vogliono il contributo di 80 euro.
Legge di Stabilità poco chiara. E i sindacati
battono cassa.
I dipendenti dei corpi di polizia locale vanno alla caccia
degli 80 euro straordinari che la legge di Stabilità 2016
attribuisce ai «corpi di polizia».
I sindacati stanno chiedendo ai vari comuni l'erogazione
della somma, prevista dall'articolo 1, comma 972, della
legge 208, ai sensi del quale «nelle more dell'attuazione
della delega sulla revisione dei ruoli delle Forze di
polizia, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e delle
Forze armate e per il riconoscimento dell'impegno profuso al
fine di fronteggiare le eccezionali esigenze di sicurezza
nazionale, per l'anno 2016 al personale appartenente ai
corpi di polizia, al Corpo nazionale dei vigili del fuoco e
alle Forze armate non destinatario di un trattamento
retributivo dirigenziale è riconosciuto un contributo
straordinario pari a 960 euro su base annua, da
corrispondere in quote di pari importo a partire dalla prima
retribuzione utile e in relazione al periodo di servizio
prestato nel corso dell'anno 2016. Il contributo non ha
natura retributiva, non concorre alla formazione del reddito
complessivo ai fini dell'imposta sul reddito delle persone
fisiche e dell'imposta regionale sulle attività produttive e
non è assoggettato a contribuzione previdenziale e
assistenziale».
La fonte della pretesa deriva dalla poca precisione del
testo normativo, che non parla di «forze di polizia».
Se il legislatore avesse utilizzato i corretti termini
tecnici, nessun dubbio vi sarebbe stato sulla limitazione
del benefit alle sole Polizia di stato, Corpo della polizia
penitenziaria, Corpo forestale dello Stato (destinato
all'accorpamento con l'Arma dei Carabinieri), Arma dei
Carabinieri e Corpo della guardia di finanza.
Invece, la norma parla genericamente di «corpi di polizia».
Questa ambiguità letterale dà, dunque, modo ai dipendenti
dei corpi di polizia locale di avanzare la pretesa.
L'interpretazione letterale non appare, comunque, in grado
di superare l'obiezione fondamentale secondo la quale anche
laddove i corpi di polizia locale dovessero essere
ricompresi nel beneficio, non è consentito ai comuni farsi
carico del costo degli 80 euro.
L'articolo 1, comma 972, della legge 208/2015 prevede che il
bonus straordinario sia finanziato esclusivamente a carico
del bilancio dello stato e che non si tratta di un
trattamento retributivo di natura contrattuale (anche
perché, molti dei destinatari non appartengono al personale
pubblico contrattualizzato).
Ai sensi dell'articolo 2, comma 3, del dlgs 165/2001 per il
personale contrattualizzato «l'attribuzione di
trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante
contratti collettivi». Ma, la legge 208/2015 non assegna
alla contrattazione collettiva del comparto enti locali la
possibilità di finanziare il bonus straordinario di 80 euro,
né consente un finanziamento a carico dei bilanci degli enti
locali.
In ogni caso, quindi, i comuni non possono legittimamente
accogliere le richieste dei sindacati. L'attribuzione
eventuale del bonus potrebbe essere consentita solo laddove
il Mef lo consentisse espressamente, sulla falsa riga del
bonus di 80 euro disposto col decreto legge 66/2014
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblico impiego e art. 18 sotto la lente. I
possibili effetti legati alla sentenza della Corte di
Cassazione.
Ha scatenato numerose polemiche la sentenza della Cassazione
sull'estensione delle nuove disposizioni normative relative
al nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al
pubblico impiego.
In attesa che venga emanato il Testo unico della Pubblica
amministrazione, la Fondazione Studi dei consulenti del
lavoro ha predisposto uno studio sugli effetti
dell'applicazione dei licenziamenti per giusta causa ai
dipendenti pubblici.
In particolare, sono stati analizzati i flussi relativi
all'anno 2014 delle comunicazioni obbligatorie, diffusi dal
Ministero del lavoro, sulla base dei dati trasmessi dai
datori di lavoro in caso di interruzione del rapporto di
lavoro.
In un anno in Italia nel settore privato vengono interrotti
10,139 milioni di rapporti di lavoro tra subordinati e
collaborazioni coordinate e continuative. La maggior parte
delle interruzioni, pari a 6,73 milioni, riguarda i rapporti
a tempo determinato che terminano in relazione alla naturale
scadenza fissata dalle parti. Ma se si guardano i dati sui
licenziamenti italiani, si scopre che nel 2014 ci sono stati
1,09 milioni di licenziamenti nel settore privato.
Tra questi, 828 mila casi derivano da un licenziamento
economico, mentre in 89 mila casi si è proceduto con un
licenziamento per motivi disciplinari ossia, di giusta causa
o per giustificato motivo soggettivo. Pertanto, i
licenziamenti per motivi disciplinari rappresentano l'8% del
totale e lo 0,67% degli oltre 13 milioni di rapporti di
lavoro attivi nel settore privato.
Se le stesse percentuali venissero applicate anche ai
3.233.000 rapporti di lavoro del pubblico impiego,
emergerebbe che i lavoratori potenzialmente licenziabili per
motivi disciplinari sarebbero ogni anno circa 21.661 a
fronte di un costo medio del lavoratore pubblico pari a
48.936 euro. Il costo complessivo dei dipendenti pubblici
potenzialmente destinatari di un provvedimento di
licenziamento per giusta causa sarebbe, quindi, pari a 1,060
miliardi di euro.
Questi dati sono stati commentati dal Presidente della
Fondazione Studi consulenti del lavoro, Rosario De Luca: «Abbiamo
provato a semplificare come potrebbe svilupparsi
l'applicazione percentuale delle statistiche del settore
privato al settore pubblico attraverso una simulazione un
po' provocatoria per sottolineare che, se nel settore
privato a fronte di questi licenziamenti ci sono poi delle
assunzioni, anche nel settore pubblico si dovrebbe pensare
ad una maggiore flessibilità, al di là di quello che
risparmierebbe lo Stato, che poco non è. Lo scopo della
nostra provocazione», ha precisato De Luca, «è
spiegare che questi provvedimenti dovrebbero portare a una
corsa alla meritocrazia e ad una maggiore qualità della
prestazione lavorativa. Se venissero attuati, infatti, ci
sarebbe una maggiore competitività sul lavoro, mentre in
caso contrario potrebbero portare a fenomeni di lassismo che
ogni tanto vengono segnalati nel settore pubblico»
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
differenze locali sulla superficie pesano sui lavori. Gli
effetti per nuovi edifici e ristrutturazioni.
Urbanistica. Definizioni e calcoli diversi da un
Comune all’altro.
In teoria la
superficie delle costruzioni è un parametro edilizio
abbastanza semplice da calcolare, nei fatti, invece, è un
parametro disomogeno, che cambia da Comune a Comune. Ai
sensi dell’articolo 4 del Testo unico dell’edilizia (Dpr n.
380/2001), ciascuno degli 8mila Comuni presenti in Italia
può disciplinare le modalità costruttive applicabili al
proprio territorio.
Ogni Comune, quindi, è dotato di un regolamento edilizio,
mediante il quale, in parallelo con lo strumento urbanistico
comunale, vengono tra l’altro disciplinate le modalità di
calcolo della superficie e/o del volume delle costruzioni.
Ad ogni Comune corrisponde pertanto una determinata modalità
di calcolo della superficie, spesso anche largamente diversa
da quella prevista in altri territori comunali.
La frammentazione è anche di livello nominalistico, in
quanto i Comuni, ai fini della determinazione delle
superfici degli immobili, utilizzano definizioni tra loro
disomogenee (e così si parla di superficie lorda di
pavimento, di superficie utile lorda o, ancora, di
superficie abitabile lorda).
Le conseguenze
Le differenze possono avere implicazioni molto concrete.
In primo luogo, mediante la definizione della superficie, il
Comune all’atto pratico disciplina quali specifiche porzioni
degli immobili sono ricomprese nella complessiva capacità
edificatoria ammessa dallo strumento urbanistico comunale e
quali superfici rappresentano, invece, porzioni liberamente
realizzabili, in quanto escluse nel conteggio di questa
capacità massima.
Le esclusioni possono, ad esempio, riguardare gli spazi
aperti (balconi o terrazze), gli spazi di collegamento
verticale (vani scala e ascensori) o, ancora, i vani
sottotetto e i piani interrati e seminterrati.
Così, a parità di capacità edificatoria, le edificazioni
possono avere una conformazione ed una articolazione diversa
a seconda che ci si trovi in uno o nell’altro dei Comuni
d’Italia.
Questo ha inoltre una diretta incidenza rispetto al valore
degli immobili, atteso che le superfici realizzabili, ma
escluse dal conteggio della volumetria complessivamente
ammessa, possono essere oggetto di compravendita e hanno una
determinata valutazione nel mercato immobiliare.
Inoltre, le diverse modalità di calcolo delle superfici tra
i Comuni rilevano non solo in caso di nuova costruzione, ma
anche nel caso di interventi sugli edificati esistenti: le
modalità di conteggio possono infatti incidere anche
riguardo alla verifica della superficie esistente e di
quella recuperabile.
A Milano, Roma e Napoli
Queste diversità ostacolano l’attività dei professionisti
del settore, i quali sono costretti ad adeguare l’attività
di progettazione alle peculiarità dei singoli territori in
cui, di volta in volta, operano.
Un caso significativo delle peculiarità presenti nei
regolamenti comunali è quello di Milano, dove si prevede
che, tra l’altro, siano esclusi dal conteggio della
superficie lorda di pavimento gli spazi per attività comuni
di pertinenza dell’intero edificio (quali ad esempio
eventuali locali per il fitness, sale comuni ricreative e di
riunione), entro determinati limiti e a condizione che
questi spazi siano individuati con atto d’asservimento
trascritto e da citare negli atti di compravendita.
A Roma, tra le altre esclusioni, rilevano i locali
completamente interrati o emergenti fuori terra non oltre
0,80 metri e destinati a funzioni accessorie asservite alle
unità immobiliari, quali cantine e depositi.
A Napoli, invece non generano volume i vani scala, ma per la
sola parte emergente dalla linea di gronda o dalla copertura
dell’edificio.
Il regolamento unico
Il legislatore, con il Dl n. 133/2014 (Sblocca Italia), ha
posto le basi per rimediare a queste frammentazioni. La
legge, in vigore dal 12.11.2014, ha previsto infatti che il
Governo, le regioni e le autonomie locali, al fine di
uniformare le norme edilizie, concludano accordi o intese
volti all’adozione di uno schema di regolamento
edilizio-tipo, che costituirà il riferimento unico per tutti
i Comuni. Al momento i lavori per la redazione dello schema
di regolamento-tipo sono ancora in corso e, alla luce delle
possibili favorevoli ricadute sul settore, ci si augura che
siano conclusi a breve.
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Per gli immobili ad alta efficienza i
calcoli sono «soft». Le misure. Lombardia tra le più
generose.
Anche le normative
edilizie sull’efficienza energetica impattano sul calcolo
dei volumi edificabili. La consistenza reale di un edificato
viene, infatti, influenzata anche dalle discipline nazionali
e regionali che, al fine di favorire lo sviluppo di immobili
ad alta efficienza energetica, introducono modalità premiali
per il conteggio delle superfici e dei volumi.
A livello nazionale, il legislatore, con il Dlgs 102/2014 in
attuazione della direttiva 2012/27/Ue, ha previsto una serie
di incentivi alla realizzazione di nuovi edifici
energicamente efficienti, nonché alla riqualificazione
energetica degli edifici esistenti, tra i quali la
possibilità di derogare -entro certi limiti- alle normative
nazionali, regionali e comunali inerenti alle distanze
minime tra edifici, alle distanze dai confini e alle
distanze di protezione del nastro stradale.
L’obiettivo di risparmio energetico cui concorrono le misure
del decreto, consiste nella riduzione, entro il 2020, di 20
milioni di tonnellate equivalenti di petrolio dei consumi di
energia primaria. Al raggiungimento di questo obiettivo,
possono concorrere anche le Regioni, con il coinvolgimento
degli enti locali, attuando i propri strumenti di
programmazione energetica. Di conseguenza molte Regioni
hanno adottato misure per incentivare l’efficienza
energetica dei fabbricati.
Tra le varie normative regionali oggi esistenti, merita di
essere segnalata la riforma introdotta dalla Regione
Lombardia. Con legge 10.11.2015, n. 38, la Lombardia ha
previsto, tra l’altro, che negli interventi di manutenzione
straordinaria, restauro e ristrutturazione edilizia che
consentano di raggiungere una riduzione superiore al 10%
dell’indice di prestazione energetica dettato dalla Regione,
così come nelle nuove costruzioni ricadenti nel tessuto
urbano consolidato che raggiungono una riduzione superiore
al 20% rispetto all’indice, la superficie lorda di
pavimento, i volumi e i rapporti di copertura dell’unità
immobiliare o dell’edificio sono da calcolare al netto dei
muri perimetrali, portanti e di tamponamento, nonché dei
solai che costituiscono l’involucro dell’edificio.
Per gli interventi di nuova costruzione esterni al tessuto
consolidato sono previsti obiettivi di riduzione ancor più
marcati.
A parità di capacità edificatoria, nuovi interventi che
garantiscano il raggiungimento di queste soglie di risparmio
energetico, potranno dunque avere consistenza effettiva
maggiore rispetto ad interventi di minore efficienza.
Ma anche negli interventi sull’esistente -compresi quelli
minori di manutenzione straordinaria e risanamento
conservativo (di per sé gratuiti) che assicurino il
conseguimento degli obiettivi di efficienza energetica
dettati dalla Regione- le superfici pari all’ingombro
dell’involucro edilizio (che nei fabbricati di antica
formazione hanno rilevante estensione) potranno essere
aggiunte agli spazi abitabili, secondo le destinazioni più
appetite dal mercato (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Imbullonati, retromarcia fiscale. I macchinari
non sono più soggetti a imposte e tasse. Lo prevede la legge
di Stabilità 2016. Ritorno al passato per terreni montani o
di collina.
Dal 1° gennaio i macchinari imbullonati non sono più
soggetti al pagamento di imposte e tasse. Da quest'anno,
infatti, i macchinari industriali non concorrono alla
determinazione della rendita catastale per i fabbricati a
destinazione speciale iscritti nelle categorie «D» ed «E».
Esonerati dal prelievo fiscale i terreni montani o di
collina e quelli posseduti e condotti da coltivatori diretti
e imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla
loro ubicazione. L'esenzione si estende, inoltre, ai terreni
ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile
destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva
indivisibile.
Lo prevede l'articolo 1 della legge di Stabilità 2016
(208/2015).
Macchinari industriali.
Dunque, la nuova legge di stabilità 2016 esclude dalla stima
diretta catastale macchinari, congegni, attrezzature e altri
impianti, funzionali al processo produttivo. Ciò comporta
che non devono più esser presi in considerazione nella stima
diretta catastale macchinari imbullonati e altri impianti.
Mentre continuano a concorrere nel calcolo della rendita il
suolo e le costruzioni e tutti gli «elementi ad essi
strutturalmente connessi che ne accrescono la qualità e
l'utilità, nei limiti dell'ordinario apprezzamento».
È del tutto evidente che la rideterminazione delle rendite
produce come effetto la riduzione dell'imposizione fiscale
e, in particolare, di Imu e Tasi. I contribuenti
interessati, però, sono tenuti a richiedere un nuovo
provvedimento catastale e devono porre in essere celermente
degli adempimenti. A partire dal 01.01.2016, ex lege,
gli intestatari degli immobili destinati alle attività
produttive, iscritti nelle categorie «D» ed «E», devono
presentare gli atti di aggiornamento per ottenere il
ricalcolo della rendita catastale degli immobili già
censiti.
È stabilito che solo per gli atti di aggiornamento
presentati entro il 15.06.2016 le rendite catastali
rideterminate avranno effetti retroattivi a partire dal 1°
gennaio dello stesso anno.
Con questo intervento normativo il legislatore ha modificato
le disposizioni contenute nella legge di Stabilità 2015
(190/2014) con le quali aveva previsto la tassabilità dei
macchinari industriali. Nella stima non rientrano più il
carroponte e tutte le componenti impiantistiche che
assicurano all'unità immobiliare un'autonomia funzionale e
reddituale. E non concorrono più al calcolo della rendita un
complesso di elementi, ritenuti funzionalmente collegati,
costituiti da impianti, macchine, generatori di corrente e
relativi motori.
Pertanto, viene superata la previsione contenuta nella norma
d'interpretazione autentica (articolo 1, comma 244, della
legge 190/2014), che aveva indicato le modalità
tecnico-estimative per la determinazione della rendita
catastale delle unità immobiliari destinate alle attività
industriali e aveva previsto che, nelle more dell'attuazione
delle disposizioni relative alla revisione della disciplina
del sistema estimativo del catasto dei fabbricati,
l'articolo 10 del regio decreto-legge 652/1939 si applicasse
in base alle istruzioni fornite dall'Agenzia del territorio
con la circolare 6/2012. La suddetta circolare, infatti,
aveva dettato le linee guida per individuare e valutare le
componenti impiantistiche aventi rilevanza catastale.
Per gli impianti eolici, per esempio, l'Agenzia aveva
chiarito che sono ritenuti elementi costitutivi gli edifici,
le aree, i generatori della forza motrice, le dighe, i
canali adduttori o di scarico, la rete di trasmissione e di
distribuzione di merci (circolare 14/2007).
Esenzione terreni agricoli.
Dal 2016 non sono tenuti al pagamento dell'imposta
municipale i titolari di terreni montani o di collina
ubicati nei comuni elencati nella circolare del Ministero
dell'economia e delle finanze 9/1993. Sono esonerati dall'Imu
anche i terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori
diretti e imprenditori agricoli professionali, a prescindere
dalla loro ubicazione, quelli ubicati nelle isole minori,
nonché quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale
a proprietà collettiva indivisibile.
Si tratta di un evidente ritorno al passato, poiché il
legislatore per individuare i comuni montani o di collina
rinvia alla circolare ministeriale 9/1993. Quindi, non fa
più fede l'elenco predisposto dall'istituto nazionale di
statistica (Istat), al quale le amministrazioni locali hanno
dovuto fare riferimento lo scorso anno, come disposto
espressamente dal dl 4/2015.
Nell'elenco allegato alla citata circolare, redatto
utilizzando i dati forniti dal Ministero dell'agricoltura e
delle foreste, sono indicati i comuni, suddivisi per
provincia di appartenenza, sul cui territorio i terreni
agricoli saranno esenti dall'imposta municipale, in base a
quanto disposto dall'articolo 7, comma 1, lettera h), del
decreto legislativo 504/1992.
Se a fianco dell'indicazione del comune non è riportata
alcuna annotazione, vuol dire che l'esenzione opera
sull'intero territorio. Qualora, invece, sia riportata
l'annotazione parzialmente delimitato «PD», l'agevolazione
sarà circoscritta a una parte del territorio. Questo
comporta che negli enti montani e di collina non sono più
richiesti requisiti soggettivi in capo ai possessori dei
terreni, ma conta solo la loro inclusione nella circolare
ministeriale.
Gli altri terreni, indipendentemente dalla loro ubicazione,
possono invece fruire del trattamento agevolato solo se
posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori
agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola.
Sono poi esonerati dal prelievo i terreni ubicati nei comuni
delle isole minori di cui all'allegato A della legge 448/
2001 e quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale
a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Va precisato che possono essere considerati terreni
agricoli, secondo la definizione contenuta nell'articolo
2135 del codice civile, quelli utilizzati per l'esercizio
dell'attività agricola, ovvero la coltivazione del fondo, la
silvicoltura, l'allevamento animali e le attività connesse.
I benefici fiscali sui terreni agricoli non sono più
limitati alle persone fisiche, ma si estendono anche alle
società.
Del resto, dal 2012 per la qualificazione di coltivatore
diretto o imprenditore agricolo professionale la disciplina
Imu richiama l'articolo 1 del decreto legislativo 99/2004,
che ricomprende nella suddetta nozione anche le società in
qualsiasi forma costituite. Quindi, i benefici fiscali
spettano sia alle società di persone sia alle società di
capitali, nonché alle cooperative
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Esperti estimatori senza segreti. L'accesso è
consentito a tutti gli atti dell'immobile.
Dal tribunale di Roma guida sui professionisti
nominati nelle esecuzioni immobiliari.
L'esperto estimatore in caso di esecuzioni immobiliari è
autorizzato ad acquisire direttamente presso gli uffici
pubblici i documenti che si profilino necessari o utili per
l'espletamento dell'incarico (anche in copia semplice).
È in particolare autorizzato ad accedere a ogni documento
concernente gli immobili pignorati, ivi compresi i documenti
relativi ad atti di acquisto e rapporti di locazione, in
possesso del comune, dell'ufficio del registro, della
agenzia del territorio o dell'amministratore del condominio
o di notaio, ed a estrarne copia, non operando nel caso di
specie le limitazioni previste in tema di trattamento dati
personali.
Questo è quanto si legge nella
guida 17.12.2015 del TRIBUNALE di Roma (Sez. IV)
sui compiti dell'esperto estimatore nominato in caso di
esecuzioni immobiliari.
L'esperto nominato dovrà verificare, prima di ogni altra
attività, la completezza della documentazione di cui
all'articolo 567, comma 2 c.p.c., mediante l'esame degli
atti (estratto del catasto e certificati delle iscrizioni e
trascrizioni relative all'immobile pignorato effettuate nei
venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento,
oppure certificato notarile attestante le risultanze delle
visure catastali e dei registri immobiliari) e dovrà
accertare la conformità tra la descrizione attuale del bene
(indirizzo, numero civico, piano, interno, dati catastali e
confini) e quella contenuta nel pignoramento .
Valore di mercato immobile.
L'esperto estimatore sarà tenuto a determinare il valore di
mercato dell'immobile con espressa e compiuta indicazione
del criterio di stima e analitica descrizione delle fonti
cui si sarà fatto riferimento, secondo il procedimento
prescritto dall'articolo 568, secondo comma c.p.c..
Inoltre nella determinazione del valore dell'immobile sarà
tenuto a considerare i dati relativi alle vendite forzate
effettuate nello stesso territorio e per la stessa tipologia
di bene, anche mediante consultazione dei dati accessibili
sul sito del Tribunale di Roma, a specifici atti pubblici di
compravendita di beni analoghi, per collocazione e/o
tipologia, indagini di mercato con specifica indicazione
delle agenzie immobiliari consultate, alle banche dati
nazionali operando le opportune decurtazioni sul prezzo di
stima considerando lo stato di conservazione dell'immobile
e, come opponibili alla procedura esecutiva, i soli
contratti di locazione e i provvedimenti di assegnazione al
coniuge aventi data certa anteriore alla data di
trascrizione del pignoramento.
L'assegnazione della casa coniugale dovrà essere ritenuta
opponibile nei limiti di nove anni dalla data del
provvedimento di assegnazione se non trascritta nei pubblici
registri ed anteriore alla data di trascrizione del
pignoramento, non opponibile alla procedura se disposta con
provvedimento successivo alla data di trascrizione del
pignoramento, sempre opponibile se trascritta in data
anteriore alla data di trascrizione del pignoramento (in
questo caso l'immobile verrà valutato come se fosse nuda
proprietà)
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Nel 2016 la casa fa il pieno di bonus.
Detrazione del 50% dell’Iva per chi acquista dal
costruttore e del 19% dei canoni in caso di leasing.
Sono molte le
conferme e le novità contenute nella legge di Stabilità 2016
che riguardano la casa. Si va dalla proroga fino al
31.12.2016 di tutti i bonus edilizi alla conferma del bonus
del 50% per l’acquisto di mobili e di grandi
elettrodomestici; dalla conferma della detrazione del 65%
agli interventi verdi effettuati dagli Istituti autonomi per
le case popolari all’estensione di questa detrazione anche
ai dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli
impianti di riscaldamento e climatizzazione.
Tra le novità, in particolare, si segnala la nuova
possibilità di detrarre dall’Irpef il 19% dei canoni di
leasing (e del relativo riscatto) pagati dal 2016 al 2020
per acquistare o costruire un’unità immobiliare da adibire
ad abitazione principale entro un anno dalla consegna, e la
possibilità di detrarre il 50% dell’Iva pagata quest’anno o
successivamente per l’acquisto, effettuato nel 2016, di
unità immobiliari a destinazione residenziale, di classe
energetica A o B, cedute da imprese costruttrici delle
stesse.
C’è inoltre la possibilità per i condòmini incapienti di
cedere la loro detrazione al costruttore che ha svolto i
lavori di risparmio energetico qualificato sulle parti
comuni, così da abbassare la loro quota parte e non perdere
il beneficio fiscale.
L’Iva per acquisto di abitazione
Le persone fisiche potranno detrarre dall’Irpef il 50%
dell’Iva pagata (dal 01.01.2016), per l’acquisto
dall’impresa costruttrice fatto entro il 31.12.2016 -fa fede
l’atto notarile-, di unità immobiliari a destinazione
residenziale, di classe energetica A o B. La detrazione
dovrà essere ripartita in 10 anni.
Poiché non vi sono vincoli relativi alla destinazione ad
abitazione principale, la detrazione spetta anche ai soci,
persone fisiche, di società di persone, nel caso in cui
l’acquisto agevolato venga effettuato nel 2016 da parte
della società. Dovrà essere chiarito se potranno beneficiare
di questa detrazione Irpef anche i soci, persone fisiche, di
Srl trasparenti.
Abitazione principale in leasing
La legge di Stabilità 2016 ha introdotto dal 01.01.2016 al
31.12.2020 una nuova spesa detraibile dall’Irpef al 19%, che
riguarda l’acquisto o la costruzione, tramite leasing
(canoni e oneri accessori per un importo non superiore a
8mila euro e riscatto per un importo non superiore a 20mila
euro), di abitazioni da parte di giovani, con età inferiore
a 35 anni, con un reddito complessivo entro i 55mila euro e
non già titolari di diritti di proprietà su altri immobili a
destinazione abitativa.
Sempre dal 2016 al 2020, questa stessa detrazione è
applicabile anche a chi ha 35 anni o più, con le stesse
condizioni, ma dimezzando le spese massime ammissibili. La
norma non dice nulla relativamente al caso in cui il
contratto sia stipulato prima dei 35 anni e prosegua dopo il
compimento di questa età.
Il nuovo incentivo fiscale è molto conveniente se
confrontato con la detrazione Irpef del 19% degli interessi
pagati sui mutui ipotecari per l’acquisto o la
costruzione/ristrutturazione dell’abitazione principale,
dove l’onere detraibile al 19% è costituito solo dagli
interessi passivi pagati (e non dalla quota capitale della
rata del mutuo) e per un importo massimo annuale
rispettivamente di 4mila euro (detrazione massima annuale di
760 euro) e di 2.582,28 euro (detrazione massima annuale di
491 euro). Il nuovo incentivo consente di detrarre
dall’Irpef il 19% di tutto il canone di leasing (quota
capitale e quota interessi), oltre che i relativi oneri
accessori.
Inoltre, l’importo annuale massimo delle spese agevolate è
pari a 8mila euro (4mila euro per i non giovani),
consentendo una detrazione massima di 1.520 euro annui (760
euro per i non giovani). La nuova agevolazione, poi, prevede
la possibilità di detrarre anche il riscatto finale, per un
importo non superiore a 20mila euro (10mila euro per i non
giovani), consentendo una detrazione massima di 3.800 euro
(1.900 euro per i non giovani) (articolo Il Sole 24 Ore del
10.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblico impiego, per il contratto restano 4
«aree». Delega Pa. Nei prossimi
giorni convocazione dei sindacati all’Aran - Resta il nodo
del settore università e ricerca.
Riordino dei comparti del pubblico
impiego, con un nuovo incontro all’Aran con i sindacati che
dovrebbe tenersi a metà gennaio. La riorganizzazione della
dirigenza pubblica, per favorire maggior trasparenza e
mobilità (anche con il settore privato) degli incarichi che
potranno durare al massimo 6 anni (4+2) con una valutazione
più mirata delle performance. E poi, un nuovo testo unico
del lavoro pubblico per aggiornare il Dlgs 165 del 2001 e la
riforma Brunetta del 2009 e regolare tutti i principali
aspetti del rapporto d’impiego, compresi i “delicati”
procedimenti disciplinari (oggi sostanzialmente bloccati per
norme troppe complesse e anche per l’inerzia dei capi
struttura).
Si compone di tre tasselli il pacchetto di riforma del
lavoro pubblico, che vedrà la luce probabilmente
quest’estate, con il varo dei provvedimenti attuativi della
legge Madia.
Il primo passaggio, obbligato, di questo percorso è la
semplificazione delle aree di negoziazione in applicazione
del Dlgs 150 del 2009. Oggi i comparti pubblici sono 12, e
adesso scenderanno a 4: Amministrazioni centrali, Scuola,
Sanità, e Regioni ed autonomie locali. «Convocherò le
organizzazioni sindacali nei prossimi giorni -annuncia il
presidente dell’Aran, Sergio Gasparrini-. Qui resta da
sciogliere la sorte dell’area Università e Ricerca; stiamo
discutendo se tenere questi settori all’interno del comparto
Scuola o di integrarli in quello delle Pa centrali.
Troveremo una soluzione. Sono comunque fiducioso che si
arriverà presto a un accordo».
Il riordino delle aree di contrattazione è infatti il
presupposto per riaprire, dopo una stagione che dura da più
di 5 anni, il tavolo negoziale per il rinnovo del Ccnl ai 3
milioni di “travet”: la legge di Stabilità 2016 mette sul
piatto 300 milioni (già giudicati perciò una “mancia” dalle
sigle sindacali); e molto probabilmente, per il quinquennio
passato, non ci sarà recupero del blocco (salvo, forse, la
conferma dell’indennità di vacanza contrattuale riconosciuta
nel 2010).
La strada per il nuovo contratto si annuncia, quindi, in
salita.
Sul fronte della dirigenza, ci si aspettano grandi novità.
Intanto il debutto dei ruoli unici (uno per lo Stato, uno
per le regioni e uno per gli enti locali); poi, secondo la
legge delega, si dovrà disegnare un percorso meritocratico e
di formazione continua per i manager pubblici. Si dovrebbe
puntare pure su una più ampia mobilità e su un sistema di
valutazione effettivo (e slegato dal potere politico), che
nei casi più gravi potrà portare alla revoca dell’incarico.
Il restyling della disciplina del lavoro pubblico arriverà
invece con il nuovo Testo unico, che dovrà disciplinare, in
modo unitario, diverse tematiche dagli accertamenti
medico-legali sulle assenze dal servizio per malattia dei
dipendenti pubblici; all’individuazione di limitate e
tassative fattispecie dove si potrà ricorrere a forme di
lavoro flessibile; al decollo delle regole sulla valutazione
dei “travet”; agli annunciati interventi sui procedimenti
disciplinari.
Qui, in particolare, l’ipotesi allo studio dei
tecnici di palazzo Vidoni è quella di accentrare in capo
all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (l’Upd, già
presente in tutte le strutture) le procedure per irrogare
sanzioni superiori al rimprovero scritto, prevedendo termini
perentori di inizio e fine del procedimento. Al responsabile
della struttura (cioè al singolo dirigente) rimarrebbe la
competenza solo per il rimprovero verbale e scritto. Il
responsabile dell’ufficio in cui opera il dipendente
“infedele” manterrebbe invece la funzione della segnalazione
entro un certo termine.
Sul delicato, e dibattuto tema, dell’articolo 18,
l’orientamento del governo e del ministro, Marianna Madia, è
quello di mantenere la tutela reale. Potrebbero esserci
ritocchi alla fattispecie di licenziamento per scarso
rendimento (si sta studiando una semplificazione della
procedura); e, forse, si potrebbe consentire la reiterazione
del provvedimento disciplinare, se si accerta un vizio di
forma. L’idea, allo studio dei tecnici di Funzione pubblica,
è di consentire alla Pa una seconda chance per licenziare il
fannullone: se il giudice annulla il recesso per un vizio
formale, scatta la reintegra, ma l’amministrazione può
rifare il procedimento e, così, correttamente licenziare il
dipendente “infedele”.
Gli esperti si aspettano una riforma organica del lavoro
pubblico, e soprattutto che tutti i tasselli “viaggino in
simultanea”: «Riordino della dirigenza, rinnovo del Ccnl e
Testo unico devono arrivare insieme -spiega Sandro Mainardi,
ordinario di diritto del Lavoro all’università di Bologna-.
Si rischia altrimenti di avere norme contrattuali
contraddittorie o già superate rispetto al nuovo quadro regolatorio. L’attesa è anche per l’opera di ripulitura di
tutte le disposizioni sul pubblico impiego stratificatesi
negli anni. Un’operazione che, se fatta bene, aiuterà anche
dal punto di vista dei contenziosi giudiziari» (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - APPALTI:
Operativo il database antimafia. Le stazioni
appaltanti possono consultare il cv delle aziende.
Il Viminale ha annunciato l'attivazione della
piattaforma web a tutela degli appalti pubblici.
Un database per controllare online il pedigree delle imprese
negli appalti pubblici.
Giunge ai nastri di partenza la Banca dati nazionale unica
per la documentazione antimafia (Bdna). Il ministero
dell'interno ha annunciato che da ieri è in funzione il data
base, che contribuirà ad accelerare e semplificare il
rilascio delle comunicazioni e informazioni antimafia.
È una piattaforma informatica per consentire alle stazioni
appaltanti di ottenere l'immediato rilascio della
documentazione liberatoria relativa all'operatore economico
inserito nell'archivio informatico della banca dati.
La banca dati istituita dal Codice Antimafia (dlgs 159/2011),
ed è disciplinata nel dettaglio dal regolamento adottato con dpcm del 30.10.2014 n. 193.
La piattaforma è consultabile dalle stazioni appaltanti
pubbliche, enti pubblici, società controllate pubbliche,
concessionari di opere pubbliche, che devono acquisire la
documentazione antimafia prima di stipulare, approvare o
autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori,
servizi e forniture pubblici.
Le informazioni servono anche prima di rilasciare o
consentire licenze o autorizzazioni.
La documentazione antimafia, a esempio, serve per licenze o
autorizzazioni di polizia e di commercio; attestazioni di
qualificazione per eseguire lavori pubblici, contributi,
finanziamenti o mutui agevolati; iscrizioni negli elenchi di
appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi
riguardanti la pubblica amministrazione; iscrizioni nei
registri della camera di commercio per l'esercizio del
commercio all'ingrosso e nei registri di commissionari
astatori presso i mercati annonari all'ingrosso.
Sono abilitati alla consultazione anche ordini
professionali, camere di commercio e Autorità
anticorruzione.
Nella banca dati unica sono contenute le comunicazioni e le
informazioni antimafia, liberatorie e interdittive.
La banca dati nazionale unica consente anche la
consultazione dei dati acquisiti nel corso degli accessi nei
cantieri delle imprese interessate all'esecuzione di lavori
pubblici disposti dal prefetto.
Il rilascio delle comunicazioni e informazioni antimafia
sarà immediato se non risultano a carico degli interessati
le cause di divieto, sospensione e decadenza. La risposta
alla richiesta sarà inoltrata per via telematica.
Se emergessero cause di divieto, sospensione o decadenza o
comunque una documentazione antimafia interdittiva, la Banca
dati nazionale risponderà, contestualmente per via
telematica, al soggetto richiedente e alla Prefettura, che
non è possibile rilasciare immediatamente la comunicazione
antimafia liberatoria.
Il regolamento stabilisce il termine massimo di
conservazione dei dati: cinque anni per i dati relativi alla
documentazione antimafia liberatoria; quindici anni per i
dati relativi alla documentazione antimafia interdittiva.
Gli accessi alla banca dati saranno tracciati per evitare
abusi. Sempre per ragioni di sicurezza le operazioni di
accesso alla Banca dati saranno oggetto di controllo
specifico
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
APPALTI:
Appalti Ue, basterà un'autocertificazione.
La Commissione europea ha varato il documento
unico. Le imprese potranno candidarsi alle gare via web.
Semplificati gli adempimenti amministrativi per le imprese
che partecipano alle gare pubbliche europee. Tutte le
imprese che partecipano all'appalto pubblico europeo
potranno auto-certificare telematicamente il rispetto dei
criteri normativi e dei requisiti di capacità finanziaria
richiesti.
Solamente l'impresa vincitrice dovrà in seguito presentare
tutta la documentazione a riprova di essere qualificata a
svolgere le attività previste dal contratto.
Tutto questo grazie all'approvazione, il 05.01.2016, da
parte della Commissione europea del
documento unico europeo
degli appalti (cosiddetto European Single Procurement
Document, Espd costituito da tre direttive).
Le tre
direttive della riforma europea dovranno essere adottate dai
28 Stati membri entro il prossimo 17 aprile e i Paesi entro
ottobre 2018 dovranno fare in modo che il sistema delle gare
pubbliche sia completamente basato su web entro ottobre
2018.
Il documento prenderà il posto dei diversi sistemi
degli appalti pubblici in vigore nei 28 paesi Ue. Alle gare
pubbliche degli stati Ue potranno partecipare tutte le
imprese europee, indipendentemente dal Paese in cui sono
ubicate.
Autocertificazione via web.
Grazie al nuovo documento unico
verrà notevolmente semplificata la burocrazia per la
partecipazione alle gare d'appalto pubbliche da parte delle
imprese, e in particolare delle pmi europee. Il nuovo
sistema, sostiene Bruxelles, permetterà a tutte le imprese
di autocertificare via web il rispetto dei criteri normativi
e delle eventuali esigenze di capacità finanziaria
richieste.
In ogni caso, tutti gli operatori economici che
parteciperanno alla gara pubblica dovranno dichiarare di
essere in grado, su richiesta e senza indugio, di fornire i
documenti necessari a dimostrare la propria idoneità, a meno
che questi non siano già accessibili via pubblici registri.
Uniformità di adempimenti.
Nelle nota tecnica sul documento
unico degli appalti la Commissione europea evidenzia che
attualmente alcuni paesi hanno già introdotto forme di
auto-dichiarazione, mentre altri richiedono che tutte le
parti interessate forniscano prova documentale della loro
idoneità, capacità e status finanziario-economico. Con l'Espd
tutte le imprese invece potranno auto-certificare
elettronicamente i loro requisiti che dovranno essere
dimostrati con documenti cartacei solo dall'azienda
vincitrice della gara d' appalto.
Il «documento unico» potrà
essere scaricato, riempito manualmente e sottoposto
elettronicamente. Lo scopo delle norme sugli appalti
pubblici è garantire a tutti gli operatori economici dell'Ue
una reale possibilità di vedersi attribuito un appalto
pubblico. Procedure rapide e solide sono fondamentali anche
per sostenere gli investimenti ed evitare ritardi. Quasi la
metà dei fondi strutturali e di investimento europei viene
erogata tramite gli appalti pubblici.
«Riducendo il volume
dei documenti necessari, lo Espd renderà più semplice la
partecipazione delle imprese agli appalti pubblici e le
pubbliche amministrazioni potranno beneficiare di un più
ampio ventaglio di offerte, che assicureranno miglior
rapporto qualità/prezzo» ha dichiarato Elzbieta Bienkowska,
commissaria europea per il mercato interno, l'industria e
l'imprenditoria.
L'obiettivo continua la Commissaria europea «è un uso
efficiente dei fondi Ue attraverso un'applicazione coerente
e corretta delle norme sugli appalti in tutta l'Ue, così da
contribuire all'agenda dell'Ue per l'occupazione, la
crescita e gli investimenti»
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Bilanci locali, incognite à gogo. Vincoli per
tutti, blocco dei tributi, fondi in ritardo.
Anche il 2016 si annuncia difficile sul fronte
contabile. Dubbi sugli oneri di urbanizzazione.
Incognite à gogo per i bilanci degli enti locali. Anche per
il 2016, la legge di stabilità e il decreto Milleproroghe
non definiscono in modo compiuto il quadro entro il quale
comuni, province e città metropolitane sono chiamati a
costruire i preventivi. Quasi inevitabile, quindi, il solito
valzer di proroghe della scadenza, al momento già rinviata
al prossimo 31 marzo.
Il primo e maggiore dubbio riguarda la
portata dei vincoli di finanza pubblica, che da quest'anno
riguardano anche i comuni con meno di 1.000 abitanti. La
legge 208/2015 ha cancellato il Patto e introdotto la regola
del pareggio finale di sola competenza, ma rimane irrisolta
la questione circa la rilevanza della legge 243/2012, che
oltre a imporre il pareggio corrente, vincola pure la cassa.
Per i comuni, è stato in gran parte modificato il quadro
delle entrate, con un impatto sulle singole amministrazioni
ancora tutto da chiarire. Le novità in materia di tributi
hanno un duplice impatto: da un lato, gli enti perdono la
possibilità di manovrare la leva fiscale, sia aumentando le
aliquote che adottando qualsiasi altro provvedimento da cui
possa derivare un aumento del prelievo.
Secondo quanto
chiarito negli anni passati dalla giurisprudenza contabile
(cfr per esempio Corte conti, Lombardia, parere n. 74/2008)
con argomentazioni che paiono tuttora valide, il divieto si
applica anche nel caso di istituzione di nuovi tributi. Sono
vietati anche gli aumenti indiretti, ossia derivanti
dall'eliminazione o attenuazione di agevolazioni già
concesse in precedenza. Sono esclusi dal blocco gli enti in
dissesto e pre-dissesto, la Tari e le tariffe di natura
patrimoniale (come il Cosap), mentre rientra il Cimp.
I
comuni potranno mantenere (con espressa deliberazione) la
maggiorazione Tasi dello 0,8 per mille ove deliberata entro
il 30.09.2015. Dall'altro lato, vi sarà una perdita
di gettito derivante dalle misure di detassazione introdotte
a favore di abitazioni principali, terreni e immobili
perdutivi. In sostanza, occorrerà abbassare le previsioni
relative a Imu e, soprattutto Tasi, compensando le minori
entrate a valere sul fondo di solidarietà.
Ma sul quantum
l'incertezza regna sovrana. Come già accaduto in passato,
infatti, questo dare-avere potrebbe non essere perfettamente
neutrale per i singoli enti. Le somme stanziate dalla legge
di stabilità per ristorare i comuni dei mancati introiti
fiscali ammontano a circa 3,8 miliardi, molto meno di quanto
richiesto dall'Anci (5 miliardi). In questa prospettiva,
emerge un'altra criticità è legata alla tempistica:
difficilmente la distribuzione del fondo sarà completata
prima dell'estate.
Anche questa purtroppo non è una novità:
già negli anni passati, infatti, abbiamo dovuto fronteggiare
ampi ritardi. Basti pensare che, nel 2015, il dpcm di
riparto è stato firmato solo il 10 settembre (anche se le
cifre sono state rese note qualche settimana prima), mentre
secondo la tabella di marcia prevista legislativamente il
provvedimento avrebbe dovuto perfezionarsi entro il 31
dicembre dell'anno precedente o al massimo nei 15 giorni
successivi.
Nel 2016, tale scadenza è addirittura posticipata al 30
aprile (mentre dal 2017 dovrebbe stabilizzarsi al 30
novembre dell'anno precedente). Problematica è anche la
possibilità di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per
finanziare spese correnti, ammessa dalla manovra ma esclusa
dalle nuove norme contabili. Ancora più complessa la
situazione degli enti di area vasta, per i quali anche
quello appena iniziato sarà un anno di assoluta emergenza
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamenti diretti, regole precise per l'in
house providing.
Gli affidamenti diretti alle società pubbliche
non scompaiono, ma vengono regolati in modo più chiaro.
Lo schema di decreto legislativo per la riforma della
disciplina delle società pubbliche non elimina il cosiddetto
in house providing, cioè la gestione di servizi pubblici
mediante strumenti societari destinatari diretti degli
incarichi.
D'altra parte, l'in house providing è espressamente ammesso
e consentito dalla giurisprudenza e normativa europea.
Proprio alla giurisprudenza si rifà lo schema di decreto
legislativo, nell'intento di specificare con migliore
comprensibilità i requisiti necessari perché si possa
parlare di un vero e proprio in house providing.
In primo luogo, le società a controllo pubblico titolari di
affidamenti diretti non debbono avere partecipazione di
capitali privati. Eccezioni espresse possono essere disposte
esclusivamente dalla legge, purché comunque la
partecipazione privata non disponga di poteri di veto e non
eserciti influenza determinante nelle decisioni della
società.
Oltre al presupposto soggettivo dell'assenza di capitali
privati, per un vero e proprio in house providing occorrono
due ulteriori elementi.
Il primo è il cosiddetto «controllo analogo» a quello che
l'ente esercita nei confronti dei propri uffici: la società,
insomma, anche se persona giuridica autonoma deve dipendere
dall'ente come se ne fosse un'articolazione, in virtù del
rapporto di delegazione intersoggettiva che deriva dal
contratto di servizio.
Perché il controllo analogo sussista, occorre tuttavia che
l'amministrazione pubblica socia (o l'insieme degli enti nel
caso di società pluripersonali) sia titolare di un potere di
direzione e coordinamento particolarmente intenso, tale da
privare l'organo amministrativo della società dell'ordinaria
autonomia prevista dalle regole civilistiche, sì da giungere
fino al potere di adottare atti vincolanti ai quali l'organo
amministrativo societario deve assoggettarsi. Per questa
ragione, gli statuti delle società in house possono
contenere clausole in deroga alle disposizioni degli
articoli 2380-bis e 2409 del codice civile in tema di
esclusività della gestione delle società. Gli intensi poteri
di ingerenza dell'ente pubblico partecipante richiesti dal
modello in house providing possono anche essere acquisiti
mediante appositi patti parasociali, di durata anche
superiore ai 5 anni.
Il secondo elemento necessario per il modello in house
impone che gli statuti delle società prevedano che non meno
dell'80% della loro attività sino effettuate per lo
svolgimento dei compiti ad esse affidati dall'ente pubblico
partecipante.
La restante parte della produzione rispetto a quella
prevalente, sarà consentita solo a condizione che da essa
derivino economie di scala o altri guadagni di efficienza
produttiva per lo svolgimento delle attività principali
della società.
Il riferimento all'80% delle attività non appare
sufficientemente preciso: non si capisce se esso derivi dal
fatturato, oppure dalla percentuale delle attività
lavorative. Sarebbe necessaria una precisazione.
Sta di fatto, però, che il superamento del limite dell'80%
costituisce grave irregolarità della gestione e causa di
responsabilità per l'organo amministrativo, tale da imporre
alla società partecipata di rimediare. Lo schema del dlgs
impone alla società di rinunciare a una parte di rapporti di
fornitura con soggetti terzi (diversi dall'amministrazione
partecipante), risolvendo i connessi contratti.
In alternativa, la società potrebbe rinunciare
all'affidamento diretto ottenuto dall'ente pubblico
partecipante. Il quale, in questo caso, potrebbe nuovamente
affidare le attività prima assegnate alla società in house
solo rivolgendosi al mercato, attraverso procedure
competitive entro i sei mesi successivi allo scioglimento
dei rapporti contrattuali con la ex società in house,
la quale, in questo periodo, potrà comunque continuare a
rivolgere le proprie prestazioni all'ente
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
APPALTI:
Appalti, mini-enti in difficoltà. Con le
convenzioni Consip approvvigionamenti a rischio.
La centralizzazione degli acquisti sta
creando problemi per il rifornimento di carburante.
La centralizzazione degli appalti alla Consip rafforzata
dalla legge 208/2015 inizia subito a creare problemi
applicativi per i piccoli comuni.
La questione riguarda in
particolare l’approvvigionamento dei carburanti rete. Sul
territorio dei comuni di piccole dimensioni non è per nulla
detto che siano presenti gestori selezionati dalla Consip o
da altri soggetti aggregatori regionali, né, comunque, che
il gestore eventualmente presente sia particolarmente vicino
alla sede comunale.
Anche se un comune abbia la fortuna di
ospitare un distributore nel proprio territorio, molto
facilmente esso si trova nell’estrema periferia o in zone
industriali, a diverse decine di chilometri di distanza
dalle sedi degli uffici. Per contro, nell’ambito dei confini
comunali o, comunque, piazzati ben più vicini alle sedi,
possono trovarsi distributori non selezionati da Consip e
soggetti aggregatori.
L’articolo 1, comma 494, della legge
208/2015, nel modificare l’articolo 1, comma 7, del dl
95/2012, convertito in legge 135/2012 rende più difficile ai
comuni rendersi autonomi dalle disfunzioni organizzative che
possono discendere dagli appalti delle centrali di
committenza. Infatti, si stabilisce che è fatta salva la
possibilità di procedere ad affidamenti anche al di fuori
delle convenzioni Consip, ma a condizione «che gli stessi
conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di
committenza o a procedure di evidenza pubblica», e prevedano
corrispettivi inferiori almeno del 3%, nel caso dei
carburanti.
È evidente che l’obbligo di utilizzare
convenzioni di centrali di committenza diverse dalla Consip
ben difficilmente sortirà effetti diversi dalle convenzioni
Consip. Altrettanto ovvio avrebbe dovuto essere per il
legislatore prendere atto che nel caso in cui un solo
distributore sia presente nel territorio di un comune,
l’esperimento della procedura aperta risulta oggettivamente
eccessivo: di fatto, la distanza o «rendita di posizione»
esclude tutti gli esercenti più distanti.
D’altra parte,
proprio la rendita di posizione dell’esercente lo
dissuaderebbe dall’applicare qualsiasi sconto ai
corrispettivi indicati dalla Consip. Gli enti di piccole
dimensioni si troveranno in un vicolo cieco: avvalersi dei
distributori lontani e scomodi individuati dalla Consip, o
attivare strumenti di gara non esaustivamente disciplinati
dalla legge 208/2015, che non ha nemmeno preso in
considerazione l’ipotesi della gara deserta, la quale, ai
sensi del dlgs 163/2006, dovrebbe comunque consentire la
procedura negoziata.
Occorrerebbero indicazioni pratiche, perché i comuni non
debbano sostenere l’onere della spesa di benzina connessa
alla necessità di percorrere decine di chilometri proprio
per rifornirsi di benzina, oltre al costo orario della
persona chiamata a effettuare il rifornimento. Potrebbe
essere utile considerare questi costi come risparmio da
utilizzare per giustificare contratti con gestori, attivati
autonomamente, con ribassi anche inferiori al 3% imposto
dalla legge di Stabilità, laddove detti risparmi, sommati ai
ribassi ottenuti, assicurino comunque un costo inferiore del
3% a quello che si sosterrebbe avvalendosi delle convenzioni
dei soggetti aggregatori.
Ma, in assenza di specificazioni normative, per i comuni è
rischiosissimo agire anche col solo buon senso. È facile
immaginare che le sezioni regionali di controllo della Corte
dei conti saranno presto inondate da quesiti sul tema
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Le mille proroghe per gli appalti. Piccoli
comuni: opere fino a 40 mila affidate direttamente.
In vigore fino a luglio la qualificazione
agevolata e l'anticipazione prezzi al 20%.
Fino a fine luglio qualificazione per lavori e progettazioni
agevolata e anticipazione prezzi al 20% dell'importo dei
lavori; acquisti fino a 40 mila euro senza ricorso alle
centrali di committenza per i comuni con meno di 10 mila
abitanti.
Sono queste alcune delle novità contenute nel decreto-legge
30.12.2015, n. 210, cosiddetto «mille proroghe» e
nella legge di Stabilità per il 2016.
Con il decreto «mille proroghe», per quel che concerne la
qualificazione alla procedure di affidamento di appalti di
servizi di ingegneria e architettura, il governo ha deciso
di prorogare fino alla fine di luglio 2016 l'efficacia
dell'art. 253, comma 15-bis del codice dei contratti
pubblici che consente a professionisti, società di
ingegneria e a raggruppamenti temporanei di progettisti di
qualificarsi nelle gare con i migliori cinque anni del
decennio (fatturato) e con i migliori tre anni del
quinquennio (personale).
Per la norma, introdotta nel 2010 e
già prorogata nel 2013, il differimento è stato previsto di
sette mesi come se si trattasse di una proroga di natura
«tecnica» in attesa dell'entrata in vigore della riforma del
codice dei contratti pubblici e del recepimento delle
direttive europee.
Nel disegno di legge delega appalti, che
è ormai alle battute finali e dovrebbe essere approvato in
via definitiva entro questo mese, si prevede infatti che il
decreto, o i decreti delegati, debbano essere perfezionati
al massimo entro fine luglio, se il governo dovesse optare
per l'attuazione della delega in due step (prima il
recepimento delle direttive entro aprile e poi la riforma
del codice entro fine luglio).
Altri sette mesi sono stati previsti anche per
l'applicazione della norma sull'anticipazione prezzi per gli
appalti di lavori che con il decreto-legge 192/2014 era
stata elevata dal 10 al 20% dell'importo del contratto ma
fino al 31.12.2015; quindi fino a fine giugno le
stazioni appaltanti avranno l'obbligo di continuare a
corrispondere un quinto di anticipazione del prezzo.
General contractor e attestati Soa. Si potrà utilizzare
sempre fino a tutto luglio 2016 l'articolo 189, comma 5, del
codice dei contratti pubblici che consente la possibilità
per i contraenti generali di dimostrare l'adeguata idoneità
tecnica e organizzativa attraverso la produzione di
attestati Soa al posto dei certificati di esecuzione dei
lavori.
Per quel che riguarda invece la legge di Stabilità per il
2016 (28.12.2015, n. 208) le principali novità
riguardano le modalità di gestione centralizzata degli
appalti a cominciare dalla disposizione che consente ai
comuni con popolazione inferiore ai 10 mila abitanti di
procedere senza ricorrere alle centrali di committenza in
caso di stipula dei contratti di importo fino a 40 mila euro
che quindi potranno essere affidati direttamente dall'ente
locale.
Viene rafforzato il ruolo di Consip, che potrà occuparsi
anche degli appalti relativi alle attività di
«manutenzione», mentre per rendere comunque efficace
l'obbligo di ricorso alle centrali di committenza si prevede
che nei territori in cui esse non siano costituite o
operative dovrà essere la centrale regionale di committenza
di riferimento a individuare un'altra centrale di
committenza.
Dal punto di vista programmatorio rileva l'obbligo per le
amministrazioni pubbliche di approvare, entro il mese di
ottobre di ciascun anno, il programma biennale e suoi
aggiornamenti annuali degli acquisti di beni e di servizi di
importo unitario stimato superiore a un milione di euro.
Infine, viene soppressa l'Unità tecnica finanza di progetto
(istituita dall'art. 7 della legge n. 144/1999 presso il
Cipe) e le sue funzioni sono trasferite al Dipartimento per
la programmazione e il coordinamento di politica economica
della presidenza del consiglio dei ministri
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
PATRIMONIO:
Edifici pubblici, collaudi solo a chi è a regola
d'arte. Parte il monitoraggio
sull'obbligo di inserire quadri e sculture.
Al via il monitoraggio semestrale sull'applicazione
dell'obbligo di inserimento delle opere d'arte negli edifici
pubblici soggetti alla legge 717/1949; non sarà collaudabile
l'opera che non le contiene.
Sono queste alcune delle indicazioni che il ministero dei
beni e delle attività culturali e del turismo ha fornito con
nota 10.12.2015 n. 2798 di prot. rispetto ad alcune
indicazioni contenute nel Dpcm 29.08.2014 n. 171 sulla
vigilanza nella realizzazione delle opere d'arte negli
edifici pubblici ai sensi della legge 717/1949.
Si tratta della disciplina in base alla quale una quota
percentuale dell'importo di progetto deve essere destinato
alla realizzazione delle opere d'arte per edifici pubblici.
La percentuale in particolare è stata nel tempo modulata
prevedendo: il 2% del costo dell'opera per i progetti di
importo pari o superiore a 1 milione di euro e inferiori a 5
milioni di euro; l'1% per i progetti di importo pari o
superiore a 5 milioni di euro e inferiori a 20 milioni di
euro; lo 0,5% per gli importi pari o superiori a 20 milioni
di euro.
Per definire le modalità applicative di questa disciplina
nel 2006 sono state emanate (decreto datato 23.03.2006)
delle linee guida sull'applicazione della legge 717 e
successivamente è stata emessa una circolare del Mit del 28.05.2014 n. 3278 che ha sottolineato l'esigenza di
svolgere con attenzione le attività di verifica, validazione
e approvazione dei progetti, nonché del quadro economico e
ha specificato quali debbano essere i compiti del
responsabile del procedimento e del collaudatore.
Il primo,
fra le altre cose, deve promuovere in tempi adeguati il
bando per la scelta degli artisti che dovranno eseguire le
opere d'arte, mentre il secondo, in sede di collaudo, deve
verificare che la normativa sia stata applicata
correttamente, al punto da non poterla collaudare finché le
opere d'arte non sono state tutte eseguite.
La circolare del ministero dei beni culturali si preoccupa
di fornire indicazioni «atteso che per molte realizzazioni
di edifici pubblici non si rilevano competenze specifiche»
nell'ambito delle singole amministrazioni.
In particolare, si invitano le stazioni appaltanti tenute ad
applicare l'obbligo della legge 717 ad attivarsi per un
«necessario raccordo e collaborazione istituzionale fra la
direzione generale arte e architettura contemporanea e gli
uffici periferici del ministero». A tale riguardo la
circolare contiene un allegato con una scheda per avviare il
monitoraggio sull'obbligo previsto dalla legge 717, da
inviare al ministero ogni sei mesi (30 giugno e 31 dicembre)
e sottolinea l'esigenza di verificare, in sede di rilascio
dei pareri, che la legge 717 sia applicata.
Inoltre, il ministero chiede di effettuare una «costante
azione di monitoraggio», arrivando anche ad attuare
poteri sostitutivi (che saranno svolti dalle soprintendenze
dei beni culturali competenti per territorio). Proprio le
soprintendenze sono poi chiamate dalla circolare a
sensibilizzare le pubbliche amministrazioni «con nota
formale» impartendo l'obbligo del rispetto della norma e
quindi l'avvio da parte del responsabile unico del
procedimento dell'avvio della procedura concorsuale di
selezione degli artisti
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
VARI:
Patente, la revoca agisce dalla data della
sentenza. Alcol e droga. Circolare Motorizzazione.
La prassi resta invariata fino a un
eventuale bocciatura da parte della Cassazione: il periodo
di “blocco” di tre anni -nel quale chi subisce la revoca
della patente per guida in stato di ebbrezza grave o sotto
effetto di droghe non può conseguire una nuova licenza- va
contato a partire dalla data di passaggio in giudicato della
sentenza di condanna e non da quella in cui è avvenuta
l’infrazione.
Lo ha stabilito la
Motorizzazione, con la
nota 21.12.2015
n. 29675 di prot., che indica la volontà di non
seguire la giurisprudenza contraria (di cui si è dato conto
sul Sole 24 Ore dell’8 dicembre scorso).
La Motorizzazione ha deciso così perché confortata da altra
giurisprudenza recente riguardo alla norma che impone il
blocco (articolo 219, comma 3-ter, del Codice della strada):
l’ordinanza 19572/2015, emessa il 28 settembre dello scorso
anno dal Tribunale di Firenze. Un provvedimento preso con
motivazioni che la circolare definisce «fondate su una
interpretazione strettamente giuridica della norma» e non su
«circostanze di fatto (tempi del processo, ecc.)» che invece
hanno pesato su altre sentenze di senso contrario.
In effetti, il comma 3-ter fa decorrere i tre anni di
“blocco” dalla «data di accertamento del reato» e il
Tribunale di Firenze interpreta queste parole sia in senso
letterale sia in senso logico-sistematico giungendo alla
conclusione che esse indichino il giorno di passaggio in
giudicato della condanna.
Dal punto di vista letterale, i giudici di Firenze notano
che spetta istituzionalmente al giudice accertare la
sussistenza di un reato. Se ne deduce che l’accertamento
effettuato dagli organi di polizia non conta a questi fini.
A riprova di ciò, si cita il fatto che, se avesse voluto
stabilire diversamente, la norma non avrebbe usato la parola
«reato» ma «consumazione dell’illecito» o simili, legate
comunque al momento in cui gli agenti verbalizzano
l’accaduto e non a quando il giudice dichiara
definitivamente che si è trattato di un reato.
Dal punto di vista logico-sistematico, occorre notare che
l’articolo 224, comma 2, del Codice della strada lega la
revoca della patente a una «condanna irrevocabile», come può
essere solo col passaggio in giudicato. Sempre dall’articolo
224 emerge che la revoca viene disposta dal prefetto solo
dopo tale passaggio, per cui l’imputato non potrebbe nemmeno
candidarsi per gli esami necessari a ottenere una nuova
patente, essendo formalmente ancora titolare della propria.
Dunque, gli uffici della Motorizzazione continueranno a
respingere le domande basate su un calcolo dei tre anni che
parta dalla data dell’infrazione. Faranno così -afferma la
circolare- fino a quando non arriveranno decisioni
contrarie dai «massimi organi giurisdizionali».
Resta il problema pratico di una revoca disposta anche dopo
diversi anni dall’accaduto, dati i tempi della giustizia. Da
un lato, non è detto che i divieti di guida che il Codice
della strada consente di adottare in via cautelare bastino a
evitare che un conducente pericoloso circoli. D’altra parte,
se dopo l’infrazione l’imputato assume un comportamento
ineccepibile, gli si causano pregiudizi per troppo tempo (articolo Il Sole 24 Ore del
07.01.2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Ponteggi, preposti per scelta.
La presenza del «preposto» dipende dall'organizzazione
aziendale e, soprattutto, dalla volontà del datore di lavoro
di non sovraintendere personalmente alle operazioni di
sorveglianza alle attività di particolare rischio (come
ponteggi, paratoie, cassoni, demolizioni di cantieri edili).
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello 29.12.2015
n. 16/2015.
L'interpello.
La commissione risponde ai quesiti dell'associazione
nazionale costruttori edili (Ance), al fine di sapere la
corretta interpretazione della figura del «preposto alla
sorveglianza dei ponteggi» (figura prevista dall'art. 136
del dlgs n. 81/2008, il T.U. sicurezza), e in particolare ai
compiti e ai requisiti di formazione.
Chi è il «preposto».
Preliminarmente, la commissione nota che la figura del
«preposto» è disciplinata, di principio, dall'art. 2 del
T.u. sicurezza, ai sensi del quale è tale definita «la
persona che, in ragione delle competenze professionali e nei
limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla
natura dell'incarico conferitogli, sovrintende all'attività
lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive
ricevute controllandone la corretta esecuzione da parte dei
lavoratori ed esercitando un funzionale potere di
iniziativa» (gli obblighi sono dettagliati dall'art. 19
dello stesso T.u.).
Figura non obbligatoria.
Ai sensi dell'art. 2 del T.u., precisa la commissione, la
figura del «preposto» non è obbligatoria, «ma è una scelta
del datore di lavoro in base all'organizzazione e alla
complessità della sua azienda».
In particolare, il preposto
è un soggetto dotato di un potere gerarchico e funzionale,
sia pure limitato, e di adeguate competenze professionali al
quale il datore di lavoro «fa ricorso in genere allorquando
non può personalmente sovraintendere all'attività lavorativa
e controllare l'attuazione delle direttive da lui
impartite».
Attività rischiose.
In alcuni casi, il T.u. prescrive la presenza di un preposto
al fine di sorveglianza di particolari operazioni
lavorative. È il caso, ad esempio, dell'art. 136 laddove è
stabilito che «il datore di lavoro assicura che i ponteggi
siano montati, smontati o trasformati sotto la diretta
sorveglianza di un preposto».
In tal caso, spiega la
commissione, la normativa richiede specificatamente che i
lavori siano effettuati sotto la diretta sorveglianza di
soggetto preposto e gerarchicamente sovraordinato ai
lavoratori che svolgono tali attività, il quale «ovviamente
può essere lo stesso datore di lavoro purché abbia seguito
gli appositi corsi di formazione».
La formazione.
Riguardo agli aspetti della formazione, inoltre, la
commissione precisa che il preposto deve partecipare a due
corsi: a quelli di formazione o aggiornamento disciplinati
dall'allegato XXI del T.u. oltre al corso di formazione
ordinario, previsto dall'art. 37 dello stesso T.u.
Altri casi.
Infine, la commissione evidenzia che il T.u prevede la
presenza di un preposto anche per altre attività:
a) costruzione, sistemazione, trasformazione o
smantellamento di una paratoia o di cassone nei cantieri
temporanei o mobili (art. 149, comma 2);
b) lavori di demolizione nei cantieri temporanei o mobili
(art. 151).
In entrambi questi casi, però, per i preposti non è
richiesta alcuna formazione aggiuntiva oltre quella
ordinaria (art. 37 del T.u.)
(articolo ItaliaOggi del
07.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Vecchio Mud confermato con riserva di
integrazioni. Ambiente. Il modello si potrà utilizzare per
le dichiarazioni in scadenza in aprile.
Il Mud dello scorso anno vale anche
per la dichiarazione riferita al 2015 e per quelle degli
anni futuri (Sistri permettendo).
È questa la novità fondamentale del Dpcm 21.12.2015 relativo
al Mud, il modello unico di dichiarazione ambientale,
pubblicato sulla la Gazzetta ufficiale n. 300 del
28.12.2015.
Il nuovo Mud conferma il vecchio modello di cui al Dpcm del
17.12.2014, ma dispone anche per gli anni successivi, poiché
quel modello del 2014 «sarà utilizzato per le
dichiarazioni da presentare … entro il 30 aprile di ogni
anno, con riferimento all’anno precedente e sino alla piena
entrata in operatività del Sistri».
Quindi, il nuovo Dpcm del 2015 non reca alcun allegato, ma
si riserva di fornire informazioni aggiuntive alle
istruzioni riportate in allegato al Dpcm 17.12.2014. Queste
informazioni saranno rese disponibili sui seguenti siti
internet: www.sviluppoeconomico.gov.it; www.minambiente.it;
www.isprambiente.gov.it; www.unioncamere.it;
www.infocamere.it; www.ecocerved.it.
È allora necessario che tutti coloro i quali sono obbligati
al Mud consultino con particolare attenzione tali siti al
fine di poter reperire le informazioni necessarie per la
compilazione del modello e la sua consegna entro il
30.04.2016 alla Camera di commercio della provincia dove ha
sede l’unità locale cui è riferita la dichiarazione (chi
effettua solo trasporto e gli intermediari senza detenzione
lo presentano alla Cciaa della provincia ove l’impresa ha la
sede legale).
I soggetti interessati, infatti, dovranno dichiarare i
rifiuti prodotti e gestiti nel 2015 e le apparecchiature
elettriche ed elettroniche (Aee) immesse sul mercato.
Il rinvio a future informazioni aggiuntive rende evidente
che le modifiche al Mud non erano ancora pronte e che,
quindi, esso cambierà. Tuttavia, con la pubblicazione del
Decreto 21.12.2015 si eviterà di far slittare in avanti la
data del 30.04.2016. Infatti, l’articolo 6, comma 2-bis
della legge 70/1994 stabilisce che se le modifiche e le
integrazioni sono apportate al Mud, nell’anno successivo a
quello di riferimento e pubblicate sulla Gazzetta ufficiale
con Dpcm entro il 1° marzo, «il termine per la
presentazione del modello è fissato in centoventi giorni a
decorrere dalla data di pubblicazione del predetto decreto».
Quindi, se il Dpcm in esame non fosse stato pubblicato entro
la fine del 2015 e il provvedimento completo di modifiche e
integrazioni avesse trovato la via della Gazzetta solo entro
il prossimo 1° marzo, il termine di presentazione del Mud
sarebbe slittato di sei mesi dal giorno della pubblicazione,
travolgendo il consueto 30 aprile e procurando sicuramente
scompiglio nella già non semplice vita delle imprese
italiane.
Il Mud, dunque, a dispetto delle apparenze cambierà. Le
sanzioni invece non cambieranno: l’articolo 11, comma 3-bis,
del Dl 101/2013 (Legge 125/2013) stabilisce, così, che fino
al 31.12.2016 (come previsto dal Dl milleproroghe in corso
di pubblicazione in Gazzetta ufficiale) continuano ad
applicarsi (anche) le sanzioni relative al Mud di cui
all’articolo 258, commi 1 e 5, Dlgs 152/2006 (nella versione
precedente alla modifica del Dlgs 205/2010) anche per
l’omessa, incompleta o inesatta presentazione del Mud
(sanzione amministrativa pecuniaria dal 2.600 a 15.500
euro). Si aggiunge la presentazione in ritardo entro il 29
giugno (sanzione amministrativa pecuniaria dal 26 a 160
euro).
Le indicazioni incomplete o inesatte che, però, consentono
di ricostruire le informazioni dovute, sono invece colpite
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 260 a 1.550
euro (articolo Il Sole 24 Ore del
06.01.2016). |
ENTI LOCALI: Tornano i controlli preventivi.
Alla Corte conti la verifica sulle nuove partecipate.
Lo prevede lo schema di decreto legislativo di riordino
delle società pubbliche.
Tornano i controlli esterni preventivi di legittimità, sia
pure limitati alla sola fattispecie della costituzione di
nuove società partecipate.
Il dlgs di riordino delle società
pubbliche, in dirittura in consiglio dei ministri (sai veda
ItaliaOggi di ieri), rispolvera i controlli preventivi,
modificando in parte il ruolo delle sezioni regionali della
Corte dei conti, affidando loro per la prima volta ed in via
espressa una funzione di vera e propria verifica preventiva
della legittimità delle delibere finalizzate alla
costituzione delle società.
Si prevede, infatti, che le amministrazioni pubbliche prima
di adottare il provvedimento destinato a far sorgere una
società dovranno inviare lo schema dell'atto e la relazione
tecnica allegata alla sezione della Corte dei conti
competente. La magistratura contabile verificherà la
congruenza delle motivazioni sulla necessità della società
per il perseguimento dei fini istituzionali dell'ente, degli
obiettivi gestionali e della convenienza economica e
sostenibilità finanziaria, anche confrontando la scelta
dell'ente con modalità alternative di gestione, come la
gestione in via diretta o l'esternalizzazione (tramite
appalti o concessioni).
Inoltre, la Corte dei conti verificherà la coerenza della
costituzione di nuove società con i piani di
razionalizzazione delle partecipate, se adottati. Come per
ogni vero e proprio procedimento di controllo, la sezione
competente entro 30 giorni dovrà formulare rilievi,
altrimenti l'accertamento si intenderà positivo. La Corte
dei conti potrà chiedere una volta sola chiarimenti,
sospendendo il termine per il controllo e l'ente interessato
dovrà rispondere con specifico riferimento ai rilievi mossi
dalla sezione.
Le diffusissime violazioni delle molteplici norme che da
anni, ormai, indicano alle amministrazioni pubbliche locali
di rivedere l'assetto delle società partecipate devono aver
convinto il legislatore che i soli controlli interni o
l'esercizio di un'autonomia decisionale «responsabile» non
bastino ad assicurare il rispetto delle norme. Da qui la
scelta, da considerare inevitabile, di ripristinare i
controlli preventivi, che probabilmente andrebbe estesa a
moltissime altre materie.
C'è, tuttavia, un'incongruenza. L'attività di controllo non
è di natura giurisdizionale, ma amministrativa. Affidare,
dunque, i controlli ad un giudice significa coinvolgerlo in
una funzione di amministrazione, il che non è perfettamente
in linea con la Costituzione e l'indipendenza dei giudici.
Per altro, se si qualificassero gli atti di controllo della
Corte alla stregua di provvedimenti amministrativi si
arriverebbe al paradosso della possibilità che gli enti
ricorrano al Tar contro provvedimenti del giudice contabile
(articolo ItaliaOggi del
06.01.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: SOCIETA'
PARTECIPATE/
Le disposizioni sul personale.
Reclutamenti doc.
Reclutamenti e mobilità del personale delle società
partecipate seguiranno i modelli operativi vigenti nelle
pubbliche amministrazioni, sia pure con rilevanti
peculiarità.
Lo schema del decreto attuativo della riforma
Madia riguardante le partecipate fa il punto sulla
disciplina dei rapporti di lavoro dei circa 1 milione di
dipendenti delle società pubbliche.
Regole generali. Poiché le società sono persone giuridiche
di diritto privato, ai rapporti di lavoro dei loro
dipendenti si applicano le disposizioni previste dal codice
civile, dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato
nell'impresa e dai contratti collettivi. A tale disciplina
generale derogano le specifiche disposizioni contenute nel
decreto legislativo di riforma delle partecipate.
Reclutamento. Lo schema riprende le indicazioni contenute
nell'art. 18 del dl 112/2008. Le società a controllo
pubblico sono obbligate ad adottare regolamenti interni, con
i quali fissare criteri e modalità delle assunzioni,
rispettosi dei principi, anche di derivazione comunitaria,
di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, nonché dei
principi di cui all'art. 35, co. 3, del dlgs 165/2001.
In
poche parole, il reclutamento dovrà avvenire mediante
concorsi. Occorre ricordare che le società dovranno
applicare anche le regole anticorruzione, particolarmente
rigorose per il rischio specifico connesso proprio ai
reclutamenti. In assenza dei regolamenti interni, o laddove
le assunzioni non abbiano rispettato le procedure viste
prima, le assunzioni saranno nulle. Spetterà al giudice
ordinario la giurisdizione sia sulla validità dei
regolamenti, sia sulle procedure di assunzione.
Obiettivi di contenimento. Ciascuna amministrazione
partecipante dovrà definire obiettivi specifici annualmente,
per indicare alle società gli strumenti di contenimento dei
costi del personale, anche facendo riferimento alle norme
che impongono vincoli alle amministrazioni stesse. Le
direttive delle amministrazioni dovranno essere recepite
dalle società, attraverso la contrattazione di secondo
livello.
Mobilità. Alle società è data facoltà di stipulare accordi
tra loro, per attivare processi di mobilità obbligatoria,
senza il consenso dei dipendenti, dovute a comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive. Tali mobilità
avverranno nel raggio di 50 km (art. 30, co. 2, primo
periodo, dlgs 165/2001).
Tuttavia, gli accordi collettivi
stipulati dalle organizzazioni sindacali possono ampliare il
raggio territoriale dei trasferimenti. Le p.a. dovranno
adottare atti di indirizzo, per indicare alle società di
esperire le procedure di mobilità, prima di attivare
procedure finalizzati a nuovi reclutamenti. La mobilità tra
le società partecipate e le amministrazioni pubbliche,
partecipanti o meno al capitale, è vietata.
Esuberi. La mobilità obbligatoria potrà essere utilizzata
anche per favorire il riassorbimento di eventuali esuberi,
dovuti a ragioni economiche o organizzative. In questo caso,
le società a controllo pubblico potranno farsi carico per un
periodo massimo di tre anni di una quota non superiore al
30% del costo del personale trasferito, purché le proprie
disponibilità di bilancio lo consentano.
In questo caso, le
risorse che le società cedenti trasferiscono alle
cessionarie non concorrono alla formazione dell'imponibile
per le imposte sul reddito e l'Irap. Per favorire i processi
di razionalizzazione, fusione o soppressione delle società
(anche mediante loro liquidazione), al personale delle
società soppresse andato in esubero si potrà applicare la
disciplina di tutela prevista nel caso di cessione
d'azienda, in deroga all'art. 29 del dlgs 276/2003. In
questo modo, il personale potrà essere trasferito
all'aggiudicatario della prima gara successiva alla chiusura
delle attività delle società.
Reinternalizzazione. Fermo restando il divieto della
mobilità dalle società alle amministrazioni pubbliche, lo
schema di dlgs attribuisce alle amministrazioni la facoltà
di reinternalizzare proprio personale, a suo tempo
trasferito alle società partecipate, prima di procedere a
nuove assunzioni dall'esterno.
Ciò sempre laddove le società
debbano ridimensionarsi. La reinternalizzazione (per la
prima volta espressamente consentita dalla legge) potrà
essere effettuata esclusivamente nei limiti dei tetti del
turn-over.
Regole privatistiche. Come ultima
ratio, laddove i
dipendenti delle società non siano ricollocati mediante le
mobilità o le rinternalizzazioni, per loro si applicano le
norme in tema di mobilità regolata dalla legge 223/1991 e
gli ammortizzatori sociali (Naspi e Asdi) previsti dal dlgs
22/2015
(articolo ItaliaOggi del
06.01.2016). |
SICUREZZA LAVORO: In ogni scavo il rischio di ordigni bellici.
La valutazione del rischio inerente alla presenza di ordigni
bellici inesplosi è dovuta sempre, per ogni attività di
scavo, quale che sia la profondità e la tipologia. La
valutazione va fatta dal coordinatore per la sicurezza ed è
inutile rivolgersi alle strutture amministrative pubbliche
(il ministero della difesa, per esempio), in quanto non
esistono mappature ufficiali sui territori interessati dalla
presenza di ordigni bellici.
Lo precisa la commissione per
gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello
29.12.2015 n.
14/2015.
Tre quesiti. I chiarimenti sono arrivati a risposta di tre
quesiti del consiglio nazionale degli ingegneri:
1) se, appunto, la valutazione del rischio di presenza di
ordigni bellici inesplosi sia da intendersi relativa ai
rischi derivanti dalle attività di scavo ovvero
limitatamente ai rischi derivanti dalla specifica attività
di bonifica da eseguirsi da parte di impresa specializzata
in bonifiche di ordigni bellici;
2) se la valutazione di tale rischio, che deve essere
effettuata dal coordinatore per la sicurezza, sia sempre
necessaria (cioè in ogni cantiere in cui sia prevista
un'attività di scavo) oppure soltanto a seguito di specifica
richiesta da parte del committente, motivata sulla base di
dati storici oggettivi che testimonino la possibilità di
rinvenimenti di ordigni bellici inesplosi;
3) quale sia il ruolo e le forme di collaborazione previste
e consentite dalla normativa con il ministero della difesa
e/o Stato maggiore della difesa, soggetti che
presumibilmente sono in possesso di mappature ufficiali in
tema di ordigni bellici inesplosi.
Tre chiarimenti. Rispondendo al primo quesito, la
commissione precisa che la valutazione del rischio inerente
alla presenza di ordigni bellici inesplosi «deve intendersi
riferita alle attività di scavo, di qualsiasi profondità e
tipologia, come espressamente previsto dall'art. 28 del dlgs
n. 81/2008», il T.u. sicurezza.
In merito al secondo quesito, la commissione precisa che la
predetta valutazione «deve essere sempre effettuata dal
coordinatore per la sicurezza, in sede progettuale, qualora
in cantiere siano previste attività di scavo». Ad esempio,
la valutazione, nell'ambito del Piano di sicurezza e di
coordinamento (Psc), può essere effettuata sulla base di
dati disponibili per via di:
• analisi storiografica;
• fonti bibliografiche di storia locale;
• fonti conservate presso gli Archivi di Stato, archivi dei
comitati provinciali protezione antiaerea e archivi delle
prefetture;
• fonti del ministero della difesa (uffici Bcm di Padova e
di Napoli rispettivamente per l'Italia settentrionale e
l'Italia meridionale e le isole);
• stazioni dei carabinieri;
• aerofototeca nazionale di Roma;
• vicinanza a linee viarie, ferroviarie, porti o comunque
infrastrutture strategiche durante il conflitto bellico;
• eventuali aree precedentemente bonificate prossime a
quelle in esame.
In alternativa o a integrazione dell'analisi documentale
(specie qualora questa risulti di scarsa entità) può essere
effettuata anche un'analisi strumentale.
Infine, in merito al terzo quesito la commissione precisa
che «non esiste alcuna mappatura ufficiale comprensiva di
tutte le aree del territorio nazionale interessata dalla
presenza di possibili ordigni bellici» e che il
ministero della difesa ha avviato un progetto di
realizzazione di un database geografico
(articolo ItaliaOggi del
06.01.2016). |
CONDOMINIO - PATRIMONIO:
Contro la legionellosi prevenzione negli impianti
idrici. Salute. Vanno applicate le
Linee guida.
Nel maggio del
2015 sono state pubblicate dal ministero della Salute le
nuove «Linee guida per la prevenzione e il controllo della
Legionellosi», un documento che estende l’obbligo di
redigere un «Protocollo di controllo del rischio
Legionellosi» anche ai condomìni e alle strutture civili in
genere.
L’amministratore di condominio viene reso responsabile della
realizzazione del «Protocollo di controllo del rischio
Legionellosi», documento che deve contenere una “valutazione
del rischio” con l’obiettivo di identificare tutti i fattori
di rischio del condominio e, in particolare, degli impianti
idrici (come l’impianto centralizzato per la produzione di
acqua calda sanitaria), e una “gestione del rischio” nella
quale vengono definite le procedure per la manutenzione
degli impianti idrici nonché le procedure per i periodici
controlli microbiologici dell’acqua erogata.
Che cos’è
Legionella è un batterio aerobio che vive nell’acqua.
L’infezione per l’uomo si contrae inalando goccioline di
acqua (termine tecnico: “aerosol”) provenienti da un
impianto idrico contaminato.
Il batterio predilige temperature dell’acqua calda;
l’intervallo ottimale per la crescita è tra i 35 e i 45°C e
per questo motivo lo si ritrova facilmente negli impianti
per la produzione di acqua calda sanitaria.
In linea di principio, nei condomìni con la produzione di
acqua calda sanitaria “centralizzata”, che viene accumulata
all’interno di serbatoi di grandi dimensioni che favoriscono
il ristagno dell’acqua e la ricrescita del batterio, il
rischio è maggiore che in quelli in cui la produzione di
acqua calda sanitaria avviene all’interno delle singole
unità abitative, per esempio con caldaie murali. Il rischio
principale risiede nei bollitori dell’acqua calda e nelle
tubazioni delle parti comuni.
Rischi dalle incrostazioni
Esistono anche altri fattori che possono favorire la
ricrescita di legionella negli impianti. Le incrostazioni
calcaree, essendo porose, sono facilmente colonizzabile
dalla legionella, che trova in esse una protezione da
interventi di natura esterna (innalzamenti della
temperatura, uso di disinfettanti chimici, eccetera). Le
corrosioni delle tubazioni, invece, riducono la capacità dei
disinfettanti normalmente impiegati per la protezione delle
tubazioni.
Un corretto trattamento dell’acqua, in accordo alla Norma
Uni - Cti 8065, consente di prevenire i fenomeni di
incrostazione e di corrosione, mantenendo in perfetta
efficienza gli impianti. Tale trattamento, reso obbligatorio
del decreto Dpr 59/2009 e dal nuovo “Decreto Requisiti
Minimi”, anche per gli impianti termici di potenzialità
inferiore a 350 kW, consente un considerevole risparmio
energetico, mantenendo nel contempo l’impianto in perfetta
efficienza.
Intervenire preventivamente impiegando un idoneo trattamento
dell’acqua contribuisce oltre che a far risparmiare energia
anche a limitare la formazione di calcare e delle corrosioni
che sono i principali agenti che concorrono allo sviluppo e
alla crescita della Legionella. Nel caso in cui si
riscontrino significative concentrazioni di Legionella
pneumophila, è possibile risanare l’impianto utilizzando uno
o più metodi di bonifica indicati nelle Linee guida
ministeriali.
Tali metodi spaziano dall’innalzamento della temperatura
all’utilizzo di disinfettanti chimici (biocidi), all’impiego
di sistemi fisici come le lampade a raggi ultravioletti: il
metodo più appropriato viene in genere selezionato in
funzione del tipo di impianto, dei materiali utilizzati,
delle semplicità e sicurezza d’impiego, dei costi di
investimento e dei costi di gestione (articolo Il Sole 24 Ore del
05.01.2016). |
ENTI LOCALI:
Rivoluzione nelle partecipate. Danno erariale per
i manager, cancellate le scatole vuote.
Pronta per il CdM la riforma delle società
locali. Arriva l'amministratore unico.
Rivoluzione nelle partecipate pubbliche. Per i manager è in
arrivo la responsabilità erariale per i danni (patrimoniali
e non) cagionati agli enti pubblici partecipanti. E anche i
rappresentanti degli enti nelle società risponderanno per
danno erariale se hanno «colpevolmente» trascurato di
esercitare i propri diritti di socio, «pregiudicando il
valore della partecipazione».
La galassia delle oltre 7.700 sarà drasticamente ridotta. La
parola d'ordine sarà disboscare i rami secchi a cominciare
dalle «scatole vuote», ossia quelle società che per più di
tre anni consecutivi non abbiano depositato il bilancio né
compiuto atti di gestione.
Entro un anno dalla riforma, esse
verranno cancellate d'ufficio dal registro delle imprese.
Sotto la mannaia potrebbero finire circa 3 mila
micro-società che hanno un numero di dipendenti inferiore ai
componenti del consiglio di amministrazione. Cda che
diventeranno l'eccezione nella gestione delle partecipate,
visto che la regola sarà l'amministratore unico. Ogni anno
ciascun ente pubblico dovrà effettuare un monitoraggio
dell'andamento delle società di cui detiene partecipazioni
(dirette o indirette).
Qualora vengano rilevate anomalie
dovrà scattare la razionalizzazione, da attuarsi mediante
fusione, liquidazione o cessione. Per esempio, i tagli
saranno obbligatori dopo 4 bilanci chiusi in perdita su 5
esercizi (ma la regola non varrà per le società che
gestiscono servizi di interesse generale) o per quelle prive
di dipendenti oppure con un fatturato medio inferiore a una
soglia minima ancora da definire.
A prevederlo è la bozza di decreto legislativo, che, in
attuazione della legge delega di riforma della p.a. (legge
124/2015), riscrive le regole in materia di società
partecipate, raggruppandole in un Testo unico organico. Il
dlgs, pronto per il consiglio dei ministri del 15 gennaio,
parla chiaro: non sarà possibile dare vita a una società per
produrre beni e servizi non strettamente necessari alle
finalità istituzionali dell'ente.
Le p.a. potranno costituire o acquisire partecipazioni in
società esclusivamente per:
- produrre servizi di interesse generale;
- progettare e realizzare un'opera pubblica;
- realizzare e gestire un'opera in partnership con i
privati;
- autoprodurre beni o servizi strumentali all'ente;
- svolgere funzioni amministrative;
- svolgere servizi di committenza ai sensi del Codice
appalti.
Le partecipazioni non conformi ai paletti di cui sopra
dovranno essere alienate. A questo scopo gli enti pubblici
dovranno avviare, entro sei mesi dall'entrata in vigore del
dlgs, una ricognizione di tutte le partecipazioni possedute
direttamente o indirettamente. La dismissione delle
partecipazioni non conformi dovrà avvenire entro un anno dal
monitoraggio. In caso di inadempienza il rapporto societario
si intenderà estinto e il socio cessato avrà diritto alla
liquidazione in denaro delle quote.
Paletti anche agli stipendi dei manager.
Entro sei mesi
arriverà un decreto con i criteri per determinare le
remunerazioni degli amministratori che in ogni caso dovranno
essere proporzionate alla qualifica professionale dei
manager, all'impegno di lavoro richiesto e alle dimensioni
della società. Una parte dello stipendio, in ogni caso, sarà
commisurata ai risultati di bilancio raggiunti
nell'esercizio precedente. «In caso di risultati negativi
attribuibili alla responsabilità dell'amministratore», si
legge nello schema di dlgs, «la parte variabile non potrà
essere corrisposta».
L'altra novità per i manager riguarda la possibilità di
essere chiamati a rispondere di danno erariale per i danni,
patrimoniali e non, subìti direttamente dagli enti pubblici
partecipanti. La responsabilità erariale si aggiunge alle
azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina
ordinaria delle società di capitali. Per danno erariale
potranno essere chiamati a rispondere anche i rappresentanti
dell'ente pubblico, o comunque «i titolari del potere di
decidere per esso» (quindi per esempio i sindaci) che
«abbiano colpevolmente trascurato di esercitare i propri
diritti di socio, pregiudicando il valore della
partecipazione».
Per le partecipate degli enti locali si prevedono regole ad
hoc in caso di risultato di esercizio negativo. Come
anticipato su ItaliaOggi del 06.10.2015, le
amministrazioni locali dovranno accantonare in un apposito
fondo vincolato un importo pari alla perdita che non sia
stata immediatamente ripianata. L'accantonamento dovrà
avvenire in misura proporzionale alla quota di
partecipazione e in pratica costituirà una zavorra che gli
enti locali controllanti dovranno accollarsi in caso di
perdita.
Le somme torneranno disponibili solo quando le perdite
verranno ripianate o nel caso in cui la partecipazione venga
dismessa, o, ancora, la società venga posta in liquidazione.
In sede di prima applicazione del decreto, si prevede un
percorso graduale. Per gli anni 2015-2017 gli enti soci di
società che hanno registrato perdite nel triennio 2011-2013
dovranno accantonare, in proporzione alla quota di
partecipazione, una somma pari alla differenza tra il
risultato conseguito nell'esercizio precedente e il
risultato medio 2011-2013, migliorato del 25% per il 2014,
del 50% per il 2015 e del 75% per il 2016.
L'aver chiuso gli
ultimi tre esercizi in perdita costituirà giusta causa per
procedere alla riduzione del 30% dei compensi degli
amministratori. Un risultato economico negativo per due anni
consecutivi porterà alla revoca del management
(articolo ItaliaOggi del
05.01.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti, assunzioni bloccate anche negli enti
locali.
Assunzioni di dirigenti bloccate in modo quasi assoluto per
le pubbliche amministrazioni nel 2016, sia a tempo
indeterminato, sia a tempo determinato.
Sono le conseguenze dell'articolo 1, comma 219, della legge
208/2015 (legge di Stabilità per il 2016), che dal blocco
delle assunzioni delle qualifiche dirigenziali ha inteso
trarre, da un lato, spazi per l'avvio del nuovo sistema
degli incarichi dirigenziali di cui si occuperanno i decreti
legislativi attuativi della legge 124/2015, dall'altro un
contenimento della spesa complessiva di personale, capace in
parte di concorrere al finanziamento delle esigue risorse
disponibili per i rinnovi dei contratti pubblici.
Il blocco delle assunzioni delle qualifiche dirigenziali non
è a regime, ma limitato nel tempo. Esso, infatti, opera
nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi
della riforma Madia, nonché in attesa della completa
attuazione della legge 190/2014, articolo 1 commi 422, 423,
424 e 425.
In attesa dei decreti attuativi e della sofferta
ricollocazione dei dipendenti provinciali soprannumerari,
l'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015 impone di
rendere «indisponibili i posti dirigenziali di prima e
seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, come rideterminati
in applicazione dell'articolo 2 del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 135, e successive modificazioni, vacanti
alla data del 15.10.2015».
Rendere indisponibili i posti vacanti, significa
sostanzialmente impedire che essi siano coperti, come se
fossero cancellati dalla dotazione organica.
È per questa ragione che finché non si saranno avverate le
condizioni indicate prima, il comma 219 impedisce assunzioni
sia a tempo indeterminato, sia a termine. Infatti, ai sensi
dell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 gli incarichi
dirigenziali «a contratto», cioè a tempo determinato, vanno
a coprire la dotazione organica. Dunque, se i posti vacanti
sono resi indisponibili, questo vale tanto per la copertura
a tempo indeterminato, quanto per gli incarichi a contratto.
La tagliola è particolarmente forte, tanto che gli incarichi
dirigenziali conferiti a copertura dei posti da rendere
indisponibili dopo il 15.10.2015 e fino all'01/01/2016
cessano di diritto alla data dell'01/01/2016, con risoluzione
dei relativi contratti. Il comma 219 fa salvi i casi per i
quali, alla data del 15.10.2015, «sia stato avviato il
procedimento per il conferimento dell'incarico».
Sono
conferibili, ancora, gli incarichi assegnati anche dopo
l'01/01/2016, «concernenti i posti dirigenziali in enti
pubblici nazionali o strutture organizzative istituiti dopo
il 31.12.2011, i posti dirigenziali specificamente
previsti dalla legge o appartenenti a strutture
organizzative oggetto di riordino negli anni 2014 e 2015 con
riduzione del numero dei posti e, comunque, gli incarichi
conferiti a dirigenti assunti per concorso pubblico bandito
prima della data di entrata in vigore della presente legge o
da espletare a norma del comma 216, oppure in applicazione
delle procedure di mobilità previste dalla legge».
Il comma 219 specifica che in ogni altro caso, in ciascuna
amministrazione possono essere conferiti incarichi
dirigenziali solo entro i posti disponibili (tenendo conto,
cioè, di quelli resi indisponibili). Di fatto, sarà
possibile assegnare incarichi dirigenziali solo su nuove
vacanze createsi nel corso del 2016.
Nella morsa imposta dalla legge ricadono in pieno anche
regioni ed enti locali. Il comma 219 non lascia campo a
dubbio alcuno, visto che ricomprende nel divieto tutte le
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del dlgs
165/2001, tra cui sono elencate appunto regioni ed enti
locali.
Il riferimento nel comma 219 all'obbligo di rideterminare le
dotazioni organiche previsto dal dl 95/2012, convertito in
legge 135/2012, riguardante le sole amministrazioni statali,
non deve trarre in inganno. Non vale certo ad escludere
regioni ed enti locali, ma solo a precisare che i posti
vacanti sono quelli risultanti dalla rideterminazione, per
quegli enti che l'abbiano realizzata.
D'altra parte, la conferma che gli enti locali debbono
rendere indisponibili i posti vacanti dirigenziali è data
dal successivo comma 224, che elenca categorie di personale
escluso dal divieto del comma 219 (tra cui il personale non
contrattualizzato), specificando che sono da escludere i
dipendenti delle città metropolitane e delle province
adibito all'esercizio di funzioni fondamentali. Se gli enti
locali non fossero coinvolti nel divieto di cui al comma 219
tale precisazione non sarebbe stata necessaria.
Pertanto,
comuni e aree vaste non potranno effettuare assunzioni ai
sensi dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000, in
quanto si tratta di contratti a termine entro la dotazione.
Si può ritenere, invece, applicabile il comma 2
dell'articolo 110
(articolo ItaliaOggi del
05.01.2016). |
PATRIMONIO:
Edilizia scolastica, tre proroghe per la messa in
sicurezza delle scuole. Sono
contenute nel recente dl milleproroghe.
Edilizia scolastica, tre mesi in più per poter fruire dei
fondi per la messa in sicurezza degli edifici. E un anno in
più per l'adeguamento alle normative antincendio nelle
scuole.
Sono due delle misure contenute nel cosiddetto Milleproroghe»,
cioè il decreto legge 30.12.2015, n. 210 «Proroga di
termini previsti da disposizioni legislative», pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30 dicembre.
Il decreto
legge, come spiega il governo, per quanto riguarda l'edilizia
scolastica, prevede due proroghe: «1) In relazione ai vecchi
piani stralcio di edilizia scolastica per la messa in
sicurezza degli edifici (delibera Cipe n. 32/2010 del 13.05.2010 e la delibera Cipe n. 6/2012 del 20.01.2012), la legge sulla Buona Scuola, fissava all'articolo 1,
comma 165, un ultimo termine, il 16.01.2016, per la
trasmissione da parte degli enti beneficiari al Miur delle
aggiudicazioni provvisorie delle opere, pena la revoca dei
fondi e la loro riprogrammazione da parte del Cipe sulla
base del Programma nazionale triennale 2015-2017 di edilizia
scolastica. Il Milleproroghe sposta questo termine al 30.04.2016».
«Per quanto riguarda i finanziamenti Bei», prosegue la nota,
illustrando la seconda proroga contenuta nel dl 210/15, «905
milioni di euro a totale carico dello Stato - (di cui
all'articolo 10 del Dl 12.09.2013 n. 104), il termine
per l'aggiudicazione provvisoria fissato al 31.01.2016
viene spostato al 29.02.2016». Prorogato, infine, al
21.12.2016, il termine delle nuove regole per la
prevenzione degli incendi nelle scuole.
Le tre proroghe contenute nel dl 30.12.2015, n. 210
vanno ad aggiungersi agli interventi finanziari più recenti
compiti dal governo per sostenere l'edilizia scolastica. Il
Ministro dell'istruzione, Stefania Giannini, ha firmato
pochi giorni fa il decreto per la ripartizione delle risorse
per l'adeguamento antisismico delle scuole, 40 milioni di
euro previsti dalla legge Buona Scuola (legge 107 del 2015),
destinati a rendere più sicuri gli edifici scolastici che
sorgono nelle zone particolarmente esposte a rischio
sismico. «Complessivamente saranno erogati 37.536.601 euro
per un totale di 50 interventi di adeguamento antisismico», spiega una nota del dicastero.
«La valutazione e la
conseguente selezione dei Piani regionali degli interventi
sono state effettuate da un'apposita Commissione, istituita
con decreto direttoriale n. 57 del 09.12.2015, della
quale fa parte anche il Dipartimento per la Protezione
Civile.
Il decreto prevede l'approvazione degli interventi,
individua i termini per l'esecuzione della progettazione e
per l'aggiudicazione dei lavori, definisce le modalità di
rendicontazione a cui gli enti locali dovranno attenersi e
le procedure per l'eventuale revoca dei finanziamenti,
stabilisce i parametri per il monitoraggio degli
interventi»
(articolo ItaliaOggi del
05.01.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La manovra blocca le assunzioni di nuovi
dirigenti. Personale. Le incognite della Stabilità.
I Comuni e le Regioni possono
continuare a utilizzare nel 2016 i resti derivanti dalle
cessazioni del personale dell’ultimo triennio per dar corso
ad assunzioni di nuovo personale? Possono effettuare
assunzioni di dirigenti a tempo indeterminato? Che cosa
avviene delle procedure di assunzione in corso? Municipi e
Regioni sono obbligati, come le amministrazioni statali, a
rendere indisponibili i posti di dirigente vacanti alla data
dello scorso 15 ottobre?
Sono questi i
principali dubbi in materia di personale sollevati dalla
legge di Stabilità (legge 208/2015), un provvedimento che si
conferma di lettura assai difficile nella parte relativa
alle modifiche apportate dal Parlamento e che rischia di
sollevare il solito balletto di interpretazioni.
La stretta sulle assunzioni si concretizza nella limitazione
per ognuno degli anni del triennio 2016/2018 delle
assunzioni di personale da parte delle amministrazioni
statali, delle Regioni e degli enti locali nel tetto del 25%
dei risparmi derivanti dalle cessazioni dell’anno
precedente. Il comma 228 utilizza espressamente la formula
in base alla quale in questo triennio le amministrazioni
«possono procedere ad assunzioni di personale a tempo
indeterminato di qualifica non dirigenziale».
Il che sembra
comprendere qualunque voce che concorre alle nuove
assunzioni, con l’unica deroga espressamente prevista dalla
stessa norma per le assunzioni del personale in sovrannumero
degli enti di area vasta. Non viene utilizzata, a differenza
del passato, la voce «capacità assunzionale», che permetteva
di trarre la conclusione (circolare 1/2015 della Funzione
Pubblica e degli Affari Regionali) che la limitazione
riguardasse solo gli spazi finanziari dedicati alle
assunzioni che si sono determinati nell’anno.
Ma non viene
abrogata la possibilità di utilizzare i resti delle capacità assunzionali del triennio precedente, contenuta
nell’articolo 3, comma 5, quinto periodo del Dl 90/2014,
come modificato dal Dl 78/2015. Nella direzione di
continuare a considerare non compresi nel blocco i resti
delle capacità assunzionali va anche il fatto che, sulla
base del principio del «tempus regit actum», numerose
amministrazioni hanno in corso procedure di assunzione,
avviate in condizioni di piena legittimità sulla base delle
regole in vigore. Solo le residue capacità assunzionali del
2013 e 2014 possono comunque essere utilizzate per
assunzioni con procedure ordinarie, visto che quelle del
2015 sono riservate alle assunzioni del personale in
sovrannumero degli enti di area vasta.
Si prevede che le assunzioni riguardino solamente il
personale a tempo indeterminato di qualifica non
dirigenziale, dal che sembra doversi trarre la drastica
conclusione che non sia possibile assumere nuovi dirigenti a
tempo indeterminato e che gli enti possano far ricorso al
solo tempo determinato. Ambito in cui non sono ovviamente in
alcun modo compresi i responsabili nei Comuni privi di
dirigenti.
Un altro dubbio riguarda i dirigenti: anche nei Comuni e
nelle Regioni i posti vacanti al 15 ottobre devono essere
resi indisponibili? Va precisato che cosa si intenda con
questa formula inedita: essa sembra voler escludere la
possibilità di dare corso ad assunzioni quanto obbligare gli
enti alla cancellazione dei posti dalla dotazione organica.
Il comma 219 include nell’obbligo tutte le Pa, ma fa
riferimento agli organici che gli enti hanno già ridotto
sulla base del Dl 95/2012, obbligo dettato solo per le
amministrazioni dello Stato.
Inoltre, le regioni e gli enti
locali –sulla base del comma 221- devono limitarsi a
rivedere le competenze degli uffici di livello dirigenziale
ed eliminare le duplicazioni, senza che la norma detti
termini o sanzioni. Occorre inoltre chiarire quali siano in
concreto i risparmi che gli enti traggono da questa norma,
visto che essi possono usarli nel recupero delle somme
illegittimamente inserite nei fondi per la contrattazione
decentrata (articolo Il Sole 24 Ore del
04.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri, più tempo per adeguarsi. Slitta al
01.01.2017 l'applicabilità delle sanzioni.
Da green economy, milleproroghe e dcpm Mud le
regole ambientali del nuovo anno.
A disegnare la «road map» 2016 per la gestione dei rifiuti
sono tre provvedimenti licenziati in stretta sequenza negli
ultimi giorni del 2015, ossia la legge «green economy», il
rituale decreto legge «milleproroghe» e il dpcm sulla
dichiarazione ambientale «Mud».
Tracciamento rifiuti.
Il dl n. 210, recante «Disposizioni urgenti in materia di
proroga termini» (cosiddetto milleproroghe), pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30/12/2015 ha sancito lo
slittamento al 01.01.2017 dell'applicabilità delle
sanzioni per l'omesso controllo telematico dei rifiuti (ma
non di quelle per omessa iscrizione e pagamento del
contributo annuale), prolungando fino al 31.12.2016 il
periodo del cd. «doppio binario» in base al quale (anche) i
soggetti obbligati al Sistri devono continuare a effettuare
il tradizionale tracciamento dei residui tramite registri,
formulari e Mud.
E proprio in relazione a quest'ultimo, con dpcm 21.12.2015 (pubblicato sulla G.U. del successivo
giorno 28, n. 300) il governo ha confermato per la
dichiarazione in scadenza il prossimo 30.04.2016 il
«modello unico di dichiarazione» recato dall'omonimo
provvedimento del precedente 17.12.2014, promettendo
la pubblicazione attraverso i propri siti istituzionali di
informazioni aggiuntive per il suo utilizzo.
Novità per la
tenuta di registri di carico/scarico e formulari di
trasporto arrivano invece con la legge recante «Disposizioni
in materia ambientale per promuovere misure di green economy
e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse
naturali» approvata il 22.12.2015. In base alla legge
in parola (meglio nota come «green economy») gli
imprenditori agricoli potranno, secondo il novellato
articolo 193 del dlgs 152/2006, delegare la tenuta dei
formulari alle cooperative di cui sono soci e che abbiano
messo a disposizione siti di deposito temporaneo.
Con la
modifica dell'articolo 190 del dlgs 152/2006 arrivano
semplificazioni anche per i registri dei rifiuti prodotti da
manutenzione d'impianti idrici, con la possibilità di
tenerli presso sedi di coordinamento organizzativo o
equivalenti previa comunicazione alle autorità di controllo.
Rinnovate, con allargata portata, anche le disposizioni di
favore previste dal dl 201/2011 per la gestione dei rifiuti
pericolosi (compresi quelli individuati da codice Cer
18.01.03*) coincidenti con aghi, siringhe e oggetti
taglienti usati.
Barbieri e parrucchieri, istituti di
bellezza, di tatuaggio e piercing così come (ora) imprese
agricole potranno (oltre che trasportarli liberamente in
conto proprio fino a 30 kg/giorno a impianti di smaltimento)
adempiere agli obblighi di tenuta di registri, Mud e
(novità) «controllo della tracciabilità dei rifiuti» (ossia
«Sistri») attraverso compilazione e conservazione dei
formulari, in sede o tramite associazioni e società di
servizi.
La precisazione sul Sistri è stata plausibilmente
introdotta per non aver la legge 125/2013 (di riformulazione
del novero dei soggetti obbligati al tracciamento
telematico) confermato il regime di favore previsto
dall'originaria versione del dl in parola.
Particolari rifiuti.
Sempre con il «green economy» arrivano novità per la
gestione di particolari tipologie di rifiuti. Estensione in
primis per il regime transitorio «tecnico» da osservare per
raccolta, trasporto, stoccaggio e trattamento dei Raee: con
la modifica del dlgs 49/2014 è stabilito che fino
all'adozione del futuro dm Minambiente in materia, il
«trattamento adeguato» continuerà ad essere soddisfatto, per
i soggetti che vi hanno aderito, tramite l'osservanza degli
accordi tra Centro di coordinamento Raee e associazioni di
categoria; valido titolo per il trattamento sarà altresì
costituito, oltre che dall'autorizzazione ex articolo 208
del dlgs 152/2006, dall'Aia (autorizzazione integrata
ambientale) ex articolo 231 dello stesso decreto.
Con la modifica dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 è
altresì sancito l'obbligo per produttori iniziali o
detentori di rifiuti di metalli ferrosi e non ferrosi che
non provvedano direttamente al loro trattamento di affidarne
raccolta, trasporto recupero o smaltimento esclusivamente a
terzi (pubblici privati) titolati alle suddette operazioni
diversi dai meri raccoglitori ambulanti ex articolo 266,
Codice ambientale.
Stretta anche per il campo di applicazione della disciplina
sulle terre e rocce da scavo.
Da un lato i materiali litoidi da attività di estrazione
saranno assoggettati alla specifica normativa dettata per
queste ultime. Parallelamente, con la novella del dm
161/2012 (sull'utilizzo delle terre e rocce da scavo come
sottoprodotti da parte di cantieri di grandi dimensioni
sottoposti a Via/Aia) sono ricondotti sotto la disciplina
delle estrattive anche i residui di lavorazione di materiali
lapidei.
L'intervento appare in linea con lo schema decreto
approvato in via preliminare dal governo il 06.11.2015,
laddove nel riorganizzare la normativa sulla gestione delle
terre e rocce da scavo non appare più contemplarne nella
definizione i residui da estrazione (riconducendone anche
l'eventuale gestione come sottoprodotti nella diversa e
citata disciplina).
Nell'ambito del divieto di abbandono di
rifiuti ex dall'articolo 255 del dlgs 152/2006 viene poi
ritagliata (con dubbio valore dissuasivo per condotte già
illecite) una mini sanzione amministrativa (da 20 a 150
euro, in luogo di quella da 300 a 3000) per l'abbandono di
mini rifiuti (ossia quelli di piccolissime dimensioni
previsti dal neo parallelo articolo 232-ter, quali prodotti
da fumo, scontrini, fazzoletti di carta e gomme da
masticare) sul suolo, nelle acque e negli scarichi (con
raddoppio delle pene qualora la condotta riguardi i citati
primi prodotti).
Operazioni.
Dal «green economy» arrivano infine novità per alcune
attività relative ai rifiuti. Allargata in primo luogo la
nozione di «autocompostaggio» ex articolo 183 del dlgs
152/2006 (ossia di scarti organici di rifiuti urbani per il
loro riutilizzo in sito), ora comprendente quello effettuato
anche da utenze non domestiche. Prevista inoltre una
riduzione della tariff
a rifiuti urbani per due categorie di
soggetti: utenze domestiche che effettuano
(auto)compostaggio aerobico individuale di propri rifiuti
organici da cucina, sfalci e potature da giardino; utenze
non domestiche che operano compostaggio aerobico individuale
di residui naturali non pericolosi da attività agricole e
vivaistiche.
Semplificazioni per realizzazione ed esercizio
di impianti di compostaggio aerobico di rifiuti
(evidentemente prodotti da terzi), ora possibile tramite
denuncia di inizio attività a condizione che: processino
residui da cucine, mense, mercati, giardini, parchi,
attività agricole e vivaistiche; interessi macchinari con
capacità fino a 80 tonnellate annue per il trattamento di
rifiuti raccolti nell'ambito comunale; funzionino nel
rispetto delle prescrizioni urbanistiche, antisismiche,
ambientali, di sicurezza, antincendio e igienico-sanitarie,
di efficienza energetica, tutela di beni culturali e del
paesaggio; sia stato acquisito il parere Arpa.
Il
riformulato quadro normativo appare confermare l'esclusione
dell'autocompostaggio dalla disciplina dei rifiuti (fatto
salvo il rispetto del dlgs 75/2010 sui fertilizzanti),
confortando la posizione già adottata da molte
amministrazioni locali. Rimodulato inoltre il regime di
conferimento dei rifiuti in discarica.
Da un lato viene definitivamente abrogato il divieto di
avviare a tale smaltimento rifiuti con «Pci» superiore a 13
mila kJ/kg ex articolo 6 del dlgs 36/2003. Dall'altro arriva
invece una stretta generale sulle condizioni che i rifiuti
comunque ammessi (ex citato articolo 6) in discarica
dovranno soddisfare per trovarvi effettiva collocazione: con
la novella dell'articolo 7 del dlgs 36/2003 la deroga
all'obbligo di preventivo trattamento varrà (oltre che per
gli inerti tecnicamente non processabili) solo per i rifiuti
in relazione ai quali, in base ad emanandi criteri dell'Ispra,
sarà dimostrato essere detto processo né utile ad abbassare
il rischio di inquinamento né indispensabile per ricondurne
la pericolosità.
Con la novella dell'articolo 197 del dlgs 152/2006 è inoltre
chiarito che le miscelazioni di rifiuti non vietate sono
conducibili senza obbligo di autorizzazione e non possono
essere sottoposte a prescrizioni ulteriori rispetto a quelle
già previste dalle norme di riferimento
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Verifiche antimafia in un clic. Countdown per la
banca dati nazionale sulle infiltrazioni.
Lo prevede il dpcm n. 193/2014. Operatività al
via dal 7 gennaio, salvo proroghe.
Verifiche antimafia con un clic. Dal 07.01.2016 sarà
operativa la banca dati per gli appalti, connessa con le
altre costituite presso il ministero dell'interno, la Dia
(per i dati acquisiti nel corso di accessi ai cantieri) e
quelle detenute da soggetti pubblici contenenti dati
necessari per il rilascio della documentazione antimafia.
Sulla base dei dati immessi dall'operatore che effettuerà la
consultazione, il sistema informativo, se l'impresa sarà
censita, verificherà le informazioni esistenti negli archivi
della stessa banca dati, nonché nelle altre banche dati
collegate. Se non risulteranno a carico degli interessati le
cause di divieto, sospensione e decadenza di cui
all'articolo 67 del codice antimafia, la banca dati
nazionale rilascerà immediatamente, per via telematica, al
soggetto richiedente, la comunicazione antimafia
liberatoria.
Tutto questo lo prevede il dpcm 30.10.2014 n. 193
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 07.01.2015 n. 4
(l'articolo 99 del codice antimafia dlgs n. 159/2011 prevede
che la banca dati diventi operativa entro 12 mesi dalla
pubblicazione del regolamento). Con le informazioni
contenute nella banca dati si potrà accertare immediatamente
che l'impresa non avrà subito infiltrazioni e potrà
partecipare alle gare d'appalto
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.01.2016). |
VARI:
Comprar casa con più opzioni. Tra le strade
alternative non c'è solo il rent to buy.
Vantaggi e svantaggi delle varie forme
contrattuali secondo la guida del Notariato.
Non solo rent to buy. Per avere a disposizione un'abitazione
senza essere costretti a versare subito il prezzo integrale
o contrarre un mutuo si possono infatti percorrere una serie
di strade alternative.
Lo ricorda il Consiglio nazionale del notariato nella guida
per il cittadino: «Il rent to buy e altri modi per comprare
casa» (si veda ItaliaOggi Sette del 14/12/2015).
Si può per esempio optare per la locazione con patto di
futura vendita, schema contrattuale nel quale la locazione è
collegata a un preliminare di vendita. Entrambi i contratti
devono essere redatti in forma scritta e il preliminare può
essere trascritto per tutelare l'acquirente nei confronti
dei terzi.
Il corrispettivo per l'utilizzo dell'immobile può
consistere in un canone cui si associa una caparra o un
acconto prezzo oppure, secondo lo schema proprio del rent to
buy, un canone composito da imputare in parte alla locazione
in parte ad acconto del prezzo di vendita.
Un'altra soluzione è rappresentata dalla più classica
vendita con riserva della proprietà, nella quale l'immobile
viene messo da subito a disposizione dell'acquirente, ma la
proprietà si trasferisce soltanto con il pagamento
dell'ultima rata del prezzo, secondo gli accordi intercorsi
tra le parti.
Anche in questo caso necessita la forma
scritta, anche perché il contratto potrà essere trascritto
soltanto se redatto sotto forma di atto pubblico o scrittura
privata autenticata. Si può poi consentire alla vendita, e
al conseguente trasferimento della proprietà, anche senza il
versamento dell'intero prezzo pattuito, venendo così
incontro all'interesse dell'acquirente che non abbia a
disposizione la necessaria liquidità e che non riesca a
contrarre un mutuo, al quale viene sostanzialmente
consentito un pagamento dilazionato.
Il rischio assunto dal
venditore è controbilanciato dall'iscrizione di un'ipoteca
sul medesimo immobile in favore del precedente proprietario,
che verrà cancellata con il saldo di quanto dovuto. È infine
possibile anticipare gli effetti del contratto preliminare,
pattuendo l'immediata consegna dell'immobile. In questi casi
solitamente viene richiesto all'acquirente il versamento di
una caparra o di un acconto nella misura del 5-10% del
prezzo, concordando altresì una serie di versamenti
periodici anteriori alla stipula del rogito e al versamento
del saldo.
Di seguito, in tabella, proviamo quindi a rielaborare in
maniera sintetica i vantaggi e gli svantaggi legati alle
varie forme contrattuali siccome evidenziati nelle tabelle
elaborate nella guida del Notariato
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.01.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Segnaletica raffazzonata. Rischio ricorsi a
pioggia.
I comuni non si adeguano alla segnaletica del Codice della
strada. Con il rischio di possibili sanzioni e una pioggia
di ricorsi.
Un caso per tutti è quello delle lanterne dei semafori:
nonostante le disposizioni degli artt. 159 e 169 del Codice,
le lanterne per l'attraversamento pedonale sono ancora con
il vecchio formato e tipo.
Oltre al pericolo che arrecano, esse comportano peraltro
anche un maggior consumo di energia e l'impiego irregolare
delle indicazioni di corsia. Non solo. Numerosi sinistri
stradali derivano dall'usura dei materiali o dalla mancata
manutenzione, ovvero l'installazione in condizioni difformi
dalle prescrizioni del regolamento. Mancano in sostanza la
manutenzione ed il controllo tecnico dell'efficienza.
In diversi casi sono dunque emersi atti o delibere, viziati
da eccesso di potere, attraverso i quali si è inteso
perseguire risultati e obiettivi estranei alla buona
circolazione stradale. In una tale situazione, ed in caso di
grave pericolo per la sicurezza, potrebbero ricorrere le
condizioni per l'esercizio del potere sostitutivo previsto
dall'art. 5, comma 2, del Codice. In pratica il ministero
preposto si sostituisce all'ente.
In base all'art. 208, commi 2 e 4 del Codice, i comuni sono
tenuti a determinare annualmente con delibera della giunta
le quote dei proventi delle sanzioni amministrative
pecuniarie da destinare al miglioramento e adeguamento della
circolazione delle strade, al potenziamento e alla
manutenzione della segnaletica anche semaforica. Va
ricordato altresì, che l'articolo 393 del regolamento, fa
obbligo agli enti locali di istituire un apposito capitolo
di bilancio, di entrata e uscita, oltre a dover fare un
rendiconto finale al ministero Infrastrutture.
Esiste pertanto una tassatività sulla destinazione dei
proventi delle sanzioni pecuniarie. Il risparmio
sull'adeguamento della segnaletica produce effetti negativi
in termini di costi sociali ma anche giudiziali in quanto il
mancato adeguamento in caso di ricorso può essere imputato
direttamente al comune
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.01.2016). |
VARI:
Pubblicazioni blocca-compensazione.
Ammissione al concordato preventivo.
La pubblicazione nel registro imprese dell'ammissione alla
procedura di concordato preventivo impedisce la
compensazione e quindi gli istituti bancari non possono
trattenere le somme versate da terzi in conto
(compensazione) del proprio credito.
Un società, con specifico ricorso, chiedeva al tribunale di
Prato il termine per presentare la proposta di concordato
preventivo unitamente al piano. Con il medesimo ricorso
chiedeva l'autorizzazione allo scioglimento dei contratti
bancari relativi all'anticipazione delle somme di ordini
ricevuti da clienti o di fatture emesse con conferimento
alla banca di mandato irrevocabile all'incasso e patto di
compensazione o, eventualmente, di cessione di credito pro
solvendo.
Con decreto del 23.09.2015 il tribunale
concedeva il termine e dichiarava non luogo a provvedere
sulla richiesta di autorizzazione allo scioglimento dei
contratti bancari di anticipazione con mandato all'incasso e
patto di compensazione o, eventualmente, con cessione di
credito, non potendo gli istituti bancari contraenti, dalla
data in cui il ricorso è pubblicato nel registro delle
imprese, incamerare le somme versate da terzi, a
compensazione o a garanzia di quanto anticipato.
Per il tribunale la presentazione della domanda di
concordato (pieno o in bianco) cristallizza la situazione
con la conseguenza che la compensazione tra i suoi debiti e
crediti da lui vantati nei confronti dei creditori, a mente
dell'articolo 56 l.f., richiamato dall'articolo 169 l.f.
occorre che i rispettivi crediti siano preesistenti
all'apertura della procedura concorsuale.
La compensazione
pertanto non può operare nell'ipotesi in cui il debitore
abbia conferito a una banca un mandato all'incasso di un
proprio credito attribuendole la facoltà di compensare il
relativo importo con lo scoperto di un conto corrente da lui
intrattenuto con la medesima banca poiché, a differenza
della cessione di credito, il mandato all'incasso non
determina il trasferimento del credito a favore del
mandatario, ma l'obbligo di quest'ultimo di restituire la
somma riscossa al mandante.
Tale obbligo non sorge al
momento del conferimento del mandato ma soltanto all'atto
della riscossione del credito con la conseguenza che qualora
quest'ultima debba aver luogo dopo la presentazione della
domanda di concordato preventivo non sussistono i
presupposti per la compensazione. In relazione poi alle
eventuali anticipazioni con cessioni di credito pro solvendo
è necessario stabilire sono o meno opponibili.
Se non sono
opponibile non sussiste alcuna necessità di provvedere allo
scioglimento mentre se sono opponibili devono essere
considerate a garanzia delle anticipazioni concesse e, quali
garanzie, pendendo la procedura di concordato preventivo,
non possono essere escusse salva l'ipotesi di contratti di
garanzia finanziaria di cui al dlgs 170/2004 per cui è
prevista la deroga all'articolo 163 l.f.
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.01.2016). |
ENTI
LOCALI - VARI: Carta d'identità elettronica. Spazio alle impronte e alla
donazione degli organi. In Gazzetta Ufficiale il decreto che fissa le modalità di
emissione. Dopo 20 anni.
Dopo un'attesa di 20 anni arriva la carta d'identità
elettronica. Conterrà le impronte digitali e anche la
possibilità di indicare la scelta sulla donazione degli
organi. Un 'altra novità, rispetto a quella tradizionale, è
la presenza di un Pin che permetterà l'accesso ai servizi
online dedicati.
La consegna della Cie (questo l'acronimo ufficiale) avverrà
«entro sei giorni lavorativi».
La disciplina è contenuta nel
decreto del ministero dell'interno (emanato di concerto con
il ministero dell'economia e delle finanze e con il
ministero per la semplificazione e la pubblica
amministrazione) del 23.12.2015 (pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 30.12.2015 n. 302) che fissa le
modalità tecniche di emissione della carta d'identità
elettronica.
Il piano per il rilascio della Cie sarà
graduale e i vari step saranno fissati da una commissione ad
hoc.
Fotografia storica. Il progetto della carta d'identità
elettronica è in cantiere da quasi venti anni. Ideato nel
1997, aveva registrato varie sperimentazioni e anche il
rilascio di alcune carte d'identità elettroniche. In una
fase successiva si era anche pensato ad un unico documento
digitale o con l'incorporazione della stessa tessera
sanitaria, ma tutto si era arenato. Ora il governo Renzi
(nel dl enti locali della scorsa estate 2015 sono state
anche stanziate specifiche risorse per il rilancio della
carta d'identità elettronica) .
Come richiedere la carta d'identità digitale. La richiesta
di rilascio verrà presentata dal cittadino all'ufficio
anagrafico del comune di residenza o al consolato, se
residenti all'estero. Il cittadino maggiorenne, in sede di
richiesta al comune di rilascio della carta d'identità
elettronica, avrà la facoltà di indicare il proprio
consenso, ovvero diniego, alla donazione di organi e tessuti
in caso di morte.
Nel caso in cui il cittadino intenderà
modificare la propria volontà, si dovrà recare presso la
propria Asl di appartenenza oppure le aziende ospedaliere o
gli ambulatori dei medici di medicina generale o i centri
regionali per i trapianti o -limitatamente al momento di
rinnovo della Cie- anche presso il comune. Il comune o il
consolato, verificata l'identità del richiedente,
accerteranno l'assenza di eventuali motivi ostativi al
rilascio della Cie per il tramite del Ssce (Sistema di
servizi per il circuito di emissione della Cie), secondo
quanto indicato nell'allegato B del decreto in commento.
Il
comune o il consolato rilasceranno al richiedente la
ricevuta della richiesta della Cie, comprensiva del numero
della pratica e della prima parte dei codici pin/puk
associati alla Cie. Nella carta andrà inserita l'immagine
del volto del titolare, attraverso una foto digitalizzata, e
l'immagine delle impronte digitali. Ma anche (nei casi
previsti) la firma autografata e l'autorizzazione o meno
all'espatrio.
Realizzazione supporto fisico della Cie. Il supporto fisico
della Cie sarà realizzato con le tecniche tipiche della
produzione di carte valori, integrato con un microprocessore
per la memorizzazione delle informazioni necessarie per la
verifica dell'identità del titolare, inclusi gli elementi
biometrici primari e secondari, nonché per l'autenticazione
in rete.
Gli elementi biometrici primari e secondari
memorizzati nel microprocessore saranno utilizzati
esclusivamente per verificare l'autenticità della Cie e
l'identità del titolare attraverso elementi comparativi
direttamente disponibili ed escludendo confronti in modalità
«uno a molti» a fini di identificazione.
Il cittadino (o i
genitori o i tutori in caso di minori) potranno prenotare la
richiesta di rilascio della Cie collegandosi a Cieonline
secondo le modalità indicate sul portale
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2016). |
VARI: Scompare
la ricetta rossa Promemoria per i farmaci.
I cittadini che richiedono una prescrizione farmaceutica al
proprio medico di medicina generale ricevono un promemoria
stampato (contenente numero di ricetta elettronica, dati
anagrafici, codice fiscale dell'assistito e prescrizione) su
carta bianca con il quale possono recarsi in farmacia e
ritirare il farmaco prescritto. Il farmacista visualizza nel
proprio computer la ricetta dematerializzata ed eroga il
farmaco inserendo la fustella nell'apposito spazio del
promemoria.
Queste novità sono contenute nel decreto del presidente
della repubblica 14.11.2015 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 31.12.2015 n. 303) sulle prescrizioni
farmaceutiche generate in formato elettronico, in vigore da
ieri.
Il provvedimento è attuativo dell'articolo 13, comma
2-quater, del decreto legge 21.06.2013 convertito con
modificazioni dalla legge 09.08.2013 n. 198. Si tratta
del primo passo verso la totale digitalizzazione e in un
prossimo futuro, quando il sistema entrerà a pieno regime,
la stampa del promemoria diverrà opzionale.
Con la dematerializzazione delle prescrizioni specialistiche (c.d.
impegnative per visite ed esami), il promemoria cartaceo
stampato dal medico curante deve essere tenuto a portata di
mano dal paziente per prenotare le prestazioni e consegnato
al momento dell'accettazione per la visita o gli esami, come
accade oggi con la ricetta rossa.
La farmacia all'atto della dispensazione del medicinale, riscuote la quota l'eventuale
quota di partecipazione dell'assistito prevista dalla
normativa vigente nella regione o nella provincia autonoma
in cui la farmacia ha sede, anche con riferimento al regime
di esenzione eventualmente indicato dal medico sulla
ricetta.
Spetta alle regioni e alle province autonome, in
sede si esecuzione dei controlli finalizzati alla
compensazione interregionale dei rimborsi delle ricette
farmaceutiche in formato elettronico, verificare che le
ricette siano state redatte nel rispetto delle regole
inerenti la prescrizione dei medicinali vigenti nella
residenza dell'assistito, con particolare e riguardo ai
medicinali prescrivibili, alle caratteristiche del medico prescrittore,
alle modalità dell'erogazione e alle condizioni indicate nel
piano terapeutico
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Processo amministrativo agile. Sentenza semplificata col
sollecito dell'istanza di prelievo. LEGGE DI STABILITÀ 2016/Le modifiche al codice contro riti
irragionevolmente lunghi.
Processo amministrativo deciso con sentenza semplificata,
quando la definizione è sollecitata dall'interessato, con
l'istanza cosiddetta di prelievo.
È quanto prevede la legge
di Stabilità per il 2016 (208/2015), che modifica il codice
del processo amministrativo, consentendo la discussione del
giudizio in camera di consiglio. Tra l'altro il sollecito è
necessario se si intende chiedere l'indennizzo per processo
irragionevolmente lungo (legge 89/2001).
Ma vediamo di illustrare le novità che riguardano i
tribunali amministrativi e il consiglio di stato.
Prelievo
Per sollecitare la decisione del ricorso il codice del
processo amministrativo prevede la cosiddetta istanza di
prelievo. Con questa richiesta, in base all'articolo 71,
comma 2, del codice del processo amministrativo (dlgs n. 104
del 2010), l'interessato segnala l'urgenza del ricorso e
chiede la fissazione dell'udienza di discussione della
causa.
In relazione all'istanza di prelievo, la legge di Stabilità
2016 inserisce un nuovo articolo 71-bis, che ne disciplina
gli effetti. Il giudice, a seguito della presentazione
dell'istanza di prelievo, infatti, se il contraddittorio è
pieno e cioè se tutte le parti interessate sono state
regolarmente chiamate nel giudizio e se l'istruttoria
completata, può, sentite le parti, definire il giudizio in
camera di consiglio, con sentenza in forma semplificata.
La semplificazione riguarda la motivazione della sentenza.
Essa può consistere in un sintetico riferimento al punto di
fatto o di diritto ritenuto risolutivo oppure, se del caso,
a un precedente conforme (articolo 74 del codice del
processo amministrativo).
La sentenza semplificata è prevista, in generale, nel caso
in cui ravvisi la manifesta fondatezza oppure la manifesta
irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza del ricorso.
A questi casi si aggiunge, ora, quello del sollecito con
istanza di prelievo.
In tale ultima ipotesi la parte, con l'istanza di prelievo,
aderisce alla possibilità di una redazione sintetica delle
motivazioni della sentenza.
Processi Lumaca
L'istanza di prelievo è necessaria per poter chiedere
l'indennizzo dei danni subito dalle lungaggini del processo
amministrativo. La legge 89/2001 chiede alle parti di essere
diligenti e di avvalersi degli strumenti processuali per
accelerare la definizione del contenzioso. Nel processo
amministrativo questo implica che la parte deve presentare
l'istanza di prelievo almeno sei mesi prima dello spirare
del termine (articolo 1-ter, comma 3 della legge 89/2001).
Come si legge nei lavori preparatori, già attualmente
l'istanza di prelievo è presupposto per accedere
all'indennizzo da durata irragionevole del processo
amministrativo: l'articolo 54 del dl 112 del 2008 ha
stabilito che la domanda di equa riparazione non è
proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice
amministrativo non è stata presentata l'istanza di prelievo
né con riguardo al periodo anteriore alla sua presentazione.
La legge di Stabilità 2016 specifica il termine entro il
quale l'istanza deve essere presentata.
Ottemperanza
Il comma 781 della legge di Stabilità 2016 modifica
l'articolo 114, comma 4, lett. e), del Codice del processo
amministrativo, relativo al giudizio di ottemperanza.
Questo giudizio serve a ottenere l'esecuzione delle sentenze
amministrative e anche di quelle civili (o decisioni
equiparate) nei confronti della pubblica amministrazione
inadempiente.
La citata norma prevede che il giudice con l'accoglimento
del ricorso fissi la somma di denaro dovuta dal resistente
per ogni violazione o inosservanza successiva e per ogni
ritardo nell'esecuzione del giudicato.
La lettera e) però esclude la possibilità di determinare
questo aggravio se che è manifestamente iniquo, e se
sussistono altre ragioni ostative. La legge di Stabilità
2016 permette di aggiungere sempre gli interessi legali. La
norma in esame precisa, infatti, che, se l'ottemperanza ha
ad oggetto il pagamento di somme, la penalità di mora
decorre dall'ordine di pagamento contenuto nella sentenza di
ottemperanza e che tale penalità non è manifestamente iniqua
se stabilita in misura pari agli interessi legali
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2016). |
TRIBUTI:
Bloccato l'aumento delle aliquote spettanti a enti locali e
regioni.
La misura del governo per contenere la pressione tributaria
complessiva.
Gli enti locali e le regioni non possono aumentare per
l'anno 2016 le aliquote o le tariffe dei tributi ad essi
spettanti.
È quanto si ricava dalla lettura dell'art. 1, comma 26, della
legge di Stabilità per l'anno 2016 (208/2015), che al fine
di contenere il livello complessivo di pressione tributaria,
in coerenza con gli equilibri generali di finanza pubblica,
dispone la sospensione dell'efficacia delle leggi regionali
e delle deliberazioni degli enti locali nella parte in cui
prevedono aumenti dei tributi e delle addizionali attribuiti
alle regioni e agli enti locali con legge dello Stato
rispetto ai livelli di aliquote o tariffe applicabili per
l'anno 2015.
Si tratta di un tuffo nel passato, visto che dal 2008 al
2012 il legislatore non ha fatto altro che prorogare in
vario modo la sospensione del potere delle regioni e degli
enti locali di deliberare aumenti dei tributi ad essi
attribuiti, per poi allentarlo al momento in cui sono stati
approvati i decreti sul federalismo fiscale.
Dopo lo stop definitivamente imposto dall'art. 4, comma 4,
del dl 02.03.2012, n. 16 -che ha abrogato le norme
istitutive del «blocco degli aumenti» e le successive norme
di proroga- ecco riaffacciarsi l'esigenza di realizzare un
temporaneo contenimento della pressione fiscale.
È apprezzabile che il legislatore della legge di Stabilità
abbia fatto chiarezza rispetto all'originaria formulazione
della norma che dava adito a molti dubbi applicativi.
Si ricorda, infatti, che inizialmente la norma affermava che
«è fatto divieto alle regioni e agli enti locali di
deliberare aumenti dei tributi nonché delle addizionali ad
essi attribuiti con legge dello Stato rispetto ai livelli di
aliquote deliberate, entro la data del 30.07.2015, per
l'esercizio 2015».
La norma era molto atecnica perché, innanzitutto, parlando
di «livelli di aliquote», sembrava escludere le tariffe e
parlando di «delibere» sembrava riferita ai soli enti locali
e non alle regioni. Ma la cosa che non si comprendeva è
perché si fosse voluto indicare il 30.07.2015, data
fissata per il termine di approvazione per la deliberazione
del bilancio di previsione disposto dal decreto del
Ministero dell'interno 13.05.2015. La norma dimenticava,
però, che detta data è stata espressamente derogata per le
città metropolitane e delle province per le quali il termine
è slittato al 30.09.2015.
Per la Sicilia, poi, il
differimento riguardava oltre che i liberi consorzi comunali
anche i comuni, come disposto dal decreto del Ministero
dell'interno 30.07.2015. Voler limitare il blocco
dell'aumento del livello di pressione tributaria esistente
al 30.07.2015 escludeva, pertanto, irragionevolmente,
questi ultimi enti locali, i quali, per di più, erano già
stati privilegiati da una specifica norma di deroga.
Fortunatamente è stato eliminato il riferimento alle
specifiche mensilità e si è più correttamente parlato di
«livelli di aliquote o tariffe applicabili per l'anno 2015».
L'intervento in extremis è stato, poi, decisivo, in materia
di tributi regionali, giacché parlare di «sospensione
dell'efficacia delle leggi regionali» ha posto al riparo il
contribuente dagli aumenti dei tributi che le regioni hanno
già potuto legittimamente approvare per l'anno 2016.
Infatti, a differenza di quanto avviene per i comuni, le
regioni non hanno un termine mobile legato al bilancio di
previsione entro il quale deliberare aliquote o tariffe. Le
singole norme che disciplinano i tributi regionali impongono
alle regioni di stabilire la misura del tributo normalmente
entro il 31 dicembre di ogni anno, per l'annualità
successiva.
Per cui il divieto imposto dalla precedente formulazione
della norma risultava del tutto indifferente per le regioni,
in quanto la norma della legge di Stabilità entra in vigore
il 01.01.2016, quando, cioè, le regioni hanno già
potuto esercitare legittimamente il potere di deliberare in
materia di tributi per l'anno 2016.
Per buona pace del contribuente, quindi, il «ritocco» del
legislatore nel corso dei lavori parlamentari della norma
sul «blocco dei tributi», non dovrebbe far assistere ad
aumenti della pressione tributarie da parte degli enti
territoriali
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2016). |
TRIBUTI:
Famiglie e imprese sollevate dal peso della Tasi. Escluse le
ville di lusso.
Agevolazioni Tasi per famiglie e imprese. Dal 2016, infatti,
non saranno più soggetti al pagamento della Tasi tutti gli
immobili destinati a abitazione principale e relative
pertinenze, già esentati dall'Imu, esclusi quelli di lusso,
le ville e i castelli. Solo un'aliquota ridotta all'1 per
mille, invece, per i beni merci delle imprese edilizie
invenduti e non locati. È inoltre lasciata ai comuni la
facoltà di aumentarla fino al 2,5 per mille.
Lo prevede il
testo della legge di Stabilità 2016 (208/2015).
Abitazioni principali.
Dal prossimo anno, dunque, saranno escluse dalla Tasi tutti gli immobili destinati a abitazione principale,
con relative pertinenze (garage, cantine), già esonerati dal
pagamento dell'Imu, tranne quelli di lusso, le ville e i
castelli. Saranno ancora soggette al prelievo, e se ne
intuisce la ratio, le unità immobiliari iscritte nelle
categorie catastali A1, A8 e A9.
Contrariamente a quanto
sostenuto, non si tratta tecnicamente di un'esenzione per le
«prime case», ma di un'esclusione dal campo di applicazione
del tributo. Recita la norma della legge di Stabilità, che
ha modificato il comma 669 della legge 147/2013, che terreni
agricoli e abitazioni principali non rientrano nel
presupposto impositivo.
Previsione irrazionale, o quantomeno
discutibile, considerato che i titolari di immobili
destinati a abitazione principale sono quelli che più di
tutti fruiscono dei servizi indivisibili.
Beni merce delle imprese.
La norma della Stabilità, poi, integra l'art. 1, comma 678,
della legge 147/2013, stabilendo che per i fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa alla vendita, fintanto
che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso
locati, l'aliquota è ridotta all'1 per mille.
I comuni,
però, possono modificare la suddetta aliquota, in aumento,
sino al 2,5‰ o, in diminuzione, fino all'azzeramento. In
realtà, per questi immobili il legislatore avrebbe potuto
fare molto di più, tenuto conto che per fruire dell'aliquota
agevolata è imposta come condizione che devono essere
invenduti e non locati.
Quindi, sarebbe stato più equo
esonerarli dall'imposta come avviene per l'Imu. In aggiunta,
per loro natura non dovrebbero neppure rientrare nel
presupposto impositivo. È infatti illogico che gli stessi
immobili siano esentati dall'Imu, che è un'imposta
patrimoniale, e siano assoggettati alla Tasi, che è
un'imposta sui servizi.
La condizione di immobili
inutilizzati dovrebbe escludere l'assoggettamento a
un'imposta la cui finalità è quella di finanziare i servizi
indivisibili (trasporto locale, illuminazione, manutenzione
stradale, verde pubblico e così via). Ma nulla impedisce ai
comuni di deliberare con regolamento eventuali agevolazioni,
anziché aumentare l'aliquota dell'1 per mille, come prevede
la legge di Stabilità.
Del resto, le amministrazioni locali
possono stabilire riduzioni senza un tetto massimo e
esenzioni anche per la Tasi. È opportuno che, con
regolamento comunale, i beni merci delle imprese vengano
esonerati dal pagamento dell'imposta sui servizi
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -TRIBUTI: Addio alla privativa sui rifiuti. Tassazione ridotta
all'osso per chi smaltisce da solo.
Bloccato l'aumento delle aliquote spettanti a enti locali e
regioni. In gennaio in Cdm la bozza di Testo unico sui servizi
pubblici locali. Ecco cosa prevede.
Addio entro la fine del 2016 alla privativa comunale sui
rifiuti.
È una delle principali novità previste dalla bozza
di testo unico sui servizi pubblici locali che il governo
dovrebbe approvare nel corso del mese di gennaio del nuovo
anno, insieme ad altri nove decreti legislativi con i quali
l'Esecutivo intende ridisegnare il volto della pa dando
attuazione alle linee guida tracciate dalla legge «Madia»
(legge 124/2015).
Il provvedimento ha l'ambizione di
raccogliere e coordinare l'intera disciplina quadro della
materia, con riferimento sia ai c.d. servizi pubblici locali
di interesse economico generale o locale, sia ai cd servizi
a rete. I secondi, a differenza dei primi, sono suscettibili
di essere organizzati tramite collegamenti strutturali o
funzionali tra le sedi di produzione del bene o di
svolgimento del servizio, come accade per quelli relativi al
ciclo dei rifiuti.
Rispetto ai rifiuti (così come in materia
di servizio idrico integrato, servizio di distribuzione
dell'energia elettrica e del gas naturale, trasporto
pubblico locale e servizio farmaceutico), peraltro, il testo
fa salve le norme di settore, ma allo stesso tempo introduce
alcune importanti modifiche alle stesse. Fra queste, spicca
il correttivo all'art. 198 del dlgs 152/2006, al quale viene
inserito un nuovo comma 1-bis in virtù del quale il regime
di privativa dei comuni ai fini della gestione dei rifiuti
urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento
(previsto sino all'inizio dell'attività da parte del
soggetto aggiudicatario della gara a evidenza pubblica
indetta dall'Autorità d'ambito), cesserà in ogni caso alla
data del 31.12.2016.
A quel punto, i produttori che
dimostrino di aver avviato i rifiuti alla gestione mediante
attestazione rilasciata dal soggetto preposto potranno
essere assoggettati alla Tari o alla tariffa sostitutiva
solo per le eventuali componenti accessorie effettivamente
prestate e contabilmente separate. È fatta salva la
possibilità per i comuni di introdurre con delibera motivata
un contributo a garanzia del servizio universale. Tale
regime, si noti, non riguarderà più i soli rifiuti speciali,
tanto che viene espressamente modificato il comma 649 della
l 147/2013, escludendo l'obbligo di copertura integrale per
i costi relativi a tutti i rifiuti al cui smaltimento
provvedono a proprie spese i relativi produttori
comprovandone l'avvenuto trattamento in conformità alla
normativa vigente.
Più in generale, lo schema di decreto
prevede la soppressione dei regimi di privativa ed
esclusiva, comunque denominati, non conformi ai princìpi
generali in materia di concorrenza. A tal fine, entro sei
mesi dall'entrata in vigore del provvedimento, gli enti
competenti dovranno compierne una ricognizione puntuale
verificando la sussistenza delle condizioni che ne
consentono la conservazione o ne impongono la modifica per
adeguarli al nuovo regime.
Tale adempimento si inquadra nel
più vasto riconoscimento a comuni e città metropolitane
della funzione fondamentale di individuare le attività di
interesse generale il cui svolgimento è necessario al fine
di assicurare la soddisfazione dei bisogni degli
appartenenti alle comunità locali, in condizioni di
accessibilità fisica ed economica, di continuità e non
discriminazione, e ai migliori livelli di qualità e
sicurezza, così da garantire l'omogeneità dello sviluppo e
la coesione sociale. L'individuazione dei servizi pubblici
locali di interesse economico generale dovrà essere
effettuata previa verifica che le attività non siano o non
possano essere fornite da imprese che operano secondo le
normali regole di mercato in modo soddisfacente e a
condizioni coerenti con il pubblico interesse.
A tal fine,
potranno essere effettuate anche delle consultazioni
pubbliche, da svolgersi anche per via telematica e che
dovranno concludersi con un documento che ne attesti i
risultati. Sul versante operativo, lo schema di decreto
rafforza la distinzione tra le funzioni di regolazione e le
funzioni di gestione dei servizi, anche attraverso la
modifica della disciplina sulle incompatibilità o sull'inconferibilità
di incarichi o cariche.
Viene introdotta, infine, una
revisione della disciplina dei regimi di proprietà e
gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni,
nonché di cessione dei beni in caso di subentro, in base a princìpi
di tutela e valorizzazione della proprietà pubblica, di
efficienza, di promozione della concorrenza, di contenimento
dei costi di gestione, di semplificazione
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Stabilizzazioni à gogo.
Il Caso/a Milano.
Stabilizzazioni per precari nel comune di Milano. Il
capoluogo lombardo ha pubblicato alcuni bandi di concorso,
che non fanno altro se non confermare la confusione estrema
cagionata nella gestione del personale dal convulso insieme
di norme e, soprattutto, di interpretazioni suggerite dalla
Corte dei conti.
Tutto discende dalla discutibile teoria espressa dalla
Sezione Autonomie, secondo la quale i «resti assunzionali»
farebbero storia a sé e non rientrerebbero nel plafond del
budget assunzionale degli anni 2015 e 2016, riservato dai
commi 424 e 425 della legge 190/2014 alla ricollocazione del
personale provinciale in sovrannumero.
La lettura suggerita dalla magistratura contabile crea
evidenti cortocircuiti.
Il comune di Milano, come del resto tutte le altre
amministrazioni che intendano utilizzare i «resti»,
evidentemente ha sottratto i posti messi a concorso,
finanziati con i resti assunzionali, dall'elenco dei posti
disponibili per le ricollocazioni dei dipendenti provinciali
in sovrannumero. Il che porta alla conseguenza di un
rallentamento del già complicatissimo processo.
Ma, più si rallenta la ricollocazione dei soprannumerari,
più si allunga l'attesa degli idonei dei concorsi, i quali
continuano a restare al palo, specie se i comuni invece di
utilizzare i resti per scorrere le graduatorie, decidono di
stabilizzare i precari, con quel simulacro di concorsi
rappresentato dalle selezioni riservate, previste
dall'articolo 4, comma 6, del dl 101/2013, convertito in
legge 125/2013. Il quale, peraltro, prevede un limite
finanziario pari al 50% delle risorse finanziarie
disponibili ai sensi della normativa vigente in materia di
assunzioni. Tale limite è espressamente imposto per
garantire un «adeguato accesso dall'esterno», che però i già
citati commi 424 e 425 impediscono, vietando le assunzioni
appunto dall'esterno.
Le stabilizzazioni avviate dal comune di Milano (così come
quelle di qualsiasi altra amministrazione), dunque,
nonostante peschino il finanziamento dai resti assunzionali
appaiono a forte sospetto di legittimità, in quanto non si
inquadrano in un programma di assunzioni che includa anche
reclutamenti dall'esterno, a tutto detrimento, quindi, degli
idonei in attesa e dei soprannumerari delle province
(articolo ItaliaOggi del 02.01.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Sulla legittimità della revoca
dell'aggiudicazione del servizio aereo assunta a carico di
una compagnia aerea in ragione della mancata presentazione
della garanzia fideiussoria prevista dall'art.113 del codice
dei contratti pubblici.
L'art. 113, c. 1, del codice degli appalti prevede l'obbligo
per l'aggiudicatario ed esecutore dell'appalto di costituire
una garanzia fideiussoria, con l'ulteriore previsione (c. 4)
che la mancata costituzione della garanzia di cui al c.1
determina la decadenza dell'affidamento.
Dalla natura e finalità connesse a tale prestazione, si
tratta di un adempimento dovuto, la cui inadempienza va
collegata al mero fatto dell'affidatario senza alcuna
discrezionalità da parte della stazione appaltate in ordine
alle conseguenze del mancato adempimento.
Circa i tempi di presentazione di detta garanzia la
normativa del T.U. degli appalti alcunché precisa; nondimeno
appare ragionevole ritenere, avuto riguardo alla ratio
della cauzione, chiaramente ravvisabile nella garanzia della
puntuale esecuzione delle prestazioni contrattuali, che il
termine ultimo entro il quale produrre il documento in
questione sia quello che coincide con la stipula del
contratto di appalto.
Ne consegue, nel caso di specie, la legittimità della
determinazione regionale con cui è stata disposta la revoca
dell'aggiudicazione del servizio aereo assunta a carico
della compagnia aerea in ragione della mancata presentazione
della garanzia fideiussoria prevista dal summenzionato art.
113 codice dei contratti pubblici (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 08.01.2016 n. 34 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
richiamato il prevalente insegnamento giurisprudenziale
secondo cui, in sèguito all’annullamento giurisdizionale di
un titolo abilitativo (o di un diniego di esso),
l’Amministrazione deve riesaminare la relativa istanza non
già “ora per allora”, ma tenendo conto della normativa
sopravvenuta medio tempore, con il solo limite –che qui non
viene in rilievo- dell’inopponibilità delle modifiche
legislative intervenute dopo la notifica della sentenza da
parte del ricorrente vittorioso.
---------------
... avverso e per l’annullamento e/o la riforma, previa
sospensione dei suoi effetti, della sentenza del TAR della
Campania, Sezione di Salerno, Sezione Seconda, nr. 1838/11
del 16.11.2011, non notificata, che ha respinto il ricorso (nr.
1772/2008) proposto avverso la delibera del Consiglio
Comunale di Montecorvino Rovella nr. 17 del 16.06.2008 (che
ha approvato una variante urbanistica ex art. 5 del d.P.R.
20.10.1998, nr. 447, per l’insediamento di una media
struttura commerciale di vendita), nonché i successivi
motivi aggiunti proposti, tra l’altro, avverso il
provvedimento unico conclusivo del Responsabile del Settore
Tecnico del S.U.A.P. Associato della Comunità Montana “Monti
Piacentini” nr. 2/2010 del 04.03.2010 (che ha rilasciato
il titolo edilizio per la costruzione dell’opificio
commerciale e, nello stesso tempo, l’autorizzazione per
l’apertura della struttura di vendita che dovrà esservi
allocata).
...
4. Tutto ciò premesso, l’appello è fondato, e va dunque accolto nei
sensi che saranno di sèguito precisati.
5. In ordine logico, anche per la sua connessione con
l’appello incidentale proposto dagli appellati, signori
Co. e Ca. e società Se. S.r.l., conviene
principiare dal primo motivo di appello, col quale si
lamenta in modo veemente l’erroneità della declaratoria di
improcedibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, cui
il primo giudice è pervenuto in ordine alla doglianza
afferente alla mancata sottoposizione della variante
urbanistica alle procedure previste dal decreto legislativo
03.04.2006, nr. 152, in materia di valutazione ambientale
strategica (V.A.S.).
In particolare il TAR, se per un verso ha ritenuto che,
all’epoca in cui la variante fu posta in essere, essa
avrebbe dovuto certamente essere sottoposta a V.A.S. sulla
scorta del tenore dell’art. 6 del citato d.lgs. nr. 152 del
2006, ha però poi evidenziato doversi fare i conti con le
modifiche a tale norma medio tempore intervenute per effetto
del decreto legislativo 29.06.2010, nr. 128, che, con
previsione certamente riferibile anche a interventi del tipo
che qui interessa, ha inserito al comma 12 del medesimo art.
6 la seguente disposizione: “…Per le modifiche dei piani e
dei programmi elaborati per la pianificazione territoriale o
della destinazione dei suoli conseguenti a provvedimenti di
autorizzazione di opere singole che hanno per legge
l’effetto di variante ai suddetti piani e programmi, ferma
restando l’applicazione della disciplina in materia di VIA,
la valutazione ambientale strategica non è necessaria per la
localizzazione delle singole opere”.
Pertanto, secondo il giudice di prime cure, in ogni caso in
sede di rinnovazione dell’attività amministrativa all’esito
di un eventuale annullamento della delibera approvativa
della variante sicuramente non sarebbe stato più necessario
attivare la procedura di V.A.S.: donde il difetto di
interesse delle istanti alla decisione sul punto.
Orbene, la Sezione non concorda con le odierne appellanti,
che definiscono il ragionamento così sintetizzato affetto da
un “clamoroso” o “inaudito” errore di diritto, che sarebbe
costituito dall’avere il primo giudice applicato alla
fattispecie al suo esame una norma non in vigore all’epoca
in cui la stessa si era verificata, con violazione del
principio tempus regit actum.
Al riguardo, va infatti richiamato il prevalente
insegnamento giurisprudenziale secondo cui, in sèguito
all’annullamento giurisdizionale di un titolo abilitativo (o
di un diniego di esso), l’Amministrazione deve riesaminare
la relativa istanza non già “ora per allora”, ma tenendo
conto della normativa sopravvenuta medio tempore, con il
solo limite –che qui non viene in rilievo-
dell’inopponibilità delle modifiche legislative intervenute
dopo la notifica della sentenza da parte del ricorrente
vittorioso (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 10.01.2012, nr. 36; id., 22.02.2002, nr. 1079).
Di conseguenza, non è vero che nel caso che qui occupa il
primo giudice abbia assunto a parametro della legittimità
dei provvedimenti impugnati una norma non ancora in vigore
al momento della loro venuta ad esistenza; molto più
semplicemente, nella sentenza impugnata si è preso atto di
un sopravvenuto mutamento della situazione di diritto, tale
da privare di ogni utilità per la parte ricorrente un
ipotetico accoglimento della censura de qua (atteso che,
come già evidenziato, in sede di riavvio della procedura di
variante l’Amministrazione non avrebbe potuto che concludere
nel senso della non necessità di V.A.S.).
Ed è appena il caso di aggiungere, ancorché le società
istanti non ne abbiano fatto espressa richiesta, che neanche
astrattamente può dirsi sussistente un interesse
all’accertamento incidentale della divisata illegittimità a
fini risarcitori, ai sensi dell’art. 34, comma 3, cod. proc.
amm., dal momento che la sopravvenuta modifica normativa ha
privato le ricorrenti medesime anche di ogni chance di
ottenere un risultato diverso in relazione alla doglianza de
qua.
6. Le conclusioni che precedono comportano anche
l’improcedibilità dell’appello incidentale, con il quale gli
originari controinteressati hanno censurato il capo di
sentenza relativo alla ritenuta necessità di V.A.S. nel
regime normativo anteriore alla novella del 2010, assumendo
che neanche in tale assetto la valutazione ambientale
sarebbe stata necessaria: è del tutto evidente che
l’approfondimento di tale questione diventa superfluo alla
luce dell’accertata correttezza della conclusione in rito
raggiunta dal primo giudice sul punto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2016 n. 27 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
risarcimento dei danni per il ritardo dell'amministrazione
nell'adozione di un provvedimento dovuto può essere
richiesto esclusivamente nelle ipotesi in cui sia stato
previamente accertato e dichiarato dal Giudice il silenzio
inadempimento dell'amministrazione.
Invero, in tema di presupposti per il risarcimento del danno
da ritardo, al fine del necessario accertamento della
colposità dell'inerzia la cui dimostrazione incombe sul
danneggiato, non è sufficiente la sola violazione del
termine massimo di durata del procedimento amministrativo,
poiché tale violazione di per sé non dimostra l'imputabilità
del ritardo, potendo la particolare complessità della
fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili
all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa.
Il comportamento dell'Amministrazione, inoltre, deve essere
valutato unitamente alla condotta dell'istante, il quale
riveste il ruolo di parte essenziale e attiva del
procedimento e in tale veste dispone di poteri idonei a
incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento
stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e
giustiziali riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra
cui il rito del silenzio che deve essere attivato con
tempestività rilevando altrimenti, ai fini dell'art. 1227
c.c. (art. 30 c.p.a.) in ordine all'accertamento della
spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del
danno risarcibile.
---------------
La previsione di cui all’art. 30 c.p.a. deve ritenersi
valevole anche per la responsabilità da ritardo della
pubblica amministrazione.
Ne consegue che per ottenere il risarcimento del danno da
ritardo occorre una iniziativa del danneggiato volata a fare
risaltare l’inerzia dell’amministrazione. Tale ordine di
idee è conforme ai principi solidaristici che informano
l’ordinamento e che impongono di attivarsi nel limite di un
apprezzabile sacrificio al fine di evitare che la situazione
produttiva del danno si aggravi con il passare del tempo.
Detto in altre parole non è lecito che l’asserito
danneggiato rimanga inerte per poi giovarsi dell’inerzia
della p.a. a fini risarcitori.
Occorre, invece, affinché il danno possa essere risarcibile
un’iniziativa del danneggiato che metta in mora
l’amministrazione e ciò soprattutto quando come nel caso di
specie fa difetto una espressa previsione di un termine
finale.
---------------
A tal riguardo la giurisprudenza ha evidenziato che il
risarcimento dei danni per il ritardo dell'amministrazione
nell'adozione di un provvedimento dovuto può essere
richiesto esclusivamente nelle ipotesi in cui sia stato
previamente accertato e dichiarato dal Giudice il silenzio
inadempimento dell'amministrazione (TAR Sicilia Palermo III
05.06.2015 n. 1316).
E’ stato altresì affermato che in tema di presupposti per il
risarcimento del danno da ritardo, al fine del necessario
accertamento della colposità dell'inerzia la cui
dimostrazione incombe sul danneggiato, non è sufficiente la
sola violazione del termine massimo di durata del
procedimento amministrativo, poiché tale violazione di per
sé non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la
particolare complessità della fattispecie o il
sopraggiungere di evenienze non imputabili
all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa.
Il comportamento dell'Amministrazione, inoltre, deve essere
valutato unitamente alla condotta dell'istante, il quale
riveste il ruolo di parte essenziale e attiva del
procedimento e in tale veste dispone di poteri idonei a
incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento
stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e
giustiziali riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra
cui il rito del silenzio che deve essere attivato con
tempestività rilevando altrimenti, ai fini dell'art. 1227
c.c. (art. 30 c.p.a.) in ordine all'accertamento della
spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del
danno risarcibile (TAR Sicilia Palermo II 26.05.2015 n.
1243)
In sostanza la previsione di cui all’art. 30 c.p.a. deve
ritenersi valevole anche per la responsabilità da ritardo
della pubblica amministrazione.
Ne consegue che per ottenere il risarcimento del danno da
ritardo occorre una iniziativa del danneggiato volata a fare
risaltare l’inerzia dell’amministrazione. Tale ordine di
idee è conforme ai principi solidaristici che informano
l’ordinamento e che impongono di attivarsi nel limite di un
apprezzabile sacrificio al fine di evitare che la situazione
produttiva del danno si aggravi con il passare del tempo.
Detto in altre parole non è lecito che l’asserito
danneggiato rimanga inerte per poi giovarsi dell’inerzia
della p.a. a fini risarcitori.
Occorre, invece, affinché il danno possa essere risarcibile
un’iniziativa del danneggiato che metta in mora
l’amministrazione e ciò soprattutto quando come nel caso di
specie fa difetto una espressa previsione di un termine
finale
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 08.01.2016 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo
rilascio della concessione edilizia e reato di abuso
d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, a seguito
della trasformazione da reato di pura condotta a dolo
specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n. 1234
del 1997, il dolo richiesto è generico con
riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare
norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare
l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo
intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che
completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo, la prova
dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della
certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusti.
Tale certezza non può provenire
esclusivamente dal comportamento non iure tenuto
dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri
elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio
ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza
professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui
riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei
rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti
che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o
subiscono danno.
Non va del resto dimenticato, per
cogliere l'importanza dell'accertamento sull'elemento
soggettivo, che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede
appunto il "dolo intenzionale", nel
senso che l'agente deve aver agito proprio per perseguire
uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice,
ossia [per quanto qui potrebbe interessare] l'ingiusto
profitto patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l'altrui
danno ingiusto.
In altri termini, non sarebbe
sufficiente che il soggetto attivo abbia agito con "dolo
diretto", cioè rappresentandosi l'evento come
verificabile con elevato grado di probabilità, né con "dolo
eventuale", cioè accettando il rischio del suo
verificarsi: è necessario che l'evento di danno o quello di
vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e
diretto della condotta, e non risulti semplicemente
realizzato come risultato accessorio di questa.
---------------
Tanto premesso, va detto che la motivazione impugnata non
appare del tutto congrua in ordine alla valutazione
dell'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio.
Come è noto, in tema di abuso d'ufficio, a
seguito della trasformazione da reato di pura condotta a
dolo specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n.
1234 del 1997, il dolo richiesto è generico con
riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare
norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare
l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo
intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che
completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo, la prova
dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della
certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusti.
Tale certezza non può provenire
esclusivamente dal comportamento non iure tenuto
dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri
elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio
ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza
professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui
riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei
rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti
che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o
subiscono danno
(cfr. Sez. VI, 25.01.2013, Barla ed altri).
Sotto questo profilo, la motivazione della Corte è
manifestamente carente e contraddittoria.
Proprio la complessità della situazione giuridica non può
semplicisticamente autorizzare un addebito in punto di
consapevole violazione delle norme a carico dei funzionari
che hanno curato l'iter concessorio.
Mentre è stato impropriamente valorizzato l'iter definito
come eccessivamente sollecito della pratica, allorquando in
tutta evidenza tale procedura non ha interessato e visti
coinvolti solo gli odierni imputati e, comunque, allorquando
non si è in presenza di una abnormità evidente della
procedura, quanto alla tempistica e/o ai diversi passaggi
che hanno portato al rilascio del titolo.
Non va del resto dimenticato, per cogliere
l'importanza dell'accertamento sull'elemento soggettivo,
che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede appunto il "dolo
intenzionale", nel senso che l'agente deve aver
agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della
fattispecie incriminatrice, ossia [per quanto qui potrebbe
interessare] l'ingiusto profitto patrimoniale, per sé o per
altri, ovvero l'altrui danno ingiusto.
In altri termini, non sarebbe sufficiente
che il soggetto attivo abbia agito con "dolo diretto",
cioè rappresentandosi l'evento come verificabile con elevato
grado di probabilità, né con "dolo eventuale",
cioè accettando il rischio del suo verificarsi: è necessario
che l'evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e
realizzato come obiettivo immediato e diretto della
condotta, e non risulti semplicemente realizzato come
risultato accessorio di questa
(Sezione VI, 17.11.2009, Ratti ed altro)
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 07.01.2016 n. 87). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE - LAVORI PUBBLICI -
URBANISTICA:
Con l’accordo di programma decide il Tar. Sezioni
Unite. La competenza delle cause del privato che vi aderisce
è del giudice amministrativo.
Più agevole trovare
il giudice cui rivolgersi nella gestione del territorio: con
una prima pronuncia (sentenza
07.01.2016 n. 64) le Sezioni unite civili della Corte
di Cassazione chiariscono cosa accada quando più enti
pubblici (Comune, Provincia e Regione) stipulino un accordo
di programma e un privato vi aderisca, lamentandosi poi dei
danni subiti per ritardi ed inadempimenti dei soggetti
pubblici.
Con altra
sentenza
07.01.2016 n. 67, la stessa Corte
chiarisce in dettaglio cosa capiti quando, nel determinare
l’indennità di esproprio, il giudice venga tratto in errore
da una consulenza tecnica imprecisa.
La pronuncia che riguarda gli accordi di programma si
riferisce a un intervento di bonifica e recupero di una zona
industriale: Comune, Provincia e Regione avevano previsto
obblighi reciproci, dando il via ad una società privata cui
spettava la realizzazione e gestione di un interporto.
Ritardi e inadempimenti hanno poi generato una richiesta di
risarcimento danni che dapprima è stato deciso in sede
arbitrale, per poi tornare, a distanza di 10 anni, dinanzi
un diverso giudice. Il principio espresso dalla Cassazione è
che la presenza di un “accordo” tra amministrazioni,
condiviso da privati, ha l’effetto di spostare tutte le
eventuali controversie dinanzi al giudice amministrativo.
Esiste infatti una norma specifica (articolo 11 legge
241/1990) che affida a Tar e Consiglio di Stato tutte le
questioni che possano scaturire da accordi,
indipendentemente dalla materia del contendere. Nel caso
specifico, poiché la società privata aveva realizzato
interventi di bonifica e recupero subendo notevoli ritardi
causati da pubbliche amministrazioni, il relativo
contenzioso comunque era riconducibile all’accordo di
programma.
La società esecutrice danneggiata, pur essendosi
limitata a «prendere formale conoscenza» del contenuto
dell’accordo di programma tra gli enti pubblici, di tale
accordo era parte determinante essendosi impegnata a
progettare, eseguire, pagare indennizzi di esproprio,
realizzare infrastrutture ed assumere personale. Anche se
l’accordo era stato stipulato solo tra Pa per coordinare gli
impegni assunti da tali enti pubblici, tutte le liti
riconducibili alla esecuzione di detto accordo subiscono lo
stesso regime, e cioè spettano al giudice amministrativo.
Stesso del ragionamento del, del resto, è stato applicato
per obblighi di privati assunti con accordi con soggetti
pubblici, per risanare aree inquinate (nella zona
industriale di Trieste, Cassazione 18192/2013) o per una
convenzione di lottizzazione (732/2005) o per contestazioni
sull'esecuzione di parcheggi pubblici (15608/2001).
Con la stessa logica, di assoluta semplificazione, le
Sezioni unite hanno deciso la sorte di un’indennità di
esproprio, a valle di una procedura di pianificazione.
Nella sentenza n. 67 del 07.01.2016 è stata decisa la sorte
di un indennizzo calcolato equivocando sulla collocazione di
un’area: questo errore del consulente tecnico non riguarda
il ragionamento del giudice, che ha pronunciato una sentenza
correttamente argomentata.
In sintesi, sia le controversie che riguardano il momento
iniziale dell’esecuzione di opere pubbliche (accordi) sia
quelle sugli aspetti di dettaglio (stime dei suoli), esigono
particolare attenzione al fine di evitare errori di giudici
e di consulenti (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016). |
PATRIMONIO:
Insidie: non c'è colpa del Comune se si cade su un gradino
scivoloso. Occorre tenere un comportamento prudente.
Secondo la Cassazione il danneggiato avrebbe dovuto tenere
conto dello stato dei luoghi.
Brutta disavventura per un turista che
si accingeva a raggiungere la spiaggia: fatale l'ultimo
scalino della scaletta di ferro che dalla strada porta al
mare e la scivolata che provoca all'uomo una rovinosa caduta
e danni alla schiena.
Ciononostante non è colpa del Comune: l'avventore avrebbe
dovuto, infatti, tenere un comportamento più prudente,
adeguato allo stato dei luoghi e per tutelare la propria
incolumità.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI Civile, con
ordinanza 07.01.2016 n. 56.
Sia in primo che in secondo grado il turista vede rigettarsi
la richiesta di risarcimento dei danni cagionati da cosa in
custodia, contro il Comune di Catania, per essere scivolato
mentre si stava recando a mare.
Secondo la difesa la caduta dal ventiseiesimo scalino di una
scaletta in ferro che dal solarium, a livello stradale,
consentiva la discesa a mare è provocata dalla mancanza di
un prodotto antisdrucciolevole. In più, viene evidenziato
che lo scalino "incriminato" si trovava nella parte
terminale della scala, immerso nell'acqua.
Anche gli Ermellini, tuttavia, concordano con i giudici di
merito nel ritenere non sussistente la responsabilità per
custodia del Comune ex art. 2051 c.c., mancando la prova
circa il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno.
Il fatto che sugli ultimi gradini della scala non fossero
applicate strisce antiscivolo non è una circostanza
incompatibile con una struttura dei gradini di per sé
predisposta per evitare di scivolare.
Inoltre, come evidenziato dai giudici di merito, il
particolare contesto in cui era avvenuto l'infortunio (una
lunga discesa in mare attraverso una scala) richiedeva da
parte dei fruitori una particolare attenzione ad esso
adeguata.
La Corte territoriale ha correttamente applicato i principi
di diritto formulati dalla Cassazione secondo cui "La
responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia,
prevista dall'art. 2051 cod. civ., ha carattere oggettivo,
essendo sufficiente, per la sua configurazione, la
dimostrazione da parte dell'attore del verificarsi
dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il
bene in custodia".
Inoltre, laddove il danno non sia l'effetto di un dinamismo
interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo
funzionamento, "ma richieda che l'agire umano, ed in
particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di
essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte,
per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo
stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di
pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non
inevitabile, il danno".
A ciò deve aggiungersi che "l'allocazione della
responsabilità oggettiva per custodia in capo al
proprietario del bene demaniale per i danni che esso può
provocare agli utenti non esime gli utenti stessi dal dover
far uso di una ragionevole prudenza, adeguata allo stato dei
luoghi, a salvaguardia della propria incolumità".
Il ricorso va pertanto rigettato (commento tratto da
www.studiocataldi.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ai fini dell'ammissibilità della
domanda di risarcimento del danno a carico della Pubblica
Amministrazione, non è sufficiente il solo annullamento del
provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria, insieme alla
prova del danno subito e del nesso di causalità, anche la
sussistenza dell'elemento soggettivo nella forma del dolo
ovvero della colpa, fatti salvi i peculiari principi
applicabili alla responsabilità delle amministrazioni
aggiudicatrici in materia di pubblici appalti.
Si deve, quindi, verificare se l'adozione e l'esecuzione
degli atti amministrativi contestati sia avvenuta in
violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
fede alle quali l'esercizio della funzione deve
costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice
amministrativo può affermare la responsabilità
dell'Amministrazione per danni conseguenti ad un atto
illegittimo quando la violazione risulti commessa in un
contesto di circostanze di fatto e in un quadro di
riferimento normativo tali da palesare la negligenza e
l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento
viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando
l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore
scusabile, come ad esempio nel caso della sussistenza di
contrasti giudiziari, di incertezza del quadro normativo di
riferimento o di particolare complessità della situazione di
fatto.
---------------
4. La residua materia del contendere ancora da definire si
concentra sulla domanda risarcitoria azionata dalla società
ricorrente in relazione ai danni subiti per effetto dei
provvedimenti amministrativi annullati da questo Tribunale
con la sentenza n. 1138/2015.
4.1. In tale parte, l’azione è fondata e merita
accoglimento, sia pure entro i limiti di seguito precisati,
risultando provata la sussistenza sia dell’elemento
oggettivo che soggettivo della responsabilità aquiliana.
Invero, per giurisprudenza pacifica, ai fini
dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a
carico della Pubblica Amministrazione, non è sufficiente il
solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì
necessaria, insieme alla prova del danno subito e del nesso
di causalità, anche la sussistenza dell'elemento soggettivo
nella forma del dolo ovvero della colpa, fatti salvi i
peculiari principi applicabili alla responsabilità delle
amministrazioni aggiudicatrici in materia di pubblici
appalti (cfr., per tutte, Corte di Giustizia CE, sez. III,
30.09.2010, C-314/09).
Si deve, quindi, verificare se l'adozione e l'esecuzione
degli atti amministrativi contestati sia avvenuta in
violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
fede alle quali l'esercizio della funzione deve
costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice
amministrativo può affermare la responsabilità
dell'Amministrazione per danni conseguenti ad un atto
illegittimo quando la violazione risulti commessa in un
contesto di circostanze di fatto e in un quadro di
riferimento normativo tali da palesare la negligenza e
l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento
viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando
l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore
scusabile, come ad esempio nel caso della sussistenza di
contrasti giudiziari, di incertezza del quadro normativo di
riferimento o di particolare complessità della situazione di
fatto (cfr., fra le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV,
07.01.2013 n. 23; Consiglio di Stato sez. V, 31.07.2012 n.
4337)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 07.01.2016 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Sezioni Unite. Ici. Competenza verificata solo
dopo la giurisdizione.
Spetta al giudice tributario decidere sull’opposizione del
contribuente in materia di Ici e la Cassazione può rilevare
anche d’ufficio il difetto di giurisdizione ignorato dal
giudice ordinario che si era (peraltro) dichiarato
incompetente.
Con una motivazione lunga e articolata, le Sezioni Unite
civili della Corte di Cassazione (sentenza
05.01.2016 n. 29) hanno deciso una controversia nata
in provincia di Mantova su un recupero coattivo di Ici per
circa 200mila euro e portata dalla contribuente davanti al
Tribunale ordinario di Brescia, sezione staccata di Breno.
Qui il giudice aveva deciso per la propria giurisdizione,
rilevando però l’incompetenza territoriale, trasferita al
Tribunale di Mantova. Impugnato dalla contribuente in
Cassazione con istanza di regolamento di competenza,
l’intricato fascicolo è approdato alle Sezioni Unite dopo
che la Sesta civile aveva ravvisato un indirizzo non proprio
univoco sul versante della pregiudizialità -tutta
civilistica- tra regolamento di giurisdizione e quello di
competenza.
Le SU, richiamandosi tra l’altro al giudice naturale evocato
dalla Costituzione, hanno stabilito che sulla decisione del
Tribunale di Brescia non si era ancora formato il giudicato,
e che pertanto la Corte può d’ufficio rilevare il difetto di
giurisdizione che è sempre “pregiudiziale” rispetto
alla determinazione della competenza.
Quanto poi alla “titolarità” giurisdizionale del caso
specifico, le Sezioni Unite, dopo aver assimilato
l’ingiunzione fiscale emessa dal Comune in pendenza di
giudizio tributario a un normale «ruolo», hanno
conseguentemente affermato la “titolarità” esclusiva
del giudice tributario (articolo Il Sole 24 Ore del
06.01.2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Appalti, vigilanza generale al committente.
Sicurezza. Spetta al coordinatore controllare che le ditte
esecutrici rispettino gli adempimenti previsti dal Psc.
Nell'appalto d'opera la vigilanza
sull'operato delle ditte esecutrici non è passibile di
delega: il coordinatore controlla gli adempimenti delle
aziende e il committente esercita una “vigilanza” sul
coordinatore.
È i principio della
Corte di cassazione, IV Sez. penale, con la
sentenza 05.01.2015 n. 16.
Il giudizio trae origine da un infortunio mortale sul lavoro
accaduto a un lavoratore apprendista il quale era caduto
attraverso l'apertura esistente sul tetto di un fabbricato
in costruzione, mentre era intento ai lavori di posa in
opera di una guaina bituminosa.
Sia in primo che in secondo grado sono stati condannati per
omicidio colposo sia l'amministratore della società
committente che il coordinatore per l'esecuzione.
Quanto a quest'ultimo la Corte di cassazione, nel respingere
i motivi di ricorso, ha ribadito che compito del
coordinatore per l'esecuzione è quello di verificare che le
misure previste dal piano di sicurezza e di coordinamento (Psc)
siano adottate dalle ditte esecutrici. Nel caso di specie si
trattava di porre in essere le misure che già nel piano
erano state ritenute necessarie a proteggere dal rischio di
cadute di lavoratori, stante la presenza di aperture nel
tetto dell'edificio in costruzione.
In merito alla posizione del committente la sentenza non
manca di puntualizzare la previsione di cui all'articolo 93,
comma 2, del Dlgs 81/2008 (Tu sulla salute e sicurezza sul
lavoro), secondo la quale la designazione del coordinatore
per la progettazione e per l'esecuzioni non esonera il
committente dalle responsabilità connesse alla verifica
dell'adempimento degli obblighi in capo al coordinatore per
l'esecuzione.
Il committente è tenuto a svolgere attività di vigilanza
sull'adempimento, da parte del coordinatore per la
sicurezza, della verifica che l'impresa esecutrice abbia
osservato le disposizioni a essa pertinenti, contenute nel
Psc. Pertanto, è palese l'infondatezza secondo cui la “delega
di funzioni” rilasciata dal committente al coordinatore
per l'esecuzione dei lavori esonera il committente stesso
dall'obbligo di vigilare sugli adempimenti ai quali il
coordinatore è tenuto. Certamente quelli del committente non
sono obblighi delegabili al coordinatore sul quale è invece
tenuto a vigilare, né, essenzialmente, appare imputabile il
committente su compiti propri del coordinatore.
Infatti, come si rileva dalla sentenza della Cassazione che
ha assolto il committente, l'affermazione svolta dalla Corte
di appello secondo cui il committente non aveva vigilato sul
rispetto delle misure contenute nel Pos, non è in alcun modo
connessa a specifiche circostanze di fatto, che ne
evidenzino il fondamento.
Né è apparsa rilevante la stessa
sentenza della corte territoriale allorché afferma quando e
come l'azione di controllo del committente sull'operato del
coordinatore si sarebbe e potuto svolgere, in rapporto delle
fasi di lavorazione (articolo Il Sole 24 Ore del
07.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza sul lavoro, il committente deve vigilare sul
coordinatore.
Cassazione penale: il committente è tenuto a vigilare
sull'adempimento da parte del coordinatore della verifica
che l'impresa esecutrice abbia osservato le disposizioni ad
essa pertinenti contenute nel Psc.
Con la
sentenza
05.01.2016 n.
16, la IV Sez. penale
della Corte di Cassazione fornisce alcuni chiarimenti in merito alla
posizione di garanzia gravante sul committente in materia di
sicurezza sul lavoro.
La suprema Corte ricorda che a partire dall'entrata in
vigore del d.lgs. n. 494/1996, nella giurisprudenza di
legittimità la responsabilità del committente ha cominciato
ad essere derivata dalla violazione di alcuni obblighi
specifici, quali l'informazione sui rischi dell'ambiente di
lavoro e la cooperazione nell'apprestamento delle misure di
protezione e prevenzione, ritenendosi che resti ferma la
responsabilità dell'appaltatore per l'inosservanza degli
obblighi prevenzionali su di lui gravanti.
Ribadito il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori
svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di
prestazione d'opera, tanto in capo al datore di lavoro (di
regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni
antinfortunistiche) che del committente, si è anche
richiamata la necessità che tale principio non conosca
un'applicazione automatica, "non potendo esigersi dal
committente un controllo pressante, continuo e capillare
sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori".
Ne consegue che, ai fini della configurazione della
responsabilità del committente, "occorre verificare in
concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta
nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità
organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei
lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da
eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la
scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua
ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o
del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed
immediata percepibilità da parte del committente di
situazioni di pericolo".
DOVERI DI PREVENZIONE TANTO SUL COMMITTENTE
TANTO SUL COORDINATORE PER L'ESECUZIONE.
Ciò posto -e rimarcata infine la non coincidenza degli
statuti rispettivamente del committente e del datore di
lavoro-committente, fermo restando che le due figure possono
in concreto cumularsi – la Cassazione penale sottolinea che
la nomina di un coordinatore per l'esecuzione alloca doveri
prevenzionistici tanto sulla figura del committente che su
quella del coordinatore per la esecuzione.
La suprema Corte richiama la previsione dell'art. 6 d.lgs.
n. 494/1996 (norma vigente al tempo del fatto), oggi
riproposta dall'articolo 93, co. 2, d.lgs. n. 81/2008,
secondo la quale la designazione del coordinatore per la
progettazione e del coordinatore per l'esecuzione dei lavori
non esonera il committente dalle responsabilità connesse
alla verifica dell'adempimento degli obblighi posti in capo
al coordinatore per l'esecuzione.
Alla lettera a) dell'art.
93, in particolare, si legge che il coordinatore per
l'esecuzione dei lavori durante la realizzazione dell'opera
verifica l'applicazione da parte dell'impresa esecutrice o
dei lavoratori autonomi delle disposizioni loro pertinenti
contenuti nel piano di sicurezza e di coordinamento.
Tanto
implica che il committente è tenuto a svolgere un'attività
di vigilanza sull'adempimento da parte del coordinatore
della verifica che l'impresa esecutrice abbia osservato le
disposizioni ad essa pertinenti contenute nel piano di
sicurezza e di coordinamento.
NESSUNA DELEGA DAL COMMITTENTE AL
COORDINATORE. Ciò
–conclude la Cassazione- rende palese l'infondatezza del
rilievo difensivo per il quale la "delega di funzioni"
rilasciata dal committente al coordinatore per l'esecuzione
dei lavori esonera il primo dall'obbligo di vigilare sugli
adempimenti ai quali il secondo è tenuto.
Quello di vigilare
sull'operato delle ditte esecutrici non è obbligo possibile
oggetto di delega dal committente al coordinatore, essendo
previsto dalla legge in via originaria in capo al
coordinatore per l'esecuzione.
Non vi è luogo quindi ad
alcuna delega di funzioni al riguardo, e l'area di rischio
governata dal committente è per l'appunto definita in
passato dall'art. 6 citato ed oggi dall'articolo 93, co. 2,
d.lgs. n. 81/2008 (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
4.
Quanto al secondo motivo, esso risulta fondato con
riferimento alla
posizione del Di Be..
4.1. Quanto al Ca., non è nella capacità di questo
collegio comprendere
l'argomento utilizzato dall'esponente per affermarne
l'assenza di responsabilità.
Il compito del coordinatore per l'esecuzione é quello di
verificare che le
misure previste nel piano di sicurezza di coordinamento
siano adottate dalle ditte
esecutrici. Nel caso di specie si trattava di porre in
essere le misure che già nel
predetto piano erano state ritenute necessarie a proteggere
dal rischio di cadute
i lavoratori stante la presenza di apertura nel tetto
dell'edificio in costruzione.
4.2. Quanto al Di Be., a questi è stato ascritto di
non aver osservato
l'obbligo di "verificare l'adempimento da parte delle ditte
esecutrici, delle
disposizioni loro pertinenti contenuti nel piano di
sicurezza e di coordinamento,
con particolare riferimento all'adozione di misure atte a
prevenire la caduta dei
lavoratori dall'alto" (così l'imputazione).
La Corte di appello ha affermato che al medesimo è stato
contestato "di non
aver verificato l'adempimento delle disposizioni contenute
nel piano di sicurezza,
in violazione dell'obbligo che permane a suo carico anche in
caso di delega di
funzioni".
In nessun passaggio si esplicitano le circostanze fattuali
dalle quali si
ricavano tali giudizi. Ma, soprattutto, essi presuppongono
obblighi che la
legislazione non pone in capo al committente.
E' opportuno svolgere qualche breve considerazione in merito
alla posizione
di garanzia gravante sul committente.
A partire dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996,
nella giurisprudenza
di legittimità la responsabilità del committente ha
cominciato ad essere derivata
dalla violazione di alcuni obblighi specifici, quali
l'informazione sui rischi
dell'ambiente di lavoro e la cooperazione nell'apprestamento
delle misure di
protezione e prevenzione, ritenendosi che resti ferma la
responsabilità
dell'appaltatore per l'inosservanza degli obblighi prevenzionali su di lui gravanti
(Sez. 3, n. 6884 del 18/11/2008 - dep. 18/02/2009, Rappa, Rv.
242735).
Ribadito il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori
svolti in esecuzione di un
contratto di appalto o di prestazione d'opera, tanto in capo
al datore di lavoro (di
regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni
antinfortunistiche) che del committente, si è anche richiamata la necessità che tale
principio non conosca
un'applicazione automatica, "non potendo esigersi dal
committente un controllo
pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e
sull'andamento dei lavori".
Ne consegue che, ai fini della configurazione della
responsabilità del committente, "occorre verificare in concreto quale sia stata
l'incidenza della sua
condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità
organizzative della
ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo
alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti
dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore
o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione
dei lavori oggetto di
appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla
agevole ed
immediata percepibilità da parte del committente di
situazioni di pericolo" (Sez.
4, n. 3563 del 18/01/2012 - dep. 30/01/2012, Marangio e
altri, Rv. 252672).
4.3. Ciò posto -e rimarcata infine la non coincidenza degli
statuti
rispettivamente del committente e del datore di
lavoro-committente, fermo
restando che le due figure possono in concreto cumularsi-
va ancora considerato
che la nomina di un coordinatore per l'esecuzione alloca
doveri prevenzionistici
tanto sulla figura del committente che su quella del
coordinatore per la
esecuzione.
E' sufficiente porre mente alla previsione dell'art. 6
d.lgs. n. 494/1996
(norma vigente al tempo del fatto), oggi riproposta
dall'articolo 93, co. 2 d.lgs.
n. 81/2008, secondo la quale la designazione del
coordinatore per la
progettazione e del coordinatore per l'esecuzione dei lavori
non esonera il
committente dalle responsabilità connesse alla verifica
dell'adempimento degli
obblighi posti in capo al coordinatore per l'esecuzione.
Alla lettera a) dell'art. 93,
in particolare, si legge che il coordinatore per
l'esecuzione dei lavori durante la
realizzazione dell'opera verifica l'applicazione da parte
dell'impresa esecutrice o
dei lavoratori autonomi delle disposizioni loro pertinenti
contenuti nel piano di
sicurezza e di coordinamento. Tanto implica che il
committente é tenuto a
svolgere un'attività di vigilanza sull'adempimento da parte
del coordinatore della
verifica che l'impresa esecutrice abbia osservato le
disposizioni ad essa pertinenti
contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento. Come
d'altra parte
ripetutamente rammentato anche da questa Corte.
Ciò rende palese l'infondatezza del rilievo difensivo per il
quale la "delega di
funzioni" rilasciata dal committente al coordinatore per
l'esecuzione dei lavori
esonera il primo dall'obbligo di vigilare sugli adempimenti
ai quali il secondo é
tenuto.
Quello di vigilare sull'operato delle ditte
esecutrici non è obbligo possibile
oggetto di delega dal committente al coordinatore, essendo
previsto dalla legge
in via originaria in capo al coordinatore per l'esecuzione.
Non vi è luogo quindi ad
alcuna delega di funzioni al riguardo, e l'area di rischio
governata dal
committente é per l'appunto definita in passato dall'art. 6
citato ed oggi
dall'articolo 93, co. 2, d.lgs. n. 81/2008.
E tuttavia, si deve rilevare che, l'affermazione svolta
dalla Corte di Appello,
per la quale il Di Be. non aveva vigilato sul rispetto
delle misure contenute
nel Piano di sicurezza e di coordinamento, non é in alcun
modo connessa a
specifiche circostanze di fatto, che ne evidenzino il
fondamento. Non rivela, la
sentenza, quando e come l'azione di controllo sull'operato
del Ca. si sarebbe dovuta e potuta svolgere, in rapporto
alle fasi di lavorazione, secondo le linee di
principio sopra rammentate.
Neppure integrando la
motivazione qui impugnata
con quella resa dal primo giudice é possibile comprendere a
quali evidenze
processuali la Corte di Appello abbia inteso riferirsi,
poiché il Tribunale aveva
fondato il giudizio di responsabilità dell'imputato sulla
mancata fornitura alla
ditta appaltatrice di informazioni specifiche sui pericoli
all'interno del cantiere
(richiamandosi all'art. 7 d.lgs. n. 626/94) e sull'omessa
formazione e
apprestamento di tutela al giovane lavoratore, apprendista
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza
05.01.2016 n.
16). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha
chiarito che, fatta salva la eventualità di univoca,
autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare
sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può
essere destinataria, a titolo di responsabilità di
posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento
omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando
tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via,
alcun dovere del curatore di adottare particolari
comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria
degli immobili destinati alla bonifica da fattori
inquinanti.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Direttore della
Divisione Agro-Alimentare della Provincia di Pavia prot. n.
24058 dell’08.04.2014 (Anno 2014 Titolo 009 Classe 011 Fasc.
19) notificato in data 17.04.2014, nella parte in cui
richiede ai Curatori fallimentari, in qualità di legali
rappresentanti della fallita F.lli B. S.p.a, la
presentazione di un piano per il ripristino dell’area
oggetto dell’impianto di recupero rifiuti, sito in Via ...
n. 2 Vigevano, entro sessanta giorni della notifica del
provvedimento; - nonché di tutti gli atti presupposti,
connessi e consequenziali.
...
2. Il ricorso è fondato.
Dall’esame degli atti risulta che il provvedimento impugnato
contiene un espresso obbligo per i curatori fallimentari di
presentazione di un piano per il ripristino dell'area
oggetto dell'impianto di recupero rifiuti. Non si tratta
quindi di un mero atto di conoscenza ed è irrilevante il
fatto che l’obbligo sorga ex lege o per provvedimento
dell’amministrazione.
In secondo luogo non è contestato che i suddetti curatori
non erano stati autorizzati all’esercizio provvisorio
dell’impresa e non l’hanno comunque esercitata.
In merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha
chiarito che, fatta salva la eventualità di univoca,
autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare
sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può
essere destinataria, a titolo di responsabilità di
posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento
omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando
tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via,
alcun dovere del curatore di adottare particolari
comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria
degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti
(TAR Campania, Salerno, Sez. I, 18.10.2010, n. 11823; TAR
Toscana, Sez. II, 08.01.2010, n. 8; TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2062; TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 04.12.2012 n. 1498).
In definitiva quindi il ricorso va accolto con annullamento
degli atti impugnati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 05.01.2016 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di pertinenza urbanistica contiene elementi
differenti e propri rispetto alla nozione civilistica: il
manufatto pertinenziale deve essere preordinato ad una
oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente
inserito al suo servizio, da ciò consegue che lo stesso non
ha valore di mercato autonomo, ed è dotato comunque di un
volume modesto rispetto all’edificio principale.
La
realizzazione di una tettoia di mq. 25 circa con copertura
in lamiera e struttura in paletti metallici in alluminio,
imbullonata alla recinzione dell’area privata, va
qualificata come intervento di nuova costruzione ex art. 3,
lett. e), del t.u. n. 380 del 2001, con il consequenziale
assoggettamento dell’intervento medesimo, di trasformazione
edilizia, al permesso di costruire.
---------------
Diversamente da quanto ritiene parte appellante, non viene
in rilievo una pertinenza, essendo stata realizzata un’opera
edilizia autonoma, opera che, comportando un mutamento
nell’assetto dei luoghi e una trasformazione del territorio,
necessitava del permesso di costruire.
In termini generali va rammentato che l’art. 817 cod. civ.
definisce pertinenze le cose destinate in modo durevole a
servizio o ad ornamento di un’altra cosa.
La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza
amministrativa è però meno ampia di quella civilistica.
La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che
gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un
lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che
il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in
modo rilevante l’assetto del territorio; dall’altro,
l’esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e
la cosa principale, con la conseguente incapacità per le
medesime di essere utilizzate separatamente ed
autonomamente.
Un’opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da
considerarsi principale, solo quando la prima sia parte
integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose
separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e
della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto
oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice
utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la
disponibilità di entrambe:
- la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue
proprie, che la differenziano da quella civilistica dal
momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad
una oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere
anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato
comunque di un volume modesto rispetto all'edificio
principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico;
- ed ancora, i beni che nel diritto civile assumono
senz'altro natura pertinenziale non sono tali ai fini
dell'applicazione delle regole che governano l'attività
edilizia, ogniqualvolta assumono autonomia rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
concessorio. Ne discende, dunque, che in materia edilizia
sono qualificabili come pertinenze solo le opere che siano
prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro
destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio
principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
---------------
Nella specie, si tratta di un manufatto, avente una
superficie non irrilevante, forse minore dei 25 mq., ma
comunque di certo non irrilevante, con copertura in lamiera
e struttura in paletti metallici, imbullonato alla
recinzione dell’area privata e dunque tutt’altro che
agevolmente rimovibile, destinato, sotto l’aspetto
funzionale, a soddisfare esigenze prolungate nel tempo e in
ogni caso tutt’altro che temporanee, con la conseguenza che,
per la realizzazione di opere come il manufatto medesimo,
occorre conseguire il permesso di costruire.
La natura strutturalmente, e funzionalmente, non precaria
della tettoia, o baracca, di cui si discute, risulta dunque
sussistere, al di là delle considerazioni difensive rivolte
–comprensibilmente, ma infondatamente- a minimizzare
l’entità dell’intervento realizzato.
Alla luce delle considerazioni su esposte è da ritenere che
le caratteristiche e la funzione della struttura, realizzata
con l’impiego di paletti metallici e avente, come detto, una
superficie non irrilevante, non consentano di qualificare
l’opera stessa come pertinenza.
---------------
1. Ma.Da. ha impugnato, davanti al TAR del Lazio, la
determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 1858 del
21.11.2014 con la quale gli è stata ingiunta la demolizione
di un’opera edilizia abusiva consistente nella realizzazione
di una tettoia di mq. 25 circa con copertura in lamiera e
struttura in paletti metallici in alluminio, imbullonata
alla recinzione dell’area privata, in sostituzione di
precedente tettoia in ondulato metallico.
Con la sentenza impugnata il Tribunale amministrativo ha
respinto il ricorso –con la condanna del ricorrente alle
spese a favore di Roma Capitale- con la motivazione che
segue: il ricorrente assume l’illegittimità del
provvedimento in ragione del carattere pertinenziale
dell’opera rispetto al bene principale cui accede…il
concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va
distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in
senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire, come
nel caso di una tettoia in ferro delle dimensioni quali
quelle per cui è causa e ancorata con pali fissi di
metallo…per tali ragioni la realizzazione di una tettoia di
tal genere, comportando la trasformazione edilizia del
territorio ex art. 3 comma 1 lett. e) del D.P.R. n.
380/2001, si caratterizza, secondo la prevalente
giurisprudenza amministrativa, in termini di "nuova
costruzione", tale da necessitare del previo rilascio del
pertinente titolo abilitativo… (segue la citazione di
precedenti giurisprudenziali per i quali la realizzazione di
manufatti e di tettoie con struttura metallica e copertura
in lamiere zincate simili a quello per cui è causa
costituisce nuova costruzione per la quale occorre il
permesso di costruire).
2. Il Da. ha proposto appello contestando statuizioni e
argomentazioni della sentenza e deducendo, con un unico,
articolato motivo, violazione dell’art. 26 della legge n.
1034/1971 per insufficiente motivazione, in relazione al
fatto che il richiamo a precedenti giurisprudenziali non
risulta nella specie integrato dalle insopprimibili
specificità del caso concreto.
Il percorso motivazionale –si legge tra l’altro nell’atto
d’appello- risulta insufficiente a sorreggere la decisione
gravata, mentre il riferimento ai precedenti
giurisprudenziali è scarno e lacunoso non avendo, la
sentenza, motivato circa l’applicabilità, al caso in esame,
dei precedenti giurisprudenziali relativi alla necessità del
permesso di costruire per la realizzazione di tettoie.
L’opera realizzata, di dimensioni modestissime, in lamierato
ondulato, destinata al ricovero di piccoli oggetti, non
sarebbe né stabile né permanente e avrebbe carattere di
pertinenza dell’edificio principale.
Come tale, non sarebbe soggetta a permesso di costruire, con
conseguente illegittimità dell’ingiunzione di demolizione.
3. Resiste Roma Capitale.
4.L’appello è infondato e va respinto.
La sentenza breve di rigetto del Tar va confermata
essenzialmente perché risulta corretta –pur nella oggettiva
concisione della motivazione della pronuncia, coerente, del
resto, con la natura semplificata della decisione di primo
grado- la qualificazione data all’opera abusiva realizzata
come intervento di nuova costruzione ex art. 3, lett. e),
del t.u. n. 380 del 2001, con il consequenziale
assoggettamento dell’intervento medesimo, di trasformazione
edilizia, al permesso di costruire.
Diversamente da quanto ritiene parte appellante, non viene
in rilievo una pertinenza, essendo stata realizzata, in base
agli atti e ai documenti di causa, un’opera edilizia
autonoma, opera che, comportando un mutamento nell’assetto
dei luoghi e una trasformazione del territorio, necessitava
del permesso di costruire.
In termini generali va rammentato che l’art. 817 cod. civ.
definisce pertinenze le cose destinate in modo durevole a
servizio o ad ornamento di un’altra cosa.
La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza
amministrativa è però meno ampia di quella civilistica.
La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che
gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un
lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che
il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in
modo rilevante l’assetto del territorio; dall’altro,
l’esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e
la cosa principale, con la conseguente incapacità per le
medesime di essere utilizzate separatamente ed
autonomamente.
Un’opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da
considerarsi principale, solo quando la prima sia parte
integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose
separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e
della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto
oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice
utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la
disponibilità di entrambe (conf., ex plurimis, Cons.
Stato, IV, n. 5509/2009 –e, ivi, numerosi riferimenti
giurisprudenziali ulteriori-, secondo cui la nozione di
pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la
differenziano da quella civilistica dal momento che il
manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva
esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito
al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo
valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto
rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d.
carico urbanistico; conf. inoltre Cons. Stato, sez. IV, n.
4636/2009: i beni che nel diritto civile assumono senz'altro
natura pertinenziale non sono tali ai fini dell'applicazione
delle regole che governano l'attività edilizia,
ogniqualvolta assumono autonomia rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
concessorio. Ne discende, dunque, che in materia edilizia
sono qualificabili come pertinenze solo le opere che siano
prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro
destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio
principale, così da non incidere sul carico urbanistico; v.
anche Cons. Stato, n. 2549/2011).
Nella specie, ad avviso di questo Consiglio, dalla
descrizione dell’opera contenuta nell’atto impugnato, dalla
fotografia in atti e in generale dalla documentazione
prodotta emerge che, sul piano strutturale, si tratta di un
manufatto, avente una superficie non irrilevante, forse
minore dei 25 mq. ai quali si fa riferimento nella determina
impugnata in primo grado, ma comunque di certo non
irrilevante, con copertura in lamiera e struttura in paletti
metallici, imbullonato alla recinzione dell’area privata e
dunque tutt’altro che agevolmente rimovibile, destinato,
sotto l’aspetto funzionale, a soddisfare esigenze prolungate
nel tempo e in ogni caso tutt’altro che temporanee, con la
conseguenza che, per la realizzazione di opere come il
manufatto medesimo, occorre conseguire il permesso di
costruire.
In modo condivisibile in sentenza è stata negata natura
pertinenziale al manufatto, considerandolo intervento che
implica una trasformazione urbanistico–edilizia del
territorio.
La natura strutturalmente, e funzionalmente, non precaria
della tettoia, o baracca, di cui si discute, risulta dunque
sussistere, al di là delle considerazioni difensive rivolte
–comprensibilmente, ma infondatamente- a minimizzare
l’entità dell’intervento realizzato.
Alla luce delle considerazioni su esposte è da ritenere che
le caratteristiche e la funzione della struttura, realizzata
con l’impiego di paletti metallici e avente, come detto, una
superficie non irrilevante, non consentano di qualificare
l’opera stessa come pertinenza.
Di qui il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza
impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.01.2015 n. 19 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio considera che il detto muretto si
caratterizzi come vero e proprio muro di cinta in
quanto posto sul confine ed avente una evidente funzione di
separazione e difesa dei distinti lotti di proprietà (tale
qualificazione fa venir meno –per quanto mai possa in questa
sede rilevarsi e considerarsi, e ferme comunque le autonome
valutazioni del giudice civile, competente a quei fini- la
questione dell’obbligo di rispettare le distanze legali ai
sensi del combinato disposto degli artt. 873 e 878 Cod.
civ.).
---------------
In ordine alla verifica di quale titolo edilizio fosse
richiesto per la realizzazione va precisato che il Testo
unico dell’edilizia (approvato con d.P.R. 06.06.2001, n.
380) non contiene indicazioni dirimenti: non vi è detto se
il muro di cinta necessiti del permesso di costruire
in quanto intervento di nuova costruzione (ai sensi degli
articoli 3, comma 1, lettera e), e 10 del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380) ovvero se sia sufficiente la denuncia di inizio di
attività di cui all'articolo 22 del medesimo d.P.R. n. 380
del 2001 (in seguito: segnalazione certificata di inizio di
attività, ai sensi dell' articolo 19 della legge 07.08.1990,
n. 241, nel testo introdotto dal comma 4-bis dell'articolo
49 d.l. 31.05.2010, n. 78, come convertito con modificazioni
dalla l. 30.07.2010, n. 122).
L’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato, dal
quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, è nel senso
che più che all’astratto genus o tipologia di intervento
edilizio (sussumibile nella categoria delle opere funzionali
a chiudere i confini sui fondi finitimi) occorrere far
riferimento all’impatto effettivo che le opere a ciò
strumentali generano sul territorio: con la conseguenza che
si deve qualificare l’intervento edilizio quale nuova
costruzione (con quanto ne consegue ai fini del previo
rilascio dei necessari titoli abilitativi) quante volte
abbia l'effettiva idoneità di determinare significative
trasformazioni urbanistiche e edilizie.
Sulla base di tale approccio attento al rapporto effettivo
dell’innovazione con la preesistenza territoriale, e che
prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato per
qualificare l’opus quale muro di recinzione (o altre
simili), la realizzazione di muri di cinta di modesti
corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime
della denuncia di inizio di attività di cui all'articolo 22
e, in seguito, al regime della segnalazione certificata di
inizio di attività di cui al nuovo articolo 19 della l. n.
241 del 1990.
Non contraddice quanto appena detto la circostanza che, nel
caso specifico, la precitata sentenza di questa Sezione n.
3408 del 2014, il Collegio abbia invece ritenuto necessario
il permesso di costruire per la realizzazione di un muro di
cinta con altezza al colmo pari a 1,70 mt., tenuto conto del
fatto che la ratio decidendi era nel senso che quel singolo
intervento aveva determinato un'incidenza sull'assetto
complessivo del territorio di entità ed impatto tali da
produrre un'apprezzabile trasformazione urbanistica o
edilizia.
Era quella una motivazione puntuale, adattata al caso di
specie, confermativa dell’approccio sostanzialista (e non
nominalistico) che attribuisce in ogni caso rilievo alla
consistenza quali-quantitativa del concreto intervento
edilizio sul territorio.
Ciò detto, deve essere conseguentemente qui puntualmente
confermato l'orientamento secondo cui, in linea generale, la
realizzazione di recinzioni, muri di cinta e
cancellate rimane assoggettata al regime della d.i.a.
(in seguito: s.c.i.a.) ove dette opere non superino in
concreto la soglia della trasformazione urbanistico-edilizia,
occorrendo -invece- il permesso di costruire, ove detti
interventi superino tale soglia.
---------------
Il muro divisorio di che trattasi, in quanto assoggettato a
semplice d.i.a. (ora s.c.i.a.), non era passibile di
ordinanza di demolizione, atteso che per le opere sottoposte
a d.i.a. la sanzione applicabile è unicamente la sanzione
pecuniaria (cfr. art. 37 T.U. cit., che fa salve le ipotesi
degli interventi eseguiti su beni culturali ovvero in zona
tipizzata come “A” dallo strumento urbanistico).
---------------
1.- Ba.Lo., in proprio e quale titolare della ditta Lo.,
impugna la sentenza del Tribunale amministrativo regionale
dell’Emilia-Romagna, sezione di Parma, 15.01.2015 n. 7 che
ha respinto il ricorso dallo stesso proposto avverso il
provvedimento 16.01.2014 n. 398 dell’Unione Bassa Est
Parmense, recante l’ordine di demolizione di opere edilizie
(sostanzialmente, di un muretto divisorio in cemento armato)
realizzate sine titulo lungo il confine nord del
lotto posto all’interno del piano particolareggiato per
insediamenti produttivi denominato “Parma Nord” a
confine con la proprietà Ca..
L’appellante insiste anche in questo grado nell’assumere la
legittimità dell’intervento edilizio, come semplice muretto
di recinzione a supporto della rete metallica posta a
divisione dei lotti, legittimato dal permesso di costruire
n. 17 del 20.06.2003 rilasciato per la realizzazione del
capannone e dalla delibera del Comune di Mezzano 27.06.2002,
n. 27 recante l’approvazione delle opere dell’intero
comparto a destinazione artigianale-industriale.
Conclude l’appellante per l’accoglimento, con l’appello, del
ricorso di primo grado e per l’annullamento dell’atto in
quella sede gravato, in riforma della impugnata sentenza.
Si è costituita in giudizio l’Unione Bassa Est Parmense per
resistere all’appello e per chiederne la reiezione.
Le parti hanno scambiato memorie illustrative e memorie di
replica in vista dell’udienza di discussione.
All’udienza pubblica del 01.12.2015 la causa è stata
trattenuta per la sentenza.
2.- L’appello è fondato e va accolto.
3.- L’ordine di demolizione impugnato in primo grado
riguarda un muretto in cemento armato posto sul lato nord
del lotto in titolarità dell’odierna società appellante, a
confine con proprietà Ca..
La demolizione è stata disposta dall’odierna amministrazione
appellata sull’assunto che quel muro sia stato realizzato
dagli originari titolari del lotto (M.. L. & F. s.p.a.)
senza la previa acquisizione del permesso di costruire.
Gli argomenti qui controversi riguardano:
a) la natura giuridica del muro, se in particolare si tratti
di muro di cinta ovvero di muro di contenimento del terreno
(in quella parte ad andamento declive) e, in quest’ultima
ipotesi, se superi o non superi in altezza il piano di
campagna;
b) le connesse questioni inerenti il tipo di titolo
legittimante l’intervento e la corretta sanzione da
applicare, ove fosse mai stata necessaria la previa
acquisizione di un titolo. In sostanza, se la sanzione reale
della riduzione in pristino impugnata con il ricorso di
primo grado sia sanzione appropriata in relazione al profilo
di pretesa abusività contestato.
Il giudice di primo grado è pervenuto all’adozione della
gravata sentenza reiettiva ritenendo che il muro divisorio
non potesse qualificarsi come muro di solo contenimento del
terreno: e tanto vuoi perché il riempimento della scarpata
sarebbe ascrivibile ad opera dell’uomo (e quindi non si
tratterebbe di un terrapieno “naturale”), vuoi perché
il muro risulterebbe eretto ad una quota, al colmo,
senz’altro superiore al piano di campagna. Di qui la
ritenuta congruità della sanzione demolitoria dell’opera,
qualificata come nuova costruzione e come tale priva di
titolo edilizio in quanto mai assentita con permesso di
costruire.
4.- Il Collegio ritiene che tali conclusioni non siano da
condividere e che non resistano alle censure dedotte dalla
appellante.
In particolare, il Collegio considera che il detto muretto
si caratterizzi come vero e proprio muro di cinta (come del
resto accertato dalla relazione di consulenza tecnica nel
giudizio civile dinanzi al Tribunale di Parma promosso dal
confinante Ca. nei confronti dell’odierno appellante) in
quanto posto sul confine ed avente una evidente funzione di
separazione e difesa dei distinti lotti di proprietà (tale
qualificazione fa venir meno –per quanto mai possa in questa
sede rilevarsi e considerarsi, e ferme comunque le autonome
valutazioni del giudice civile, competente a quei fini- la
questione dell’obbligo di rispettare le distanze legali ai
sensi del combinato disposto degli artt. 873 e 878 Cod.
civ.).
Si può prescindere, sulla base delle considerazioni in
diritto che si svolgeranno più avanti, dall’approfondire qui
la questione in fatto se detto muro sia svolga anche la
funzione pratica di muro di contenimento di un terreno
naturalmente in declivio (assunto che varrebbe, secondo la
prospettazione, ad escludere la rilevanza della previa
acquisizione di un titolo legittimante la sua erezione).
Ciò posto in termini di qualificazione giuridica, il
Collegio ritiene che prima di affrontare la questione della
legittimità dell’ordinanza di demolizione vada
preliminarmente verificato quale titolo edilizio fosse
richiesto per la realizzazione.
Il Testo unico dell’edilizia (approvato con d.P.R.
06.06.2001, n. 380) non contiene indicazioni dirimenti: non
vi è detto se il muro di cinta necessiti del permesso di
costruire in quanto intervento di nuova costruzione (ai
sensi degli articoli 3, comma 1, lettera e), e 10 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380) ovvero se sia sufficiente la denuncia di
inizio di attività di cui all'articolo 22 del medesimo
d.P.R. n. 380 del 2001 (in seguito: segnalazione certificata
di inizio di attività, ai sensi dell'articolo 19 della legge
07.08.1990, n. 241, nel testo introdotto dal comma 4-bis
dell' articolo 49 d.l. 31.05.2010, n. 78, come convertito
con modificazioni dalla l. 30.07.2010, n. 122).
5.- L’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato,
dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, è nel
senso che più che all’astratto genus o tipologia di
intervento edilizio (sussumibile nella categoria delle opere
funzionali a chiudere i confini sui fondi finitimi)
occorrere far riferimento all’impatto effettivo che le opere
a ciò strumentali generano sul territorio: con la
conseguenza che si deve qualificare l’intervento edilizio
quale nuova costruzione (con quanto ne consegue ai fini del
previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) quante
volte abbia l'effettiva idoneità di determinare
significative trasformazioni urbanistiche e edilizie (es.
Cons. Stato, VI, 04.07.2014 n. 3408).
Sulla base di tale approccio attento al rapporto effettivo
dell’innovazione con la preesistenza territoriale, e che
prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato
per qualificare l’opus quale muro di recinzione (o altre
simili), la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo
e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della
denuncia di inizio di attività di cui all'articolo 22 e, in
seguito, al regime della segnalazione certificata di inizio
di attività di cui al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del
1990 (in tal senso: Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2621).
Non contraddice quanto appena detto la circostanza che, nel
caso specifico, la precitata sentenza di questa Sezione n.
3408 del 2014, il Collegio abbia invece ritenuto necessario
il permesso di costruire per la realizzazione di un muro di
cinta con altezza al colmo pari a 1,70 mt., tenuto conto del
fatto che la ratio decidendi era nel senso che quel
singolo intervento aveva determinato un'incidenza
sull'assetto complessivo del territorio di entità ed impatto
tali da produrre un'apprezzabile trasformazione urbanistica
o edilizia.
Era quella una motivazione puntuale, adattata al caso di
specie, confermativa dell’approccio sostanzialista (e non
nominalistico) che attribuisce in ogni caso rilievo alla
consistenza quali-quantitativa del concreto intervento
edilizio sul territorio.
Ciò detto, deve essere conseguentemente qui puntualmente
confermato l'orientamento secondo cui, in linea generale, la
realizzazione di recinzioni, muri di cinta e cancellate
rimane assoggettata al regime della d.i.a. (in seguito:
s.c.i.a.) ove dette opere non superino in concreto la soglia
della trasformazione urbanistico-edilizia, occorrendo
-invece- il permesso di costruire, ove detti interventi
superino tale soglia.
6.- Venendo al caso che ne occupa, si deve anzitutto
rilevare che il muro divisorio di che trattasi risulta di
altezza tanto modesta da essere visivamente percepito solo
dal lato della proprietà Ca., essendo dall’altra parte
completamente neutralizzato, sul piano dell’impatto visivo,
dal terrapieno che copre il muro per quasi tutta la sua
altezza.
Per conseguenza, l'impatto sortito dal manufatto in parola
sul piano urbanistico-edilizio risulta di scarsa incidenza
sole che si consideri che -come emerge dal materiale
fotografico acquisito- lo stesso manufatto supera di poco
(al di là della sua maggiore o minore percezione visiva a
seconda del versante prospettico) il piano di campagna; e
che l’effettiva funzione divisoria dei distinti lotti di
proprietà è in concreto assicurata da una rete metallica
infissa sul predetto muro (sulla legittimità del titolo alla
apposizione della rete metallica non si è fatta qui
questione, l’ordine di abbattimento avendo riguardato il
solo muro portante).
Nel caso in esame, pertanto, il manufatto non rappresenta
un’opera comportante un’apprezzabile trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio: tanto più se si
considera che il giudizio è necessariamente relazionale
rispetto al concreto contesto e che, nella specie, queste
opere sono state realizzate contestualmente ed in funzione
complementare a quelle di urbanizzazione di una vasto
comparto a destinazione artigianale-industriale.
La rilevanza di cui si verte, ai fini della rammentata
capacità trasformativa, va invero considerata in modo
proporzionale: cioè dopo essere stata rapportata non alla
consistenza in assoluto dell’innovazione, bensì alla
condizione del contesto in cui è inserita. Sicché un
manufatto di minimo impatto che in un certo contesto può
risultare necessitante del massimo titolo edilizio, può non
risultarlo altrove. E non vi è dubbio che un contesto come
quello di un comparto a destinazione artigianale-
industriale attenuti il rilievo di fatto che avrebbe la
medesima opera in un contesto abitativo.
Da quanto sopra consegue che il muro divisorio di che
trattasi, in quanto assoggettato a semplice d.i.a. (ora
s.c.i.a.), non era passibile di ordinanza di demolizione,
atteso che per le opere sottoposte a d.i.a. la sanzione
applicabile è unicamente la sanzione pecuniaria (cfr. art.
37 T.U. cit., che fa salve le ipotesi, qui non ricorrenti,
degli interventi eseguiti su beni culturali ovvero in zona
tipizzata come “A” dallo strumento urbanistico).
Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va accolto e,
in riforma della impugnata sentenza, va accolto il ricorso
di primo grado, con conseguenziale annullamento degli atti
in quella sede gravati
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.01.2016 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare d'appalto, il Consiglio di Stato chiarisce
sull'indicazione degli oneri di sicurezza aziendale. Vanno
indicati anche quando il bando non lo prevede.
a) in tutte le
gare di appalti di lavori, servizi e forniture, le imprese
devono indicare in sede di offerta economica gli oneri di
sicurezza aziendali (c.d. costi di sicurezza interni); tale
obbligo integra un precetto imperativo che etero integra la
legge di gara, ove questa sia silente sul punto o comunque
compatibile con esso, nel rispetto del ‘principio di
tassatività attenuata’ delle cause di esclusione, sancito
dall’art. 46 del codice dei contratti pubblici;
b) nel caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali, non sono legittimamente esercitabili i poteri
attinenti al soccorso istruttorio, anche per le procedure
nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è
conclusa (come nel caso di specie) prima della pubblicazione
della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015.
---------------
7. L’appello è
infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti
considerazioni in fatto e diritto (e in particolare dei
principi elaborati dalle sentenze dell’Adunanza plenaria nn.
9 del 2015, 3 del 2015, 16 del 2014 e 9 del 2014, cui si
rinvia ai sensi dell’art. 120, co. 10, c.p.a.):
a) in tutte le gare di appalti di lavori, servizi e
forniture, le imprese devono indicare in sede di offerta
economica gli oneri di sicurezza aziendali (c.d. costi di
sicurezza interni); tale obbligo integra un precetto
imperativo che etero integra la legge di gara, ove questa
sia silente sul punto o comunque compatibile con esso, nel
rispetto del ‘principio di tassatività attenuata’
delle cause di esclusione, sancito dall’art. 46 del codice
dei contratti pubblici;
b) nel caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali, non sono legittimamente esercitabili i poteri
attinenti al soccorso istruttorio, anche per le procedure
nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è
conclusa (come nel caso di specie) prima della pubblicazione
della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015;
c) nella vicenda in esame:
I) il bando di gara (e in particolare il Modello D) non ha imposto
di non esplicitare, da parte dell’impresa concorrente, i
costi di sicurezza aziendali (anzi il Modello D ha
specificato, nelle avvertenze sub lett. a), che la
dichiarazione relativa all’offerta economica doveva essere
compilata adeguandola alla fattispecie);
II) in ogni caso, quand’anche si dovesse ritenere che il bando di
gara abbia escluso l’obbligo delle imprese di indicare i
costi di sicurezza aziendale in sede di offerta, in parte
qua esso è stato espressamente impugnato dalla ditta Servizi
(sicché per tale ipotesi non si può che disporre
l’annullamento in parte qua del bando, nel senso del suo
adeguamento alle disposizioni di legge, quale fonte del
dovere dell’Amministrazione di disporre l’esclusione
dell’appellante)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.12.2015 n. 5873 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Per quanto concerne la violazione delle garanzie
procedimentali partecipative e dell’obbligo di preavviso di
rigetto sancito dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, va
richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio per la
quale:
I) non vi è l’obbligo di preavviso in relazione ai
procedimenti attivati d’ufficio (come nel caso di specie);
II) non ha carattere tassativo l’elenco delle ipotesi, di
cui all’ultimo periodo dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990,
per le quali non è necessaria la comunicazione dei motivi
ostativi all’accoglimento della domanda;
sotto tale angolazione, la mancata comunicazione del
preavviso di rigetto non comporta ex se l’illegittimità del
provvedimento finale, in quanto la norma sancita dall’art.
10-bis cit., va interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il quale, nell’imporre
al giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità
sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione
delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell’atto
allorché il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (come verificatosi
nel caso di specie, in cui viene in rilievo un atto dovuto).
---------------
7.2. Scendendo all’esame del ricorso di primo grado, il
Collegio osserva che lo stesso esame risulta infondato, sia
in fatto che in diritto, atteso che:
a) l’art. 4, l. 25.08.1991, n. 287, -che impone al titolare
della licenza di avviare in concreto l’attività commerciale
entro centottanta giorni dalla data del rilascio del titolo
ovvero di non sospendere l’attività per oltre un anno-
configura un’ipotesi di decadenza ex lege della
licenza di commercio, benché definita impropriamente come ‘revoca’,
trattandosi di un effetto giuridico che si determina al
verificarsi delle condizioni di non esercizio indicate dalla
medesima norma e che comporta, da parte dell’autorità
competente, l’adozione del provvedimento che si pone alla
stregua di un atto dovuto di natura dichiarativa, salvo che
non sia disposta una proroga a seguito di apposita motivata
richiesta, prima del decorso del termine assegnato dalla
legge; la prova rigorosa della presenza di cause di forza
maggiore, che impedirebbero di iniziare o riavviare
l’attività commerciale, incombe sul titolare della licenza,
sicché il Comune legittimamente fa decorrere dalla data
della prima comunicazione della chiusura dell’esercizio il
termine annuale di inattività, costituente il presupposto
per l’emanazione del provvedimento di decadenza ex art. 4
cit. (cfr. fra le tante Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n.
852; Sez. V, 25.05.2009, n. 3232; Sez. V, 27.09.2004, n.
6321, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2,
lett. d), c.p.a.);
b) come risulta dalla precedente ricostruzione in fatto:
I) i germani Cr. erano gli unici destinatari del provvedimento di
decadenza in quanto titolari della licenza commerciale
iure successionis, non essendo mai stata autorizzata dal
Comune la cessione del titolo ad altri soggetti (società
Cr., società Ra.);
II) gli eredi Cr. non hanno evitato la pronuncia di decadenza
dimostrando la forza maggiore che avrebbe impedito loro di
riaprire il locale, né hanno mai dimostrato il possesso di
locali idonei dove trasferire l’attività commerciale; sotto
tale angolazione deve escludersi che il Comune avesse
l’obbligo di riscontrare la richiesta di voltura prima
dell’emanazione del provvedimento di decadenza;
III) in ogni caso il Comune ha negato la proroga dell’attività di
sospensione e tale atto non è stato tempestivamente
impugnato;
IV) sia il diniego di proroga che il provvedimento di decadenza
sono corredati da adeguata motivazione (per altro non
necessaria relativamente agli atti vincolati), avuto
riguardo alla mancata prova della forza maggiore;
c) il trasferimento di un’azienda commerciale di
somministrazione di alcolici, alimentari e bevande, inter
vivos o mortis causa, è condizionato al positivo
riscontro, da parte dell’autorità comunale, di tutti i
requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dall’ordinamento
di settore;
d) per quanto concerne, infine, la violazione delle garanzie
procedimentali partecipative e dell’obbligo di preavviso di
rigetto sancito dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, va
richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr.,
ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, n. 2548 del 2012;
Cons. giust. amm., 04.07.2011, n. 472, cui si rinvia ai
sensi dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), per la quale:
I) non vi è l’obbligo di preavviso in relazione ai procedimenti
attivati d’ufficio (come nel caso di specie);
II) non ha carattere tassativo l’elenco delle ipotesi, di cui
all’ultimo periodo dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, per
le quali non è necessaria la comunicazione dei motivi
ostativi all’accoglimento della domanda; sotto tale
angolazione, la mancata comunicazione del preavviso di
rigetto non comporta ex se l’illegittimità del
provvedimento finale, in quanto la norma sancita dall’art.
10-bis cit., va interpretata alla luce del successivo art.
21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il quale, nell’imporre
al giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità
sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione
delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell’atto
allorché il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (come verificatosi
nel caso di specie, in cui viene in rilievo un atto dovuto);
III) la nota dei privati pervenuta al Comune il 23.07.2005 era del
tutto irrilevante ai fini della pronuncia di decadenza, non
prospettando alcuna causa di forza maggiore; correttamene il
Comune non l’ha tenuta in considerazione.
8. In conclusione l’appello deve essere respinto (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 30.12.2015 n. 5868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Dal disposto dell’art. 192
del d.lgs. n. 152/2006 si ricava il principio secondo cui vi
deve essere necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa
del proprietario dell'area, per configurare un suo obbligo a
provvedere allo smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati,
precisando, inoltre, che l'ordine di rimozione può essere
adottato esclusivamente in base agli accertamenti
effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati,
dai soggetti preposti al controllo.
E’ stato, in particolare, affermato che:
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22, oggi sostituito
dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n. 152 ("Norme
in materia ambientale") prevede la corresponsabilità
solidale del proprietario o del titolare di diritti
personali o reali di godimento sull'area ove sono stati
abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il
conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile
anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa”;
- “L'art. 192, d.lgs. n. 152/2006 dispone che l'obbligo di
procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido
con il responsabile, anche a carico del proprietario del
sito e del titolare di diritti reali o personali di
godimento relativi ad esso, solo se tale violazione sia
anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai preposti al controllo”;
- “In tema di abbandono di rifiuti, ai sensi dell'art. 192
del D.L.vo n. 152 del 2006, il proprietario dell'area è
tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che
ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori
dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere
un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo”.
---------------
Riguardo, invece, alla carenza di motivazione, si ritiene
che, dall’esame del corpo del provvedimento, risulti
assolutamente immotivato l’ordine di esecuzione della
rimozione nei confronti della ricorrente per la sua mera
qualità di proprietaria dell’area, senza un previo
accertamento della sua responsabilità per l’abbandono dei
rifiuti.
Deve, inoltre, ricordarsi che tale orientamento risulta,
altresì, supportato dalla nota sentenza della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea del 04.03.2015, causa
C-534/2013, che si è pronunciata sulla questione
pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato, in Adunanza
plenaria, con le ordinanze 25.09.2013, n. 21 e 13.11.2013,
n. 25 con riferimento agli obblighi del proprietario
incolpevole in ordine alla messa in sicurezza e alla
bonifica di un sito inquinato.
Sposando l’orientamento maggioritario della giurisprudenza
amministrativa, ritenuto conforme all’ordinamento
comunitario e, in particolare, al principio “chi inquina
paga” sancito dell’art. 191 TFUE, il Giudice europeo ha
confermato che, qualora il proprietario di un’area inquinata
non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad
adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di
bonifica della stessa.
L’applicazione del regime di responsabilità istituito dalla
Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale ha, invero, come
suo ineludibile presupposto essenziale l’individuazione di
un soggetto che possa essere qualificato come responsabile
della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione
accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività
svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato.
Nel caso in cui il proprietario risulti incolpevole sarà,
quindi, tenuto al mero rimborso delle spese relative agli
interventi realizzati d’ufficio dall’Autorità competente,
nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi e solo nell’ipotesi in cui
non sia stata nel frattempo accertata la responsabilità di
altri soggetti o se risulti impossibile rivalersi nei
confronti dei medesimi.
Tali principi devono, senza alcun dubbio, ricevere
applicazione anche nell’ipotesi di abbandono di rifiuti.
---------------
Con il presente ricorso la società istante ha impugnato il
provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il
Direttore dell’Area Gestione, Territorio e Ambiente del
comune intimato, rilevata a seguito di sopralluogo compiuto
dalla Polizia Locale la presenza di materiali vari e macerie
lungo il tratto di strada sterrata che congiunge la via
Pirandello con la via Adda, ne ha ordinato alla società
istante la rimozione, il recupero o lo smaltimento entro 60
giorni, ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, nella
sua qualità di proprietaria dell’area.
A sostegno del proprio gravame l’istante ha dedotto la
violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990,
dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, oltre che l’eccesso di
potere per carenza dei presupposti di fatto, difetto di
istruttoria e di motivazione, ingiustizia manifesta e
contraddittorietà.
Successivamente l’istante ha prodotto una memoria a sostegno
delle proprie conclusioni.
Alla pubblica udienza del 26.11.2015 il ricorso è stato
trattenuto in decisione.
Il ricorso è fondato.
Il collegio ritiene, invero, che l’ordine che il Comune
intimato ha emesso nei confronti della ricorrente si ponga
in contrasto con il disposto dell’art. 192 del d.lgs. n.
152/2006 e che non sia sorretto da adeguata motivazione.
In ordine al primo profilo di censura, infatti, ai sensi
della norma succitata: “1. L'abbandono e il deposito
incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi
genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli
articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi
1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate…”.
In proposito, la costante giurisprudenza ha affermato che
dal disposto dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 si ricava
il principio secondo cui vi deve essere necessaria
imputabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario
dell'area, per configurare un suo obbligo a provvedere allo
smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati, precisando,
inoltre, che l'ordine di rimozione può essere adottato
esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo.
E’ stato, in particolare, affermato che:
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22, oggi
sostituito dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n.
152 ("Norme in materia ambientale") prevede la
corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare
di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono
stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il
conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile
anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa” (Cons.
Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 84);
- “L'art. 192, d.lgs. n. 152/2006 dispone che l'obbligo
di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in
solido con il responsabile, anche a carico del proprietario
del sito e del titolare di diritti reali o personali di
godimento relativi ad esso, solo se tale violazione sia
anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai preposti al controllo” (Cons.
Stato, sez. V, 25 giugno 2010, n. 4073);
- “In tema di abbandono di rifiuti, ai sensi dell'art.
192 del D.L.vo n. 152 del 2006, il proprietario dell'area è
tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che
ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori
dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere
un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo” (Cons. Stato, sez. V, 20.08.2012, n. 4635).
Riguardo, invece, alla carenza di motivazione, si ritiene
che, dall’esame del corpo del provvedimento, risulti
assolutamente immotivato l’ordine di esecuzione della
rimozione nei confronti della ricorrente per la sua mera
qualità di proprietaria dell’area, senza un previo
accertamento della sua responsabilità per l’abbandono dei
rifiuti.
Deve, inoltre, ricordarsi che tale orientamento risulta,
altresì, supportato dalla nota sentenza della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea del 04.03.2015, causa
C-534/2013, che si è pronunciata sulla questione
pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato, in Adunanza
plenaria, con le ordinanze 25.09.2013, n. 21 e 13.11.2013,
n. 25 con riferimento agli obblighi del proprietario
incolpevole in ordine alla messa in sicurezza e alla
bonifica di un sito inquinato.
Sposando l’orientamento maggioritario della giurisprudenza
amministrativa, ritenuto conforme all’ordinamento
comunitario e, in particolare, al principio “chi inquina
paga” sancito dell’art. 191 TFUE, il Giudice europeo ha
confermato che, qualora il proprietario di un’area inquinata
non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad
adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di
bonifica della stessa.
L’applicazione del regime di responsabilità istituito dalla
Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale ha, invero, come
suo ineludibile presupposto essenziale l’individuazione di
un soggetto che possa essere qualificato come responsabile
della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione
accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività
svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato.
Nel caso in cui il proprietario risulti incolpevole sarà,
quindi, tenuto al mero rimborso delle spese relative agli
interventi realizzati d’ufficio dall’Autorità competente,
nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi e solo nell’ipotesi in cui
non sia stata nel frattempo accertata la responsabilità di
altri soggetti o se risulti impossibile rivalersi nei
confronti dei medesimi.
Tali principi devono, senza alcun dubbio, ricevere
applicazione anche nell’ipotesi di abbandono di rifiuti.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento del
provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 30.12.2015 n. 2867 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività di affittacamere, pur differenziandosi
da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede
non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato
e provvisto delle necessarie somministrazioni, ma anche la
prestazione di servizi personali, quali il riassetto del
locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da
bagno.
Nel caso di specie non si rinviene la radicale oggettiva
diversità tra le due modalità di destinazione denunciate
dall’appellante e dunque non è configurabile una falsa
rappresentazione in ordine al denunciato cambio di
destinazione dell’immobile, per effetto della parziale
sovrapposizione tra le due forme di destinazione e
dell’ulteriore circostanza che l’eventuale impiego del bene
secondo modalità parzialmente diverse da quelle che
configurano l’affittacamere comporta l’applicazione di una
sanzione pecuniaria.
---------------
4.– L’appello è infondato.
4.1.– L’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza per
le seguenti ragioni:
a) la questione della mancanza di opere edilizie nelle sei
camere non sarebbe motivo posto a base del provvedimento
impugnato;
b) l’indisponibilità giuridica sarebbe conseguenza dei
sequestri giudiziari risultanti esistenti all’atto
dell’adozione del provvedimento di annullamento impugnato;
c) la non conformità urbanistico-edilizia, conseguente alla
pluralità di abusi esistenti sul fabbricato nel corso del
2004;
d) la falsa rappresentazione dei dati di cui alle lettere b)
e c) da parte dell’appellata al momento della presentazione
della domanda di autorizzazione.
L’appellante critica, inoltre, la sentenza nella parte in
cui ha ritenuto assimilabile l’attività di affittacamere a
quella alberghiera, in ragione della diversità tipologica
delle attività. Inoltre, si rileva come la parte appellata
aveva presentato, nel 2004, «istanza di condono edilizio
nella quale dichiarava che il fabbricato (…) era da
destinarsi ad attività alberghiera, tale essendo la finalità
delle opere edili autorizzate senza permesso».
I motivi non sono fondati.
In relazione al punto a), il preteso errore del primo
giudice nel valutare un profilo non oggetto del
provvedimento impugnato non ha rilevanza ai fini della
presente decisione.
In relazione al punto b), a parte l‘effettiva esistenza
della perdurante efficacia dei sequestri, tale
provvedimenti, come bene mette in rilievo l’appellata,
esistevano comunque al momento del rilascio
dell’autorizzazione; e non viene indicata alcuna ragione che
giustifichi l’annullamento nel 2013.
In relazione al punto c), è sufficiente rilevare che la
questione edilizia è stata affrontata in modo indebito dal
Comune, come sopra risulta: con la conseguenza che non può,
allo stato, costituire valida ragione di annullamento
dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale.
In relazione al punto d), alla luce di quanto esposto non
risultano omissioni ingannevoli al momento della domanda di
autorizzazione per giustificare l’annullamento dell’atto
autorizzatorio rilasciato. Per l’asserita falsità per la
mancata comunicazione circa la destinazione dei beni a
finalità alberghiera e non di affittacamere, si deve
anzitutto rilevare che l'attività di affittacamere, pur
differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni
modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un
locale ammobiliato e provvisto delle necessarie
somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la
prestazione di servizi personali, quali il riassetto del
locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da
bagno (cfr. Cass., II, 08.11.2010, n. 22665).
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, deve
ritenersi che (a prescindere dall’effettività del mutamento
di destinazione e dalla valenza della rinuncia alla domanda
di condono da parte dell’appellante, successivamente
intervenuta) non sussiste la radicale oggettiva diversità
tra le due modalità di destinazione denunciata
dall’appellante.
Si tenga conto, inoltre, che la legge della Regione Campania
24.11.2001, n. 17 (Disciplina delle strutture ricettive
extralberghiere) dispone che, in caso di gestione delle
camere secondo modalità differenti da quelle autorizzate
dalla legge, si applicano soltanto sanzioni pecuniarie. In
definitiva, non è configurabile una falsa rappresentazione
in ordine al denunciato cambio di destinazione
dell’immobile, considerata la parziale sovrapposizione tra
le due forme di destinazione e la circostanza che
l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente
diverse da quelle che configurano l’”affittacamere”
comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria.
5.– Per le ragioni sin qui esposte, i provvedimenti
impugnati risultano privi di un’adeguata motivazione e di
istruttoria, sono illegittimi e vanno annullati: e il Comune
dovrà riesercitare il potere in conformità a quanto
considerato dalla presente decisione
(massima tratta da
http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.12.2015 n. 5856
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In merito al provvedimento sanzionatorio della
realizzazione del manufatto abusivamente realizzato, è
infondato l’asserito vizio concernente il difetto di
motivazione laddove, nel provvedimento di rigetto della
domanda di condono, l’ente comunale afferma che essa non può
essere accolta in quanto “l’aumento di altezza di una parte
del piano sottotetto ha comportato l’alterazione sostanziale
del profilo altimetrico originario, non consentito dalle
norme del vigente Piano di Recupero”, richiamando, l’atto in
questione, le valutazioni svolte dall’ufficio tecnico
comunale.
Dunque, ingiungendosi, nell’ordinanza di demolizione, la
rimozione della maggiore altezza della parte di sottotetto,
deve concludersi che la motivazione è conforme ai parametri
di adeguatezza necessari per consentire l’esercizio del
diritto di difesa e il controllo giurisdizionale avendo, la
P.A., chiaramente indicato le ragioni poste a fondamento
degli atti censurati.
----------------
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si
applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui sia
oggettivamente impossibile procedere alla demolizione».
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
---------------
3.3.– Con il terzo motivo sia assume che erroneamente
l’amministrazione e la sentenza impugnata avrebbero ritenuto
che l’intervento contestato non sarebbe consentito dagli
strumenti urbanistici.
In relazione all’asserito contrasto con il piano di
recupero, si deduce che sarebbe mancata una adeguata
istruttoria e che il sottotetto avrebbe subito rispetto
all’iniziale concessione edilizia n. 13 del 19998 una «ininfluente
modifica del grado di inclinazione del solaio».
In relazione alla mancata applicazione di quanto previsto,
per le zone BE, dal superiore piano regolatore generale, si
rileva che questo, consentendo le «ricostruzioni previa
demolizione» ricomprenderebbe, contrariamente a quanto
erroneamente ritenuto dal primo giudice, anche gli
interventi di «ristrutturazione» e che, comunque,
l’intervento in questione sarebbe consistito in una vera e
propria ricostruzione integrale previa demolizione
dell’esistente.
Il motivo non è fondato.
In relazione al piano di recupero, l’art. 27 per la zona A5
nella quale ricade il fabbricato («edifici compatibili
con i caratteri originari in particolari condizioni di
degrado») ammette gli interventi di ristrutturazione
edilizia «nei limiti di cui al precedente art. 10
‘soffitte e sottotetti’ purché ciò non comporti
l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario»
e l’art. 10 dispone che «è prescritta la conservazione
delle caratteristiche degli edifici preesistenti da demolire
parzialmente o totalmente per quanto riguarda (…) l’altezza
di imposta della copertura».
Nella fattispecie in esame risulta, invece, provata «l’alterazione
sostanziale del profilo altimetrico originario». Sul
punto, l’appellante, nonostante si tratti di elementi nella
sua disponibilità, si limita genericamente ad affermare che
il sottotetto ha un subito «una ininfluente modifica del
grado di inclinazione del solaio».
In relazione al piano regolatore generale, gli appellanti
non hanno dimostrato, pur vendendo ancora una volta in
rilievo elementi nella loro disponibilità, che, in effetti,
l’intervento in questione si sia risolto in una «demolizione
e ricostruzione».
3.4.– Con il quarto motivo, si deduce che il primo giudice
avrebbe erroneamente applicato le risultanze della
verificazione disposta al fine di stabilire se la
demolizione delle opere abusive avrebbe comportato
pregiudizio per le parti del manufatto conformi a legge. Sul
punto, si afferma che il verificatore avrebbe accertato la
fattibilità tecnologica ma, per la mancata conoscenza delle
strutture del manufatto, non sarebbe stato in grado di
accertare se effettivamente la disposta demolizione
recherebbe pregiudizio alle parti rimanente dell’edificio.
Il motivo non è fondato.
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si
applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui
sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione».
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (Cons.
Stato, sez. VI, 09.04.2013, n. 1912).
Nella fattispecie in esame, il verificatore, nominato in
primo grado, ha ritenuto di non potere fornire una risposta
al quesito perché si è in presenza di «un’opera da
demolire della quale non è ben noto lo stato di integrità,
non si conoscono i materiali e le relative caratteristiche,
non si conoscono esattamente le fasi costruttive e gli
schemi strutturali che ne hanno caratterizzato
l’edificazione».
A tale proposito, il verificatore ha valutato criticamente
l’apporto conoscitivo fornito dalle perizie di parte che
hanno fornito elementi di natura «empirica» e non «analitica».
La verificazione disposta in primo grado non è, pertanto,
riuscita a pervenire a risultati univoci per l’assenza di
dati conoscitivi che sarebbe stato onere dell’appellante
fornire.
In definitiva, in presenza di un elemento che deve essere
provato dal privato non si può dedurre un vizio della
verificazione tecnica per censurare la sentenza e l’operato
della pubblica amministrazione. Sarebbe stato onere
dell’appellante, si ribadisce, dimostrare l’esistenza del
pregiudizio alle parti dell’edificio non abusive anche
mediante la messa a disposizione dei dati necessari al
verificatore (massima
tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 28.12.2015 n. 5846 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
presupposti per l’esercizio del potere di annullamento di
ufficio della concessione di costruzione con effetti ex tunc
sono:
●
l’illegittimità originaria del provvedimento,
●
l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione
diverso dal mero ripristino della legalità,
●
l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari
e/o l’eventuale negligenza o della malafede del privato che
ha indotto in errore l’Amministrazione o ha approfittato di
un errore della medesima.
Orbene, l’Amministrazione deve, sia pure sinteticamente,
dare conto della sussistenza di tali presupposti con
l’avvertenza che pur non riscontrandosi un termine di
decadenza del potere de quo, la caducazione che intervenga
ad una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono
state completate esige una più puntuale e convincente
motivazione a tutela del legittimo affidamento.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR ABRUZZO - SEZ.
STACCATA DI PESCARA: SEZIONE I n. 501/2014, resa tra le
parti, concernente annullamento d'ufficio del permesso di
costruire
...
Ritiene la Sezione che il gravame debba essere respinto e
che quindi il dispositivo della sentenza impugnata debba
essere confermato, non senza precisare a tale esito deve
pervenirsi, ancorché in accoglimento di censura dedotta in
promo grado da parte appellata, sulla base di una
motivazione diversa da quella esposta nella sentenza
gravata.
In tale ottica va anzitutto ritenuto che non appare
condivisibile l’affermazione del primo giudice secondo cui
alla fattispecie attiene un vincolo espropriativo
preordinato alla realizzazione della strada graficizzata
nella tavola n. 7b del Piano Regolatore Esecutivo.
In quest’ultimo è invero contenuta la disciplina di
interventi edilizi di tipo residenziale per la quale, anche
con riguardo alle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria , è ammessa la possibilità della loro
realizzazione non soltanto da parte del Comune, previo
esproprio delle aree occorrenti, ma anche da parte dei
privati proprietari delle aree ricomprese nel Piano,
mediante lo strumento della convenzione di lottizzazione.
In presenza di siffatta alternativa, è noto e pacifico, che
il vincolo attinente alle opere di urbanizzazione non è un
vincolo di natura espropriativa. di durata quinquennale,
bensì, contenendo detto piano già la dichiarazione di p.u.
delle dette opere, un vincolo che ha validità decennale ex
art. 16-17 della L.U..
E’ altresì condivisibile l’affermazione della difesa del
Comune appellante secondo cui in nessun caso un atto privato
di compravendita qual è quello stipulato tra la parte
appellata e la sig.ra Ga.Sc. può mutare la destinazione di
zona nella quale un’area originariamente è collocata. come
del resto è previsto dallo stesso P.R.E. in esame, né
potendo un contratto tra privati avere l’effetto di una
variante.
Va aggiunto che la validità del vincolo decennale della
distanza delle costruzione dalla strada è stato ritualmente
rinnovato dal Comune con la deliberazione consiliare n. 4
del marzo 2010, non potendosi opporre al riguardo l’omessa
comunicazione preventiva a parte appellata di tale rinnovo
non essendo essa proprietaria di una volumetria residenziale
all’interno della zona d’espansione.
Alla stregua delle considerazione che precedono ne deriva
che gran parte dell’impianto motivazionale della sentenza
impugnata non può essere confermato in questa sede.
Non può non essere rilevato, tuttavia, che il provvedimento
impugnato è stato adottato al solo scopo di affermare il
ripristino della legalità violata avendo natura di
annullamento d’ufficio volta ad invalidare precedenti tutoli
edilizi rilasciati a parte appellata nonostante sin
dall’origine non ne esistessero le condizioni.
In tale ambito è d’uopo richiamare il costante orientamento
di questo giudice in tema di annullamento d’ufficio.
In tale ottica va ricordato che “in materia edilizia, i
presupposti per l'esercizio del potere di annullamento
d'ufficio della concessione di costruzione con effetti ex
tunc sono l'illegittimità originaria del provvedimento,
l'interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione
diverso dal mero ripristino della legalità (i.e. tutela del
territorio), l'assenza di posizioni consolidate in capo ai
destinatari e/o l'eventuale negligenza o della malafede del
privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha
approfittato di un errore della medesima, tenendo presente
che all'uopo quest'ultima deve dare conto, sia pure
sinteticamente, della sussistenza di tali presupposti con
l'avvertenza che pur non riscontrandosi un termine di
decadenza del potere de quo, la caducazione che intervenga a
una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono
state completate esige una più puntuale e convincente
motivazione a tutela del legittimo affidamento" (Cons.
Stato Sez. IV 27.11.2010 - n. 8291).
Rileva di conseguenza nella fattispecie che l’autotutela è
stata esercita nel 2013 in relazione a permessi di costruire
volti ad eseguire lavori di ristrutturazione ed ampliamento
del 2006 e del 2012
Né può essere omesso di osservare che il Comune, affatto
ingannato da parte appellata, confrontando la documentazione
progettuale allegata ai detti permessi di costruire con
quella già in suo possesso descrittiva dei confini
preesistenti, ben avrebbe potuto accorgersi del mutamento
dei confini sulla base del quale quest’ultima intendeva
eseguire gli interventi.
Tanto meno il Comune appellante ha posto a confronto, sul
piano motivazionale, la realizzazione della piscina con la
possibilità che la stessa non fosse incompatibile con il
vincolo della distanza dalla strada, avuto riguardo alla
prevista possibilità di apportare “lievi modifiche”
al P.R.E. che ben potrebbero riguardare anche una strada di
piano ad oggi soltanto graficizzata.
L’appello va in conclusione respinto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.12.2015 n. 5830
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 non consente di
sanare le opere edilizie che abbiano comportato l'aumento di
volumi (anche tecnici).
Ma, proprio perché intende valorizzare e salvaguardare le
aree sottoposte al vincolo paesaggistico, consente alla
Soprintendenza di esaminare favorevolmente l'istanza di
sanatoria (ovviamente, ferme restando tutte le altre
valutazioni di sua competenza), quando l'istanza preveda la
demolizione di volumi, del tutto legittimamente realizzati,
per ‘compensare' il mantenimento di altri, realizzati senza
titolo.
In altri termini, purché si mantenga il rispetto dei limiti
legittimamente assentibili in tema delle superfici e dei
volumi, ben può la Soprintendenza ritenere accoglibile
l'istanza di sanatoria, quando la demolizione di volumi
legittimamente assentiti consenta di ritenere che, nel suo
complesso, la volumetria legittimamente assentibile non sia
inferiore a quella da porre a base del provvedimento di
sanatoria.
---------------
Secondo l’orientamento nettamente maggioritario, tali volumi
possono essere irrilevanti sotto il profilo edilizio ed
urbanistico, ma possono non esserlo sotto il profilo
paesaggistico.
---------------
Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito
precisati.
La Soprintendenza ha negato l’autorizzazione ad un
intervento di demolizione e ricostruzione (già realizzato)
perché tale intervento avrebbe comportato un aumento di
volumetria; sicché l’autorizzazione in sanatoria
risulterebbe preclusa dal chiaro divieto di cui all’art. 167
d.lgs. n. 42/2004.
La parte ricorrente ha negato tale incremento di volumetria,
sostenendo che, in realtà, l’intervento avrebbe nel
complesso determinato una riduzione della volumetria
complessiva.
Poiché tale riduzione non è stata contestata, l’istanza
cautelare è stata accolta perché “L'art. 167, comma 4,
del d.lgs. n. 42 del 2004 non consente di sanare le opere
edilizie che abbiano comportato l'aumento di volumi (anche
tecnici), ma, proprio perché intende valorizzare e
salvaguardare le aree sottoposte al vincolo paesaggistico,
consente alla Soprintendenza di esaminare favorevolmente
l'istanza di sanatoria (ovviamente, ferme restando tutte le
altre valutazioni di sua competenza), quando l'istanza
preveda la demolizione di volumi, del tutto legittimamente
realizzati, per ‘compensare' il mantenimento di altri,
realizzati senza titolo. In altri termini, purché si
mantenga il rispetto dei limiti legittimamente assentibili
in tema delle superfici e dei volumi, ben può la
Soprintendenza ritenere accoglibile l'istanza di sanatoria,
quando la demolizione di volumi legittimamente assentiti
consenta di ritenere che, nel suo complesso, la volumetria
legittimamente assentibile non sia inferiore a quella da
porre a base del provvedimento di sanatoria” (CdS, sez.
VI, n. 1671/2013).
La riduzione della volumetria complessiva è confermata nella
relazione tecnica del Comune di Napoli; anche se il Comune
stesso precisa (nella nota PG/2014/1017408 del 23.12.2014)
che tale riduzione è dovuta al fatto che, ai sensi dell’art.
3 del Regolamento Edilizio del Comune di Napoli esclude dal
calcolo della volumetria una serie di volumi (quali il
volume entroterra, porticati pubblici o privati al 60% della
superficie entroterra, logge in una determinata misura,
volumi tecnici ecc.).
Orbene, secondo l’orientamento nettamente maggioritario tali
volumi possono essere irrilevanti sotto il profilo edilizio
ed urbanistico, ma possono non esserlo sotto il profilo
paesaggistico (Cons. Stato, sez. VI, n. 12/2015). E
tuttavia, è stata la stessa Soprintendenza ad escludere
l’incompatibilità delle opere, così come realizzate, con i
valori di tutela del paesaggio, come si evince dal parere
rilasciato in data 29.05.2015.
In conclusione, pertanto, il ricorso dev’essere accolto
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 23.12.2015 n. 5891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Speciali «trattabili».
Cds su appalti nel settore del gas.
A un appalto sotto soglia Ue, bandito da un soggetto
operante in un settore «speciale», sono applicabili soltanto
i principi del Trattato e non tutto il codice dei contratti
pubblici.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V,
con la
sentenza 23.12.2015 n. 5824 relativa a una
gara di appalto per l'affidamento di tre lotti di lavori nel
settore del gas (considerato dalle norme nazionali e europee
come «settore speciale»).
In particolare, il problema affrontato dai giudici
riguardava l'applicabilità alla gara del secondo comma
dell'articolo 48 del codice dei contratti pubblici che
impone di chiedere all'aggiudicatario e al secondo
classificato la comprova dei requisiti dichiarati in sede di
gara. Era successo che gli aggiudicatari dei tre lotti non
avevano trasmesso entro il termine di dieci giorni la
documentazione integrativa richiesta dalla stazione
appaltante.
I giudici negano che sia applicabile l'articolo 48 partendo
dalla presa d'atto che la gara, riguardante un contratto
pubblico in uno dei settori speciali di importo inferiore
alla soglia comunitaria era soggetto all'articolo 238 del
codice dei contratti pubblici per il quale (comma 1) si
applicano alle sole amministrazioni aggiudicatrici (e non ai
soggetti operanti nei «settori speciali» dell'acqua, energia
e trasporti come dettagliate dagli articoli dal 208 a 213
del codice) le disposizioni della parte III del codice che
riguardano gli appalti di lavori, forniture e servizi di
rilevanza nazionale.
Il secondo comma della stessa norma stabilisce invece che ai
soggetti operanti nei settori «speciali» (prima detti
«esclusi»), siano esse le imprese pubbliche o soggetti
titolari di diritti speciali e esclusivi, si devono
applicare soltanto i principi dettati dal Trattato Ce a
tutela della concorrenza.
La verifica va quindi fatta rispetto alle regole interne che
la stazione appaltante si è data, cioè rispetto ai suoi
regolamenti che non hanno la rigidità prevista dalla
normativa generale sulle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici.
Nel caso specifico, la sentenza ha affermato che non assurge
al rango di «principio» la disciplina della scansione
temporale delle operazioni di verifica dei requisiti dei
partecipanti alla gara e quindi l'invio tardivo della
documentazione non può inficiare l'aggiudicazione
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016). |
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: La
programmazione delle opere pubbliche è modificabile,
dall’ente locale, sulla base di nuove considerazioni
attinenti alla migliore gestione dell’interesse pubblico,
nell’esercizio del potere di autotutela.
Ne deriva che il Comune interessato è legittimato a porre in
essere quanto necessario per mutare gli atti della propria
programmazione.
-----------------
3. La controversia concerne gli atti con i quali il Comune
appellato ha interrotto il procedimento di cui in narrativa,
riguardante la procedura aperta per l’affidamento della
progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori di
realizzazione del nuovo polo scolastico di Via Gavazzi –
Viale Italia, che impegnava l’importo a base d’asta di €.
9.038.000,00 (di cui €. 105.000,00 per oneri della sicurezza
non soggetti a ribasso), revocando l’aggiudicazione
provvisoria già disposta in favore dell’odierna appellante e
procedendo a nuova programmazione delle opere pubbliche.
L’appello è infondato.
3.1. Non è fondata la censura di incompetenza della Giunta
Comunale a disporre l’impugnata revoca.
E’ vero che la programmazione delle opere pubbliche rientra
nella competenza del Consiglio Comunale, ma l’operato del
Comune appellato non ha violato tale riparto di competenze.
Deve essere rilevato che l’atto di revoca è stato uno dei
primi provvedimenti della Giunta da poco insediatasi dopo il
rinnovo del Consiglio Comunale.
La Giunta ha preso atto del fatto che una somma di
notevolissimo rilievo era impegnata per l’intervento di cui
ora si discute; deve essere osservato che in quel momento
non era stato stipulato il contratto di appalto e anzi non
si era nemmeno concluso il procedimento di aggiudicazione.
La Giunta ha ritenuto l’impegno di spesa manifestamente
eccessivo e ha avviato gli atti necessari per una nuova
programmazione.
In tale situazione di fatto, è evidente che la conclusione
del procedimento di aggiudicazione avrebbe reso impossibile,
o quanto meno ben più complicata, la modifica della
programmazione del Comune.
Nella descritta situazione di fatto, ragionevolmente la
Giunta ha proceduto alla revoca della procedura in corso,
attuando quindi una sorta di “misura di salvaguardia”
necessaria per non pregiudicare l’esercizio della potestà
programmatoria del Comune e consentire l’esercizio
dell’amplissima discrezionalità, propria di tali scelte.
Potrebbe essere sostenuto che le misure di salvaguardia sono
provvedimenti cautelari, che giustificano la sospensione,
non l’arresto definitivo del procedimento.
Peraltro, tale argomentazione non è stata proposta
dall’appellante e appare di dubbia applicabilità in
relazione alle procedure di affidamento degli appalti
pubblici, nelle quali le offerte hanno un termine massimo di
validità.
In ogni modo, tale argomentazione non è in concreto
rilevante nel caso in esame, in quanto il problema è stato
superato dalla successiva modifica della programmazione
delle opere pubbliche.
Nello stesso ordine di idee, deve essere respinta la
doglianza relativa alla violazione dell’art. 11, primo
comma, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, dedotta rilevando che
gli atti di revoca della gara sono in contrasto con la
programmazione delle opere pubbliche allora vigente.
E’ evidente, infatti, che tale programmazione è
modificabile, dall’ente locale, sulla base di nuove
considerazioni attinenti alla migliore gestione
dell’interesse pubblico, nell’esercizio del potere di
autotutela; di conseguenza, il Comune è legittimato a porre
in essere quanto necessario per mutare gli atti della
propria programmazione.
Con gli atti concernenti la revoca della precedente gara, il
Comune non ha modificato il programma delle opere pubbliche,
ma ha invece posto in essere atti preordinati a tale
modifica, di fatto poi disposta, a tale scopo impedendo il
formarsi di preclusione al dispiegamento delle sue potestà
discrezionali.
L’argomentazione deve quindi essere disattesa
(massima tratta da http://renatodisa.com -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.12.2015 n. 5823
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nei contratti sottoscritti con la pubblica amministrazione è
richiesta la forma scritta, fatta eccezione per quelli
conclusi in ambito commerciale. Tra queste figure negoziali
non rientra però l'appalto di opere pubbliche, né l'«appalto
in variante».
I contratti conclusi dalla P.A.,
richiedendo la forma scritta ad substantiam (quindi con
esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà
implicita o desumibile da comportamenti meramente
attuativi), devono essere consacrati in un unico documento
-nel quale siano indicate le clausole disciplinanti il
rapporto e la volontà della Amministrazione sia manifestata
dall'organo rappresentativo dell'ente- salvo che la legge
non autorizzi espressamente la conclusione a distanza, a
mezzo di corrispondenza, come nell'ipotesi eccezionale,
prevista dall'art. 17 del r.d. n. 2240 del 1923, di
contratti conclusi con ditte commerciali.
Tra tali contratti non rientra quello di appalto di opere
pubbliche, per il quale, attesa anche la necessità di
accordi specifici e complessi, deve escludersi che il
consenso possa formarsi sulla base di scritti successivi
atteggiantisi come proposta e accettazione fra assenti.
Tale principio non è in contrasto con quanto affermato da
questa stessa Corte (Sez. 1) nella Sentenza n. 10069
del 2008 atteso che, nel caso richiamato,
si è trattato di un appalto in variante, ossia di quella
limitatissima ipotesi di modificazione della base
contrattuale, laddove è stato ritenuto sufficiente il
rispetto delle condizioni previste dall'art. 342 della legge
20.03.1865, n. 2248, all. F., ossia la presenza dell'ordine
del direttore dei lavori e l'intervenuta successiva
approvazione dell'ente pubblico.
Infatti, il contratto di appalto di
00.PP. non può formarsi attraverso gli atti prenegoziali
proprio del diritto comune e ciò non per ragioni di natura
formale ma di tipo sostanziale, essendo necessario che opere
corrispettivi di un certo rilievo, con spesa a carico delle
casse pubbliche, devono avere certezza della esatta
consistenza ed articolazione dei lavori nonché delle risorse
stanziate per il loro pagamento, con forme e tempi
precisamente stabiliti.
---------------
1. Con il primo
mezzo di ricorso principale (violazione e falsa applicazione
dell'art. 17 RD n. 2240 del 1923, degli artt. 1362, 1367 e
1371 c.c., 1988 c.c. e 2033 c.c.), la società sportiva pone
il seguente quesito di diritto: «Statuisca l'Ecc.ma Corte
adita se, in presenza di uno scambio di dichiarazioni
negoziali provenienti dal Sindaco di un Comune e dal legale
rappresentante di una società di capitali, operanti un
rinvio per relationem alle previgenti condizioni contenute
in alcune delibere della GM, debba ritenersi avvenuta e
regolarizzata l'instaurazione del rapporto obbligatorio ai
sensi dell'art. 17 del RD n. 2420 del 1923, tenuto conto del
collegamento esistente tra il rapporto negoziale e
l'attività di produzione di servizi in precedenza esercitata
dalla società stessa e della conformità del rapporto
negoziale alla prassi commerciale invalsa nel settore».
1.1. Con esso si lamenta, anzitutto, una violazione di
legge, quella della norma di cui all'art. 17 RD n. 2240 del
1923, applicabile anche ai Comuni, essendovi stato
l'incontro dei consensi delle due parti in ordine alla
conferma «del previgente rapporto» e non ostandovi la
materia oggetto della negoziazione.
...
11. Il primo motivo del ricorso principale non è fondato in
quanto esso contrasta con i principi di diritto già
affermati da questa Corte e che escludono
l'applicabilità della disposizione invocata come violata dal
giudice distrettuale ai pubblici appalti.
11.1. Questa Corte ha affermato il principio di diritto, a
cui occorre dare continuità in questa sede, per essere esso
ancora valido e pienamente fondato, secondo cui
i contratti conclusi dalla P.A., richiedendo la
forma scritta ad substantiam (quindi con esclusione
di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o
desumibile da comportamenti meramente attuativi), devono
essere consacrati in un unico documento -nel quale siano
indicate le clausole disciplinanti il rapporto e la volontà
della Amministrazione sia manifestata dall'organo
rappresentativo dell'ente- salvo che la legge non autorizzi
espressamente la conclusione a distanza, a mezzo di
corrispondenza, come nell'ipotesi eccezionale, prevista
dall'art. 17 del r.d. n. 2240 del 1923, di contratti
conclusi con ditte commerciali; tra tali contratti non
rientra quello di appalto di opere pubbliche, per il quale,
attesa anche la necessità di accordi specifici e complessi,
deve escludersi che il consenso possa formarsi sulla base di
scritti successivi atteggiantisi come proposta e
accettazione fra assenti
(Cass. Sez. 1, sentt. nn. 59 del 2001e 7297 del 2009).
11.2. Né tale principio è in contrasto con quanto affermato
da questa stessa Corte (Sez. 1) nella Sentenza n.
10069 del 2008 atteso che, nel caso
richiamato, si è trattato di un appalto in variante, ossia
di quella limitatissima ipotesi di modificazione della base
contrattuale, laddove è stato ritenuto sufficiente il
rispetto delle condizioni previste dall'art. 342 della legge
20.03.1865, n. 2248, all. F., ossia la presenza dell'ordine
del direttore dei lavori e l'intervenuta successiva
approvazione dell'ente pubblico.
11.3. Infatti, il contratto di appalto di
00.PP. non può formarsi attraverso gli atti prenegoziali
proprio del diritto comune e ciò non per ragioni di natura
formale ma di tipo sostanziale, essendo necessario che opere
corrispettivi di un certo rilievo, con spesa a carico delle
casse pubbliche, devono avere certezza della esatta
consistenza ed articolazione dei lavori nonché delle risorse
stanziate per il loro pagamento, con forme e tempi
precisamente stabiliti
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
22.12.2015 n. 25798). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione delle opere abusive e di ripristino dello
stato dei luoghi ha carattere essenzialmente reale, per cui
esso deve essere disposto nei confronti di tutti i soggetti
che vantano attualmente un diritto reale sul bene, nella
qualità di eredi o aventi causa dell’originario
proprietario, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione dell’illecito, che peraltro ha natura
permanente, tant’è che il manufatto abusivo continua ad
arrecare pregiudizio ai valori tutelati dalle misure
repressive fino alla sua rimozione.
L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto
qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia
senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per
cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei
presupposti di fatto e di diritto che impongono
l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione
richieda una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico o una comparazione con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure
ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che
non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo.
---------------
Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini
sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in
totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso
di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente
la demolizione delle opere abusive, dagli interventi
eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34
contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla
demolizione, qualora essa non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in
totale difformità quelli che comportano la realizzazione di
un organismo edilizio integralmente diverso per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero
l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte
di esso con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale,
per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a
vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti
mutamento della destinazione d'uso implicante variazione
degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della
localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero
violazione non procedurali delle norme in materia di
edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è
chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto,
da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento
della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e
modificando la sagoma dell’edificio.
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura
repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
L’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità
urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero
difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo.
---------------
La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione
impugnata e neppure ne determina la definitiva inefficacia,
limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli
effetti fino alla definizione, espressa o tacita,
dell'istanza.
---------------
...
per l'annullamento
dell’ordinanza dirigenziale n. 91 del 09/06/2009, concernente
l’eliminazione delle opere abusive realizzate relative al
tetto del fabbricato sito in Via ... n. 11, in
difformità del permesso di costruire n. 51/04; nonché degli
atti connessi.
...
1. Nel merito i ricorrenti deducono che:
- i lavori sarebbero stati realizzati dal dante causa, per
cui i ricorrenti sarebbero estranei all’abuso;
- mancherebbe una adeguata istruttoria ed una congrua
motivazione; l’abuso, consistente in una maggiore altezza
del sottotetto, non sarebbe di tale gravità da giustificare
la demolizione;
- sarebbe stata presentata istanza per accertamento di
conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
l’intervento, realizzato in zona E agricola, sarebbe
conforme allo strumento urbanistico;
- il disposto ripristino dello stato dei luoghi
configgerebbe con l’interesse pubblico, oltre che con quello
privato dei ricorrenti.
1.1. L'ordine di demolizione delle opere abusive e di
ripristino dello stato dei luoghi ha carattere
essenzialmente reale, per cui esso deve essere disposto nei
confronti di tutti i soggetti che vantano attualmente un
diritto reale sul bene, nella qualità di eredi o aventi
causa dell’originario proprietario, anche se si tratti di
soggetti estranei alla commissione dell’illecito, che
peraltro ha natura permanente, tant’è che il manufatto
abusivo continua ad arrecare pregiudizio ai valori tutelati
dalle misure repressive fino alla sua rimozione (cfr. Cons.
St., sez. VI, 15/04/2015, n. 1927).
1.2. L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto
qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia
senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per
cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei
presupposti di fatto e di diritto che impongono
l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione
richieda una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico o una comparazione con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure
ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che
non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo
(cfr. Cons. St., sez. VI, 05/01/2015, n. 13).
1.3. Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini
sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in
totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso
di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente
la demolizione delle opere abusive, dagli interventi
eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34
contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla
demolizione, qualora essa non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in
totale difformità quelli che comportano la realizzazione di
un organismo edilizio integralmente diverso per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero
l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte
di esso con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale,
per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a
vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti
mutamento della destinazione d'uso implicante variazione
degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della
localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero
violazione non procedurali delle norme in materia di
edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è
chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto,
da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento
della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e
modificando la sagoma dell’edificio (cfr. TAR Campania, sez.
II, 04/02/2013, n. 699).
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura
repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
1.4. E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di
demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del
manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o
dalla difformità) del titolo abilitativo (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 26/08/2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare
tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità
urbanistica e, se del caso, della compatibilità
paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base
all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt.
146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in
caso di interventi in aree vincolate.
Sennonché nella specie non risulta che l’istanza di
sanatoria sia stata accolta; né risulta che sia stato
tempestivamente e ritualmente impugnato il diniego sia pure
tacito, mentre semmai emerge che la creazione di superfici
utili o volumi è ostativa al rilascio della compatibilità
paesaggistica ai sensi dell’art. 167, co. 4, del d.lgs. n.
42 del 2004.
Giova infine soggiungere che la presentazione dell’istanza
di accertamento di conformità non incide sulla legittimità
della ordinanza di demolizione impugnata e neppure ne
determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente
a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell'istanza (cfr. Cons.
St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
2. In conclusione l’impugnativa va quindi respinta. Non vi è
luogo ad una pronuncia sulle spese attesa la mancata
costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 22.12.2015 n. 5866 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Dall’art.
125, commi 10 e 11, del codice dei contratti pubblici
si ricava che:
1) il cottimo fiduciario è una procedura negoziata in cui le
acquisizioni avvengono mediante affidamento a terzi (art.
125, comma 4);
2) l'acquisizione in economia di beni e servizi è ammessa in
relazione all'oggetto e ai limiti di importo delle singole
voci di spesa, preventivamente individuate con provvedimento
di ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie
specifiche esigenze. Il ricorso all'acquisizione in economia
è altresì consentito nelle seguenti ipotesi:
a) risoluzione di un precedente rapporto contrattuale, o in
danno del contraente inadempiente, quando ciò sia ritenuto
necessario o conveniente per conseguire la prestazione nel
termine previsto dal contratto;
b) necessità di completare le prestazioni di un contratto in
corso, ivi non previste, se non sia possibile imporne
l'esecuzione nell'ambito del contratto medesimo;
c) prestazioni periodiche di servizi, forniture, a seguito
della scadenza dei relativi contratti, nelle more dello
svolgimento delle ordinarie procedure di scelta del
contraente, nella misura strettamente necessaria;
d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente
imprevedibili, al fine di scongiurare situazioni di pericolo
per persone, animali o cose, ovvero per l'igiene e salute
pubblica, ovvero per il patrimonio storico, artistico,
culturale (art. 125, comma 10);
3) Per servizi o forniture di importo pari o superiore a
quarantamila euro e fino alle soglie di cui al comma 9,
l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel
rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di
trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori
economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei,
individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite
elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione
appaltante. Per servizi o forniture inferiori a quarantamila
euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del
responsabile del procedimento. (art. 125, comma 11).
Dal quadro normativo sopra tracciato sono, dunque,
sostanzialmente enucleabili due ipotesi che
legittimano il ricorso al cottimo: una che contempla
la previa regolamentazione da parte della stazione
appaltante, e l’altra che discende da alcune
situazioni contingenti o urgenti direttamente e
tassativamente individuate dal legislatore.
---------------
L’appello è infondato.
L’unico motivo di censura proposto, è incentrato –in
diritto- sulla pretesa esperibilità della procedura di
cottimo fiduciario quando, come nel caso di specie,
l’appalto di servizi sia sotto soglia, giusto quanto
asseritamente previsto dall’art. 125, comma 11, del codice
dei contratti pubblici. Il giudice di prime cure avrebbe
dunque errato nell’applicare, in luogo del comma 11 cit., la
norma “limitativa” di cui al comma 10, che invece
prevede specifici e stringenti presupposti.
L’argomentazione non può essere condivisa.
E’ sufficiente, in proposito, una rapida rassegna delle
norme citate. Dalle stesse si ricava che:
1) il cottimo fiduciario è una procedura negoziata in cui le
acquisizioni avvengono mediante affidamento a terzi (art.
125, comma 4);
2) l'acquisizione in economia di beni e servizi è ammessa in
relazione all'oggetto e ai limiti di importo delle singole
voci di spesa, preventivamente individuate con provvedimento
di ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie
specifiche esigenze. Il ricorso all'acquisizione in economia
è altresì consentito nelle seguenti ipotesi:
a) risoluzione di un precedente rapporto contrattuale, o in danno
del contraente inadempiente, quando ciò sia ritenuto
necessario o conveniente per conseguire la prestazione nel
termine previsto dal contratto;
b) necessità di completare le prestazioni di un contratto in corso,
ivi non previste, se non sia possibile imporne l'esecuzione
nell'ambito del contratto medesimo;
c) prestazioni periodiche di servizi, forniture, a seguito della
scadenza dei relativi contratti, nelle more dello
svolgimento delle ordinarie procedure di scelta del
contraente, nella misura strettamente necessaria;
d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente imprevedibili, al
fine di scongiurare situazioni di pericolo per persone,
animali o cose, ovvero per l'igiene e salute pubblica,
ovvero per il patrimonio storico, artistico, culturale (art.
125, comma 10);
3) Per servizi o forniture di importo pari o superiore a
quarantamila euro e fino alle soglie di cui al comma 9,
l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel
rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di
trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori
economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei,
individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite
elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione
appaltante. Per servizi o forniture inferiori a quarantamila
euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del
responsabile del procedimento. (art. 125, comma 11).
Dal quadro normativo sopra tracciato sono, dunque,
sostanzialmente enucleabili due ipotesi che
legittimano il ricorso al cottimo: una che contempla
la previa regolamentazione da parte della stazione
appaltante, e l’altra che discende da alcune
situazioni contingenti o urgenti direttamente e
tassativamente individuate dal legislatore.
Nessuna delle ipotesi citate, però, ricorre nel caso di
specie, e la circostanza non è contestata. Ciò che invece è
contestata in sede di gravame è unicamente la mancata
applicazione del comma 11.
Ma il comma 11 non individua una diversa e peculiare
procedura sganciata dai presupposti legittimanti,
limitandosi piuttosto a dettare regole di evidenza minimali
–maggiormente elastiche rispetto al sopra soglia ed al sotto
soglia ordinario di cui all’art. 124– dedicate proprio a
disciplinare il cottimo fiduciario ove esso costituisca
opzione consentita dal comma 10.
Ne consegue che in mancanza di adeguata motivazione circa il
ricorrere dei presupposti, più volte citati, la scelta della
procedura di cottimo è illegittima, come esattamente già
affermato dal giudice di prime cure.
L’appello è pertanto respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.12.2015 n. 5808 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ai fini della partecipazione alle gare di appalto
la fattispecie dell’affitto di azienda rientra tra quelle
che soggiacciono all’obbligo di rendere dichiarazioni di cui
all’art. 38, comma 1, lettera c), del dlgs n. 163/2006
riguardante anche gli amministratori e direttori tecnici
dell’impresa cedente nel caso in cui sia intervenuta
un’operazione di cessione di azienda in favore del
concorrente nell’anno anteriore alla pubblicazione del
bando.
---------------
A fronte della obbligatorietà ex lege della dichiarazione
relativa alla posizione della impresa cedente,
l’inosservanza di un tale onere documentale comporta la
esclusione dalla gara del soggetto concorrente, ancorché la
misura espulsiva non sia stata espressamente contemplata
dalla lex specialis di gara.
Neppure appare configurabile l’esperimento del c.d. soccorso
istruttorio di cui all’art. 46 dlgs n. 163/2006 ai fini di
ottenere una sorta di sanatoria della inadempienza
documentale di che trattasi.
Invero, come chiarito di recente dall’Adunanza Plenaria, in
presenza di un obbligo dichiarativo ex lege non può trovare
spazio la regolarizzazione disposta dalla stazione
appaltante, non essendo consentita la produzione tardiva
della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma
omessa.
Insomma questo Consesso ha avuto modo più volte di
sconfessare la c.d. teoria del falso innocuo o
sostanzialistica ponendo l’accento sulla necessità degli
obblighi dichiarativi e sul valore della completezza delle
dichiarazioni in sede di offerta, corollario di principi di
matrice comunitaria come quelli della trasparenza, par
condicio tra i partecipanti e proporzionalità.
---------------
Dal comportamento contra legem tenuto dalla stazione
appaltante deriva un danno alla posizione dalla concorrente,
appunto per mancata aggiudicazione, che può trovare ristoro
in forma specifica, con la riasssegnazione
dell’aggiudicazione in favore dell’appellante Società e
subentro nel contratto illegittimamente stipulato.
In ipotesi poi di sostanziale non praticabilità del subentro
nel rapporto contrattuale, stante il tempo trascorso e lo
stato di avanzamento dei lavori nel frattempo eseguiti,
dovrà essere riconosciuto alla Società appellante il
risarcimento per equivalente.
In particolare venendo alla quantificazione del
risarcimento, trattandosi di danno da mancata aggiudicazione
dell’appalto esso va commisurato alle utilità economiche che
la Società ha perduto a causa della mancata esecuzione del
contratto.
Spetta quindi alla suindicata Società:
- l’utile effettivo che la stessa avrebbe conseguito se
fosse risultata aggiudicataria quale risultante dall’offerta
economica presentata in sede di gara;
- il danno c.d. curriculare dovuto alla perdita della
possibilità di arricchire il proprio curriculum
professionale, da liquidarsi in via equitativa in una somma
pari al 5% sull’importo del’appalto.
Spettano, ancora all’appellante, gli interessi legali sulle
predette somme progressivamente e via via rivalutate, dalla
data di stipula sino alla liquidazione del danno, in
funzione compensativa della mancata disponibilità del denaro
a titolo di risarcimento danno.
---------------
L’appello è fondato e va, pertanto, accolto.
Il Tar con il decisum qui in contestazione avalla la
legittimità dell’operato della stazione appaltante e
aderisce in particolare ad una impostazione sostanzialistica
della problematica relativa all’art. 38 codice del dei
contratti, nel senso di ritenere che l’inosservanza
dell’obbligo dichiarativo può portare alla esclusione dalla
gara solo se è prevista dal bando.
Nella specie, soggiunge sempre il primo giudice, il bando di
gara non prevedeva in modo specifico che la dichiarazione
fosse riferita anche all’amministratore di un’azienda
acquisita né correlava l’incompletezza della dichiarazione
alla sanzione espulsiva, sicché, secondo il TAR, non doveva
essere disposta l’esclusione della Sa..
Le argomentazioni e conclusioni del Tribunale amministrativo
piemontese non sono condivisibili.
E’ pacifico in punto di fatto che Sa. nel partecipare alla
gara non ha inserito nella propria offerta le dichiarazioni
ex art. 38 citato relative anche all’amministratore unico
della Ne.Sy. e al Direttore tecnico della stessa, pur avendo
dalla stessa Società preso il fitto d’azienda, intervenuto,
in particolare, tre mesi prima della pubblicazione del bando
di gara.
In relazione a tale indiscussa circostanza l’indagine
giuridica da condursi da parte del Collegio non può non
interessare i seguenti punti e cioè:
- se con riferimento alle prescrizioni normative (art. 38
dlgs n. 163/2006) e di quelle recate dalla lex specialis
di gara la Sa. avrebbe dovuto o meno rendere la
dichiarazione ex art. 38 più volte citato relativamente alla
società dalla quale aveva affittato l’azienda;
- se la manchevolezza in cui è incorsa Sa.,una volta
accertato l’obbligo a rendere la dichiarazione nei sensi di
cui sopra, costituiva causa giustificativa di esclusione
dalla gara oppure siffatta “irregolarità” era
sanabile con l’attivazione, come poi di fatto avvenuto, del
c.d. soccorso istruttorio.
Ora, avuto riguardo alla questione sub a) questa Sezione non
può non richiamare il principio giurisprudenziale
costantemente affermato (Cons. Stato Sez. 05/11/2014 n.
5470) e di recente ribadito da questa Sezione proprio in
occasione della definizione del parallelo giudizio
instaurato per controversia all’esame (sentenza n. 4100 del
01/09/2015) secondo il quale: “ai fini della
partecipazione alle gare di appalto la fattispecie
dell’affitto di azienda rientra tra quelle che soggiacciono
all’obbligo di rendere dichiarazioni di cui all’art. 38,
comma 1, lettera c), del dlgs n. 163/2006 riguardante anche
gli amministratori e direttori tecnici dell’impresa cedente
nel caso in cui sia intervenuta un’operazione di cessione di
azienda in favore del concorrente nell’anno anteriore alla
pubblicazione del bando”.
Sul punto poi è utile altresì rammentare quanto sancito
dall’Adunanza Plenaria con le pronunce n. 10 e 21 del 2012,
secondo cui l’obbligo dichiarativo ex art. 38 scaturisce
direttamente dalla legge.
Da tale assunto “maggiore” deriva anche la soluzione
della questione sub b), nel senso che, a fronte della
obbligatorietà ex lege della dichiarazione relativa
alla posizione della impresa cedente, l’inosservanza di un
tale onere documentale comporta la esclusione dalla gara del
soggetto concorrente, ancorché la misura espulsiva non sia
stata espressamente contemplata dalla lex specialis
di gara.
Neppure appare configurabile l’esperimento del c.d. soccorso
istruttorio di cui all’art. 46 dlgs n. 163/2006 ai fini di
ottenere una sorta di sanatoria della inadempienza
documentale di che trattasi.
Invero, come chiarito di recente dall’Adunanza Plenaria con
sentenza n. 9 del 24/02/2014, in presenza di un obbligo
dichiarativo ex lege non può trovare spazio la
regolarizzazione disposta dalla stazione appaltante, non
essendo consentita la produzione tardiva della dichiarazione
mancante o la sanatoria della forma omessa.
Insomma questo Consesso ha avuto modo più volte di
sconfessare la c.d. teoria del falso innocuo o
sostanzialistica ponendo l’accento sulla necessità degli
obblighi dichiarativi e sul valore della completezza delle
dichiarazioni in sede di offerta, corollario di principi di
matrice comunitaria come quelli della trasparenza, par
condicio tra i partecipanti e proporzionalità (cfr Cons.
Stato n. 21/2012 già citata; idem Sez. III 06/02/2014 n.
583).
Conclusivamente la carenza di dichiarazione fatta registrare
dalla controinteressata Società Sa. costituisce violazione
di un obbligo prescritto dalla legislazione che regge a
monte la gara di che trattasi; e l’inverarsi di tale
omissiva circostanza, come fondatamente eccepito dalla parte
appellante, avrebbe dovuto produrre l’adozione della misura
sanzionatoria di esclusione dalla procedura concorsuale a
carico dell’attuale appellata.
L’Amministrazione appaltante a seguito di una non consentita
integrazione documentale ha confermato l’aggiudicazione
della gara con la determina n. 1 del 19.01.2015 dell’appalto
de quo in favore di Sa. e non v’è dubbio che un tale
provvedimento, per quanto sopra esposto, si appalesa
illegittimo e va perciò annullato.
Per completezza della trattazione della causa va esaminata
l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata ex
adverso dalla difesa della Sa..
Secondo l’attuale appellata, El.Go. si è limitata ad
impugnare il provvedimento di conferma dell’aggiudicazione
senza gravare gli atti della procedura ed in particolare il
verbale della seduta del 01/07/2014 in cui la Sa. è stata
ammessa alla procedura di gara.
L’eccezione è infondata.
In primo luogo deve rilevarsi come l’attuale appellante ha
conseguito favorevolmente la definizione dell’originaria
impugnazione della determina n. 13/2014 di aggiudicazione
della gara e tale decisum (sentenza n. 190/2015 ) è
stata confermata in appello dal Consiglio di Stato con
sentenza 4100/2015 con conseguente formazione del giudicato.
In ogni caso alcun onere di specifica impugnazione del
verbale di ammissione alla gara di Sa. può ravvisarsi in
capo ad El.Go., trattandosi di atto endoprocedimentale e
nemmeno lesivo delle proprie posizioni, avuto riguardo al
fatto che allo stato l’esito della gara era ancora del tutto
incerto, sicché anche sotto un profilo pratico non v’era da
impugnare (all’epoca) alcunché.
L’appello va accolto anche in relazione alla domanda
risarcitoria.
Invero dal comportamento contra legem tenuto dalla
stazione appaltante deriva un danno alla posizione dalla
concorrente, appunto per mancata aggiudicazione, che può
trovare ristoro in forma specifica, con la riasssegnazione
dell’aggiudicazione in favore dell’appellante Società e
subentro nel contratto illegittimamente stipulato.
In ipotesi poi di sostanziale non praticabilità del subentro
nel rapporto contrattuale, stante il tempo trascorso e lo
stato di avanzamento dei lavori nel frattempo eseguiti,
dovrà essere riconosciuto alla Società appellante il
risarcimento per equivalente.
In particolare venendo alla quantificazione del
risarcimento, trattandosi di danno da mancata aggiudicazione
dell’appalto esso va commisurato alle utilità economiche che
El.Go. ha perduto a causa della mancata esecuzione del
contratto (Cons. Stato Sez. VI 05/05/2015 n. 4283).
Spetta quindi alla suindicata Società:
- l’utile effettivo che El.Go. avrebbe conseguito se fosse
risultata aggiudicataria quale risultante dall’offerta
economica presentata in sede di gara (Cons. Stato n.
4283/2015 citata);
- il danno c.d. curriculare dovuto alla perdita della
possibilità di arricchire il proprio curriculum
professionale (Cons. Stato Sez. VI 09/06/2008 n. 1751), da
liquidarsi in via equitativa in una somma pari al 5%
sull’importo del’appalto.
Spettano, ancora all’appellante, gli interessi legali sulle
predette somme progressivamente e via via rivalutate, dalla
data di stipula sino alla liquidazione del danno, in
funzione compensativa della mancata disponibilità del denaro
a titolo di risarcimento danno.
Per le suesposte considerazioni l’appello, in quanto fondato
va accolto in relazione sia agli aspetti impugnatori che
risarcitori, con integrale riforma dell’impugnata sentenza (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.12.2015 n. 5803 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Dalla lettura
dell’art. 38, lett. c), codice dei contratti emerge come, ai
fini dell’esclusione dalla partecipazione dalle procedure,
in caso di sentenza ex art. 444 c.p.p. la condanna riportata
dai soggetti non deve essere passata in giudicato o divenuta
irrevocabile.
Infatti, mentre nelle altre due ipotesi previste, sentenza
di condanna o decreto penale, è lo stesso legislatore che
prescrive la necessità che questi siano passati in giudicato
o divenuti irrevocabili, nel caso di patteggiamento nulla in
questo senso è previsto.
Tale scelta del legislatore –che probabilmente deriva dal
fatto che nel patteggiamento vi è un’ammissione di
responsabilità con non contestazione dei fatti addebitati–
risulta all’evidenza laddove lo stesso legislatore, parla
esclusivamente di “sentenza di applicazione della pena su
richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale”, senza prevedere la necessità che questa
sia divenuta irrevocabile.
Tuttavia, in base a quanto sopra detto, è da ritenere che
anche la sentenza di patteggiamento non divenuta
irrevocabile deve essere dichiarata in base al disposto
dell’art. 38, con la conseguenza che la dichiarazione, resa
in sede di partecipazione, di assenza di condanne definitive
nei confronti del legale rappresentante, in presenza,
all’opposto, di una sentenza di patteggiamento, anche se
ancora non divenuta irrevocabile, è, una dichiarazione
mendace, per ciò solo costituente legittima causa di
esclusione dalla gara.
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Il ricorso è
fondato.
La lettera di invito dell’appalto in questione richiede, ai
fini dell’ammissione alla gara, che i partecipanti
presentino la dichiarazione ex art. 38 codice dei contratti.
Per l’art. 38, lett. c), codice dei contratti “Sono
esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento
delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e
servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non
possono stipulare i relativi contratti i soggetti: c) nei
cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna
passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna
divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della
pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o
della Comunità che incidono sulla moralità professionale; è
comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza
passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione
a un'organizzazione criminale, corruzione, frode,
riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati
all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva Ce 2004/18;
l'esclusione e il divieto operano se la sentenza o il
decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del
direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei
soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in
nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore
tecnico se si tratta di società in accomandita semplice;
degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o
del direttore tecnico o del socio unico persona fisica,
ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno
di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o
consorzio.
In ogni caso l'esclusione e il divieto operano anche nei
confronti dei soggetti cessati dalla carica nell'anno
antecedente la data di pubblicazione del bando di gara,
qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata completa ed
effettiva dissociazione della condotta penalmente
sanzionata; l'esclusione e il divieto in ogni caso non
operano quando il reato e' stato depenalizzato ovvero quando
e' intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato e'
stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di
revoca della condanna medesima”.
Dalla lettura della norma in esame emerge come, ai fini
dell’esclusione dalla partecipazione dalle procedure, in
caso di sentenza ex art. 444 c.p.p. la condanna riportata
dai soggetti non deve essere passata in giudicato o divenuta
irrevocabile.
Infatti, mentre nelle altre due ipotesi previste, sentenza
di condanna o decreto penale, è lo stesso legislatore che
prescrive la necessità che questi siano passati in giudicato
o divenuti irrevocabili, nel caso di patteggiamento nulla in
questo senso è previsto.
Tale scelta del legislatore –che probabilmente deriva dal
fatto che nel patteggiamento vi è un’ammissione di
responsabilità con non contestazione dei fatti addebitati–
risulta all’evidenza laddove lo stesso legislatore, parla
esclusivamente di “sentenza di applicazione della pena su
richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale”, senza prevedere la necessità che
questa sia divenuta irrevocabile.
Nel caso in esame, la società aggiudicataria ha dichiarato
che nei confronti del sig. -OMISSIS-, già amministratore e
direttore tecnico e attuale socio di maggioranza della
società, non era stata pronunciata alcuna condanna ex art.
38 codice dei contratti.
Tuttavia, in base a quanto sopra detto, è da ritenere che
anche la sentenza di patteggiamento non divenuta
irrevocabile deve essere dichiarata in base al disposto
dell’art. 38, con la conseguenza che la dichiarazione, resa
in sede di partecipazione, di assenza di condanne definitive
nei confronti del legale rappresentante, in presenza,
all’opposto, di una sentenza di patteggiamento, anche se
ancora non divenuta irrevocabile, è, una dichiarazione
mendace, per ciò solo costituente legittima causa di
esclusione dalla gara.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 21.12.2015 n. 3662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Sull'accertamento del diritto alla revisione del
prezzo di appalto.
La decisione di effettuare la revisione prezzi e la
determinazione dei parametri da osservarsi a tal fine sono
espressione di una sfera di valutazione discrezionale, che
sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve
essere impugnato innanzi al giudice amministrativo nel
termine decadenziale di legge, atteso che la posizione
dell'appaltatore assume carattere di diritto soggettivo solo
dopo che l'Amministrazione abbia riconosciuto la sua pretesa
e si verta in materia del quantum del compenso
revisionale.
Nel caso di specie, concernente l'accertamento del diritto
alla revisione dei prezzi per la realizzazione di interventi
finalizzati al risparmio energetico di un'Azienda
ospedaliera, il rapporto negoziale fra le parti -quanto al
riconoscimento di compensi revisionali- recava una clausola
di chiaro contenuto negativo, così che la pretesa azionata
in alcun modo poteva ricondursi a un diritto soggettivo
perfetto tutelabile con azione di accertamento, ove il
contratto rechi un'apposita clausola che preveda il puntuale
obbligo dell'Amministrazione di dar luogo alla revisione dei
prezzi (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 18.12.2015 n. 5779 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Gara nulla se l’ente non è capace di aprire i
files. Tar Bari. Appalti.
L’impresa che ha correttamente usato
gli atti digitali per formulare offerte in procedure sul
mercato elettronico non può essere esclusa dalla Pa se
questa non ha competenze informatiche per leggere i
documenti non cartacei.
Il TAR Puglia-Bari -Sez.
I,
sentenza
18.12.2015 n. 1646– ha dichiarato illegittima
un’aggiudicazione, su piattaforma del mercato elettronico
della Pa (Mepa), escludendo una ditta concorrente che, come
richiesto dal bando, aveva inviato offerta telematica.
L’ente, non riuscendo ad aprire i file inviati con firma
digitale, li ha ritenuti danneggiati.
E ha considerato
quelli senza firma elettronica richiesti a gara scaduta per
un ulteriore controllo non corrispondenti ai primi, per la
loro diversa denominazione. Ma sarebbe bastato un programma
idoneo alla lettura dei documenti sui dettagli tecnici ed
economici per l’appalto e per gli altri occorreva sapere che
la diversità di denominazione dipendeva dal tipo di
estensione e formato.
Accogliendo la tesi della ricorrente, i giudici spiegano
che, se l’offerta è stata redatta e inviata come da bando,
«la mancata lettura della documentazione» a corredo «risulta
imputabile esclusivamente a responsabilità della Pa». Che
avrebbe facilmente ovviato con un supplemento istruttorio,
anche con personale più qualificato, anche perché in una
perizia di parte i file sono risultati leggibili.
La sentenza ha poi stabilito che anche la ditta esclusa,
data l’inutilità dell’annullamento degli atti, vanta un
interesse (meritevole di tutela) ad accertare la
illegittimità dell’azione amministrativa per chiedere in
separata sede il risarcimento del danno «rapportato alla
possibile chance di vittoria» (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016).
---------------
MASSIMA
3. Tanto premesso in fatto, in diritto il ricorso è
fondato e merita accoglimento, sebbene ai sensi dell’art.
34, comma 3, c.p.a. l’interesse della ricorrente vada
limitato alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità
degli atti di gara, non avendo la stessa più interesse alla
loro caducazione, non potendo trarne alcuna utilità, per
essere stata completamente eseguita la fornitura
dall’aggiudicataria, odierna controinteressata.
Infatti, tenuto conto, del fatto che non è più possibile
allo stato attuale la rinnovazione di una gara ormai
completamente esaurita nei suoi effetti, la ricorrente vanta
sicuramente un interesse, ai sensi dell’art. 34, comma 3
cod. proc. amm., meritevole di tutela, all’accertamento
della illegittimità dell’azione amministrativa al fine di
richiedere in separata sede il risarcimento del danno
evidentemente rapportato alla possibile chance di
vittoria (cfr. Tar Bari, Sez. I, 10.12.2014, n. 1525).
3.1 Dalla perizia di parte, redatta dall’ing. P.Ca., le cui
convincenti argomentazioni e conclusioni il Collegio ritiene
di condividere, è emerso che i “file”
forniti dall’odierna ricorrente, risultano perfettamente
leggibili e privi di qualsivoglia errore informatico che
possa comprometterne la lettura e che eventuali problemi
nella loro apertura e lettura sono da addebitarsi alla
mancanza di conoscenze (di base) o strumentazioni
informatiche (software di base) di chi era addetto alla
ricezione di tali documenti;
che la sottoscrizione digitale degli stessi è stata
effettuata nei termini di gara, in particolare tutti tra il
20 ed il 21 ottobre, e non era dunque modificabile in data
successiva a quella riportata; che anche i file non firmati
digitalmente, inviati a titolo di cortesia, risultano essere
perfettamente leggibili.
3.2 Alla luce delle predette incontestate risultanze,
dunque, è emerso che l’offerta della
ricorrente è stata correttamente redatta e trasmessa e che
la mancata lettura della documentazione presentata a suo
corredo risulta imputabile esclusivamente a responsabilità
della P.A., che avrebbe facilmente potuto ovviare
all’inconveniente registrato disponendo un supplemento
istruttorio, anche con l’ausilio di personale all’uopo
maggiormente qualificato, in grado di procedere all’utilizzo
dei programmi informatici necessari (e, per quanto emerso,
scaricabili liberamente da internet nella loro versione
gratuita), onde poter agevolmente procedere all’apertura dei
file trasmessi
dalla La. e pervenuti alla S.A. tramite piattaforma Mepa.
3.3 Nei termini innanzi precisati, dunque, il ricorso va
accolto.
In conclusione, dalle argomentazioni espresse in precedenza
discende la declaratoria di improcedibilità della domanda
impugnatoria di cui al ricorso introduttivo, così come
integrato da motivi aggiunti, per sopravvenuto difetto di
interesse; nonché l’accertamento, ai sensi dell’art. 34,
comma 3 cod. proc. amm., dell’illegittimità del
provvedimento di esclusione della ricorrente e, per
derivationem, degli atti di aggiudicazione provvisoria e
definitiva, atteso che, nella specie, la ricorrente è stata
illegittimamente esclusa dalla procedura de qua, così
vedendosi preclusa la chance di essere selezionata quale
migliore offerente, essendo mancata la valutazione della sua
offerta tecnica ed economica, nell’ambito di una procedura
caratterizzata da due sole offerte in competizione. |
APPALTI SERVIZI: E' illegittimo l'affidamento
in house di servizi
laddove è stato disposto in carenza del presupposto della
convenienza economica rispetto agli oneri che la Pa avrebbe
sostenuto con la relativa esternalizzazione.
Il modello
organizzativo dell’in house providing è stato recentemente
decifrato da questa Sezione come modalità eccezionale,
rispetto a quella ordinaria della scelta dell’affidatario in
esito a procedure concorrenziali, e, con particolare
riferimento ad una situazione identica a quella qui
controversa, precluso dal combinato disposto dell’art. 4,
commi 7 e 8, d.l. n. 95 del 2012 (che obbligano, per un
verso, le pubbliche amministrazioni ad acquisire beni e
servizi mediante procedure concorrenziali e che consentono,
per un altro verso, l’affidamento diretto a società a
totale partecipazione pubblica nelle sole ipotesi di
gestione di servizi di interesse generale, mentre quello in
questione esula dall’ambito di tale eccezione, attenendo a
un servizio strumentale all’amministrazione affidataria del
servizio).
---------------
1.- E’ controversa
la legittimità dei provvedimenti con i quali l’ASL TA, dopo
aver bandito una gara per la scelta dell’impresa alla quale
affidare l’appalto avente ad oggetto la pulizia e la
sanificazione delle proprie strutture, ha deciso di revocare
la procedura selettiva e di assegnare il servizio alla
propria società in house (Sanitaservice).
Il Tribunale pugliese, adìto da due società che avevano
partecipato alla procedura inizialmente indetta dalla ASL TA,
ha giudicato illegittima sia la delibera n. 603 del 2014
(impugnata con i ricorsi introduttivi), in quanto
approvativa di un business plan fondato su un computo
del costo del lavoro inferiore a quello minimo previsto
nella procedura inizialmente indetta (e poi revocata), sia
la delibera n. 859 del 2014 (adottata al dichiarato fine di
correggere il predetto errore ed impugnata con i motivi
aggiunti), in quanto, in ogni caso, viziata dal difetto del
presupposto della convenienza economica della gestione del
servizio in house, così come deliberata, rispetto
agli oneri che sarebbero stati sostenuti per effetto
dell’affidamento dell’appalto in esito alla gara
originariamente bandita.
L’ASL TA contesta la correttezza del gravato giudizio di
illegittimità, insistendo nel sostenere l’erroneità del
rilievo della mancanza di economicità della gestione del
servizio in house, assunto dal TAR a fondamento della
pronuncia di annullamento appellata, e concludendo per la
riforma di quest’ultima e per la conseguente reiezione dei
ricorsi di primo grado.
2.- Occorre preliminarmente disattendere l’eccezione di rito
con cui la Cascina Global Service s.r.l. ha sostenuto
l’intervenuta estinzione del giudizio, in ragione della
tardività della sua riassunzione, in seguito alla
dichiarazione di interruzione del processo con l’ordinanza
assunta nella camera di consiglio del 09.07.2015, da parte
dell’ASL TA.
Premesso, infatti, che il termine dimidiato per la
riassunzione, stabilito in 45 giorni per effetto del
combinato disposto degli artt. 80, comma 3, 119 e 120 c.p.a.,
dev’essere computato a decorrere dal giorno in cui la parte
ha avuto conoscenza legale dell’evento interruttivo, deve
rilevarsi che non risulta provata la data in cui la ASL TA
ha avuto conoscenza del decesso del proprio difensore (da
valersi quale dies a quo del calcolo del termine
asseritamente inosservato).
Non consta, in particolare, che l’Azienda appellante abbia
dichiarato la morte del proprio avvocato (essendo stato
depositato il suo certificato di morte dalla Chemi Pul
Italiana s.r.l.), o che abbia avuto conoscenza dell’evento
alla camera di consiglio del 09.07.2015 (nella quale nessuno
è comparso per l’ASL TA) o, ancora, che sia stata informata
del fatto per mezzo della comunicazione dell’ordinanza
dichiarativa dell’interruzione del giudizio (che non risulta
mai eseguita dalla Segreteria), sicché la riassunzione deve
intendersi rituale e tempestiva, con conseguente reiezione
dell’eccezione in esame.
3.- Nel merito, l’appello è infondato, alla stregua delle
considerazioni di seguito esposte, e va respinto.
3.1- Con un unico, articolato motivo di ricorso l’Azienda
appellante critica la correttezza del giudizio relativo alla
mancanza di convenienza economica dell’affidamento del
servizio a Sanitaservice, deducendo, in particolare,
l’erroneità dell’assunzione, quale parametro di valutazione,
del costo dell’appalto originariamente messo a gara ed
assumendo, in ogni caso, l’idoneità del (secondo)
business plan, approvato con la deliberazione n. 859 del
2014 ad attestare la congruità degli oneri della contestata
assegnazione dell’appalto alla propria società in house.
3.2- Deve premettersi che il modello organizzativo dell’in
house providing è stato recentemente decifrato da questa
Sezione (Cons. St., sez. III, 07.05.2015, n. 2291) come
modalità eccezionale, rispetto a quella ordinaria della
scelta dell’affidatario in esito a procedure concorrenziali,
e, con particolare riferimento ad una situazione identica a
quella qui controversa (affidamento diretto alla
Sanitaservice ASL BR s.r.l. da parte della A.S.L. di
Brindisi del servizio di pulizia e di sanificazione),
precluso dal combinato disposto dell’art. 4, commi 7 e 8,
d.l. n. 95 del 2012 (che obbligano, per un verso, le
pubbliche amministrazioni ad acquisire beni e servizi
mediante procedure concorrenziali e che consentono, per un
altro verso, l’affidamento diretto a società a totale
partecipazione pubblica nelle sole ipotesi di gestione di
servizi di interesse generale, mentre quello in questione
esula dall’ambito di tale eccezione, attenendo a un servizio
strumentale all’amministrazione affidataria del servizio).
3.3- Così riscontrata la difformità dell’affidamento
controverso dal paradigma legale di riferimento (e, quindi,
la sua illegittimità), alla stregua delle argomentazioni
assunte a fondamento della decisione citata (e da intendersi
qui integralmente richiamate), occorre, in ogni caso,
confermare la fondatezza delle (diverse) ragioni assunte a
fondamento del gravato giudizio di illegittimità.
Occorre, al riguardo, rilevare che, contrariamente a quanto
sostenuto dall’appellante, il TAR non ha arbitrariamente
sindacato il merito della scelta dell’affidamento in
house ma ha correttamente scrutinato l’attendibilità
della motivazione dichiaratamente assunta dalla stessa
amministrazione a sostegno di quella decisione e, cioè, la
convenienza economica dell’affidamento diretto alla propria
società, rispetto alla selezione del contraente in esito ad
una pubblica gara.
Così chiarito che la verifica della fondatezza delle ragioni
addotte dalla stessa Azienda a sostegno della scelta dell’internalizzazione
del servizio di pulizia e di sanificazione attiene
direttamente alla disamina della coerenza e della
correttezza della stessa motivazione della contestata
opzione gestoria (e non si estende fino ad un inammissibile
sindacato del merito della relativa scelta), rileva il
Collegio, per un verso, che il TAR ha correttamente assunto
come parametro di valutazione della legittimità di
quest’ultima proprio la stima dei costi operata dalla ASL TA
negli atti della gara inizialmente indetta (da valersi quale
l’unico criterio razionale di esame della convenienza
economica della gestione in house del servizio,
rispetto alla sua esternalizzazione) e, per un altro, che la
determinazione controversa risulta fondata su una
ricostruzione inattendibile (ovviamente, se confrontata con
gli importi preventivati nell’ambito della procedura
selettiva poi revocata) dei dati di costo delle prestazioni
contrattuali dovute dal gestore del servizio.
E’ sufficiente, al riguardo, osservare che nel (secondo)
business plan (approvato con la delibera n. 859 del
2014), a fronte di un modesto incremento, rispetto
all’oggetto dell’appalto messo inizialmente a gara, delle
ore lavorative annue e delle superfici da pulire (che incide
in maniera trascurabile sul costo totale delle prestazioni),
il corrispettivo complessivo del servizio risulta
irragionevolmente superiore, sia a quello a base d’asta, sia
a quello offerto in sede di gara dalla Cascina Global
Service s.r.l. (che ha presentato la prima offerta non
anomala).
A ben vedere, infatti, a fronte del corrispettivo offerto
dalla Cascina Global Service s.r.l. (pari ad Euro
14.796.000), quello corrisposto alla Sanitaservice (pari a
circa Euro 18.000.000) risulta superiore di oltre Euro
3.200.000 al costo che l’Azienda avrebbe sostenuto affidando
il servizio in esito alla procedura concorrenziale
inizialmente bandita, con conseguente, palese smentita del
presupposto (logico e giuridico) dell’internalizzazione del
servizio: la convenienza economica della gestione in
house, rispetto all’assegnazione dell’appalto mediante
una gara pubblica.
Né vale ad inficiare la correttezza di tale (matematico)
rilievo la prospettazione con cui l’Azienda appellante tenta
di spiegare la composizione delle voci di costo assunte a
fondamento del computo del corrispettivo dovuto alla propria
società in house, in quanto la stima degli oneri
relativi alla principale componente, e, cioè, il costo del
lavoro, si rivela fallace, in quanto basata su elementi
errati.
E ciò sia perché nel monte ore sono state erroneamente
computate le ore necessarie per le sostituzioni del
personale assente (posto che il costo delle ore effettive di
servizio comprende già quello delle sostituzioni, come
chiarito, tra le tante, da Cons. St., sez. III, 02.03.2015,
n. 1020), sia perché l’incremento del monte ore da 315.484
(così stimato negli atti della procedura revocata) a 322.353
non risulta giustificato da allegazioni attendibili e
verificabili (soprattutto tenendo conto che il primo dato
era stato computato con riferimento all’orario effettivo e
non a quello teorico e che le superfici aggiuntive
presentano un’estensione molto ridotta).
Ma, in ogni caso, quand’anche si giudicasse plausibile il
computo del monte ore contenuto nel secondo business plan,
l’incremento di 6.900 ore effettive di servizio non appare
in alcun modo sufficiente a giustificare un aumento del
costo complessivo dell’appalto di Euro 3.200.000.
3.4- Ne consegue, in definitiva, che il contestato
affidamento diretto dell’appalto alla Sanitaservice dev’essere
giudicato illegittimo, siccome fondato sull’erroneo
presupposto della sua convenienza economica (rispetto agli
oneri che avrebbe sopportato l’Azienda con
l’esternalizzazione del servizio).
3.5- L’affidamento diretto del servizio alla Sanitaservice
risulta, peraltro, illegittimo (a conferma della fondatezza
dell’argomentazione sopra svolta) anche in quanto disposto
in violazione dei vincolanti prezzi di riferimento
stabiliti, ai sensi dell’art. 17 d.l. 06.07.2011, n. 98,
dall’Osservatorio dei contratti pubblici presso l’AVCP (ora
ANAC), applicando i quali il costo del servizio sarebbe
stato molto più basso (perlomeno di Euro 1.500.000 circa) di
quello corrisposto alla predetta società in house,
come fondatamente dedotto dalla Cascina Global Service
s.r.l. con la prima censura riproposta in appello ed
esaminabile congiuntamente all’appello principale (in quanto
afferente alla medesima questione dell’attendibilità della
motivazione relativa alla convenienza economica
dell’affidamento diretto in contestazione).
3.6- Resta così confermato che con il (peraltro doveroso)
ricorso al mercato l’ASL TA avrebbe conseguito un risparmio
significativo e che, al contrario, con la gestione in house
non ritrae alcuna convenienza economica e sopporta un costo
aggiuntivo, rispetto al corrispettivo che avrebbe dovuto
corrispondere a un gestore scelto in esito a una gara
pubblica.
4.- Alle considerazioni che precedono conseguono, quindi, la
reiezione dell’appello e la conferma della decisione
impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 17.12.2015 n. 5732 - ink a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sino a quanto un torrente (per lo più a secco durante
l'anno) rimane iscritto nell'elenco delle acque pubbliche è
sempre necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
Neanche l’appellante (e, per suo conto,
il perito di parte) affermano l’inesistenza dell’impluvio o
“vallone”, limitandosi a sostenere che quello in questione
non avrebbe mai avuto, o comunque avrebbe nel tempo perduto
le caratteristiche del “torrente”, necessarie a giustificare
il regime di tutela (paesaggistica) differenziata.
Peraltro, nella relazione geologica presentata a corredo
della domanda di permesso di costruire, si legge che “… il
torrente La Morte … è caratterizzato da assenza di
circolazione idrica superficiale significativa per molti
mesi l’anno …”, così confermando la tesi di controparte
secondo la quale, almeno per alcuni mesi, esiste un corpo
idrico superficiale.
Sicché, una simile valutazione passa necessariamente per la
revisione e modifica dei provvedimenti costitutivi del
vincolo sul territorio, nel caso in esame (trattandosi sì di
tutela paesaggistica ope legis, ma relativamente a corsi
d’acqua minori) dell’elenco dei corsi d’acqua pubblici, e
non può certo essere sostituita da un apprezzamento diretto
effettuato in questa sede; in altri termini, l’appellante
può coltivare l’iniziativa volta alla “derubricazione”, ma
non può ottenere che a ciò provveda direttamente il giudice
della legittimità dell’azione amministrativa.
---------------
per effetto della sola presentazione della domanda di
sanatoria non si determina la caducazione del provvedimento
sanzionatorio già adottato (e l’improcedibilità della
relativa impugnazione) ma soltanto la sua temporanea
ineseguibilità.
All’esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione dell’accertata conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica, edilizia,
paesaggistica ed ambientale; viceversa, in caso di rigetto
dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquisterà la sua
efficacia, con decorrenza di un nuovo termine per
l’esecuzione spontanea della demolizione.
---------------
5.2. Vi è difetto di istruttoria e di motivazione
sull’esistenza del torrente.
La tesi dell’appellante è che non vi sia mai stato un
torrente, ma un piccolo impluvio (che si forma naturalmente
per il deflusso delle acque meteoriche) denominato Vallone,
evidenziato soltanto nella mappa catastale risalente al
1900, e che esso nel corso del tempo, vuoi per mutamenti
oromorfologici, vuoi per mutamenti delle condizioni
climatiche, si sia naturalmente prosciugato “lasciando al
suo posto una strada pubblica (via Oliveto) – l’unica che,
peraltro ora carrabile, conduce alla vicina frazione Marina”.
“In effetti, la viabilità comunale è stata realizzata
nell’ex alveo, che oggi è ridotto ad un piccolo fosso di
scolo, privo di acqua, posto sul lato destro della
carreggiata” (perizia di parte).
Mancherebbe dunque il presupposto della tutela
paesaggistica.
5.3. Tanto più che l’appellante ha chiesto alla Regione, al
Comune ed al Ministero che l’elenco dei corsi d’acqua venga
aggiornato, ai sensi degli artt. 142, comma 3, del Codice, e
76 della l.r. 34/2002, derubricando il c.d. Vallone La
Morte.
5.4. Quanto ai presupposti per l’esercizio dell’autotutela,
essendo il Comune di Joppolo competente all’istruttoria
finalizzata all’acquisizione del nulla osta paesaggistico,
avrebbe dovuto sospendere gli effetti del provvedimento ed
invitare l’appellante a produrre la relazione paesaggistica
per coinvolgere nell’istruttoria la competente
soprintendenza statale.
5.5. In generale, il Comune avrebbe dovuto verificare la
possibilità di conservare il provvedimento e di pervenire
alla sanatoria.
5.6. Il comportamento del Comune comporta eccesso di potere
per sviamento e per violazione dei canoni di correttezza e
buon andamento, posto che si è inteso incidere su un
impianto di pubblica utilità già attivato, solo per sedare
le preoccupazioni allarmistiche di isolati cittadini.
6. Si sono costituiti in giudizio, e controdeducono, il
Comune di Joppolo ed un gruppo di cittadini di Joppolo
residenti a poca distanza dall’impianto (già interventori
ad opponendum in primo grado).
7. L’appellante ha, dichiaratamente, invertito l’ordine
delle censure; ma al Collegio sembra confacente sul piano
logico seguire l’ordine del ricorso introduttivo e della
sentenza di primo grado.
7.1. Per quanto concerne la lamentata insussistenza dei
presupposti dei provvedimenti impugnati, la tesi
dell’appellante è che sul luogo a monte del quale è stato
installato il palo che supporta gli impianti di
comunicazione, vi sia ormai solo un fosso di scolo a margine
della strada comunale, sulla quale si affacciano ristoranti
ed altre attività commerciali, e che nessuna alterazione del
paesaggio venga determinata dall’installazione del palo (a
partire da una quota più alta di 10 metri).
La tesi non può essere seguita.
Anzitutto, perché una verificazione effettuata da un
funzionario regionale afferma il contrario.
Ed anche perché, a ben vedere, neanche l’appellante (e, per
suo conto, il perito di parte) affermano l’inesistenza
dell’impluvio o “vallone”, limitandosi a sostenere
che quello in questione non avrebbe mai avuto, o comunque
avrebbe nel tempo perduto le caratteristiche del “torrente”,
necessarie a giustificare il regime di tutela
(paesaggistica) differenziata.
Peraltro, nella relazione geologica presentata a corredo
della domanda di permesso di costruire, si legge che “…
il torrente La Morte … è caratterizzato da assenza di
circolazione idrica superficiale significativa per molti
mesi l’anno …” (pag. 16), così confermando la tesi di
controparte secondo la quale, almeno per alcuni mesi, esiste
un corpo idrico superficiale.
In ogni caso, una simile valutazione passa necessariamente
per la revisione e modifica dei provvedimenti costitutivi
del vincolo sul territorio, nel caso in esame (trattandosi
sì di tutela paesaggistica ope legis, ma
relativamente a corsi d’acqua minori) dell’elenco dei corsi
d’acqua pubblici, e non può certo essere sostituita da un
apprezzamento diretto effettuato in questa sede; in altri
termini, l’appellante può coltivare l’iniziativa volta alla
“derubricazione”, ma non può ottenere che a ciò
provveda direttamente il giudice della legittimità
dell’azione amministrativa.
Tanto più che con d.C.C. n. 30/2008, il Comune aveva preso
atto di uno studio geologico, commissionato per verificare
quali corsi d’acqua meritassero di rimanere sottoposti a
vincolo, che individuava i torrenti e i fiumi che non
possiedono valore naturalistico, nell’ambito del quale,
tuttavia, non era stato incluso il Vallone La Morte.
7.2. Una volta riscontrata la ricomprensione dell’impianto
nel perimetro del vincolo paesaggistico, ne discendeva la
necessità della previa autorizzazione paesaggistica, che
però non è stata chiesta (a quanto sembra, anche il Comune
si è avveduto della sua necessità solo a realizzazione
avvenuta).
Dalla mancanza del presupposto di legittimità del titolo
edilizio discende, ai sensi degli artt. 27, 32, comma 3, e
31, comma 1, del d.lgs. 380/2001, nonché dell’art. 167 del
Codice, la necessità dell’adozione della sanzione
ripristinatoria dello stato dei luoghi precedente alla
realizzazione delle opere abusive (senza che, evidentemente,
possa assumere alcun rilievo la correttezza o meno
dell’indicazione, nel provvedimento, delle norme applicate),
salva la presentazione di una domanda di sanatoria.
Non essendoci volumi edificati, sembra in astratto
perseguibile un procedimento di accertamento della
compatibilità paesaggistica in sanatoria, ai sensi degli
artt. 146, comma 4, 167, commi 4 e 5, del Codice.
L’appellante ha presentato domanda di accertamento di
compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 181, comma
1-quater, del Codice, concernente gli effetti penali
dell’abuso, ma che, ex art. 167, comma 5, si intende
presentata anche agli effetti amministrativi.
Con nota prot. 231495 in data 17.07.2014, la Regione ha
chiesto al Comune di Joppolo di presentare la documentazione
prevista dalla d.G.R. n. 393/2009 – allegato 1.
L’appellante, in data 15.10.2014, ha diffidato il Comune ad
evadere la richiesta e la Regione a concludere
conseguentemente il procedimento.
7.3. Da ciò consegue che –impregiudicata ogni valutazione
sul comportamento del Comune nel procedimento di sanatoria e
in generale sulla responsabilità dell’inerzia lamentata
dall’appellante- è corretta la valutazione del TAR in ordine
all’impossibilità da parte del Comune di evitare il
ripristino attraverso una ponderazione degli interessi, in
quanto la compatibilità e quindi la possibilità della
sanatoria dell’impianto travalicano, in base all’assetto
delle competenze concretamente vigente in Calabria, l’ambito
decisionale dell’ente locale.
In ogni caso, come sottolinea la difesa del Comune, la
valutazione comparativa dell’interesse del privato non
sarebbe stata necessaria in quanto il provvedimento era
stato rilasciato a causa della errata rappresentazione dello
stato dei luoghi (quanto alla distanza dal torrente) da
parte dello stesso privato istante.
7.4. La pendenza dell’accertamento in sanatoria ha comunque
effetti sul provvedimento ripristinatorio.
Il Collegio ritiene preferibile la tesi secondo la quale,
per effetto della sola presentazione della domanda di
sanatoria, non si determina la caducazione del provvedimento
sanzionatorio già adottato (e l’improcedibilità della
relativa impugnazione), ma soltanto la sua temporanea
ineseguibilità.
All’esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione dell’accertata conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica, edilizia,
paesaggistica ed ambientale; viceversa, in caso di rigetto
dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquisterà la sua
efficacia, con decorrenza di un nuovo termine per
l’esecuzione spontanea della demolizione.
Ciò non comporta che sia errata la pronuncia del TAR, per il
fatto di non aver espressamente statuito l’ineseguibilità
temporanea del ripristino dei luoghi. Quello dell’ineseguibilità
è infatti un aspetto che verrebbe in rilievo in presenza di
provvedimenti di esecuzione d’ufficio del ripristino o che
comunque presuppongano l’inottemperanza all’ordine di
demolizione (ulteriori sanzioni pecuniarie, acquisizione
gratuita del sedime); provvedimenti che, in pendenza del
procedimento di sanatoria, non risultano adottati.
8. In conclusione, l’appello deve essere respinto (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 17.12.2015 n. 5700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla questione interpretativa
di stabilire cosa debba intendersi per “irregolarità
essenziale”, ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis, del
d.lgs. n. 163 del 2006.
L'art. 39 del D.L. n. 90 del 2014, per
le sole procedure bandite dopo la sua entrata in vigore, ha
inserito il comma 2-bis all'art. 38 e il comma 1-ter
all’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, introducendo una
sanzione pecuniaria per la mancanza, l'incompletezza e ogni
altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni
sostitutive, obbligando la stazione appaltante ad assegnare
al concorrente un termine non superiore a dieci giorni per
la produzione o l'integrazione delle dichiarazioni carenti e
imponendo l'esclusione nel solo caso di inosservanza di tale
ultimo adempimento. In tal modo si è profondamente inciso il
regime normativo delle dichiarazioni richieste ai fini
dell'ammissione in gara. Il nuovo quadro normativo, infatti,
è chiaramente orientato alla dequalificazione delle
irregolarità dichiarative da fattori escludenti a carenze
regolarizzabili o sanzionabili in via pecuniaria, soluzione
questa che punta ad appurare il più possibile l'effettiva
titolarità dei requisiti richiesti, senza vanificare o
stravolgere l'esito della gara in ragione di mere carenze
formali.
Le modifiche introdotte risultano, peraltro, finalizzate a
superare le incertezze interpretative e applicative del
combinato disposto degli artt. 38 e 46 del d.lgs. n. 163 del
2006, mediante la procedimentalizzazione del potere di
soccorso istruttorio (che diventa doveroso per ogni ipotesi
di mancanza o di irregolarità delle dichiarazioni
sostitutive) e la configurazione dell'esclusione dalla
procedura come sanzione unicamente legittimata dall'omessa
produzione, integrazione o regolarizzazione delle
dichiarazioni carenti entro il termine assegnato dalla
stazione appaltante (e non più da carenze originarie).
Come chiarito in giurisprudenza, la nuova disposizione
“offre, quale indice ermeneutico, l'argomento della chiara
volontà del legislatore di evitare (nella fase del controllo
delle dichiarazioni e, quindi, dell'ammissione alla gara
delle offerte presentate) esclusioni dalla procedura per
mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza
assoluta delle dichiarazioni), di imporre un'istruttoria
veloce, ma preordinata ad acquisire la completezza delle
dichiarazioni (prima della valutazione dell'ammissibilità
della domanda), e di autorizzare la sanzione espulsiva quale
conseguenza della sola inosservanza, da parte dell'impresa
concorrente, all'obbligo di integrazione documentale (entro
il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione
appaltante)”.
Come chiarito anche dall’Anac, “La nuova previsione, dunque,
esclusivamente per i casi della mancanza, incompletezza e
ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle
dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2, prevede
l’obbligo del concorrente di pagare, in favore della
stazione appaltante, la sanzione pecuniaria stabilita dal
bando di gara, il cui versamento è garantito dalla cauzione
provvisoria, e ciò, è da ritenere, solamente al fine di
poter integrare e regolarizzare le relative omissioni e/o
carenze. L’esclusione del concorrente dalla gara, invece,
sarà disposta dalla stazione appaltante esclusivamente a
seguito dell’inutile decorso del termine assegnato ai fini
della regolarizzazione (cioè senza che il concorrente
integri o regolarizzi le dichiarazioni carenti o
irregolari).
La finalità della disposizione è sicuramente quella di
evitare l’esclusione dalla gara per mere carenze documentali
-ivi compresa anche la mancanza assoluta delle
dichiarazioni- imponendo a tal fine un’istruttoria veloce ma
preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni,
prima della valutazione dell’ammissibilità dell’offerta o
della domanda, e di autorizzare la sanzione espulsiva quale
conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa
concorrente, all’obbligo di integrazione documentale entro
il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione
appaltante.
Sulla base di tale disposizione, pertanto, ai fini della
partecipazione alla gara, assume rilievo l’effettiva
sussistenza dei requisiti di ordine generale in capo ai
concorrenti e non le formalità né la completezza del
contenuto della dichiarazione resa a dimostrazione del
possesso dei predetti requisiti. Si conferma in tal modo
l’orientamento giurisprudenziale a tenore del quale occorre
dare prevalenza al dato sostanziale (la sussistenza dei
requisiti) rispetto a quello formale (completezza delle
autodichiarazioni rese dai concorrenti) e, dunque,
l’esclusione dalla gara potrà essere disposta non più in
presenza di dichiarazione incompleta, o addirittura omessa,
ma esclusivamente nel caso in cui il concorrente non
ottemperi alla richiesta della stazione appaltante ovvero
non possieda, effettivamente, il requisito.
Sotto tale profilo, la novella in esame sembra finalizzata,
altresì, alla deflazione del contenzioso derivante da
provvedimenti di esclusione dalle gare d’appalto, per vizi
formali –cui non corrisponda l’interesse sostanziale alla
reale affidabilità del concorrente– sulle dichiarazioni rese
dai partecipanti, con conseguente possibile riduzione dei
casi di annullamento e di sospensione dei provvedimenti di
aggiudicazione, ciò che, peraltro, si desume dalla
collocazione dello stesso art. 39, nel Titolo IV del d.l.
90/2014 conv. in l. 114/2014, dedicato alle «misure per lo
snellimento del processo amministrativo e l’attuazione del
processo civile telematico», come sopra già accennato”.
---------------
Tanto premesso in termini generali, osserva il Collegio che
l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2015 non
specifica alcunché in ordine al concetto di essenzialità
delle irregolarità, lasciando alle singole Stazioni
appaltanti il compito di individuare i casi nei quali è
consentita la produzione, l’integrazione e la
regolarizzazione degli elementi e delle dichiarazioni di cui
all’art. 38, commi 1 e 2, ovvero degli altri requisiti di
partecipazione ai sensi dell’estensione operata dal comma
1-ter dell’art. 46, secondo cui “le disposizioni di cui
all'articolo 38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di
mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e
delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono
essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando
o al disciplinare di gara”.
Come chiarito dall’Anac, “è ragionevole ritenere che, con la
nozione di irregolarità essenziale, il legislatore abbia
voluto riferirsi ad ogni irregolarità nella redazione della
dichiarazione, oltre all’omissione e all’incompletezza, che
non consenta alla stazione appaltante di individuare con
chiarezza il soggetto ed il contenuto della dichiarazione
stessa, ai fini dell’individuazione dei singoli requisiti di
ordine generale che devono essere posseduti dal concorrente
e, in alcuni casi, per esso dai soggetti specificamente
indicati dallo stesso art. 38, comma 1, del Codice.
Tale interpretazione si desume, oltre che dalla ratio
sottesa alla norma –che, peraltro, nel prevedere una
specifica sanzione pecuniaria, intende realizzare
l’obiettivo di evitare che a fronte della generale
sanabilità delle carenze e delle omissioni, gli operatori
siano indotti a produrre dichiarazioni da cui non si evinca
il reale possesso dei singoli requisiti generali e l’esatta
individuazione dei soggetti che devono possederli anche da
un dato testuale della medesima, che assume maggior
pregnanza da una lettura sistematica dei primi due periodi
del citato comma 2-bis.
Infatti, nel secondo periodo della norma appena richiamata è
espressamente stabilito che nei casi di irregolarità
essenziale «la stazione appaltante assegna al concorrente un
termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie,
indicandone il contenuto e i soggetti che le devono
rendere». L’espresso riferimento al contenuto delle
dichiarazioni ed ai soggetti che le devono prestare, rende
palese l’intento del legislatore di estendere l’applicazione
della norma a tutte le carenze –in termini di omissioni,
incompletezze e irregolarità– riferite agli elementi ed alle
dichiarazioni di cui all’art. 38 nonché agli aspetti
relativi all’identificazione dei centri di imputabilità
delle dichiarazioni stesse”.
In conclusione, ad avviso dell’Anac, “le carenze essenziali
riguardano l’impossibilità di stabilire se il singolo
requisito contemplato dal comma 1 dell’art. 38 sia posseduto
o meno e da quali soggetti (indicati dallo stesso articolo).
Ciò che si verifica nei casi in cui:
a. non sussiste dichiarazione in merito ad una specifica
lettera del comma 1 dell’art. 38 del Codice;
b. la dichiarazione sussiste ma non da parte di uno dei
soggetti o con riferimento ad uno dei soggetti che la norma
individua come titolare del requisito;
c. la dichiarazione sussiste ma dalla medesima non si evince
se il requisito sia posseduto o meno”.
Con specifico riferimento all’art. 46, comma 1-ter, del
d.lgs. n. 163 del 2006, poi, la determinazione n. 1 del 2015
sottolinea come “la novella normativa introdotta dall’art.
39 del d.l. 90/2014 conv. in l. 114/2014, con riferimento
alle previsioni di cui all’art. 46 del Codice, determini un
superamento dei principi [giurisprudenziali], comportando
un’inversione radicale di principio; inversione in base alla
quale è generalmente sanabile qualsiasi carenza, omissione o
irregolarità, con il solo limite intrinseco
dell’inalterabilità del contenuto dell’offerta, della
certezza in ordine alla provenienza della stessa, del
principio di segretezza che presiede alla presentazione
della medesima e di inalterabilità delle condizioni in cui
versano i concorrenti al momento della scadenza del termine
per la partecipazione alla gara”.
Poiché il comma 1-ter citato stabilisce che le disposizioni
dell’art. 38, comma 2-bis, si applicano ad ogni ipotesi di
mancanza, di incompletezza o di irregolarità degli elementi
e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono
essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando
o al disciplinare di gara, può ben ritenersi che “sia
consentito in sede di gara procedere alla sanatoria di ogni
omissione o incompletezza documentale, superando
l’illustrato limite della sola integrazione e
regolarizzazione di quanto già dichiarato e prodotto in
gara. Inoltre, il riferimento ivi contenuto anche agli
elementi e non solo alle dichiarazioni, consente
un’estensione dell’istituto del soccorso istruttorio a tutti
i documenti da produrre in gara, in relazione ai requisiti
di partecipazione ma non anche per supplire a carenze
dell’offerta”.
Ad avviso dell’Anac, “la novella in esame [ha] sì confermato
le fattispecie ascrivibili alla categoria delle cause
tassative di esclusione (l’art. 39 del d.l. 90/2014 non
interviene, infatti, sui commi 1 e 1-bis dell’art. 46) ma,
operando “a valle” di tale individuazione, consent[e], ora,
che siano resi, integrati o regolarizzati (nella fase
iniziale della gara) anche gli elementi e le dichiarazioni
(anche di terzi) prescritti dalla legge, dal bando o dal
disciplinare di gara, la cui assenza o irregolarità sotto la
previgente disciplina determinavano l’esclusione dalla gara
(si tratta di ipotesi, evidentemente, ulteriori rispetto
alle dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, del Codice).
Pertanto, ove vi sia un’omissione, incompletezza,
irregolarità di una dichiarazione con carattere
dell’essenzialità –da individuarsi come tale in applicazione
della disciplina sulla cause tassative di esclusione– la
stazione appaltante non potrà più procedere direttamente
all’esclusione del concorrente ma dovrà avviare il
procedimento contemplato nell’art. 38, comma 2-bis del
Codice, volto alla irrogazione della sanzione pecuniaria ivi
prevista ed alla sanatoria delle irregolarità rilevate”.
Insomma, “le irregolarità essenziali, ai fini di quanto
previsto dall’art. 38, comma 2-bis, coincidono con le
irregolarità che attengono a dichiarazioni ed elementi
inerenti le cause tassative di esclusione (come individuate
nella determinazione n. 4/2012), previste nel bando, nella
legge o nel disciplinare di gara, in ordine alle quali non è
più consentito procedere ad esclusione del concorrente prima
della richiesta di regolarizzazione da parte della stazione
appaltante –fatta eccezione per quelli che afferiscono
all’offerta nei termini sopra indicati- come specificato nei
successivi paragrafi”.
---------------
Ritiene il Collegio che questa
interpretazione sia condivisibile, sotto un duplice profilo.
In primo luogo, contrariamente a quanto dedotto dalla
Stazione appaltante, anche ai fini dell’art. 46, comma
1-ter, citato assume rilievo la nozione di “irregolarità
essenziale”: la norma in esame, infatti, si limita ad
estendere le disposizioni di cui art. 38, comma 2-bis, del
d.lgs. n. 162 del 2006 ad ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità degli elementi e delle
dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere
prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al
disciplinare di gara.
L’intera disposizione di cui all’art. 38, comma 2-bis –e
quindi anche la distinzione tra irregolarità essenziali, che
impongono il soccorso istruttorio e l’applicazione della
sanzione pecuniaria, e irregolarità non essenziali, a fronte
delle quali invece nessuna integrazione o regolarizzazione
documentale può essere chiesta dalla Stazione appaltante né
alcuna sanzione può essere irrogata– trova pertanto
applicazione alle carenze ed omissioni relative ai requisiti
di partecipazione diversi da quelli di ordine generale.
Non può certo ritenersi, infatti, che per essi sia previsto
un regime diverso e più rigoroso, che imponga alla Stazione
appaltante di procedere al soccorso istruttorio e di
irrogare la sanzione pecuniaria per qualsiasi tipo di
irregolarità, ovvero anche per quelle non essenziali. Ciò
comporterebbe non solo una palese violazione della lettera e
della ratio della disposizione normativa, ma altresì una
lesione del principio di ragionevolezza ed uguaglianza.
In secondo luogo, ritiene il Tribunale di condividere
la lettura interpretativa fornita dall’Anac, secondo cui
l’art. 46, comma 1-ter, citato consente di regolarizzare gli
elementi e le dichiarazioni prescritti dalla legge, dal
bando o dal disciplinare di gara, la cui assenza o
irregolarità sotto la previgente disciplina avrebbe
determinato l’esclusione dalla gara.
Il carattere dell’essenzialità dell’irregolarità, quindi, è
da individuarsi “in applicazione della disciplina sulla
cause tassative di esclusione”, nel senso che esso ricorre
quando le irregolarità attengono a dichiarazioni ed elementi
che, precedentemente all’introduzione della nuova
disciplina, avrebbero giustificato l’esclusione dalla
procedura di gara.
--------------
2. Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto per le
seguenti ragioni.
2.1. Oggetto di gravame sono: il provvedimento n. 5669 del
2015, con cui la Asl di Teramo ha applicato alla società
ricorrente la sanzione pecuniaria di cui all’art. 38, comma
2-bis, e all’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del
2006, a causa della mancata dimostrazione, da parte della
concorrente, del possesso della certificazione del sistema
di qualità UNI CEI ISO 9000 che, ai sensi dell’art. 75,
comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, le avrebbe consentito
di avvalersi del beneficio della riduzione del 50% della
cauzione provvisoria, considerando detta irregolarità
essenziale, il provvedimento n. 582371 del 2015 che ha
confermato l’applicazione della sanzione pecuniaria di cui
si è detto, il provvedimento n. 58251 del 2015 con cui la
Stazione appaltante ha conseguentemente escusso la polizza
Carige ed infine il provvedimento n. 58582 del 2015 con cui,
a seguito del deposito da parte della concorrente dei
documenti e delle dichiarazioni mancanti, è stata riammessa
in gara.
Con un gruppo di censure, parte ricorrente ha denunciato
violazione di legge ed eccesso di potere, in quanto
l’irregolarità riscontrata dalla Stazione appaltante non
sarebbe essenziale e, quindi, non avrebbe dovuto portare
all’irrogazione della sanzione di cui all’art. 38, comma
2-bis, e all’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del
2006.
Ed invero, la Stazione appaltante ha riscontrato, con la
nota n. 5669 del 2015, tra l’altro, una violazione dell’art.
10, lett. B), punto 5, del disciplinare di gara e,
precisamente, una non regolare costituzione della cauzione
provvisoria a garanzia di offerta, secondo quanto disposto
dall’art. 75 del d.lgs. n. 163 del 2006. L’importo della
polizza fideiussoria presentata, infatti, era inferiore del
50% rispetto a quanto previsto dalla legge di gara e non
risultava documentato il possesso della certificazione del
sistema di qualità UNI CEI ISO 9000 che, ai sensi dell’art.
75, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, avrebbe consentito
di avvalersi del beneficio della riduzione del 50% della
cauzione provvisoria.
Ad avviso della Stazione appaltante, questa irregolare
costituzione della cauzione provvisoria giustificava
l’attivazione del soccorso istruttorio e l’irrogazione della
sanzione di cui agli artt. 38, comma 2 bis, e 46, comma
1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006.
La sollevata censura pone il problema interpretativo di
stabilire cosa debba intendersi per “irregolarità
essenziale”, ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis, del
d.lgs. n. 163 del 2006.
2.2. Ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163
del 2006, come modificato inserito dall'art. 39, comma 1,
D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla
L. 11.08.2014, n. 114, “La mancanza, l'incompletezza e
ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle
dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il
concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore
della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno
per mille e non superiore all'uno per cento del valore della
gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui
versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal
caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un
termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie,
indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere.
Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza
o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la
stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né
applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del
termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso
dalla gara (…)”.
L’art. 46, comma 1-ter, del medesimo testo normativo,
anch’esso aggiunto dall'art. 39, comma 2, D.L. 24.06.2014,
n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014,
n. 114, stabilisce che “Le disposizioni di cui articolo
38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità degli elementi e delle
dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere
prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al
disciplinare di gara”.
L'art. 39 del D.L. n. 90 del 2014, insomma, per le sole
procedure bandite dopo la sua entrata in vigore, ha inserito
il comma 2-bis all'art. 38 e il comma 1-ter all’art. 46 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, introducendo –come si è visto–
una sanzione pecuniaria per la mancanza, l'incompletezza e
ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni
sostitutive, obbligando la stazione appaltante ad assegnare
al concorrente un termine non superiore a dieci giorni per
la produzione o l'integrazione delle dichiarazioni carenti e
imponendo l'esclusione nel solo caso di inosservanza di tale
ultimo adempimento. In tal modo si è profondamente inciso il
regime normativo delle dichiarazioni richieste ai fini
dell'ammissione in gara. Il nuovo quadro normativo, infatti,
è chiaramente orientato alla dequalificazione delle
irregolarità dichiarative da fattori escludenti a carenze
regolarizzabili o sanzionabili in via pecuniaria, soluzione
questa che punta ad appurare il più possibile l'effettiva
titolarità dei requisiti richiesti, senza vanificare o
stravolgere l'esito della gara in ragione di mere carenze
formali (Tar Valle d’Aosta, n. 25 del 2015).
Le modifiche introdotte risultano, peraltro, finalizzate a
superare le incertezze interpretative e applicative del
combinato disposto degli artt. 38 e 46 del d.lgs. n. 163 del
2006, mediante la procedimentalizzazione del potere di
soccorso istruttorio (che diventa doveroso per ogni ipotesi
di mancanza o di irregolarità delle dichiarazioni
sostitutive) e la configurazione dell'esclusione dalla
procedura come sanzione unicamente legittimata dall'omessa
produzione, integrazione o regolarizzazione delle
dichiarazioni carenti entro il termine assegnato dalla
stazione appaltante (e non più da carenze originarie)
(C.d.S. n. 5890 del 2014).
Come chiarito in giurisprudenza, la nuova disposizione “offre,
quale indice ermeneutico, l'argomento della chiara volontà
del legislatore di evitare (nella fase del controllo delle
dichiarazioni e, quindi, dell'ammissione alla gara delle
offerte presentate) esclusioni dalla procedura per mere
carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta
delle dichiarazioni), di imporre un'istruttoria veloce, ma
preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni
(prima della valutazione dell'ammissibilità della domanda),
e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza
della sola inosservanza, da parte dell'impresa concorrente,
all'obbligo di integrazione documentale (entro il termine
perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante)”
(C.d.S. n. 5890 del 2014).
Come chiarito anche dall’Anac, nella determinazione n. 1 del
2015, “La nuova previsione, dunque, esclusivamente per i
casi della mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al comma 2, prevede l’obbligo del concorrente di
pagare, in favore della stazione appaltante, la sanzione
pecuniaria stabilita dal bando di gara, il cui versamento è
garantito dalla cauzione provvisoria, e ciò, è da ritenere,
solamente al fine di poter integrare e regolarizzare le
relative omissioni e/o carenze. L’esclusione del concorrente
dalla gara, invece, sarà disposta dalla stazione appaltante
esclusivamente a seguito dell’inutile decorso del termine
assegnato ai fini della regolarizzazione (cioè senza che il
concorrente integri o regolarizzi le dichiarazioni carenti o
irregolari).
La finalità della disposizione è sicuramente quella di
evitare l’esclusione dalla gara per mere carenze documentali
-ivi compresa anche la mancanza assoluta delle
dichiarazioni- imponendo a tal fine un’istruttoria veloce ma
preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni,
prima della valutazione dell’ammissibilità dell’offerta o
della domanda, e di autorizzare la sanzione espulsiva quale
conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa
concorrente, all’obbligo di integrazione documentale entro
il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione
appaltante (in tal senso, Ad. Pl. Cons. St. n. 16/2014
cit.).
Sulla base di tale disposizione, pertanto, ai fini della
partecipazione alla gara, assume rilievo l’effettiva
sussistenza dei requisiti di ordine generale in capo ai
concorrenti e non le formalità né la completezza del
contenuto della dichiarazione resa a dimostrazione del
possesso dei predetti requisiti. Si conferma in tal modo
l’orientamento giurisprudenziale a tenore del quale occorre
dare prevalenza al dato sostanziale (la sussistenza dei
requisiti) rispetto a quello formale (completezza delle
autodichiarazioni rese dai concorrenti) e, dunque,
l’esclusione dalla gara potrà essere disposta non più in
presenza di dichiarazione incompleta, o addirittura omessa,
ma esclusivamente nel caso in cui il concorrente non
ottemperi alla richiesta della stazione appaltante ovvero
non possieda, effettivamente, il requisito.
Sotto tale profilo, la novella in esame sembra finalizzata,
altresì, alla deflazione del contenzioso derivante da
provvedimenti di esclusione dalle gare d’appalto, per vizi
formali –cui non corrisponda l’interesse sostanziale alla
reale affidabilità del concorrente– sulle dichiarazioni rese
dai partecipanti, con conseguente possibile riduzione dei
casi di annullamento e di sospensione dei provvedimenti di
aggiudicazione, ciò che, peraltro, si desume dalla
collocazione dello stesso art. 39, nel Titolo IV del d.l.
90/2014 conv. in l. 114/2014, dedicato alle «misure per lo
snellimento del processo amministrativo e l’attuazione del
processo civile telematico», come sopra già accennato”.
2.3. Tanto premesso in termini generali, osserva il Collegio
che l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2015 non
specifica alcunché in ordine al concetto di essenzialità
delle irregolarità, lasciando alle singole Stazioni
appaltanti il compito di individuare i casi nei quali è
consentita la produzione, l’integrazione e la
regolarizzazione degli elementi e delle dichiarazioni di cui
all’art. 38, commi 1 e 2, ovvero degli altri requisiti di
partecipazione ai sensi dell’estensione operata dal comma
1-ter dell’art. 46, secondo cui “le disposizioni di cui
all'articolo 38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di
mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e
delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono
essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando
o al disciplinare di gara”.
Come chiarito dall’Anac nella determinazione n. 1 del 2015,
“è ragionevole ritenere che, con la nozione di
irregolarità essenziale, il legislatore abbia voluto
riferirsi ad ogni irregolarità nella redazione della
dichiarazione, oltre all’omissione e all’incompletezza, che
non consenta alla stazione appaltante di individuare con
chiarezza il soggetto ed il contenuto della dichiarazione
stessa, ai fini dell’individuazione dei singoli requisiti di
ordine generale che devono essere posseduti dal concorrente
e, in alcuni casi, per esso dai soggetti specificamente
indicati dallo stesso art. 38, comma 1, del Codice.
Tale interpretazione si desume, oltre che dalla ratio
sottesa alla norma –che, peraltro, nel prevedere una
specifica sanzione pecuniaria, intende realizzare
l’obiettivo di evitare che a fronte della generale
sanabilità delle carenze e delle omissioni, gli operatori
siano indotti a produrre dichiarazioni da cui non si evinca
il reale possesso dei singoli requisiti generali e l’esatta
individuazione dei soggetti che devono possederli
anche da un dato testuale della medesima, che assume maggior
pregnanza da una lettura sistematica dei primi due periodi
del citato comma 2-bis.
Infatti, nel secondo periodo della norma appena richiamata è
espressamente stabilito che nei casi di irregolarità
essenziale «la stazione appaltante assegna al concorrente un
termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie,
indicandone il contenuto e i soggetti che le devono
rendere». L’espresso riferimento al contenuto delle
dichiarazioni ed ai soggetti che le devono prestare, rende
palese l’intento del legislatore di estendere l’applicazione
della norma a tutte le carenze –in termini di omissioni,
incompletezze e irregolarità– riferite agli elementi ed alle
dichiarazioni di cui all’art. 38 nonché agli aspetti
relativi all’identificazione dei centri di imputabilità
delle dichiarazioni stesse”.
In conclusione, ad avviso dell’Anac, “le carenze
essenziali riguardano l’impossibilità di stabilire se il
singolo requisito contemplato dal comma 1 dell’art. 38 sia
posseduto o meno e da quali soggetti (indicati dallo stesso
articolo). Ciò che si verifica nei casi in cui:
a. non sussiste dichiarazione in merito ad una specifica
lettera del comma 1 dell’art. 38 del Codice;
b. la dichiarazione sussiste ma non da parte di uno dei
soggetti o con riferimento ad uno dei soggetti che la norma
individua come titolare del requisito;
c. la dichiarazione sussiste ma dalla medesima non si evince
se il requisito sia posseduto o meno”.
Con specifico riferimento all’art. 46, comma 1-ter, del
d.lgs. n. 163 del 2006, poi, la determinazione n. 1 del 2015
sottolinea come “la novella normativa introdotta
dall’art. 39 del d.l. 90/2014 conv. in l. 114/2014, con
riferimento alle previsioni di cui all’art. 46 del Codice,
determini un superamento dei principi [giurisprudenziali],
comportando un’inversione radicale di principio; inversione
in base alla quale è generalmente sanabile qualsiasi
carenza, omissione o irregolarità, con il solo limite
intrinseco dell’inalterabilità del contenuto dell’offerta,
della certezza in ordine alla provenienza della stessa, del
principio di segretezza che presiede alla presentazione
della medesima e di inalterabilità delle condizioni in cui
versano i concorrenti al momento della scadenza del termine
per la partecipazione alla gara”.
Poiché il comma 1-ter citato stabilisce che le disposizioni
dell’art. 38, comma 2-bis, si applicano ad ogni ipotesi di
mancanza, di incompletezza o di irregolarità degli elementi
e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono
essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando
o al disciplinare di gara, può ben ritenersi che “sia
consentito in sede di gara procedere alla sanatoria di ogni
omissione o incompletezza documentale, superando
l’illustrato limite della sola integrazione e
regolarizzazione di quanto già dichiarato e prodotto in
gara. Inoltre, il riferimento ivi contenuto anche agli
elementi e non solo alle dichiarazioni, consente
un’estensione dell’istituto del soccorso istruttorio a tutti
i documenti da produrre in gara, in relazione ai requisiti
di partecipazione ma non anche per supplire a carenze
dell’offerta”.
Ad avviso dell’Anac, “la novella in esame [ha] sì
confermato le fattispecie ascrivibili alla categoria delle
cause tassative di esclusione (l’art. 39 del d.l. 90/2014
non interviene, infatti, sui commi 1 e 1-bis dell’art. 46)
ma, operando “a valle” di tale individuazione, consent[e],
ora, che siano resi, integrati o regolarizzati (nella fase
iniziale della gara) anche gli elementi e le dichiarazioni
(anche di terzi) prescritti dalla legge, dal bando o dal
disciplinare di gara, la cui assenza o irregolarità sotto la
previgente disciplina determinavano l’esclusione dalla gara
(si tratta di ipotesi, evidentemente, ulteriori rispetto
alle dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, del Codice).
Pertanto, ove vi sia un’omissione, incompletezza,
irregolarità di una dichiarazione con carattere
dell’essenzialità –da individuarsi come tale in applicazione
della disciplina sulla cause tassative di esclusione– la
stazione appaltante non potrà più procedere direttamente
all’esclusione del concorrente ma dovrà avviare il
procedimento contemplato nell’art. 38, comma 2-bis del
Codice, volto alla irrogazione della sanzione pecuniaria ivi
prevista ed alla sanatoria delle irregolarità rilevate”.
Insomma, “le irregolarità essenziali, ai fini di quanto
previsto dall’art. 38, comma 2-bis, coincidono con le
irregolarità che attengono a dichiarazioni ed elementi
inerenti le cause tassative di esclusione (come individuate
nella determinazione n. 4/2012), previste nel bando, nella
legge o nel disciplinare di gara, in ordine alle quali non è
più consentito procedere ad esclusione del concorrente prima
della richiesta di regolarizzazione da parte della stazione
appaltante –fatta eccezione per quelli che afferiscono
all’offerta nei termini sopra indicati- come specificato nei
successivi paragrafi”.
Ritiene il Collegio che questa interpretazione sia
condivisibile, sotto un duplice profilo.
In primo luogo, contrariamente a quanto dedotto dalla
Stazione appaltante, anche ai fini dell’art. 46, comma
1-ter, citato assume rilievo la nozione di “irregolarità
essenziale”: la norma in esame, infatti, si limita ad
estendere le disposizioni di cui art. 38, comma 2-bis, del
d.lgs. n. 162 del 2006 ad ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità degli elementi e delle
dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere
prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al
disciplinare di gara.
L’intera disposizione di cui all’art. 38, comma 2-bis –e
quindi anche la distinzione tra irregolarità essenziali, che
impongono il soccorso istruttorio e l’applicazione della
sanzione pecuniaria, e irregolarità non essenziali, a fronte
delle quali invece nessuna integrazione o regolarizzazione
documentale può essere chiesta dalla Stazione appaltante né
alcuna sanzione può essere irrogata– trova pertanto
applicazione alle carenze ed omissioni relative ai requisiti
di partecipazione diversi da quelli di ordine generale.
Non può certo ritenersi, infatti, che per essi sia previsto
un regime diverso e più rigoroso, che imponga alla Stazione
appaltante di procedere al soccorso istruttorio e di
irrogare la sanzione pecuniaria per qualsiasi tipo di
irregolarità, ovvero anche per quelle non essenziali. Ciò
comporterebbe non solo una palese violazione della lettera e
della ratio della disposizione normativa, ma altresì
una lesione del principio di ragionevolezza ed uguaglianza.
In secondo luogo, ritiene il Tribunale di condividere
la lettura interpretativa fornita dall’Anac, secondo cui
l’art. 46, comma 1-ter, citato consente di regolarizzare gli
elementi e le dichiarazioni prescritti dalla legge, dal
bando o dal disciplinare di gara, la cui assenza o
irregolarità sotto la previgente disciplina avrebbe
determinato l’esclusione dalla gara. Il carattere
dell’essenzialità dell’irregolarità, quindi, è da
individuarsi “in applicazione della disciplina sulla
cause tassative di esclusione”, nel senso che esso
ricorre quando le irregolarità attengono a dichiarazioni ed
elementi che, precedentemente all’introduzione della nuova
disciplina, avrebbero giustificato l’esclusione dalla
procedura di gara.
Nel caso di specie, l’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n.
163 del 2006 è stato applicato dalla Asl di Teramo, con
conseguente attivazione del soccorso istruttorio e
irrogazione della relativa sanzione pecuniaria, a causa
dell’irregolare costituzione della cauzione provvisoria a
garanzia dell’offerta: l’importo della polizza fideiussoria
presentata, infatti, è inferiore del 50% rispetto a quanto
previsto dall’art. 10, lett. B), punto 5, del disciplinare
di gara e non risulta documentato il possesso della
certificazione del sistema di qualità UNI CEI ISO 9000 che,
ai sensi dell’art. 75, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006,
avrebbe consentito di avvalersi del beneficio della
riduzione del 50% della cauzione provvisoria.
Tuttavia, osserva il Collegio che, secondo la costante
giurisprudenza amministrativa, in applicazione del principio
di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall'art.
46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, la
presentazione di una cauzione provvisoria affetta da
irregolarità non costituisce causa di esclusione dalla gara.
Ciò in quanto l'art. 75, commi 1 e 6, del d.lgs. 163 del
2006, che prescrive l'obbligo di corredare l'offerta di una
garanzia pari al 2 % del prezzo base indicato nel bando o
nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a
scelta dell'offerente, a garanzia della serietà dell'impegno
di sottoscrivere il contratto e quale liquidazione
preventiva e forfettaria del danno in caso di mancata
stipula per fatto dell'affidatario, non prevede alcuna
sanzione di inammissibilità dell'offerta o di esclusione del
concorrente per l'ipotesi di irregolarità della cauzione
provvisoria, a differenza di quanto prevede, invece, il
comma 8 dello stesso art. 75, con riferimento alla garanzia
fideiussoria del 10% dell'importo contrattuale per
l'esecuzione del contratto, qualora l'offerente risultasse
affidatario (Tar Bolzano, n. 145 del 2015).
Ne consegue che le irregolarità concernenti la cauzione
provvisoria comunque prestata nei termini previsti dalla "lex
specialis" non possono condurre all'esclusione dalla
competizione, dovendosi far luogo alla loro regolarizzazione
(Cons. Stato, n. 4764 del 2015; Cons. Stato, n. 147 del
2015).
Nel caso di specie, la cauzione provvisoria è stata prestata
dalla società ricorrente, ancorché in misura ridotta del 50%
rispetto a quanto prescritto dal disciplinare di gara: ciò
perché la concorrente era in possesso della certificazione
del sistema di qualità UNI CEI ISO 9000 che, ai sensi
dell’art. 75, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, le
consentiva appunto di avvalersi del beneficio della
riduzione del 50%.
L’unica irregolarità in cui è incorsa la società ricorrente
è stata quella del mancato deposito di detta certificazione
che, tuttavia, ella possedeva e che, afferendo al più alla
irregolare costituzione della cauzione provvisoria a
garanzia dell’offerta, non può considerarsi, per quanto
sopra detto, di carattere essenziale. Non si tratta,
infatti, di omissione nella produzione documentale, a fronte
della quale, prima della novella del 2014, la Stazione
appaltante avrebbe potuto comminare l’esclusione dalla
procedura di gara.
Ne consegue che la Stazione appaltante non poteva, a fronte
di detta omessa produzione, irrogare la sanzione pecuniaria
di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del
d.lgs. n. 163 del 2006, trattandosi appunto di irregolarità
non essenziale (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 17.12.2015
n. 833 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire.
Si è in presenza di "varianti
essenziali" al permesso di costruire (e non già in presenza
di un'ipotesi di "difformità totale") laddove le prime sono
caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il
progetto edificatorio originario rispetto ai parametri
indicati dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate
da un consistente, nei termini e
nelle percentuali individuate dalla legge regionale, aumento
della superficie utile lorda e della cubatura assentite, e
dal regolamento edilizio.
---------------
In materia urbanistica, la nozione di variazione essenziale
dal permesso di costruire costituisce una tipologia di abuso
intermedia tra la difformità totale e quella parziale,
sanzionata dall'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
Pertanto non rileva nella fattispecie la novella ex art. 17,
comma 1, lett. n) decreto-legge 12.09.2014, n. 133,
convertito in legge 11.11.2014, n. 164 che, tra l'altro,
nell'affermare che il mutamento della destinazione d'uso
all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito, fa salve, in ogni caso, le diverse previsioni da
parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici
comunali, pacificamente disattese nel caso di specie e la
cui violazione trova presidio proprio nella fattispecie ex
art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 che
punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle norme,
prescrizioni e modalità esecutive previste dai regolamenti
edilizi nonché dalla normativa urbanistica statale e
regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n. 380 del
2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
----------------
2. L'inammissibilità del primo motivo di ricorso deriva dal
fatto che esso è del tutto disarticolato rispetto alle
ragioni della decisione.
Il tribunale non ha infatti ritenuto che gli abusi fossero
consistiti in una modificazione della destinazione d'uso
tale da determinare un'ipotesi di difformità totale ma
esclusivamente in una "variazione essenziale" al
permesso di costruire e alle successive varianti, avendo
affermato che sono state disattese le norme, di cui
all'articolo 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e di cui all'articolo
6 L.R. Piemonte n. 56 del 1977 e successive modifiche in
quanto dagli interventi è derivato un aumento di entità
superiore al 5% della superficie utile lorda e della
volumetria, oltre ad essere state disattese le previsioni di
cui all'articolo 20, comma 2, lett. d), del regolamento
edilizio (al piano interrato -destinato a locale di
sgombero/cantina/deposito- erano stati realizzati locali con
caratteristica di finiture di civile abitazione ed in
particolare un locale taverna dotato di forno pizza, tavolo
frigorifero, cronotermostato ed un locale camera arredata
con letto matrimoniale addossato alla parete ed un locale
sauna-idromassaggio attrezzato con vasca idromassaggio e
sauna, oltre a un locale deposito, ufficio, relax e locale
tecnico ospitante gli impianti tecnologici) nonché
dell'articolo 20, comma 2, lett. e) del regolamento edilizio
(al primo piano (sottotetto) si constatava l'accorpamento di
tutta la manica di "sottotetto non accessibile" alla
camera e al bagno con conseguente incremento di superficie
utile lorda ed inoltre l'incremento dell'altezza del colmo
della falda di copertura al lato nordovest con maggiore
altezza interna dei locali in misura eccedente il progetto
autorizzato).
Il tribunale ha osservato che si è, nel
caso di specie, in presenza di "varianti essenziali"
al permesso di costruire (e non già in presenza di
un'ipotesi di "difformità totale") caratterizzate da
incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati
dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate da un
consistente, nei
termini e nelle percentuali individuate dalla legge
regionale, aumento della superficie utile
lorda e della cubatura assentite, e dal regolamento
edilizio.
Nel pervenire a tale conclusione, il tribunale si è attenuto
alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale,
in materia urbanistica, la nozione di
variazione essenziale dal permesso di costruire costituisce
una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e
quella parziale, sanzionata dall'art. 44, lett. a), del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Sez. 3, n. 41167 del 17/04/2012, Ingrosso, Rv. 253599).
Pertanto non rileva nella fattispecie la
novella ex art. 17, comma 1, lett. n), decreto-legge
12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164
che, tra l'altro, nell'affermare che il mutamento della
destinazione d'uso all'interno della stessa categoria
funzionale è sempre consentito, fa salve, in ogni caso, le
diverse previsioni da parte delle leggi regionali e degli
strumenti urbanistici comunali, pacificamente disattese nel
caso di specie e la cui violazione trova presidio proprio
nella fattispecie ex art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n.
380 del 2001 che punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle
norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dai
regolamenti edilizi nonché dalla normativa urbanistica
statale e regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n.
380 del 2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
Né, in presenza di una definizione del processo con il rito
abbreviato e dunque allo stato degli atti, la ricorrente può
reclamare il mancato accesso -peraltro del tutto discutibile
in considerazione dei risultati probatori conseguiti come in
precedenza segnalati e del tutto sottovalutati con
l'articolazione della doglianza- ad alternative istruttorie
o a sospensioni del processo in attesa di una sanatoria o di
una regolarizzazione degli abusi
(tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.12.2015 n. 49583). |
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totale.
La giunta municipale non può deliberare un generico divieto
di installazione assoluta di cartelli pubblicitari sul suolo
demaniale. In questo modo infatti il comune inibisce
arbitrariamente qualsiasi attività imprenditoriale lecita.
Lo ha chiarito il TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, con la
sentenza 15.12.2015 n. 556.
Il comune di Tavagnacco ha rigettato la domanda di rinnovo
di un impianto pubblicitario per contrasto della richiesta
con una sopravvenuta deliberazione della giunta che nel
fissare le linee guida per l'installazione degli impianti
pubblicitari ne vieta la posa su tutto il territorio, al di
fuori degli impianti specificamente adibiti alle pubbliche
affissioni.
Contro questa determinazione di rifiuto l'interessato ha
proposto con successo ricorso ai giudici amministrativi.
La giunta comunale non può arbitrariamente fissare un
divieto generico e assoluto di installazione di impianti
pubblicitari. L'amministrazione locale deve infatti
comparare i diversi interessi coinvolti e valutare caso per
caso le determinazioni più opportune. Le linee guida della
giunta non possono sostituirsi ai regolamenti e non possono
impedire in maniera totale le installazioni pubblicitarie
(articolo ItaliaOggi del
05.01.2016).
---------------
MASSIMA
6.1. Il primo motivo di impugnazione è infondato.
Il rinnovo dell’autorizzazione è stato correttamente
assoggettato alle linee guida assunte dalla deliberazione di
Giunta medio tempore approvata.
Invero, il rinnovo è pur sempre un nuovo
provvedimento autorizzatorio e non un atto meramente
conformativo, conseguentemente esso è adottato all’esito di
una aggiornata ponderazione degli interessi coinvolti e di
un nuovo apprezzamento della situazione fattuale, nonché
sulla scorta della normativa vigente in quel momento,
secondo il principio del tempus regit actum (cfr.,
ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2356/2015).
Diversamente, infatti, si finirebbe, da un lato, per
attribuire ultravigenza a una disciplina oramai abrogata, e,
dall’altro lato, per limitare fortemente la potestà
normativa del Comune, consentendogli di incidere
esclusivamente sugli impianti pubblicitari di nuova
installazione, e non anche su quelli in passato già
autorizzati.
6.2.1. Conformemente al criterio ermeneutico di
conservazione, le linee guida contenute nella richiamata
deliberazione giuntale devono intendersi come applicabili
alle sole ipotesi in cui la competenza al rilascio
dell’autorizzazione sia comunale, con esclusione, quindi,
delle ipotesi in cui tale competenza spetti ad altra
Autorità.
6.2.2. Di contro, come già osservato da questo Tribunale in
sede cautelare, la deliberazione giuntale
impugnata è illegittima per aver fissato un divieto generico
e assoluto di installazione di cartelli pubblicitari su
suolo demaniale
(cfr., TAR Veneto, Sez. III, sentenza n. 339/2006; TAR
Toscana, Sez. I, sentenza n. 404/1998): è pertanto fondato,
in parte qua, il secondo motivo di impugnazione.
Invero, a fronte di un’attività
imprenditoriale lecita, quale quella in esame,
l’Amministrazione deve valutare caso per caso, nella
comparazione dei diversi interessi coinvolti, ivi compreso
quello alla sicurezza e fluidità della circolazione
stradale, e quello al decoro urbano e all’armonico utilizzo
del territorio, se rilasciare o meno il richiesto
provvedimento ampliativo .
Ben può l’organo di governo dell’Ente fornire delle linee
guida alla struttura burocratica, purché si tratti di
indirizzi di massima e che comunque non impediscano
totalmente il rilascio delle autorizzazioni in questione. |
EDILIZIA PRIVATA: E’
ben nota al Collegio la costante affermazione della
giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due titoli,
permesso di
costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti
differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e
l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non
eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso
di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio
dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a
vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio,
nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li
ha sollevati come motivi di censura”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per
cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non
consente di considerare la procedura per il rilascio del
nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento
per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come
bellezze di insieme".
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che
ha avuto modo
di precisare che “ove l'area per la quale si è conseguito il
titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da
altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico,
che, in via generale, non conferisce al bene una condizione
di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento
abilitativo che dipende dall'accertamento di non-
incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si
suole argomentare, correttamente, che in presenza del
vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività
costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di
competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso,
nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela
dei valori culturali e ambientali, alla valutazione
dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega
o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa
autorità comunale per delega della regione.
La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla
qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita
per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove
difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si
sia conseguito il nullaosta da parte dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva
non può dirsi consolidato a favore del proprietario.
L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il Giudice
amministrativo può affermare che il mancato rilascio del
nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della
concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in
zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”;
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo
stabilmente orientata nel ritenere che per costruire in area vincolata non è
sufficiente l’autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche
la concessione edilizia e che laddove l’autorizzazione
manchi la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e
sia integrato il reato di cui all’art. 20, lett. c), legge n.
47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 [di recente: Cassazione
penale sez. III 07/10/2014 n. 952: “i
climatizzatori/condizionatori d'aria costituiscono impianti
tecnologici e, pertanto, se collocati all'esterno dei
fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi
definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, sicché la loro
realizzazione o installazione, seppure non necessitante del
permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione
certificata di inizio di attività (s.c.i.a.) ai sensi
dell'art. 22 d.P.R. cit., non rientrando tra gli interventi
eseguibili senza alcun titolo abilitativo. In ogni caso,
poiché anche l'attività edilizia c.d. libera deve essere
attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in
particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative
all'efficienza energetica nonché delle disposizioni
contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di
cui al d.lgs. n. 42 del 2004, ne consegue che ove
l'installazione di condizionatore (già soggetta a s.c.i.a.)
abbia luogo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, essa
è da ritenersi condizionata anche a nulla-osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando
dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica
l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art.
181 d.lgs. n. 42 del 2004)"];
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più
recente tende ad attenuare il regime di “separatezza”
pervenendo all’affermazione secondo la quale "è legittimo il provvedimento di
annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale
servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le
costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali” (così
configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente
che reale. L’autonomia dei due procedimenti sussiste
certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in
carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida,
ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe
sopravvenire.
---------------
4.4.4. E’ ben nota al Collegio la costante affermazione
della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII,
05.06.2012 sent. 2652) “i due titoli, permesso di
costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti
differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e
l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non
eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso
di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio
dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376;
Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato,
sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a
vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio,
nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li
ha sollevati come motivi di censura”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per
cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non
consente di considerare la procedura per il rilascio del
nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento
per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come
bellezze di insieme" (C.d.S., sez. V, 11.03.1995, n. 376;
C.d.S. Sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
4.4.5. Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che
(Cassazione civile sez. I 07/04/2006 n. 8244) ha avuto modo
di precisare che “ove l'area per la quale si è conseguito il
titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da
altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico,
che, in via generale, non conferisce al bene una condizione
di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento
abilitativo che dipende dall'accertamento di non-
incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si
suole argomentare, correttamente, che in presenza del
vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività
costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di
competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso,
nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela
dei valori culturali e ambientali, alla valutazione
dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega
o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa
autorità comunale per delega della regione.
La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla
qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita
per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove
difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si
sia conseguito il nullaosta da parte dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva
non può dirsi consolidato a favore del proprietario.
L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il Giudice
amministrativo può affermare che il mancato rilascio del
nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della
concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in
zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”;
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo
stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. Pen. Sez. III
23.11.1999) per costruire in area vincolata non è
sufficiente l’autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche
la concessione edilizia e che laddove l’autorizzazione
manchi la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e
sia integrato il reato di cui all’art. 20, lett. c), legge n.
47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 [Cass. Pen. n.
10502/1999, 1093/1998, 6681/1998; di recente: Cassazione
penale sez. III 07/10/2014 n. 952: “i
climatizzatori/condizionatori d'aria costituiscono impianti
tecnologici e, pertanto, se collocati all'esterno dei
fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi
definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, sicché la loro
realizzazione o installazione, seppure non necessitante del
permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione
certificata di inizio di attività (s.c.i.a.) ai sensi
dell'art. 22 d.P.R. cit., non rientrando tra gli interventi
eseguibili senza alcun titolo abilitativo. In ogni caso,
poiché anche l'attività edilizia c.d. libera deve essere
attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in
particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative
all'efficienza energetica nonché delle disposizioni
contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di
cui al d.lgs. n. 42 del 2004, ne consegue che ove
l'installazione di condizionatore (già soggetta a s.c.i.a.)
abbia luogo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, essa
è da ritenersi condizionata anche a nulla-osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando
dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica
l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art.
181 d.lgs. n. 42 del 2004)"];
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più
recente tende ad attenuare il regime di “separatezza”
pervenendo all’affermazione secondo la quale (TAR Roma
(Lazio) sez. II
02/12/2014 n. 12140 “è legittimo il provvedimento di
annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale
servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le
costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali” (così
configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
4.4.6. In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più
apparente che reale.
L’autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in
carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida,
ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe
sopravvenire.
Ove però –per venire alla fattispecie verificatasi nella
presente causa- la concessione edilizia sia stata rilasciata
sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente
se non nominatim (in quanto l’autorizzazione paesaggistica
venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la
autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida,
in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili,
ove l’autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo
progetto posto a supporto della domanda di rilascio del
permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima
dell’inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada –e ciò non è accaduto nella vicenda
in esame, al momento della presentazione del mezzo e durante
il giudizio di primo grado, quantomeno- ci si trova al
cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in
quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: -
TAR Torino –Piemonte- sez. I 07/11/2012 n. 1166 “la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza
di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la
stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati,
finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in
caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori” ma anche) di una concessione
edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso
presupposto dell’avvenuto rilascio –su progetto conferme- di
una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti,
perentorie, affermazioni, di cui a TAR Napoli –Campania-
sez. VI 26.03.2015 n. 1815)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.12.2015 n. 5663 - link a www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
aria e luce sono insufficienti niente abitabilità
dell'alloggio.
E'
legittimo il diniego di rilascio di
certificato di abitabilità laddove risulta che:
- l’unità ha altezza interna pari a metri 2,62. Il piano di
calpestio è posto a circa metri 2 sotto il circostante piano
campagna, la differenza tra la quota del terreno circostante
e l’intradosso del solaio di copertura del locale è circa
cm. 60;
- l’unità immobiliare non ha adeguata e sufficiente
illuminazione ed aerazione naturale diretta in quanto le
finestre non garantiscono il rapporto aeroilluminante minimo
prescritto. La superficie finestrata apribile è inferiore ad
1/8 della superficie del pavimento. La superficie finestrata
apribile risulta rispettivamente del 5% per il locale
cucina–soggiorno, del 5% per la camera da metri quadrati
14,46, del 4% per la camera da metri quadrati 16,24 e del 2%
per la camera da metri quadrati 16,75. Le finestre sono
impostate all’altezza di circa metri 2 dal pavimento;
- l’unità immobiliare posta al piano interrato non consente
la permanenza a fini abitativi di persone, essendo ciò
vietato dall’art. 76 del regolamento edilizio e dall’art. 58
delle istruzioni ministeriali del 20.06.1896 poi
parzialmente modificate dal d.m. 05.07.1975;
- vi è difetto di aria e di luce e non sussistono le
condizioni minime di rispetto dei requisiti
igienico–sanitari e di salubrità dei locali così come
prescritti dall’art. 218 del testo unico delle leggi
sanitarie e dagli artt. 3 e 5 del d.m. 05.07.1975;
- le caratteristiche complessive dell’unità non sono
adeguate alla destinazione d’uso residenziale.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento di diniego di
rilascio di certificato di abitabilità;
...
1. Con il provvedimento impugnato il comune di Venezia ha rigettato
l’istanza di rilascio del certificato di agibilità.
Con precedente provvedimento in data 01.12.2005 era
stata rilasciata concessione edilizia in sanatoria per
cambio d’uso del piano interrato da cantina–magazzino ad
unità residenziale.
Il diniego di cui sopra è motivato in relazione tra l’altro
alle seguenti circostanze:
- l’unità ha altezza interna pari a metri 2,62. Il piano di
calpestio è posto a circa metri 2 sotto il circostante piano
campagna, la differenza tra la quota del terreno circostante
e l’intradosso del solaio di copertura del locale è circa
cm. 60;
- l’unità immobiliare non ha adeguata e sufficiente
illuminazione ed aerazione naturale diretta in quanto le
finestre non garantiscono il rapporto aeroilluminante minimo
prescritto. La superficie finestrata apribile è inferiore ad
1/8 della superficie del pavimento. La superficie finestrata
apribile risulta rispettivamente del 5% per il locale cucina–soggiorno, del 5% per la camera da metri quadrati 14,46,
del 4% per la camera da metri quadrati 16,24 e del 2% per la
camera da metri quadrati 16,75. Le finestre sono impostate
all’altezza di circa metri 2 dal pavimento;
- l’unità immobiliare posta al piano interrato non consente
la permanenza a fini abitativi di persone, essendo ciò
vietato dall’art. 76 del regolamento edilizio e dall’art. 58
delle istruzioni ministeriali del 20.06.1896 poi
parzialmente modificate dal d.m. 05.07.1975;
- vi è difetto di aria e di luce e non sussistono le
condizioni minime di rispetto dei requisiti igienico–sanitari e di salubrità dei locali così come prescritti
dall’art. 218 del testo unico delle leggi sanitarie e dagli
artt. 3 e 5 del d.m. 05.07.1975;
- le caratteristiche complessive dell’unità non sono
adeguate alla destinazione d’uso residenziale.
2. Parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione
dell’art. 35 della legge n. 47 del 1985, eccesso di potere,
travisamento di fatti, difetto di motivazione, carenza
d’istruttoria, erronea valutazione degli elementi fattuali.
Lamenta in particolare che l’art. 35 della legge n. 47 del
1985 consente, ai fini del rilascio del certificato di
abitabilità per manufatti condonati, la deroga ai requisiti
fissati da norme regolamentari, qualora le opere non
contrastino con le disposizioni vigenti in materia di
sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli
infortuni.
La censura è infondata.
Infatti l’amministrazione ha valutato le condizioni di
igiene e salubrità, così come le è imposto di fare dall’art.
24 del testo unico dell’edilizia.
Nel caso di specie non si tratta di semplice contrasto tra
lo stato del sito e le prescrizioni regolamentari, ma di
carenza dei requisiti di igiene e salubrità che devono in
ogni caso sussistere per effetto di disposizioni di legge,
quali l’art. 24 del testo unico dell’edilizia, l’art. 47
della legge n. 47 del 1985, l’art. 218 del testo unico delle
leggi sanitarie.
Con il provvedimento impugnato è stata data congrua
motivazione in relazione alla concomitanza di una pluralità
di elementi di fatto determinante l’insussistenza dei
requisiti di igiene e salubrità.
Tali elementi di fatto sono dati dall’altezza interna, dalla
differenza tra la quota del terreno circostante e
l’intradosso del solaio di copertura del locale,
dall’insufficiente apporto di aria e luce dato dalle
finestre.
3. Parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione
della legge regionale n. 12 del 1999, eccesso di potere,
carenza di motivazione, errore e illogicità manifesta.
Lamenta in particolare che il mancato rispetto dell’altezza
media di metri 2,70 nonché della superficie finestrata
apribile di almeno un ottavo della superficie di pavimento
di cui al d.m. del 1975 non costituiscono carenze tali da
determinare necessariamente la violazione delle norme
igieniche e sanitarie.
Sotto tale profilo dovrebbe essere
considerata la legge regionale n. 12 del 1999 che fissa le
condizioni e i limiti per il recupero a fini abitativi dei
sottotetti esistenti alla data del 31.12.1998, tra cui
l’altezza utile media di almeno metri 2,40 per i locali
adibiti ad abitazione ed un rapporto illuminante pari ad
almeno un sedicesimo della superficie di pavimento.
La censura è infondata perché nel caso di specie non si
tratta di un sottotetto, ma di un piano interrato. La legge
regionale n. 12 del 1999 prevede disposizioni eccezionali di
deroga delle norme generali, che in quanto tali non possono
essere applicate fuori dei casi considerati (art. 14 delle preleggi).
4. Parte ricorrente lamenta carenza e contraddittorietà
della motivazione e insussistenza di una lesione al diritto
alla salute. Lamenta in particolare che la legge non detta
nessuna prescrizione in materia di altezza media e/o di
dimensioni della superficie finestrata, limitandosi a
stabilire che non vi sia difetto di luce e di aria.
La censura è infondata.
L’amministrazione ha infatti svolto un congruo e motivato
giudizio, sulla base di una pluralità di elementi di fatto,
giungendo alla conclusione che vi è difetto di luce e di
aria tale per cui verrebbe arrecato un pregiudizio alla
salute se gli ambienti fossero abitabili.
5. Parte ricorrente lamenta violazione degli articoli 10 e
11 della legge n. 15 del 2005, eccesso di potere per difetto
e carenza di motivazione. Lamenta in particolare che
l’amministrazione non ha valutato la possibilità di disporre
prescrizioni al fine di rendere abitabili gli ambienti.
La censura è infondata, dovendo l’amministrazione valutare
l’abitabilità dei locali sulla base dello stato di fatto
esistente.
In conclusione il ricorso è infondato (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.12.2015 n. 1326 - link a
www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina
delle costruzioni in zone sismiche: “Non conta la natura
dei materiali impiegati”.
Cassazione: è irrilevante anche l'eventuale natura precaria
dell'intervento.
Le specifiche finalità della disciplina
delle costruzioni in zone sismiche hanno determinato “la
previsione di un rigoroso regime autorizzatorio (articolo
93) che impone, a chiunque intenda procedere ad interventi
in tali zone, di darne preavviso scritto allo sportello
unico che, a sua volta, provvede alla trasmissione al
competente ufficio tecnico regionale.
La speciale disciplina si applica a tutte le costruzioni, la
cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica
incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la
sismicità”.
Lo rammenta la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 11.12.2015 n. 48950.
“Dal contenuto delle disposizioni che regolano la materia
si rileva come il loro ambito di applicazione sia
particolarmente esteso, riferendosi non solo alla
costruzione dei nuovi edifici, ma anche ad interventi su
manufatti già esistenti, in ordine ai quali si prendono in
esame le sopraelevazioni (articolo 90) e le riparazioni
(articolo 91)”, osserva la suprema Corte.
IRRILEVANTE LA NATURA DEI MATERIALI
IMPIEGATI E DELLE RELATIVE STRUTTURE.
“Del tutto inconferente, ai fini dell'applicazione della
disciplina, è stata ritenuta la natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni che
regolano la materia hanno una portata particolarmente ampia,
perché finalizzate alla tutela dell'incolumità pubblica e
devono, quindi, applicarsi a “tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità"
a nulla rilevando, appunto, la natura dei materiali
impiegati e delle relative strutture.
Altrettanto irrilevante –aggiunge la Cassazione- è la
eventuale natura precaria dell'intervento, attesa la natura
formale dei relativi reati ed il fine di consentire il
controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione
di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente ricordare, per quanto attiene al
primo motivo di ricorso, come l'articolo 20 della Legge
Regionale 16.04.2003 n. 4 stabilisca che, in deroga ad ogni
altra disposizione normativa, non sono soggette a
concessione o autorizzazione né sono considerate aumento di
superficie utile o di volume né modifica della sagoma della
costruzione, la chiusura di terrazze di collegamento e/o la
copertura di spazi interni con strutture precarie, ferma
restando l'acquisizione preventiva del nulla osta da parte
della Soprintendenza dei beni culturali ed ambientali nel
caso di immobili soggetti a vincolo.
In tali casi, contestualmente all'inizio dei lavori, il
proprietario dell'unità immobiliare deve limitarsi a
presentare al sindaco una relazione a firma di un
professionista abilitato alla progettazione, che asseveri le
opere da compiersi ed il rispetto delle norme di sicurezza e
delle norme urbanistiche, nonché di quelle
igienico-sanitarie vigenti ed a versare a favore del comune
un determinato importo per ogni metro quadro di superficie
sottoposta a chiusura con struttura precaria.
Tali disposizioni sono applicabili anche alla chiusura di
verande o balconi con strutture precarie, come previsto
dall'articolo 9 della legge regionale 10.08.1985, n. 37.
Ai fini dell'applicazione delle richiamate disposizioni il
medesimo articolo precisa, al comma 4, che sono da
considerare strutture precarie tutte quelle realizzate in
modo tale da essere suscettibili di facile rimozione, mentre
si definiscono verande tutte le chiusure o strutture
precarie come sopra realizzate, relative a qualunque
superficie esistente su balconi, terrazze e anche tra
fabbricati. Alle verande sono assimilate le altre strutture,
aperte almeno da un lato, quali tettoie, pensiline, gazebo
ed altre ancora, comunque denominate, la cui chiusura sia
realizzata con strutture precarie, sempreché ricadenti su
aree private.
La disposizione in esame consente anche, a determinate
condizioni, la regolarizzazione delle opere della stessa
tipologia già realizzate.
2. Dei rapporti tra la summenzionata disciplina regionale e
la normativa statale contenuta nel D.p.r. 380/2001 si è
ripetutamente occupata la giurisprudenza di questa Corte.
Si è così avuto modo di chiarire che, in ogni caso, le
disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare
i principi generali fissati dalla legislazione nazionale e,
conseguentemente, devono essere interpretate in modo da non
collidere con i detti principi (Sez. 3, n. 28560 del
26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 2017 del
25/10/2007 (dep. 2008), Giangrasso, Rv. 238555; Sez. 3, n.
33039 del 15/06/2006, RM. in proc. Moltisanti, Rv. 234935.
Conf., ma con riferimento ad altre disposizioni normative
della Regione siciliana, Sez. 3, n. 4861 del 09/12/2004
(dep. 2005), Garufi, Rv. 230914; Sez. 3, n. 6814 del
11/01/2002, Castiglia V, Rv. 221427).
Con specifico riferimento alla individuazione in via di
eccezione, ad opera della Legge regionale 4/2003, di opere
precarie non soggette a permesso di costruire, si è
osservato che il legislatore regionale ha privilegiato il "criterio
strutturale", considerando la circostanza che le parti
di cui la costruzione si compone siano facilmente
rimovibili, in luogo di quello "funzionale", relativo
all'uso realmente precario e temporaneo cui la costruzione è
destinata e che dette disposizioni non possono trovare
applicazione al di fuori dei casi in esse espressamente
previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi e altro,
Rv. 261156; Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv.
246771; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv.
237533).
Si è infine specificato, come pure ricordato in ricorso, che
la legislazione regionale in disamina è applicabile con
riferimento alla sola disciplina urbanistica, restando
quindi sottratta quella relativa alla disciplina edilizia
antisismica e quella per le costruzioni in conglomerato
cementizio armato, le quali attengono alla sicurezza statica
degli edifici, rientrante nella competenza esclusiva dello
Stato ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, Cost., con
la conseguenza che dette opere continuano ad essere soggette
ai controlli preventivi previsti dalla legislazione
nazionale (Sez. 3, n. 37375 del 20/06/2013, P.M. in proc.
Serpicelli, Rv. 257594; Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013,
Crisafulli ed altro, Rv. 255254; Sez. 3, n. 38405 del
09/07/2008, Di Benedetto e altro, Rv. 241287).
3. Date tali premesse, appare di tutta evidenza che la Corte
territoriale non è incorsa in alcuna violazione della
disciplina statale applicata né, tanto meno, di quella
regionale impropriamente richiamata in ricorso.
I giudici del gravame hanno infatti dato dimostrazione di
aver fatto buon uso dei condivisibili principi dianzi
richiamati e di aver adeguatamente considerato l'ambito di
operatività della normativa regionale, inequivocabilmente
limitato alle opere chiaramente definite dal menzionato
articolo 20 L.R. 4/2003, entro il quale non potevano certo
collocarsi le opere descritte nel capo di imputazione.
Invero, la Corte del merito evidenzia come sia stata
accertata in fatto la realizzazione, attraverso la chiusura
di una veranda, di un diverso e stabile corpo di fabbrica,
la cui consistenza risulta dimostrata dalla documentazione
fotografica in atti.
I giudici del gravame, richiamando il condiviso contenuto
della decisione del primo giudice, evidenziano anche, in
modo inequivocabile, che le opere erano state realizzate
mediante mattoni forati e non anche con materiale amovibile.
A fronte di tali dati decisivi, il ricorso si limita a
riproporre la tesi difensiva già platealmente smentita nel
giudizio di merito, facendo peraltro ricorso ad argomenti in
fatto che non possono avere ingresso in questa sede. Le
censure formulate in ricorso sul punto sono, pertanto,
destituite di fondamento.
4. A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che
concerne il secondo motivo di ricorso.
Le opere realizzate, per la loro natura e consistenza,
richiedevano il rispetto della disciplina dettata per la
realizzazione di costruzioni in zone sismiche.
Va a tale proposito ricordato come si sia specificato (Sez.
3, n. 29737 del 04/06/2013, Vella, Rv. 255823) con
argomentazioni che pare opportuno riproporre anche in questa
occasione, come le specifiche finalità
della disciplina delle costruzioni in zone sismiche abbiano
determinato la previsione di un rigoroso regime
autorizzatorio (articolo 93) che impone, a chiunque intenda
procedere ad interventi in tali zone, di darne preavviso
scritto allo sportello unico che, a sua volta, provvede alla
trasmissione al competente ufficio tecnico regionale.
La speciale disciplina si applica a tutte
le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare
la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia
dichiarata la sismicità.
Dal contenuto delle disposizioni che regolano la materia si
rileva come il loro ambito di applicazione sia
particolarmente esteso, riferendosi non solo alla
costruzione dei nuovi edifici, ma anche ad interventi su
manufatti già esistenti, in ordine ai quali si prendono in
esame le sopraelevazioni (articolo 90) e le riparazioni
(articolo 91).
Del tutto inconferente, ai fini dell'applicazione della
disciplina, è stata ritenuta la natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni che
regolano la materia hanno una portata particolarmente ampia,
perché finalizzate alla tutela dell'incolumità pubblica e
devono, quindi, applicarsi a "tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità"
a nulla rilevando, appunto, la natura dei materiali
impiegati e delle relative strutture
(Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 (dep. 2012), D'Onofrio, Rv.
252441; Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia, Rv.
251284; Sez. 3, n. 23076 del 27/4/2011, Coppa, non massimata;
Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo e altro, Rv. 237375;
Sez. 3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci R, Rv. 220269.
Il principio è stato ribadito anche con riferimento
alla cartellonistica autostradale
in Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola e altro, Rv.
253056).
Altrettanto irrilevante è la eventuale natura precaria
dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati
ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte
della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni
realizzate in zone sismiche (Sez. 3, n.23076 del 27/4/2011,
cit.; Sez. 3, n. 38405 del 09/07/2008, Di Benedetto e altro,
Rv. 241288; Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia e altro,
Rv. 237842; Sez. 3, n. 48684 del 28/10/2003, Noto, Rv.
226561; Sez. 3, n. 33158 del 29/05/2002, P.M. in proc.
Bianchini P, Rv. 222254).
A ciò va aggiunto che, nel caso di specie, la Corte del
merito ha opportunamente rivolto l'attenzione alla specifica
tipologia delle opere, osservando anche in punto di fatto
che, per ciò che concerne la realizzazione del muro di
contenimento, la rilasciata sanatoria era stata preceduta da
un certificato di idoneità sismica, evidentemente richiesto
dall'interessato, comprovante, dunque, l'applicabilità della
suddetta normativa anche nel caso in esame.
Le osservazioni formulate dai giudici dell'appello rendono
peraltro evidente l'irrilevanza dei contenuti della
Circolare richiamata dal ricorrente, evidentemente riferita
a fattispecie del tutto diverse da quella in esame ed, in
ogni caso, non avente alcun valore vincolante (cfr. Sez. 3,
n. 25170 del 13/06/2012 Rv. 252771)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 11.12.2015 n. 48950). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un intervento di demolizione e ricostruzione con volumetria
non superiore a quella complessiva preesistente e, dunque,
certamente non incidente sul carico urbanistico, quale
elemento considerato dalla norma evidentemente determinante,
non può oggi –atteso che si prescinde, per gli immobili non
sottoposti a vincoli, anche dalla modifica della sagoma-,
non rientrare nelle ristrutturazioni edilizie “leggere”,
come tali assoggettabili a mera segnalazione certificata di
attività, ove siano stati rispettati gli ulteriori requisiti
contemplati dall’art. 22 d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
3. Va anzitutto osservato che l’assunto in base al quale il
Tribunale di Asti è pervenuto ad assoluzione dell’imputato
non è, in adesione alle ragioni puntualmente sviluppate dal
P.M. ricorrente, condivisibile.
E’ incontroverso il fatto che, nella specie, ricevuta nel
2010 un’ordinanza comunale con cui lo si invitava a
sostituire la copertura in fibra d’amianto di un manufatto
di sua proprietà, l’imputato decideva di abbattere
integralmente l’edificio e di ricostruirlo in blocchi di
calcestruzzo; era stato così edificato un nuovo manufatto,
con sagoma inferiore e volume totale inferiore rispetto a
quello precedente, in totale assenza di titolo abilitativo.
4. Ciò posto, la sentenza impugnata ha ritenuto che l’attività
posta in essere debba essere qualificata come “intervento di
manutenzione straordinaria” e non già come intervento di
“ristrutturazione edilizia”, sì da non essere soggetta al
rilascio del permesso a costruire: infatti, a seguito delle
modifiche operate al testo dell’articolo 3, comma 1, lettera
b), del Decreto del Presidente della Repubblica cit., dal
Decreto Legge 12.09.2014, n. 133, articolo,
convertito in Legge 11.11.2014, n. 164 (il cui
originario contenuto era nel senso che dovessero intendersi
per interventi di manutenzione straordinaria “le opere e le
modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico–sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle
destinazioni di uso” e il cui contenuto successivo e’,
invece, ora, nel senso che per interventi di manutenzione
straordinaria debbono intendersi “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico–sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino la volumetria complessiva degli
edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di
uso”), si sarebbe ampliata la definizione di “interventi di
manutenzione straordinaria”; infatti, ha continuato la
sentenza, per effetto della nuova definizione, sarebbero
incluse in essa tutte le attività manutentive che, pur
incidendo sulle superfici di un edificio, non abbiano
tuttavia determinato un aumento del volume complessivo della
costruzione (come nella specie avvenuto).
5. Va di contro osservato, però, che, come correttamente
sottolineato dal P.M. ricorrente, l’articolo 3, comma 1,
lettera d), dello stesso Decreto del Presidente della
Repubblica, come modificato dal Decreto Legge n. 69 del
2013, articolo 30 comma 1, lettera a), convertito con
modificazioni nella Legge n. 98 del 2013, prevede che
rientrino all’interno degli interventi di ristrutturazione
edilizia “anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quello
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli
volti al ripristino di edifici o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza”; sicché deve ritenersi che il
legislatore, come segnalato dall’inequivoco riferimento alla
“demolizione e ricostruzione” del preesistente edificio,
quand’anche di uguale volumetria, abbia inteso comunque
ricomprendere l’intervento di specie in quello di
ristrutturazione edilizia e non già di manutenzione
edilizia, non potendo ritenersi che l’ambito applicativo
della disposizione, rimasta sul punto significativamente
inalterata anche a seguito della modifica impressa alla
Legge n. 164 del 2014, articolo 3, comma 1, lettera b),
abbia subito riduzioni anche solo di carattere
interpretativo tali da escluderne appunto la attività,
tipicamente considerata, di abbattimento e ricostruzione.
E ciò, a maggior ragione, ove si consideri che il tratto
essenziale degli interventi di manutenzione straordinaria
continua a consistere nella finalizzazione degli stessi alla
“rinnovazione e sostituzione di parti anche strutturali
degli edifici”, di per sé non compatibile con una condotta,
ben diversa, di abbattimento e ricostruzione dell’intero
edificio.
6. Ritenuto dunque che l’intervento posto in essere
dall’imputato rientrava in quello di ristrutturazione
edilizia, va però osservato che lo stesso, per gli elementi
di fatto incontroversi che lo hanno caratterizzato, ovvero,
in particolare, il mancato aumento della volumetria, non
richiedeva il rilascio del permesso a costruire, bensì, al
momento dei fatti, di una mera d.i.a., ovvero, alla data
odierna, di una s.c.i.a..
Va infatti osservato che, secondo quanto previsto
dall’articolo 10, comma 1, lettera c), del Decreto del
Presidente della Repubblica cit., come modificato, da
ultimo, dal Decreto Legge n. 133 del 2014, articolo 17,
convertito in Legge n. 164 del 2014, sono assoggettati a
permesso di costruire “gli interventi di ristrutturazione
edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente e che comportino modifiche
della volumetria complessiva degli edifici e dei prospetti”,
ovvero che si connettano a mutamenti di destinazione d’uso,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A),
mentre, ai sensi dell’articolo 22, comma 1, del medesimo
Decreto del Presidente della Repubblica, “sono realizzabili
mediante segnalazione certificata di inizio attività (in
precedenza, denuncia di inizio di attività) gli interventi
non riconducibili all’elenco di cui all’articolo 10, e
all’articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
E questa Corte ha più volte precisato, in concordanza con tali previsioni,
ancor prima delle modifiche da ultimo intervenute, che
devono ritenersi realizzabili, previa mera denunzia di attività (non alternativa al permesso di costruire,
equivalente come detto alla odierna S.c.i.a.), le
ristrutturazioni edilizie di portata minore: quelle, cioè,
che determinano una semplice modifica dell’ordine in cui
sono disposte le diverse parti che compongono la
costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente
innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza
urbanistica, nel senso, cioè, di diversa da quelle
descritte dall’articolo 10, comma 1, lettera c), che possono
incidere, invece, sul carico urbanistico (Sez. 3, n. 20350
del 16/03/2010, Magistrati, Rv. 247177; Sez. 3, n. 16393 del
17/02/2010, Cavallo, Rv. 246757); e, da ultimo, sempre
questa Corte è pervenuta ad affermare che, per effetto
delle più recenti modifiche (Decreto Legge 21.06.2013,
n. 69, articolo 30, conv. in Legge 09.08.2013, n. 98),
gli interventi di “ristrutturazione edilizia”, consistenti
nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi
assoggettati alla procedura semplificata della S.c.i.a., se
si tratta di opere che non rientrano in zona
paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente
volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma
dell’edificio (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv.
260551).
Ne consegue che un intervento di demolizione e ricostruzione
con volumetria non superiore, come nella specie, a quella
complessiva preesistente, e dunque certamente non incidente
sul carico urbanistico, quale elemento considerato dalla
norma evidentemente determinante, non poteva (già prima
delle ultime modifiche intervenute) e non può, a maggior
ragione oggi, atteso che si prescinde, per gli immobili non
sottoposti a vincoli, anche dalla modifica della sagoma, non
rientrare nelle ristrutturazioni edilizie “leggere”, come
tali assoggettabili a mera segnalazione certificata di attività, ove siano stati rispettati gli ulteriori
requisiti contemplati dall’articolo 22 cit..
E, nella specie, non risulta, né dalla contestazione di cui
all’imputazione né dalla sentenza impugnata né, infine,
dal ricorso che l’intervento non sia stato conforme alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico–edilizia vigente
ovvero abbia riguardato immobile vincolato.
Ne consegue che,
integrando comunque il fatto materiale contestato, sia pure
per ragioni diverse da quelle illustrate dalla sentenza
impugnata, un mero illecito amministrativo, il ricorso del
P.M. va rigettato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.12.2015 n. 48947). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quando gli strumenti urbanistici stabiliscano
determinate distanze dal confine ma prevedano anche la
possibilità di costruire "in aderenza" od "in appoggio", si
versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata
dagli artt. 873 e ss. cod. civ., con la conseguenza si
applica il criterio della prevenzione, in forza del quale
che è consentito al preveniente costruire sul confine,
ponendo così il vicino —che intenda a sua volta edificare—
nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di
costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni
previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, cod. civ.),
ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la
maggiore intera distanza imposta dallo strumento
urbanistico.
---------------
1. — Con l'unico
motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa
applicazione degli artt. 873 cod. civ. e 10 del Piano
regolatore generale e del Regolamento edilizio del Comune di
Tagliacozzo, che prevede la possibilità di costruire in
aderenza sul confine.
Secondo i ricorrenti, la Corte di Appello avrebbe errato a
non tener conto del principio della prevenzione temporale,
sotteso alla norma di cui all'art. 873 cod. proc. civ., per
il quale il preveniente ha facoltà di costruire sul confine.
La censura è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte suprema, dalla
quale non v'è ragione di discostarsi, il
criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875
cod. civ., è derogato dal regolamento comunale edilizio
allorché questo fissi la distanza non solo tra le
costruzioni, ma anche delle stesse dal confine; salvo che lo
stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in
appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta
tra l'edificare a distanza regolamentare e l'erigere la
propria fabbrica fino ad occupare l'estremo limite del
confine medesimo, ma non anche quella di costruire a
distanza inferiore dal confine, poiché detta prescrizione ha
lo scopo di ripartire tra i proprietari confinanti l'onere
della creazione della zona di distacco
(Sez. 2, Sentenza n. 23693 del 06/11/2014, Rv. 633061);
ciò perché, quando gli strumenti
urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma
prevedano la possibilità di costruire "in aderenza"
od "in appoggio", si versa in ipotesi del tutto
analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss. cod.
civ., con la conseguenza che è consentito al preveniente
costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua
volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione
del muro e di costruire in aderenza (eventualmente
esercitando le opzioni previste dagli artt. 875 e 877,
secondo comma, cod. civ.), ovvero di arretrare la sua
costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza
imposta dallo strumento urbanistico
(Sez. 2, Sentenza n. 8465 del 09/04/2010, Rv. 612355;
analogamente, Sez. 2, Sentenza n. 13286 del 05/10/2000, Rv.
540788; Sez. 2, Sentenza n. 11899 del 07/08/2002, Rv.
556776).
Nella specie, la Corte di Appello di L'Aquila dà atto —a p.
2 della sentenza impugnata— che lo strumento urbanistico
comunale vigente all'epoca della costruzione consentiva la
possibilità di costruire in aderenza ad un altro fabbricato,
ma ha omesso di applicare il principio della prevenzione,
ritenendo così che la costruzione edificata dal convenuto
sul confine fosse a distanza non legale, nonostante che
mancasse al di là del confine alcuna costruzione e che il
convenuto, pertanto, fosse da qualificarsi preveniente.
2. — La sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio
alla Corte di Appello di L'Aquila in diversa composizione,
che si conformerà al seguente principio di diritto: «Quando
gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze
dal confine ma prevedano anche la possibilità di costruire
"in aderenza" od "in appoggio", si versa in ipotesi del
tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss.
cod. civ., con la conseguenza si applica il criterio della
prevenzione, in forza del quale che è consentito al
preveniente costruire sul confine, ponendo così il vicino
—che intenda a sua volta edificare— nell'alternativa di
chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza
(eventualmente esercitando le opzioni previste dagli artt.
875 e 877, secondo comma, cod. civ.), ovvero di arretrare la
sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera
distanza imposta dallo strumento urbanistico»
(Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
sentenza 11.12.2015 n. 25032). |
APPALTI: Via
libera alle varianti migliorative. Consiglio di Stato. Se la
gara si aggiudica all’offerta economicamente più
vantaggiosa.
Nuovo impulso dal Consiglio di Stato
alle “varianti migliorative” degli appalti pubblici.
Con la
sentenza 11.12.2015 n. 5655
-Sez. V-
diventa più agevole proporre soluzioni tecniche quando
l’aggiudicazione avviene a favore dell’offerta
«economicamente più vantaggiosa» (articolo 81-83 del Dlgs
163/2006). Anche quando il progetto posto a base di gara è
definitivo, le imprese possono proporre variazioni
migliorative rese possibili dal possesso di specifiche
conoscenze tecnologiche. L’unico obbligo è quello di
rispettare i caratteri essenziali delle prestazioni
richieste dal bando e di non danneggiare la parità di
trattamento rispetto ad altri concorrenti.
Nel caso esaminato si discuteva di un appalto con
progettazione definitiva già predisposta, per realizzare un
centro natatorio, con possibili varianti migliorative sulla
qualità architettonica e sulle caratteristiche dei materiali
di finitura da utilizzare. Uno dei concorrenti aveva
proposto di utilizzare, per la copertura di una piscina, 16
pilastri e pareti in prefabbricati, invece di pilastri
gettati in opera volta per volta. Questa modifica è stata
ritenuta coerente con il progetto, e quindi valutabile dalla
commissione giudicatrice con specifico punteggio. Trova così
conferma l’orientamento già emerso in altri casi, ad esempio
quando si è ritenuto che il risparmio energetico derivante
da pensiline fotovoltaiche per 33 posti auto, possa
rappresentare una miglioria ad un progetto di
riqualificazione di un parco urbano (Tar Bari 846/2015).
Più delicata è stata la questione risolta dal Tar Liguria
(351/2013, riformata poi per motivi procedurali) relativa ai
lavori sul torrente Bisagno a Genova, quando non si
discuteva solo di fondazioni e di micro pali, di cunicoli e
di abbassamento dell’alveo, ma anche di vere e proprie
incongruenze del progetto iniziale che rendevano
indispensabili le modifiche proposte delle imprese. Proprio
attraverso la possibilità di intervenire sul progetto con
varianti migliorative (sindacabili dal giudice con il
parametro della coerenza e della logica) è infatti anche
possibile criticare il progetto iniziale.
In scala minore rispetto ai problemi liguri, ad esempio, si
può proporre la modifica del tracciato di una rete fognaria
prevista sotto la sede stradale, offrendo una collocazione
su adiacenti aree private (Tar Napoli 1978/2015). Se la
commissione di gara condivide le soluzioni migliorative, si
pone il problema dei prezzi da adottare per attuare le
proposte: il Consiglio di Stato (5160 /2013) ritiene che gli
oneri economici derivanti dalle migliorie trovino
compensazione all’interno della complessiva offerta
economica presentata. Su questi presupposti, ci si prepara
all’imminente entrata in vigore della Direttiva Ue 24/2014,
che privilegia l’offerta economicamente più vantaggiosa (articolo Il Sole 24 Ore del
07.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
7.1. Con il primo motivo del ricorso principale di primo
grado (pagine 4 - 9), la ditta Te. ha dedotto che:
I) la stazione appaltante avrebbe dovuto escludere la ditta
aggiudicataria perché la proposta di variante migliorativa
relativa all’elemento T.1.2. –copertura della vasca della
piscina– era inammissibile in quanto recante una soluzione
tecnica eccedente i limiti inderogabili previsti dalla legge
di gara; in particolare la ditta Gorrasi, invece di
realizzare 16 pilastri di cemento armato gettati in opera,
li ha sostituiti con 16 pilastri prefabbricati (e pareti
esterne dell’involucro sempre in strutture prefabbricate);
II) in ogni caso la commissione avrebbe dovuto assegnare
all’offerta tecnica della ditta Go., in relazione
all’elemento T.1.2., un punteggio pari a zero.
7.1.1. Il motivo è sia inammissibile che infondato e deve
essere respinto nella sua globalità alla stregua delle
seguenti considerazioni in fatto e diritto:
a) in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale
(cfr. Corte giust. UE, 12.03.2015, C-538/13, Vigilio Ltd;
Cons. Stato, Ad. plen., 30.07.2014, n. 16; Ad. plen.,
25.02.2014, n. 9; Ad. plen., 30.01.2014, n. 7; Sez. V,
27.03.2015, n. 1601, cui si rinvia ai sensi del combinato
disposto degli artt. 74, 88, co.2, lett. d), e 120, co. 10,
c.p.a.), deve ritenersi che:
I) il principio di tassatività delle cause di
esclusione sancito dall’art. 46, co. 1-bis, del codice dei
contratti pubblici esige, ove richiamato in relazione allo
scrutinio di offerte tecniche, che le stesse debbano essere
escluse solo quando siano a tal punto carenti degli elementi
essenziali da ingenerare una situazione di «incertezza
assoluta sul contenuto …. dell’offerta», ovvero in
presenza di specifiche clausole della legge di gara che
tipizzino una siffatta situazione di incertezza assoluta;
II) la valutazione delle offerte –e dunque anche
della loro “incertezza assoluta”– nonché
l’attribuzione dei punteggi da parte della commissione
giudicatrice, rientrano nell’ampia discrezionalità tecnica
riconosciuta a tale organo, sicché le censure che impingono
il merito di tale valutazione (opinabile) sono
inammissibili, perché sollecitano il giudice amministrativo
ad esercitare un sindacato sostitutorio, al di fuori dei
tassativi casi sanciti dall’art. 134 c.p.a., fatto salvo il
limite della abnormità della scelta tecnica;
III) la previsione esplicita della possibilità di
presentare varianti progettuali in sede di offerta (a
fortiori per il tipo di gara in contestazione, un
appalto di lavori basato sulla sola progettazione
definitiva), è stata oggi generalizzata dall’art. 76 del
codice dei contratti pubblici (per qualsivoglia appalto);
l’amministrazione deve indicare, in sede di redazione della
lex specialis, se le varianti sono ammesse e, in caso
affermativo, identificare i loro requisiti minimi;
IV) la ratio della scelta normativa
–nazionale e comunitaria- si fonda sulla circostanza che,
allorquando il sistema di selezione delle offerte sia basato
sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la
stazione appaltante ha maggiore discrezionalità e
soprattutto sceglie il contraente valutando non solo criteri
matematici ma la complessità dell’offerta proposta alla luce
della vantaggiosità della stessa in funzione dell’interesse
proprio; nel corso del procedimento di gara, quindi,
potrebbero rendersi necessari degli aggiustamenti rispetto
al progetto base elaborato dall’amministrazione,
favorevolmente apprezzabili perché ritenuti utili dalla
medesima stazione appaltante; nel caso, invece, di offerta
selezionata col criterio del prezzo più basso, poiché tutte
le condizioni tecniche sono predeterminate al momento
dell’offerta e non vi è alcuna ragione per modificare
l’assetto contrattuale, non è mai ammessa la possibilità di
presentare varianti;
V) in ogni caso, a prescindere dalla espressa previsione di
varianti progettuali in sede di bando, deve
ritenersi insito nella scelta del criterio selettivo
dell’offerta economicamente più vantaggiosa che, anche
quando il progetto posto a base di gara sia definitivo, è
consentito alle imprese di proporre quelle variazioni
migliorative rese possibili dal possesso di peculiari
conoscenze tecnologiche, purché non si alterino i caratteri
essenziali delle prestazioni richieste dalla lex
specialis onde non ledere la par condicio;
b) la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri guida
relativi alle varianti in sede di offerta:
I) si ammettono varianti migliorative riguardanti
le modalità esecutive dell’opera o del servizio, purché non
si traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del
contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto
a quello voluto dalla p.a.;
II) risulta essenziale che la proposta tecnica sia
migliorativa rispetto al progetto base, che l’offerente dia
contezza delle ragioni che giustificano l’adattamento
proposto e le variazioni alle singole prescrizioni
progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca
l’efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese
alla prescrizione variata;
III) viene lasciato un ampio margine di
discrezionalità alla commissione giudicatrice, trattandosi
dell’ambito di valutazione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa.
c) facendo applicazione dei su esposti principi al caso di
specie, nonché alla stregua delle risultanze della
documentazione versata in atti, emerge che:
I) le censure proposte sono inammissibili nella parte in cui
sollecitano il giudice amministrativo a sostituirsi, al di
fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito sanciti
dall’art. 134 c.p.a., alle valutazioni rimesse alla
commissione, che costituiscono manifestazione di una ampia
discrezionalità tecnica;
II) le censure sono infondate anche in fatto, perché la commissione
di gara ha ritenuto (sulla scorta di una opinabile ma
legittima valutazione) che il progetto esecutivo
dell’aggiudicataria non stravolge le linee fondamentali
poste a base di quello preliminare e non presenta mende
reali in tema di sicurezza, stabilità e conformità ai
parametri richiesti;
III) la legge di gara ha previsto la possibilità di proporre
varianti, senza comminare alcuna esclusione e precisando,
altresì, i casi in cui la commissione avrebbe dovuto
assegnare il punteggio zero (evenienze queste che non si
sono verificate nel caso di specie);
IV) la valutazione dell’organo tecnico non risulta abnorme, in
quanto quest’ultimo ha motivato in modo sintetico ma
esaustivo sull’ammissibilità dell’offerta e
sull’attribuzione dei punteggi ai vari elementi tecnici,
senza sconfinare nell’arbitrio e rimanendo nei limiti della
opinabilità;
V) le criticate innovazioni progettuali sono riferibili, nella
sostanza, a migliorie proposte secondo quanto stabilito
dalla legge di gara e non incidono, pertanto, su elementi
essenziali del progetto base. |
EDILIZIA PRIVATA: Può
essere considerato destinato a servizi religiosi l’edificio
destinato alla pratica religiosa, e quindi all’orazione,
alla meditazione spirituale, alla celebrazione di cerimonie
proprie di quella confessione ed altro, ovvero destinato a
strutture strettamente connesse con le necessità del culto.
L’edificio di cui ora si tratta (destinato
a servizi religiosi e all’istruzione primaria)
non è destinato a servizi religiosi, in quanto destinato a
ospitare una scuola non statale.
E’ evidente che nell’istituto scolastico verrà impartito
anche l’insegnamento religioso, presumibilmente con maggiore
profondità di quanto non avvenga negli istituti gestiti
dallo Stato o da organizzazioni diverse dalla Chiesa
Cattolica, ma è evidente che tale circostanza non è
sufficiente a qualificare l’edificio in questione come
«dedicato al culto».
Sicché, non sussiste il requisito per avere diritto
all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione ai
sensi dell’art. 9, lett. f), della legge 28.01.1977, n. 10.
---------------
L’appellante sostiene di avere diritto anche sotto diverso
titolo all’esenzione dal pagamento degli oneri di
urbanizzazione, in quanto l’edificio in questione è
destinato, appunto, a istruzione primaria.
Neanche questa argomentazione può essere condivisa.
Invero, l’esenzione di cui si tratta deve essere
riconosciuta se la struttura realizzata soddisfa un bisogno
della collettività, riconosciuto dall’Amministrazione in
sede di programmazione o in altri modi.
Nel caso citato dall’appellante è stato riconosciuto il
diritto all’esenzione dal pagamento degli oneri di
urbanizzazione per la realizzazione di una clinica privata.
Il principio affermato in quella controversia non può essere
applicato per risolvere quella sottoposta al Collegio, in
quanto la previsione urbanistica in quel caso rilevante ha
tenuto conto del fatto che la clinica pur privata è inserita
nel servizio sanitario nazionale, partecipa agli scopi di
questo e accetta i pazienti in condizioni di eguaglianza.
Tali particolarità non ricorrono nel caso di specie, nel
quale l’istituto scolastico in questione viene realizzato
del tutto al di fuori della programmazione pubblica, secondo
una libera scelta imprenditoriale dell’appellante.
Inoltre, è noto che negli istituti non statali gli alunni
pagano una retta, e nemmeno viene ipotizzato che l’istituto
di cui ora si tratta accolga gli allievi secondo modalità
differenti.
In base agli elementi appena riassunti, rileva il Collegio
che la struttura in questione non costituisce opera di
urbanizzazione secondaria.
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Nel merito, l’appello è infondato.
L’odierna appellante ha ottenuto concessione edilizia per la
trasformazione di un edificio di sua proprietà adibito a
convitto in scuola primaria.
Essa sostiene di avere diritto all’esenzione dal pagamento
degli oneri di urbanizzazione ai sensi dell’art. 9, lett.
f), della legge 28.01.1977, n. 10, e della legge della
Regione Lombardia 09.05.1992, n. 20, nonché degli artt. 16 e
44 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore
generale di Bergamo, in quanto l’edificio in questione è
destinato a servizi religiosi e all’istruzione primaria.
Tali asserzioni sono erronee.
Può essere considerato destinato a servizi religiosi
l’edificio destinato alla pratica religiosa, e quindi
all’orazione, alla meditazione spirituale, alla celebrazione
di cerimonie proprie di quella confessione ed altro, ovvero
destinato a strutture strettamente connesse con le necessità
del culto.
L’edificio di cui ora si tratta non è destinato a servizi
religiosi, in quanto destinato a ospitare una scuola non
statale.
E’ evidente che nell’istituto scolastico verrà impartito
anche l’insegnamento religioso, presumibilmente con maggiore
profondità di quanto non avvenga negli istituti gestiti
dallo Stato o da organizzazioni diverse dalla Chiesa
Cattolica, ma è evidente che tale circostanza non è
sufficiente a qualificare l’edificio in questione come «dedicato
al culto».
L’appellante sostiene di avere diritto anche sotto diverso
titolo all’esenzione dal pagamento degli oneri di
urbanizzazione, in quanto l’edificio in questione è
destinato, appunto, a istruzione primaria.
Neanche questa argomentazione può essere condivisa.
Invero, l’esenzione di cui si tratta deve essere
riconosciuta se la struttura realizzata soddisfa un bisogno
della collettività, riconosciuto dall’Amministrazione in
sede di programmazione o in altri modi.
Nel caso citato dall’appellante (C. di S., V, 12.05.2011, n.
2870) è stato riconosciuto il diritto all’esenzione dal
pagamento degli oneri di urbanizzazione per la realizzazione
di una clinica privata.
Il principio affermato in quella controversia non può essere
applicato per risolvere quella sottoposta al Collegio, in
quanto la previsione urbanistica in quel caso rilevante ha
tenuto conto del fatto che la clinica pur privata è inserita
nel servizio sanitario nazionale, partecipa agli scopi di
questo e accetta i pazienti in condizioni di eguaglianza.
Tali particolarità non ricorrono nel caso di specie, nel
quale l’istituto scolastico in questione viene realizzato
del tutto al di fuori della programmazione pubblica, secondo
una libera scelta imprenditoriale dell’appellante.
Inoltre, è noto che negli istituti non statali gli alunni
pagano una retta, e nemmeno viene ipotizzato che l’istituto
di cui ora si tratta accolga gli allievi secondo modalità
differenti.
In base agli elementi appena riassunti, rileva il Collegio
che la struttura in questione non costituisce opera di
urbanizzazione secondaria.
L’appellante deduce in contrario senso, a sostegno della
propria tesi, la legge della Regione Lombardia 09.05.1992,
n. 20, la quale all’art. 2 stabilisce che: «1. Ai sensi e
per gli effetti dell'art. 3, secondo comma, lett. b), del
decreto del ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n.
1444, nonché di quanto previsto dall'art. 22 della L.R.
15.04.1975, n. 51, sono attrezzature di interesse comune per
servizi religiosi:
a) gli immobili destinati al culto anche se articolati in
più edifici;
b) gli immobili destinati all'abitazione dei ministri del
culto, del personale di servizio, nonché quelli destinati ad
attività di formazione religiosa;
c) nell'esercizio del ministero pastorale, gli immobili
adibiti ad attività educative, culturali, sociali,
ricreative e di ristoro, che non abbiano fini di lucro.
2. In relazione al disposto dell'art. 4 della legge
29.09.1964, n. 847 e successive modificazioni, le
attrezzature di cui al precedente comma costituiscono opere
di urbanizzazione secondaria ad ogni effetto».
Osserva al riguardo il Collegio che la norma è chiaramente
rivolta alla contrazione di mutui agevolati per la
realizzazione delle opere ivi considerate, e che
interpretandola nel senso proposto dall’appellante
occorrerebbe interrogarsi sulla sua compatibilità con il
complessivo sistema della legislazione urbanistica.
Peraltro, tale disamina si appalesa superflua, in quanto
l’immobile in questione, destinato ad ospitare una scuola
primaria non statale:
a) non è destinato al culto;
b) non è destinato ad abitazione dei ministri del culto o
del personale di servizio e nemmeno ad attività di
formazione religiosa;
c) non è destinato ad attività educative, culturali,
sociali, ricreative e di ristoro pertinenti all’esercizio
pastorale, ed è ben dubbio che manchi il fine di lucro.
Deve, in particolare, essere rilevato che la norma regionale
in questione prende in considerazione le attività culturali
in quanto pertinenti all’esercizio pastorale.
L’attività di una scuola, per quanto privata, non può essere
considerata pertinente all’esercizio pastorale, essendo
rivolta alla formazione complessiva dell’alunno, con
insegnamenti che non possono che esulare dalla sfera
religiosa.
Di conseguenza, la legge regionale invocata non sostiene le
ragioni dell’appellante
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.12.2015 n. 5647 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - LAVORI PUBBLICI:
Va
esclusa la legittimazione dei “cittadini elettori”, atteso
che la legittimazione processuale si rinviene solo in capo
ai soggetti che presentino una posizione differenziata, in
virtù della titolarità, a monte, di una posizione giuridica
soggettiva sostanziale precipua; infatti, nel processo
amministrativo, fatta eccezione per il giudizio elettorale,
per il quale è ammessa l’azione popolare, non è consentito
adire il giudice unicamente al fine di conseguire la
legalità e la legittimità dell’azione amministrativa, ove
ciò non si traduca anche in uno specifico beneficio in
favore di chi la propone; altrimenti si avrebbe un
ampliamento della legittimazione attiva oltre i casi
previsti dalla legge, in contrasto con il carattere di
giurisdizione soggettiva della giustizia amministrativa.
---------------
Quanto alla legittimazione dei ricorrenti, nella qualità di
consiglieri comunali, il Collegio osserva al riguardo che:
- per costante giurisprudenza, la legittimazione dei
consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere
dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale,
dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto
alle controversie tra organi o componenti di organi di uno
stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie
intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle
ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad
esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad
acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo
rispetto all’organo di cui fanno parte;
- la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede
nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta
dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere
riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della
delibera impugnata” e non già delle norme interne relative
al funzionamento dell’organo;
- conseguentemente, la contestazione dei consiglieri
dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto
o le modalità di formazione della deliberazione senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione alle loro
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto
deliberativo.
In questa prospettiva, si è affermato che l’omissione o il
ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti
presupposti ad una proposta di delibera non costituisce
lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere
comunale, rimanendo la tutela circoscritta in un ambito
esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui
fanno parte, affidata all’espressione a verbale del proprio
dissenso in quanto corollario del più generale principio
sopra affermato.
È, peraltro, jus receptum che la legittimazione dei
consiglieri comunali ad impugnare atti degli organi di cui
fanno parte sussiste ove vengano dedotte violazioni
procedurali direttamente lesive del munus rivestito dal
componente dell’organo oppure vengano in rilievo atti
incidenti in via diretta sul diritto all’Ufficio.
---------------
Va evidenziato che la recente giurisprudenza, condivisa da
questo TAR, è intervenuta innovativamente sul tema della
contestazione delle lesioni del munus del consigliere
comunale con un approccio sostanzialistico, sancendo,
altresì, il principio del raggiungimento dello scopo, nel
senso che, se il ricorrente ha comunque avuto conoscenza di
tutti gli elementi documentali utili ai fini di una
effettiva partecipazione al dibattito consiliare messi a
disposizione in un tempo congruo, questi non può dolersi del
mancato rispetto di una norma procedurale volta, per
l’appunto, a garantire la detta piena conoscenza.
Orbene, il rispetto della scansione e dell’iter istruttorio
descritti
(art. 128 del D.Lgs.
n. 163/2006 e art. 13 del D.P.R. n. 207/2010),
al di là degli interessi pubblici sottesi, appare, per quel
che qui rileva, essenziale per consentire a ciascun
consigliere di poter liberamente e consapevolmente
deliberare mediante "la valutazione delle proposte
risultanti dallo schema, previo confronto con le
osservazioni eventualmente formulate dagli interessati
grazie alla pubblicità dello schema, per giungere quindi
alla "giusta" e legittima individuazione e determinazione
delle opere da realizzare nell'anno".
Nel caso, invero, è mancato del tutto l’atto di proposta e
di impulso della Giunta, quale è nella sostanza lo schema
del programma triennale delle opere pubbliche con l’elenco
annuale, e la relativa documentazione tecnico-finanziaria a
supporto; è mancata, altresì, la sua sottoposizione al
vaglio della collettività per sessanta giorni e
conclusivamente la contrapposizione dialettica sul tema tra
maggioranza e opposizione, contrapposizione che solo nella
sede consiliare può realizzarsi.
Nella fattispecie, l’assenza (incontestata) dello schema di
adozione del programma delle opere pubbliche e la violazione
dei termini regolamentari per la messa a disposizione di
tale necessario atto ai consiglieri sono stati, pertanto,
idonei a ledere in concreto il diritto all’informazione e
alle garanzie partecipative dei ricorrenti, non avendo avuto
essi alcun termine per la conoscenza degli atti in
questione, documenti essenziali a corredo sia del programma
triennale delle opere pubbliche e dell’elenco annuale sia
del bilancio di previsione, con evidente grave lesione delle
prerogative consiliari.
Peraltro, indipendentemente dalla circostanza che l’elenco
di opere approvato in Consiglio comunale sia stato o meno
esibito in corso di seduta (circostanza non chiara), resta
il fatto che esso non costituiva, né formalmente né
soprattutto sostanzialmente, quello schema previsto dalla
legge corredato di tutte le informazioni (finanziarie,
urbanistiche, tecniche) necessarie per una consapevole
scelta del consigliere comunale sul tema in oggetto.
---------------
6 - La controversia,
in via preliminare, pone la questione della legittimazione
al ricorso dei ricorrenti, quali cittadini e quali
consiglieri comunali contro gli atti del loro Comune, meglio
indicati in epigrafe, il cui difetto viene eccepito, a pena
d’inammissibilità, dal Comune resistente.
A supporto della propria tesi il Comune ha richiamato
precedenti giurisprudenziali in materia.
6.1 – Va esclusa la legittimazione dei “cittadini
elettori”, atteso che la legittimazione processuale si
rinviene solo in capo ai soggetti che presentino una
posizione differenziata, in virtù della titolarità, a monte,
di una posizione giuridica soggettiva sostanziale precipua;
infatti, nel processo amministrativo, fatta eccezione per il
giudizio elettorale, per il quale è ammessa l’azione
popolare, non è consentito adire il giudice unicamente al
fine di conseguire la legalità e la legittimità dell’azione
amministrativa, ove ciò non si traduca anche in uno
specifico beneficio in favore di chi la propone; altrimenti
si avrebbe un ampliamento della legittimazione attiva oltre
i casi previsti dalla legge, in contrasto con il carattere
di giurisdizione soggettiva della giustizia amministrativa
(TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.11.2013, n. 9376; TAR Calabria,
Catanzaro, sez. I, 09.05.2013, n. 565).
6.2 – Quanto alla legittimazione dei ricorrenti, nella
qualità di consiglieri comunali, il Collegio osserva al
riguardo che:
- per costante giurisprudenza, la legittimazione dei
consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere
dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale,
dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto
alle controversie tra organi o componenti di organi di uno
stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie
intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle
ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad
esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad
acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo
rispetto all’organo di cui fanno parte (Consiglio di Stato,
sez. V, 31.01.2001, n. 358);
- la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede
nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta
dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere
riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto
della delibera impugnata” e non già delle norme interne
relative al funzionamento dell’organo (Consiglio di Stato,
sez. V, 15.12.2005, n. 7122);
- conseguentemente, la contestazione dei consiglieri
dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto
o le modalità di formazione della deliberazione senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione alle loro
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto
deliberativo (Consiglio di Stato, sez. V, 29.04.2010, n.
2457).
In questa prospettiva, si è affermato che l’omissione o il
ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti
presupposti ad una proposta di delibera non costituisce
lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere
comunale, rimanendo la tutela circoscritta in un ambito
esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui
fanno parte, affidata all’espressione a verbale del proprio
dissenso in quanto corollario del più generale principio
sopra affermato (Consiglio di Stato, sez. V, 21.03.2012, n.
1610).
6.3 - È, peraltro, jus receptum che la legittimazione
dei consiglieri comunali ad impugnare atti degli organi di
cui fanno parte sussiste ove vengano dedotte violazioni
procedurali direttamente lesive del munus rivestito
dal componente dell’organo oppure vengano in rilievo atti
incidenti in via diretta sul diritto all’Ufficio (ex
multis, C.d.S., Sez. V, 09.10.2007, n. 5280; C.d.S.,
sez. I, parere 23.04.2012 n. 1960; Cons. St., sez. V,
19.04.2013, n. 2213).
6.4 - Così riassunto il panorama giurisprudenziale rilevante
ai fini della presente decisione, il Collegio ritiene di
dover verificare se, per effetto delle denunciate
illegittimità procedimentali, non sia stato consentito un
consapevole esercizio del voto da parte dei consiglieri
sugli atti oggetto di impugnativa oppure se, nel caso, si
versi, in concreto, in un’ipotesi di lamentata discordanza
rispetto allo schema legale o ancora se trattasi di mero
contrasto tra organi risolvibile politicamente.
6.5 - Orbene, ritiene il Collegio che, nel caso, venendo in
contestazione, con il primo motivo, non il contenuto dello
schema del programma triennale delle opere pubbliche
predisposto dalla Giunta, bensì la sua mancanza (peraltro
attestata dal Segretario comunale) quale atto allegato alla
proposta di deliberazione di approvazione del programma
triennale delle oo.pp., nonché il rispetto dei termini per
il deposito presso la Segreteria degli atti relativi agli
argomenti iscritti all’ordine del giorno, sussista la
legittimazione ad agire dei ricorrenti.
Questi, infatti, lamentano vizi che, secondo la
giurisprudenza, possono incidere sul munus pubblicum
e quindi sull’effettivo e regolare esercizio delle peculiari
funzioni di consigliere comunale ed in specie sul voto
informato.
In particolare, l’assenza di qualsiasi attività istruttoria
a supporto di decisioni programmatiche di tale rilevanza,
l’assenza di uno schema predisposto secondo le indicazioni
ministeriali, la mera allegazione alla deliberazione in
questione di due elenchi di opere, senza alcuna delle
indicazioni normativamente previste, ove accertati, sono
vizi che possono incidere sul diritto del consigliere
comunale a poter assumere una decisione consapevole e
informata.
6.6 - Ritiene, invece, il Collegio che non sono ammissibili
le censure con le quali i ricorrenti fanno valere doglianze
non riconducibili alla violazione delle prerogative
consiliari, quali la ritenuta illegittima convocazione della
seduta del consiglio comunale, che sarebbe avvenuta oltre i
termini di cui alla diffida prefettizia (secondo motivo),
non essendo esplicitate le ragioni per cui tale asserita
illegittimità abbia, in concreto, potuto incidere sulle
prerogative di ciascun consigliere.
6.7 - Pertanto, sulla scorta della prospettazione alla base
della presente impugnativa e della possibilità di un suo
rilievo ai fini della consistenza obiettiva dello ius ad
officium del consigliere comunale, conformemente alle
coordinate già tracciate dal Consiglio di Stato (sez. V,
19.04.2013, n. 2213), il Collegio intende risolvere in senso
positivo la questione della legittimazione ad agire dei
consiglieri odierni ricorrenti, sia pure limitatamente al
primo motivo dedotto.
7 – Sempre in via preliminare, va dichiarato il difetto di
legittimazione passiva della Prefettura e del Ministero
dell’Interno, in quanto non si tratta di Amministrazioni che
hanno emesso l’atto impugnato, né di soggetti
controinteressati ai sensi dell’art. 41, comma 1, del cod.
proc. amm..
La Prefettura di Catanzaro e il Ministero dell’Interno
vanno, quindi, estromessi dal presente giudizio.
8 - Passando all’esame del primo motivo di ricorso, con esso
i ricorrenti si dolgono della mancanza di schema di
programma delle opere pubbliche, non adottato dall’organo
competente, della sua mancata allegazione agli atti del
Consiglio comunale nei termini regolamentari e della
circostanza che ciò abbia inciso sul loro officium.
8.1 - Il Comune resistente sul punto controdeduce che il
mancato preventivo deposito del piano triennale e
dell’elenco annuale sarebbe da ascrivere a una critica
situazione esistente negli uffici tecnici comunali e ad
analoga carenza per l’Ufficio del Segretario Comunale.
8.2 - Il motivo è fondato.
8.3 - Sul punto va osservato che, dalla lettura della
normativa di riferimento (art. 128 del D.Lgs. n. 163/2006 e
art. 13 del D.P.R. n. 207/2010), si evince la puntuale
scansione procedimentale prevista dal legislatore ai fini
dell’approvazione del programma triennale dei lavori
pubblici e del relativo aggiornamento annuale, consistente
nei seguenti momenti fondamentali:
a) adozione dello schema di programma triennale con
l’aggiornamento annuale redatto entro il 30 settembre di
ogni anno ad adottato dalla Giunta comunale entro il 15
ottobre;
b) pubblicità dello schema mediante sua affissione all’albo
pretorio per almeno sessanta giorni;
c) approvazione definitiva del programma unitamente al
bilancio di previsione.
In particolare, ai sensi dell’art. 128 del d.p.r. n. 163 del
2006: “1. L'attività di realizzazione dei lavori di cui
al presente codice di singolo importo superiore a 100.000
euro si svolge sulla base di un programma triennale e di
suoi aggiornamenti annuali che le amministrazioni
aggiudicatrici predispongono e approvano, nel rispetto dei
documenti programmatori, già previsti dalla normativa
vigente, e della normativa urbanistica, unitamente
all'elenco dei lavori da realizzare nell'anno stesso.
2. Il programma triennale costituisce momento attuativo di
studi di fattibilità e di identificazione e quantificazione
dei propri bisogni che le amministrazioni aggiudicatrici
predispongono nell'esercizio delle loro autonome competenze
e, quando esplicitamente previsto, di concerto con altri
soggetti, in conformità agli obiettivi assunti come
prioritari. Gli studi individuano i lavori strumentali al
soddisfacimento dei predetti bisogni, indicano le
caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed
economico-finanziarie degli stessi e contengono l'analisi
dello stato di fatto di ogni intervento nelle sue eventuali
componenti storico-artistiche, architettoniche,
paesaggistiche, e nelle sue componenti di sostenibilità
ambientale, socio-economiche, amministrative e tecniche. In
particolare le amministrazioni aggiudicatrici individuano
con priorità i bisogni che possono essere soddisfatti
tramite la realizzazione di lavori finanziabili con capitali
privati, in quanto suscettibili di gestione economica. Lo
schema di programma triennale e i suoi aggiornamenti annuali
sono resi pubblici, prima della loro approvazione, mediante
affissione nella sede delle amministrazioni aggiudicatrici
per almeno sessanta giorni consecutivi ed eventualmente
mediante pubblicazione sul profilo di committente della
stazione appaltante.
3. Il programma triennale deve prevedere un ordine di
priorità. Nell'ambito di tale ordine sono da ritenere
comunque prioritari i lavori di manutenzione, di recupero
del patrimonio esistente, di completamento dei lavori già
iniziati, i progetti esecutivi approvati, nonché gli
interventi per i quali ricorra la possibilità di
finanziamento con capitale privato maggioritario …
6. L'inclusione di un lavoro nell'elenco annuale è
subordinata, per i lavori di importo inferiore a 1.000.000
di euro, alla previa approvazione almeno di uno studio di
fattibilità e, per i lavori di importo pari o superiore a
1.000.000 di euro, alla previa approvazione almeno della
progettazione preliminare, redatta ai sensi dell'articolo
93, salvo che per i lavori di manutenzione, per i quali è
sufficiente l'indicazione degli interventi accompagnata
dalla stima sommaria dei costi, nonché per i lavori di cui
all'articolo 153 per i quali è sufficiente lo studio di
fattibilità.
7. Un lavoro può essere inserito nell'elenco annuale,
limitatamente ad uno o più lotti, purché con riferimento
all'intero lavoro sia stata elaborata la progettazione
almeno preliminare e siano state quantificate le complessive
risorse finanziarie necessarie per la realizzazione
dell'intero lavoro …
9. L'elenco annuale predisposto dalle amministrazioni
aggiudicatrici deve essere approvato unitamente al bilancio
preventivo, di cui costituisce parte integrante, e deve
contenere l'indicazione dei mezzi finanziari stanziati sullo
stato di previsione o sul proprio bilancio, ovvero
disponibili in base a contributi o risorse dello Stato,
delle regioni a statuto ordinario o di altri enti pubblici,
già stanziati nei rispettivi stati di previsione o bilanci,
nonché acquisibili ai sensi dell'articolo 3 del
decreto-legge 31.10.1990, n. 310, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.1990, n. 403, e successive
modificazioni …
11. Le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute ad
adottare il programma triennale e gli elenchi annuali dei
lavori sulla base degli schemi tipo, che sono definiti con
decreto del Ministro delle infrastrutture; i programmi
triennali e gli elenchi annuali dei lavori sono pubblicati
sul sito informatico del Ministero delle infrastrutture di
cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 06.04.2001,
n. 20 e per estremi sul sito informatico presso
l'Osservatorio …”.
Ed ancora, ai sensi dell’art. 13 del D.P.R. n. 207/2010, “degli
studi di cui all'articolo 11, commi 1 e 3, ogni anno viene
redatto, aggiornando quello precedentemente approvato, un
programma dei lavori pubblici da eseguire nel successivo
triennio. Tale programma è deliberato dalle amministrazioni
aggiudicatrici diverse dallo Stato contestualmente al
bilancio di previsione e al bilancio pluriennale, ed è ad
essi allegato assieme all'elenco dei lavori da avviare
nell'anno.
2. Il programma indica, per tipologia e in relazione alle
specifiche categorie degli interventi, le loro finalità, i
risultati attesi, le priorità, le localizzazioni, le
problematiche di ordine ambientale, paesistico ed
urbanistico-territoriale, le relazioni con piani di assetto
territoriale o di settore, le risorse disponibili, la stima
dei costi e dei tempi di attuazione. Le priorità del
programma privilegiano valutazioni di pubblica utilità
rispetto ad altri elementi in conformità di quanto disposto
dal codice.
3. Lo schema di programma e di aggiornamento sono redatti,
entro il 30 settembre di ogni anno ed adottati dall'organo
competente entro il 15 ottobre di ogni anno. La proposta di
aggiornamento è fatta anche in ordine alle esigenze
prospettate dai responsabili del procedimento dei singoli
interventi. Le Amministrazioni dello Stato procedono
all'aggiornamento definitivo del programma entro novanta
giorni dall'approvazione della legge di bilancio da parte
del Parlamento.
4. Sulla base dell'aggiornamento di cui al comma 3 è
redatto, entro la stessa data, l'elenco dei lavori da
avviare nell'anno successivo, con l'indicazione del codice
unico di progetto, previamente richiesto dai soggetti
competenti per ciascun lavoro”.
8.4 – Ciò posto, va evidenziato che la recente
giurisprudenza, condivisa da questo TAR, è intervenuta
innovativamente sul tema della contestazione delle lesioni
del munus del consigliere comunale con un approccio
sostanzialistico, sancendo, altresì, il principio del
raggiungimento dello scopo, nel senso che, se il ricorrente
ha comunque avuto conoscenza di tutti gli elementi
documentali utili ai fini di una effettiva partecipazione al
dibattito consiliare messi a disposizione in un tempo
congruo, questi non può dolersi del mancato rispetto di una
norma procedurale volta, per l’appunto, a garantire la detta
piena conoscenza (TAR Molise – sez. I, 12.05.2010 n. 207;
TAR Sicilia, sez. I, 23.05.2012, n. 1029).
Orbene, il rispetto della scansione e dell’iter istruttorio
su descritti, al di là degli interessi pubblici sottesi (v.
Consiglio di Stato, sez. IV, 14.12.2002, n. 6917), appare,
per quel che qui rileva, essenziale per consentire a ciascun
consigliere di poter liberamente e consapevolmente
deliberare mediante "la valutazione delle proposte
risultanti dallo schema, previo confronto con le
osservazioni eventualmente formulate dagli interessati
grazie alla pubblicità dello schema, per giungere quindi
alla "giusta" e legittima individuazione e determinazione
delle opere da realizzare nell'anno" (Cons. St., sez. IV,
14.12.2002, n. 6917).
Nel caso, invero, è mancato del tutto l’atto di proposta e
di impulso della Giunta, quale è nella sostanza lo schema
del programma triennale delle opere pubbliche con l’elenco
annuale, e la relativa documentazione tecnico-finanziaria a
supporto; è mancata, altresì, la sua sottoposizione al
vaglio della collettività per sessanta giorni e
conclusivamente la contrapposizione dialettica sul tema tra
maggioranza e opposizione, contrapposizione che solo nella
sede consiliare può realizzarsi (Cons. St., sez. IV,
14.12.2002, n. 6917).
Nella fattispecie, l’assenza (incontestata) dello schema di
adozione del programma delle opere pubbliche e la violazione
dei termini regolamentari per la messa a disposizione di
tale necessario atto ai consiglieri sono stati, pertanto,
idonei a ledere in concreto il diritto all’informazione e
alle garanzie partecipative dei ricorrenti, non avendo avuto
essi alcun termine per la conoscenza degli atti in
questione, documenti essenziali a corredo sia del programma
triennale delle opere pubbliche e dell’elenco annuale sia
del bilancio di previsione, con evidente grave lesione delle
prerogative consiliari.
Peraltro, indipendentemente dalla circostanza che l’elenco
di opere approvato in Consiglio comunale sia stato o meno
esibito in corso di seduta (circostanza non chiara), resta
il fatto che esso non costituiva, né formalmente né
soprattutto sostanzialmente, quello schema previsto dalla
legge corredato di tutte le informazioni (finanziarie,
urbanistiche, tecniche) necessarie per una consapevole
scelta del consigliere comunale sul tema in oggetto.
9 - In accoglimento del detto motivo, la delibera di
Consiglio comunale impugnata relativa all’approvazione del
programma delle opere pubbliche va annullata.
10 - Da ciò discende, l'illegittimità della deliberazione n.
23 del 18.09.2015, recante ad oggetto "Approvazione piano
triennale delle opere pubbliche per il triennio 2015/2017 ed
elenco annuale", con conseguente illegittimità
(derivata) anche della successiva deliberazione del
Consiglio Comunale n. 25 del 18.09.2015, recante ad oggetto
"Approvazione del bilancio di previsione dell'esercizio
2015 e del bilancio pluriennale per il periodo 2015-2017 ex
DPR n. 194/1996, del bilancio di previsione finanziario
2015-2017 ex D.Lgs. n. 118/2011 e della Relazione
previsionale e programmatica 2015-2017 (comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti)", posto che, per
espressa previsione legislativa, il programma triennale
delle opere pubbliche e l’elenco annuale costituiscono parte
propedeutica, obbligatoria ed integrante del bilancio di
previsione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.12.2015 n. 1922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di abuso d’ufficio il dovere di
astensione da parte del soggetto qualificato deve ravvisarsi
anche laddove vengano in considerazione provvedimenti per i
quali è riconoscibile un interesse personale, anche
indiretto, ed il relativo presupposto di fatto deve
presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale
situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile
fattore inquinante in relazione alla determinazione del
contenuto dell’atto o dell’operazione da compiere.
---------------
3. Secondo una pacifica linea interpretativa
tracciata da questa Suprema Corte, la fattispecie
incriminatrice di cui all'art. 323 c.p., nella parte
relativa all'omessa astensione in presenza di un interesse
proprio dell'agente o di un prossimo congiunto, ha
introdotto nell'ordinamento, in via diretta e generale, un
dovere di astensione per i pubblici ufficiali o incaricati
di pubblico servizio che si trovino in una situazione di
conflitto di interessi.
Ne discende che l'inosservanza di tale dovere comporta
l'integrazione del reato anche quando faccia difetto, per il
procedimento ove l'agente è chiamato ad operare, una
specifica disciplina dell'astensione, o nei casi in cui la
disciplina eventualmente esistente riguardi un numero più
ridotto di ipotesi o sia priva di carattere cogente
(Sez. 6, n. 14457 del 15/03/2013, dep. 27/03/2013, Rv.
255324; Sez. 6, n. 7992/05 del 19/10/2004, Rv. 231477; v.,
inoltre, Sez. 6, 27.05.2014, n. 38350).
Tale obbligo, infatti, trova la sua fonte nella stessa
formulazione dell'art. 323 c.p., ove la previsione della
norma incriminatrice descrive come antidoverosa l'omessa
astensione in presenza di un interesse proprio e dei propri
congiunti, così tipizzando tale situazione di
incompatibilità e rinviando alla normativa extrapenale per
quelle diverse "negli altri casi prescritti" (v.,
in motivazione, Sez. 6, n. 11549 del 02/10/1998, dep.
06/11/1998, Rv. 213031).
Nel caso in esame emerge con chiarezza, dalla su esposta
ricostruzione in fatto dei Giudici di merito, la presenza di
un obbligo di astensione dell'imputato in relazione all'atto
di designazione del componente la su indicata Commissione
medica locale, sussistendo una situazione di evidente
conflitto di interessi in ragione del rapporto di coniugio,
con una palese ed originaria violazione del principio
generale di imparzialità e trasparenza nell'azione della
Pubblica amministrazione, riconducibile all'art. 97 Cost..
Il dovere di astensione, infatti, sussiste quando vengano
in considerazione provvedimenti per i quali è riconoscibile
un interesse personale anche indiretto (Sez. 6, n. 14457
del 15/03/2013 cit.) ed il relativo presupposto di fatto
deve presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale
situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile
fattore inquinante in relazione alla determinazione del
contenuto dell'atto o dell'operazione da compiere.
Potrebbe escludersi il dovere di astensione, dunque, solo
con riferimento all'adozione di provvedimenti normativi o di
carattere generale (ad es., le delibere di approvazione di
piani regolatori generali), frutto di un procedimento
complesso in cui confluiscano e si compensino molteplici
interessi, collettivi o individuali, sicché la decisione
espressa dal pubblico funzionario non riguardi una specifica
prescrizione, ma il contenuto generale dell'atto: nel caso
in questione, di contro, viene in rilievo l'adozione di un
provvedimento ad hoc, il cui esito decisorio è
oggettivamente caratterizzato da una correlazione diretta ed
immediata fra il contenuto dell'atto e l'incidenza sulla
sfera di concreti e specifici interessi del pubblico
funzionario e/o dei suoi prossimi congiunti (arg. ex
Sez. 6, n. 12642 del 28/01/2015, dep. 25/03/2015, Rv.
263069).
4. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi come
costituisca oramai espressione di un consolidato
orientamento interpretativo il principio secondo il quale,
ai fini dell'integrazione del reato di abuso di ufficio,
anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione è
necessario che a tale omissione, già fonte di una violazione
di legge, si aggiunga l'ingiustizia del vantaggio
patrimoniale procurato o del danno arrecato (così, tra
le diverse, Sez. 6, n. 47978 del 27/10/2009, Rv. 245447;
Sez. 6, n. 26324 del 26/04/2007, Rv. 236857; Sez. 6, n.
11415 del 21/02/2003, Rv. 224070).
Nel caso di specie, come si è visto, l'illegittimità della
scelta operata dall'imputato attraverso l'atto di
designazione compiuto in favore della moglie ne ha
determinato un illegittimo accrescimento della sfera
patrimoniale per effetto dell'erogazione degli emolumenti
spettanti ai componenti la predetta commissione, non essendo
affatto necessario -ai fini della distinta valutazione di
ingiustizia della condotta e dell'evento di vantaggio
patrimoniale, che deve risultare non spettante in base al
diritto oggettivo- che l'ingiustizia del vantaggio derivi da
una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha
caratterizzato l'illegittimità della condotta, qualora
l'accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba
considerarsi "contra ius" (Sez. 6, n. 11394 del
29/01/2015, dep. 18/03/2015, Rv. 262793).
È infatti sufficiente la violazione di prescrizioni
normative sul solo versante della condotta, sempre che, per
effetto di essa, il privato abbia ottenuto una posizione di
maggior favore alla quale non aveva diritto, senza che si
renda necessaria l'attribuzione di un vantaggio patrimoniale
attraverso la violazione di un'ulteriore norma di legge.
Occorre pertanto che il giudice effettui, al riguardo, una
duplice valutazione, tenendo ben distinto il profilo
inerente all'illegittimità della condotta da quello relativo
all'ingiustizia del vantaggio, non potendosi inferire
quest'ultima dall'accertata esistenza della violazione di
norme di legge o di regolamento (ex plurimis, v.
Cass., Sez. 6, 27.06.2009, Moro), ma dovendosi sempre
accertare che il privato non abbia titolo a ricevere il
vantaggio attribuitogli, perché non dovuto, cioè iniuste
datum, ovvero perché ottenuto sine iure (da
ultimo, v. Sez. 6, 31 marzo - 19.06.2015, n. 25944).
Il vantaggio, infatti, è ingiusto ogniqualvolta non trovi
fondamento in un corrispondente diritto sostanziale, dunque
non soltanto qualora sia in sé contrario all'ordinamento, ma
anche quando il privato non possa vantare, rispetto ad esso,
alcuna situazione giuridica soggettiva a sostegno della
relativa pretesa.
In tal senso, la contrarietà a diritto del vantaggio
patrimoniale acquisito dal soggetto prescelto per effetto
dell'atto di designazione è direttamente scaturita, nel caso
di specie, dall'ottenimento e dal conseguente svolgimento di
un incarico amministrativo conferito in presenza di una
situazione viziata, come si è già avuto modo di rilevare, da
un macroscopico conflitto d'interessi.
Del tutto congetturale e non assistito da un congruo
sostegno logico-argomentativo deve, infine, ritenersi il
passaggio della motivazione (v., supra, il par. 2) in
cui il Tribunale fa riferimento, per escludere l'esistenza
del dovere di astensione, alle implicazioni di una non
meglio precisata valutazione di "compatibilità" della
gestione dell'attività lavorativa della moglie, che gli
organi dirigenziali avrebbero espresso riguardo alle
funzioni in concreto svolte ed all'organizzazione dell'ASL
di appartenenza (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
VI penale,
sentenza 10.12.2015 n. 48913). |
APPALTI:
Nelle gare d’appalto sono clausole della lex
specialis immediatamente lesive, e quindi autonomamente
impugnabili senza attendere la loro concreta applicazione da
parte della stazione appaltante, le clausole che determinano
una sicura preclusione all’ammissione alla gara di un
potenziale concorrente.
Un onere di impugnazione immediata di clausole contenute
negli atti di indizione della gara, inoltre, può sussistere
qualora le relative clausole impediscano una corretta e
consapevole elaborazione dell'offerta: tale situazione si
verifica, in particolare, qualora la legge di gara preveda
disposizioni abnormi che rendano impossibile il calcolo di
convenienza tecnica ed economica ai fini della
partecipazione alla procedura concorsuale, ovvero
abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione
dell'offerta o, ancora, condizioni negoziali che configurano
il rapporto contrattuale in termini di eccessiva onerosità e
obiettiva non convenienza ed imposizioni di obblighi contra
ius.
---------------
Il ricorso è inammissibile.
Nelle gare d’appalto sono clausole della lex specialis
immediatamente lesive, e quindi autonomamente impugnabili
senza attendere la loro concreta applicazione da parte della
stazione appaltante, le clausole che determinano una sicura
preclusione all’ammissione alla gara di un potenziale
concorrente.
Un onere di impugnazione immediata di clausole contenute
negli atti di indizione della gara, inoltre, può sussistere
qualora le relative clausole impediscano una corretta e
consapevole elaborazione dell'offerta: tale situazione si
verifica, in particolare, qualora la legge di gara preveda
disposizioni abnormi che rendano impossibile il calcolo di
convenienza tecnica ed economica ai fini della
partecipazione alla procedura concorsuale, ovvero
abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione
dell'offerta o, ancora, condizioni negoziali che configurano
il rapporto contrattuale in termini di eccessiva onerosità e
obiettiva non convenienza ed imposizioni di obblighi
contra ius (cfr. TAR Lazio, I, 13.01.2014 n. 351; TAR
Liguria, II, 28.11.2013 n. 1449; TAR Veneto, I, 03.04.2013
n. 491).
Nel caso di specie la ricorrente contesta, in buona
sostanza, l’obbligo di rispetto della “clausola sociale”
nei termini e con le modalità imposti dalla stazione
appaltante che aveva onerato la ditta aggiudicataria
dell’assorbimento di tutto il personale dell’impresa uscente
con la conservazione, peraltro, del trattamento giuridico ed
economico in godimento (cfr. l’art. 9 del disciplinare di
gara): obbligo che, secondo la ricorrente, deve essere
interpretato in maniera elastica, in coerenza con l’assetto
organizzativo proprio della ditta subentrante, atteso che,
diversamente, la clausola si porrebbe in evidente contrasto
con i canoni di economia e di autonomia che necessariamente
permeano, pur calmierati dal principio di utilità sociale,
l’attività imprenditoriale e sarebbe, pertanto, illegittima.
Ebbene, a tal proposito deve osservarsi che se la predetta
clausola imponeva effettivamente oneri sproporzionati che
impedivano una corretta e consapevole elaborazione
dell’offerta –la ricorrente ha sottolineato, infatti, “che
negli atti di gara non era rinvenibile né il numero esatto
del personale in servizio alla data di pubblicazione
dell’avviso di gara né, tantomeno la qualifica e il livello
retributivo di inquadramento di ciascun lavoratore”,
talché non era possibile prevederne il costo con certezza-,
tant’è che la ricorrente era fin da subito determinata a
disattenderne il contenuto, allora quella clausola doveva
essere impugnata tempestivamente, senza attendere di essere
esclusa dalla gara in conseguenza della sua (pacificamente
preventivata) violazione.
È evidente, peraltro, che la clausola sociale, così come
formulata (in maniera chiara, precisa ed inequivoca)
nell’art. 9 del disciplinare, non poteva poi essere
interpretata dalla ricorrente limitandone l’efficacia
prescrittiva a proprio piacimento, alla luce di
quell’orientamento giurisprudenziale che afferma che la
clausola sociale, ove genericamente richiamata dal bando, ha
sì portata cogente, ma non tale da comportare l'obbligo per
l'impresa aggiudicataria di assumere a tempo indeterminato
ed in forma automatica e generalizzata tutto il personale
già utilizzato dalla precedente impresa affidataria del
servizio.
Nel caso di specie -lo si ribadisce- la legge di gara non
richiamava genericamente la clausola sociale, ma stabiliva
espressamente (in grassetto e sottolineato) che “…la
ditta aggiudicataria dovrà assorbire tutto il personale
impiegato dall’impresa uscente dal precedente appalto, con
mantenimento delle condizioni retributive…, pena la
risoluzione del contratto, senza necessità di alcun
preavviso da parte della Stazione appaltante”.
Si tratta, dunque, di una prescrizione chiara che non
consente interpretazioni diverse da quella letterale:
sicché, se la ricorrente voleva contestarne la portata (così
come ha fatto), perché ritenuta lesiva, doveva impugnarla
immediatamente, censurando gli atti di gara “in parte qua”.
Ciò in quanto la sua violazione (recte: la sua
omessa, integrale applicazione) avrebbe pacificamente ed
automaticamente comportato l’eliminazione dalla gara.
Nei confronti dell’odierna ricorrente, infatti, il
pregiudizio si è radicato -ossia l’attualità della lesione
si è verificata- già con la pubblicazione dell’avviso di
gara.
Quanto, poi, all’osservazione dell’interessata secondo cui
il rispetto della clausola sociale va verificato in sede di
esecuzione del servizio, se ciò è vero, è altresì vero che
essa ha comunicato la volontà di non voler applicare la
clausola nella sua integralità prima di eseguire le
prestazioni, sicché, per economia procedimentale –sarebbe
stato assurdo stipulare il contratto per poi risolverlo
immediatamente–, sussistendo i presupposti per
l’allontanamento della concorrente l’Amministrazione
appaltante l’ha (correttamente) esclusa dalla procedura
selettiva.
Donde l’inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione
della clausola asseritamente lesiva (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 10.12.2015 n. 5718 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’art.
21-nonies della legge 17.08.1990, n. 241 prevede che il
provvedimento amministrativo illegittimo può essere
annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo
previsto dalla legge.
E’ bene aggiungere che il decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164, ha posto uno sbarramento temporale
all’esercizio del potere di autotutela, rappresento da
«diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
---------------
4.– L’appello, a prescindere dalla questione
relativa all’eccepito difetto di interesse, è infondato.
L’art. 21-nonies della legge 17.08.1990, n. 241 prevede
che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere
annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo
previsto dalla legge.
Nella specie, pur volendo prescindere dalla questione
relativa alla sussistenza del vizio di legittimità dell’atto
di primo grado, manca il requisito rappresentato dalla
valutazione motivata della posizione dei soggetti
destinatari del provvedimento.
Nel caso in esame tale
affidamento era particolarmente qualificato, come messo
correttamente in rilievo dal primo giudice, in ragione del
lungo tempo trascorso dall’adozione delle concessioni
annullate. In particolare, risultano trascorsi tredici anni
dal rilascio del condono e ventinove anni dalla
presentazione della relativa domanda.
Né varrebbe rilevare che tale affidamento non potrebbe
venire in rilievo trattandosi di un provvedimento nullo.
L’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 indica, in
modo tassativo, quali sono i casi di nullità del
provvedimento: mancanza degli elementi essenziale dell’atto;
difetto assoluto di attribuzione; violazione o elusione del
giudicato; casi previsti dalla legge.
Nella fattispecie in esame non è dato riscontrare nessuno
dei casi sopra indicati: il Comune, infatti, nella
prospettiva dell’appellante, ha adottato un atto difforme
dal modello legale per mancanza del parere che, in quanto
tale, potrebbe ritenersi annullabile e non nullo.
E’ bene aggiungere che il decreto-legge 12.09.2014,
n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha posto uno sbarramento temporale
all’esercizio del potere di autotutela, rappresento da
«diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in
ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del
sistema degli interessi rilevanti.
5.– Gli altri motivi di appello sono anch’essi infondati, in
ragione dell’assorbente valenza invalidante sopra riportata.
In particolare, l’appellante, con tali motivi, fa valere
ulteriori ragioni di invalidità delle rilasciate concessioni
edilizie in sanatoria in ragione dell’esistenza di vincoli
paesaggistici e per il contrasto con gli strumenti
urbanistici.
Quelli indicati sono, però, eventuali vizi di
legittimità che, da soli, in assenza degli altri elementi
costitutivi del provvedimento di secondo grado, non
sarebbero comunque sufficienti a giustificare il disposto
annullamento
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.12.2015 n.
5625 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Specie
in tema di misure pecuniarie, solo un provvedimento
favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria può sortire
l’effetto di porre nel nulla, indistintamente, gli atti
sanzionatori in precedenza adottati in relazione all’abuso,
mentre, per converso, un suo diniego non comporta l’onere
per il comune di riattivare un procedimento sanzionatorio
ormai completamente definito.
----------------
- Rilevato che la ricorrente impugna una cartella
esattoriale emessa dal concessionario per la riscossione del
comune di Lamezia Terme con riferimento ad
un’ordinanza-ingiunzione per il pagamento di una sanzione
edilizia notificata il 17.12.2012 e non impugnata,
formulando censure sia sul merito della pretesa, sia sulla
ritualità formale della cartella;
- Ritenuto che, in materia edilizia, la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo consente allo stesso
una cognizione limitata alla sola legittimità
dell’iscrizione a ruolo, per la mancanza del titolo
legittimante o per l’esistenza di fatti estintivi
sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, senza
possibilità di vagliare eventuali vizi dell’esecuzione, che
devono essere fatti valere con l’opposizione agli atti
esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c., da attivarsi nel caso
in cui si contesti la ritualità formale della cartella
esattoriale o si adducano vizi di forma del procedimento di
esecuzione esattoriale, compresi quelli strettamente
inerenti alla notifica della cartella o riguardanti i
successivi avvisi di mora (cfr. Cass. civ, Sez. II,
22.02.2010 n. 4139; TAR Marche 17.05.2010 n. 389);
- Considerato che la parte ricorrente, nella parte
ammissibile del gravame, sostiene che gli effetti
dell’ordinanza ingiunzione sono venuti a meno in seguito
alle due SCIA in sanatoria, da lei presentate al comune di
Lamezia Terme in data 27.04.2012 ed in data 18.11.2012 e da
questo mai decise;
- Ritenuto che, specie in tema di misure pecuniarie, solo un
provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria
può sortire l’effetto di porre nel nulla, indistintamente,
gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione
all’abuso, mentre, per converso, un suo diniego non comporta
l’onere per il comune di riattivare un procedimento
sanzionatorio ormai completamente definito (cfr. TAR
Sardegna, Sez. II, 18.04.2013 n. 335)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 10.12.2015 n. 1865 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ben Ambientai. Accertamento di compatibilità paesaggistica
sussistenza del reato.
In tema di reati edilizi, la
responsabilità per la realizzazione di opere abusive è
configurabile anche nei confronti del nudo proprietario, che
abbia la disponibilità dell'immobile ed un concreto
interesse all'esecuzione dei lavori, a meno che egli non
alleghi circostanze utili a dimostrare che si tratti di
interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua
volontà.
---------------
Il reato di pericolo previsto dall'art.
181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della
sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva
autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei
ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui
conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se
l'amministrazione competente attesta la compatibilità
paesaggistica delle opere eseguite.
---------------
Il positivo accertamento di
compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in
zona vincolata non esclude la punibilità del reato di
pericolo di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua integrazione
un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il
rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente"
che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante" inoffensiva
o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato.
---------------
Il reato di cui all'art. 181 D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
qualora sia realizzato attraverso una condotta che si
protrae nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere
edilizie in zona sottoposta a vincolo, ha natura permanente
e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la
cessazione della condotta per qualsiasi motivo.
---------------
2. Orbene, nel
caso di specie, con motivazione congrua e priva di
smagliature logiche, la sentenza impugnata ha correttamente
affermato la responsabilità dell'imputato in ordine al reato
contestato, ritenendo prive di pregio le doglianze
difensive.
Come affermato da questa Corte (così Sez. 3, n. 39400 del
21/03/2013, Spataro, Rv. 257676), in tema
di reati edilizi, la responsabilità per la realizzazione di
opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo
proprietario, che abbia la disponibilità dell'immobile ed un
concreto interesse all'esecuzione dei lavori, a meno che
egli non alleghi circostanze utili a dimostrare che si
tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e
senza la sua volontà.
3. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha escluso con
motivazione logica e coerente che le condotte contestate
fossero da attribuire in via esclusiva al padre
dell'imputato, ormai deceduto, in quanto usufruttuario dei
terreni su cui erano state realizzate le opere abusive.
I giudici dì merito, infatti, hanno evidenziato che nella
nota indirizzata all'Ufficio tecnico del Comune di
Carloforte, era stato l'imputato a dichiarare che i lavori
edilizi di costruzione sarebbero stati eseguiti "in
proprio"; inoltre, il direttore dei lavori nel
trasmettere la dichiarazione di rinuncia ha dichiarato di
rinunciare per motivi personali "all'incarico del sig.
Bo.Ce.".
4. Alla luce di tali considerazioni risulta evidente,
pertanto, che l'intervento abusivo non poteva essere
considerato come opera esclusiva dell'usufruttuario
realizzata all'insaputa del nudo proprietario. Sicché
correttamente i giudici merito hanno ritenuto sussistente la
responsabilità dell'imputato anche se nudo proprietario dei
terreni, evidenziando come le dichiarazioni autoaccusatorie
del padre fossero state in realtà funzionali a scagionare il
figlio, e perciò altrettanto correttamente, hanno ritenuto
privo di pregio l'assunto difensivo secondo il quale, solo
il padre dell'imputato, in qualità di usufruttuario e dunque
di possessore del terreno, avrebbe dovuto essere considerato
autore del reato contestato.
5. Del pari, risultano infondate le censure prospettate con
riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti. Sul
punto, la sentenza impugnata ha evidenziato che
l'autorizzazione n. 7/2007 non aveva certamente assentito
l'intervento relativo alla realizzazione di uno stradello di
100 metri per il quale, invece, trattandosi di opera di
urbanizzazione primaria, sarebbe stata necessaria la
concessione edilizia (la legislazione sarda non ha ancora
adottato la terminologia del D.P.R. n. 380 del 2001, ma
nella sostanza i due istituti si equivalgono).
Peraltro, i giudici di merito hanno evidenziato come la
testimonianza del Sa. aveva chiarito che gli scavi
riguardavano un'area maggiore rispetto a quella che sarebbe
stata necessaria per la cisterna.
6. Per quanto attiene alla intervenuta dichiarazione di
conformità, ne è stata esclusa la rilevanza dai giudici del
merito in applicazione del principio per cui
il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua
configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva
autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei
ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui
conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se
l'amministrazione competente attesta la compatibilità
paesaggistica delle opere eseguite
(cfr. Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289).
E' stato anche affermato che il positivo
accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso
edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la
punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181, comma
1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua
integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in
quanto il rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente"
che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante"
inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico
tutelato (Sez. 3,
Sentenza n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263978).
7. Conformemente agli indirizzi sopra citati, la Corte
territoriale ha dato atto di alcuni elementi fattuali che
hanno assunto significativo rilievo ai fini della
valutazione di incidenza delle opere sull'assetto del
paesaggio. La motivazione della sentenza impugnata, infatti,
ha ritenuto che non potesse considerarsi inoffensiva la
realizzazione abusiva di uno sbancamento di terra e la
realizzazione di una stradina di quasi 120 metri di
lunghezza e di quasi 5 metri di larghezza in una zona
assoggettata al vincolo speciale della dichiarazione di
notevole interesse pubblico.
Di conseguenza, i giudici di merito hanno concluso con
motivazione esaustiva che l'opera realizzata aveva
costituito non già la classica pista di campagna, bensì
un'opera imponente che aveva mutato i tratti caratteristici
della zona.
8. Da ultimo, deve essere rigettata l'eccezione di
prescrizione del reato. Infatti, anche con riferimento alla
censura relativa alla datazione delle opere, si tratta
ancora una volta di un accertamento di fatto che non può
essere demandato al giudizio di legittimità, ove la
motivazione del provvedimento impugnato sia stata
congruamente e logicamente motivata.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha precisato che,
all'atto di accertamento da parte del Corpo Forestale, i
lavori abusivi erano ancora in corso; tale circostanza era
stata confermata dalle fotografie in atti, che attestavano
la presenza delle attrezzature da cantiere ancora in corso,
scavi e movimenti di terra recentissimi, atteso che, come ha
sottolineato il giudice di merito, la sede dei lavori non
era interessata dalla crescita di erba, e vi erano anche dei
tubi a vista.
Sotto un diverso profilo, la sentenza impugnata ha altresì
dato conto del fatto che era possibile ravvisare nelle opere
realizzate i caratteri di un intervento unitario di modifica
strutturale del terreno, e dunque ritenendo priva di
fondamento la prospettiva difensiva finalizzata a
prospettare la possibilità di valutare le opere
separatamente, segmentando il tempus commissi delicti
per ciascuna di esse.
9. Peraltro, giova ricordare che il reato
di cui all'art. 181 D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, qualora sia
realizzato attraverso una condotta che si protrae nel tempo,
come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona
sottoposta a vincolo, ha natura permanente e si consuma con
l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della
condotta per qualsiasi motivo
(cfr. Sez. 3, Sentenza n. 24690 del 18/02/2015, Mancini, Rv.
263926).
Pertanto, tenuto conto della data di accertamento del reato
avvenuta in data 25.02.2008, con un termine lungo di
prescrizione di sette anni e mezzo, e considerati i periodi
di sospensione determinati dai reiterati rinvii del
dibattimento disposti per l'adesione del difensore alle
astensioni proclamate dagli organismo di categoria (per un
totale di centosessantadue giorni), i termini di
prescrizione del reato contestato non sono ancora decorsi.
Per tali motivi, il ricorso deve essere rigettato ed il
ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese
processuali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.12.2015 n. 48451 - tratto da
www.lexambiente.it). |
VARI:
Volumetria non toccata, ok alla compravendita.
Nel caso in cui le irregolarità che riguardano un immobile
non hanno comportato l'aumento della volumetria, il
tribunale potrà autorizzarne la compravendita.
Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. sezione
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 09.12.2015 n. 24852.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì osservato che per
quanto riguarda la nullità prevista dall'art. 40 della legge
n. 47 del 1985 -derivando semplicemente dalla mancata
indicazione nell'atto, da parte dell'alienante, degli
estremi della concessione (ad edificare o in sanatoria)-
questa rappresenta una nullità formale, che va ricondotta
-nel sistema generale dell'invalidità- all'art. 1418 ultimo
comma cod. civ., in quanto la legge speciale eleva a
requisito formale del contratto la presenza in esso di
alcune dichiarazioni, la cui assenza comporta di per sé la
nullità dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità
dell'immobile che ne costituisce l'oggetto.
Gli Ermellini hanno, poi, evidenziato che gli artt. 17 e 40
della legge 28.02.1985, n. 47 comminano la nullità degli
atti tra vivi con i quali vengano trasferiti diritti reali
su immobili ove essi non contengano la dichiarazione degli
estremi della concessione edilizia dell'immobile oggetto di
compravendita, ovvero degli estremi della domanda di
concessione in sanatoria, sanzionando specificamente la sola
violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al
fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di
conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare
gli accertamenti sulla regolarità del bene stesso attraverso
il confronto tra la sua consistenza reale e quella
risultante dalla concessione edilizia, ovvero dalla domanda
di concessione in sanatoria.
Si evince, quindi, che nessuna invalidità deriverà al
contratto dalla difformità della realizzazione edilizia
rispetto alla licenza o alla concessione e, in generale, dal
difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo
del rispetto delle norme urbanistiche.
E quindi, in tema di esecuzione specifica dell'obbligo di
concludere un contratto di compravendita, ai sensi di legge,
non può essere pronunciata sentenza di trasferimento
coattivo ex art. 2932 cod. civ. non solo qualora l'immobile
sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia, ma
anche quando l'immobile sia caratterizzato da totale
difformità della concessione e manchi la sanatoria
(articolo ItaliaOggi Sette del
04.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere un contratto di compravendita, ai sensi della
Legge 28.02.1985, n. 47, articolo 40, non può essere
pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex articolo
2932 cod. civ. non solo qualora l’immobile sia stato
costruito senza licenza o concessione edilizia (e manchi la
prescritta documentazione alternativa: concessione in
sanatoria o domanda di condono corredata della prova
dell’avvenuto versamento delle prime due rate
dell’oblazione), ma anche quando l’immobile sia
caratterizzato da totale difformità della concessione e
manchi la sanatoria.
Nel caso in cui, invece, l’immobile, munito di regolare
concessione e di permesso di abitabilità, non annullati né
revocati, abbia un vizio di regolarità urbanistica non
oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto
alla concessione (nella specie, per la presenza di un
aumento, non consistente, della volumetria fuori terra
realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente
diverso o autonomamente utilizzabile), non sussiste alcuna
preclusione all’emanazione della sentenza costitutiva,
perché il corrispondente negozio di trasferimento non
sarebbe nullo ed è, pertanto, illegittimo il rifiuto del
promittente venditore (nella specie, a sua volta acquirente
dello stesso immobile in base a precedente rogito notarile)
di dare corso alla stipulazione del definitivo, sollecitata
dal promissario acquirente
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di
Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 09.12.2015 n. 24852). |
APPALTI SERVIZI: La revisione prezzi nei contratti ad esecuzione periodica o
continuativa riceve regolamentazione cogente dall’art. 6,
comma 4, della legge n. 537 del 1993 e successive
modificazioni, ora art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, a
tutela non solo della parte privata ma dello stesso buon
fine delle prestazioni nell’interesse pubblico, in un
contesto economico che si caratterizza per la fluttuazione
dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla
percentuale di utile considerata in sede di formulazione
dell'offerta.
Il carattere imperativo della norma non può, quindi,
ricevere deroga in base a successive e diverse convenzioni
contrattuali fra l’affidatario del servizio e l’
Amministrazione, cui non possa ricondursi, come nel caso di
specie, alcuna volontà concludente di rinunzia al benefizio
revisionale.
---------------
2. L’appello è fondato nella parte in cui si invoca
l’attivazione da parte dell’ Azienda Ospedaliera
dell’istruttoria per la verifica dei presupposti per il
riconoscimento dei compensi revisionali per il periodo
31.10.2006–14.01.2008.
Si tratta di un arco temporale che è restato regolato
dall’originario contratto di affidamento del servizio di
pulizia e di sanificazione dei presidi ospedalieri in base
all’offerta a tal fine formulata. A detto periodo di vigenza
contrattuale non trova quindi applicazione il principio
affermato dal TAR –e non contraddetto dall’odierna
appellante– in base al quale, per il periodo in cui
l’espletamento del servizio è proseguito in virtù di
apposita clausola di rinnovo del rapporto contrattuale, con
previsione di uno sconto sui corrispettivi inizialmente
convenuti, non può trovare applicazione il meccanismo di
revisione dei corrispettivi, perché incompatibile con la
volontà della ditta di rendere il servizio ad un minor costo
rispetto a quello in precedenza concordato e con
valutazione, quindi, della congruità del corrispettivo.
Il collegio reputa che -in assenza di espressa dichiarazione
della soc. Di. di non avvalersi del meccanismo di revisione
dei prezzi per il periodo antecedente al rinnovo
dell’appalto dei servizi- non può ricondursi
all’applicazione della clausola di rinnovo una rinunzia
implicita al riconoscimento dei compensi revisionali per il
periodo di vigenza a regime dell’iniziale rapporto
contrattuale.
Si tratta, invero, di materia che, nei contratti ad
esecuzione periodica o continuativa, riceve regolamentazione
cogente dall’art. 6, comma 4, della legge n. 537 del 1993 e
successive modificazioni, ora art. 115 del d.lgs. n. 163 del
2006, a tutela non solo della parte privata, ma dello stesso
buon fine delle prestazioni nell’interesse pubblico, in un
contesto economico che si caratterizza per la fluttuazione
dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla
percentuale di utile considerata in sede di formulazione
dell'offerta.
Il carattere imperativo della norma non può, quindi,
ricevere deroga in base a successive e diverse convenzioni
contrattuali fra l’affidatario del servizio e l’
Amministrazione, cui non possa ricondursi, come nel caso di
specie, alcuna volontà concludente di rinunzia al benefizio
revisionale (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 09.12.2015 n.
5601 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 65, primo comma, del
d.P.R. n. 380 del 2001, la denuncia concernente le opere di
conglomerato cementizio non deve essere effettuata prima del
rilascio del permesso di costruire, bensì prima dell’inizio
lavori.
Tale denuncia non costituisce dunque presupposto del
permesso di costruire, il quale deve essere comunque
rilasciato qualora l’opera sia conforme alla normativa
urbanistico edilizia vigente, ma costituisce adempimento
necessario affinché l’interessato possa dar corso ai lavori
(assentiti con il permesso di costruire già rilasciato).
Questa ricostruzione è confermata dagli artt. 68 e segg. del
d.P.R. n. 380 del 2001 i quali riservano una disciplina
speciale per l’esecuzione di lavori in assenza di denuncia:
la fattispecie non viene regolata in maniera analoga a
quella dell’abuso edilizio, prevedendosi l’intervento del
dirigente dell’ufficio tecnico regionale il quale -una volta
constatato, anche su segnalazione del comune, l’inizio di
lavori in assenza denuncia- ne dispone l’immediata
sospensione.
Se la denuncia costituisse un presupposto del permesso di
costruire, i lavori realizzati in assenza di essa dovrebbero
considerarsi abusivi (proprio come prospetta
l’Amministrazione resistente); con conseguente inutilità di
prevedere un trattamento sanzionatorio differenziato.
Ulteriore conferma è data dalla giurisprudenza, la quale
ritiene che la presentazione della denuncia delle opere in
cemento armato non è idonea ad impedire la decadenza del
permesso di costruire per l’inutile decorso del termine
annuale previsto per l’inizio lavori, termine stabilito
dall’art. 15, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E’ difatti ovvio che se si ritiene che, in questo caso, il
termine non viene interrotto e continua a decorre è perché
si ritiene anche che il permesso di costruire adottato prima
della presentazione della denuncia costituisce titolo
pienamente efficace.
----------------
Analogo discorso può essere svolto con riferimento alla
relazione per il contenimento energetico atteso che, anche
in questo caso, le norme dispongono che la sua presentazione
vada effettuata non già prima del rilascio del permesso di
costruire ma prima dell’inizio lavori.
Esplicito in tal senso è l’art. 28, primo comma, della legge
09.01.1991, n. 10 (Norme per l'attuazione del Piano
energetico nazionale in materia di uso razionale
dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle
fonti rinnovabili di energia) il quale stabilisce
espressamente che tale relazione va presentata
contestualmente alla denuncia di inizio lavori.
----------------
10. Ritiene il
Collegio che il motivo sia fondato per le ragioni di seguito
esposte.
11. Il permesso di costruire che ha assentito le opere in
relazione alla quali il Comune di Legano ha applicato il
contributo di costruzione in misura doppia è stato emanato
in data 23.11.2005.
12. L’accertamento compiuto dall’Amministrazione, in esito
al quale si è desunta l’abusività dell’intervento, è stato
effettuato successivamente: solo in data 26.01.2006 si è
proceduto a sopralluogo e si è verificata l’avvenuta
realizzazione delle opere.
13. Il ricorrente sostiene che l’intervento sarebbe stato
realizzato in questo lasso temporale e, dunque, dopo il
rilascio del titolo edilizio. In base a questa
ricostruzione, l’intervento stesso dovrebbe pertanto
considerarsi regolare.
14. L’Amministrazione sostiene però a sua volta che il
titolo sarebbe stato in realtà rilasciato solo in data
26.01.2006, giorno in cui la ricorrente ha provveduto al
deposito della denuncia dei conglomerati cementizi e della
relazione per il contenimento energetico. Prima di questo
momento, secondo la stessa Amministrazione, il permesso di
costruire doveva considerarsi inefficace, con conseguente
abusività delle opere precedentemente realizzate.
15. Ritiene il Collegio che questa argomentazione non sia
condivisibile.
16. Va invero osservato che, ai sensi dell’art. 65, primo
comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, la denuncia concernente
le opere di conglomerato cementizio non deve essere
effettuata prima del rilascio del permesso di costruire,
bensì prima dell’inizio lavori.
17. Tale denuncia non costituisce dunque presupposto del
permesso di costruire, il quale deve essere comunque
rilasciato qualora l’opera sia conforme alla normativa
urbanistico edilizia vigente, ma costituisce adempimento
necessario affinché l’interessato possa dar corso ai lavori
(assentiti con il permesso di costruire già rilasciato).
18. Questa ricostruzione è confermata dagli artt. 68 e segg.
del d.P.R. n. 380 del 2001 i quali riservano una disciplina
speciale per l’esecuzione di lavori in assenza di denuncia:
la fattispecie non viene regolata in maniera analoga a
quella dell’abuso edilizio, prevedendosi l’intervento del
dirigente dell’ufficio tecnico regionale il quale -una volta
constatato, anche su segnalazione del comune, l’inizio di
lavori in assenza denuncia- ne dispone l’immediata
sospensione. Se la denuncia costituisse un presupposto del
permesso di costruire, i lavori realizzati in assenza di
essa dovrebbero considerarsi abusivi (proprio come prospetta
l’Amministrazione resistente); con conseguente inutilità di
prevedere un trattamento sanzionatorio differenziato.
19. Ulteriore conferma è data dalla giurisprudenza, la quale
ritiene che la presentazione della denuncia delle opere in
cemento armato non è idonea ad impedire la decadenza del
permesso di costruire per l’inutile decorso del termine
annuale previsto per l’inizio lavori, termine stabilito
dall’art. 15, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr.
TAR Veneto, sez. II, 24.01.2008, n. 174). E’ difatti ovvio
che se si ritiene che, in questo caso, il termine non viene
interrotto e continua a decorre è perché si ritiene anche
che il permesso di costruire adottato prima della
presentazione della denuncia costituisce titolo pienamente
efficace.
20. Analogo discorso può essere svolto con riferimento alla
relazione per il contenimento energetico atteso che, anche
in questo caso, le norme dispongono che la sua presentazione
vada effettuata non già prima del rilascio del permesso di
costruire ma prima dell’inizio lavori.
21. Esplicito in tal senso è l’art. 28, primo comma, della
legge 09.01.1991, n. 10 (Norme per l'attuazione del Piano
energetico nazionale in materia di uso razionale
dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle
fonti rinnovabili di energia) il quale stabilisce
espressamente che tale relazione va presentata
contestualmente alla denuncia di inizio lavori.
22. Peraltro il permesso di costruire del 23.11.2005 non
contiene alcuna clausola che subordini la sua efficacia alla
presentazione della denuncia dei cementi armati e/o della
relazione per il contenimento del consumo energetico.
23. Solo nella comunicazione di avvenuta emanazione si
specifica che il rilascio è subordinato al deposito dei
summenzionati atti (oltre che ad altri adempimenti ivi
specificati); si deve però ritenere che l’Amministrazione
con il termine “rilascio” abbia in questo caso inteso
riferirsi alla consegna del titolo, ormai già in essere e
pienamente efficace. Ciò è confermato dal fatto che, in tale
comunicazione, il “rilascio” del titolo è subordinato
anche ad una serie di altri adempimenti (quali ad esempio il
versamento degli oneri) che certamente non incidono
sull’efficacia del titolo già emanato.
24. Da quanto sopra discende che, nella fattispecie
concreta, non è stata provata la sussistenza dell’abuso; ne
consegue quindi che non è giustificata la pretesa del Comune
di esigere il doppio del valore del contributo di
costruzione.
25. Per queste ragioni il motivo in esame deve essere
accolto. L’atto impugnato va pertanto annullato in parte qua
e l’Amministrazione deve essere condannata alla restituzione
della somma indebitamente percepita pari ad euro 19.852,16,
oltre interessi legali.
26. Poiché non è stata provata la malafede del Comune, ai
sensi dell’art. 2033 cod. civ., gli interessi decorrono dal
giorno della domanda e, dunque, dal giorno di notifica del
presente ricorso. Trattandosi di debito di valuta (cfr.
Cass. civ., sez. I, 10.11.1994, n. 9388), non è invece
dovuta la rivalutazione monetaria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.12.2015 n. 2581
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Venendo in considerazione una controversia
inerente alla contestazione di contributi di costruzione,
sussiste la giurisdizione di questo plesso di giustizia
amministrativa, ai sensi dell’art. 133, lett. f), del cod.
proc. amm..
In particolare, secondo quanto costantemente affermato dalla
giurisprudenza, le controversie attinenti alla
determinazione dell'an e del quantum dell'oblazione e del
contributo per oneri di urbanizzazione e per costo di
costruzione hanno ad oggetto diritti soggettivi delle parti
dell'obbligazione contributiva, e sono perciò devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi
dell'articolo 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm.;
giurisdizione che “comprende la totalità degli aspetti
dell'uso del territorio, nessuno escluso (...): sicché deve
intendersi in essa inclusa la materia relativa alla
determinazione, liquidazione e riscossione degli oneri di
urbanizzazione".
La giurisdizione del giudice amministrativo in ordine ai
suddetti profili non viene meno a seguito dell’emissione
dell’ingiunzione di pagamento ai sensi dell’articolo 2 del
R.D. n. 639 del 1910.
E’ stato, infatti, da tempo chiarito che “per un principio
giurisprudenziale pacifico, in materia di opposizione
all’ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali
dello Stato, la disposizione di cui all’art. 3 del R.D.
14.04.1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici
della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e,
pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera
di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze
che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla
normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla
cognizione di altro giudice”.
A tal riguardo, va, altresì, osservato che la scelta del
mezzo attraverso il quale l’Amministrazione esercita la
propria pretesa creditoria è neutra rispetto alla materia
del contendere, sicché da essa non può certo dipendere il
riparto di giurisdizione.
---------------
Il Consiglio di Stato, pronunciatosi, anche di recente, sul
tema della decorrenza della prescrizione del diritto di
credito relativo al contributo per costo di costruzione ex
art. 11 l. n. 10/1977 (oggi art. 16 del d.p.r. 06.06.2001,
n. 380), ha affermato che il detto termine di prescrizione
comincia a decorrere dal momento stesso del rilascio della
concessione edilizia.
La disposizione dell’art. 11 della legge n. 10 del 1977, in
tema di “Versamento del contributo afferente alla
concessione”, stabilisce quanto segue: “La quota di
contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata
all’atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in
corso d’opera con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla
ultimazione delle opere”.
Da tale norma si desume, invero, che il fatto costitutivo
dell’obbligo giuridico del titolare della concessione
edilizia, di versare il contributo previsto, è rappresentato
dal rilascio della concessione medesima ed è a tale momento,
quindi, che occorre avere riguardo per la determinazione
dell’entità del contributo, divenendo il relativo credito
certo, liquido o agevolmente liquidabile ed esigibile.
Né alcun rilevo, in senso contrario, può assumere la
circostanza che al Comune sia espressamente riconosciuta la
facoltà di stabilire modalità e garanzie per il pagamento
del contributo, atteso che l’atto di imposizione non ha
carattere autoritativo, ma si risolve in un mero atto
ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti
provvedimenti di carattere generale e la sua mancata
tempestiva adozione non implica alcun potere
dell’Amministrazione di differire il suo diritto di credito,
configurandosi, piuttosto, come mancato esercizio del
diritto stesso, idoneo a far decorrere il periodo di
prescrizione.
Detta decorrenza, secondo la giurisprudenza maggioritaria,
vale sia per la quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione che per quella relativa al costo di
costruzione.
---------------
...
per l'annullamento dell’ingiunzione adottata, ai sensi del
R.D. 14.04.1910 n. 639, a seguito dell’esecutività disposta
dal Consigliere Dirigente della Pretura di Cosenza in data
26.06.1998 e concernente il pagamento di contributi per la
costruzione di un fabbricato per civile abitazione pari
all’importo di £ 1.485.000.
...
1. Va premesso che, venendo in considerazione una controversia inerente
alla contestazione di contributi di costruzione, sussiste la
giurisdizione di questo plesso di giustizia amministrativa,
ai sensi dell’art. 133, lett. f), del cod. proc. amm. (cfr.
Cass. Civ. SS.UU., 16.03.2010, n. 6314; Cass. Civ. SS.UU.
14.07.2005, n. 14801; Consiglio di Stato, sez. IV,
21.08.2013, n. 4208; C.G.A. 18.03.2013, n. 371).
In particolare, secondo quanto costantemente affermato dalla
giurisprudenza, le controversie attinenti alla
determinazione dell'an e del quantum dell'oblazione e del
contributo per oneri di urbanizzazione e per costo di
costruzione hanno ad oggetto diritti soggettivi delle parti
dell'obbligazione contributiva, e sono perciò devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi
dell'articolo 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm. (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208; da
ultimo TAR Lombardia Milano, sez. II, 05.08.2015,
n. 1887); giurisdizione che “comprende la totalità degli
aspetti dell'uso del territorio, nessuno escluso (...):
sicché deve intendersi in essa inclusa la materia relativa
alla determinazione, liquidazione e riscossione degli oneri
di urbanizzazione" (Cass. civ., SS. UU., 20.10.2006, n.
22514).
La giurisdizione del giudice amministrativo in ordine ai
suddetti profili non viene meno a seguito dell’emissione
dell’ingiunzione di pagamento ai sensi dell’articolo 2 del
R.D. n. 639 del 1910.
E’ stato, infatti, da tempo chiarito che “per un principio
giurisprudenziale pacifico, in materia di opposizione
all’ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali
dello Stato, la disposizione di cui all’art. 3 del R.D. 14.04.1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici
della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e,
pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera
di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze
che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla
normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla
cognizione di altro giudice (cfr., di recente, Cass., SS. UU.
n. 1238 del 30.01.2002)” (Cons. Stato, Sez. VI, 29.11.2005, n. 6748).
A tal riguardo, va, altresì, osservato che la scelta del
mezzo attraverso il quale l’Amministrazione esercita la
propria pretesa creditoria è neutra rispetto alla materia
del contendere, sicché da essa non può certo dipendere il
riparto di giurisdizione (Cass. Civ. S.U., 08.02.2013,
n. 3043).
2. Passando all’esame del ricorso, va rilevata
l’infondatezza del primo motivo, secondo cui la
notificazione dell’ordinanza sarebbe inesistente, in quanto
effettuata in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2
del r.d. n. 639/1910, non essendo stata notificata nelle
prescritte forme della citazione da un Ufficiale Giudiziario
addetto alla Pretura o da un Usciere addetto all’Ufficio di
Conciliazione, bensì tramite messo comunale.
Premesso che, nell’ambito della giurisdizione
amministrativa, l’ingiunzione de qua rileva non come atto
iniziale del procedimento di riscossione coattiva, ma come
atto di estrinsecazione formale della pretesa creditoria da
far valere nei termini prescrizionali (TAR Milano, sez. II, 12.04.2007, n. 1780; TAR Milano sez. II,
05.08.2015, n. 1887), eventuali vizi della notificazione non
incidono sulla validità dell’atto amministrativo, ma si
riflettono, semmai, sul termine di impugnazione, che decorre
dall’effettiva conoscenza (Consiglio di Stato, sez. IV, 27.10.2003, n. 6631), con l’ulteriore conseguenza che
eventuali vizi sono sanati dal raggiungimento dello scopo.
Invero, nel caso, l’ordinanza, ancorché notificata per il
tramite del messo comunale (possibilità prevista solo con la
successiva legge n. 296 del 2006, art. 1, comma 158),
comunque, è stata ricevuta dal destinatario dell’atto, per
come ammesso in ricorso, e avverso la stessa sono state
fatte valere le doglianze di cui al presente.
Ne consegue, quindi, che la notificazione ha raggiunto lo
scopo, restando, pertanto, irrilevanti i vizi di
notificazione.
3. Parimenti infondato è il secondo motivo, con il quale, in
modo del tutto generico, i ricorrenti lamentano il difetto
di motivazione nell’atto impugnato, per l’asserita
incertezza sul credito e sull’importo dovuto, in mancanza di
indicazioni sulla circostanza che il credito afferisca ad
oneri di urbanizzazione o al costo di costruzione e in
mancanza di qualunque criterio che possa consentire l’esatta
indicazione dell’importo ingiunto.
3.1. Invero, l’atto appare sufficientemente idoneo ad
individuare la sua ragione giustificativa, facendo esso
riferimento al contributo da corrispondere relativo alla
costruzione in zona C in relazione alla concessione edilizia
n. 16 e alla variante n. 10 del 14/07/1984.
3.2. Peraltro, anche la contestazione relativa alla
quantificazione appare generica, mancando una specifica
censura in merito ed essendo onere del ricorrente
dimostrarne l’erroneità, opponendo la propria
quantificazione a quella dell’Amministrazione, il che non è
avvenuto nel caso di specie.
4. Fondato è, invece, il terzo motivo, con il quale i
ricorrenti contestano l’intervenuta prescrizione decennale
del credito de quo.
I ricorrenti espongono che il de cuius avrebbe realizzato un
fabbricato per civile abitazione in agro del Comune di
Marano Marchesato, giusta concessione edilizia n. 16/1980 e
successiva variante n. 10 al progetto esecutivo (che
dall’atto impugnato risulta del 14.07.1984); affermano,
altresì, che l’ultimazione dei lavori sarebbe avvenuta il 26.06.1985, senza che sia stato mai vantato il credito in
questione da parte dell’Amministrazione intimata.
Orbene, il Consiglio di Stato, pronunciatosi, anche di
recente (Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2014, n. 2949; 16.01.2009 n. 216;
06.06.2008 n. 2686), sul tema della
decorrenza della prescrizione del diritto di credito
relativo al contributo per costo di costruzione ex art. 11
l. n. 10/1977 (oggi art. 16 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380),
ha affermato che il detto termine di prescrizione comincia a
decorrere dal momento stesso del rilascio della concessione
edilizia.
La disposizione dell’art. 11 della legge n. 10 del
1977, in tema di “Versamento del contributo afferente alla
concessione”, stabilisce quanto segue: “La quota di
contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata
all’atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in
corso d’opera con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla
ultimazione delle opere”.
Da tale norma si desume, invero,
che il fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del titolare
della concessione edilizia, di versare il contributo
previsto, è rappresentato dal rilascio della concessione
medesima ed è a tale momento, quindi, che occorre avere
riguardo per la determinazione dell’entità del contributo,
divenendo il relativo credito certo, liquido o agevolmente
liquidabile ed esigibile.
Né alcun rilevo, in senso contrario, può assumere la
circostanza che al Comune sia espressamente riconosciuta la
facoltà di stabilire modalità e garanzie per il pagamento
del contributo, atteso che l’atto di imposizione non ha
carattere autoritativo, ma si risolve in un mero atto
ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti
provvedimenti di carattere generale e la sua mancata
tempestiva adozione non implica alcun potere
dell’Amministrazione di differire il suo diritto di credito,
configurandosi, piuttosto, come mancato esercizio del
diritto stesso, idoneo a far decorrere il periodo di
prescrizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.01.2014, n. 2949; Cons. Stato, Sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
Detta decorrenza, secondo la giurisprudenza maggioritaria,
vale sia per la quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione che per quella relativa al costo di
costruzione.
4.1. Nel caso in esame, la concessione risulta essere stata
rilasciata nel 1980 e la variante in data 14.07.1984;
l’ultimazione dei lavori sarebbe avvenuta in data 26.06.1985, ma non risulta agli atti del giudizio comunicazione
della data di ultimazione degli stessi.
Orbene, l’impugnata ingiunzione è diventata esecutoria in
data 26.06.1998 ed è stata notificata in data 17.12.1998, ossia quando ormai il diritto di credito del
Comune si era estinto per compimento di oltre dieci anni dal
rilascio della variante (14.07.1984).
4.2. Va aggiunto che la prescrizione del credito sussiste
anche se si volesse seguire la tesi giurisprudenziale,
secondo cui, a norma dell’art. 11, comma 2, della legge 28.01.1977 n. 10 (oggi art. 16, comma 3, del d.p.r.
n. 380/2001), il termine prescrizionale comincia a decorrere
dal sessantesimo giorno successivo all’ultimazione delle
opere.
La citata disposizione va, infatti, coordinata con quella di
cui all’art. 4, comma 4, della stessa legge citata n. 10/1977
(oggi art. 15, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001), ai sensi del
quale “Il termine per l’inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il
quale l’opera deve essere abitabile o agibile, non può
essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con
provvedimento motivato, solo per fatti esterni alla volontà
del concessionario …”.
Poiché la norma citata prevede che, comunque, l’opera deve
essere ultimata entro tre anni dal rilascio della
concessione, a tutto concedere, il “dies a quo” poteva
essere portato avanti di un triennio (al 14.07.1987),
per cui, anche in mancanza dell’allegazione della
dichiarazione di ultimazione lavori, delle due l’una, o i
lavori non erano ultimati alla scadenza dei tre anni e
allora la concessione edilizia era venuta meno, ovvero erano
terminati, e allora l’Amministrazione avrebbe dovuto
richiedere il pagamento del contributo in questione (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 16.01.2009, n. 216).
4.3. Alla luce delle considerazioni esposte, essendo
ampiamente trascorso il termine decennale di prescrizione,
il ricorso merita, per tale motivo, accoglimento (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.12.2015 n. 1846 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In materia di bonifica di siti inquinati, l'art. 240, D.Lgs.
03.04.2006, n. 152, si ispira al principio comunitario
del "chi inquina, paga" secondo cui l'obbligo di adottare le
misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la
situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui
che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato
causa a titolo di dolo o colpa.
Tale obbligo, pertanto, non
può essere accollato al proprietario incolpevole, ove manchi
ogni sua responsabilità, sicché la Pubblica Amministrazione
non può ordinare ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato,
ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene,
lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento.
Tanto la disciplina di cui al d.lgs. n.
22/1997 (in particolare, l’art. 17, comma 2), quanto quella
introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in particolare, gli
artt. 240 e segg.), si ispirano al principio secondo cui
l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive,
idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a
carico unicamente di colui che di tale situazione sia
responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o
colpa: l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può
essere invece addossato al proprietario incolpevole, ove
manchi ogni sua responsabilità.
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che
non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del
fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali
proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di
recupero e di risanamento (così, nel vigore della precedente
disciplina). L’enunciato è conforme al principio “chi
inquina, paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (cfr.
art. 174, ex art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone
al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di
sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta,
come detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg.
del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si
desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli
interventi di recupero ambientale, anche di carattere
emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che
potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero
il gestore dell’area interessata.
Va precisato, in argomento, che il principio “chi inquina,
paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza
d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di
Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle
misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m),
del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve
termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza
di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione
repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la
diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione,
impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed
a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di
bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente).
Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza
d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al
soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del
d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve sottolineare che a carico del proprietario dell’area
inquinata, che non sia altresì qualificabile come
responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di
porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà
di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da
pesi.
Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice
ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di mancata
esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del
responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata
individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né
il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le
opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A.
competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile
nei limiti del valore dell’area bonificata, anche
esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le
garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi
interventi.
Del resto, l’obbligo di procedere alla bonifica dell’area
non potrebbe neanche essere desunto, come preteso dagli atti
impugnati, dall’applicazione della previsione dell’art. 2051
c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode);
a prescindere da ogni considerazione relativa all’aspetto
temporale della problematica (che richiederebbe
l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento
dell’inquinamento e non in un periodo di tempo di molto
successivo, come avvenuto nel caso di specie), deve,
infatti, rilevarsi come si tratti di un criterio che si
presenta in contraddizione con i precisi criteri di
imputazione degli obblighi di bonifica previsti dagli artt.
240 e ss. e 252-bis, 2° comma, del d.lgs. 03.04.2006, n.
152.
In buona sostanza, si tratta pertanto di una disciplina
esaustiva della problematica che non può certo essere
integrata dalla sovrapposizione di principi (come quello
previsto dall’art. 2051 c.c.) desunti da diversa normativa e
che determinerebbero la sostanziale alterazione di un
contenuto normativo improntato a ben diversi principi.
---------------
L’impostazione seguita dalla Sezione è poi stata pienamente
confermata, sotto il profilo del diritto interno,
dall’ordinanza 25.09.2013 n. 21 dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato che ha così concluso: <<emerge, quindi,
come l'orientamento interpretativo di gran lunga prevalente
escluda la possibilità per l'Amministrazione nazionale di
imporre al proprietario non responsabile della
contaminazione misure di messa in sicurezza d'emergenza o di
bonifica del sito inquinato. A tale indirizzo, l'Adunanza
Plenaria ritiene di dover dare continuità, in quanto esso,
alla luce delle considerazioni già svolte, esprime l’unica
interpretazione compatibile con il tenore letterale delle
disposizioni in esame>>.
---------------
Il primo motivo di
ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto.
La problematica è già stata affrontata dalla Sezione con
numerose decisioni (TAR Toscana, sez. II, 11.05.2010 n. 1397
e 1398, 19.10.2012 n. 1659, 1664 e 1666), spesso rese con
riferimento al S.I.N. di Massa-Carrara e che possono essere
richiamate anche in funzione motivazionale della presente
decisione: <<come questa Sezione ha più volte avuto modo
di affermare (cfr., ex multis, TAR Toscana, Sez. II,
17.04.2009, n. 665; id., 06.05.2009, n. 762), tanto la
disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare,
l’art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n.
152/2006 (ed in particolare, gli artt. 240 e segg.), si
ispirano al principio secondo cui l’obbligo di adottare le
misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la
situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui
che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato
causa a titolo di dolo o colpa: l’obbligo di bonifica o di
messa in sicurezza non può essere invece addossato al
proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità
(cfr., nello stesso senso, TAR Sicilia, Catania, Sez. I,
26.07.2007, n. 1254).
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che
non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del
fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali
proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di
recupero e di risanamento (così, nel vigore della precedente
disciplina, TAR Veneto, Sez. II, 02.02.2002, n. 320).
L’enunciato è conforme al principio “chi inquina, paga”, cui
si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 174, ex art.
130/R, del Trattato CE), la quale impone al soggetto che fa
correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi
della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta,
come detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg.
del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si
desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli
interventi di recupero ambientale, anche di carattere
emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che
potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero
il gestore dell’area interessata (TAR Toscana, Sez. II, n.
665/2009, cit.).
Va precisato, in argomento, che il principio “chi inquina,
paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza
d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di
Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle
misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m),
del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve
termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza
di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione
repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la
diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione,
impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed
a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di
bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente).
Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza
d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al
soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del
d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve sottolineare che a carico del proprietario dell’area
inquinata, che non sia altresì qualificabile come
responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di
porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà
di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da
pesi.
Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice
ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di mancata
esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del
responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata
individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né
il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le
opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A.
competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile
nei limiti del valore dell’area bonificata, anche
esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le
garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi
interventi (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10.07.2007, n.
5355; TAR Toscana, Sez. II, 17.09.2009, n. 1448)……Del resto,
l’obbligo di procedere alla bonifica dell’area non potrebbe
neanche essere desunto, come preteso dagli atti impugnati,
dall’applicazione della previsione dell’art. 2051 c.c. (che
regolamenta la responsabilità civile del custode); a
prescindere da ogni considerazione relativa all’aspetto
temporale della problematica (che richiederebbe
l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento
dell’inquinamento e non in un periodo di tempo di molto
successivo, come avvenuto nel caso di specie), deve,
infatti, rilevarsi come si tratti di un criterio che si
presenta in contraddizione con i precisi criteri di
imputazione degli obblighi di bonifica previsti dagli artt.
240 e ss. e 252-bis, 2° comma, del d.lgs. 03.04.2006, n.
152.
In buona sostanza, si tratta pertanto di una disciplina
esaustiva della problematica che non può certo essere
integrata dalla sovrapposizione di principi (come quello
previsto dall’art. 2051 c.c.) desunti da diversa normativa e
che determinerebbero la sostanziale alterazione di un
contenuto normativo improntato a ben diversi principi>>
(TAR Toscana, sez. II, 19.10.2012 n. 1659, 1664 e 1666).
L’impostazione seguita dalla Sezione è poi stata pienamente
confermata, sotto il profilo del diritto interno,
dall’ordinanza 25.09.2013 n. 21 dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato (resa proprio sugli appelli proposti
sulle sentenze 19.10.2012 n. 1659, 1664 e 1666 della
Sezione), che ha così concluso: <<emerge, quindi, come
l'orientamento interpretativo di gran lunga prevalente
escluda la possibilità per l'Amministrazione nazionale di
imporre al proprietario non responsabile della
contaminazione misure di messa in sicurezza d'emergenza o di
bonifica del sito inquinato. A tale indirizzo, l'Adunanza
Plenaria ritiene di dover dare continuità, in quanto esso,
alla luce delle considerazioni già svolte, esprime l’unica
interpretazione compatibile con il tenore letterale delle
disposizioni in esame>>.
Sotto il profilo del diritto comunitario, la soluzione è poi
stata confermata da Corte giust. UE, sez. III, 04.03.2015 n.
534 (resa sul rinvio pregiudiziale operato da Cons. Stato,
ad plen. ord. 25.09.2013 n. 21) che ha rilevato come <<l’articolo
191, paragrafo 2, TFUE non p(ossa) essere invocato dalle
autorità competenti in materia ambientale per imporre misure
di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento
giuridico nazionale>> (punto n. 41 della motivazione) e
ricapitolato, sulla base della propria precedente
giurisprudenza, le condizioni di applicabilità della
direttiva 21.04.2004, n. 2004/35/CE (direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno
ambientale); in particolare le condizioni di applicabilità
della dir. 21.04.2004, n. 2004/35/CE sono state individuate:
a) nel fatto che l’<<evento o … incidente>> fonte di
inquinamento si sia verificato il 30.04.2007 o
successivamente (punto n. 44 della motivazione);
b) nella possibilità, al fine del riconoscimento della
responsabilità oggettiva, di riportare l’autore
dell’inquinamento alla tipologia di operatore ed alle
lavorazioni previste dall’Allegato III alla direttiva (punto
n. 53);
c) nel riconoscimento (in aggiunta o in sostituzione
dell’elemento riportato alla lettera precedente, in questo
caso con riferimento alla responsabilità da dolo o colpa)
della sussistenza di un nesso causale tra le attività svolte
e l’inquinamento (punti 54 e ss. della motivazione).
Nel caso di specie, dalla documentazione in atti non si
evince alcun accertamento istruttorio volto a determinare la
sussistenza dei presupposti soggettivi per l’imposizione, a
carico dell’odierna ricorrente, degli obblighi di messa in
sicurezza; in particolare, né nelle conferenze di servizi
che hanno preceduto l’emanazione dell’atto impugnato, né nel
decreto direttoriale impugnato si rinviene alcun
approfondimento istruttorio volto ad accertare un
comportamento dell’odierna ricorrente, che possa aver dato
luogo all’inquinamento dell’area; dai pochi elementi
valutati dalla conferenza di servizi istruttoria emergono
anzi circostanze fattuali (svolgimento di attività di
concessionaria di autoveicoli e, successivamente, di
stoccaggio sull’area; mancanza di contaminazione del terreno
sottostante) che portano a ritenere assai improbabile che
l’inquinamento da tetracloroetilene della falda acquifera
possa derivare dalle attività svolte dalla ricorrente,
essendo piuttosto probabile che derivi da altre attività
svolte nell’area industriale in questione.
Per quello che riguarda l’applicabilità della dir.
21.04.2004, n. 2004/35/CE, non è poi stato svolto alcun
accertamento in proposito e non sussiste alcun elemento che
possa portare a ritenere sussistenti i tre requisiti della
responsabilità richiamati da Corte giust. UE, sez. III,
04.03.2015 n. 534.
In definitiva, il ricorso deve pertanto essere accolto e
deve essere disposto l’annullamento degli atti impugnati
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 09.12.2015 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La determinazione di mancato invito ad un
operatore economico a partecipare ad una gara può essere
individuata anche in precedenti comportamenti negativi del
medesimo operatore.
Ai sensi dell'articolo 2 del D.Lgs. 12.4.2006, n.163,
l'affidamento e l'esecuzione dei servizi e forniture deve
garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel
rispetto dei principi di efficacia, tempestività e
correttezza.
In applicazione del citato principio generale, sono esclusi
dalla partecipazione alle procedure di affidamento degli
appalti di lavori, servizi e forniture e non possono
stipulare i relativi contratti i soggetti che, secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che gestisce
la gara, o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio
della loro attività professionale, accertato con qualsiasi
mezzo di prova da parte della stazione appaltante.
Ciò premesso, se è vero che la citata norma prevede che
l'esclusione venga disposta "secondo motivata valutazione
della stazione appaltante", è altresì indubitabile che
l'esistenza in tal senso di una valutazione discrezionale
dell'amministrazione debba essere verificata avuto riguardo
alla peculiarità della vicenda oggetto di causa, la quale si
caratterizza per la circostanza che l'operatore non invitato
era parte del pregresso rapporto contrattuale inerente lo
svolgimento del medesimo servizio oggetto di nuovo
affidamento.
In tale situazione, dunque, non può farsi esclusivo
riferimento, ai fini dell'accertamento della concreta
esistenza di una determinazione di non invito e della sua
motivazione, agli atti specificamente inerenti la singola
procedura concorsuale, ma occorre estendere l'indagine anche
a quelli che hanno caratterizzato il rapporto contrattuale
in scadenza. Sicché la determinazione di mancato invito e le
sue ragioni possono essere individuate anche in atti
precedenti nei quali la pubblica amministrazione abbia in
anticipo chiaramente palesato la propria volontà di non
affidare il servizio per il futuro a tale operatore
economico.
Tale valutazione, invero, ove esistente, esprime già le
ragioni della "motivata valutazione" e va a
costituire, nella nuova procedura, l'atto di mancato invito
ovvero ad integrare, quanto a supporto motivazionale, l'atto
implicito di mancato invito che, in assenza di espressa
determinazione provvedimentale, voglia individuarsi nel
nuovo procedimento di affidamento del servizio (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2015 n. 5564 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Fuori gara con il mancato invito. Consiglio di
Stato. Il giudizio negativo sul contraente del precedente
appalto.
Se la stazione appaltante si è già
espressa sull’affidabilità del contraente uscente che ha
commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione
dell’appalto, lo stesso può essere escluso “implicitamente”
dalla nuova gara anche con un mancato invito, essendo
quest’ultimo atto ormai vincolato.
Il Consiglio di
Stato -Sez. IV,
sentenza 07.12.2015 n. 5564- ha così bocciato il
ricorso di una società che contestava a un Tribunale il
mancato invito alla nuova gara per il noleggio di sistemi di
supporto alle intercettazioni della Procura sulla base di «disservizi
e inadempimenti» nel contratto precedente per lo stesso
servizio.
Secondo la ricorrente, per l’esclusione dalla nuova gara era
necessario un atto formale «secondo motivata valutazione
della stazione appaltante» come previsto dal Codice
appalti in tema di «requisiti di ordine generale»
(comma f, articolo 38, del Dlgs 163/2006) per chi ha
commesso grave negligenza o malafede negli affidamenti della
Pa che indice il bando.
Per il Tribunale, invece, la «motivata valutazione»
era in una nota di contestazioni inviata tre mesi prima
della scadenza del contratto e in cui si precisava come,
seppur con gravi violazioni, alla risoluzione o al recesso
anticipato si fosse preferito attenderne il termine ormai
vicino, e si dichiarava la volontà di non rinnovarlo «essendo
venuto meno il rapporto di fiducia».
Respingendo la tesi dell’ormai ex gestore, il collegio ha
chiarito che in questi casi «… non può farsi esclusivo
riferimento, ai fini dell’accertamento della concreta
esistenza di una determinazione di non invito e della sua
motivazione, agli atti specificamente inerenti la singola
procedura concorsuale, ma occorre estendere l’indagine anche
a quelli che hanno caratterizzato il rapporto contrattuale
in scadenza», perciò «la determinazione di mancato
invito e le sue ragioni possono essere individuate anche in
atti precedenti nei quali la pubblica amministrazione abbia
in anticipo chiaramente palesato la propria volontà di non
affidare il servizio per il futuro a tale operatore
economico».
Per i giudici, «tale valutazione, invero, ove esistente,
esprime già le ragioni della “motivata valutazione” e va a
costituire, nella nuova procedura, l’atto di mancato invito
ovvero ad integrare, quanto a supporto motivazionale, l’atto
implicito di mancato invito che, in assenza di espressa
determinazione provvedimentale, voglia individuarsi nel
nuovo procedimento di affidamento del servizio».
Nel caso in esame si è spiegato che «si è, dunque, in
presenza di un mancato invito consentito dalla normativa, il
quale non è arbitrario né irragionevole», posto che «si
palesa come atto vincolato, meramente applicativo di una
scelta già in precedenza espressa dall’organo pubblico».
Nella sentenza si è poi ribadito che la non “annullabilità”
dell'atto adottato in violazione di legge è ammessa dalle
norme sul procedimento (articolo 21-octies, articolo
241/1990) solo «qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato», ma nella fattispecie ciò vale anche se segue
un’attività discrezionale che «(…) in ordine alla
motivata valutazione circa la sussistenza di inadempimenti
escludenti era già stata esercitata (e consumata)...»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Quando muore una persona estranea al cantiere si deve sempre
verificare se il comportamento della stessa possa essere
qualificato come anormale e quindi capace di interrompere il
nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante.
Nel valutare la possibile dipendenza
causale tra le contestate omissioni di norme cautelari e
l'evento morte occorso a carico della Gi. (e in relazione
alla presenza di una RSA nel comprensorio dell'ospedale),
sarebbe stato (ed è) necessario approfondire -secondo la
giurisprudenza di questa Corte richiamata nella stessa
sentenza impugnata- se il fatto fosse ricollegabile
all'inosservanza delle predette norme secondo i principi di
cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., e cioè sempre che la
presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed
all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento
dell'infortunio non rivestisse carattere di anormalità,
atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto
il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante,
e la norma violata miri a prevenire l'incidente
verificatosi.
---------------
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La motivazione offerta dal GUP nella sentenza impugnata, e
contestata dal P.M. ricorrente, appare infatti quanto meno
lacunosa e comunque insufficiente, nella premessa che,
secondo il prevalente e qui condiviso indirizzo di questa
Corte, il controllo del giudice di legittimità sulla
motivazione della sentenza di non luogo a procedere non può
avere per oggetto gli elementi acquisiti dal Pubblico
Ministero ma solo la giustificazione adottata dal giudice
nel valutarli e, quindi, la riconoscibilità del criterio
prognostico adottato nella valutazione d'insieme degli
elementi acquisiti dal P.M. per escludere che l'accusa sia
sostenibile in giudizio (da ultimo vds. Cass. Sez. 2, n.
5669 del 28/01/2014 - dep. 05/02/2014, P.M. in proc.
Schiaffino e altri, Rv. 258211).
Nella specie, la prognosi negativa formulata dal giudice
dell'udienza preliminare sull'utilità del dibattimento e sui
suoi possibili sviluppi probatori si fonda su una
ricostruzione assai sommaria e incompleta del nesso causale
fra l'accesso della vittima nel cantiere e il suo successivo
decesso.
Ed invero, nella detta sentenza si riconosce che l'art. 109
D.Lgs. 81/2008 -violazione specificamente contestata in
rubrica- imponeva una recinzione atta a impedire l'accesso
al cantiere da parte di terzi estranei.
Sennonché, posto che la Gi. era invece sicuramente entrata
nel cantiere ove fu poi trovata morta, il GUP deduce che non
vi sarebbe prova che la donna sia deceduta per effetto del
suo ingresso nel cantiere, essendo invece risultato che la
stessa era morta per una causa naturale non correlabile ad
alcuna delle attività che si svolgevano all'interno del
cantiere stesso; ed aggiunge che non sarebbero
identificabili integrazioni probatorie che possano eliminare
le incertezze circa il concreto svolgimento dei fatti e che
possano modificare le conclusioni tratte dal GUP.
A parere di questa Corte, le lacune motivazionali in
siffatto percorso logico ineriscono all'esame della serie
causale che condusse all'evento, comprensiva dì fattori che
il GUP ha totalmente omesso di valutare, dei quali
l'ingresso della Gi. nel cantiere fu solo il primo, ma
indefettibile elemento:
- nulla si legge nella sentenza circa il fatto che la donna
era molto anziana e non autosufficiente, con ciò che ne
consegue in punto di possibilità di rimanere vittima di
cadute e di difficoltà nell'invocare aiuto;
- né circa il fatto che la Gi. cadeva in un luogo -non
adeguatamente recintato- in cui ben difficilmente sarebbe
stato possibile trovarla e soccorrerla, in modo tale da
rimanere in stato di abbandono;
- né circa il fatto che il decesso avvenne bensì per infarto
ma -si legge nell'imputazione- in correlazione con la
disidratazione della donna (verificatasi in seguito
all'accesso della stessa ad area che doveva essere
interdetta all'ingresso di estranei, e presumibilmente a
distanza di diverse ore o giorni dall'uscita dell'anziana
donna dall'ospedale), disidratazione resa ancor più
probabile dalla stagione estiva (i fatti sono dell'agosto
2010);
- né circa il fatto che il primo elemento della serie
causale che condusse al decesso della Gi. era pur sempre
costituito dalla violazione di una regola codificata di
prevenzione di infortuni a terzi estranei al luogo di
lavoro, con ciò che ne consegue in termini di prevedibilità
di incidenti a terzi, oltretutto nel comprensorio di un
ospedale ove insisteva una RSA;
- né infine circa il fatto che non risulta affatto
esplorata, in punto di prevedibilità in concreto, la
tipologia di pazienti della RSA ove la Gi. era ricoverata,
da valutarsi in relazione con i rischi di un potenziale
accesso di alcuno di detti pazienti in area non
adeguatamente recintata e di un possibile verificarsi di
conseguenti incidenti a loro carico.
Con precipuo riguardo a quest'ultimo profilo,
nel valutare la possibile dipendenza causale tra le
contestate omissioni di norme cautelari e l'evento morte
occorso a carico della Gi. (e in relazione alla presenza di
una RSA nel comprensorio dell'ospedale), sarebbe stato (ed
è) necessario approfondire -secondo la giurisprudenza di
questa Corte richiamata nella stessa sentenza impugnata- se
il fatto fosse ricollegabile all'inosservanza delle predette
norme secondo i principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen.,
e cioè sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo
all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel
momento dell'infortunio non rivestisse carattere di
anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere
interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta
inosservante, e la norma violata miri a prevenire
l'incidente verificatosi
(vds. per tutte Cass. Sez. 4, Sentenza n. 23147 del
17/04/2012 Ud. -dep. 12/06/2012 - Rv. 253322).
Tuttavia, il percorso motivazionale seguito dal GUP con
l'impugnata sentenza non risulta, secondo questa Corte, aver
convenientemente esaminato nella sua completezza né gli
effetti della condotta omissiva e negligente contestata agli
odierni imputati, nella rispettiva posizione, né gli
elementi concomitanti e successivi potenzialmente rilevanti
nel decorso causale che portò alla morte dell'anziana donna,
né la prevedibilità o meno del comportamento della stessa
(e, più in generale, di pazienti presenti all'interno del
comprensorio ospedaliero, in specie della RSA ove era
ricoverata la Gi.), né conseguentemente -e soprattutto- i
possibili sviluppi probatori riferiti all'esame
dibattimentale di siffatti elementi (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 04.12.2015 n. 48269). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'intervento di montaggio tenda parasole è da qualificarsi
come
manutenzione straordinaria.
Questo Tribunale ha recentemente rilevato che: <<con
riguardo alle tende parasole, il Collegio rileva che in
giurisprudenza possono registrarsi tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un
intervento privo di rilevanza edilizia, che non
richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio.
Secondo un'opposta opinione, le tende solari
sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile
e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo
permanente e non a titolo precario e pertanto
necessiterebbero del Permesso di costruire.
Secondo, infine, una posizione intermedia,
l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero
degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto
non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica
permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il
titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito
dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001>>,
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della
natura giuridica degli interventi in questione come
interventi di manutenzione straordinaria, che trova
il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, del
D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche
introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi
nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi
interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia
semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo
dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in
quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella
sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione
plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova
costruzione né una ristrutturazione edilizia.
---------------
Il Collegio ritiene applicabile le considerazioni appena
esposte anche al caso di specie, che non sono inficiate
dalla circostanza rilevata da parte ricorrente secondo cui
tali strutture avrebbero carattere duraturo a prescindere
dal periodo in cui vengono concretamente utilizzate.
Sul punto, sempre con particolare riferimento alle tende
parasole installate nell’ambito di attività del tipo di
quella per cui è causa, la giurisprudenza amministrativa ha
infatti rilevato che: <<hanno carattere pertinenziale e,
come tali, non debbono essere assistite da permesso di
costruire, le opere che hanno finito per sostituire una
preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con
una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a
mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché,
in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso
dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur
essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla
tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente
destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non
essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare
la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare,
detta struttura è insuscettibile di costituire un volume
autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui
accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata
come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale
non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia
(oggi permesso di costruire)>>.
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie,
l’intervento edilizio costituito dall’installazione di due
strutture in ferro di supporto ad un tendaggio di copertura
predisposto al fine di offrire riparo dal sole o dalla
pioggia agli avventori del locale esercito dalla ricorrente
rientrino nel novero degli interventi di manutenzione
straordinaria sottratte, quindi, al regime del Permesso di
costruire.
Tali strutture, al più, sono assoggettate al regime
semplificato della d.i.a. (ora s.c.i.a.), la cui
inosservanza comporta l’irrogazione di una sanzione
pecuniaria, ai sensi dell’art. 37, co. 1, del Testo unico
dell’edilizia, di cui al D.P.R. n. 380/2001.
---------------
... per
l'annullamento:
- delle ordinanze del Responsabile del Servizio Urbanistica
ed Edilizia del Comune di Campomarino nn. 21 e 22, prot. nn.
11358 e 11359 del 14.08.2007, aventi ad oggetto la
rimozione, rispettivamente, di n. 1 struttura piramidale in
ferro poggiante su 4 montanti e copertura con un telo
plastificato per la superficie di mq 100 e n. 2 strutture
analoghe per la superficie di 32 mq. nonché l'ordine di
ripristino dello status quo ante;
- delle note prot. 5958 del 03.05.2007 e 6858 del
17.05.2007, dei verbali di polizia municipale del Comune di
Campomarino n. 11/07 del 20.04.2007 e n. 12/2007 del
05.05.2007.
...
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
Questo Tribunale in una fattispecie analoga a quella oggetto
del presente giudizio ha recentemente rilevato che: <<con
riguardo alle tende parasole, il Collegio rileva che in
giurisprudenza possono registrarsi tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un
intervento privo di rilevanza edilizia, che non
richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio (TAR
Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, le tende solari
sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile
e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo
permanente e non a titolo precario e pertanto
necessiterebbero del Permesso di costruire (TAR Basilicata,
sez. I, 27.06.2008, n. 337).
Secondo, infine, una posizione intermedia,
l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero
degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto
non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica
permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il
titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito
dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001>>,
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della
natura giuridica degli interventi in questione come
interventi di manutenzione straordinaria, che trova
il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, del
D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche
introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi
nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi
interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia
semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo
dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in
quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella
sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione
plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova
costruzione né una ristrutturazione edilizia (così: TAR
Molise, sez I, 04.05.2015, n. 181; TAR Molise, sez. I,
31.01.2014, n. 66).
Il Collegio ritiene applicabile le considerazioni appena
esposte anche al caso di specie, che non sono inficiate
dalla circostanza rilevata da parte ricorrente secondo cui
tali strutture avrebbero carattere duraturo a prescindere
dal periodo in cui vengono concretamente utilizzate.
Sul punto, sempre con particolare riferimento alle tende
parasole installate nell’ambito di attività del tipo di
quella per cui è causa, la giurisprudenza amministrativa ha
infatti rilevato che: <<hanno carattere pertinenziale e,
come tali, non debbono essere assistite da permesso di
costruire, le opere che hanno finito per sostituire una
preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con
una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a
mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché,
in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso
dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur
essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla
tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente
destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non
essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare
la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare,
detta struttura è insuscettibile di costituire un volume
autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui
accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata
come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale
non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia
(oggi permesso di costruire)>> (così: Cons. Stato, sez.
IV, 17.05.2010, n. 3127).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie,
l’intervento edilizio costituito dall’installazione di due
strutture in ferro di supporto ad un tendaggio di copertura
predisposto al fine di offrire riparo dal sole o dalla
pioggia agli avventori del locale esercito dalla ricorrente
rientrino nel novero degli interventi di manutenzione
straordinaria sottratte, quindi, al regime del Permesso di
costruire (cfr.: TAR Molise 181/2015, cit.; TAR Campania,
Napoli Sez. IV, 12.10.2011, n. 5324; TAR Campania, Napoli
Sez. IV, 16.12.2011, 5919).
Tali strutture, al più, sono assoggettate al regime
semplificato della d.i.a. (ora s.c.i.a.), la cui
inosservanza comporta l’irrogazione di una sanzione
pecuniaria, ai sensi dell’art. 37, co. 1, del Testo unico
dell’edilizia, di cui al D.P.R. n. 380/2001 (cfr: TAR Molise
31.01.2014, n. 66).
In definitiva, il ricorso deve essere accolto e le ordinanze
gravate annullate (TAR Molise,
sentenza 04.12.2015 n. 459 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
tema di valutazione dell'anomalia dell'offerta e del
relativo procedimento di verifica sono da considerare
acquisiti i seguenti principi:
a) il procedimento di verifica dell'anomalia non ha carattere
sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo
complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla
corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a
garantire e tutelare l'interesse pubblico concretamente
perseguito dall'amministrazione attraverso la procedura di
gara per la effettiva scelta del miglior contraente
possibile ai fini dell'esecuzione dell'appalto, così che
l'esclusione dalla gara dell'offerente per l'anomalia della
sua offerta è l'effetto della valutazione (operata
dall'amministrazione appaltante) di complessiva
inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone
l'effettività del contraddittorio (tra amministrazione
appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari
corollari: l'assenza di preclusioni alla presentazione di
giustificazioni ancorate al momento della scadenza del
termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità
dell'offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle
giustificazioni, nonché l'ammissibilità di giustificazioni
sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime,
purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al
momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di
una seria esecuzione del contratto;
c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell'offerta
costituisce espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità
complessiva dell'offerta;
d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della
pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità,
ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, senza poter
tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della
congruità dell'offerta e delle singole voci, ciò
rappresentando un'inammissibile invasione della sfera
propria della pubblica amministrazione;
e) anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta
rientra nella discrezionalità tecnica dell'amministrazione,
con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche
illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione
oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto,
il giudice di legittimità può esercitare il proprio
sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello dell'amministrazione;
f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere globale e
sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo
parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che
l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità
dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci
che lo compongono, non può considerarsi viziato il
procedimento di verifica per il fatto che l'amministrazione
appaltante e per essa la commissione di gara si sia limitata
a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di
anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per
illustrare la propria offerta e dimostrane la congruità, può
fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs, n. 163 del 2006,
spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento
dell'offerta e quindi anche su voci non direttamente
indicate dall'amministrazione come incongrue, così che se un
concorrente non è in grado di dimostrare l'equilibrio
complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di
voci ed elementi diversi da quelli individuati nella
richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non
può essere ascritto a responsabilità della stazione
appaltante per erronea o inadeguata.
---------------
Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente contesta
la motivazione utilizzata dal seggio di gara per escluderla
dalla gara, secondo la quale l’offerta determinerebbe
un’inammissibile compressione degli oneri di personale al di
sotto dei trattamenti minimi salariali, in virtù della
ritenuta possibilità di applicazione di una normativa,
l’art. 1, comma 118, della L. n. 190/2014, sopravvenuta alla
stessa offerta, e, quindi, non invocabile senza una espressa
riserva contenuta nella lex specialis di gara.
Occorre premettere che (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
05/09/2014, n. 4516), <<in tema di valutazione dell'anomalia
dell'offerta e del relativo procedimento di verifica (che
costituisce l'oggetto della controversia in esame) sono da
considerare acquisiti i seguenti principi:
a) il procedimento di verifica dell'anomalia non ha
carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica,
mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel
suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione
alla corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a
garantire e tutelare l'interesse pubblico concretamente
perseguito dall'amministrazione attraverso la procedura di
gara per la effettiva scelta del miglior contraente
possibile ai fini dell'esecuzione dell'appalto (ex multis,
C.d.S., sez. III, 14.12.2012, n. 6442; sez. IV, 30.05.2013, n. 2956; sez. V, 18.02.2013, n. 973, 15.04.2013, n. 2063), così che l'esclusione dalla gara
dell'offerente per l'anomalia della sua offerta è l'effetto
della valutazione (operata dall'amministrazione appaltante)
di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine
da raggiungere;
b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica
presuppone l'effettività del contraddittorio (tra
amministrazione appaltante ed offerente), di cui
costituiscono necessari corollari: l'assenza di preclusioni
alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento
della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell'offerta ed al contempo la sicura
modificabilità delle giustificazioni, nonché l'ammissibilità
di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra
sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo
complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale
momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto
(ex pluribus, C.d.S., sez. IV, 22.03.2013, n. 1633; 23.07.2012, n. 4206; sez. V, 20.02.2012, n. 875; sez. VI, 24.08.2011, n. 4801; 21.05.2009, n. 3146);
c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell'offerta
costituisce espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità
complessiva dell'offerta (Cons. Stato, sez. V, 26.06.2012, n. 3737; 22.02.2011, n. 1090;
08.07.2008, n.
3406; 29.01.2009, n. 497);
d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni
della pubblica amministrazione sotto il profilo della
logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria,
senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica
della congruità dell'offerta e delle singole voci, ciò
rappresentando un'inammissibile invasione della sfera
propria della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V,
18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732);
e) anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai
concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria
offerta rientra nella discrezionalità tecnica
dell'amministrazione, con la conseguenza che soltanto in
caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti
errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate
da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare
il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di
sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione
(Cons. Stato, sez. V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere
globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in
modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento
che l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento
dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già
delle singole voci che lo compongono (Cons. Stato, sez. V,
27.08.2012, n. 4600; sez, V, 16.08.2011, n. 4785;
sez. IV, 14.04.2010, n. 2070; sez. VI, 02.04.2010, n.
1893; sez. V, 18.03.2010, n. 1589; 12.06.2009, n.
3762), non può considerarsi viziato il procedimento di
verifica per il fatto che l'amministrazione appaltante e per
essa la commissione di gara si sia limitata a chiedere le
giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non
per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la
propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex
art. 87, comma 1, D.Lgs, n. 163 del 2006, spiegazioni e
giustificazioni su qualsiasi elemento dell'offerta e quindi
anche su voci non direttamente indicate dall'amministrazione
come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di
dimostrare l'equilibrio complessivo della propria offerta
attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli
individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di
principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della
stazione appaltante per erronea o inadeguata>>.
Secondo i detti condivisibili principi, quindi, l’offerta,
immutabile nella sua consistenza finale, può essere oggetto
di precisazioni e giustificazioni anche sopravvenute
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 03.12.2015 n. 2840
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ascensore è un bene necessario.
L'ascensore esterno all'edificio non è una vera e propria
costruzione: il condominio ben può realizzarlo a meno di tre
metri dal confine con la proprietà del vicino, a patto che
la tromba delle scale sia troppo stretta per ospitare la
cabina. E ciò perché la popolazione italiana invecchia
sempre di più e l'impianto va considerato come un bene
necessario per evitare agli anziani di fare le scale a
piedi.
È quanto emerge dalla
sentenza 03.12.2015 n. 1002, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Liguria, la regione del nostro Paese dove la
crescita zero si fa sentire di più.
Il ricorso del confinante è accolto, ma per un vizio
procedurale sul titolo edilizio e non per la lamentata
violazione delle norme sulle distanze fra edifici. Secondo
la giurisprudenza della Cassazione deve essere considerato
ogni opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale,
anche potenziale, che risulta destinata a contenere gli
impianti serventi di una costruzione principale per esigenze
tecnico-funzionali.
Nella categoria rientrano le condotte idriche e termiche che
non è possibile realizzare all'interno dello stabile. E
altrettanto vale per l'ascensore: anche i piccoli spazi
previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri
non possono far mutare l'opinione in materia.
Insomma: il computo delle distanze tra le proprietà non può
tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna
dell'ascensore progettato dal condominio. Spese del giudizio
compensate appunto perché il ricorso è in parte respinto
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).
---------------
MASSIMA
L’ingegner Lu.Be. si ritenne leso dalle
determinazioni indicate nell’epigrafe per il cui
annullamento notificò l’atto 29.07.2015, depositato il
04.08.2015, affidato alle seguenti censure:
-
violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 in tema
di partecipazione, imparzialità, pubblicità e trasparenza
dell’azione amministrativa, eccesso di potere per
contraddittorietà tra provvedimenti, illogicità, erroneità
manifesta, ingiustizia grave e manifesta.
- Violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241,
dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del
dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ.,
eccesso di potere per insufficiente istruttoria e
motivazione, travisamento dei fatti e dei presupposti,
erroneità manifesta.
Si è costituito in causa il condominio di Recco in via
Cavour 52 che ha chiesto respingersi la domanda.
Con atto debitamente notificato è intervenuta in causa la
signora Ch.No. che ha chiesto respingersi la
domanda.
Con atto notificato il 16.10.2015, depositato il 26.10.2015,
il ricorrente ha dedotto il seguente ulteriore motivo:
-
violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241,
dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del
dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ., della
normativa in tema di superamento delle barriere
architettoniche, omessa motivazione, travisamento dei fatti
e degli atti presupposti.
Le parti hanno depositato memorie e documenti.
L’impugnazione è rivolta contro gli atti del comune di Recco
che hanno assentito la realizzazione dell’ascensore con
sporti di uscita sulla facciata a settentrione del
condominio resistente: si tratta di un immobile elevato per
cinque piani fuori terra che dalla documentazione risulta
non avere altre possibilità di installare l’ascensore al
servizio dei suoi abitanti. Il fabbricato di proprietà
dell’interessato è ubicato in posizione retrostante rispetto
al condominio, sì che si pongono questioni soprattutto sulle
distanze tra il bene in progetto e l’abitazione del
ricorrente.
L’amministrazione condominiale presentò perciò la d.i.a. che
preannunciava l’inizio delle opere, il ricorrente intervenne
nel procedimento, ottenne la sospensione dei lavori, la cui
esecuzione è stata invece legittimata dall’impugnata revoca
della citata sospensione.
Con il primo motivo l’interessato denuncia la violazione
procedimentale che vizierebbe la revoca impugnata, in quanto
trattasi di un atto che incide su una pregressa situazione
tutelata, sì che la sua perdita di efficacia può essere
decisa solo previo il rispetto delle garanzie
procedimentali; nella specie tale osservanza non vi sarebbe
stata, posto che l’atto con cui l’amministrazione
preannunciava l’intendimento di revocare la precedente
sospensione dell’efficacia della d.i.a. è stato inviato il
06.05.2015, che tale comunicazione venne ricevuta dall’odierno
ricorrente il 13.05.2015, e che l’atto lesivo è datato
18.05.2013.
Su tali presupposti il collegio deve convenire con la
censura, posto che la revoca della sospensione
dell’efficacia della d.i.a. che era stata decisa informava
favorevolmente la situazione giuridica del ricorrente, sì
che egli avrebbe avuto titolo ad avere per tempo la
comunicazione ed a controdedurre.
Il motivo è pertanto fondato, ma la sua attitudine a
comportare l’annullamento delle determinazioni impugnate
(art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241) potrà essere
apprezzata all’esito dell’esame degli ulteriori profili
dedotti.
Con la seconda articolata censura il ricorrente lamenta
nell’ordine la violazione:
-
dell’art. 9 del dm 02.04.1968, n. 1444;
-
dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380;
-
degli artt. 873 e 907 del codice civile.
La norma di cui al decreto 1444/1968 sarebbe violata in
quanto non intercorrerebbe il necessario distacco tra la
parete finestrata dell’immobile di proprietà
dell’interessato e la cabina dell’ascensore che è prevista
in vetro con poggioli installati ai diversi piani, così da
permettere il transito degli utenti verso gli appartamenti
posti ai vari livelli.
La violazione denunciata deriverebbe dalla misurazione
operata dal tecnico officiato dal ricorrente, che tuttavia
ha considerato le distanze esistenti tra i due fabbricati
tracciando una linea in diagonale, e con ciò violando le
regole che la condivisa giurisprudenza ha istituito al
riguardo (cass. 25.06.1993, n. 7048, tar Sardegna, 14.05.2014,
n. 335) che ritiene invece illegittimo l’apprezzamento dei
distacchi tra gli edifici avvalendosi del criterio radiale.
Ne consegue che non avendo i due immobili una diretta frontistanza la misura indicata è erronea e non può essere
condivisa.
Con un successivo profilo di impugnazione il ricorrente
lamenta che la cabina dell’ascensore sarà posta a meno di
tre metri dal muro confinario esistente tra le due
proprietà, bene su cui è tra l’altro edificato un parapetto
che consente la vista sul condominio, sì che la nuova
edificazione si porrebbe in violazione degli artt. 873 e 907
cod. civ..
In ordine alla prima delle norme citate si osserva che
la
giurisprudenza (cass.
03.02.2011, n. 2566 e cons. Stato, 6253
del 2012) ha condivisibilmente negato la natura di
costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un
caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non
avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della
tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
La decisione soprattutto della corte di cassazione è giunta
all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la
nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene
destinata a contenere gli impianti serventi di una
costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari
per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono
essere ubicati all'interno di questa,
come quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla
consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al
significato della proprietà, soprattutto condominiale, in
una società che è mutata anche anagraficamente, e che
considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo
alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma
anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e
scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie
pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli
sopra quello terreno).
L’applicazione dei condivisi principi giurisprudenziali al
caso di specie comporta la dichiarazione di infondatezza del
motivo in esame, posto che il computo delle distanze tra le
proprietà non può tener conto dell’innovazione rappresentata
dalla colonna dell’ascensore in progetto, non dovendosi
mutare tale opinione solo perché la rappresentazione grafica
del manufatto erigendo prefigura degli spazi destinati allo
sbarco degli utenti ai diversi livelli; si tratta infatti
degli accessori di un manufatto che non va considerato
volume tecnico per le ragioni esposte, sì che anche i
piccoli spazi previsti appunto per la salita e la discesa
dei passeggeri non possono far mutare l’opinione al
riguardo.
Un’ulteriore censura va esaminata, benché essa presupponga
la disattesa considerazione dell’ascensore come costruzione,
e come tale ne afferma la soggezione alla disciplina sulle
distanze legali.
Rileva al riguardo il ricorrente che il vano ascensore in
progetto fronteggerà la parete rocciosa che si contrappone
alla facciata nord del condominio controinteressato, e che
venne scavata alla base al tempo della costruzione del
caseggiato.
La deduzione è corroborata dalla citazione della
giurisprudenza che, ai fini del controllo del rispetto delle
distanze legali, considera i rilievi di terra creati
dall’opera dell’uomo alla stregua di una costruzione, così
come può dirsi almeno in parte per la parete posta a
settentrione del condominio.
L’assunto è ulteriormente sviluppato con la considerazione
della proprietà del muro o parete in capo al ricorrente,
ovvero con quella della comproprietà del versante tra le
parti in causa, cosa che legittimerebbe comunque
l’interessato a dedurre il vizio in considerazione.
Il tribunale non può condividere neppure questo motivo.
Non è infatti prodotto alcun documento che permetta di
ritenere che la proprietà del ricorrente si estenda sino al
muro, dovendosi per ciò ritenere la carenza di idonei titoli
a dar la prova del diritto affermato.
Per sostenere la tesi in esame nel corso dell’udienza per la
discussione della causa il difensore del ricorrente ha fatto
riferimento a quanto si deduce dai documenti nn. 12 e 13
prodotti dal condominio il 16.10.2015 per affermare che il
confine tra le proprietà in contestazione passa sul colmo
della parete, restando così insufficiente il distacco tra la
facciata della casa ed il fronte roccioso.
Anche in questo caso è possibile rilevare che l’interessato
nulla ha allegato in ordine al diritto vantato sui beni in
questione, sì che la mera produzione ad opera della
controparte di una raffigurazione dello stato dei luoghi può
difficilmente essere ricondotta alla nozione di asserzione
fatta contra se.
Appare piuttosto corretto l’esame della situazione in fatto
alla luce della norme che il codice civile dedica al
rapporto tra proprietà vicine, risultando corretto affermare
che la specie è regolata dall’art. 881 c.c., in quanto la
stessa memoria notificata contenente i motivi aggiunti
espone che in caso di pioggia l’acqua scorre sulla parete di
che si tratta e così in direzione del fondo condominiale.
Ciò configura la situazione del piovente, terminologia
utilizzata dalla norma citata per attribuire la titolarità
esclusiva del diritto reale sul muro a colui che deve
sopportare la caduta delle acque da un tetto o appunto lungo
un muro.
Deve pertanto concludersi che anche a voler considerare
l’ascensore alla stregua di una costruzione non è dal muro
divisorio che possono misurarsi le distanze di legge,
trattandosi di un bene che, allo stato delle produzioni e
nei limiti della cognizione prevista dall’art. 8 c.p.a., va
attribuito in piena proprietà al condominio
controinteressato.
E’ poi dedotta l’illegittimità degli atti impugnati, nella
parte in cui integrano la violazione dell’art. 907 cc che
deriverebbe dalla vicinanza tra la cabina dell’ascensore in
progetto ed il prospetto da cui il ricorrente dichiara di
esercitare il diritto di veduta sul fondo del condominio
sottostante.
La censura è pertanto nel senso che il
prospetto (ad esempio immagine di cui al doc. 11 della
produzione del condominio 16.10.2015) posto sulla sommità
della parete o muro che suddivide i rispettivi fondi aggetta
sul condominio, sì che risulterebbero illegittimi gli atti
impugnati nella parte in cui hanno ammesso la possibilità di
apporre la cabina dell’ascensore ad una distanza inferiore a
quella prevista dalla norma denunciata, che a sua volta
richiama la modalità di misurazione del distacco che è
prevista dall’art. 905 cc.
Il motivo così formulato peraltro collide con la
condivisa
giurisprudenza (ad esempio cass.
07.04.2015, n. 6927) che nega
la possibilità di configurare l’esistenza del diritto di
veduta quando il suo esercizio sia previsto dalla sommità di
un muro che costituisce elemento divisorio tra due o più
fondi: nella specie sì è già rilevata la scarsa chiarezza
circa il confine tra i fondi, ma è certo che la doglianza si
basa sulla violazione del diritto che il ricorrente
ritrarrebbe dagli atti impugnati ove l’ascensore fosse posto
a distanza inferiore a quella di legge rispetto al punto
sommitale della parete.
La tutela legale di una consimile situazione di fatto è
peraltro esclusa dalla lettura data dalla corte di
cassazione alla norme denunciate, con che anche questo
motivo non può trovare favorevole considerazione.
Tali conclusioni inducono a ritenere inammissibili anche le
censure proposte con i motivi aggiunti, posto che la mancata
prova della posizione differenziata in capo al ricorrente
esclude che egli possa legittimamente censurare
l’inserimento del nuovo ascensore nella facciata nord del
condominio resistente.
In conclusione l’infondatezza o l’inammissibilità di tutti i
rilievi sollevati dal ricorrente esclude l’incidenza
dell’omissione procedimentale rilevata nel corso dell’esame
del primo motivo di impugnazione sulla legittimità dei
provvedimenti (art. 21-octies citato).
Il ricorso va pertanto accolto in parte, in parte respinto o
dichiarato inammissibile, ma gli atti impugnati non possono
essere annullati
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 03.12.2015 n. 1002 - link a www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di inadempimento del contratto di
appalto, le disposizioni speciali di cui agli articoli 1667,
1668 e 1669 del Cc, integrano, senza escluderne
l’applicazione, i principi generali in materia di
inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che,
nel caso in cui l’opera sia stata realizzata in violazione
delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il
committente, convenuto per pagamento del prezzo, può, al
fine di paralizzare la pretesa avversaria, opporre le
difformità e i vizi dell’opera, in virtù del principio
inadimplenti non est adimplendum, richiamato dal secondo
periodo dell’ultimo comma dell’articolo 1667 del Cc, anche
quando non abbia proposto, in via riconvenzionale, la
domanda di garanzia o la stessa sia prescritta.
---------------
1.= Con l'unico
motivo di ricorso Sa.Cr.Gi. e Sa.Cr.Ro. denunciano la
violazione di norma di diritto in relazione all'art. 1460
cc. (art. 360 n. 3 cpc.).
Secondo i ricorrenti, avrebbe errato il Tribunale di
Cagliari laddove ha affermato che l'art. 1460 cc non poteva
trovare applicazione alla fattispecie oggetto del giudizio
perché i committenti di un'opera, convenuti in giudizio per
il pagamento del saldo del prezzo pattuito, possono
legittimamente sollevare l'eccezione di inadempimento ex
art. 1460 cc. nel caso in cui l'opera sia stata realizzata
in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole
tecniche e risulti non perfettamente funzionante anche
qualora non si siano avvalsi della garanzia per difformità e
vizi dell'opera di cui all'art. 2226 cc o siano decaduti per
non aver denunciato tempestivamente le difformità e i vizi
medesimi ovvero l'azione sia prescritta.
1.1.= Il motivo è infondato.
Questa Corte ha ripetutamente precisato che
in tema di inadempimento del contratto di appalto,
le disposizioni speciali di cui agli artt. 1667, 1668 e 1669
cod. civ. integrano -senza escluderne l'applicazione- i
principi generali in materia di inadempimento delle
obbligazioni, con la conseguenza che, nel caso in cui
l'opera sia stata realizzata in violazione delle
prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il
committente, convenuto per il pagamento del prezzo, può -al
fine di paralizzare la pretesa avversaria- opporre le
difformità e i vizi, dell'opera, in virtù del principio "inadimplenti
non est adimplendum", richiamato dal secondo periodo
dell'ultimo comma dell'art. 1667 cod. civ., anche quando non
abbia proposto, in via riconvenzionale, la domanda di
garanzia o la stessa sia prescritta
(Cass. n. 4446 del 20/03/2012).
Tuttavia, è opportuno evidenziare che
l'art. 1667 cc., ma lo stesso vale per la normativa di cui
all'art. 2226 cc., specifica che il committente convenuto
per il pagamento può sempre far valere la garanzia purché le
difformità o i vizi siano stati denunziati entro (otto
giorni e/o) sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano
decorsi i due anni dalla consegna. Ciò significa che il
committente convenuto per il pagamento del corrispettivo non
ha possibilità di opporre le difformità e i vizi dell'opera,
in virtù del principio "inadimplenti non est adimplendum",
se i vizi o le difformità non siano stati denunciati nei
tempi previsti.
D'altra parte, se così non fosse, verrebbe
vanificata la portata dell'art. 2226 cc. e/o dell'art. 1667
cc, cioè, la necessità di una tempestiva denuncia dei vizi e
delle difformità da parte del committente, perché sarebbe
facilmente superabile.
Ora, la decisione impugnata si è uniformata, correttamente,
a questi principi.
Come è stato affermato:
a) gli opponenti non hanno mai contestato che gli impianti
di riscaldamento commessi al Meloni fossero stati
effettivamente dallo stesso installati nelle abitazione di
loro proprietà;
b) gli opponenti non hanno fornito in giudizio compiuta
dimostrazione dell'avvenuto inoltro di tempestiva denuncia
entro il termine di otto giorni dalla scoperta del vizio,
relativo ad un mal funzionamento della caldaia, denunciato,
come sembra, con lettera del 20.10.2004 e, cioè, quasi un
anno dopo l'avvenuta consegna dell'opera.
Sicché, alla luce delle emergenze istruttorie ed, in
particolare, considerata l'irrimediabile tardività della
denuncia dei vizi da parte dei committenti, odierni
ricorrenti, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto
che nel caso concreto non potesse trovare applicazione la
normativa di cui all'art. 1460 cc..
In definitiva, il ricorso va rigettato e i ricorrenti, in
ragione del principio di soccombenza ex art. 91 cpc,
condannati in solido al pagamento delle spese del presente
giudizio di cassazione che vengono liquidate con il
dispositivo.
Il Collegio, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del DPR
115 del 2002 da atto che sussistono i presupposti per il
versamento da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso principale a norma del comma i-bis dello stesso art.
13 (massima tratta
da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI
civile,
sentenza 30.11.2015 n. 24400). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego di sanatoria sia del
deposito realizzato, in quanto comportante
incremento volumetrico, sia della modificazione della
destinazione d’uso (quanto meno parziale) da deposito a
spogliatoio per le seguenti motivazioni:
- perché “il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni
culturali e del paesaggio preclude il rilascio di
autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati
volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto
di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di
tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume, sia esso interrato o meno.
Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove, come
nella fattispecie in esame, i nuovi volumi siano del tutto
esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera
della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento
postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce
esclusivamente ai lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati: non è quindi
consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma,
che costituisce eccezione al principio generale delle
necessità del previo assenso codificato dal precedente art.
146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza
distinzione alcune, escluse”;
- perché il cambio di destinazione d’uso da locali senza
permanenza di persone (deposito) a locali con permanenza di
persone (spogliatoio) comporta un aumento del carico
urbanistico.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento n. 61/M recante
rigetto richiesta di accertamento di compatibilità
paesaggistica per i lavori realizzati alla via ... 23, e
contestuale ordine di demolizione.
...
Il ricorso è infondato.
È pacifico in atti che sull’immobile pende una domanda di
condono non ancora definita, sulla quale si sono
favorevolmente pronunciati –per i profili paesaggistici–
sia il Comune (decreto n. 3/2000) sia la Soprintendenza
(provvedimento n. 3937/2000).
Al riguardo, deve per vero
ritenersi irrilevante –come osservato da parte ricorrente–
il tempo decorso, atteso che “alla luce della disciplina
contenuta sia nel r.d. n. 1357 del 1940 che nell’art. 146
del d.lgs. n. 42 del 2004, l’autorizzazione paesaggistica ha
durata quinquennale. Le predette disposizioni sono, però,
chiare nel riferire tale durata alle autorizzazioni che, in
linea con la loro natura, intervengono prima dell’esecuzione
dei lavori, cioè per le legittimazioni de futuro […] potendo
la situazione fattuale nelle more trasformarsi e dunque
richiedere una nuova valutazione dopo quella scadenza […]
Queste norme non si possono, però, per le dette ragioni,
applicare in presenza di una domanda di condono edilizio
che, per definizione, presuppone che le opere e i lavori
siano stati già eseguiti in assenza di un’autorizzazione
preventiva. Se, pertanto, l’interessato ottiene il rilascio
del parere vincolante dell’autorità preposta alla tutela del
paesaggio, tale parere non ha efficacia temporale limitata
ai cinque anni” (Cons. di Stato, VI, sent. n. 6216/2012).
Ciò premesso, la prima questione attiene alla astratta
sanabilità dell’intervento per il quale è causa, ai sensi
dell’art. 167, co. 4, d.lgs. n. 42/2004, il quale prevede
che “l'autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica […] nei seguenti casi: a) per i
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per
l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell’arti. 3, D.P.R. n. 380/2001”, ovvero,
rispettivamente:
- opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle
finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o
mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;
- opere e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare
ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino la volumetria complessiva degli
edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di
uso; frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari
con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione
delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del
carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria
destinazione di uso.
Rispetto a tale previsione, l’Amministrazione ha ritenuto
non sanabile né il deposito realizzato sul versante nord, in
quanto incremento volumetrico, né la modificazione della
destinazione d’uso (quanto meno parziale) da deposito a
spogliatoio (che si evince anche dalla Relazione allegata
all’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica).
Entrambe le determinazioni devo essere ritenute legittime:
- la prima, perché “il vigente art. 167, comma 4, del Codice
dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di
autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati
volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto
di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di
tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume, sia esso interrato o meno. Tale preclusione,
all’evidenza, vale tanto più laddove, come nella fattispecie
in esame, i nuovi volumi siano del tutto esterni. Del resto,
avvalora questa conclusione la stessa lettera della norma in
discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della
compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati: non è quindi
consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma,
che costituisce eccezione al principio generale delle
necessità del previo assenso codificato dal precedente art.
146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza
distinzione alcune, escluse” (Cons. di Stato, VI, sent. n.
3289/2015; in termini, VI, n. 4079/2013);
- la seconda, perché il cambio di destinazione d’uso da
locali senza permanenza di persone (deposito) a locali con
permanenza di persone (spogliatoio) comporta un aumento del
carico urbanistico (in termini, TAR Milano, II, sent. n.
1659/2015)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 30.11.2015 n. 2530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla sanabilità di
interventi realizzati su opere abusive, sulle quali penda
procedimento di condono, questo Tribunale ha avuto modo di
chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di
demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in
presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa
assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle
lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali
pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di
assoggettamento della medesima sanzione prevista per
l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile
per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione
condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria
responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di
domanda di condono edilizio solo al decorso del termine
dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del
proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata
ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato
dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle
opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in
aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che
siano stati espressi i pareri delle competenti
amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi,
non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza
far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi
aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o
parere favorevole, che sia)”.
---------------
La seconda questione attiene alla sanabilità di interventi
realizzati su opere abusive, sulle quali penda procedimento
di condono.
Al riguardo, questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di
demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in
presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa
assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle
lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali
pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di
assoggettamento della medesima sanzione prevista per
l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile
per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria
responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di
domanda di condono edilizio solo al decorso del termine
dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del
proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata
ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato
dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle
opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in
aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che
siano stati espressi i pareri delle competenti
amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi,
non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza
far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi
aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o
parere favorevole, che sia)” (TAR Campania, Napoli, VI,
sent. 24017/2010).
Le considerazioni sopra riportate sorreggono dunque la
legittimità della determinazione, soprintendentizia prima e
comunale poi, di non sanare opere realizzate su un manufatto
allo stato attuale non legittimo
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 30.11.2015 n. 2530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mera qualifica di imprenditore agricolo non è
sufficiente ai fini dell’esonero dall’onere di pagare il
contributo di costruzione, occorrendo all’uopo quella di
imprenditore agricolo “a titolo principale ai sensi
dell'articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153” e, quindi,
oggigiorno, ai sensi dell’art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs.
29/03/2004 n. 99 (secondo cui “Qualunque riferimento nella
legislazione vigente all'imprenditore agricolo a titolo
principale si intende riferito all'imprenditore agricolo
professionale, come definito nel presente articolo”), quella
di “imprenditore agricolo a titolo professionale”.
Quest’ultima, postula il possesso di requisiti ulteriori
rispetto a quelli che connotano la figura del semplice
imprenditore agricolo.
In base all’art. 1, comma 1, del citato D.Lgs. n. 99/2004,
infatti, “è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui
il quale, in possesso di conoscenze e competenze
professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE)
n. 1257/1999 del 17.05.1999, del Consiglio, dedichi alle
attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice
civile, direttamente o in qualità di socio di società,
almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro
complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il
cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.
---------------
Il riconoscimento della qualifica in parola presuppone la
sussistenza, in capo all’interessato, dei requisiti indicati
nel comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 e il possesso
di questi ultimi deve essere, in base al comma 2 del
medesimo articolo, accertato “ad ogni effetto” dalle Regioni
(o dalle altre autorità dalle medesime individuate).
Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto
ed è consacrato in un atto, la qualifica può ritenersi
acquisita.
Diversamente da quanto si afferma nella suddetta memoria
difensiva, nessun argomento a favore della tesi della natura
dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di
imprenditore agricolo professionale può trarsi dal
menzionato art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004, il
quale si limita a disporre l’estensione, alla nuova figura
dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le norme
previgenti che facevano riferimento a quella
dell’imprenditore agricolo a titolo principale (non più
esistente, in considerazione dell’abrogazione dell’art. 12
della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art. 1, comma
5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004).
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Lombardia–Brescia,
Sez. I, n. 817/2014, resa tra le parti, concernente
restituzione somme erogate a titolo di oneri di
urbanizzazione.
...
Passando al merito dell’appello, occorre partire dal primo motivo, col
quale il Comune di Curtatone deduce che il giudice di prime
cure avrebbe errato nel ritenere sufficiente, ai fini
dell’esenzione prevista dall’art. 17, comma 3, lett. a), del
D.P.R. n. 380/2001, la mera qualifica di imprenditore
agricolo, come definito dall’art. 2135 cod. civ.,
occorrendo, invece, quella di imprenditore agricolo
professionale.
La doglianza è fondata.
Dispone l’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001: “Il
contributo di costruzione non è dovuto:
a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del
fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo
principale, ai sensi dell'articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153”.
Come si ricava chiaramente dalla trascritta norma, la mera
qualifica di imprenditore agricolo non è sufficiente ai fini
dell’esonero dall’onere di pagare il contributo di
costruzione, occorrendo all’uopo quella di imprenditore
agricolo “a titolo principale ai sensi dell'articolo 12
della legge 09.05.1975, n. 153” e, quindi, oggigiorno,
ai sensi dell’art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. 29/03/2004
n. 99 (secondo cui “Qualunque riferimento nella legislazione
vigente all'imprenditore agricolo a titolo principale si
intende riferito all'imprenditore agricolo professionale,
come definito nel presente articolo”), quella di
“imprenditore agricolo a titolo professionale” (Cons. Stato,
Sez. V, 14/05/2013 n. 2609).
Quest’ultima, postula il possesso di requisiti ulteriori
rispetto a quelli che connotano la figura del semplice
imprenditore agricolo.
In base all’art. 1, comma 1, del citato D.Lgs. n. 99/2004,
infatti, “è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui
il quale, in possesso di conoscenze e competenze
professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE)
n. 1257/1999 del 17.05.1999, del Consiglio, dedichi alle
attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice
civile, direttamente o in qualità di socio di società,
almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro
complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il
cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.
Nella fattispecie, al momento del rilascio del permesso di
costruire n. 31/10, avvenuto in data 01/10/2010, la sig.ra
Ro., pur essendo imprenditore agricolo, non possedeva la
qualifica imprenditore agricolo professionale.
Quest’ultima, infatti, le è stata riconosciuta (peraltro a
titolo provvisorio) solo in data 18/04/2011, (si veda
determinazione del Dirigente Area Programmazione
Territoriale Settore Agricoltura, Parchi, Caccia e Pesca
della Provincia di Milano 18/04/2011 n. 65928).
Obietta l’appellata (memoria di costituzione depositata in
data 07/01/2015), che tale riconoscimento avrebbe natura
dichiarativa e non costitutiva.
La tesi non convince.
Infatti, il riconoscimento della qualifica in parola
presuppone la sussistenza, in capo all’interessato, dei
requisiti indicati nel comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n.
99/2004 e il possesso di questi ultimi deve essere, in base
al comma 2 del medesimo articolo, accertato “ad ogni
effetto” dalle Regioni (o dalle altre autorità dalle
medesime individuate).
Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto
ed è consacrato in un atto, la qualifica può ritenersi
acquisita.
Diversamente da quanto si afferma nella suddetta memoria
difensiva, nessun argomento a favore della tesi della natura
dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di
imprenditore agricolo professionale può trarsi dal
menzionato art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004,
il quale si limita a disporre l’estensione, alla nuova
figura dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le
norme previgenti che facevano riferimento a quella
dell’imprenditore agricolo a titolo principale (non più
esistente, in considerazione dell’abrogazione dell’art. 12
della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art. 1, comma 5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004).
Peraltro, l’appellata non avrebbe diritto all’esenzione dal
contributo di costruzione, nemmeno se al riconoscimento
della qualifica di imprenditore agricolo professionale
potesse assegnarsi valore dichiarativo.
Difatti, dagli atti prodotti in giudizio, risulta per tabulas come la stessa, alla data di rilascio del permesso
di costruire, non possedesse i requisiti per ottenere la
qualifica di che trattasi.
Ed invero, nella domanda, presentata in data 05/04/2011 per il
riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo
professionale, la sig.ra Rovere ha esplicitamente dichiarato
“…di non poter al momento dimostrare il possesso dei
requisiti previsti dalla normativa L.R. e successive
modifiche, in quanto solo nel corso degli ultimi anni sta
strutturando dal punto di vista tecnico ed organizzativo la
sua attività in modo da renderla professionale a tutti gli
effetti e non oltre il termine massimo di due anni dalla
data della presente istanza”.
Nel certificato rilasciato dalla Camera di Commercio
Industria, Artigianato e Agricoltura di Milano, si attesta
che l’appellata, iscritta come piccolo imprenditore dal
30/12/2004, “si considera imprenditore agricolo
professionale e svolge l’attività dal 18/04/2011”.
Per contro, diversamente da quanto la stessa appellata
mostra di ritenere, non sono idonee a dimostrare che la
stessa possedesse i requisiti richiesti dall’art. 1 comma 1,
del D.Lgs. n. 99/2004 in epoca precedente al rilascio del
permesso di costruire n. 31/10, le note della Provincia di
Milano in data 21/07/2011 e 25/07/2011 (rispettivamente docc.
4 e 5 del fascicolo di primo grado di parte ricorrente)
dalla medesima invocate.
La prima (doc. 4) afferma -per quanto qui rileva- che “già
a far data dal 11/03/2010 la stipula del contratto di affitto
agricolo con la integrazione del 16/03/2010 evidenziava il
consistente numero di immobili e terreni in condizione
agricola, tale condizione unita alla valutazione
dell’ordinamento produttivo come descritto nel fascicolo
aziendale permettevano il rilascio della qualifica di
imprenditore agricolo professionale in data 18/4/2011”.
Nel confermare che il rilascio (a titolo provvisorio) della
qualifica di che trattasi è avvenuta nell’aprile del 2011,
la nota attesta che nel marzo 2010 la sig.ra Ro. ha
stipulato contratti di affitto per numerose aree agricole,
ma tutto ciò evidentemente basta soltanto a dimostrare
l’acquisita disponibilità di terreni agricoli, ma non anche
il loro effettivo sfruttamento per usi agrari, né,
ovviamente, dimostra la sussistenza di tutti gli ulteriori
requisiti occorrenti ai fini di poter acquistare la
qualifica in parola.
La seconda nota (doc. 5), riporta, invece, le dichiarazioni
rese da un soggetto privato (tal sig.ra Ci.Vi.)
secondo cui “alla data del 15/11/2010 ed ancor prima a far
data dal 11/03/2010, la dr.ssa Ro. aveva tutti i requisiti
per ottenere il riconoscimento IAP”.
Ovviamente, tale generica dichiarazione, peraltro in
contrasto con tutte le risultanze processuali, risulta
inidonea a dimostrare il possesso dei requisiti necessari
per il conseguimento della qualifica di cui si discute.
Occorre a questo punto esaminare il secondo motivo del
ricorso di primo grado non esaminato dal TAR è riproposto
dall’appellata con la memoria di costituzione.
Deduce la sig.ra Ro. che l’esenzione sarebbe, comunque,
spettata ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. e), del
D.P.R. n. 380/2001, in base al quale il contributo non è
dovuto “per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche,
installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia,
alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale
dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di
tutela artistico-storica e ambientale”.
Ed invero, il tetto del manufatto sarebbe stato realizzato
con pannelli fotovoltaici, per cui senza questi la struttura
non sarebbe stata idonea alla sua funzione, con la
conseguenza che la reclamata esenzione avrebbe dovuto
coprire l’intera costruzione.
La doglianza è priva di pregio.
Al riguardo è sufficiente rilevare che, come emerge dagli
atti di causa, i permessi di costruire nn. 31/10 e 48/10,
non contemplavano l’installazione dell’impianto
fotovoltaico, per cui non sussistevano i presupposti per
ottenere l’esenzione di cui all’invocato art. 17, comma 3,
lett. e).
In definitiva l’appello va accolto (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 26.11.2015 n. 5363 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
l’altezza di un edificio viene aumentata (abusivamente) in
misura modesta, e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in
quanto la differenza risulta spalmata sui preesistenti
elementi architettonici e non può essere percepita come
un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior volume non si può
definire come utile, e di conseguenza non rappresenta un
ostacolo all’accertamento di compatibilità, si può ritenere
che, anche nel caso di specie, il parere paesaggistico
negativo fondato esclusivamente sulle limitate differenze
rispetto all’autorizzato, le quali non hanno comunque
determinato né un aumento di superficie utile, né un aumento
di volumetria in senso urbanistico (peraltro compatibile con
gli strumenti urbanistici e su cui vi era già un parere
positivo) sia privo di adeguata motivazione e in contrasto
con la ratio della disposizione applicata.
Risulta incontestato che:
a) il volume del piano interrato costruito è inferiore a
quello autorizzato;
b) a seguito dell’innalzamento della quota di imposta di 80
cm, applicando il criterio del volume geometrico, si genera
un aumento volumetrico, rispetto all’autorizzato, ritenuto
non sanabile, di 75,57 mc;
c) il complessivo incremento di volume geometrico del
fabbricato fuori terra ammonta a 118,80 mc, di cui 81,53
dovuti al maggiore spessore di muri esterni e solai e 37,27
all’aumento dell’altezza interna del sottotetto;
d) non vi è stato aumento di superficie utile del
fabbricato.
A fronte di tali, accertate, violazioni, la Soprintendenza
ha trascurato di verificare se le stesse fossero comunque
sanabili alla luce del fatto che il ricorrente (come da doc.
A depositato il 07.11.2011) sarebbe stato autorizzato ad un
ampliamento dell’edificio in sopraelevazione sulla terrazza
di copertura del piano terra, sfruttando la SLP residua,
riconoscendone la scarsa percepibilità.
Dato tale preesistente parere, ritenere che l’incremento di
volume in questione -dovuto ad un maggiore spessore dei
muri, dei solai e della copertura, oltre ad un aumento di
0,43 m dell’altezza media interna del sottotetto del primo
piano, che occupa solo all’incirca una metà della copertura
del piano terra-, determini una “percepibilità del sito” che
giustifichi l’intera demolizione dell’edificio appare
superare i criteri di logicità e ragionevolezza oltre che la
ratio stessa della norma.
Pertanto, in linea con la recente ordinanza di questo
Tribunale n. 39 del 2015, nella quale si legge che, “se
l’altezza di un edificio viene aumentata in misura modesta,
e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in quanto la
differenza risulta spalmata sui preesistenti elementi
architettonici e non può essere percepita come un’aggiunta o
un’incongruenza, il maggior volume non si può definire come
utile, e di conseguenza non rappresenta un ostacolo
all’accertamento di compatibilità”, si può ritenere che,
anche nel caso di specie, il parere paesaggistico negativo
fondato esclusivamente sulle limitate differenze rispetto
all’autorizzato di cui si è dato conto più sopra, le quali
non hanno comunque determinato né un aumento di superficie
utile, né un aumento di volumetria in senso urbanistico
(peraltro compatibile con gli strumenti urbanistici e su cui
vi era già un parere positivo) sia privo di adeguata
motivazione e in contrasto con la ratio della disposizione
applicata.
Ciò non esclude, peraltro, la necessità che, rispetto al
suddetto maggiore volume in senso geometrico, sia
determinato il dovuto risarcimento ambientale previsto
dall’art. 167, comma 5, del Dlgs. 167/2004, in quanto la
maggiore altezza dei locali costituisce un vantaggio
ricavato dal proprietario dell’edificio.
---------------
... per l'annullamento:
- del parere negativo della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici per le Province di Brescia,
Cremona e Mantova, di cui alla nota prot. n. 10393 del 25.06.2013, espresso ai fini della sanatoria per
l’esecuzione in difformità dell’autorizzazione
paesaggistica;
- della nota del Comune di Toscolano prot. n. 9194 del 04.07.2013, con cui tale parere è stato trasmesso;
- dell’ordinanza n. 201/2013 prot. 11864 del 05.09.2013, avente ad oggetto il ripristino dei luoghi in ragione
del rigetto dell’istanza di sanatoria conseguente al
suddetto parere negativo della Soprintendenza.
...
Nella quinta censura si deduce, l’erronea interpretazione
data, sia dalla Soprintendenza, che dal Comune, al concetto
di “volume”, ritenendo che quello rilevante ai fini
paesaggistici sia da calcolarsi in modo diverso da quello “urbanistico”.
Secondo parte ricorrente, la circolare n. 33 del 2009
definirebbe il volume come “qualsiasi manufatto
costituito da parti chiuse emergenti dal terreno o dalle
sagome di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla
destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi
tecnici”, con la conseguenza che dovrebbero essere
applicati i concetti di riferimento della disciplina
urbanistica e, dunque, risulterebbero sanabili “logge,
balconi e portici collegati al fabbricato, aperti su tre
lati contenuti entro il 25 % dell’area di sedime del
fabbricato stesso”.
Nel caso di specie, il volume, inteso in senso urbanistico,
non sarebbe cambiato, né troverebbe alcun riscontro
normativo l’affermazione della Soprintendenza secondo cui “i
calcoli volumetrici debbono essere svolti rispetto ad una
quota fissa esterna all’area di intervento e che tale quota
non può variare a seconda che si tratti di quello assentito
piuttosto che di quello realizzato”.
Dal punto di vista concreto, nel caso in esame, la
variazione della quota è stata determinata dal fatto che si
è proceduto ad una minore escavazione a monte del fabbricato
a fronte di un riporto a valle di circa 80 cm, con
impostazione della costruzione alla quota media: ciò non
avrebbe determinato, secondo il ricorrente, quella
variazione di volume che, invece, la Soprintendenza ravvisa.
La verificazione disposta da questo Tribunale ha evidenziato
il contrario e cioè che l’innalzamento della quota di
imposta del fabbricato realizzato rispetto a quello
autorizzato ha determinato un aumento di volumetria
quantificabile in 75,57 metri cubi. Un ulteriore aumento di
118,80 metri cubi di volumetria è da imputarsi, inoltre, ai
maggiori spessori dei muri esistenti, dei solai interpiano e
della copertura.
Conclusivamente, le modalità di realizzazione
dell’intervento hanno determinato delle variazioni di per
sé, in linea di principio, non sanabili.
Né il ricorso può ritenersi fondato nella parte in cui
(settima doglianza) deduce la violazione del parere a causa
della mancata valutazione delle specifiche variazioni
dedotte e “autodenunciate” nella richiesta di
sanatoria. Al contrario, il parere prende specificamente in
considerazione le differenze rispetto al progetto
dichiarate, ma, nel pieno rispetto dei propri poteri,
analizza le conseguenze di tali variazioni che non si
limitano a quanto dedotto dal ricorrente, ma hanno
determinato il ben diverso effetto, non compatibile con la
tutela ambientale, dell’aumento della volumetria reale.
Non può, dunque, configurarsi nemmeno alcuna ipotesi di
invalidità dell’ordinanza di ripristino derivata da quella
degli atti presupposti, risultati immuni dai vizi dedotti e
sin qui esaminati, con conseguente rigetto delle doglianze
sub 3 e 8.
Nella nona censura il ricorrente lamenta la non
proporzionalità dell’ordinanza di ripristino impugnata, che
imporrebbe la demolizione e la ricostruzione alla quota
ritenuta corretta dell’intero edificio, entro il termine di
120 giorni.
Ciononostante, il ricorso risulta fondato, in ragione di
quanto dedotto alle censure 4, 6, 9 e 10.
Parte ricorrente lamenta, infatti, la violazione dei
principi comunitari derivanti dall’art. 17 della Carta dei
Diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui la
sanzione demolitoria sarebbe ammissibile solo se preposta
all’effettiva e concreta tutela di un “interesse
antagonista” e proporzionale, così come enucleati
nell’ordinanza del TAR Sicilia n. 802 del 10.06.2013, che ha
rimesso alla Corte di Giustizia Europea la relativa
questione pregiudiziale.
Nella successiva memoria difensiva, però, parte ricorrente
stessa dà atto di come, con sentenza del 06.03.2014, la
Corte di Giustizia si sia dichiarata incompetente a
pronunciarsi sulla questione pregiudiziale rimessale dal TAR
Sicilia, rinviando la pronuncia sulla stessa alla decisione
del Collegio.
Ciononostante, il Collegio ritiene che, nel caso di specie,
non possa escludersi del tutto la dedotta violazione dei
principi comunitari (e, anche, per gli stessi motivi, dei
principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza
della sanzione), atteso che, come chiarito dalla stessa
difesa del ricorrente e non smentito dalle controparti,
l’ordine di ripristino comporterebbe l’abbattimento
dell’intero edificio, non essendo possibile la sola
riduzione della quota di imposta del primo piano, che
risulta già essere al limite dell’abitabilità a causa delle
conseguenze della introduzione di elementi in cemento armato
in funzione antisismica che avrebbero, di fatto, se non si
fosse alzata la quota, determinato un’altezza interna della
campate non compatibile con la normativa edilizia. Ciò
comporta che il ripristino delle dimensioni della
costruzione conformi al progetto richiederebbe
necessariamente la demolizione dello stesso e la sua
ricostruzione ad una quota più bassa.
Si potrebbe, dunque, porre un problema di bilanciamento
degli interessi in gioco, in un’ottica di valutazione della
proporzionalità della sanzione, ma ciò si può, in concreto
evitare, atteso che appare suscettibile di positivo
apprezzamento la quarta censura dedotta nel ricorso.
Essa tende ad affermare la illegittimità del provvedimento,
privilegiando quell’interpretazione finalistica delle norme
auspicata dal Ministero nella nota n. 16721 del 13.09.2010 e
nella circolare n. 33 del 26.06.2009, in ragione delle quali
la Soprintendenza avrebbe dovuto considerare la consistenza
minimale delle variazioni di quanto realizzato rispetto a
quanto autorizzato e la conseguente non incidenza sul bene
tutelato.
In particolare, nella nota richiamata, si chiarisce che “la
percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore del
bene protetto costituisce un prerequisito di rilevanza
paesaggistica del fatto”.
Invero, che tale percepibilità sussista nel caso di specie
parrebbe potersi dedurre, empiricamente, dal fatto che il
vicino di casa da cui è partita la segnalazione abbia potuto
avvedersene.
A prescindere da ciò, la Soprintendenza avrebbe dovuto dare
rilievo alla reale incidenza della violazione incidente sul
bene tutelato.
Risulta incontestato, infatti, come sintetizzato nella
memoria del ricorrente del 10.10.2015, che:
a) il volume del piano interrato costruito è inferiore a
quello autorizzato;
b) a seguito dell’innalzamento della quota di imposta di 80
cm, applicando il criterio del volume geometrico, si genera
un aumento volumetrico, rispetto all’autorizzato, ritenuto
non sanabile, di 75,57 mc;
c) il complessivo incremento di volume geometrico del
fabbricato fuori terra ammonta a 118,80 mc, di cui 81,53
dovuti al maggiore spessore di muri esterni e solai e 37,27
all’aumento dell’altezza interna del sottotetto;
d) non vi è stato aumento di superficie utile del
fabbricato.
A fronte di tali, accertate, violazioni, la Soprintendenza
ha trascurato di verificare se le stesse fossero comunque
sanabili alla luce del fatto che il ricorrente (come da doc.
A depositato il 07.11.2011) sarebbe stato autorizzato ad un
ampliamento dell’edificio in sopraelevazione sulla terrazza
di copertura del piano terra, sfruttando la SLP residua,
riconoscendone la scarsa percepibilità.
Dato tale preesistente parere, ritenere che l’incremento di
volume in questione -dovuto ad un maggiore spessore dei
muri, dei solai e della copertura, oltre ad un aumento di
0,43 m dell’altezza media interna del sottotetto del primo
piano, che occupa solo all’incirca una metà della copertura
del piano terra-, determini una “percepibilità del sito”
che giustifichi l’intera demolizione dell’edificio appare
superare i criteri di logicità e ragionevolezza oltre che la
ratio stessa della norma.
Pertanto, in linea con la recente ordinanza di questo
Tribunale n. 39 del 2015, nella quale si legge che, “se
l’altezza di un edificio viene aumentata in misura modesta,
e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in quanto la
differenza risulta spalmata sui preesistenti elementi
architettonici e non può essere percepita come un’aggiunta o
un’incongruenza, il maggior volume non si può definire come
utile, e di conseguenza non rappresenta un ostacolo
all’accertamento di compatibilità”, si può ritenere che,
anche nel caso di specie, il parere paesaggistico negativo
fondato esclusivamente sulle limitate differenze rispetto
all’autorizzato di cui si è dato conto più sopra, le quali
non hanno comunque determinato né un aumento di superficie
utile, né un aumento di volumetria in senso urbanistico
(peraltro compatibile con gli strumenti urbanistici e su cui
vi era già un parere positivo) sia privo di adeguata
motivazione e in contrasto con la ratio della
disposizione applicata.
Ciò non esclude, peraltro, la necessità che, rispetto al
suddetto maggiore volume in senso geometrico, sia
determinato il dovuto risarcimento ambientale previsto
dall’art. 167, comma 5, del Dlgs. 167/2004, in quanto la
maggiore altezza dei locali costituisce un vantaggio
ricavato dal proprietario dell’edificio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.11.2015 n. 1591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini dell’identificazione della nozione di volume tecnico,
come tale escluso dal calcolo della volumetria, occorre fare
riferimento a tre ordini di parametri; il primo,
positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione;
il secondo e il terzo negativi ricollegati,
rispettivamente, all’impossibilità di soluzioni progettuali
diverse (nel senso che tali costruzioni non devono essere
ubicate all’interno della parte abitativa) e ad un rapporto
di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i
volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinate a contenere gli impianti serventi di una
costruzione principale.
Peraltro, con l’importante precisazione, secondo cui:
“L’applicazione di tali criteri induce a concludere che i
volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo
della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di
vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità".
---------------
Se è vero, del resto, che s’è sostenuto: “Mentre ai fini
edilizi un nuovo volume può non essere considerato rilevante
e non essere oggetto di computo fra le volumetrie
assentibili (ad esempio, perché ritenuto volume tecnico), ai
fini paesaggistici invece può assumere comunque una
rilevanza e determinare una possibile alterazione dello
stato dei luoghi”, appare al Collegio chiaro che intanto
tale orientamento può valere in quanto si sia,
concretamente, in cospetto di una “possibile alterazione
dello stato dei luoghi”, ovvero di un pregiudizio al
paesaggio, globalmente e complessivamente, e anche in
proiezione dinamica, inteso.
---------------
Quanto, poi, alla convinzione, di seguito espressa nel
parere contrario gravato, che anche l’eventuale riconduzione
delle opere realizzate, nella categoria dei volumi tecnici,
non servirebbe comunque a sanarle, sotto il profilo
paesaggistico, perché l’applicazione dell’art. 167 d.l.vo
42/2004 sarebbe circoscritta, di necessità, ai soli “abusi
minori”, con esclusione di ogni opera –come quella in esame–
di rilevanti dimensioni, si tenga presente, in senso
contrario, la seguente massima, che tale convinzione
recisamente smentisce: “Ai sensi dell’art. 146, comma 12
(ora, comma 4), d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, in relazione
alle opere comportanti un aumento di volumetria,
l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata ex
post dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, fatti
salvi i cosiddetti volumi tecnici (costituiti (da) eventuali
ipotesi marginali) (e) i cosiddetti abusi minori; la stessa
ratio, infatti, che in materia urbanistica induce ad
escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria
edificabile, vale ugualmente per escludere tali volumi dal
divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria”.
In senso analogo: “Per le opere comportanti un aumento di
volumetria o cubatura l’autorizzazione paesaggistica non può
essere rilasciata “ex post” dall’autorità preposta alla
tutela del vincolo, non rientrando tale ipotesi tra le
fattispecie marginali –i cd. abusi minori– che
eccezionalmente ammettono la sanatoria ambientale in deroga
al divieto generale di nulla – osta postumo; peraltro, la
stessa ratio che in materia urbanistica induce ad escludere
i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile
vale ugualmente a far escludere tali volumi dal divieto di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con
la conseguenza che gli interventi che abbiano dato luogo
alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano
nell’eccezione di cui all’art. 167, comma 4, lett. a),
d.lgs. n. 42 del 2004, in comb. disp. con l’art. 39, t.u.
06.06.2001 n. 380, e sono, dunque, suscettibili di
accertamento della compatibilità paesistica”.
---------------
Quanto, poi, ai profili tecnico–giuridici della questione,
di cui sopra, ritiene il Collegio –atteso che, ovviamente,
il provvedimento da rendersi da parte della Soprintendenza,
titolare del potere discrezionale in oggetto (non potendosi
aderire alla richiesta di parte ricorrente, di condanna
della stessa Amministrazione a rendere il parere richiesto,
evidentemente in senso conforme ai suoi auspici, ex art. 34,
comma 1, lett. c) del c.p.a., trattandosi all’evidenza, ai
sensi dell’art. 31, comma 3, del c.p.a., di attività non
vincolata, e residuando inevitabilmente ulteriori margini
alla discrezionalità dell’Amministrazione coinvolta,
palesati del resto anche nella trattazione che precede) deve
necessariamente inscriversi nel tessuto normativo,
rappresentato dall’art. 167, comma 4, d.l.vo 42/2004 (ai
sensi del quale: "L’autorità amministrativa competente
accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure
di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori,
realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati; b) per l’impiego di materiali in
difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i
lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380”)– il Collegio non può che invitare
l’Amministrazione dei Beni e delle Attività Culturali a
un’attenta rimeditazione della possibile riconduzione delle
opere realizzate, nella nozione di “volumi tecnici”, ai
sensi della circolare dello stesso Mi.B.A.C., n. 33 del
26.06.2009, nonché alla luce della sentenza di questa
Sezione, n. 1429 del 25.06.2013 (per la cui esposizione, per
evidenti ragioni di sintesi, si rinvia all’ampia disamina,
effettuata in narrativa).
Vero è, che, nel provvedimento impugnato, sono state
spiegate le ragioni, per le quali le opere, eseguite “sine titulo”, non sarebbero ascrivibili alla categoria dei
“volumi tecnici” (sostanzialmente, mercé il richiamo alla
sentenza del TAR Campania–Napoli, Sez. I, n.
313/2013); peraltro, osserva il Collegio come, in
giurisprudenza, siano attestate numerose decisioni, che
identificano il volume tecnico nel modo seguente
(conformemente, del resto, alla sentenza della Sezione, n.
1429/2013): “Ai fini dell’identificazione della nozione di
volume tecnico, come tale escluso dal calcolo della
volumetria, occorre fare riferimento a tre ordini di
parametri; il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo
avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo
della costruzione; il secondo e il terzo negativi
ricollegati, rispettivamente, all’impossibilità di soluzioni
progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non
devono essere ubicate all’interno della parte abitativa) e
ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve
sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente
prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale,
in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una
costruzione principale”; peraltro, con l’importante
precisazione, secondo cui: “L’applicazione di tali criteri
induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per
essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono
assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e
suscettibile di abitabilità” (TAR Campania–Napoli,
Sez. VI, 06/02/2014, n. 785); e, nella specie, l’abitabilità
delle opere tecnologiche, rappresentate dal pennello a “T” e
dalle scogliere debolmente soffolte, che l’accompagnano per
la sua lunghezza, è evidentemente esclusa in assoluto (come
pure, del resto, le caratteristiche di “vano chiuso” nonché
utilizzabile altro, che per le esigenze di tutela del porto
e dell’abitato di Marina di Pisciotta, cui è essenzialmente
e primariamente destinato).
Se è vero, del resto, che s’è sostenuto: “Mentre ai fini
edilizi un nuovo volume può non essere considerato rilevante
e non essere oggetto di computo fra le volumetrie
assentibili (ad esempio, perché ritenuto volume tecnico), ai
fini paesaggistici invece può assumere comunque una
rilevanza e determinare una possibile alterazione dello
stato dei luoghi” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 02/09/2013,
n. 4348), appare al Collegio chiaro che intanto tale
orientamento può valere in quanto si sia, concretamente, in
cospetto di una “possibile alterazione dello stato dei
luoghi”, ovvero di un pregiudizio al paesaggio, globalmente
e complessivamente, e anche in proiezione dinamica, inteso
(giusta le considerazioni, che si sono espresse, amplius, in
precedenza).
Quanto, poi, alla convinzione, di seguito espressa nel
parere contrario gravato, che anche l’eventuale riconduzione
delle opere realizzate, nella categoria dei volumi tecnici,
non servirebbe comunque a sanarle, sotto il profilo
paesaggistico, perché l’applicazione dell’art. 167 d.l.vo
42/2004 sarebbe circoscritta, di necessità, ai soli “abusi
minori”, con esclusione di ogni opera –come quella in esame– di rilevanti dimensioni, si tenga presente, in senso
contrario, la seguente massima, che tale convinzione
recisamente smentisce: “Ai sensi dell’art. 146, comma 12
(ora, comma 4), d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, in
relazione alle opere comportanti un aumento di volumetria,
l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata ex
post dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, fatti
salvi i cosiddetti volumi tecnici (costituiti (da) eventuali
ipotesi marginali) (e) i cosiddetti abusi minori; la stessa ratio, infatti, che in materia urbanistica induce ad
escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria
edificabile, vale ugualmente per escludere tali volumi dal
divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria” (TAR Sardegna, Sez. II, 07/03/2012, n. 249).
In senso analogo, cfr. l’ulteriore massima che segue: “Per
le opere comportanti un aumento di volumetria o cubatura
l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata “ex
post” dall’autorità preposta alla tutela del vincolo, non
rientrando tale ipotesi tra le fattispecie marginali –i cd.
abusi minori– che eccezionalmente ammettono la sanatoria
ambientale in deroga al divieto generale di nulla – osta
postumo; peraltro, la stessa ratio che in materia
urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo
della volumetria edificabile vale ugualmente a far escludere
tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli
interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli
volumi tecnici rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167,
comma 4, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, in comb. disp. con
l’art. 39, t.u. 06.06.2001 n. 380, e sono, dunque,
suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica”
(TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, 15/09/2010, n. 435)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.11.2015 n. 2481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Se
è vero che l’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, introdotto
dall’art. 6, l. n. 15 del 2005, che stabilisce l’obbligo per
l’amministrazione nei procedimenti ad istanza di parte di
inviare il c.d. “preavviso di rigetto”, non impone nel
provvedimento finale la puntuale e analitica confutazione
delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata,
essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una
motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno
dell’atto stesso, è altrettanto vero che l’assolvimento
dell’obbligo, imposto dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990,
di dar conto nella motivazione del provvedimento finale
delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni
presentate a seguito della comunicazione dei motivi
ostativi, non può consistere nell’uso di formule di stile
che affermino genericamente la loro non accoglibilità,
dovendosi dare espressamente conto delle ragioni che hanno
portato a disattendere le controdeduzioni formulate.
---------------
Tornando ai profili esposti in precedenza, e alle ragioni
per le quali s’è integrata, nella specie, la violazione del
giudicato, scaturente dalla sentenza della Sezione, n.
1926/2012 (nei sensi, sopra diffusamente esposti), rileva,
inoltre, il Tribunale come, per le stesse considerazioni,
ivi formulate, e che si abbiano qui per integralmente
richiamate, risulti, altresì, integrata anche la violazione
dell’art. 10-bis della l. 241/1990, censurata dal Comune di Pisciotta nel settimo –e ultimo– motivo di ricorso.
Com’è noto, secondo la giurisprudenza: “Se è vero che l’art.
10-bis, l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 6, l. n. 15
del 2005, che stabilisce l’obbligo per l’amministrazione nei
procedimenti ad istanza di parte di inviare il c.d.
“preavviso di rigetto”, non impone nel provvedimento finale
la puntuale e analitica confutazione delle singole
argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo
sufficiente ai fini della sua giustificazione una
motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno
dell’atto stesso, è altrettanto vero che l’assolvimento
dell’obbligo, imposto dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990,
di dar conto nella motivazione del provvedimento finale
delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni
presentate a seguito della comunicazione dei motivi
ostativi, non può consistere nell’uso di formule di stile
che affermino genericamente la loro non accoglibilità,
dovendosi dare espressamente conto delle ragioni che hanno
portato a disattendere le controdeduzioni formulate” (TAR Sardegna, Sez. II,
02/04/2014, n. 264).
Ora, nella specie, per le ragioni dianzi ampiamente
espresse, nel provvedimento gravato non si è dato
idoneamente conto dei motivi, per i quali una parte
rilevante delle controdeduzioni, rassegnate dal Comune di
Pisciotta (vale a dire tutte quelle, nelle quali s’è
contestata la mancata ottemperanza alle prescrizioni
conformative, discendenti dalla sentenza della Sezione, n.
1926/2012), non siano state ritenute tali, da orientare
diversamente, e in senso favorevole alle istanze di parte
ricorrente, l’azione della Soprintendenza: ne deriva
l’illegittimità, anche sotto tale autonomo profilo di
doglianza, del provvedimento gravato.
In definitiva, lo stesso, in accoglimento dei motivi, di cui
ai capi I) e VII) dell’atto introduttivo del giudizio,
nonché assorbita ogni altra censura, deve essere, in
accoglimento del ricorso, annullato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.11.2015 n. 2481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La discrezionalità compressa dal giudice.
Sebbene alle amministrazioni pubbliche sia riconosciuta
ampia discrezionalità in sede di pianificazione urbanistica,
sicché le disposizioni di piano sono sufficientemente
motivate anche con il semplice riferimento ai criteri ed
alle finalità generali della pianificazione, tale principio
non può trovare applicazione nel caso in cui una pronuncia
giurisdizionale imponga al Comune un onere motivazionale
maggiore di quello ordinariamente richiesto in sede di
pianificazione territoriale, pena la violazione della «regula
iuris» derivante dal giudicato amministrativo.
Lo hanno affermato i giudici della II Sez. del TAR
Lombardia-Milano, con la
sentenza 24.11.2015 n. 2479.
È opportuno, altresì evidenziare che le osservazioni agli
strumenti urbanistici in itinere costituiscono di regola un
mero apporto collaborativo, che non richiedono una peculiare
motivazione in caso di non accoglimento. Nel caso sottoposto
all'attenzione dei giudici amministrativi milanesi una
società esponente era proprietaria di un vasto compendio
immobiliare, sul quale insistevano sia un castello destinato
a residenza sia un fienile per l'attività agricola.
Con il Piano regolatore generale l'area veniva in parte
destinata a verde privato e in parte a zona agricola
inedificabile. Contro la delibera di approvazione del Prg
era proposto dall' esponente ricorso al Tar Lombardia, che
era accolto con sentenza, con cui le previsioni urbanistiche
relative al fondo della ricorrente erano annullate per
difetto di motivazione della scelta urbanistica comunale.
In seguito e in sede di approvazione del nuovo strumento
urbanistico generale del Comune (Piano di governo del
territorio o Pgt, ai sensi della legge regionale n.
12/2005), l'amministrazione assegnava al compendio la
prevalente destinazione a «Giardini e verde privato»,
oltre che «Impianti tecnologici e attrezzature pubbliche
in progetto» e zona di rispetto cimiteriale.
La società esponente, reputando illegittima la
determinazione pianificatoria del Comune, proponeva quindi
il ricorso oggetto del presente commento, con domanda di
risarcimento del danno
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso merita accoglimento, per le ragioni che
seguono.
Con sentenza n. 965/2010 (cfr. il doc. 3 della ricorrente),
il TAR Lombardia aveva annullato il previgente PRG del
Comune resistente, nella sola parte relativa al fondo della
società esponente, ritenendo che non fosse stata offerta
adeguata motivazione della scelta urbanistica, con la quale
al fondo era stata attribuita un destinazione a verde
privato e ad area agricola inedificabile, tale da impedirne
l’edificazione, anche quella finalizzata all’esercizio
dell’attività di impresa agricola.
Secondo il TAR, mancava nel PRG una congrua giustificazione
del vincolo di inedificabilità, nonostante la legge
regionale della Lombardia n. 93/1980 –applicabile ratione
temporis– prevedesse in ogni modo indici edificatori
nelle zone agricole.
Per effetto della pronuncia succitata, il Comune aveva
l’onere di motivare specificamente la propria nuova scelta
urbanistica, mentre nel caso di specie il PGT ha
sostanzialmente confermato il carattere non edificabile del
fondo, senza addurre però la richiesta specifica
motivazione.
Lo scrivente Collegio non ignora certo il dominante
indirizzo giurisprudenziale –al quale peraltro il Collegio
stesso aderisce– secondo cui alle
Amministrazioni è riconosciuta ampia discrezionalità in sede
di pianificazione urbanistica, sicché le disposizioni di
piano sono sufficientemente motivate anche con il semplice
riferimento ai criteri ed alle finalità generali della
pianificazione (corollario di tale indirizzo è che le
osservazioni agli strumenti urbanistici in itinere
costituiscono di regola un mero apporto collaborativo, che
non richiedono una peculiare motivazione in caso di non
accoglimento).
Tuttavia, nella presente fattispecie, non può trovare
applicazione il succitato orientamento, giacché una
pronuncia giurisdizionale –a quanto consta passata in
giudicato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2909 del
codice civile (“L’accertamento contenuto nella sentenza
passata in giudicato fa stato a ogni effetto fra le parti, i
loro eredi o aventi causa”)– imponeva al Comune un onere
motivazionale maggiore di quello ordinariamente richiesto in
sede di pianificazione territoriale, pena la violazione
della “regula iuris” derivante dal giudicato
amministrativo.
Ciò premesso, nel caso di specie il Comune, in sede di
controdeduzione all’osservazione n. 68 al PGT presentata
dalla ricorrente (cfr. il doc. 5 di quest’ultima per
l’osservazione), ha addotto una motivazione assai scarna e
poco chiara, parlando molto genericamente di “contrasto
con le scelte di Piano”, oppure affermando che “una
zona agricola non è una zona bianca” (affermazione
peraltro ovvia ma non certo idonea ad assolvere l’onere di
specifica motivazione derivante dal giudicato formatosi
sulla sentenza del TAR, cfr. per la controdeduzione il doc.
6 della ricorrente).
L’illegittimità della determinazione comunale riguarda non
solo l’assegnazione alla porzione più ampia del compendio
della destinazione “Giardini ed aree a verde privato”,
ma anche quella che ha attribuito ad altra parte del fondo
la destinazione a “Impianti tecnologici e attrezzature
pubbliche di progetto”, posta a cornice del cimitero,
tenuto conto che quest’ultima destinazione interessa
l’ingresso all’edificio storico di proprietà dell’esponente,
il che appare illogico ed eccessivamente lesivo della
posizione della ricorrente, che non è stata adeguatamente
considerata dall’Amministrazione, in violazione anche del
principio di proporzionalità dell’azione amministrativa.
Si conferma, in conclusione, l’accoglimento dei motivi n. 1
e n. 2 del ricorso, con assorbimento di ogni altra censura e
conseguente annullamento in parte qua del PGT del Comune di
Castello di Brianza. |
APPALTI:
Segretezza dell'offerta, gara ko per violazione.
Tra le violazioni delle regole fondamentali in materia di
gara pubblica rientra, certamente, l'inosservanza del
principio di segretezza dell'offerta, che si manifesta nella
commistione, inammissibile, tra offerta economica ed offerta
tecnica, sebbene ci siano delle eccezioni.
È quanto ribadito dai giudici della prima sezione del TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con
sentenza
23.11.2015 n. 1030.
Ma eccoci alle eccezioni: in taluni casi, infatti,
l'anticipata conoscenza di elementi dell'offerta economica
non può in alcun modo alterare l'assegnazione, del tutto
automatica, dei punteggi relativi all'offerta tecnica, sì da
rivelarsi contra legem le norme di gara che
prevedessero quale causa di esclusione dalla selezione
quella legata all'inclusione dell'offerta economica nella
busta relativa all'offerta tecnica.
È stato altresì aggiunto nella sentenza in commento che
proprio perché la previsione della necessità dell'assenza
nell'offerta tecnica di elementi riferibili all'offerta
economica è posta a presidio del principio dell'autonomia
dell'apprezzamento discrezionale dell'offerta tecnica
rispetto a quello dell'offerta economica, principio il cui
rispetto è garantito dall'anteriorità della prima
valutazione e dalla necessità che dall'offerta tecnica
esulino elementi e valori dell'offerta economica (Cons.
stato, sez. VI, 27/11/2014 n. 5890), verrà meno una simile
esigenza di segretezza dell'offerta viene meno nel momento
in cui la normativa di gara andrà a prevedere criteri di
attribuzione dei punteggi tecnici che, per risolversi nella
predisposizione di griglie di valori e di formule
aritmetiche che danno poi luogo all'automatica
individuazione del risultato finale, nessun effettivo
margine di autonoma valutazione lasciano alla commissione di
gara, la quale si troverà quindi a conoscere le offerte
tecniche secondo meccanismi logico-matematici simili a
quelli delle offerte economiche.
Nel caso in esame avverso gli atti di gara, compresa la
clausola di esclusione applicata dall'ente appaltante,
proponeva impugnativa una società, denunciando –ai sensi
dell'art. 46, comma 1-bis, del dlgs n. 163 del 2006–
l'illegittimità della norma di gara invocata
dall'Amministrazione a fondamento dell'atto di esclusione in
quanto il carattere assolutamente vincolato
dell'attribuzione dei punteggi tecnici avrebbe escluso nella
circostanza quel condizionamento dell'operato della
Commissione che è alla base del generale divieto di
commistione di elementi tecnici ed elementi economici
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016). |
APPALTI:
L'appalto è salvo pure a costi svelati.
Nell'offerta tecnica per l'appalto c'è traccia anche di
costi ma l'impresa non può essere esclusa dalla procedura
pubblica solo per questo. Possibile? Sì, perché ad
attribuire il punteggio alla prima busta è una griglia molto
precisa: il risultato va ritenuto praticamente automatico e
dunque la commissione non compie in merito alcuna autonoma
valutazione.
Insomma: va escluso che il richiamo alla
separata parte economica della proposta possa in qualche
modo condizionare il giudizio di chi dovrà decretare la
vincitrice della gara.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.11.2015 n. 1030, pubblicata dalla I Sez. del TAR
Emilia Romagna-Bologna.
Scala di valori
Annullata l'esclusione della società dalla gara bandita a
opera della multiutility. L'impresa è eliminata dalla
procedura perché all'interno della busta (elettronica) con
l'offerta tecnica spunta un documento che contiene al
proprio interno delle determinazioni di importi economici.
Ma la separazione fra l'offerta tecnica e quella economica
punta solo a evitare che la commissione giudicatrice possa
valutare il progetto già conoscendo i costi. Se però
l'attribuzione dei punteggi avviene sulla base di indici
molto rigidi, con una scala di valori predisposta in modo da
dare meccanicamente l'esito, viene meno l'esigenza di
segretezza che impone la separazione fra l'uno e l'altro
versante.
Trova dunque ingresso la censura dell'impresa che
denuncia ai sensi dell'articolo 46 del codice dei contratti
pubblici l'illegittimità della norma di gara invocata
dall'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del
07.01.2016).
---------------
MASSIMA
- ritenuto che, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, tra le violazioni delle
regole fondamentali in materia –per attenere agli elementi
essenziali dell'offerta–, e quindi tra le cause di
esclusione tassativamente previste dall’art. 46, comma
1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, rientra l’inosservanza
del principio di segretezza dell’offerta, che si manifesta
nella commistione, inammissibile, tra offerta economica ed
offerta tecnica, atteso che la conoscenza di elementi
economici da parte della commissione di gara è di per sé
idonea a determinarne anche in astratto un condizionamento,
alterandone la serenità ed imparzialità valutativa, sicché
nessun elemento economico deve essere reso noto alla
commissione stessa prima che questa abbia effettuato le
proprie valutazioni sull’offerta tecnica
(v., tra le altre, TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I,
24.04.2015 n. 394);
- che, tuttavia, proprio perché la
previsione della necessità dell’assenza nell’offerta tecnica
di elementi riferibili all’offerta economica è posta a
presidio del principio dell’autonomia dell’apprezzamento
discrezionale dell’offerta tecnica rispetto a quello
dell’offerta economica, principio il cui rispetto è
garantito dall’anteriorità della prima valutazione e dalla
necessità che dall’offerta tecnica esulino elementi e valori
dell’offerta economica
(v. Cons. Stato, Sez. VI, 27.11.2014 n. 5890),
una simile esigenza di segretezza dell’offerta viene
meno quando, come nel caso di specie, la normativa di gara
preveda criteri di attribuzione dei punteggi tecnici che,
per risolversi nella predisposizione di griglie di valori e
di formule aritmetiche che danno poi luogo all’automatica
individuazione del risultato finale, nessun effettivo
margine di autonoma valutazione lasciano alla commissione di
gara, la quale si trova quindi a conoscere le offerte
tecniche secondo meccanismi logico-matematici simili a
quelli delle offerte economiche;
- che in tali casi, insomma, l’anticipata
conoscenza di elementi dell’offerta economica non può in
alcun modo alterare l’assegnazione, del tutto automatica,
dei punteggi relativi all’offerta tecnica, sì da rivelarsi
contra legem le norme di gara che prevedessero quale
causa di esclusione dalla selezione quella legata
all’inclusione dell’offerta economica nella busta relativa
all’offerta tecnica;
- che nella circostanza, come si è detto, si rientra in
quest’ultima ipotesi, non inducendo a diverse conclusioni
l’obiezione della difesa dell’ente appaltante in ordine alla
previsione –inerente la categoria «proposte migliorative
al progetto/capitolato»– secondo cui “la riduzione
dei tempi d’intervento offerta dall’impresa deve essere
dimostrata mediante cronoprogramma di dettaglio riportante
le modalità operative e organizzative previste, ovvero:
evidenze dettagliate circa l’organizzazione delle risorse
umane, mezzi e attrezzature messi in campo con elencazione e
relativa produzione, inclusa l’analisi di
eventuali/potenziali criticità”, che implica sì la
verifica degli strumenti organizzatori a tal fine previsti e
un apprezzamento della Commissione, ma al solo scopo di
accertare l’attendibilità della soluzione prospettata –anche
in vista dell’acquisizione di un impegno puntuale di cui
tenere poi conto in sede di esecuzione dell’appalto quanto
alla correttezza delle relative prestazioni–, e senza che
ciò incida sulla graduazione dei singoli punteggi secondo la
scala di valori rigidamente predisposta dalla lettera di
invito;
- che, in conclusione, il ricorso si presenta fondato, con
conseguente annullamento degli atti impugnati. |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
luce del disposto della d.G.R., che nel
disciplinare la realizzazione di serre bioclimatiche fa
salve le prescrizioni minime dettate dalla legislazione
statale in tema di distanze, unitamente all’applicazione
estensiva alle zone A della norma dettata dall’art. 9 del
D.M. n. 1444/1968, risulta evidente l’illecita
realizzazione, della serra bioclimatica in questione a
distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M. 1444/1968,
dalla parete finestrata dell’abitazione della ricorrente.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444
stabilisce al comma 1, che "Le distanze minime tra
fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono
stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di
risanamento conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono
essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti
in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il
rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli
edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle
distanze.
Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza, la mancata
previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono
ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o
ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati
preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le
caratteristiche della nuova edificazione non può che
applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove
costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso
che la necessità di evitare intercapedini dannose per la
salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A
(caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare
maggiormente pressante.
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale
giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche
nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di
10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice
restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già
esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della
sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art. 9 del
D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da un lato
integratrice dell’art. 873 c.c., dall’altro, dotata di
“efficacia precettiva ed inderogabile”. Formula,
quest’ultima, ribadita dalla recente pronuncia della Corte
Costituzionale n. 134 del 2014, la quale configura altresì
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 come “costituente un
corpo unico con la regolazione codicistica” e fonte
principale della disciplina nazionale in materia di distanze
tra edifici.
---------------
2.3.1. Con riferimento, invece, alla censura dedotta con il
secondo ricorso per motivi aggiunti, si ricorda che l’art 5.
della L.R. 13/2011 (sul piano casa) ha previsto una
specifica deroga volumetrica per la realizzazione dei
sistemi di captazione delle radiazioni solari addossati o
integrati negli edifici, quali le serre bioclimatiche, etc.,
atti allo sfruttamento passivo dell'energia solare.
2.3.2. Con D.G.R.V. 1781/2011 si è quindi stabilito,
all’art. 3, comma 2, che l’incremento volumetrico derivante
dalla realizzazione di una serra bioclimatica “non
concorre alla determinazione delle distanze tra edifici,
fermo restando le prescrizioni minime dettate dalla
legislazione statale”. Quest’ultimo inciso rende
evidente che la Giunta Regionale abbia inteso considerare
rilevante in tema di distanze (dettate dalla legislazione
statale) la realizzazione di una serra bioclimatica, e
quindi non l’abbia parificata in tutto ad un volume tecnico
irrilevante ai fini del computo delle distanze.
2.3.4. La ricorrente, dunque, oppone la violazione delle
distanze stabilite dall’art. 9 D.M. n. 1444/1968, che impone
una distanza minima tra pareti finestrate di metri 10;
viceversa, il controinteressato eccepisce l’inapplicabilità
di tale norma alle zone A, come quella di specie.
2.3.5. Al riguardo giova ricordare che l'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444 stabilisce al comma 1, che "Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A):
per le operazioni di risanamento conservativo e per le
eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non
possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti
in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il
rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli
edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle
distanze.
2.3.6. Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza (ex
multis: Cass. Civ. II, 12767/2008), la mancata
previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono
ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o
ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati
preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le
caratteristiche della nuova edificazione non può che
applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove
costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso
che la necessità di evitare intercapedini dannose per la
salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A
(caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare
maggiormente pressante (in tal senso Consiglio di Stato, n.
5281/2012; Tar Liguria, I, n. 704/2013; Tar Campania-Salerno,
n. 473/2014; TAR Toscana n. 1217/2014; TAR Bolzano n.
295/2014).
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale
giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche
nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di
10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice
restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già
esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della
sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
2.3.7. Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art.
9 del D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da
un lato integratrice dell’art. 873 c.c. (Cass. Civ. n.
7756/2013), dall’altro, dotata di “efficacia precettiva
ed inderogabile”. Formula, quest’ultima, ribadita dalla
recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 134 del
2014, la quale configura altresì l’art. 9 del D.M. n. 1444
del 1968 come “costituente un corpo unico con la
regolazione codicistica” e fonte principale della
disciplina nazionale in materia di distanze tra edifici.
2.3.8. In conclusione, alla luce del disposto della D.G.R.V.
1781/2011, che nel disciplinare la realizzazione di serre
bioclimatiche fa salve le prescrizioni minime dettate dalla
legislazione statale in tema di distanze, unitamente
all’applicazione estensiva alle zone A della norma dettata
dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, risulta evidente
l’illecita realizzazione, della serra bioclimatica in
questione a distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M.
1444/1968, dalla parete finestrata dell’abitazione della
ricorrente.
3. Pertanto, anche il secondo ricorso per motivi aggiunti
deve essere accolto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.12.2015 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di abusi edilizi e della data certa di commissione
degli stessi, la presentazione di
dichiarazioni sostitutive di atto notorio non sono
sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari
inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad
altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza
dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale
consistenza.
---------------
Benché in giurisprudenza non manchino sul punto diversi
indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce
all’orientamento già affermato in diverse pronunce della
Sezione secondo il quale la qualità di utilizzatore di un
immobile realizzato abusivamente in assenza di titolo
abilitativo sul demanio o sul patrimonio di enti pubblici, è
sufficiente ad individuarlo come destinatario dell’ordine di
ripristino senza che vi sia la necessità di accertare chi ha
concretamente realizzato l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non
presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo
integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né
è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento
illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo
ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le
conseguenze della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente
alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione
l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che
abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell’ordine di demolizione”.
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR
06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di
sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella
peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la
costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di
un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli
abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del
territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione
possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi
abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono
stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente
dall’averli realizzati.
---------------
Sono infondate le censure di cui al secondo motivo, con le
quali i ricorrenti lamentano la mancata considerazione del
lungo lasso di tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso,
il formarsi di un legittimo affidamento a causa della
tolleranza da parte dell’Amministrazione che non è
intervenuta prima a reprimere gli abusi nonostante ne fosse
a conoscenza ed il difetto di motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è
stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380,
essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti
pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati
configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato,
rispetto al quale non può assumere rilevanza
l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione
dei manufatti, e non è configurabile un affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
---------------
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura di cui al primo motivo con la quale i ricorrenti
lamentano la violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001,
n. 380, perché l’ordine di demolizione non è stato rivolto
nei confronti degli autori degli abusi, ma nei loro
confronti che sono gli assegnatari degli alloggi, non può
essere condivisa.
In primo luogo va osservato che non è stata data una prova
certa circa la data della commissione degli abusi, dato che
sono state allegate solo delle dichiarazioni sostitutive di
atto notorio prodotte dagli stessi interessati che non sono
sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari
inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad
altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza
dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale
consistenza.
In secondo luogo, benché in giurisprudenza non manchino sul
punto diversi indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce
all’orientamento già affermato in diverse pronunce della
Sezione (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 30.01.2014, n. 121;
id. 15.02.2013, n. 222), secondo il quale la qualità
di utilizzatore di un immobile realizzato abusivamente in
assenza di titolo abilitativo sul demanio o sul patrimonio
di enti pubblici, è sufficiente ad individuarlo come
destinatario dell’ordine di ripristino senza che vi sia la
necessità di accertare chi ha concretamente realizzato
l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non
presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo
integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né
è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento
illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le
conseguenze della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente
alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione
l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che
abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell’ordine di demolizione” (in tali termini, con
riferimento alla disciplina di cui all’art. 35, cfr. Tar
Campania, Napoli, Sez. VIII, 31.07.2012, n. 3710; id. 24.07.2012, n. 3567).
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR
06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di
sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella
peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la
costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di
un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli
abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del
territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione
possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi
abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono
stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente
dall’averli realizzati.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere
respinte.
Sono parimenti infondate le censure di cui al secondo
motivo, con le quali i ricorrenti lamentano la mancata
considerazione del lungo lasso di tempo decorso dalla
realizzazione dell’abuso, il formarsi di un legittimo
affidamento a causa della tolleranza da parte
dell’Amministrazione che non è intervenuta prima a reprimere
gli abusi nonostante ne fosse a conoscenza ed il difetto di
motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è
stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380,
essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti
pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati
configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato,
rispetto al quale non può assumere rilevanza
l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione
dei manufatti, e non è configurabile un affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto
(cfr. Tar Liguria, 05.06.2014, n. 873).
Inoltre l’assunto secondo il quale l’Amministrazione avrebbe
tollerato l’abuso nonostante fosse a conoscenza dello stesso
è priva di riscontri.
Infatti non sono significativi, al fine di comprovare tale
evenienza, né la circostanza che dei dipendenti dell’ente
gestore delle unità abitative di edilizia residenziale
pubblica siano transitati attraverso lo scoperto
condominiale in occasione dei rinnovi dei contratti, perché
è verosimile, come controdedotto dal Comune, che gli stessi
non fossero consapevoli dell’abusività dei manufatti, emersa
solo in tempi recenti, né la circostanza che uno dei
contratti, quello della Sig.ra Si.Br., menzioni,
quale oggetto della locazione, anche il garage, atteso che,
come chiarito dal difensore del Comune in sede di
trattazione orale, per il rinnovo dei contratti sono
utilizzati dei moduli prestampati che recano anche
l’indicazione del garage.
Per tutti gli altri contratti tale indicazione è stata
cancellata con un tratto di penna, mentre solo per un errore
materiale la medesima non è stata cancellata nel contratto
della Sig.ra Si.Br..
Fermo restando che la menzione del garage nel contratto è
comunque inidonea a sanare il carattere abusivo delle opere,
è evidente che essendo dovuta ad un errore, non è neppure
idonea a comprovare la consapevolezza e la tolleranza delle
stesse.
Pertanto in un contesto nel quale la menzione del garage è
dovuta ad un errore, tale circostanza risulta inidonea a
comprovare la consapevolezza e la tolleranza dell’opera
abusiva da parte del Comune, fermo restando che un’eventuale
menzione del garage nel contratto anche se voluta non
potrebbe comunque sanare il carattere abusivo delle opere.
Ciò premesso, tenuto conto che il mero trascorrere del tempo
non può sanare l’abusività dei manufatti, che non è
ravvisabile un affidamento incolpevole meritevole di tutela
in capo ai ricorrenti, e che il Comune ha accertato che i
garage realizzati limitano gli spazi scoperti comuni del
condominio da parte degli altri assegnatari degli alloggi di
edilizia residenziale pubblica non sufficientemente ampi per
consentire che ogni unità abitativa sia munita di garage,
circostanza quest’ultima che rende comunque prevalente
l’interesse pubblico alla demolizione rispetto a quello
privato di chi utilizza i manufatti abusivi, il ricorso deve
essere respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.11.2015 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il sistema delineato con l'art. 36 dpr
380/2001 consente la sanatoria dei soli c.d. abusi formali,
ovvero degli interventi edilizi realizzati senza titolo
abilitativo, ma sostanzialmente conformi alla disciplina
edilizia-urbanistica vigente all’epoca della loro esecuzione
e a quella operante al momento in cui l’interessato avanza
istanza di sanatoria.
---------------
Con la richiesta di permesso di costruire in sanatoria in
esame, si intende ricondurre a conformità (con riferimento
al rispetto delle distanze dai confini) alcuni dei manufatti
in questione attraverso una serie di interventi di
demolizione parziale o di demolizione e ricostruzione; in
altri termini, nelle intenzioni della ricorrente, il
rispetto della "doppia conformità" viene subordinato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a fare
acquisire ai manufatti la doppia conformità di cui sopra.
Ebbene, tale prospettata rimodulazione degli interventi già
di per sé attesta la mancanza del requisito della doppia
conformità (al momento della presentazione della domanda) ed
anche la giurisprudenza chiamata ad affrontare casi analoghi
ha adottato la medesima soluzione, affermando che:
- laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione
di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle
norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della
conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo
in sanatoria;
- la sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può essere
rilasciata solo previa verifica della doppia conformità
dell’intervento edilizio, alla disciplina urbanistica
vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento
abusivo, sia al momento della presentazione della domanda.
Essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle
opere. Il permesso di costruire in sanatoria non può
pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori
interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile
abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici
o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti
urbanistici deve già sussistere.
---------------
La cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude il principio
di legalità perché svuota la portata precettiva e vincolante
della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento
della commissione degli illeciti, vìola la tipicità
provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del d.P.R. n.
380/2001 alle sole violazioni di ordine formale, così
neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei confronti
degli autori degli illeciti edilizi.
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...
per l'annullamento del provvedimento prot. n. 2727 del
15.03.2013, con il quale il responsabile del servizio Area
Tecnica del Comune di Grisignano di Zocco comunicava il
diniego del rilascio del permesso di costruire in sanatoria
P.E. n. 12P/25.
...
1. Deve rilevarsi, in via preliminare, come l’atto oggetto di impugnativa
debba intendersi come atto plurimotivato, alla stregua di
quanto sopra rappresentato.
E’ noto che nel caso in cui il provvedimento impugnato sia
fondato su di una pluralità di autonomi motivi, il rigetto
della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni
giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte
ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a
contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che,
seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il
loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del
provvedimento impugnato, che resterebbe supportato
dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.
2. Nel caso in esame, il principale profilo ostativo posto
dal Comune a base della propria valutazione negativa, verte
sulla mancanza del requisito della doppia conformità di cui
all’art. 36 D.P.R. 380/2001.
3. A riguardo giova ricordare che il sistema delineato con
il citato art. 36 consente la sanatoria dei soli c.d. abusi
formali, ovvero degli interventi edilizi realizzati senza
titolo abilitativo, ma sostanzialmente conformi alla
disciplina edilizia-urbanistica vigente all’epoca della loro
esecuzione e a quella operante al momento in cui
l’interessato avanza istanza di sanatoria.
4. Ciò premesso, vi è da osservare, in via preliminare, che
la società agricola Argo, con la richiesta di permesso di
costruire in sanatoria in esame, intende ricondurre a
conformità (con riferimento al rispetto delle distanze dai
confini) alcuni dei manufatti in questione attraverso una
serie di interventi di demolizione parziale o di demolizione
e ricostruzione; in altri termini, nelle intenzioni della
ricorrente, il rispetto della "doppia conformità" viene
subordinato all'esecuzione di specifici interventi
finalizzati a fare acquisire ai manufatti la doppia
conformità di cui sopra.
Ebbene, tale prospettata
rimodulazione degli interventi già di per sé attesta la
mancanza del requisito della doppia conformità (al momento
della presentazione della domanda).
Anche la giurisprudenza
chiamata ad affrontare casi analoghi ha adottato la medesima
soluzione, affermando che: “laddove un’istanza di sanatoria
preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere
l’opera conforme alle norme vigenti, è palese
l’insussistenza del requisito della conformità al momento
della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria”.
Ed
ancora che “La sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può
essere rilasciata solo previa verifica della doppia
conformità dell’intervento edilizio, alla disciplina
urbanistica vigente sia al momento della realizzazione
dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione
della domanda. Essa presuppone quindi la già avvenuta
esecuzione delle opere. Il permesso di costruire in
sanatoria non può pertanto essere subordinato alla
realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a
ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli
strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la
conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere”
(Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n.
941; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010, n.
7311; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.10.2014, n.
2523; 13.08.2015, n. 1900).
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6. Né,
infine, anche a prescindere da quanto esposto al punto 4)
della presente motivazione, ha pregio l'ulteriore doglianza
secondo cui il Comune avrebbe omesso ogni valutazione sulla
eventuale conformità sopraggiunta dell'immobile, ovvero
sulla pretesa assentibilità dell'opera al momento della
presentazione della nuova domanda di sanatoria.
La
cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude, infatti, il
principio di legalità perché svuota la portata precettiva e
vincolante della disciplina urbanistica ed edilizia vigente
al momento della commissione degli illeciti, vìola la
tipicità provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del
d.P.R. n. 380/2001 alle sole violazioni di ordine formale,
così neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei
confronti degli autori degli illeciti edilizi (cfr., per
tutte, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 20.03.2014, n.
1689)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.11.2015 n. 1239 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Pa paga i danni per l’ostruzionismo che si rivela inutile.
Tar Liguria. Va risarcito il ritardo del permesso.
Se ha aggravato inutilmente i tempi
per il rilascio di un permesso di costruire nell’ambito di
procedimento amministrativo per un’autorizzazione o una
concessione, la Pubblica amministrazione deve risarcire il
privato per la lesione del proprio «interesse legittimo
pretensivo» (cioè l’interesse a ottenere un vantaggio da un
atto amministrativo).
Il TAR Liguria, Sez.
II,
sentenza 20.11.2015 n. 933, ha condannato così un
Comune a risarcire un’impresa del «danno da ritardo»
subìto da «atti e comportamenti ostruzionistici» nel
rilascio del titolo abilitativo edilizio a un proprio
impianto di energia elettrica a biomasse.
L’opera, prevista da un accordo di programma per il rilancio
di un’area industriale siglato da entrambe le parti con
altri enti pubblici, aveva già ottenuto (con prescrizioni)
la Valutazione di impatto ambientale dalla Regione e
l’autorizzazione unica dalla Provincia. Il Comune, ha
sostenuto la ricorrente, dopo i citati «via libera»,
anziché rilasciare il permesso di costruire aveva prima
archiviato la pratica, poi chiesto una revoca in autotutela
alla Provincia, e da ultimo denunciato alla Regione il
mancato rispetto della Via nei termini stabiliti.
Soltanto appellandosi al Consiglio di Stato (sentenza
655/2012), l’impresa aveva visto riconoscersi il diritto
alla conclusione del procedimento -quindi alla costruzione e
all’esercizio della “centrale” -e quello a ottenere
un risarcimento- rimesso al giudice di primo grado- per i
costi aziendali «inutilmente» sostenuti e per i
ricavi nel frattempo (due anni di attesa) non ottenuti.
Il Tar, fissando il risarcimento ma solo «a titolo di
danno emergente» per le somme «inutilmente»
impiegate tra consulenze legali e costi interni di progetto,
ha accertato il diritto dell’azienda come «(...) pieno ed
incondizionato, nel senso che non residuava, in capo al
comune (...), alcun margine di esercizio della
discrezionalità in vista del rilascio del titolo edilizio,
tant’è che lo stesso –addirittura- avrebbe potuto ritenersi
finanche surrogato dall’autorizzazione unica provinciale
(semplificazione autorizzazioni per impianti rinnovabili,
articolo 12, Dlgs n. 387/2003, ndr)». I giudici hanno
spiegato che in questi casi «può ritenersi (...)
concretamente verificata la lesione di un interesse ritenuto
meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (qual
è, dopo la sentenza di Cassazione, sezioni unite,
22.07.1999, n. 500, anche l’interesse legittimo pretensivo)».
Tale lesione, come affermato, è «(...) procurata contra
jus, in violazione dei principi generali di economicità ed
efficacia dell’attività amministrativa (oltre che del
divieto di inutile aggravamento del procedimento e del
dovere di concluderlo in tempi spediti) di cui agli articoli
1 e 2 della legge n. 241/1990, oltre che dei formali impegni
assunti dal comune (...)».
Nel caso in esame, valutando i vari presupposti per il
risarcimento, si è precisato che «sussiste altresì il
nesso di causalità, posto che tutte le altre amministrazioni
titolari di interessi pubblici coinvolti nel procedimento
(...) avevano già positivamente adottato le decisioni di
propria competenza (...), sicché la mancata, tempestiva
realizzazione dell’impianto– con la frustrazione
dell’interesse legittimo pretensivo della società ricorrente
–è dipesa unicamente dalle difficoltà e dagli ostacoli
illegittimamente frapposti dal comune (...)»
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.12.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Cassazione: il contratto può essere firmato solo
con una sigla.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 19.11.2015 n. 23669 ha analizzato la
validità di una scrittura privata sottoscritta dal
promittente acquirente solo con la sua sigla.
Nel caso in esame la promittente acquirente, già immessa nel
possesso dell'immobile, ha richiesto il trasferimento dello
stesso ai sensi dell'art. 2932 c.c., in quanto, alla
sottoscrizione del contratto preliminare, non era mai
seguita la stipula di un contratto definitivo.
Si costituiva la promittente venditrice contestando la
riferibilità del documento alla promissaria acquirente per
non riferibilità alla stessa della sottoscrizione.
La Cassazione ha precisato che la
decifrabilità della sottoscrizione non sarebbe requisito di
validità dell'atto dove l'autore sia identificabile nelle
sue generalità dal contesto dell'atto medesimo.
La produzione del contratto da parte della promissaria
acquirente e il riconoscimento da parte della promissaria
venditrice della sua sottoscrizione comporta che la
scrittura privata fa piena prova della provenienza delle
dichiarazioni da parte dei sottoscrittori.
In virtù di ciò la Corte ha precisato come
la scrittura privata sottoscritta con sigla sia pienamente
valida e riferibile al sottoscrittore quando dal contesto
dell'atto è desumibile il soggetto verso cui si producono
gli effetti giuridici della sua sottoscrizione
(commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
I.= Con il primo
motivo del ricorso Bonalumi Renata denuncia la violazione e
falsa applicazione dell'art. 1350 cc e dell'art. 2702 cc.
nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
circa un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 3 e
5 cpc.).
Secondo la ricorrente, avrebbe sbagliato la Corte di appello
di Milano nell'affermare che la decifrabilità della
sottoscrizione non sarebbe requisito di validità dell'atto
ove l'autore sia identificabile nelle sue generalità dal
contesto dell'atto medesimo e la mancanza di leggibilità non
impedisca di riferire la sottoscrizione a quel soggetto,
perché ai sensi dell'art. 2702 cc la sottoscrizione sarebbe
un requisito essenziale per fare acquistare al documento
l'efficacia probatoria.
Piuttosto, andrebbe ritenuto che la scrittura privata sia da
ritenere sottoscritta nella sola ipotesi in cui il segno
grafico riporti l'indicazione del nome e cognome e,
pertanto, una scrittura privata, in difetto della
sottoscrizione apposta, secondo i criteri dinanzi indicati,
deve ritenersi sfornita dalla medesima. La produzione in
giudizio del contratto preliminare da parte della sig.ra Gh.
non potrebbe avere efficacia probatoria perché la sig.ra Bo.
aveva revocato il suo consenso con raccomandata
dell'08.03.2004.
1.1.= Il motivo è in parte infondato ed in parte
inammissibile per mancato rispetto del principio di
autosufficienza.
Come è stato già affermato da questa Corte, in più
occasioni: la produzione in giudizio, di
una scrittura privata ad opera della parte, indicata nel
corpo dalla scrittura, che non l'aveva sottoscritta (ma lo
stesso può essere detto per il caso in cui i segni grafici
della sottoscrizione non sono leggibili) costituisce
equipollente della mancata sottoscrizione contestuale (o
rende decifrabili i segni grafici che compongono la
sottoscrizione illeggibile) e, pertanto, perfeziona, sul
piano sostanziale o su quello probatorio, il contratto in
essa contenuto, purché la controparte del giudizio sia la
stessa che aveva già sottoscritto il contratto e non abbia
revocato, prima della produzione, il consenso prestato e
l'atto sia stato prodotto al fine di invocare l'adempimento
delle obbligazioni da esso scaturenti
(cass. n. 13103 del 23/12/1995 e cass. n. 11409 del
16/05/2006).
Alla luce di questi principi, correttamente, e con
motivazione adeguata e sufficiente, la Corte di Milano ha
ritenuto che la produzione del contratto da
parte della Gh. e il riconoscimento da parte di Bo.Re. della
propria sottoscrizione comportava che la scrittura privata
facesse piena prova della provenienza delle dichiarazioni da
parte dei sottoscrittori senza che ne potesse essere
accertata la veridicità della sottoscrizione attraverso
strumenti probatori quali la perizia grafologica.
D'altra parte, non vi è dubbio che la
produzione della scrittura in giudizio e la corrispondenza
tra la persona che ha prodotto la scrittura e la persona
indicata nel corpo della scrittura, siano elementi
sufficienti a rendere decifrabile i segni grafici che
compongono una sottoscrizione illeggibile.
E, per la stessa ragione, correttamente, la Corte di appello
di Milano ha ritenuto che, accertata la
riferibilità della firma al contraente sottoscrittore Va.Gh.,
sarebbe stato incongruo e non pertinente parlare di
riconoscimento, perché il riconoscimento concerne,
piuttosto, la propria sottoscrizione in un documento
prodotto da controparte, mentre, nel caso di specie era la
stessa Gh. che produceva il documento e, l'odierna
appellante, parte contro la quale la scrittura era stata
prodotta, non era abilitata da nessuna norma o principio a
mettere in dubbio la firma di controparte.
1.1.a).= La censura è inammissibile nella parte in cui viene
richiamata una raccomandata dell'08.03.2004, con la quale la
Bo. avrebbe revocato il proprio consenso ancor prima della
produzione della scrittura privata nel giudizio da parte
della Gh., perché non è stato riprodotto, né richiamato,
l'esatto contenuto di tale documento né è stato specificato
se tale documento (e/o raccomandata) sia stato fatto valere
nel giudizio di appello, e/o l'eccezione sia stata
riproposta in appello, posto che risulta dal contesto della
sentenza impugnata che il Tribunale aveva già ritenuto
ininfluente ai fini della efficacia del contratto
preliminare, la revoca del consenso di cui alla lettera
della Bo. dell'08.03.2004 e l'attuale ricorrente non ha
specificato se tale decisione sia stata censurata in
appello.
Come è stato affermato da questa stessa Corte in altra
occasione (Cass. n. 18506 del 25/08/2006), che qui si
intende ribadire: qualora il ricorrente, in sede di
legittimità, denunci l'omessa valutazione di prove
documentali, per il principio di autosufficienza ha l'onere
non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte
significativa del documento nel ricorso per cassazione, al
fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di
specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in
relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate
nel giudizio di merito. |
PUBBLICO IMPIEGO: L’utilizzo
indebito del badge da parte del dipendente pubblico,
consistente nel timbrare il cartellino del collega di volta
in volta assente, integra gli artifici e i raggiri del reato
di truffa aggravata, tali da trarre in inganno
l’Amministrazione di appartenenza e provocare all’ente
stesso dei danni economicamente apprezzabili, nonché di
immagine, per via della mancata presenza sul posto dei
lavoratori.
In ragione della funzione
autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume in punto di rispetto degli orari di
lavoro e dell'espletamento in concreto delle proprie
mansioni, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze
di quella attestazione è di per sé idonea a trarre in
inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio in
merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è
intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul
luogo di lavoro.
L'indebito utilizzo dei badges, con le modalità dianzi
descritte, configura, quindi,
per il tribunale, quegli artifici e
raggiri che compongono l'elemento materiale del reato di
truffa aggravata ai danni dell'Ente pubblico, non
potendosi dubitare, per i giudici della cautela, della
ricorrenza del danno, essendo certamente da ritenersi come
"economicamente apprezzabili" i periodi di assenza,
soprattutto alla luce dell'allarmante reiterazione della
condotta tenuta.
Su tale ultimo profilo, in particolare, i
giudici del tribunale della libertà, evidenziano come
proprio l'evidente ingiustificato protrarsi delle predette
condotte di marcatura in orari in cui gli indagati erano
assenti dal posto di lavoro, necessariamente ha prodotto un
danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una
frazione della prestazione giornaliera che in effetti non
era stata effettuata, con ulteriore danno patrimoniale e
d'immagine conseguente alla mancata presenza del dipendente
nel presidio lavorativo, rimasto così sguarnito della
corrispondente unità di lavoro; l'apprezzabilità del danno,
peraltro, emergerebbe proprio dal carattere quasi quotidiano
del raggiro e dal numero di ore lavorative evase, non
ostando alla configurabilità del reato la difficoltà di
quantificazione del danno atteso che, nella specie, osserva
il collegio cautelare, non può porsi in dubbio la rilevanza
economica dello stesso né appare rilevate l'omessa
quantificazione del danno determinabili in termini monetari
nel corso del procedimento.
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Trattasi di argomentazioni del tutto condivisibili, immuni
da vizi logici e conformi del resto alla giurisprudenza di
questa Corte, essendosi più volte affermato in consimili
ipotesi che la falsa attestazione del
pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata
sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è
condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in
errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza
su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il
reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente
si allontani senza far risultare, mediante timbratura del
cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili:
e sull'apprezzabilità economica, i giudici della
cautela di sono soffermati evidenziando come, proprio la
reiterazione quasi giornaliera della condotta destinata a
celare l'assenza dal lavoro, non poteva non provocare un
danno economico apprezzabile all'Amministrazione.
A ciò peraltro va aggiunto, osserva il Collegio,
come sia priva di pregio l'obiezione difensiva
fondata sulla possibilità che sembrerebbe riconosciuta dal
regolamento comunale
di una "tolleranza" di 30 minuti dal luogo di
lavoro, atteso che, da un lato, ciò che si contesta agli
indagati non è solo l'assenza dal luogo di lavoro ma anche,
e soprattutto, la modalità truffaldina impiegata per
garantirsi piena libertà di movimento nell'arco della
giornata lavorativa avvalendosi della compiacente
collaborazione degli altri colleghi disponibili alla
marcatura, scambiandosi reciprocamente i badges per coprirsi
a vicenda, con cadenza quasi quotidiana, donde non può
ragionevolmente dubitarsi sia dell'apprezzabilità economica
che l'assenza ha comportato per ciascuna posizione
sia della attribuibilità delle condotte ai singoli
indagati.
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10. Può quindi procedersi all'esame del secondo motivo di
ricorso, con cui vengono svolte censure di violazione di
legge e vizio motivazionale quanto alla sussistenza del
fumus dei reati per cui si procede, come da
illustrazione del relativo motivo dianzi descritta.
Osserva, sul punto, il Collegio che condizione generale per
l'emissione di qualsiasi provvedimento cautelare è la
sussistenza di gravi indizi che, quantitativamente e
qualitativamente valutati nella loro essenza e nella loro
coordinazione logica, resistano a interpretazioni
alternative e conducano a ritenere in modo altamente
probabile, pur senza raggiungere la certezza propria del
giudizio di cognizione, che il reato per cui si indaga sia
attribuibile all'imputato (Sez. 1, n. 4117 del 06/07/1995 -
dep. 21/09/1995, Franzese e altro, Rv. 202435; nella specie,
gli elementi valutati dal tribunale, secondo una valutazione
prognostica tipicamente di merito, risultavano idonei a
superare la soglia di gravità indiziarla richiesta dall'art.
273 cod. proc. pen. per la conferma della misura custodiale).
E' questo quanto avvenuto nel caso in esame, avendo dato
scrupolosamente conto il tribunale del riesame della
esistenza di quella gravità indiziaria rispetto ad ambedue
le imputazioni cautelari contestate nei fatti oggetto di
indagine.
Ed invero, dall'ordinanza impugnata e dal provvedimento del
GIP la cui motivazione si salda reciprocamente con quella
dell'ordinanza gravata, i cui contenuti vengono condivisi
dal tribunale della libertà, è sinteticamente emerso:
a) che dall'attività di controllo operata attraverso
l'installazione delle due videocamere nascoste nelle
vicinanze delle due timbratrici installate all'ingresso del
Comune di Orta di Atella per rilevare l'ingresso e l'uscita
dei dipendenti comunali e degli L.S.U. impiegati presso il
predetto Comune (registrazioni protrattesi per due mesi
circa, dal 21/03 al 17/05/2013) era emerso che un nutrito
gruppo di dipendenti comunali aveva approntato un sistema di
scambi reciproci dei badge personali, alcuni registrando in
ingresso o in uscita non solo il proprio badge ma anche
quello di altri colleghi, in modo da farli risultare
presenti ad inizio e fine lavoro;
b) che i gruppi erano composti da due o più dipendenti che
vicendevolmente si scambiavano il badge per la rilevazione
delle presenze per conto dei colleghi assenti, ed altri
sistematicamente entravano ed uscivano dalla sede di lavoro
timbrando non solo il badge personale ma contestualmente
utilizzavano altri 3 o 4 badges dei colleghi;
c) che dall'esame individuale della posizione di tutti gli attuali
ricorrenti, era emerso che tale condotta era stata tenuta
reiteratamente (in particolare, gli scambi sono descritti
nell'ordinanza impugnata tra i gruppi: Ca.Ro. - Ci.Ol.;
Pe.Mi. - Della Co.Sp.; Io.Ro. e Ru.An.; Maiello Giuseppe -
numerosi altri RSU);
d) che, al fine di effettuare gli opportuni riscontri incrociati,
erano stati acquisiti anche i tabulati relativi alla
presenze dei dipendenti coinvolti, gli statini paga e le
effigi fotografiche, al fine di confrontarle con quelle
estrapolate dai filmati;
e) che, in particolare, il riscontro effettuato sui cartellini
marcatempo, aveva evidenziato che nelle date soggetto di
osservazione risultavano numerose obliterazioni in entrata
ed in uscita falsamente effettuate vicendevolmente dai
predetti indagati, così consentendo agli stessi eludere il
controllo sull'orario di ingresso e godere della
retribuzione pur se assenti dal luogo di lavoro, assenza che
si protraevano per un considerevole lasso di tempo, peraltro
reiterandosi la condotta con notevole frequenza, pur nel
limitato periodo di osservazione durato meno di due mesi ed
anche successivamente la scoperta delle telecamere avvenuta
il 16/04/2015 da parte di due L.S.U..
10.1. Quanto, poi, alla qualificazione giuridica dei fatti,
il tribunale del riesame, nel condividere l'impostazione del
GIP nell'ordinanza genetica, riteneva sussistere sia il
delitto di truffa aggravata ex art. 640, comma 2, n. 1, cod.
pen. che quello di cui all'art. 55- quinquies, D.Lgs.
30.03.2001, n. 165.
10.2. In ordine al primo reato, il tribunale del riesame ha
rilevato che in ragione della funzione
autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume in punto di rispetto degli orari di
lavoro e dell'espletamento in concreto delle proprie
mansioni, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze
di quella attestazione è di per sé idonea a trarre in
inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio in
merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è
intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul
luogo di lavoro; l'indebito utilizzo dei badges, con le
modalità dianzi descritte, configura, quindi,
per il tribunale, quegli artifici e raggiri
che compongono l'elemento materiale del reato di truffa
aggravata ai danni dell'Ente pubblico, non potendosi
dubitare, per i giudici della cautela, della ricorrenza del
danno, essendo certamente da ritenersi come "economicamente
apprezzabili" i periodi di assenza, soprattutto alla
luce dell'allarmante reiterazione della condotta tenuta;
su tale ultimo profilo, in particolare, i
giudici del tribunale della libertà, evidenziano come
proprio l'evidente ingiustificato protrarsi delle predette
condotte di marcatura in orari in cui gli indagati erano
assenti dal posto di lavoro, necessariamente ha prodotto un
danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una
frazione della prestazione giornaliera che in effetti non
era stata effettuata, con ulteriore danno patrimoniale e
d'immagine conseguente alla mancata presenza del dipendente
nel presidio lavorativo, rimasto così sguarnito della
corrispondente unità di lavoro; l'apprezzabilità del danno,
peraltro, emergerebbe proprio dal carattere quasi quotidiano
del raggiro e dal numero di ore lavorative evase, non
ostando alla configurabilità del reato la difficoltà di
quantificazione del danno atteso che, nella specie, osserva
il collegio cautelare, non può porsi in dubbio la rilevanza
economica dello stesso né appare rilevate l'omessa
quantificazione del danno determinabili in termini monetari
nel corso del procedimento.
A ciò va aggiunto quanto correttamente argomentato dal
collegio cautelare circa, da un lato, la irrilevanza
della mancata verifica dell'assenza del singolo dipendente
dal posto di lavoro ovvero all'assenza giustificata dallo
svolgimento di attività lavorativa in altra sede, atteso che
la contestazione riguarda l'assenza al momento della
timbratura; dall'altro, irrilevante il tribunale del
riesame ha considerato la circostanza che nel corso della
giornata la RG. operante non abbia verificato se i soggetti
in favore dei quali i complici avevano timbrato il
cartellino informatico, fossero al lavoro o meno, essendo
invero significativa la circostanza che al momento della
timbratura elettronica il dipendente, il cui badge veniva
utilizzato dal complice di turno per attestarne la presenza,
non fosse stato presente, circostanza quindi che veniva
attestata falsamente.
Trattasi di argomentazioni del tutto condivisibili, immuni
da vizi logici e conformi del resto alla giurisprudenza di
questa Corte, essendosi più volte affermato in consimili
ipotesi che la falsa attestazione del
pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata
sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è
condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in
errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza
su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il
reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente
si allontani senza far risultare, mediante timbratura del
cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili
(Sez. 2, n. 34210 del 06/10/2006 - dep. 12/10/2006,
Buttiglieri, Rv. 235307): e
sull'apprezzabilità economica, i giudici della cautela di
sono soffermati evidenziando come, proprio la reiterazione
quasi giornaliera della condotta destinata a celare
l'assenza dal lavoro, non poteva non provocare un danno
economico apprezzabile all'Amministrazione.
A ciò peraltro va aggiunto, osserva il Collegio,
come sia priva di pregio l'obiezione difensiva
fondata sulla possibilità che sembrerebbe riconosciuta dal
regolamento comunale
(censura, peraltro, inammissibile, in quanto implicante un
accertamento di fatto, che sfugge all'ambito cognitivo di
questa Corte) di una "tolleranza" di
30 minuti dal luogo di lavoro, atteso che, da un lato, ciò
che si contesta agli indagati non è solo l'assenza dal luogo
di lavoro ma anche, e soprattutto, la modalità truffaldina
impiegata per garantirsi piena libertà di movimento
nell'arco della giornata lavorativa avvalendosi della
compiacente collaborazione degli altri colleghi disponibili
alla marcatura, scambiandosi reciprocamente i badges per
coprirsi a vicenda, con cadenza quasi quotidiana, donde non
può ragionevolmente dubitarsi sia dell'apprezzabilità
economica che l'assenza ha comportato per ciascuna posizione
(peraltro dettagliatamente descritta, senza che abbiano
pregio le doglianze difensive sulla presunta mancata prova
dell'assenza dal luogo di lavoro che sarebbe comprovata da
elementi probatori la cui valutazione, peraltro, come già
evidenziato in precedenza, richiederebbe a questa Corte lo
svolgimento di apprezzamenti fattuali che, lo si ricorda,
esulano dalla giurisdizione di legittimità)
sia della attribuibilità delle condotte ai singoli
indagati.
10.3. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto alla residua
imputazione cautelare (art. 55-quinquies, d.lgs. n. 165 del
2011), in relazione alla quale i giudici del riesame
evidenziano come la predetta fattispecie, a
differenza della truffa, si consuma con la mera falsa
attestazione della presenza in servizio attraverso
un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze; in
relazione a tale fattispecie, è evidente che il
comportamento fraudolento dei dipendenti, esplicantesi
proprio nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione
delle presenze, costituisce prova della mancata erogazione
della prestazione lavorativa, quantomeno nell'arco temporale
in cui il cartellino marcatempo viene utilizzato da soggetti
che non ne sono i titolari,
come avvenuto nel caso in esame.
Anche sotto tale profilo, l'ordinanza non merita censura,
essendo giuridicamente corretta la configurabilità del
delitto previsto dal d.lgs. n. 165 del 2001, non essendovi
peraltro dubbio in ordine alla configurabilità del concorso
materiale delle due fattispecie penali, desumibile dalla
volontà dello stesso legislatore (come si evince dall'inciso
contenuto nel comma primo dell'art. 55-quinquies: "Fermo
quanto previsto dal codice penale"), che -anche in
applicazione dell'art. 15 cod. pen. per come interpretato
dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1235 del
28/10/2010 - dep. 19/01/2011, Giordano ed altri, Rv.
248864)- consente di ritenere configurabile il concorso tra
la fattispecie di truffa aggravata e quella di false
attestazioni o certificazioni, posto che è lo stesso
legislatore a prevedere l'applicazione congiunta della
fattispecie penale di cui all'art. 55-quinquies con quelle
previste dal codice penale, essendo evidente, quindi, la
congiunta applicabilità anche della previsione sanzionatoria
dell'art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.11.2015 n. 45698). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per l'impugnazione da parte del terzo occorre la
conoscenza cartolare del titolo edilizio e dei suoi allegati
progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori,
che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche
essenziali dell'opera, l'eventuale non conformità della
stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l'incidenza
effettiva sulla posizione giuridica del terzo.
In ogni caso, nel dubbio, deve comunque farsi applicazione
degli artt. 24 e 113 Cost., per i quali la tutela in
giudizio dei diritti e interessi legittimi è un diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
E’ stato però ritenuto in giurisprudenza che, nel caso in
cui si contesti l'edificabilità stessa del terreno non si
possa attendere il completamento dell'opera, né possa
riconoscersi al terzo la libertà di decidere, se e quando
accedere agli atti, e ciò a tutela del principio di certezza
dei rapporti giuridici, non potendo lasciarsi il soggetto
titolare di un permesso edilizio nella perpetua incertezza
circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il
ritardo nell'impugnazione si risolverebbe in un danno
aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori che
ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi. Il
principio della certezza delle situazioni giuridiche è
infatti posto a tutela di tutte le parti direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento, compreso il
soggetto titolare del permesso di costruire.
Il diritto del terzo alla piena conoscenza della
documentazione amministrativa, è uno strumento che il terzo
ha l'onere di attivare non appena abbia contezza od anche il
ragionevole sospetto che l'attività materiale
pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia
sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non
conosciuto o non conosciuto sufficientemente.
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che nel sistema
delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo
esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva
conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che,
così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi
deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad
individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di
equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da
una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche
e legittimo affidamento dall'altra.
---------------
Nell'ordinamento vigente la c.d. "vicinitas", cioè la
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a
radicare la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non
essendo necessario che la parte ricorrente alleghi e provi
anche di subire uno specifico pregiudizio per effetto
dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo,
atteso che la realizzazione di interventi edificatori, che
comportino contra legem l'alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, deve ritenersi
pregiudizievole in re ipsa: non è pertanto necessaria la
prova di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i
membri di quella collettività è insito nella violazione
edilizia.
---------------
Come
è noto, la giurisprudenza ritiene che per l'impugnazione da
parte del terzo occorre la conoscenza cartolare del titolo
edilizio e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa,
il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e
univoco le caratteristiche essenziali dell'opera,
l'eventuale non conformità della stessa rispetto alla
disciplina urbanistica, l'incidenza effettiva sulla
posizione giuridica del terzo (cfr. TAR Lazio Sez. II 07/07/2015 n. 9046; Consiglio di Stato, Ad. Pen. 29.07.2011, n. 15; sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; V n. 3777
del 27.06.2012).
In ogni caso, nel dubbio, deve comunque
farsi applicazione degli artt. 24 e 113 Cost., per i quali
la tutela in giudizio dei diritti e interessi legittimi è un
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (Consiglio di Stato n. 2781 del 2014).
E’ stato però ritenuto in giurisprudenza che, nel caso in
cui si contesti l'edificabilità stessa del terreno non si
possa attendere il completamento dell'opera, né possa
riconoscersi al terzo la libertà di decidere, se e quando
accedere agli atti, e ciò a tutela del principio di certezza
dei rapporti giuridici, non potendo lasciarsi il soggetto
titolare di un permesso edilizio nella perpetua incertezza
circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il
ritardo nell'impugnazione si risolverebbe in un danno
aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori che
ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi. Il
principio della certezza delle situazioni giuridiche è
infatti posto a tutela di tutte le parti direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento, compreso il
soggetto titolare del permesso di costruire (Consiglio di
Stato n. 2959 del 2014).
Il diritto del terzo alla piena conoscenza della
documentazione amministrativa, è uno strumento che il terzo
ha l'onere di attivare non appena abbia contezza od anche il
ragionevole sospetto che l'attività materiale
pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia
sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non
conosciuto o non conosciuto sufficientemente.
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che nel sistema
delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo
esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva
conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che,
così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi
deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad
individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di
equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da
una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche
e legittimo affidamento dall'altra (Consiglio di Stato IV
n. 322 del 21.01.2013).
Nel caso di specie, i lavori sono iniziati il 04.10.2006 e
sono terminati il 20.11.2006; nel cantiere non è stato
apposto il cartello dal quale desumere gli estremi
dell’autorizzazione e della data di inizio/fine lavori;
l’istanza di accesso è stata inoltrata al Comune di Costa
Volpino il 24.11.2006, a distanza di soli 4 giorni dalla
data del completamento dei lavori ed il Comune ha rilasciato
la copia degli atti a distanza di mesi, dopo reiterate
richieste da parte dell’interessato; la mancata indicazione
dell’esistenza di un titolo autorizzatorio sul cantiere non
consentivano al ricorrente neppure di valutare se
l’intervento fosse stato previamente autorizzato o se fosse
abusivo, né di conoscere se pur realizzato in prossimità
delle mura perimetrali del cimitero, ricadesse nella fascia
di rispetto del cimitero, e se fosse stato autorizzato dal
Consiglio Comunale ai sensi dell’art. 388 c. 5 del T.U.
delle sanitarie, né se fosse compatibile con la destinazione
urbanistica dell’area.
In sostanza, prima dell’esercizio del diritto di accesso il
ricorrente non disponeva di alcun elemento certo sul quale
fondare la propria pretesa in sede giurisdizionale, con la
conseguenza che imporgli la proposizione di un ricorso
“veramente al buio” tenuto conto dei connessi oneri che
comporta, appare oggettivamente sproporzionato e lesivo dei
suoi diritti ed interessi legittimi.
Appare quindi corretta la decisione del primo giudice che ha
respinto l’eccezione di tardività del ricorso di primo
grado, tenuto anche conto del principio espresso in
precedenza secondo cui, in ogni caso, nel dubbio, deve farsi
applicazione degli artt. 24 e 113 Cost., per i quali la
tutela in giudizio dei diritti e interessi legittimi è un
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
L’eccezione deve essere pertanto respinta.
Anche l’eccezione di difetto di legittimazione attiva è
destituita di fondamento.
Nell'ordinamento vigente la c.d. "vicinitas", cioè la
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a
radicare la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non
essendo necessario che la parte ricorrente alleghi e provi
anche di subire uno specifico pregiudizio per effetto
dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo,
atteso che la realizzazione di interventi edificatori, che
comportino contra legem l'alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, deve ritenersi
pregiudizievole in re ipsa (cfr., tra le tante, Cons. Stato
sez. IV 12.03.2015 n. 1315; Cons. Stato sez. IV 09.09.2014 n. 4547): non è pertanto necessaria la prova
di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i membri
di quella collettività è insito nella violazione edilizia
(cfr. Cons. Stato sez. VI 11/09/2013 n. 4493; Cons. Stato
Sez. IV 04/06/2013 n. 3055).
Nel caso di specie, l’appellato, ricorrente in primo grado,
ha dimostrato di risiedere a pochissima distanza dalla
stazione radio base, circostanza che consente di
riconoscergli la legittimazione attiva all’impugnativa.
L’eccezione deve essere pertanto respinta (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 17.11.2015 n. 5257 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza più recente ha chiarito che
l'art. 338 R.D. cit. vieta l'edificazione, nella fascia di
duecento metri dal muro di cinta dei cimiteri, di manufatti
che possono essere qualificati come costruzioni edilizie: ha
quindi ritenuto che l'installazione di un impianto di
telefonia mobile che -per le proprie caratteristiche- non
può in alcun modo essere classificato come un manufatto
edilizio non è incompatibile con il vincolo cimiteriale
(nella specie si trattava di un'antenna staffata sul muro
del cimitero e non di una costruzione edificata sul terreno
ricadente nella fascia di rispetto).
Detta decisione –pur non essendo riferibile ad una
fattispecie concreta identica, perché nel caso di specie si
controverte sulla realizzazione di una stazione radio base
sulla fascia di rispetto cimiteriale e non sulla semplice
collocazione dell’antenna sul muro perimetrale del cimitero–
nondimeno contiene una precisazione importante: sussiste il
vincolo di inedificabilità solo in presenza di “edifici” e
cioè solo quando vengono realizzate delle vere e proprie
costruzioni.
Gli impianti di telefonia mobile non possono essere
assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto
normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non
determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle
costruzioni, non hanno un impatto sul territorio
paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o
muratura.
Il concetto di edificio è nettamente caratterizzato sia in
architettura che nel diritto urbanistico: un palo di
sostegno e le attrezzature installate su di esso non
presentano –evidentemente– la stessa natura.
Inoltre, come ha correttamente rilevato la giurisprudenza
più recente di primo grado, le stazioni radio base, sono
opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi
zonizzazione prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, e
dunque possono essere installate anche in zona di rispetto
cimiteriale, tenuto anche conto che non ledono gli interessi
dei quali il vincolo di inedificabilità persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, –assimilabili ai
tralicci dell’energia elettrica– non arrecano alcun danno al
decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi
di ordine sanitario e, nel caso di specie, nel quale
l’impianto è collocato oltre la strada che costeggia il muro
perimetrale del cimitero, non incidono neppure sulla
possibilità di ampliamento del cimitero.
Correttamente, quindi, la legislazione regionale richiamata
dalle appellanti (L.R. Lombardia n. 11/2001 art. 7,
regolamento regionale 6/2004 e la circolare regionale
12.03.2007 n. 9) partendo dalla qualifica contenuta
nell’art. 86 del codice delle comunicazioni elettroniche,
secondo cui detti impianti costituiscono opere di
urbanizzazione primaria, specificano che è possibile
realizzarli nella fascia di rispetto cimiteriale.
---------------
La natura di opere di urbanizzazione primaria consente di
prescindere dalla zonizzazione recata dal P.R.G., potendo
gli impianti di telecomunicazione per la telefonia mobile
essere realizzati in qualunque zona del territorio comunale.
La giurisprudenza è univoca: “A norma dell’art. 86, c. 3,
del D.Lgs. n. 259 del 2003 relativa alla localizzazione di
infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere
dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la
loro installazione in quanto le infrastrutture di reti
pubbliche di telecomunicazioni, di cui agli art. 87 e 88,
sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione
primaria di cui all’art. 16, comma 7, del D.P.R. 06.06.2001
n. 380. Ne deriva anche alla luce dell’art. 4, comma 7,
della L.R. n. 11 del 2001 che gli impianti radiobase di
telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 watt
non richiedono specifica regolamentazione urbanistica".
---------------
Passando all’esame del merito, è necessario richiamare
innanzitutto la norma dell’art. 388, comma 1, del R.D. n.
27/07/1934 n. 1265 secondo cui “I cimiteri devono essere
collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro
abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi
edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti
urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi,
comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge”.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza
sussiste –in base a detta disposizione– il vincolo di inedificabilità assoluta nella fascia di rispetto del
cimitero: il vincolo ex lege può essere rimosso solo per
considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle
condizioni specificate nell'art. 338, quarto comma; ma non
per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex
post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque
interventi edilizi futuri, su un'area a tal fine
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve
ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale (cfr., tra le tante,
Cons. Stato, sez. VI, 27.07.2015 n. 3667)
E’ stato quindi precisato in giurisprudenza che il vincolo
cimiteriale, che comporta l’inedificabilità assoluta, non
consente in alcun modo l’allocazione di edifici, anche non
aventi natura residenziale, in ragione dei molteplici
interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende
tutelare, e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e nel
mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta
cimiteriale (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 04/07/2015 n.
2245; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 03/03/2015 n. 575).
Facendo applicazione di detti principi la sentenza appellata
ha annullato le autorizzazioni impugnate.
Secondo il primo giudice, infatti, il vincolo di
inedificabilità assoluta gravante sulla fascia di rispetto
del cimitero per espressa previsione normativa, impedisce la
realizzazione di qualunque manufatto, anche ad uso diverso
da quello abitativo, e trattandosi di vincolo imposto ex lege in via astratta, prescinde da qualunque valutazione in
merito alla specifica conformazione della costruzione che si
intende realizzare in prossimità del cimitero: sulla base di
detti presupposti ha ritenuto che non potesse costruirsi
neppure un traliccio di telecomunicazioni –struttura
impattante– “non più rispettoso della pietas nei confronti
dei defunti di quanto non lo sia una abitazione di
residenza”.
Le affermazioni del primo giudice non possono essere
condivise.
La giurisprudenza più recente ha chiarito che l'art. 338
R.D. cit. vieta l'edificazione, nella fascia di duecento
metri dal muro di cinta dei cimiteri, di manufatti che
possono essere qualificati come costruzioni edilizie (Cons.
Stato Sez. V 14.09.2010 n. 6671): ha quindi ritenuto
che l'installazione di un impianto di telefonia mobile che -per le proprie caratteristiche- non può in alcun modo
essere classificato come un manufatto edilizio non è
incompatibile con il vincolo cimiteriale (nella specie si
trattava di un'antenna staffata sul muro del cimitero e non
di una costruzione edificata sul terreno ricadente nella
fascia di rispetto) (Cons. Stato sez. III 25/11/2014 n.
5837).
Detta decisione –pur non essendo riferibile ad una
fattispecie concreta identica, perché nel caso di specie si
controverte sulla realizzazione di una stazione radio base
sulla fascia di rispetto cimiteriale e non sulla semplice
collocazione dell’antenna sul muro perimetrale del cimitero– nondimeno contiene una precisazione importante: sussiste
il vincolo di inedificabilità solo in presenza di “edifici”
e cioè solo quando vengono realizzate delle vere e proprie
costruzioni.
Gli impianti di telefonia mobile non possono essere
assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto
normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non
determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle
costruzioni, non hanno un impatto sul territorio
paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o
muratura (TAR Puglia Sez. I Lecce 08/04/2015 n. 1120).
Il concetto di edificio, come ha correttamente rilevato la
difesa delle appellanti, è nettamente caratterizzato sia in
architettura che nel diritto urbanistico: un palo di
sostegno e le attrezzature installate su di esso non
presentano –evidentemente– la stessa natura (cfr. Cons.
Stato, Sez. VI, 17/10/2008 n. 5044).
Inoltre, come ha correttamente rilevato la giurisprudenza
più recente di primo grado, le stazioni radio base, sono
opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi
zonizzazione prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, e
dunque possono essere installate anche in zona di rispetto
cimiteriale (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 21/02/2014
n. 311; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 25/10/2012 n. 4223;
TAR Lazio Sez. II-bis 14/05/2007 n. 4367), tenuto anche
conto che non ledono gli interessi dei quali il vincolo di inedificabilità persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, –assimilabili ai
tralicci dell’energia elettrica– non arrecano alcun danno
al decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano
problemi di ordine sanitario e, nel caso di specie, nel
quale l’impianto è collocato oltre la strada che costeggia
il muro perimetrale del cimitero, non incidono neppure sulla
possibilità di ampliamento del cimitero.
Correttamente, quindi, la legislazione regionale richiamata
dalle appellanti (L.R. Lombardia n. 11/2001 art. 7,
regolamento regionale 6/2004 e la circolare regionale 12.03.2007 n. 9) partendo dalla qualifica contenuta
nell’art. 86 del codice delle comunicazioni elettroniche,
secondo cui detti impianti costituiscono opere di
urbanizzazione primaria, specificano che è possibile
realizzarli nella fascia di rispetto cimiteriale.
Non convince la tesi dell’appellato secondo cui anche per la
realizzazione di detti impianti sarebbe necessario ricorrere
al procedimento previsto dall’art. 388, c. 5, del R.D. 27/07/1934
n. 1265, in quanto –come già precisato– non si tratta di
“edifici”, ma di semplici opere di urbanizzazione primaria
riconducibili a tralicci per l’energia elettrica.
Infine, la natura di opere di urbanizzazione primaria
consente di prescindere dalla zonizzazione recata dal
P.R.G., potendo gli impianti di telecomunicazione per la
telefonia mobile essere realizzati in qualunque zona del
territorio comunale.
La giurisprudenza è univoca: “A norma dell’art. 86, c. 3, del D.Lgs. n. 259 del 2003 relativa alla localizzazione di
infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere
dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la
loro installazione in quanto le infrastrutture di reti
pubbliche di telecomunicazioni, di cui agli art. 87 e 88,
sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione
primaria di cui all’art. 16, comma 7, del D.P.R. 06.06.2001
n. 380. Ne deriva anche alla luce dell’art. 4, comma 7, della L.R. n. 11 del 2001 che gli impianti radiobase di telefonia
mobile di potenza totale non superiore a 300 watt non
richiedono specifica regolamentazione urbanistica" (cfr.,
tra le tante, TAR Lombardia Sez. II 02/03/2012 n. 351).
Alla stregua delle suesposte considerazioni, gli appelli
devono essere accolti con riforma della sentenza di primo
grado (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 17.11.2015 n. 5257 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
APPALTI:
Il mancato guadagno va provato. Dimostrazione a
carico dell’impresa che vuole il risarcimento del danno.
Consiglio di Stato. Respinto il ricorso su un
appalto assegnato alla società classificata seconda.
La recente
sentenza
17.11.2015 n. 5255 del
Consiglio di Stato, Sez. III, si inserisce nel filone
giurisprudenziale in tema di onere della prova in relazione
alla domanda risarcitoria.
La questione è centrale, in quanto in caso di rigetto
dell’istanza cautelare i tempi di definizione del
contenzioso –per quanto accelerati rispetto al regime
processuale ordinario– non consentono all’imprenditore che
veda riconosciute le proprie ragioni di ottenere un reale
beneficio se non in termini di risarcimento per equivalente.
Ciò a maggior ragione ove ciò avvenga all’esito del secondo
grado di giudizio.
Il Consiglio di Stato, con la decisione in commento, dopo
aver accertato la fondatezza delle doglianze articolate da
una società attiva nel settore delle forniture informatiche
in relazione alla sentenza del Tar Lazio che, annullando
l’aggiudicazione di un appalto triennale bandito dal
ministero dell’Interno, aveva assegnato il contratto alla
società seconda classificata, è stato chiamato a decidere
sull’istanza risarcitoria con cui l’appellante aveva
richiesto che -in relazione al tempo trascorso dalla
stipula del contratto- il ministero venisse condannato a
risarcire il danno correlato alla consumazione di parte del
periodo di durata dell’appalto, quantificandolo in
proporzione all’utile atteso dichiarato in sede di
giustificazioni.
Il collegio ha rigettato la domanda, osservando che
l’appellante non aveva dichiarato di non aver altrimenti
impiegato, nel periodo predetto, le risorse occorrenti per
l’esecuzione dell’appalto, e in generale non aveva
prospettato alcun elemento in ordine all’utilizzazione delle
figure professionali disponibili in azienda ovvero impegnate
in vista dell’esecuzione dell’appalto.
Richiamando quindi l’orientamento secondo il quale,«ai fini
del risarcimento dei danni provocati da illegittimo
esercizio del potere amministrativo nel corso di gare
pubbliche, va comunque detratto dall’importo dovuto a titolo
risarcitorio quanto dall’impresa percepito grazie allo
svolgimento di ulteriori attività lucrative nel periodo in
cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione» e
l’onere di provare l’assenza dell’aliunde perceptum vel
percepiendum grava non sulla Pa ma sull’impresa, i giudici
di Palazzo Spada hanno ritenuto che la lacuna probatoria
impedisse di accogliere la domanda risarcitoria.
Il Consiglio di Stato fa dunque pedissequa applicazione del
meccanismo probatorio peculiare elaborato dalla
giurisprudenza amministrativa, che si pone in frontale
contrasto con un totem della materia istruttoria processuale
(soprattutto civilistica), ossia l’inammissibilità della
prova negativa: negativa non sunt probanda. Palazzo Spada,
in ultima analisi, chiede al ricorrente di provare di non
avere realizzato guadagni: solo in presenza di tale prova,
il risarcimento può essere riconosciuto.
Se difficilmente può ipotizzarsi il ricorso proficuo alla
prova documentale, la via della prova costituenda non è di
più facile percorribilità considerando la marginalità e
inusualità della prova testimoniale nel processo
amministrativo. Che poi la prova del fatto negativo gravi
sull’imprenditore è –all’atto pratico- inevitabile,
essendo egli l’unico soggetto, almeno in linea di principio,
nella condizione di reperire elementi adatti a soddisfare
l’onere probatorio. Tuttavia, anche sotto tale profilo si
evidenzia l’originalità della posizione del giudice
amministrativo: i principi generali della materia probatoria
rimettono in capo al debitore la prova del fatto estintivo.
Per converso, seguendo il ragionamento fatto proprio anche
dalla decisione in commento, il ricorrente è chiamato a
provare il danno –secondo l’ordinario meccanismo delineato
dall’articolo 2697 Codice civile– e, contestualmente, a
provare che non si siano verificati eventi idonei a
incidere, elidendolo in tutto o in parte, sul lamentato
nocumento. Si realizza pertanto un totale ribaltamento
dell’ottica probatoria, determinando l’orientamento che si è
andato consolidando in materia di danno da illegittimo
esercizio del potere amministrativo nel corso di gare
pubbliche la radicale inversione dell’onere della prova.
Se è pur vero, quindi, che in materia di appalti, dopo la
sentenza della Corte di Giustizia sezione III, 30.09.2010, C–314/09, si è ormai consolidata la tesi della
responsabilità oggettiva della stazione appaltante, per cui
il ricorrente è sollevato dall’onere di provare l’elemento
soggettivo della colpa dell’agente, tale vantaggio è
controbilanciato dall’intensità dell’onere allegativo
imposto in punto di prova del danno.
Proprio la difficoltà della prova può spiegare la relativa
infrequenza di pronunce di accoglimento delle istanze
risarcitorie proposte a corredo dei ricorsi in materia di
appalti. Tale dato, unitamente all’elevato costo del
contenzioso disciplinato dall’articolo 120, dlgs 163/2006,
può incidere sulla propensione dell’aspirante appaltatore
all’impugnativa, posto che, salva l’ipotesi di subentro
tempestivo nel contratto all’esito della sospensiva, il
ricorso in via giurisdizionale può non costituire un
efficace strumento di reintegrazione dell’interesse leso (articolo Il Sole 24 Ore del
07.01.2016).
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MASSIMA
17. Con memoria finale, in relazione al tempo trascorso
dalla stipula del contratto con SIRFIN, TBS ha chiesto che
il Ministero dell’interno venga condannato a risarcirle il
danno correlato alla consumazione di parte del periodo di
durata dell’appalto, quantificandolo (per l’ipotesi che
l’auspicato subentro avvenga alla fine del corrente anno),
in proporzione all’utile atteso dichiarato in sede di
giustificazioni, nella somma di euro 35.735,84 (4.466,98 al
mese, da maggio a dicembre 2015).
18. Il Collegio osserva che l’appellante non ha dichiarato
di non aver altrimenti impiegato, nel periodo predetto, le
risorse occorrenti per l’esecuzione dell’appalto, e in
generale non ha prospettato alcun elemento in ordine
all’utilizzazione delle figure professionali disponibili in
azienda ovvero impegnate in vista dell’esecuzione
dell’appalto.
Tale circostanza, in applicazione dell’orientamento di
questo Consiglio, secondo il quale, ai fini
del risarcimento dei danni provocati da illegittimo
esercizio del potere amministrativo nel corso di gare
pubbliche, va comunque detratto dall’importo dovuto a titolo
risarcitorio quanto dall’impresa percepito grazie allo
svolgimento di ulteriori attività lucrative nel periodo in
cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione e
tale onere di provare l’assenza dell’aliunde perceptum
vel percepiendum grava non sull’Amministrazione, ma
sull’impresa
(cfr., da ultimo, III, n. 1839/2015 e n. 5567/2014; IV, n.
1708/2015 e n. 5531/2014; V, n. 4248/2014), impedisce di
accogliere la domanda risarcitoria. |
EDILIZIA PRIVATA:
Lo “ius aedificandi” trova fonte nel diritto di
proprietà, del quale rappresenta una facoltà ex art. 832
c.c., sicché i diritti edificatori possono assumere autonoma
rilevanza solo in quanto siano oggetto di un’apposita
convenzione stipulata dal proprietario dell’area cui
accedono; in assenza di tale convenzione, il trasferimento
della proprietà del terreno (nella specie, per
espropriazione forzata) comporta anche il trasferimento
della capacità edificatoria attuale (nella specie,
volumetria edificabile connessa a un piano di
lottizzazione).
---------------
B. I motivi –che possono trattarsi congiuntamente per la
stretta connessione– sono infondati.
a) In primo luogo, va ricordato che con le
sentenze Corte Cost. n. 5 del 1980 e n. 127 del 1983 è stato
escluso che, in base alle leggi che hanno disposto la
conformazione edilizia del territorio e condizionato la
edificabilità dei suoli al rilascio di una concessione, l’ius
aedificandi non inerisca più al diritto di proprietà,
potendo la edificabilità delle aree essere stabilita solo
con provvedimento dell’autorità; relativamente ai suoli
destinati dagli strumenti urbanistici alla edilizia
residenziale privata, infatti, la edificazione avviene ad
opera del proprietario dell’area il quale, concorrendo le
condizioni previste dalla legge, ha diritto ad ottenere la
concessione edilizia, che non è attributiva di diritti nuovi
ma presuppone facoltà preesistenti.
L’istituto della concessione edilizia,
introdotto con la Legge n. 10 del 1977, non ha dissociato il
jus aedificandi dal diritto di proprietà, ma ha solo
stabilito i limiti all’esercizio di quel diritto, in
relazione alla funzione sociale della proprietà e nel
rispetto del parametro costituzionale. L’imposizione di un
contributo al proprietario, da corrispondere al comune, si
inquadra nell’adempimento di doveri inderogabili di
solidarietà economica e sociale, oltreché politica, sicché
la partecipazione agli oneri di urbanizzazione non è
illegittima se si mantiene nei limiti della ragionevolezza.
In effetti, titolo legittimante per
ottenere la concessione edilizia (Legge n. 77 del 2010,
articolo 4) e ora il permesso di costruire (Testo Unico n.
380 del 2001, articolo 11) è innanzitutto la proprietà.
Dunque, il diritto di costruire non trova
fonte nel provvedimento amministrativo che si limita a
verificare i presupposti per l’esercizio del diritto secondo
quanto prescritto dalle norme di legge e dagli strumenti
urbanistici.
Non possono ricavarsi elementi favorevoli alla tesi della
ricorrente dalle previsioni dettate dalla Legge n. 1150 del
1942, articolo 23, in tema di comparto edificatorio,
previsto dall’articolo 870 c.c., che costituisce mezzo di
attuazione del piano regolatore particolareggiato e rende
possibile l’edificazione privata attraverso la formazione di
consorzi tra proprietari rappresentanti almeno i tre quarti
del valore dell’intero comparto, nonché l’espropriazione
delle aree appartenenti ai proprietari non aderenti; la
Legge n. 1150 del 1942, articolo 28, prevede, in caso di
mancanza di piano particolareggiato, l’autorizzazione ad
edificare da parte del Comune.
La ricostruzione della disciplina urbanistica relativa al
diritto di costruire non è contraddetta dalle successive
norme che in effetti hanno preso in considerazione la
categoria dei diritti edificatori e la possibilità di
trasferimento della capacità edificatoria in modo autonomo
dal diritto di proprietà, secondo quanto si esaminerà infra.
b) La Legge n. 308 del 2004, articolo 1, comma 21, prevede che
qualora, per effetto di vincoli sopravvenuti, diversi da
quelli di natura urbanistica, non sia più esercitabile il
diritto di edificare che sia stato già assentito a norma
delle vigenti disposizioni, è in facoltà del titolare del
diritto chiedere di esercitare lo stesso su altra area del
territorio comunale, di cui abbia acquisito la disponibilità
a fini edificatori; il comma successivo recita in caso di
accoglimento dell’istanza presentata ai sensi del comma 21,
la traslazione del diritto di edificale su area diversa
comporta la contestuale cessione al comune, a titolo
gratuito, dell’area interessata dal vincolo sopravvenuto.
In effetti, come previsto anche dalla Legge n. 244 del 2007,
comma 258, si tratta di norme dettate per attuare la c.d.
perequazione urbanistica –secondo le modalità previste
dall’Amministrazione negli strumenti urbanistici–
consentendo all’Amministrazione di ottenere la cessione
gratuita di area destinata alla realizzazione di interessi
pubblici senza procedere a espropriazione ma dando in
corrispettivo la traslazione dei diritti edificatori su
altra area di proprietà del cedente. Peraltro, come si è
accennato, la configurabilità della categoria dei diritti
edificatori non sembra avvalorare la tesi della ricorrente.
Ed invero, le considerazioni formulate dalla ricorrente non
possono essere condivise, neppure alla luce di quanto
previsto dalla Legge Regionale Lombardia n. 12 del 2005,
alla quale ha fatto riferimento, e ancora dal Decreto n. 70
del 2011, articolo 5, comma 3, secondo cui “per garantire
certezza nella circolazione dei diritti edificatori,
all’articolo 2643 c.c., dopo il n. 2), è inserito il
seguente: “2-bis) i contratti che trasferiscono,
costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque
denominati, previsti da normative statali o regionali,
ovvero da strumenti di pianificazione”.
Intanto, potranno assumere obiettiva e
autonoma rilevanza i diritti edificatori, in quanto siano
oggetto di apposita convenzione intercorsa con il
proprietario dell’area alla quale accedono, posto che lo
ius aedificandi trova fonte nel diritto di proprietà, di
cui rappresenta una facoltà (articolo 832 c.c.) dovendo
escludersi, come sostenuto dalla ricorrente, che –in assenza
di uno specifico atto dispositivo– il trasferimento della
proprietà dell’area non comporti di per se anche il diritto
di costruirvi.
In effetti, il legislatore ha inteso dare
riconoscimento (pubblicità) anche a quegli accordi fra
proprietari (cessione di cubatura), con cui una parte (il
proprietario cedente) si impegni a prestare il proprio
consenso affinché la cubatura (o una parte di essa) che gli
compete in base agli strumenti urbanistici venga attribuita
dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario),
compreso nella stessa zona urbanistica, cosi consentendogli
di chiedere ed ottenere una concessione per la costruzione
di un immobile di volume maggiore di quello cui avrebbe
avuto altrimenti diritto: al fine di consentire al
proprietario finitimo di ottenere la concessione edilizia o
il permesso di costruire per realizzare una volumetria
maggiore di quella che sarebbe consentita, il cedente
rinuncia allo sfruttamento edilizio del proprio fondo che è
destinato a rimanere inedificato.
Ma, nella specie non potrebbe essere decisivo il riferimento
ai diritti edificatori, posto che il proprietario dell’area
in oggetto (la ricorrente, che ha subito l’espropriazione
immobiliare a seguito di un procedimento esecutivo) non era
rimasta titolare dei diritti edificatori ovvero della
capacità edificatoria del terreno nel momento in cui la
proprietà dello stesso era stata trasferita, atteso che in
assenza di una diversa regolamentazione la volumetria
edificabile era trasferita con il diritto di di proprietà di
cui essa rappresentava una componente ex articolo 832 c.c.:
con l’atto di aggiudicazione è stata trasferita la piena
proprietà del bene pignorato secondo quanto previsto
dall’articolo 2912 c.c..
c) Infine, l’assunzione, da parte del proprietario
del fondo, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione
costituisce un’obbligazione “propter rem”, dovendo
dette opere essere eseguite da coloro che sono proprietari
al momento del rilascio della concessione edilizia, i quali
ben possono essere soggetti diversi da quelli che
stipularono la convenzione, per avere da questi acquistato
una parte del suolo su cui far sorgere singoli (o gruppi di)
lotti (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
II civile,
sentenza 12.11.2015 n. 23130). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' notorio che, se per il
lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso
ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta alla
vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento nel
privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione
dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un
onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
---------------
Sussiste l'obbligo del Comune di provvedere sull'istanza di
repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno
confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il
quale, appunto per tal aspetto che s’invera nel concetto di
vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto
alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e
diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio
non represso nell’area limitrofa alla sua propriet, onde
egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di
tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a
seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a., che segue
il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss..
Come rettamente ha precisato il TAR, il soggetto così
legittimato può pretendere l’esercizio di tali poteri
vincolati e doverosi (donde l’incomparabilità di tal pretesa
alle vicende dell’autotutela spontanea) e la relativa
definizione mercé un provvedimento espresso, anche magari
esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte
dell'istante.
Quindi, il silenzio serbato dalla P.A. integra gli estremi
del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in sede
giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della
vicinitas con la funzione non discrezionale della vigilanza
edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie in esame
dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto, non così
legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A. stessa, ma
proprio per questo non ha titolo per rendere coercibile
l’omesso esercizio di tal funzione.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Campania–Salerno,
sez. II, n. 2237/2014, resa tra le parti e concernente il
silenzio serbato dal Comune intimato sull’istanza del sig.
An.Vi. per l’adozione di atti di verifica sulla legittimità
di opere edilizie;
...
- Considerato altresì che, nel merito, l’appello non ha
pregio e va disatteso, con la doverosa premessa che lo
specifico oggetto del contendere è l’inerzia procedimentale
(silenzio) del Comune intimato sull’istanza del sig. A.Vi. e
NON la concreta legittimità dell’attività edilizia
dell’appellante, argomento, questo, che il Collegio non può
trattare, neppure incidenter tantum, sia per il
divieto di cui all’art. 30, c. 2, I per., c.p.a. (il potere
amministrativo sul punto o non è stato ancora esercitato o
non è nella cognizione del Giudice d’appello), sia perché,
quand’anche si volesse entrare nel merito della fondatezza
della pretesa azionata con il rito del silenzio, già dal
contenuto stesso dell’istanza del 01.07.2014 s’evince la
permanenza, in capo a detto Comune, della necessità di
adempimenti istruttori di esso per l’esatta definizione del
procedimento invocato e, dunque, l’inibizione posta al
riguardo dal successivo art. 31, c. 3, onde scolora ogni
deduzione dell’appellante sulla richiesta dell’“annullamento”
d’alcunché);
- Considerato ancora che la dedotta “definitività”
del titolo edilizio in capo all’appellante, se è intesa con
riferimento al lungo tempo trascorso dal relativo rilascio,
di per sé sola non inibisce l’invocata attivazione del
procedimento comunale preordinato all’accertamento
dell’esistenza -o meno- di abusi edilizi, essendo notorio
(cfr., p.es., Cons. St., IV, 04.03.2014 n. 1016) che, se per
il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta
alla vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento
nel privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione
dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un
onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato;
- Considerato pure che, se tal “definitività” si vuol
intendere a guisa di decadenza dall’impugnazione del titolo,
anche questo dato è inopponibile all’istanza d’attivazione
dei poteri di vigilanza edilizia, stante l’evidente diversa
qualità degli interessi protetti implicati nell’una vicenda
rispetto all’altra, nonché la non sovrapponibilità, né
tampoco la coincidenza dell’interesse del privato ad
impugnare a quello pubblico connesso ai e garantito dai
predetti poteri vincolati di vigilanza, proprio per questo
non essendo qui applicabile il principio per cui l’uso
strumentale della formazione del silenzio non rimette in
termini il privato decaduto dall’azione impugnatoria;
- Considerato che erronea s’appalesa tutta la ricostruzione
del procedimento di vigilanza edilizia, che l’appellante
tenta con le categorie dell’autotutela spontanea -in
particolare con riguardo alla natura discrezionale
dell’attivazione dei procedimenti amministrativi di secondo
grado-;
- Considerato infatti che sussiste l'obbligo del Comune di
provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi
realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tal aspetto che s’invera
nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione
differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti
(nocivi) immediati e diretti della commissione
dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area
limitrofa alla sua proprietà (arg. ex Cons. St., IV,
29.04.2014 n. 2228), onde egli è titolare d’un interesse
legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e,
quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai
sensi dell’art. 31 c.p.a. (cfr. così Cons. St., IV,
02.02.2011 n. 744; id., VI, 17.01.2014 n. 233), che segue il
rito di cui ai successivi artt. 112 e ss.;
- Considerato di conseguenza che, come rettamente ha
precisato il TAR, il soggetto così legittimato può
pretendere l’esercizio di tali poteri vincolati e doverosi
(donde l’incomparabilità di tal pretesa alle vicende
dell’autotutela spontanea) e la relativa definizione mercé
un provvedimento espresso, anche magari esplicitando
l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'istante;
- Considerato, quindi che il silenzio serbato dalla P.A.,
come nella specie è accaduto con l’istanza del sig. A.Vi.,
integra gli estremi del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in
sede giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della
vicinitas con la funzione non discrezionale della
vigilanza edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie
in esame dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto,
non così legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A.
stessa, ma proprio per questo non ha titolo per rendere
coercibile l’omesso esercizio di tal funzione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.11.2015 n. 5087 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
rilevato dalla dominante giurisprudenza amministrativa, per
l'adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti a tutela
della pubblica incolumità non occorre il rispetto delle
regole procedimentali poste a presidio della partecipazione
del privato, ex art. 7 della legge n. 241 del 1990, essendo
queste incompatibili con l'urgenza del provvedere, anche in
ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo,
che si aggrava (come per l’odierna fattispecie) con il
trascorrere del tempo; di fatto la comunicazione di avvio
del procedimento nelle ordinanze contingibili ed urgenti
adottate dal Sindaco non può che essere di pregiudizio per
l'urgenza del provvedere.
Né può sostenersi che l’urgenza del provvedere fosse esclusa
per il lungo lasso di tempo trascorso dal momento in cui è
stato constatato l’accumulo abusivo dei rifiuti in
questione, atteso che l'assoluta imprevedibilità della
situazione da affrontare non è un presupposto indefettibile
per l'adozione delle ordinanze sindacali extra ordinem e che
il protrarsi della situazione di pericolo non rende, di per
sé, illegittima l'ordinanza, dal momento che in determinate
situazioni il trascorrere del tempo non elimina da sé il
pericolo, ma può, invece, aggravarlo, pur con la
precisazione che la situazione di pericolo deve essere
attuale rispetto al momento dell'adozione del provvedimento.
---------------
Il Collegio manifesta adesione all’orientamento, più volte
confermato anche da recenti pronunce di questo stesso TAR,
in base al quale l’ordine di rimozione dei rifiuti presenti
sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne
sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori
dell’illecito, per avere cioè posto in essere un
comportamento, omissivo o commissivo a titolo doloso o
colposo, dovendosi escludere che la normativa configuri
un’ipotesi legale di responsabilità oggettiva.
Il giudice di appello ha confermato tale orientamento sia
con riferimento alla precedente disciplina che al disposto
di cui all’art. 192 del d.lgs. 152/2006.
---------------
La mancata esecuzione del piano che la società stessa aveva
dichiarato di volere osservare ha determinato un
aggravamento dell’inquinamento del sito, atteso il carattere
di progressivo peggioramento della situazione per il quale,
anche ai fini dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, la
relativa responsabilità non può che appuntarsi sulla società
inadempiente, almeno per il segmento temporale che si
estende dall’assunzione dell’obbligo di smaltimento fino
all’adozione dell’ordinanza gravata.
Vero è poi che l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006 riconosce
al proprietario o ad altro soggetto interessato, nel caso di
mancata individuazione del responsabile dell’inquinamento
“la facoltà di intervenire in qualunque momento
volontariamente per la realizzazione degli interventi dì
bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o
disponibilità”, senza che ciò determini l’assunzione del
relativo obbligo; sennonché, nel caso di specie, la ...
s.r.l. non si è limitata ad avviare interventi di bonifica
poi arrestandosi, ma ha assunto formalmente l’impegno nei
confronti dell’Amministrazione di eseguire un completo piano
di smaltimento.
In sostanza, indipendentemente dall’attribuzione della
responsabilità dell’iniziale sversamento di rifiuti tessili,
l’inadempimento della società agli obblighi di smaltimento
assunti ha prodotto un aggravamento della situazione
ambientale, atteso che l’Amministrazione, anche tenendo
conto degli obblighi assunti dalla ricorrente, non ha più
provveduto direttamente alla bonifica, avendo maturato un
affidamento sul completamento della bonifica maturato per
effetto di quanto dichiarato nel tempo dalla stessa ...
s.r.l..
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 13 del 05.06.2014
emessa dal Sindaco del Comune di Pozzilli prot. n.
2947/2014, avente ad oggetto lo sgombero dai rifiuti
dell’area di proprietà della ricorrente, nonché di ogni atto
presupposto, connesso e/o conseguente;
...
Passando al merito del ricorso, con il primo motivo, che può
essere scrutinato insieme all’ottavo, la ... s.r.l. lamenta
la mancata comunicazione di avvio del procedimento
amministrativo ex art. 7 l. n. 241/1990; l’eccesso di potere
per difetto di motivazione, nonché la carenza istruttoria,
l’illogicità manifesta e il travisamento dei presupposti.
La ... s.r.l., in sostanza, rileva che il procedimento che
ha condotto all’adozione dell’ordinanza gravata non sarebbe
stato preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, nonostante il provvedimento sia stato emesso
all’esito di un iter lungo e tortuoso iniziato nel 2001,
allorché l’Amministrazione comunale si era rivolta al
Ministero dell’Ambiente per ottenere un finanziamento per
procedere all’opera per cui è causa, di modo che non
ricorrerebbero i presupposti che avrebbero consentito di
omettere l’avviso, tenuto anche conto che il proprio
contributo sarebbe stato determinante sull’esito del
procedimento.
L’eccezione non coglie nel segno.
Come rilevato dalla dominante giurisprudenza amministrativa,
per l'adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti a
tutela della pubblica incolumità non occorre il rispetto
delle regole procedimentali poste a presidio della
partecipazione del privato, ex art. 7 della legge n. 241 del
1990, essendo queste incompatibili con l'urgenza del
provvedere, anche in ragione della perdurante attualità
dello stato di pericolo, che si aggrava (come per l’odierna
fattispecie) con il trascorrere del tempo; di fatto la
comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze
contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco non può che
essere di pregiudizio per l'urgenza del provvedere (cfr. TAR
Lazio, sez. II, 02.12.2014, n. 12136; Cons. Stato, sez.
V, 01.12.2014, n. 5919).
Né può sostenersi che l’urgenza del provvedere fosse esclusa
per il lungo lasso di tempo trascorso dal momento in cui è
stato constatato l’accumulo abusivo dei rifiuti in
questione, atteso che l'assoluta imprevedibilità della
situazione da affrontare non è un presupposto indefettibile
per l'adozione delle ordinanze sindacali extra ordinem e che
il protrarsi della situazione di pericolo non rende, di per
sé, illegittima l'ordinanza, dal momento che in determinate
situazioni il trascorrere del tempo non elimina da sé il
pericolo, ma può, invece, aggravarlo, pur con la
precisazione che la situazione di pericolo deve essere
attuale rispetto al momento dell'adozione del provvedimento
(così, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, sent. 04.02.2015, n. 533).
Nel caso di specie già dalla relazione dell’ARPA Molise
dell’08.11.2004 risultava una situazione di grave
compromissione del sito connotata da caratteri di
progressivo peggioramento, atteso che la presenza di balle
di indumenti esposti all’umidità e alle intemperie, avevano
reso l’ambiente propizio per la nidificazione di uccelli e
ratti, creando così condizioni di degrado crescente che
avrebbero con il trascorrere del tempo necessariamente
compromesso la salubrità dell’area, giustificando l’adozione
dell’ordinanza gravata.
Sussisteva quindi l’urgenza di provvedere che ha
giustificato l’adozione dell’ordinanza impugnata senza
comunicare previamente l’avvio del procedimento, come
affermato nel preambolo della medesima ordinanza e ciò
nonostante l’ampio lasso di tempo trascorso dall’inizio
dell’abusivo deposito dei rifiuti e indipendentemente dal
fatto che il Comune abbia, o meno, tenuto un comportamento
inerte fino a quel momento.
Peraltro, l’ordinanza è stata preceduta da ripetuti
solleciti da parte dell’Amministrazione comunale con i quali
la società è stata invitata a riavviare le operazioni di
bonifica del sito e da un incontro svoltosi il 27.03.2014
in esito al quale la ... s.r.l. ha manifestato l’intendimento, cui
non risulta sia stato dato alcun seguito, di elaborare un
nuovo piano di smaltimento.
Ne consegue che prima dell’adozione del provvedimento
gravato, l’Amministrazione ha instaurato una fitta
interlocuzione con la società ricorrente che ha potuto in
contraddittorio far valere le proprie ragioni, sempre
tuttavia confermando la volontà di proseguire direttamente
l’attività di risanamento del sito e senza richiedere
l’intervento dell’Amministrazione resistente, se non nei
limiti dell’interposizione di “buoni uffici” per il
conseguimento di finanziamenti regionali o statali.
Con i motivi dal secondo al settimo, parte ricorrente
censura il provvedimento comunale, lamentando, nella
sostanza, che l’onere di ripristino sia stato posto a carico
della ... s.r.l. sul semplice presupposto di essere la
proprietaria dell’area e dei capannoni, in violazione del
principio “chi inquina paga”, già sancito dalla disciplina
di cui al d.lgs. n. 22/1997 e confermato dal TU Ambiente
(d.lgs. n. 152/2006), in base al quale l’obbligo di bonifica
dell’area inquinata incombe sul soggetto che, con il proprio
comportamento, ha colpevolmente determinato lo smaltimento
illecito di rifiuti.
In altre parole l’obbligo di rimozione dei rifiuti può
essere accollato unicamente al responsabile dell’illecito,
ovvero a colui che con il proprio atteggiamento doloso o
colposo abbia causato l’inquinamento, ma, nel caso di
specie, nessuna colpa potrebbe essere imputata alla ...
s.r.l., essendo incontestato, prosegue la ricorrente, che il
deposito illecito dei rifiuti sia stato realizzato
dall’impresa affittuaria dell’area, in seguito posta in
stato di liquidazione e il cui rappresentante legale si è
reso irreperibile.
Anzi, la ricorrente afferma di aver segnalato immediatamente
l’abusivo accumulo, rendendo possibile l’avvio del
procedimento penale che ha condotto poi al sequestro e,
quindi, all’interruzione dell’illecito, svolgendo
un’attività di sorveglianza sul conduttore a cui non sarebbe
stata nemmeno tenuta, specialmente dopo aver accertato che
il conduttore era effettivamente abilitato al trattamento
dei rifiuti tessili poi abbandonati.
L’eccezione non coglie nel segno.
Il Collegio preliminarmente manifesta adesione
all’orientamento, più volte confermato anche da recenti
pronunce di questo stesso TAR, in base al quale l’ordine di
rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto
al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la
corresponsabilità con gli autori dell’illecito, per avere
cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo
a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la
normativa configuri un’ipotesi legale di responsabilità
oggettiva (così tra le ultime TAR Molise, 07.08.2014, n.
489; TAR Molise, 07.07.2014, n. 425; con riferimento al
d.lgs. n. 22/1997 cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.01.2005,
n. 136. Il giudice di appello ha confermato tale
orientamento sia con riferimento alla precedente disciplina
che al disposto di cui all’art. 192 del d.lgs. 152/2006;
cfr. Cons. Stato, V, 25.08.2008, n. 4061; id. 19.03.2009, n. 1612).
La conferma di tale consolidato principio non giova alla
ricorrente nel caso di specie, atteso che essa censura il
provvedimento impugnato, asserendo di non aver alcuna
responsabilità per l’illecito accumulo di rifiuti nell’area,
ma incentrando le proprie censure sul momento in cui i
rifiuti in questione sono stati illecitamente ammassati nei
capannoni e nell’area circostante, laddove, nel caso di
specie, l’ordinanza impugnata impone alla ... s.r.l. di
provvedere allo smaltimento, non già invocando la
responsabilità della società per la condotta originaria, ma
per non aver ottemperato al piano di rimozione che la stessa
si era impegnata ad osservare nei confronti del Comune.
Agli atti, infatti, è depositata la nota del 15.05.2012
(prot. in entrata n. 2701), con cui la ... s.r.l., per il
tramite del proprio amministratore unico, ha comunicato al
Comune di Pozzilli di aver iniziato le operazioni di
bonifica del sito già dall’anno 2006 e di aver sostenuto
spese per un ammontare di 128.000 euro; con la stessa nota
la società ha anche espressamente dichiarato al Comune che:
“è Ns. intenzione proseguire con tale smaltimento,
nonostante la crisi che imperversa il nostro settore da
ormai vari anni”, precisando tuttavia di aver sospeso
l’attività durante i mesi invernali e che la bonifica
sarebbe ripresa a partire dal mese di giugno 2012, senza che
tale impegno venisse poi effettivamente adempiuto.
Tale nota, come confermano anche i toni concilianti ivi
utilizzati, indica chiaramente che la ... s.r.l. aveva
assunto l’obbligo di compiere le attività di smaltimento
necessarie alla bonifica del sito, come confermato anche
nell’incontro del 27.03.2014 (oggetto del verbale
depositato in atti), all’esito del quale, per un verso, la
società si è impegnata a predisporre un (nuovo) piano di
smaltimento per lo smaltimento dei rifiuti e, per altro
verso, l’Amministrazione comunale ha dichiarato che si
sarebbe attivata per proporre tutte le istanze possibili
secondo la legislazione vigente per ottenere un
finanziamento, prefigurando un rapporto di cooperazione che
prevedeva comunque un’allocazione di compiti in cui quello
assegnato alla società consisteva nel provvedere
direttamente al ripristino dello status quo ante del sito.
Ed è l’inadempimento a tale obbligo volontariamente assunto
che è richiamato nella motivazione (invero assai stringata)
dell’impugnata ordinanza, con cui l’Amministrazione richiama
a supporto della propria determinazione proprio la mancata
attuazione da parte della ... s.r.l. del piano di smaltimento, con
una valutazione che non pare irrazionale, atteso che a
prescindere dall’imputazione della responsabilità per
l’iniziale illecito deposito dei rifiuti, l’impresa stessa
dichiarava nella nota del 15.05.2012 di aver avviato fin
dal 2006 l’attività di bonifica del sito e che intendeva
completarla, ingenerando nell’Amministrazione il
convincimento che la bonifica sarebbe stata realizzata
integralmente ad opera e a spese dalla società ricorrente
(salvi eventuali finanziamenti).
In altre parole, ritiene il Collegio, che con la nota del 15.05.2012 con cui ha confermato l’esistenza di un piano
per lo smaltimento dei rifiuti ammassati nell’area di sua
proprietà, la società ricorrente ha finito per sollevare il
Comune da eventuali obblighi di compiere direttamente
l’intervento di bonifica, con ciò accollandosi una
responsabilità diretta al ripristino dello status quo ante.
Deve quindi ritenersi che dopo la diffida ricevuta dalla
Regione nel 2005, la società abbia deciso di provvedere
autonomamente alla bonifica, assumendo anche il relativo
impegno nei confronti delle Amministrazioni, come sembra
confermare la circostanza che non risultano dopo il 2005
comunicazioni con cui la ... s.r.l. abbia diffidato
l’Amministrazione a provvedere allo smaltimento.
Per contro, la mancata esecuzione del piano che la società
stessa aveva dichiarato di volere osservare ha, invece,
determinato un aggravamento dell’inquinamento del sito,
atteso il carattere di progressivo peggioramento della
situazione per il quale, anche ai fini dell’art. 192 del
d.lgs. n. 152/2006, la relativa responsabilità non può che
appuntarsi sulla società inadempiente, almeno per il
segmento temporale che si estende dall’assunzione
dell’obbligo di smaltimento fino all’adozione dell’ordinanza
gravata.
Vero è poi che l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006 riconosce
al proprietario o ad altro soggetto interessato, nel caso di
mancata individuazione del responsabile dell’inquinamento
“la facoltà di intervenire in qualunque momento
volontariamente per la realizzazione degli interventi dì
bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o
disponibilità”, senza che ciò determini l’assunzione del
relativo obbligo; sennonché, nel caso di specie, la ...
s.r.l. non si è limitata ad avviare interventi di bonifica
poi arrestandosi, ma ha assunto formalmente l’impegno nei
confronti dell’Amministrazione di eseguire un completo piano
di smaltimento.
In sostanza, indipendentemente dall’attribuzione della
responsabilità dell’iniziale sversamento di rifiuti tessili,
l’inadempimento della società agli obblighi di smaltimento
assunti ha prodotto un aggravamento della situazione
ambientale, atteso che l’Amministrazione, anche tenendo
conto degli obblighi assunti dalla ricorrente, non ha più
provveduto direttamente alla bonifica, avendo maturato un
affidamento sul completamento della bonifica maturato per
effetto di quanto dichiarato nel tempo dalla stessa ...
s.r.l..
In definitiva il ricorso è infondato e deve pertanto essere
respinto
(TAR Molise,
sentenza 06.11.2015 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il danno da ritardo trova specifica disciplina
nell’art 2-bis della legge n. 241 del 1990 a mente del quale
"le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all´art.
1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno
ingiusto cagionato dall´inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento".
Si tratta di una disposizione che tutela in sé il bene della
vita inerente alla certezza, in relazione al fattore tempo,
dei rapporti giuridici che vedono come parte la pubblica
amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a
provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed
iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva
della pubblica amministrazione, ovvero alla rimozione di
limiti di rilievo pubblico al loro espletamento.
Sul piano oggettivo l'illecito de quo riceve qualificazione
dall´inosservanza del termine ordinamentale per la
conclusione del procedimento; sul piano soggettivo il
ritardo deve essere ascrivibile ad un'inosservanza dolosa o
colposa dei termini di legge o di regolamento stabiliti per
l'adozione dell'atto terminale.
La pretesa alla tempestività dell’azione amministrativa,
quindi, è tutelata solo nei limiti dell’art. 30, quarto
comma, c.p.a. e dell’art. 2-bis L. n. 241/1990.
----------------
L’eccezione è fondata.
Il danno da ritardo trova specifica disciplina nell’art
2-bis della legge n. 241 del 1990 a mente del quale "le
pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all´art. 1,
comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto
cagionato dall´inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento".
Si tratta di una disposizione che tutela in sé il bene della
vita inerente alla certezza, in relazione al fattore tempo,
dei rapporti giuridici che vedono come parte la pubblica
amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a
provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed
iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva
della pubblica amministrazione, ovvero alla rimozione di
limiti di rilievo pubblico al loro espletamento (cfr. Cons.
St., Sez. V. n. 3405 del 21.06.2013; V, n. 1271 del
28.02.2011).
Sul piano oggettivo l'illecito de quo riceve
qualificazione dall´inosservanza del termine ordinamentale
per la conclusione del procedimento; sul piano soggettivo il
ritardo deve essere ascrivibile ad un'inosservanza dolosa o
colposa dei termini di legge o di regolamento stabiliti per
l'adozione dell'atto terminale.
La pretesa alla tempestività dell’azione amministrativa,
quindi, è tutelata solo nei limiti dell’art. 30, quarto
comma, c.p.a. e dell’art. 2-bis L. n. 241/1990.
Nel caso in esame, invece, la pretesa dedotta, se riferita
sic et simpliciter alla tempestività dell’azione
amministrativa, è priva di tutela; se riferita all’incisione
del diritto alla salute (scaturente da asseriti
comportamenti omissivi degli organi deputati al controllo di
apparati sanitari) spetta alla cognizione del giudice
ordinario.
Come affermato da recente giurisprudenza in fattispecie
relative a domanda di risarcimento in relazione alla lesione
del diritto alla salute, “…è evidente che la fattispecie
impinge primariamente sulla fondamentale tutela del diritto
alla salute, garantito costituzionalmente come diritto
soggettivo perfetto, e al contempo sulla disciplina di
istituti regolati in primis dal diritto civile, ma immanenti
e trasversali nell’ordinamento giuridico generale, quali la
prescrizione, la transazione, la responsabilità contrattuale
ed extracontrattuale, l’azione di risarcimento, che
riguardano diritti soggettivi non suscettibili di essere
degradati e affievoliti in interessi legittimi dalla
discrezionalità meramente tecnica dell’Amministrazione in
ordine all’apprezzamento dei presupposti per la definizione
delle transazioni e delle controversie, disciplina quindi
che non può soffrire deroghe se non introdotte con norme
primarie… Quanto alla responsabilità ministeriale di natura
extracontrattuale, la citata tutela della salute pubblica,
assicurata dall’art. 32 Cost., e il connesso obbligo di
vigilanza e di controllo e quindi di adozione di tutte le
iniziative necessarie pro tempore, sul piano amministrativo
ma anche e soprattutto tecnico-scientifico-sanitario, in
relazione allo sviluppo delle fenomenologie nel tempo,
rientrano di certo e da sempre nelle attribuzioni
istituzionali del competente Ministero e quindi nelle
connesse responsabilità, a prescindere dalla data di
insorgenza dell’evento dannoso, con un accertamento di fatto
demandato anch’esso al giudice ordinario” (Cons. St.
1501/2014).
Per i motivi suesposti il ricorso deve dichiararsi
inammissibile per difetto di giurisdizione mentre le spese
del giudizio possono essere compensate integralmente tra le
parti (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 05.11.2015 n. 3168 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La decadenza del permesso di
costruire non opera di per sé, ma deve necessariamente
tradursi in un provvedimento espresso che ne accerti i
presupposti e ne renda operanti gli effetti.
Contrariamente a quanto affermato dal
Consiglio di Stato nella sentenza più volte richiamata, la
giurisprudenza del giudice amministrativo, pur mostrandosi
concorde nell’affermare che la decadenza del permesso di
costruire costituisce un effetto che discende dall’inutile
decorso del termine di inizio e/o completamento dei lavori
autorizzati, è, tuttavia, in prevalenza orientata a
richiedere, come condizione indispensabile perché detto
effetto diventi operativo, l’adozione di un provvedimento
formale da parte del competente organo comunale, ancorché
meramente dichiarativo e con efficacia ex tunc, qualunque
sia l’epoca in cui è stato adottato e quindi anche se
intervenuto molto tempo dopo che i termini in questione
erano inutilmente decorsi, e ancorché i suoi effetti
retroagiscano al momento dell’evento estintivo.
Si tratta, in effetti, di una giurisprudenza risalente nel
tempo (cfr. Cons. St., sez. V, 15.06.1998, n. 834; Cons.
St., sez. V, 23.11.1996, n. 1414, per il quale l’adozione
del provvedimento dichiarativo della decadenza costituisce
condizione per l’esercizio dei poteri sanzionatori
amministrativi e per l’insorgenza dell’eventuale
responsabilità penale del titolare del permesso di costruire
per il caso di esecuzione dei lavori oltre il termine
prescritto dalla concessione edilizia) e sovente riproposta.
È peraltro incontestabile che anche la giurisprudenza più
recente di questo giudice di appello è prevalentemente
orientata nel senso che l’operatività della decadenza della
concessione edilizia necessita dell’intermediazione di un
formale provvedimento amministrativo di carattere
dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del
verificarsi del presupposto di legge e da adottare previa
apposita istruttoria.
Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza
del giudice di primo grado, per la quale la decadenza del
permesso di costruire non opera di per sé, ma deve
necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne
accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che,
sebbene a contenuto vincolato, ha carattere autoritativo e,
come tale, non è sottratto all’obbligo di motivazione di cui
all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può essere adottato solo
previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di
una potestà provvedimentale.
In una non recente decisione di questo Consiglio di Stato la
ragione, che giustificherebbe l’obbligo per l’ente locale di
adottare un atto che formalmente dichiari l’intervenuta
decadenza del permesso di costruire, è stata individuata
nella necessità di assicurare il contraddittorio con il
privato in ordine all’esistenza dei presupposti di fatto e
di diritto che giustifichino la pronuncia stessa.
---------------
Con la prima censura
parte appellante deduce erronea declaratoria di
inammissibilità del ricorso principale.
La società ricorrente in prime cure ha impugnato il rigetto
dell’istanza di permesso di costruire in variante e ha
chiesto la condanna del Comune resistente, in via
principale, al rilascio del permesso di costruire e al
risarcimento del danno da ritardo per equivalente monetario
e, in via subordinata, al risarcimento del danno per
equivalente.
Il Comune, nel costituirsi, ha eccepito in via preliminare
l’avvenuta decadenza del permesso di costruire originario
(n. 154 del 21.05.2008) ai sensi dell’articolo 15, comma 2,
del d.p.r. n. 380 del 2001 e quindi l’inammissibilità del
ricorso per carenza di interesse.
Il Tar Abruzzo, sezione staccata di Pescara, con la sentenza
n. 61 del 2013, impugnata in questa sede, ha ritenuto
l’eccezione fondata, ed ha così motivato in proposito: <<La
decadenza, inoltre, opera di diritto e non è richiesta a tal
fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento
diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza, e che il
Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che
fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo (cfr. Consiglio di Stato,
sentenza n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma
sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, sentenza n.
2915/2012)>>.
Ritiene il Collegio che tale orientamento giurisprudenziale
non possa essere condiviso per le ragioni che seguono.
Il Tar Pescara nella pronuncia di inammissibilità ha
richiamato la sentenza di questa Sezione 18.05.2012, n.
2915, la quale, nel prendere in esame il problema di fondo
che le parti in causa avevano sottoposto al suo giudizio, e
cioè se l’inosservanza delle condizioni da parte del
costruttore comporta automaticamente la decadenza del
permesso di costruire, che gli era stato rilasciato e che
fissava anche i termini di inizio e completamento dei
lavori, ovvero se a questo effetto è richiesto un apposito
provvedimento da parte del competente organo comunale, ha
motivatamente dichiarato di optare per la prima soluzione.
La tesi svolta, come meglio si vedrà in seguito, è che, ai
sensi dell’art. 15, co. 2, t.u. dell’edilizia, la decadenza
della concessione edilizia per mancata osservanza del
termine di inizio e completamento dei lavori opera di
diritto e il provvedimento, ove adottato, ha carattere
meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi.
Ha aggiunto il Consiglio di Stato nella citata sentenza n.
2915 del 2012 che la sua tesi trova conforto nella notazione
(del giudice di primo grado) secondo la quale, diversamente
opinando, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un
comportamento dei titolari della concessione, ma anche della
Pubblica amministrazione, libera in taluni casi di adottare
un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibile
disparità di trattamento tra situazioni identiche. Invece il
diretto riferimento al dettato legislativo, per quanto
attiene ai termini e alle conseguenze che derivano dalla
loro elusione, elimina in radice ogni ipotesi di disparità
di trattamento; al tempo stesso la necessità
dell’applicazione del regime sanzionatorio per i lavori
eseguiti dopo il decorso del termine stabilito dal titolo
abilitativo è, a sua volta, conseguenza necessitata della
violazione da parte dell’interessato di puntuali obblighi a
lui assegnati dalla stessa legge.
La conclusione che la citata sentenza trae dal suo
argomentare è che la pronuncia di decadenza del titolo
edilizio è espressione di un potere strettamente vincolato;
ha natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli
effetti del titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del
titolare e assume pertanto decorrenza ex tunc;
inoltre il termine di durata del titolo edilizio non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha
rilasciato il titolo edilizio che accerti l’impossibilità
del rispetto del termine ab origine fissato, e
solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un
factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di
forza maggiore.
Contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato
nella sentenza più volte richiamata, la giurisprudenza del
giudice amministrativo, pur mostrandosi concorde
nell’affermare che la decadenza del permesso di costruire
costituisce un effetto che discende dall’inutile decorso del
termine di inizio e/o completamento dei lavori autorizzati,
è, tuttavia, in prevalenza orientata a richiedere, come
condizione indispensabile perché detto effetto diventi
operativo, l’adozione di un provvedimento formale da parte
del competente organo comunale, ancorché meramente
dichiarativo e con efficacia ex tunc, qualunque sia
l’epoca in cui è stato adottato e quindi anche se
intervenuto molto tempo dopo che i termini in questione
erano inutilmente decorsi, e ancorché i suoi effetti
retroagiscano al momento dell’evento estintivo.
Si tratta, in effetti, di una giurisprudenza risalente nel
tempo (cfr. Cons. St., sez. V, 15.06.1998, n. 834; Cons.
St., sez. V, 23.11.1996, n. 1414, per il quale l’adozione
del provvedimento dichiarativo della decadenza costituisce
condizione per l’esercizio dei poteri sanzionatori
amministrativi e per l’insorgenza dell’eventuale
responsabilità penale del titolare del permesso di costruire
per il caso di esecuzione dei lavori oltre il termine
prescritto dalla concessione edilizia) e sovente riproposta
(Cons. St., sez. V, 20.10.2004, n. 5228).
È peraltro incontestabile che anche la giurisprudenza più
recente di questo giudice di appello è prevalentemente
orientata nel senso che l’operatività della decadenza della
concessione edilizia necessita dell’intermediazione di un
formale provvedimento amministrativo di carattere
dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del
verificarsi del presupposto di legge e da adottare previa
apposita istruttoria.
Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza
del giudice di primo grado, per la quale la decadenza del
permesso di costruire non opera di per sé, ma deve
necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne
accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che,
sebbene a contenuto vincolato, ha carattere autoritativo e,
come tale, non è sottratto all’obbligo di motivazione di cui
all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può essere adottato solo
previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di
una potestà provvedimentale.
In una non recente decisione di questo Consiglio di Stato
(cfr. Cons. St., sez. VI, 17.02.2006, n. 671) la ragione,
che giustificherebbe l’obbligo per l’ente locale di adottare
un atto che formalmente dichiari l’intervenuta decadenza del
permesso di costruire, è stata individuata nella necessità
di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine
all’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che
giustifichino la pronuncia stessa.
Ne consegue che, ad avviso del Collegio, il primo motivo è
fondato, non avendo il Comune di Pescara mai assunto alcun
provvedimento di decadenza del titolo edilizio, essendo,
anzi, tale questione stata eccepita per la prima volta in
sede di memoria di costituzione nel giudizio di primo grado,
peraltro nemmeno notificata alla controparte, sebbene
ampliativa del thema decidendum su circostanze di
fatto non contemplate nel ricorso introduttivo (che invece
aveva ad oggetto un provvedimento di diniego di variante al
permesso di costruire)
(Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.10.2015 n. 4823 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce variante essenziale del progetto edilizio
l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione.
Quanto all’unica motivazione di tale provvedimento
(qualifica di variante essenziale del progetto presentato),
appaiono fondate le argomentazioni esposte in primo grado
dall’appellante e riproposte in questa sede, trattandosi di
modifiche “riduttive” al progetto originario (si è
rinunciato a due unità immobiliari), laddove la semplice
“variazione della sagoma dell’edificio si appalesa del tutto
inidonea a … fondare la qualificazione di variante come …
essenziale”.
Non può non trascurarsi, del resto, che nella specie la
legge regionale abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il
concetto di “sagoma” nel novero delle modifiche che
determinano variazioni essenziali al progetto, così come non
vi include tutte quelle variazioni, come quelle di cui al
caso di specie, che finiscono per ridurre i parametri
edificatori originariamente assentiti al fine di alleggerire
il carico volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio
di dissesti del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione
dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il
titolo richiesto deve qualificarsi come variante non
essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670;
id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496,
secondo la quale “costituisce variante essenziale del
progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua
diminuzione”).
---------------
Quanto all’unica
motivazione di tale provvedimento (qualifica di variante
essenziale del progetto presentato), appaiono fondate le
argomentazioni esposte in primo grado dall’appellante e
riproposte in questa sede, trattandosi di modifiche “riduttive”
al progetto originario (Prestige ha rinunciato a due unità
immobiliari), laddove la semplice “variazione della
sagoma dell’edificio si appalesa del tutto inidonea a …
fondare la qualificazione di variante come … essenziale”
(cfr. Cons. St., sez. V, 30.07.2002, n. 4081; Cons. St.,
sez. VI, 12.11.2014, n. 5552).
Non può non trascurarsi, del resto, che, come fondatamente
rilevato dall’appellante, nella specie la legge regionale
abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il concetto di “sagoma”
nel novero delle modifiche che determinano variazioni
essenziali al progetto, così come non vi include tutte
quelle variazioni, come quelle di cui al caso di specie, che
finiscono per ridurre i parametri edificatori
originariamente assentiti al fine di alleggerire il carico
volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio di dissesti
del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione
dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il
titolo richiesto deve qualificarsi come variante non
essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670;
id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496,
secondo la quale “costituisce variante essenziale del
progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua
diminuzione”)
(Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.10.2015 n. 4823 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Circa la consistenza dell’onere
probatorio che incombe sulla parte che propone domanda di
risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo,
nonché in ordine alla natura giuridica ed agli elementi
costitutivi della responsabilità dell’amministrazione per la
lesione di interessi procedimentali, incluso il ritardo
nell’attivazione e conclusione del procedimento
amministrativo, il Collegio non intende decampare dai
principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio,
in forza dei quali:
a) nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice
amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito
dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui
chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti
costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a.
(secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che
devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la
piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo
acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il
ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo
(o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire
la prova dei fatti base costitutivi della domanda;
b) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra
nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo sia stato leso da un
provvedimento (o da comportamento) illegittimo
dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia)
di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene
della vita finale, che funge da sostrato materiale
dell’interesse legittimo e che non consente di configurare
la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle
mere aspettative o dei ritardi procedimentali, salvo quanto
si dirà in prosieguo in ordine alla norma sancita dall’art.
2-bis, l. n. 241 del 1990 (secondo cui le pubbliche
amministrazioni e i soggetti equiparati sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento);
c) la prova dell’esistenza del danno deve intervenire all’esito di
una verifica del caso concreto che faccia concludere per la
sua certezza la quale a sua volta presuppone: l’esistenza di
una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una
lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza
fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità
di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia)
illegittima della p.a.;
d) i doveri di solidarietà sociale che traggono fondamento
dall’art. 2 Cost., impongono di valutare complessivamente la
condotta tenuta dalle parti private nei confronti della p.a.
in funzione dell’obbligo di prevenire o attenuare quanto più
possibile le conseguenze negative scaturenti dall’esercizio
della funzione pubblica o da condotte ad essa ricollegabili
in via immediata e diretta; questo vaglio ridonda anche in
relazione all’individuazione, in concreto, dei presupposti
per l’esercizio dell’azione risarcitoria, onde evitare che
situazioni pregiudizievoli prevenibili o evitabili con
l’esercizio della normale diligenza si scarichino in modo
improprio sulla collettività in generale e sulla finanza
pubblica in particolare;
e) la norma sancita dall’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990 richiama
(ed è sussumibile nello) schema fondamentale dell’art. 2043
c.c.; tale norma riconosce che anche il tempo è un bene
della vita per il cittadino e rafforza la tutela
risarcitoria nei confronti dei ritardi della p.a.,
stabilendo che le p.a. siano tenute al risarcimento del
danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento; si riconosce che il ritardo nella conclusione
di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento
che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile
nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari
relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa
convenienza economica; in questa prospettiva ogni incertezza
sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce
nell’aumento del c.d. «rischio amministrativo» e, quindi,
spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione
ovviamente che tale danno sussista, sia ingiusto (ovvero
incida su un interesse materiale sottostante), venga provato
e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo
del creditore ex art. 1227 c.c.;
f) conseguentemente, in relazione ai danni da mancato tempestivo
esercizio dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente
fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del
pregiudizio, specie perché ha natura patrimoniale, non
potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo in quanto
surroga l’onere di allegazione dei fatti; e se anche può
ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici per fornire
la prova dell’esistenza del danno e della sua entità, è
comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di
fatto precise e, quando il soggetto onerato di tale
allegazione non vi adempie, non può darsi ingresso alla
valutazione equitativa del danno a norma dell’art. 1226 c.c.
perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare
l’ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere
invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a
supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da
parte del privato.
---------------
Tanto premesso, rimane da esaminare il mezzo di gravame con
cui la società ha riproposto la domanda risarcitoria
articolata in primo grado.
Circa la consistenza dell’onere probatorio che incombe sulla
parte che propone domanda di risarcimento del danno davanti
al giudice amministrativo, nonché in ordine alla natura
giuridica ed agli elementi costitutivi della responsabilità
dell’amministrazione per la lesione di interessi
procedimentali, incluso il ritardo nell’attivazione e
conclusione del procedimento amministrativo, il Collegio non
intende decampare dai principi elaborati dalla
giurisprudenza di questo Consiglio, cui si rinvia (cfr.
ex plurimis e da ultimo, Cass., sez. un., 23.03.2011, n.
6594; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; sez. V,
12.06.2012, n. 1441; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV,
02.04.2012, n. 1957; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. V,
21.03.2011, n. 1739; sez. V, 28.02.2011, n. 1271; Cons.
giust. amm., 24.10.2011, n. 684; sez. IV, 27.11.2010, n.
8291), in forza dei quali:
a) nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice
amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito
dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui
chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti
costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a.
(secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che
devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la
piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo
acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il
ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo
(o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire
la prova dei fatti base costitutivi della domanda;
b) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra
nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo sia stato leso da un
provvedimento (o da comportamento) illegittimo
dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia)
di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene
della vita finale, che funge da sostrato materiale
dell’interesse legittimo e che non consente di configurare
la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle
mere aspettative o dei ritardi procedimentali, salvo quanto
si dirà in prosieguo in ordine alla norma sancita dall’art.
2-bis, l. n. 241 del 1990 (secondo cui le pubbliche
amministrazioni e i soggetti equiparati sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento);
c) la prova dell’esistenza del danno deve intervenire all’esito di
una verifica del caso concreto che faccia concludere per la
sua certezza la quale a sua volta presuppone: l’esistenza di
una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una
lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza
fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità
di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia)
illegittima della p.a.;
d) i doveri di solidarietà sociale che traggono fondamento
dall’art. 2 Cost., impongono di valutare complessivamente la
condotta tenuta dalle parti private nei confronti della p.a.
in funzione dell’obbligo di prevenire o attenuare quanto più
possibile le conseguenze negative scaturenti dall’esercizio
della funzione pubblica o da condotte ad essa ricollegabili
in via immediata e diretta; questo vaglio ridonda anche in
relazione all’individuazione, in concreto, dei presupposti
per l’esercizio dell’azione risarcitoria, onde evitare che
situazioni pregiudizievoli prevenibili o evitabili con
l’esercizio della normale diligenza si scarichino in modo
improprio sulla collettività in generale e sulla finanza
pubblica in particolare;
e) la norma sancita dall’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990 richiama
(ed è sussumibile nello) schema fondamentale dell’art. 2043
c.c.; tale norma riconosce che anche il tempo è un bene
della vita per il cittadino e rafforza la tutela
risarcitoria nei confronti dei ritardi della p.a.,
stabilendo che le p.a. siano tenute al risarcimento del
danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento; si riconosce che il ritardo nella conclusione
di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento
che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile
nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari
relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa
convenienza economica; in questa prospettiva ogni incertezza
sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce
nell’aumento del c.d. «rischio amministrativo» e, quindi,
spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione
ovviamente che tale danno sussista, sia ingiusto (ovvero
incida su un interesse materiale sottostante), venga provato
e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo
del creditore ex art. 1227 c.c.;
f) conseguentemente, in relazione ai danni da mancato tempestivo
esercizio dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente
fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del
pregiudizio, specie perché ha natura patrimoniale, non
potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo in quanto
surroga l’onere di allegazione dei fatti; e se anche può
ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici per fornire
la prova dell’esistenza del danno e della sua entità, è
comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di
fatto precise e, quando il soggetto onerato di tale
allegazione non vi adempie, non può darsi ingresso alla
valutazione equitativa del danno a norma dell’art. 1226 c.c.
perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare
l’ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere
invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a
supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da
parte del privato.
Facendo applicazione dei suesposti principi al caso di
specie, è sufficiente osservare che la società ricorrente
non ha soddisfatto l’onere di allegare adeguati e puntuali
elementi di fatto idonei a sostenere quantomeno la prova
presuntiva in ordine alla esistenza del danno e, tantomeno,
ne ha provato l’entità, essendosi limitata ad indicare “stimati”
maggiori costi di costruzione e ipotetici utili di impresa,
senza fornire adeguata documentazione e dimostrazione.
Sulla scorta delle rassegnate conclusioni l’appello deve
essere parzialmente accolto e, per l’effetto, in riforma
della sentenza appellata, il provvedimento di diniego
impugnato in primo grado deve essere annullato, mentre si
deve respingere la domanda risarcitoria riproposta in
appello dalla società
(Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.10.2015 n. 4823 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
APPALTI:
Azienda in gara se la banca sbaglia.
Occhio alle banche: si rischia di restare fuori
dall'appalto. L'impresa si ritrova senza Durc perché manca
all'appello una tranche di contributi previdenziali e l'ente
non può attestare la regolarità nei versamenti.
L'azienda
aggiudicataria subito ne approfitta tentando di impedire che
si possa riaprire la procedura. E invece no: perché
l'importo mancante risulta esiguo e soprattutto l'errore è
addebitabile all'istituto di credito delegato che ha
sbagliato il bonifico. Insomma: scatta lo stop
all'attribuzione dei lavori con la vittoria nella causa
dell'azienda che era a rischio esclusione.
È quanto emerge dalla
sentenza
09.10.2015 n. 2178, pubblicata dal TAR
Campania-Salerno, Sez. I.
Errore di esecuzione
Niente da fare per il ricorso incidentale dell'azienda
controinteressata. Bocciata la censura secondo cui non
avrebbe rilievo la regolarizzazione cui nel frattempo è
giunto il competitor. E ciò perché secondo l'impresa
vincitrice il pagamento successivo non vale a sanare la
precedente dichiarazione falsa che farebbe scattare
automaticamente l'esclusione della concorrente.
In realtà nel caso specifico l'espulsione dalla procedura
scatta ai sensi dell'articolo 38, comma 1, lettera i), del
decreto legislativo 163/2006, che tuttavia richiede «violazioni
gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di
contributi previdenziali e assistenziali».
Ma la cassa previdenziale conferma: i contributi non versati
ammontano a soli 110 euro e le norme applicabili alla
fattispecie chiudono un occhio sugli scostamenti contenuti.
Lo sbaglio addebitabile alla banca fa il resto. Insomma:
gara tutta da rifare
(articolo ItaliaOggi del
07.01.2016).
----------------
MASSIMA
- Vista la censura incidentale con la quale viene
dedotto che, alla data (22.7.2014) di sottoscrizione della
dichiarazione di regolarità contributiva, l’impresa
ricorrente non era in possesso del suddetto requisito, come
emerge dal DURC acquisito d’ufficio e rilasciato in data
09.01.2015, non assumendo rilievo la procedura di
regolarizzazione postuma da essa attuata, sia perché il
pagamento successivo non vale a sanare la mendacità della
dichiarazione, sia perché la carenza originaria del
requisito è causa originaria ed automatica di esclusione;
- Ritenuta l’infondatezza della censura incidentale
suindicata;
- Premesso che la causa di esclusione di cui si tratta è
integrata, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), d.lvo
n. 163/2006, dalla commissione di “violazioni gravi,
definitivamente accertate, alle norme in materia di
contributi previdenziali e assistenziali”;
- Ritenuto in particolare che non sia ravvisabile il
presupposto della “gravità” della violazione, alla
luce dell’importo del versamento non eseguito e delle
circostanze della violazione;
- Evidenziato, quanto al primo aspetto, che l’omesso
versamento ha ad oggetto l’importo di soli € 110 (cfr. nota
della Cassa Edile di Como e Lecco del 17.11.2014, allegata
alla memoria di parte ricorrente del 05.05.2015), quanto al
secondo, che la parte ricorrente ha dimostrato che la
violazione è derivata dall’errore di esecuzione del bonifico
disposto in data 30.06.2014 imputabile alla banca delegata
(cfr. dichiarazione del Banco Popolare del 20.01.2015,
ordine di bonifico del 30.06.2015 –recte 30.06.2014–
e distinta di bonifico del 30.06.2014);
- Rilevato inoltre che, ai sensi dell’art.
38, comma 2, quarto periodo, d.lvo n. 163/2006, “si
intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del
documento unico di regolarità contributiva di cui
all'articolo 2, comma 2, del decreto-legge 25.09.2002, n.
210, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.11.2002,
n. 266”;
- Visto a tal fine l’art. 8, comma 3, d.m. 24.10.2007,
vigente ratione temporis, ai sensi del quale “ai
soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al
rilascio del DURC uno scostamento non grave tra le somme
dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto
previdenziale ed a ciascuna Cassa edile”;
- Rilevato che la parte ricorrente incidentale non dimostra
il carattere grave della contestata omissione, alla luce
della disposizione appena citata, mentre l’importo della
stessa induce a presumere, come già rilevato, l’assenza del
suddetto requisito, indispensabile al fine di giustificare
l’espulsione dalla gara dell’impresa irregolare;
- Ritenuto quindi che il ricorso incidentale debba essere
respinto, siccome infondato; |
TRIBUTI:
Niente Ici sul terreno edificabile coltivato.
Qualora un terreno edificabile sia posseduto da una società
agricola e condotto e coltivato dai soci, lo stesso non deve
essere assoggettato a Ici. Di più, qualora il terreno sia di
più comproprietari, non tutti aventi la qualifica di
agricoltore, il beneficio Ici si estende anche nei confronti
del non agricoltore, giacché la proprietà immobiliare è
comune e indivisa, nonché coltivata direttamente dagli altri
soggetti in possesso dei requisiti richiesti dalla norma. Da
ultimo, neppure il fatto che gli stessi proprietari abbiano
presentato al comune un progetto di lottizzazione può
pregiudicare l'agevolazione.
È quanto afferma la Ctr di Brescia nella sentenza
07.10.2015 n. 4358/67/15.
Il caso ha a oggetto una richiesta Ici per dei terreni
posseduti da una società agricola, costituita solo in parte
da agricoltori, comproprietari per i due terzi, i quali
risultano edificabili poiché classificati nella zona
C1,residenziale di espansione del Piano generale regolatore.
Il primo grado di giudizio si concludeva con la conferma
dell'accertamento.
L'adita Ctr di Brescia ha invece ribaltato l'esito del primo
giudizio, osservando che «in ogni caso non sono
considerati fabbricati i terreni posseduti e condotti dai
soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs n.
504 del 1992»; e vanno considerati terreni agricoli con
il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei confronti di
quei proprietari che non abbiano alcuna qualifica agricola
perché, essendo la proprietà immobiliare comune e indivisa e
nell'esclusivo possesso delle persone munite della qualifica
di coltivatore diretto, sussiste il requisito oggettivo per
il riconoscimento del trattamento Ici più favorevole anche
nei confronti degli altri comproprietari.
Il terreno di cui si discuteva, infatti, era condotto e
coltivato dalla società semplice i cui soci, per due terzi,
sono i medesimi proprietari dei terreni e, sugli stessi, la
società svolgeva attività di allevamento di bovini,
coltivazione di fondi agricoli.
Due soci, aggiunge, la Ctr, sono coltivatori diretti
iscritti nell'apposita gestione Inps, per cui, ai sensi
dell'art. 9 del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa
continuano a essere riconosciuti e si applicano i diritti e
le agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente
a favore delle persone fisiche in possesso delle predette
qualifiche.
Oltre all'accoglimento dell'appello, la Ctr ha anche
condannato il Comune al pagamento di significative spese di
giudizio.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
L'appello dei ricorrenti è fondato e va accolto.
Nel caso prospettato in cui i terreni posseduti da una
società agricola costituita solo in parte da agricoltori
comproprietari per i due terzi, risultano edificabili poiché
classificati nella zona C1, residenziale di espansione del
Piano generale regolatore vigente, la Corte di cassazione,
con la sentenza n. 15566 del 14/05/2010 depositata il
30/06/2010 ha stabilito che in ogni caso non sono
considerati «fabbricati» i terreni posseduti e
condotti dai soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9
del Dlgs n. 504 del 1992 e vanno considerati terreni
agricoli con il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei
confronti di quei proprietari senza alcuna qualifica
agricola perché, essendo la proprietà immobiliare comune e
indivisa e nell'esclusivo possesso delle persone munite
della qualifica di coltivatore diretto, sussiste il
requisito oggettivo per il riconoscimento del trattamento
Ici più favorevole anche nei confronti degli altri
comproprietari.
Poiché nella fattispecie il terreno oggetto di imposizione è
condotto e coltivato dalla società semplice i cui soci, per
due terzi, sono i medesimi proprietari dei terreni e la
società vi svolge l'attività di allevamento di bovini da
latte, coltivazione di fondi agricoli e due soci sono
coltivatori diretti iscritti nell'apposita gestione Inps,
tutti fatti non contestati dal Comune, ai sensi dell'art. 9
del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa continuano a
essere riconosciuti e si applicano i diritti e le
agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente a
favore delle persone fisiche in possesso i delle predette
qualifiche, da cui discende l'illegittimità degli atti
emessi dal Comune.
D'altra parte il Comune si è limitato a chiedere l'imposta
sulla sola presunzione della suscettibilità edificatoria dei
terreni sui quali gli stessi proprietari hanno presentato un
piano di lottizzazione, ma non ha provato il mancato
utilizzo ai fini agricoli di tali aree.
Per le motivazioni suesposte e ogni altra eccezione
disattesa restando assorbita da quanto prefato, l'appello
deve essere accolto e, alla soccombenza, deve seguire la
condanna al pagamento delle spese di giustizia che vengono
liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Commissione tributaria regionale di Milano, sezione
staccata di Brescia, sezione 67,definitivamente
pronunciando, così decide:
- in accoglimento dell'appello riforma la sentenza di primo
grado e annulla l'atto impugnato; le spese di giudizio
quantificate in euro 1.500,00 (millecinquento/00) seguono la
soccombenza
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Può
sussistere la compatibilità paesaggistica circa la
sopraelevazione del tetto di circa 40 cm al colmo, e di
circa 30 cm in gronda, con maggiore altezza interna del
sottotetto.
(a) la nozione di volume utile ai fini
urbanistici non è perfettamente sovrapponibile a quella
applicata in sede paesistica. L’elemento che rileva nei
giudizi paesistici è la percepibilità del volume come
ingombro alla visuale;
(b) nello specifico, la sopraelevazione del tetto è stata
determinata da un’interpretazione tecnica dello spessore del
pacchetto isolante e da un errore nella realizzazione del
sostegno centrale in cemento (v. relazione tecnica – doc. 8
del ricorrente). Il maggior volume così ottenuto non rileva
ai fini urbanistici, in quanto l’altezza virtuale di ogni
piano è fissata in 3 metri;
(c) ai fini paesistici questa qualificazione potrebbe non
bastare, in quanto la scelta di aggiungere elementi isolanti
all’esterno della sagoma preesistente, senza ridurre le
altezze interne, e a maggior ragione l’ingiustificata
sopraelevazione del sostegno centrale, comportano il rischio
di aumentare l’impatto visivo dell’edificio;
(d) tuttavia, l’incremento dell’impatto visivo non deve
essere valutato sulla base di variazioni marginali, ma solo
una volta che sia stata superata una certa soglia di
percepibilità. In altri termini, se l’altezza di un edificio
viene aumentata in misura modesta, e l’effetto sul paesaggio
non è evidente, in quanto la differenza risulta spalmata sui
preesistenti elementi architettonici e non può essere
percepita come un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior
volume non si può definire come utile, e di conseguenza non
rappresenta un ostacolo all’accertamento di compatibilità;
(e) resta peraltro ferma la necessità di quantificare il
suddetto volume ai fini della determinazione del
risarcimento ambientale previsto dall’art. 167, comma 5, del
Dlgs. 167/2004, in quanto la maggiore altezza dei locali
costituisce una misura del vantaggio ricavato dal
proprietario dell’edificio.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento del responsabile del Settore Edilizia
Privata e Urbanistica prot. n. 10283 del 01.08.2014, con il
quale è stato negato in via definitiva l’accertamento di
compatibilità paesistica ex art. 167, comma 5, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42, in relazione ad alcune opere non
autorizzate, eseguite nel corso dei lavori di
ristrutturazione di un edificio in via S. Giorgio;
- dell’ordinanza del responsabile del Settore Edilizia
Privata e Urbanistica n. 223 del 10.10.2014, con la quale è
stata ingiunta la rimessione in pristino;
...
Considerato a un sommario esame:
1. Il ricorrente Istituto Diocesano per il Sostentamento del
Clero, nel corso dei lavori di ristrutturazione di un
edificio situato nel Comune di Toscolano Maderno in via S.
Giorgio, ha eseguito una serie di opere non previste dal
titolo edilizio.
2. Trattandosi di area sottoposta a vincolo paesistico, il
ricorrente ha chiesto al Comune l’accertamento di
compatibilità ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n.
42.
3. Il responsabile del Settore Edilizia Privata e
Urbanistica, con provvedimento del 01.08.2014, ha respinto
la richiesta, evidenziando che alcune difformità
(sopraelevazione del tetto di circa 40 cm al colmo, e di
circa 30 cm in gronda, con maggiore altezza interna del
sottotetto) comportano la formazione di volume utile ai
sensi dell’art. 167, comma 4-a, del Dlgs. 167/2004. Vi sono
poi accessi e aperture su cui la Soprintendenza si era
espressa negativamente. Al diniego di compatibilità ha fatto
seguito l’ordinanza n. 223 del 10.10.2014, con la quale è
stata ingiunta la rimessione in pristino.
4. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le
seguenti osservazioni:
(a) la nozione di volume utile ai fini urbanistici non è
perfettamente sovrapponibile a quella applicata in sede
paesistica (v. TAR Brescia Sez. I 08.01.2015 n. 14).
L’elemento che rileva nei giudizi paesistici è la
percepibilità del volume come ingombro alla visuale;
(b) nello specifico, la sopraelevazione del tetto è stata
determinata da un’interpretazione tecnica dello spessore del
pacchetto isolante e da un errore nella realizzazione del
sostegno centrale in cemento (v. relazione tecnica – doc. 8
del ricorrente). Il maggior volume così ottenuto non rileva
ai fini urbanistici, in quanto l’altezza virtuale di ogni
piano è fissata in 3 metri;
(c) ai fini paesistici questa qualificazione potrebbe non
bastare, in quanto la scelta di aggiungere elementi isolanti
all’esterno della sagoma preesistente, senza ridurre le
altezze interne, e a maggior ragione l’ingiustificata
sopraelevazione del sostegno centrale, comportano il rischio
di aumentare l’impatto visivo dell’edificio;
(d) tuttavia, l’incremento dell’impatto visivo non deve
essere valutato sulla base di variazioni marginali, ma solo
una volta che sia stata superata una certa soglia di
percepibilità. In altri termini, se l’altezza di un edificio
viene aumentata in misura modesta, e l’effetto sul paesaggio
non è evidente, in quanto la differenza risulta spalmata sui
preesistenti elementi architettonici e non può essere
percepita come un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior
volume non si può definire come utile, e di conseguenza non
rappresenta un ostacolo all’accertamento di compatibilità;
(e) resta peraltro ferma la necessità di quantificare il
suddetto volume ai fini della determinazione del
risarcimento ambientale previsto dall’art. 167, comma 5, del
Dlgs. 167/2004, in quanto la maggiore altezza dei locali
costituisce una misura del vantaggio ricavato dal
proprietario dell’edificio.
5. Per le restanti questioni la sede appropriata di
trattazione appare quella di merito.
6. In definitiva, sussistono le condizioni per concedere una
misura cautelare sospensiva.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
(a) accoglie la domanda cautelare come precisato in
motivazione;
(b) fissa per la trattazione del merito l'udienza pubblica
del 25.11.2015
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 13.01.2015 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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