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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GENNAIO 2016

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aggiornamento al 22.01.2016

aggiornamento al 13.01.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 22.01.2016

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Bonus edilizi, le novità 2016.
La legge di Stabilità 2016 (legge 28.12.2015, n. 208) ha prorogato fino al 31.12.2016 le detrazioni «potenziate» per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio e per quelli finalizzati al risparmio energetico (con la novità dei dispositivi per il controllo remoto degli impianti di riscaldamento e per i contribuenti «no tax area»).
Stesso prolungamento di un anno anche per il «bonus arredi», riconosciuto a chi acquista mobili e grandi elettrodomestici destinati a immobili oggetto di lavori di ristrutturazione, a fianco del quale è stato introdotto un nuovo «bonus mobili», riservato alle giovani coppie che comprano (e arredano) l'abitazione principale.
Il panorama delle detrazioni fiscali per risparmio energetico, ristrutturazioni e arredi, dopo la manovra, presenta normative e casistiche articolate e riconducibili ai temi che verranno illustrati di seguito: (... segue) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 22.01.2015, "Integrazione delle disposizioni in merito alla disciplina per l’efficienza energetica degli edifici approvate con decreto 6480 del 30.07.2015" (decreto D.U.O. 18.01.2016 n. 224).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 21.01.2016 n. 16 "Adozione dei criteri ambientali minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione e criteri ambientali minimi per le forniture di ausili per l’incontinenza" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 24.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 21.01.2016 n. 16 "Indirizzi metodologici per la predisposizione dei quadri prescrittivi nei provvedimenti di valutazione ambientale di competenza statale" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 24.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI: G.U. 20.01.2016 n. 15, suppl. ord. n. 1, "Ripubblicazione del testo della legge 28.12.2015, n. 208, recante: «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», corredato delle relative note (Legge pubblicata nel supplemento ordinario n. 70 alla Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 302 del 30.12.2015)".

APPALTI - AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE: G.U. 18.01.2016 n. 13 "Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali" (Legge 28.12.2015 n. 221).
---------------
Si legga, al riguardo, anche: Dossier del Servizio Studi sull’A.S. n. 1676-A - Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali (ottobre 2015, n. 237).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

VARI: Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale (ANCE di Bergamo, circolare 15.01.2016 n. 13).

APPALTI: Oggetto: Decreto-Legge “Milleproroghe”: le disposizioni inerenti gli appalti pubblici (ANCE di Bergamo, circolare 15.01.2016 n. 12).

APPALTI: Oggetto: Nuove soglie comunitarie per gli appalti pubblici dal 01.01.2016 (ANCE di Bergamo, circolare 15.01.2016 n. 11).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale – scadenza del 30.04.2016 - Servizio di ANCE Bergamo per la compilazione e presentazione del MUD (ANCE di Bergamo, circolare 15.01.2016 n. 10).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: Oggetto: Legge di stabilità 2016 – n. 208 del 28.12.2015 - Principali misure di natura fiscale (ANCE di Bergamo, circolare 15.01.2016 n. 9).

ENTI LOCALI - VARIOggetto: pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie per violazione delle norme del Codice della Strada, mediante bonifico bancario e strumenti elettronici di pagamento (Ministero dell'Interno, nota 14.01.2016 n. 300/A/227/16/127/34 di prot.).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: le modifiche apportate dal D.Lgs. 151/2015 al Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro D.Lgs. 81/2008 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 11.01.2016 n. 649).

APPALTI: Oggetto: Testo approvato dalla Camera dei Deputati per l’invio al Senato - Delega appalti (AC 3194-A) (Rete Professioni Tecniche, circolare 22.12.2015 n. 40/2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: Oggetto: Chiarimenti sui titoli di accesso all'esame di stato per la sez. A dell'albo degli Ingegneri (Ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca, nota 21.12.2015 n. 23591 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIADirettiva per disciplinare la conduzione dei procedimenti di rilascio, riesame e aggiornamento dei provvedimenti di autorizzazione integrata ambientale di competenza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, direttiva 16.12.2015 n. 274 di prot.).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Via libera Anac ai mini-acquisti nei Comuni medio-piccoli. Fino a 40mila euro.
Via libera dall’Autorità anticorruzione ai mini-acquisti «non centralizzati» anche nei Comuni sotto i 10mila abitanti, quando le somme in gioco non superano i 40mila euro.
Lo comunica lo stesso presidente dell’Anac, Raffaele Cantone
(comunicato del Presidente 08.01.2016), che in questo modo chiude il cerchio dopo che il comma 501 della legge di stabilità ha risolto il “corto-circuito” dei piccoli acquisti.
Soggette a un continuo tira e molla fatto di proroghe e correttivi, infatti, le regole sulla centralizzazione degli acquisti, che vietano alle amministrazioni di operare in autonomia nel reperimento di beni e servizi e impongono di rivolgersi ai vari soggetti aggregatori previsti dalla norma, avevano escluso i mini-acquisti solo negli enti con più di 10mila abitanti.
Questa situazione, effetto probabilmente più del caos prodotto dai continui correttivi che di una reale scelta strategica, aveva quindi determinato il blocco, negli ultimi mesi del 2015 non coperti dalle proroghe precedenti, degli acquisti fino a 40mila euro nei Comuni fino a 10mila abitanti, cioè in 7.712 enti su 8mila.
In base a queste regole, infatti, l’Anac non poteva rilasciare il codice identificativo gara (Cig), condizione essenziale perché l’operazione sia legittima. Ora, chiarisce l’Autorità, la macchina dei Cig può ripartire, in attesa del prossimo cambio di regole
 (articolo Il Sole 24 Ore del 13.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, Cig per gli enti sotto i 10 mila abitanti. L'Anac dà l'ok al rilascio del codice identificativo gara.
Via libera al rilascio del codice identificativo gara (Cig) per i comuni con meno di 10 mila abitanti che intendono affidare contratti di importo fino a 40 mila euro.

È quanto chiarisce l'Autorità nazionale anticorruzione (comunicato del Presidente 08.01.2016) rettificando il comunicato del presidente Raffaele Cantone del 10.11.2015 nel quale aveva esplicitato come l'Anac non potesse rilasciare il Cig ai comuni con meno di 10 mila abitanti per acquisiti fino a 40 mila euro.
La precisazione si è resa necessaria a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 501, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) che consente ai comuni con popolazione inferiore ai 10 mila abitanti di procedere, senza ricorrere alle centrali di committenza, alla stipula dei contratti di importo fino a 40 mila euro. In particolare la legge di stabilità prevede che «all'articolo 23-ter, comma 3, del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, con legge 11.08.2014, n. 114, sono apportate le seguenti modificazioni: b) le parole «con popolazione superiore a 10 mila abitanti» sono soppresse».
Fino all'approvazione della legge 208 per questi comuni era invece vietata la possibilità di procedere ad acquisti autonomi per importi inferiori a 40 mila euro, anche se il divieto era stato più volte differito fino ad arrivare all'entrata in vigore a novembre 2015. In presenza del divieto l'Anac per rendere effettivo l'obbligo di ricorso alla centrale di committenza, aveva affermato che, anche in base a quanto stabilito del comma 3-bis dell'articolo 33 del codice dei contratti pubblici, non avrebbe rilasciato il codice identificativo gara ai comuni con meno di 10 mila abitanti che avessero avuto intenzione (a quel punto violando la legge) di esperire procedure di affidamento per acquisiti fino a 40 mila senza rivolgersi a un soggetto aggregatore della domanda.
Arriva quindi adesso la rettifica del presidente Anac che, per la sopraggiunta modifica normativa, corregge il comunicato di novembre chiarendo che, dal 1° gennaio scorso, l'Autorità provvede a rilasciare il Cig a tutti i comuni che procedono all'acquisto di lavori servizi e forniture di importo inferiore a 40 mila euro a decorrere dal 01.01.2016.
La precisazione rileva anche perché è la legge stessa a precisare che il mancato rilascio del codice identificativo di gara, comporta (o meglio, avrebbe comportato, in caso di violazione dell'obbligo), quale sanzione accessoria espressamente prevista dalla legge n. 136/2010 in tema di lotta alla criminalità organizzata, la nullità assoluta dei contratti stipulati per violazione della disposizioni sulla tracciabilità dei flussi finanziari (articolo ItaliaOggi del 13.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi liberi dai partiti. Non sono configurabili come organi delle liste. Non è ammissibile alcuna interferenza sul loro funzionamento.
È legittima la diffida, operata dai presentatori di una lista civica nei confronti di due dei tre consiglieri eletti nell'ambito della medesima lista, a utilizzare le corrispondenti prerogative, in materia di costituzione di gruppi e commissioni consiliari?

In linea generale, l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili.
Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia, nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta dal citato art. 38 del citato Tuel.
Tali mutamenti modificano i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non può non influire sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti. Del resto, la possibilità di transitare da un gruppo ad altro, o di costituire nuovi gruppi non potrebbe non essere finalizzata alla formazione delle commissioni consiliari, che, come è noto, non sono componenti indispensabili della struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli, alle quali, una volta istituite deve partecipare almeno un rappresentante di ciascun gruppo.
Nella fattispecie, lo statuto comunale, prevedendo la facoltà di istituire le commissioni consiliari, dispone l'obbligo del rispetto del criterio proporzionale, assicurando, correttamente, la presenza di almeno un rappresentante per ogni gruppo. Il regolamento disciplina i gruppi, prevedendo che i consiglieri eletti nella medesima lista formino, di regola, un gruppo consiliare, anche unipersonale. I nuovi gruppi sono ammessi solo se costituiti da almeno due consiglieri, mentre il consigliere che nel corso del mandato rimanga da solo nel gruppo precostituito, mantiene le prerogative. La fonte regolamentare non contiene, invece, specifiche disposizioni che prevedano l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario, fatta salva, piuttosto, la previsione di potersi distaccare dal gruppo originario.
Pertanto, il rapporto tra il candidato eletto ed il partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati» (Tar Puglia, sez. di Bari sentenza n. 506/ 2005).
Peraltro, con la stessa sentenza il Tar Puglia ha affermato che nel nostro sistema legislativo la «lista» è lo strumento a disposizione dei cittadini per presentare all'elettorato i propri candidati ed esaurisce la sua funzione giuridica al momento delle elezioni che si concludono con la proclamazione degli eletti, atto anteriore e del tutto autonomo rispetto alla convalida. Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente.
Il Tar Lazio, con sentenza n. 16240/2004, ha precisato che i gruppi consiliari rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale; «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche
».
Pertanto, qualora, come nel caso di specie, non sussistano disposizioni regolamentari che disciplinino i rapporti tra il partito (o lista) di riferimento dei consiglieri e i gruppi costituiti, non appare possibile alcuna interferenza dei primi nei riguardi dei secondi. Spetta, infatti, al consiglio comunale la valutazione dell'opportunità di indicare anche le ipotesi in argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: La valutazione del personale in comando.
DOMANDA:
Questo ente capofila del Distretto sociosanitario comprendente 24 comuni è sede del NUP (Nuovo Ufficio di Piano) la cui responsabilità è stata attribuita al Responsabile del Settore Socio Educativo di questo comune.
Le competenze relative al Servizio Integrato di Accesso (SIA) per tutti i comuni del Distretto, che opera in staff al NUP, sono svolte da un’Assistente Sociale che, essendo dipendente di uno dei 24 comuni del Distretto, è stata distaccata a tempo pieno presso questo ente capofila.
In considerazione della posizione di responsabilità rivestita a livello sovracomunale, questo comune ha attribuito alla medesima una posizione organizzativa (in precedenza attribuita dal comune di appartenenza). Gli obiettivi alla stessa attribuiti sulla base della programmazione decisa dal Comitato di Distretto (di cui fanno parte i Sindaci dei 24 comuni) sono stati ricompresi nel PEG-PDO del Settore Socio Educativo ed approvati nell’ambito del PEG PDO di questo comune.
Come per le altre PO si vorrebbe sottoporre la succitata Responsabile a valutazione da parte del Nucleo di Valutazione di questo ente.
Si chiede se la procedura individuata può ritenersi corretta o, diversamente, quale potrebbe essere una soluzione organizzativa più idonea.
RISPOSTA:
La questione relativa alle modalità di valutazione del personale in comando o distacco presso un altro ente, con riferimento ai parametri degli obiettivi individuali e comportamenti organizzativi, attiene agli aspetti organizzativi che ogni datore di lavoro dovrebbe affrontare e risolvere nell'ambito della fase attuativa dei criteri definiti in sede di contrattazione decentrata.
Le prestazioni e i risultati del personale in posizione di comando (o distacco) dovrebbero essere oggetto di valutazione sulla base di una specifica relazione illustrativa formulata dal dirigente dell'ente presso il quale il lavoratore ha prestato servizio nell'anno di riferimento; a tal fine lo stesso dirigente dovrebbe essere opportunamente informato sulle regole definite dalla contrattazione decentrata dell'ente di formale appartenenza del lavoratore, anche per la elaborazione della stessa scheda di valutazione utilizzata per tutti gli altri dipendenti.
Infatti, solo il dirigente che in concreto utilizza le prestazioni del lavoratore può disporre delle conoscenze necessarie per poterle anche valutare, anche se l'ente di appartenenza del personale in distacco potrebbe prevedere e richiedere un momento di verifica della relazione e della scheda di valutazione predisposta dal dirigente dell'ente utilizzatore, al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento.
Le predette indicazioni trovano sostanziale conferma nell’art. 19 del CCNL del 22/01/2004 che sancisce esplicitamente il diritto del personale comandato o distaccato a partecipare alla valutazione per l’attribuzione della progressione economica presso l’ente di appartenenza.
Nel caso concreto l'ente utilizzatore è il Distretto sociosanitario (costituito da 24 comuni), al cui interno è situato il Nuovo Ufficio di Piano. Poiché il Distretto non ha un Nucleo di valutazione ma soltanto un Comitato di Distretto responsabile della programmazione, la valutazione della responsabile del NUP è stata correttamente rimessa al Nucleo dell'ente capofila, che valuterà il conseguimento degli obiettivi alla stessa attribuiti sulla base della programmazione decisa dal Comitato di Distretto.
La valutazione così operata potrà essere sottoposta anche ad un ulteriore verifica da parte del comune di appartenenza, presso cui la dipendente già rivestiva una posizione organizzativa (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La trattenuta per i ritardi.
DOMANDA:
In data 17/12/2015 l'ufficio personale comunicava al sottoscritto che un dipendente dell'Ufficio Tecnico ha accumulato nel C.A. n. 171,38 ore di ritardi.
In ragione di quanto sopra si chiede quale sia la procedura per la contestazione di tale comportamento ed il recupero delle somme percepite a seguito del lavoro non svolto.
RISPOSTA:
Il CCNL dei dipendenti EE.LL. prevede espressamente il recupero contabile con trattenuta stipendiale del lavoro non prestato mensilmente, e non recuperato con maggiori prestazioni nel mese immediatamente successivo, entro il secondo mese successivo a quello della mancata prestazione, a cura del settore personale.
L’Ufficio competente deve provvedere immediatamente a tale recupero, nel primo mese utile, e il responsabile preposto dovrà richiamare il dipendente al rispetto dell’orario, come da codice disciplinare espressamente previsto dal CCNL. Il proseguire in tale comportamento comporterà ovviamente l’avvio di un procedimento disciplinare. La trattenuta dovrà essere completa, comprensiva anche di oneri diretti e indiretti (le assenze superano il mese convenzionalmente pari a 152 ore).
La trattenuta dovrà essere scaglionata, non potendo superare i limiti di legge mensili, ma verrà disposta mensilmente in mensilità contigue, sino ad esaurimento del debito. Il tempo non lavorato nei mesi da gennaio in poi, se non recuperato in soluzione unica mese per mese, nel mese immediatamente successivo, sarà oggetto di trattenuta nel mese seguente (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOAssenteisti, sospensione rapida. Contestabile anche il danno di immagine - Per i dirigenti reato coprire i dipendenti.
Consiglio dei ministri/1. La stretta con la riforma della Pa: stop entro 48 ore e procedimento disciplinare chiuso in 30 giorni.

Sospensione cautelare senza stipendio e contraddittorio entro 48 ore da quando viene accertata la falsa attestazione della presenza in servizio. Immediato avvio del procedimento disciplinare, che dovrà concludersi entro 30 giorni. La condotta della «falsa attestazione» sul luogo di lavoro rileverà anche davanti alla Corte dei conti, con l’introduzione, ed è una novità: l’azione di responsabilità «per danno d’immagine» della Pa nei confronti del dipendente assenteista (che se condannato dai magistrati contabili dovrà corrispondere all’erario minimo sei mensilità di stipendio, oltre interessi e spese di giustizia).
Si irrobustiscono pure le sanzioni nei confronti dei dirigenti responsabili del “travet” infedele: l’eventuale inerzia costituirà fattispecie disciplinare punibile con il licenziamento e in aggiunta, ed è un’altra novità, il loro comportamento sarà qualificato come «omissione d’atti di ufficio».
La bozza in ingresso in Consiglio dei ministri, ieri notte, del Dlgs con il primo giro di vite contro i “furbetti” del cartellino conferma la linea dura annunciata dal governo: rispetto a oggi, viene definita espressamente la fattispecie della «falsa attestazione della presenza in servizio»: cioè qualsiasi modalità fraudolenta posta in essere, anche da terzi, per far risultare il dipendente in servizio e così trarre in inganno l’amministrazione.
«La tecnica legislativa utilizzata è piuttosto ampia dal punto di vista oggettivo e soggettivo -spiega Sandro Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’università di Bologna- in quanto vengono ricomprese sia le condotte dirette che quelle indirette (ingannevoli) di frodi riferite non solo alla totale assenza dal servizio ma anche alle porzioni di orario di lavoro all’interno della giornata lavorativa. Inoltre, a conferma dell’inasprimento disciplinare, è licenziabile non solo chi commette la frode, ma anche chi la favorisce con condotte attive od omissive, comprese, forse, anche quelle di chi, pur a conoscenza dei fatti, non li ha riferiti all’amministrazione».
La bozza di Dlgs conferma che l’accertamento della falsa presenza in ufficio può avvenire in flagranza o mediante strumenti di sorveglianza e registrazione di accessi e presenze. La sospensione è disposta dal dirigente responsabile o dall’Upd (Ufficio procedimenti disciplinari), se ne viene a conoscenza per primo.
Oltre al procedimento disciplinare “velocizzato”, la condotta “assenteista” può essere anche fonte di responsabilità penale (scatta la denuncia) e, come detto, erariale: qui la Corte dei conti è tenuta a dedurre l’interessato per danno d’immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento (l’azione di responsabilità è esercitata entro i 120 giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga). L’ammontare del danno d’immagine risarcibile è rimesso alla valutazione del magistrato «anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi d’informazione» e comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità di retribuzione.
Le nuove norme rafforzano pure la stretta sul dirigente responsabile dell’ufficio dell’assenteista. Oltre a prevedere che la mancata sospensione cautelare e la mancata attivazione del procedimento disciplinare (tramite segnalazione all’Upd) possono essere causa di licenziamento per lo stesso dirigente, il legislatore definisce la condotta espressamente come «omissione di atti di ufficio».
«Si evoca, così, la fattispecie di reato dell’articolo 328, comma 2, del Codice penale -aggiunge Mainardi- sottolineando che gli obblighi del dirigente in questo ambito corrispondono, più che ad una prerogativa del datore di lavoro, a una vera e propria “funzione pubblica” di un pubblico ufficiale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Stretta sui furbetti del cartellino. Sospesi entro 48 ore anche i complici. Dirigenti a rischio. L'attuazione della delega Madia parte dal dlgs sui licenziamenti disciplinari degli statali.
Sospensione dal lavoro senza stipendio entro 48 ore per gli statali «furbetti del cartellino» scoperti ad attestare il falso sulla propria presenza in ufficio. Rischierà il posto non solo chi altera i sistemi di rilevamento delle presenze o invia falsi certificati medici, ma anche chi si avvale dell'aiuto di terzi per risultare in servizio.
Quindi per esempio chi si fa timbrare il cartellino dal collega. In questo caso sia lo statale assenteista sia il «complice» risponderanno entrambi di falsa attestazione. E rischierà il posto anche il dirigente responsabile che dovrebbe sospendere dal servizio l'assenteista e non lo fa o non avvia il relativo procedimento disciplinare.

Parte dai licenziamenti l'attuazione della legge delega Madia sulla riforma della p.a. (legge n. 124/2015) che aveva chiesto al governo di accelerare e rendere certi i tempi dell'azione disciplinare.
L'esecutivo lo ha fatto con un dlgs che modifica l'attuale normativa, ossia il T.u. del pubblico impiego (dlgs n. 165/2001) nel testo novellato dalla legge Brunetta (dlgs n. 150/2009), con disposizioni ad hoc per introdurre un giro di vite sulla falsa attestazione delle presenze, tema divenuto assai sensibile dopo lo scandalo al comune di Sanremo che ha portato all'arresto di 35 dipendenti e all'avvio di indagini su altri 195.
Presupposto per l'irrogazione della sanzione sarà esattamente quanto avvenuto nel comune ligure: l'accertamento della violazione in flagranza o attraverso strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi. Situazioni, spiega la relazione di accompagnamento al decreto, «che consentono una immediata e presumibilmente certa contestazione al dipendente».
In questo caso scatterà l'immediata sospensione dal lavoro senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato. La sospensione sarà irrogata dal dirigente responsabile della struttura di appartenenza del dipendente con provvedimento motivato e in tempi strettissimi: immediatamente o entro 48 ore dal momento in cui il dirigente è venuto a conoscenza della violazione. Ma il mancato rispetto di questa tempistica sprint non comporterà la decadenza dell'azione disciplinare né l'inefficacia dell'azione cautelare. Una volta ricevuti gli atti, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari dovrà portare a termine l'iter entro 30 giorni. Quindi vengono più che dimezzati gli attuali tempi che prevedono la chiusura del procedimento in 60/120 giorni. E la sospensione cautelare consentirà di anticipare gli effetti del licenziamento.
Entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare, la notizia della violazione dovrà pervenire sul tavolo del pubblico ministero penale e della competente procura regionale della Corte dei conti. I magistrati contabili, se ci sono gli estremi per il danno all'immagine, dovranno emettere l'invito a dedurre entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento per assenteismo. L'ammontare del danno risarcibile sarà rimesso alla valutazione equitativa del giudice che dovrà tener conto anche della rilevanza che il caso di assenteismo ha avuto sui media. In ogni caso la condanna non potrà essere inferiore a sei mensilità di stipendio del dipendente colpevole.
Come detto, la stretta sull'assenteismo coinvolgerà anche i dirigenti (e i responsabili di servizio negli enti privi di qualifica dirigenziale). L'omessa comunicazione della violazione all'ufficio procedimenti disciplinari, l'omessa attivazione del procedimento e l'omessa sospensione cautelare costituiranno fattispecie disciplinari punibili anch'esse con il licenziamento, integrando gli estremi del reato di omissione d'atti d'ufficio (art. 328 cp).
Il governo rivendica il carattere innovativo del decreto che «permetterà di superare la complessità della situazione attuale in cui, nonostante le sanzioni disciplinari e la responsabilità dei dipendenti pubblici, previste dagli articoli 67-73 del dlgs 150/2009, continuano a verificarsi casi di false attestazioni di presenze da parte dei pubblici dipendenti». Ma i sindacati non ci stanno e parlano di provvedimento demagogico.
«Renzi si è inventato un percorso ripetitivo che, di fatto, avrà l'unico merito di portare la sua firma. E questo per ingraziarsi l'opinione pubblica italiana», ha dichiarato il segretario generale della Confsal, Marco Paolo Nigi. «Voglio ribadire che siamo a favore del licenziamento degli assenteisti. Del resto, chi non va a lavorare dimostra che non ne ha bisogno. Allo stesso modo, però, vogliamo che sia riconosciuto il merito a chi il merito ce l'ha, così come vogliamo che i procedimenti per il licenziamento, seppur veloci, non si traducano in processi sommari e arbitrari».
«I fannulloni vanno cacciati, perché chi truffa la pubblica amministrazione truffa i cittadini», hanno osservato in una nota i deputati del Movimento 5 stelle in commissione lavoro della camera. Ma è inaccettabile, proseguono, «che anche stavolta, nel riformare la p.a., si parta da una norma sui licenziamenti, così come era accaduto con il Jobs act e l'articolo 18. Il governo sfrutta ogni occasione per precarizzare e colpire i diritti» (articolo ItaliaOggi del 21.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGOChi denuncia casi di corruzione non dovrà temere ritorsioni.
Tutelato chi denuncia casi di corruzione nella pubblica amministrazione, ma anche nel settore privato. Il dipendente statale che denuncia in buona fede al responsabile della prevenzione della corruzione del proprio ente ovvero all'Anac, all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti le condotte illecite o di abuso di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro non può essere, per motivi collegati alla segnalazione, soggetto a sanzioni, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie. E la stessa tutela l'avranno i collaboratori e i consulenti.
A prevederlo la proposta di legge (Atto Camera n. 3365) che introduce nel nostro ordinamento l'istituto anglosassone del «whistleblowing» (ossia la tutela per chi segnala reati o irregolarità nell'interesse pubblico) che andrà oggi al voto della camera dei deputati.
Il provvedimento, che ha avuto come prima firmataria l'onorevole Francesca Businarolo del M5s, e che nel corso dell'iter parlamentare ha esteso il suo raggio di applicazione anche al settore privato, vieta di rivelare l'identità del segnalante a meno che ciò non sia indispensabile per la difesa dell'incolpato. Non si prevede, in ogni caso, la possibilità di segnalazioni in forma anonima.
Sono previste sanzioni severe in caso di discriminazioni nei confronti dell'autore della «soffiata». L'Anac potrà applicare all'autore della condotta discriminatoria una sanzione amministrativa pecuniaria, da 5.000 a 30.000 euro. Il «whistleblower» non potrà godere dello scudo previsto dalla proposta di legge nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione.
Per quanto riguarda il lavoro privato, viene modificato il decreto legislativo n. 231/2001, sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società. I modelli organizzativi adottati dalle società dovranno garantire la riservatezza dell'identità del «whistleblower» e il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione.
È inoltre previsto che l'adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni possa essere denunciata all'Ispettorato nazionale del lavoro (articolo ItaliaOggi del 21.01.2016).

APPALTI: Un solo documento per l'appalto. Per le gare Ue basta certificati, arriva la prova preliminare. In Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea il formulario per l'autocertificazione dell'impresa.
Semplificata la partecipazione delle imprese agli appalti europei grazie al documento di gara unico europeo. Il Dgue (documento unico europeo) consisterà in un'autodichiarazione dell'operatore economico che fornirà una prova documentale preliminare in sostituzione dei certificati rilasciati da autorità pubbliche o terzi.

È con il regolamento di esecuzione Ue 2016/7 del 05.01.2016 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea n. L3/16 IT del 06.01.2016) che la commissione Ue ha adottato il modello di formulario relativo al documento unico europeo per le procedure di appalto cui i paesi membri dovranno attenersi.
Il Dgue dovrebbe concorrere a un'ulteriore semplificazione a vantaggio sia degli operatori economici sia delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori anche sostituendo le variegate e differenti forme di autocertificazione nazionali con un modello di formulario stabilito a livello europeo. Questa soluzione dovrebbe contribuire altresì a ridurre i problemi connessi alla formulazione precisa delle dichiarazioni formali e delle dichiarazioni di consenso nonché le problematiche legate alla lingua, poiché il modello di formulario sarà disponibile in tutte le lingue ufficiali.
Il Dgue dovrebbe così favorire una maggiore partecipazione transfrontaliera alle procedure di appalto pubblico. Il Dgue consisterà in una dichiarazione formale da parte dell'operatore economico i soddisfare i pertinenti criteri di selezione e di non trovarsi in una delle situazioni per le quali gli stessi dovranno o potranno essere esclusi. Il Dgue entrerà in vigore dal momento dell'adozione delle misure nazionali di attuazione della direttiva 2014/24/Ue, e al più tardi a decorrere dal 18.04.2016. Il modello allegato n. 2 al regolamento 2016/7 sarà il riferimento per tutti gli Stati membri. Dal 18.04.2016 il Dgue sarà fornito esclusivamente in forma elettronica, in ottemperanza all'articolo 59, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2014/24/Ue.
Il Dgue potrà essere utilizzato sia nell'offerta nelle procedure aperte, sia nella richiesta di partecipazione alle procedure ristrette, nelle procedure competitive con negoziazione, nei dialoghi competitivi o nei partenariati per l'innovazione. Quanto alle procedure negoziate, in una nota alle istruzioni allegate al regolamento, la presentazione del Dgue, si legge, sarebbe invece pienamente giustificato e dovrebbe essere richiesto «nei casi contraddistinti dalla possibile partecipazione di più di un partecipante e dall'assenza di urgenza o di caratteristiche peculiari della transazione».
L'operatore economico potrà essere escluso dalla procedura di appalto o essere perseguito a norma del diritto nazionale se si sarà reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel compilare il Dgue o, in generale, nel fornire le informazioni richieste per verificare l'assenza di motivi di esclusione o il rispetto dei criteri di selezione, ovvero se non avrà trasmesso tali informazioni o non sarà stato in grado di presentare i documenti complementari (articolo ItaliaOggi del 20.01.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Albo ingegneri. Miur: architetti non ammessi.
L'accesso agli esami di stato per l'iscrizione all'Albo degli ingegneri non è possibile per i possessori di diploma di laurea in architettura del vecchio ordinamento.

Il chiarimento è arrivato dal Ministero dell'istruzione (nota 21.12.2015 n. 23591 di prot.) in risposta a una richiesta arrivata dal Consiglio nazionale degli ingegneri.
Il Cni aveva, infatti, informato il ministro Stefania Giannini del fatto che, a causa di una errata interpretazione di una nota dello stesso Miur del 2012, gli ordini provinciali della categoria professionale stessero ricevendo numerose richieste, prontamente respinte, di iscrizione da parte dei laureati in architettura del vecchio ordinamento, illegittimamente ammessi dalle università a sostenere l'esame di stato.
A seguito del chiarimento, quindi, gli atenei non potranno più ammettere a sostenere l'esame di stato i laureati in architettura del vecchio ordinamento. «Ringraziamo il Miur per aver posto fine a questo equivoco increscioso.
Ora
», ha spiegato il presidente del Cni Armando Zambrano, «sarà necessario vigilare sulla corretta applicazione della normativa» (articolo ItaliaOggi del 20.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI: Obbligo di appalti «verdi» per gli acquisti della Pa. Collegato ambientale. In «Gazzetta Ufficiale» la nuova legge.
Sulla Gazzetta ufficiale n. 13 di ieri, 18 gennaio, è stata pubblicata la legge che promuove misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo delle risorse naturali.
È il cosiddetto “Collegato ambientale” (si veda Il Sole 24 Ore del 23, 24 e 27.12.2015) che entrerà in vigore il prossimo 2 febbraio, compresa la sanzione da 30 a 150 euro per abbandono di rifiuti di piccolissime dimensioni («scontrini, fazzoletti di carta e gomme da masticare») sul suolo, nelle acque, nelle caditoie e negli scarichi.
La sanzione si raddoppia per mozziconi di prodotti da fumo. E’ un affievolimento sanzionatorio rispetto al generale divieto di abbandono di rifiuti già previsto dall’articolo 255 del “Codice ambientale”. Cambia l’articolo 514 del Codice di procedura civile; non sono più pignorabili gli animali di affezione o da compagnia tenuti presso la casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti, senza fini produttivi, alimentari o commerciali, nonché gli animali impiegati a fini terapeutici o di assistenza del debitore, del coniuge, del convivente o dei figli.
Tra le numerose altre disposizioni si ricordano:
- proroga al 31.12.2016 del termine (scaduto il 31.12.2008) entro il quale le Regioni devono redigere il Piano di tutela delle acque in base al decreto legislativo 152/2006;
- i contratti di fiume concorrono alla definizione e all’attuazione delle pianificazione e tutela delle risorse idriche, unitamente alla salvaguardia dal rischio idraulico;
- nell’affidamento di un appalto si aggiunge il possesso del marchio Ecolabel in misura pari o superiore al 30% del valore delle forniture o prestazioni oggetto del contratto;
- se il Sindaco non ravvisa criticità, le acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari sono assimilate alle reflue domestiche per scarico in pubblica fognatura;
- le regole che rendono obbligatorio il ricorso ai cosiddetti “appalti verdi” (Gpp-Green public procurement) di beni e servizi capaci di specifiche prestazioni ambientali previste da appositi decreti (recanti i Cam - Criteri ambientali minimi) molti dei quali già emanati e altri in procinto di esserlo. Mercato che vale 50 miliardi di euro;
35 milioni di euro per il programma sperimentale di mobilità sostenibile casa-scuola e casa-lavoro.
Sono anche individuate misure per favorire l’istituzione nelle scuole del mobility manager che avrà il compito di organizzare e coordinare gli spostamenti casa-scuola-casa del personale scolastico e degli alunni. Saranno incentivate iniziative degli enti locali su mobilità sostenibile. Un decreto definirà programma, modalità e criteri per presentare i progetti;
- la semplificazione data dalla modifica agli articoli 104 e 109, decreto 152/2006 la quale prevede che se, nelle autorizzazioni allo scarico in mare di acque da ricerca di idrocarburi e alla movimentazione dei fondali marini per la posa di cavi e condotte, occorre la Via (Valutazione di impatto ambientale) tali autorizzazioni sono concesse dalla stessa Autorità competente al rilascio della Via;
- con una modifica al decreto 152/2006, per raffinerie e centrali termiche sopra i 300 MW, l’Istituto superiore di sanità o organismi ed enti competenti può prevedere una valutazione di impatto sanitario da svolgere nell’ambito della Via
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.01.2016).

VARI: Multe ridotte, pagare non basta. Bisogna verificare che l'accredito sia avvenuto in tempo. Il rischio è quello di non essere ammessi al beneficio dello sconto entro i 5 o 60 giorni.
Il cittadino che becca una multa si dovrà fare carico di tutto. Cioè non basterà pagare tempestivamente, ma si dovrà anche controllare che l'accredito alla pubblica amministrazione sia avvenuto entro i termini previsti per poter godere della riduzione. Il rischio è infatti di vanificare lo sforzo e non essere ammessi al beneficio dello sconto previsto per chi paga entro 5 giorni o al massimo entro 60. Ma attenzione ai timbri postali e a tutti gli avvisi contenuti nei verbali per non incorrere in ulteriori sanzioni e perdite di tempo. Specialmente in materia di data di notifica e obbligo di delazione dei dati del conducente per la decurtazione di punteggio.

Che non sia facile districarsi tra il traffico e la burocrazia stradale lo ha evidenziato implicitamente anche il ministero dell'interno con la circolare del 14.01.2016 (si veda ItaliaOggi del 16/01/2016) dedicata al pagamento elettronico delle multe.
Siccome per la pubblica amministrazione è necessario individuare delle linee di confine chiare, a parere dell'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale occorre che l'argine temporale utile a garantire l'efficacia liberatoria del pagamento scontato o ridotto delle sanzioni sia un dato certo, indipendente dai meccanismi bancari o da questioni non controllabili. Poco importa se questo rischia di diventare un boomerang per il diligente autista alle prese con lo spiacevole contenuto della busta verde recapitata dal portalettere. O reperita tra mille difficoltà allo sportello postale dove ritirare una raccomandata, specialmente con delega, è diventata una impresa coraggiosa, al limite dell'impossibile.
Dunque recuperata la multa e pagata la stessa con i diffusi sistemi elettronici non è finita. I cinque giorni che garantiscono l'efficacia dello sconto del 30% a parere del Viminale saranno rispettati solo se la valuta del pagamento tempestivo sarà disponibile entro quel termine anche sul conto della polizia stradale. Non basterà dunque aver effettuato il bonifico entro 5 giorni. Occorrerà verificare con la propria banca la data della valuta per non correre il rischio di vedersi recapitare a casa, a distanza di qualche tempo, una salata richiesta di integrazione.
Stesso discorso in caso di pagamento ridotto del verbale, entro 60 giorni. Se il trasgressore, come spesso accade, si approssimerà a effettuare il pagamento allo spirare del termine dei 60 giorni (che non sono due mesi) il rischio è di vedersi raddoppiare l'importo della multa. Ovvero di aver effettuato un pagamento tempestivo, magari entro la scadenza, con accredito della valuta in ritardo di qualche ora.
In buona sostanza alla pubblica amministrazione in questo caso non interessa se l'automobilista ha effettuato il pagamento liberatorio in tempo. Serve che lo stesso controlli attentamente anche la data dell'accredito perché solo quel dato mette al riparo da richieste di conguaglio.
Ma non è finita. Per capire da quale momento decorrono i 5 giorni per essere ammessi allo sconto del 30% occorre comprendere bene che una cosa è il ritiro materiale della multa dal portalettere (in questo caso decorrono dal giorno successivo a quello della consegna), una cosa è il ritiro successivo in posta (in questo caso decorrono dal giorno successivo al ritiro effettivo). Purché non siano intercorsi oltre 10 giorni dal deposito. In questo caso infatti la notifica si da per avvenuta il decimo giorno.
Quindi se un automobilista ritira la multa dopo due settimane di ferie non ha più diritto al pagamento con lo sconto perché la notifica si deve considerare avvenuta il decimo giorno dal deposito. Attenzione infine all'invito alla comunicazione tempestiva dei dati dell'effettivo conducente per la decurtazione di punteggio. Chi non dichiara nulla non rischia punti e patente ma attiverà inevitabilmente un ulteriore verbale molto salato che spesso giunge inaspettato all'automobilista convinto di aver già concluso positivamente tutto il procedimento sanzionatorio con il pagamento del primo verbale.
La questione assume spesso toni drammatici in caso di multe seriali. Ovvero di automobilisti che incappano in numerosi autovelox ripetuti senza saperlo (articolo ItaliaOggi del 19.01.2016).

APPALTIAcquisti, la delega appalti «taglia» le convenzioni. Centralizzazione. I criteri per i Comuni non capoluogo.
La delega per il recepimento delle direttive comunitarie sugli appalti appena approvata in via definitiva dal Senato (Atto Senato 1678-B) ridisegna il sistema delle centrali di committenza, puntando sulla qualificazione e sull'ulteriore razionalizzazione per i Comuni non capoluogo.
La lettera dd) dell'articolo 1 della legge-delega prefigura una riorganizzazione degli organismi deputati a gestire le macro-acquisizioni di beni, servizi e lavori su base locale, attualmente strutturata sui quattro modelli aggregativi individuati dall’articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici: le unioni di Comuni (se esistenti), le stazioni uniche appaltati (Sua) presso le Province, i soggetti aggregatori (Consip e centrali di committenza regionali), e gli accordi tra gli stessi comuni non capoluogo (in base a convenzioni ex articolo 30 del Tuel).
Nella delega per questi enti è stabilito l'obbligo di ricorrere a forme di aggregazione o centralizzazione delle committenze, a livello di Unione dei comuni, ove esistenti, o ricorrendo ad «altro soggetto aggregatore secondo la normativa vigente».
La previsione sembra ridurre le opzioni per le amministrazioni comunali non capoluogo a due sole soluzioni.
Nel caso del ricorso all'Unione, i Comuni dovrebbero ricondurre ad essa le loro gare di maggior rilievo, potendo peraltro rimettere a questi soggetti una gestione più organica delle strategie di area vasta o di distretto (come già si sta sperimentando in Emilia-Romagna).
Nel caso di ricorso ai soggetti aggregatori, le linee di referenza più immediate sono riferibili a quelli regionali e alle Città metropolitane comprese nell'elenco predisposto dall'Anac, secondo una prospettiva di rafforzamento già delineata dal legislatore, a partire dall'articolo 9 della legge 89/2014, e rafforzata recentemente con una serie di significative previsioni contenute nella legge 208/2015 (legge di stabilità 2016).
I criteri definiti dalla legge delega non sembrano lasciare spazio per gli accordi tra Comuni non capoluogo (sulla base di convenzioni per la gestione associata della funzione acquisti) nel frattempo sviluppati in molti contesti, non necessariamente con riferimento a ambiti territoriali corrispondenti alle Unioni (anzi, in molti casi inferiori). Questo determinerebbe un esaurimento di queste esperienze nell'arco di pochi mesi, posta l'entrata in vigore del nuovo codice a metà aprile.
Il disegno che sarò sviluppato nelle nuove disposizioni regolatrici dell'attività contrattuale può tuttavia salvaguardare queste esperienze (in molti casi già operative e efficienti), riportando i modelli aggregativi su base convenzionale ad un primo livello di qualificazione per assurgere al ruolo di «soggetti aggregatori».
Sempre al decreto legislativo spetta la definizione di eventuali margini di operatività dei singoli Comuni non capoluogo, attualmente garantiti dalla possibilità di utilizzo del mercato elettronico e delle piattaforme telematiche, oltre che dal ricorso all'affidamento diretto entro 40mila euro per acquisti di servizi, beni e lavori mediante procedure tradizionali
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti con più trasparenza e meno oneri burocratici. Le novità contenute nella legge delega per l'attuazione alle direttive europee del 2014.
Le parole d'ordine sono procedure semplificate e tempi certi di gara e di realizzazione delle opere. E un occhio di favore deve essere riservato alle piccole e medie imprese e ai subappaltatori. Questo anche mediante una maggiore diffusione di informazioni, utilizzando gli strumenti della rete per le gare telematiche e per la pubblicazione degli avvisi: appalti, dunque, semplici, digitalizzati, senza inutili complicazioni burocratiche.

È quanto prevede la legge delega per la riforma degli appalti pubblici (Atto Senato 1678-B), approvata definitivamente dal Senato, che rivoluziona l'attuale dlgs 163/2006 e che tocca anche il processo amministrativo sugli appalti. Si vuole più qualità dell'opera pubblica, meno varianti in corso d'opera che fanno aumentare i costi, più sicurezza per i subappaltatori e più centrali di committenza. Ma andiamo per ordine.
Gli appalti pubblici in affanno. La delega vuole intervenire in un quadro caratterizzato da una sistemica inefficienza. Consideriamo infatti i tempi attuali di realizzazione degli appalti. Secondo il Rapporto 2014 del dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, i tempi di attuazione di opere che valgono meno di 100 mila euro sono di poco inferiori a 3 anni, mentre superano i 14 anni per i progetti dal valore di oltre 100 milioni di euro; la progettazione degli interventi complessivamente presenta durate medie variabili tra 2 e 6 anni, la fase di aggiudicazione dei lavori oscilla tra 5 e 16 mesi circa, mentre i tempi medi di realizzazione lavori variano tra 5 mesi ad oltre 7 anni.
I tempi della fase di progettazione sommati a quelli dell'affidamento risultano pari o superiori a quelli della sola realizzazione. E la situazione è peggiorata rispetto alla precedente indagine del 2011: i tempi medi di attuazione registrano un aumento di piccola entità (da 4,4 a 4,5 anni). Il peggioramento risulta particolarmente evidente per le opere di maggiore dimensione economica (sopra i 100 milioni di euro), dove l'incremento dei tempi è superiore al 30%.
La complessiva lunghezza deriva da carenze nelle progettazioni degli interventi, nella complessità degli iter autorizzativi e nell'incertezza nei circuiti finanziari, aggravata dalla necessità di rispettare il patto di stabilità interno, nella debolezza della governance del progetto da parte del soggetto attuatore.
Attuazione della delega. Per porre mano a questa situazione, sfruttando il pretesto di direttive europee da attuare, il governo viene delegato a adottare un decreto legislativo per il recepimento di alcune direttive europee e per il riordino complessivo della disciplina sui contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Il termine per l'adozione della delega è il 18.04.2016.
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Pubblicazione on-line del resoconto finanziario.
Centrali di committenza e pubblicazione dei bilanci sono gli strumenti della spending review.
La delega prevede istituti tipici di contenimento della spesa come la previsione dell'obbligo per le stazioni appaltanti di pubblicare nel proprio sito internet il resoconto finanziario al termine dell'esecuzione del contratto e come le forme di centralizzazione delle committenze e di riduzione del numero delle stazioni appaltanti, effettuate sulla base del sistema di qualificazione, con possibilità, a seconda del grado di qualificazione conseguito, di gestire contratti di maggiore complessità, salvaguardando l'esigenza di garantire la suddivisione in lotti nel rispetto della normativa dell'Unione europea.
Viene fatto salvo l'obbligo, per i comuni non capoluogo di provincia, di ricorrere a forme di aggregazione o centralizzazione delle committenze e anche a livello di unione dei comuni o ricorrendo ad altro soggetto aggregatore.
Flessibilità. La delega recepisce gli strumenti di flessibilità previsti dalle direttive per le procedure e gli strumenti a disposizione delle amministrazioni aggiudicatrici, a cui è attribuita maggiore discrezionalità nella scelta delle soluzioni più adeguate. In tale ambito, vanno considerate le nuove procedure disciplinate dalle direttive tra le quali la procedura competitiva con negoziazione, del partenariato per l'innovazione cui le amministrazioni possono far ricorso nel caso in cui abbiano un'esigenza di prodotti, servizi o lavori innovativi che non può essere soddisfatta acquistando prodotti, servizi o lavori disponibili sul mercato.
Deroghe. Pur in un quadro di semplificazione normativa, si vieta espressamente l'affidamento di contratti attraverso procedure derogatorie rispetto a quelle ordinarie fatta eccezione per le urgenze di protezione civile.
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Documenti, si può integrare in seguito.
Lenzuolata di semplificazioni per le imprese: meno oneri documentali e possibilità di integrare i documenti mancanti. La gara è fatta per valutare le offerte, non per un salto a ostacoli tra cavilli e formalismi. Vediamo il dettaglio delle semplificazioni in arrivo.
Meno carta. La delega prevede la riduzione degli oneri documentali ed economici a carico dei soggetti partecipanti, con attribuzione a questi ultimi della possibilità di integrazione documentale non onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della domanda, purché non attenga agli elementi oggetto di valutazioni sul merito dell'offerta.
Anche le stazioni appaltanti dovranno avere la vita più facile con procedure semplificate per la verifica dei requisiti generali di qualificazione delle imprese, costantemente aggiornati.
Questo si otterrà con l'accesso a un'unica banca dati centralizzata gestita dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti e con la revisione e semplificazione dell'attuale sistema AVCpass.
La legge delega configura un sistema con due banche dati di riferimento: una banca dati centralizzata, risultante dall'unificazione presso l'Anac di tutte le banche dati del settore, e una banca dati centralizzata presso il Mit, che sembra avere come funzione principale quella di consentire l'aggiornamento e la verifica dei requisiti generali di qualificazione.
Documento unico di gara. Sempre per ridurre gli oneri documentali, per i partecipanti alle gare sarà possibile utilizzare il documento di gara unico europeo (Dgue) o analogo documento predisposto dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti (Mit) per l'autocertificazione del possesso dei requisiti di partecipazione alle gare.
Avvisi: porte aperte all'informatica. La legge delega richiede la revisione del sistema di pubblicità degli avvisi e dei bandi di gara, in modo che avvenga principalmente tramite strumenti di pubblicità di tipo informatico.
È prevista prevedendo la definizione di indirizzi generali da parte del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con l'Anac, al fine di garantire adeguati livelli di trasparenza e di conoscibilità prevedendo, in ogni caso, la pubblicazione su un'unica piattaforma digitale presso l'Anac di tutti i bandi di gara.
Requisiti di capacità economica e finanziaria. La riforma prevede la riformulazione dei requisiti di capacità economico finanziaria, tecnica, compresa quella organizzativa, e professionale che gli operatori economici devono possedere per partecipare alle procedure di gara, tenendo presente l'interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti.
Questi requisiti di capacità devono essere attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto, i potenziali partecipanti devono essere scelti dalle stazioni appaltanti nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione tenendo presente l'interesse pubblico a favorire l'accesso delle micro, piccole e medie imprese.
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Le varianti? Solo se è necessario.
Varianti solo quando è necessario e criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa come regola. La gara serve a garantire il miglior rapporto qualità/prezzo e a selezionare l'operatore più affidabile. Vediamo come leggendo i principi della legge delega.
Trasparenza. Nell'esercizio della delega dovranno essere individuati espressamente i casi nei quali, in via eccezionale, è possibile ricorrere alla procedura negoziata senza precedente pubblicazione di un bando di gara.
Deve essere assicurata comunque la trasparenza degli atti ed il rispetto della regolarità contributiva, fiscale e patrimoniale dell'impresa appaltatrice.
Deve essere reso obbligatorio il ricorso a conti dedicati per le imprese aggiudicatrici di appalti pubblici attraverso i quali regolare tutti i flussi finanziari dei pagamenti verso tutti i prestatori d'opera e di lavoro e verso tutte le imprese che entrano a vario titolo in rapporto con l'impresa aggiudicatrice in relazione agli appalti assegnati.
Inoltre si deve disegnare un sistema di penalità e premialità per la denuncia obbligatoria delle richieste estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari di appalti pubblici e di servizi, comprese le imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di materiali, opere e servizi. Specifiche sanzioni dovranno essere irrogate in caso di omessa o tardiva denuncia Deve essere garantita la piena accessibilità e la trasparenza degli atti progettuali, anche in via telematica, al fine di consentire un'adeguata ponderazione dell'offerta da parte dei concorrenti.
Varianti. La legge delega vuole ridurre il ricorso a variazioni progettuali in corso d'opera, che molto spesso fanno lievitare i costi.
In proposito di dovrà distinguere le variazioni sostanziali e quelle non sostanziali. Le misure di contenimento delle varianti dovranno applicarsi, in particolare, alla fase di esecuzione dei lavori.
Proprio per arginare il pericolo di varianti «facili», ogni variazione in corso d'opera dovrà essere adeguatamente, motivata, giustificata unicamente da condizioni impreviste e imprevedibili e debitamente autorizzata dal Rup (responsabile unico del procedimento).
Inoltre dovrà essere sempre assicurata la possibilità, per l'amministrazione committente, di procedere alla risoluzione del contratto quando le variazioni superino determinate soglie rispetto all'importo originario, e dovrà al contempo essere garantita la qualità progettuale e la responsabilità del progettista in caso di errori di progettazione.
Offerta più vantaggiosa. La delega prevede l'utilizzo, per l'aggiudicazione degli appalti pubblici e delle concessioni, del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (Oepv), misurata sul «miglior rapporto qualità/prezzo».
Si preferisce tale criterio di aggiudicazione (rispetto a quello del prezzo più basso) limitando i casi e delle soglie di importo entro le quali è consentito il ricorso al solo criterio di aggiudicazione del prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più basso o del massimo ribasso d'asta.
Il criterio della legge delega precisa che il «miglior rapporto qualità/prezzo» è determinato seguendo un approccio costo/efficacia, quale il costo del ciclo di vita e sottolinea che il «miglior rapporto qualità/prezzo» va valutato con criteri oggettivi sulla base degli aspetti qualitativi, ambientali o sociali connessi all'oggetto dell'appalto pubblico o del contratto di concessione; regolazione espressa dei criteri, delle caratteristiche tecniche e prestazionali nel rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento.
Il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa sarà l'unico utilizzabile per l'aggiudicazione dei contratti pubblici relativi ai servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, escludendo in ogni caso l'applicazione del solo criterio di aggiudicazione del prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più basso o del massimo ribasso d'asta. Lo stesso vale anche per l'aggiudicazione dei contratti pubblici di servizi ad alta intensità di manodopera, definiti come quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50% dell'importo totale del contratto.
Offerte anomale. Il decreto delegato dovrà definire le modalità di individuazione ed esclusione delle offerte anomale, con particolare riguardo ad appalti di valore inferiore alle soglie di rilevanza europea. È prevista l'indicazione di modalità, che rendano non predeterminabili i parametri di riferimento per il calcolo dell'offerta anomala.
Partenariato. Il decreto delegato dovrà dedicarsi alla razionalizzazione ed all'estensione delle forme di partenariato pubblico-privato e alla riduzione dei tempi procedurali delle forme di attraverso la predisposizione di studi di fattibilità.
La razionalizzazione delle forme di partenariato pubblico privato toccherà con specifico riguardo la finanza di progetto e la locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità: strumenti che saranno incentivati mediante il ricorso a mezzi finanziari innovativi e specifici ed il supporto tecnico alle stazioni appaltanti, garantendo la trasparenza e la pubblicità degli atti.
Avvalimento. Si prevede la revisione della disciplina vigente in materia di avvalimento, imponendo che il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui l'oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara.
Si vuole, nel contempo, rafforzare gli strumenti di verifica circa l'effettivo possesso dei requisiti e delle risorse oggetto di avvalimento da parte dell'impresa ausiliaria; l'effettivo impiego delle risorse medesime nell'esecuzione dell'appalto, al fine di escludere la possibilità di ricorso all'avvalimento a cascata.
Non potranno, comunque, essere oggetto di avvalimento il possesso della qualificazione e dell'esperienza tecnica e professionale necessarie per eseguire le prestazioni da affidare.
Rotazione. Si prevede l'individuazione, in tema di procedure di affidamento, di modalità volte a garantire i livelli minimi di concorrenzialità, trasparenza, rotazione, e parità di trattamento richiesti dalla normativa europea anche tramite la sperimentazione di procedure e sistemi informatici già adoperati per aste telematiche.
Gare telematiche. La delega prevede la promozione di modalità e strumenti telematici e di procedure interamente telematiche d'acquisto, garantendo il soddisfacimento dell'obiettivo del miglior rapporto qualità/prezzo piuttosto che l'indicazione di uno specifico prodotto.
Appalti sotto soglia. Si deve riscrivere la disciplina applicabile ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture eseguiti in economia e di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria. Gli importi delle soglie dei contratti pubblici di rilevanza comunitaria sono pari a: 134.000 euro o 207.000 euro (a seconda del tipo di servizio e dell'amministrazione aggiudicatrice) per gli appalti pubblici di forniture e di servizi; 5.186.000 euro per gli appalti di lavori pubblici e per le concessioni di lavori pubblici. La disciplina dovrà essere ispirata a criteri di massima semplificazione e rapidità dei procedimenti, salvaguardando i principi di trasparenza e imparzialità della gara.
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Processo sugli appalti ancora più rapido: l'opera pubblica non può attendere i tempi della giustizia. Il processo sarà più rapido.
La delega impone la scritture di norme per alla razionalizzazione dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in materia di esecuzione del contratto. Questo significa la disciplina del ricorso alle procedure arbitrali e riduzione dei costi a esse connessi.
Si prevede, dunque, che il legislatore delegato emani disposizioni volte a escludere il ricorso a procedure diverse da quelle amministrate (si tratta dell'arbitrato celebrato sotto l'egida di un'istituzione in genere una camera arbitrale che ne regola diversi aspetti); e a garantire la trasparenza, la celerità e l'economicità e assicurare il possesso dei requisiti di integrità, imparzialità e responsabilità degli arbitri e degli eventuali ausiliari.
Deve essere garantita l'efficacia e la speditezza delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti relativi ad appalti pubblici di lavori. Si deve poi, prevedere, nel rispetto della pienezza della tutela giurisdizionale, che, già nella fase cautelare, il giudice tenga conto delle conseguenze del suo giudizio sui contratti,
Sempre in merito di processo amministrativo, al legislatore delegato si affida il compito di revisionare e razionalizzare il rito abbreviato per i giudizi sugli appalti anche mediante l'introduzione di un rito speciale in camera di consiglio che consente l'immediata risoluzione del contenzioso relativo all'impugnazione dei provvedimenti di esclusione dalla gara o di ammissione alla gara per carenza dei requisiti di partecipazione.
Per evitare lungaggini o strumentalizzazioni sarà introdotta la previsione della preclusione della contestazione di vizi attinenti alla fase di esclusione dalla gara o ammissione alla gara nel successivo svolgimento della procedura di gara e in sede di impugnazione dei successivi provvedimenti di valutazione delle offerte e di aggiudicazione, provvisoria e definitiva.
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Facilitazioni per le pmi.
Togliere le pmi dall'angolo e aprire le porte degli appalti pubblici, garantendo anche da spiacevoli imprevisti nei pagamenti, quando prendono lavori in subappalto.
Queste le finalità della legge delega, che indica tra i principi il miglioramento dell'accesso al mercato dei contratti pubblici attraverso, innanzi tutto, il divieto di aggregazione artificiosa degli appalti, prevedendo in particolare che la dimensione degli appalti e il conseguente valore delle gare e dei lotti in cui queste risultino eventualmente suddivise siano adeguati al fine di garantire l'effettiva possibilità di partecipazione da parte delle micro, piccole e medie imprese.
Una novità assoluta è l'introduzione di misure premiali per gli appaltatori e i concessionari che coinvolgano i predetti soggetti nelle procedure di gara e, nell'esecuzione dei contratti. Inoltre la mancata suddivisione in lotti dovrà essere oggetto di specifico obbligo di motivazione.
Subappalto. Si prescrive l'introduzione, per i contratti di lavori servizi e forniture di una disciplina specifica per il subappalto. Nel dettaglio, il concorrente dovrà indicare in sede di offerta le parti del contratto di lavori che intende subappaltare; in casi specifici una terna di nominativi di subappaltatori per ogni tipologia di attività, prevista in progetto; dimostrare l'assenza in capo ai subappaltatori indicati di motivi di esclusione e di sostituire i subappaltatori relativamente ai quali apposita verifica abbia dimostrato la sussistenza di tali motivi.
La stazione appaltante avrà l'obbligo di procedere al pagamento diretto dei subappaltatori in caso di inadempimento da parte dell'appaltatore o anche su richiesta del subappaltatore, e se la natura del contratto lo consente, per i servizi, le forniture o i lavori forniti. Se il subappaltatore è una microimpresa o una piccola impresa, il decreto legislativo dovrà indicare espressamente le ipotesi in cui la stazione appaltante procederà al pagamento diretto
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aia, modifiche sotto controllo. Interventi rilevanti sugli impianti solo con espressa licenza. Le indicazioni della direttiva 274/2015 sull'autorizzazione integrata ambientale.
Le modifiche a impianti sottoposti ad Autorizzazione integrata ambientale che comportano emissione di nuove sostanze pertinenti e significative sono da considerarsi «rilevanti» e necessitano dunque di un preventivo e rinnovato titolo «Aia» per poter essere legittimamente realizzate dai gestori degli stabilimenti.

Questa una delle indicazioni che arrivano con la direttiva Minambiente 16.12.2015 n. 274 recante la disciplina dei procedimenti di rilascio, riesame e aggiornamento dei provvedimenti Aia di competenza statale.
Il provvedimento, pubblicato sul sito del Dicastero il 29.12.2015, sebbene finalizzato a fornire indirizzi alle strutture pubbliche interessate dalla procedura amministrativa, reca nel suo allegato 5 dei «Criteri speditivi per individuare alcune modifiche sostanziali Aia» che appaiono rilevanti anche per le imprese tenute a osservare le stringenti regole in materia dettate dal dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale).
Contesto: gli adempimenti sottesi alle modifiche. Ex articolo 5, comma 1, Parte II del dlgs 152/2006 costituiscono «modifiche» di impianti le variazioni (anche di caratteristiche, funzionamento o potenziamento) che possano produrre effetti sull'ambiente (lettera l); tali modifiche sono altresì «sostanziali» (ex successiva lettera l-bis) qualora producano effetti negativi e significativi sull'ambiente, oppure, riguardando attività soggette a valori soglia ex allegato VIII del Codice, comportino incrementi anche di una delle grandezze previste, pari o superiore ai valori stessi.
La realizzazione di modifiche sostanziali è subordinata, ex articolo 29-quattuordecies del dlgs 152/2006, all'ottenimento di una nuova autorizzazione integrata ambientale. La realizzazione di modifiche non sostanziali, è invece subordinata (ex articolo 29-nonies citato) alla presentazione di preventiva comunicazione alle Autorità competenti, e solo decorsi 60 giorni dalla stessa (senza rilievi da parte dell'Ente) è possibile realizzarle.
Le indicazioni Minambiente. A evidenziare il confine tra modifiche sostanziali e non sostanziali (e dunque quello tra i due diversi regimi di adempimenti) concorrono per le Aia di competenza statale (ma con valore, ad avviso dello scrivente, anche per quelle sub istruttoria regionale vertendo sui principi generali della disciplina autorizzatoria) le indicazioni della citata direttiva 16 Minambiente 274/2015.
L'allegato 5 al provvedimento del Dicastero appare fornire innanzitutto chiarimenti sulle due fattispecie di modifiche espressamente definite come «sostanziali» dall'articolo 5, comma 1, lettera l-bis) del dlgs 152/2006: in relazione a quelle che determinano effetti negativi significativi sull'ambiente, si sottolinea infatti come in mancanza di parametri normativi per la determinazione di tali caratteristiche, la decisione sia rimessa all'Autorità competente; in relazione a quelle che comportano variazioni di grandezze oggetto di soglia, si evidenzia come l'incremento da valutare ai fini della sostanzialità della modifica sia da calcolarsi a partire dalla capacità produttiva autorizzata dal provvedimento di «Aia iniziale» e sia costituito dalla sommatoria del valore oggetto dell'istanza e dei valori di tutti gli eventuali ulteriori interventi non sostanziali già realizzati dall'applicazione della suddetta autorizzazione.
Ancora, dalla nuova direttiva Minambiente appare emergere come siano altresì da considerarsi «sostanziali»: le modifiche soggette a valutazione di impatto ambientale in base allo stesso dlgs 152/2006, sia in relazione ad attività rientranti nel citato allegato XII sia ad altre attività soggette alla medesima Aia in quanto in quanto svolte in unità tecnicamente connesse; le modifiche che comportano l'emissione di nuove sostanze pertinenti significative.
In base alla stessa direttiva 16 Minambiente 274/2015 possono invece generalmente considerarsi non sostanziali le modifiche (evidentemente diverse da quelle articolo 5, comma 1, lettera l-bis, citato) che, se realizzate, consentano comunque di condurre le attività sottese nel rispetto del previgente quadro prescrittivo Aia (con particolar riferimento ai valori limite autorizzati) e che non coincidono con la realizzazione di nuove unità (ossia, dispositivi e sistemi destinati a svolgere specifiche attività in modo autonomo) o l'integrale sostituzione di unità preesistenti, anche se comportanti un incremento della capacità produttiva delle istallazioni, così come delle quantità di materie prime lavorate o delle emissioni in flusso di massa.
Da inquadrare invece come interventi, diversi da mere modifiche, che necessitano invece ex dlgs 152/2006 di un vero e proprio «riesame» dell'autorizzazione (attraverso relativa istruttoria) appaiono essere in base allo stesso provvedimento Minambiente: gli interventi volti a incidere sulle unità nei termini sopra citati; l'emergere di nuovi elementi istruttori che rendono necessaria la rivisitazione del quadro autorizzativo o modifiche al piano di monitoraggio e controllo (in relazione a queste ultime se, previo carteggio con l'Ispra, esse non siano state considerate soluzioni alternative quantomeno equivalenti a quelle originarie).
Infine, appaiono essere fuori dal campo delle modifiche e del riesame gli interventi: finalizzati ad adeguare le prestazioni dell'installazione alle prescrizioni Aia; quelle che non hanno alcune effetto sull'ambiente; quelle che non riguardano l'installazione ex articolo 5, ma solo le unità non connesse tecnicamente (sia dal punto di vista impiantistico che gestionale) all'impianto Aia.
Regime sanzionatorio. A presidiare il rispetto delle norme sul regime autorizzatorio «Aia», lo ricordiamo, è l'articolo 29-quattuordecies del Codice ambientale, ai sensi del quale: la realizzazione di modifiche sostanziali in assenza di autorizzazione: è punita con arresto fino a un anno o l'ammenda fino a 26 mila euro; l'attuazione di modifiche non sostanziali senza preventiva comunicazione o senza rispetto dei termini previsti dalla sua notifica con la sanzione amministrativa fino a 15 mila euro; l'attività condotta senza autorizzazione o senza osservarne le prescrizioni, rispettivamente (per i casi più gravi), con l'arresto fino a due anni unitamente all'ammenda fino a 52 mila euro e con l'ammenda fino a 26 mila euro.
La disciplina Aia in generale. Dall'11.04.2014 la nuova disciplina sull'autorizzazione integrata ambientale, che condiziona (sottoponendolo a un unico titolo abilitativo) l'esercizio delle attività industriale a elevata potenzialità inquinante al rispetto dei più alti standard di tutela ambientale, è rappresentata dalla Parte II del dlgs 152/2006 come riformulata dal dlgs 46/2014.
Operando dal punto di vista autorizzatorio una distinzione tra stabilimenti sottoposti a competenza regionale e nazionale (questi ultimi elencati nell'allegato XII), con la riscrittura del generale allegato VIII alla stessa Parte Seconda del «Codice ambientale» il nuovo dlgs 46/2014 ha sensibilmente allargato il campo di applicazione dell'Aia, ricomprendendovi, tra le altre, numerose attività relative alla gestione di rifiuti prima escluse (si veda ItaliaOggi Sette del 16/06/2014) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIDepenalizzazione, iter a più vie. Atti d’ufficio all’autorità amministrativa e al giudice civile su istanza dei danneggiati.
Giustizia. Dopo il taglio ai reati possibile la revoca per le condanne - Il Governo: rivedremo le sanzioni sull’ostacolo ai revisori.

Le disposizioni sulla depenalizzazione dei due decreti legislativi approvati venerdì dal Consiglio dei ministri prevedono regole procedurali differenti a seconda che le violazioni penali siano trasformate in illeciti amministrativi (reati sanzionati con la sola pena dell’ammenda o della multa o modifica di alcuni reati del Codice penale) ovvero vengano abrogate (reati a tutela della fede pubblica, onore e patrimonio) con istituzione di sanzioni pecuniarie civili, fermo il diritto al risarcimento del danno.
Reati con ammenda/multa. Le norme hanno effetto retroattivo ma, a seconda dei casi e, in particolare, se la violazione sia stata già oggetto (o meno) di un procedimento penale potranno verificarsi situazioni differenti.
Violazioni future. Per le violazioni commesse dall’entrata in vigore del decreto, ovvero scoperte in futuro ma relative a periodi per i quali esse costituivano ancora reato, gli accertatori non devono inviare la comunicazione di notizia di reato in Procura, ma seguire le regole previste dalla legge 689/1981.
Sarà necessario procedere alla formale contestazione della violazione, all’invio del verbale all’autorità amministrativa competente (che cambia in base alla tipologia di violazione), a rendere edotto il trasgressore della possibilità di trasmettere scritti difensivi o essere ascoltato personalmente, alla facoltà di estinguere la violazione con pagamento in misura ridotta.
Procedimento in corso. L’autorità giudiziaria, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, deve disporre la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa.
Azione penale non esercitata. Nell’ipotesi in cui i verificatori abbiano inviato già la notizia di reato ma l’azione penale non sia stata ancora esercitata, la trasmissione degli atti è disposta dal Pm che, in caso di procedimento già iscritto, annota la trasmissione nel registro delle notizie di reato. Se il reato è estinto per qualsiasi causa, il Pm richiede l’archiviazione.
Azione penale esercitata. Nel caso di azione penale già esercitata, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente.
Condanna. Se i procedimenti penali sono stati definiti prima dell’entrata in vigore del decreto, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.
Reati su onore e patrimonio. La sanzione pecuniaria viene applicata dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, al termine del giudizio solo nel caso in cui accolga la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa. Le sanzioni pecuniarie civili si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza irrevocabile di condanna.
In quest’ultima ipotesi il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Nel caso di procedimenti penali in corso per uno dei vari reati abrogati non sono previsti obblighi di trasmissione degli atti dal giudice penale a quello competente per la nuova sanzione civile.
Ne consegue che: per il principio del favor rei nei confronti dell’indagato/imputato va dichiarata l’archiviazione/assoluzione; la (nuova) sanzione civile potrà esser applicata dal giudice solo se la parte danneggiata decida di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno, non essendo prevista la trasmissione d’ufficio degli atti dal giudice penale o dalla Procura a quello civile competente all’irrogazione della nuova sanzione.
L’indicazione. Il Governo prova a spegnere sul nascere, poi, le polemiche sulla depenalizzazione (con riduzione delle sanzioni - si veda Il Sole 24 Ore di ieri) della condotta del manager che ostacola i revisori accese dal Movimento Cinque Stelle.
L’ufficio legislativo della Giustizia ha, infatti, precisato che «c’è la disponibilità a ricalibrare la sanzione», specificando che il perimetro in cui si è mosso l’esecutivo era contenuto nella delega. In questo caso, però, emerge la disponibilità ad adeguare le sanzioni ferma restando la trasformazione in illecito amministrativo
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Renzi: fannulloni nella Pa licenziati in 48 ore. La riforma. Mercoledì il sì alle norme in Consiglio dei ministri - Sanzionabile anche il dirigente se non si attiva.
L’obbligo, in 48 ore, di far scattare la sospensione di incarico e stipendio. E di aprire, nello stesso arco di tempo, il procedimento disciplinare la cui sanzione è il licenziamento del dipendente pubblico “infedele”.
Matteo Renzi userà il pugno di ferro contro i dipendenti pubblici fannulloni, come anticipato ieri dal Sole-24 Ore, e annuncia l’arrivo di un mini-pacchetto di norme che approderà mercoledì, in un Consiglio dei ministri convocato in notturna, insieme con i primi decreti attuativi della riforma Madia. Chi timbra e poi scappa dall’ufficio è un «truffatore», ha spiegato il premier intervistato al Tg5, e danneggia «la credibilità della stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici che lavorano bene».
«Abbiamo visto cose pazzesche -ha poi aggiunto Renzi- come a Sanremo, dove c’era chi timbrava in mutande e anche in queste ore si vedono queste immagini». Da qui il giro di vite, «e se il dirigente non procede, rischia lui stesso di andare a casa», ha concluso il capo del Governo.
Si accelera quindi nel riordino della disciplina dei procedimenti disciplinari, che a questo punto escono dal nuovo testo unico sul lavoro pubblico atteso per l’estate, visto che la delega prevede tempi più lunghi. Le disposizioni in corso di stesura da parte dei tecnici di palazzo Vidoni introdurrebbero un tempo certo (48 ore, appunto) per sospendere da lavoro e retribuzione il dipendente colto in flagranza di illecito disciplinare (e con prove certe - per esempio, c’è la ripresa della telecamera della falsa attestazione della presenza in servizio). Entro lo stesso arco di tempo dovrà partire il procedimento che porta al licenziamento (oggi l’iter prevede una durata di 60 giorni ma si superano i 100 effettivi - si lavora anche per ridurre al minimo questo periodo).
Ma nel mirino ci sarà pure il dirigente responsabile dell’impiegato infedele: se non si attiva, risponde direttamente lui con una sanzione disciplinare. Oggi non sempre l’azione disciplinare viene portata a termine: su 7mila procedimenti aperti ogni anno quelli che si chiudono con l’interruzione del rapporto di lavoro sono poco più di 200, di cui un centinaio per assenteismo, secondo le statistiche di Funzione pubblica.
Come detto, queste norme verrebbero anticipate a mercoledì. In un secondo tempo, con il nuovo testo unico previsto dalla delega si completerà la stretta sulle regole disciplinari e le modalità di licenziamento. Si sta studiando una tipizzazione puntuale direttamente nella legge di quelle fattispecie particolarmente gravi (per esempio, la presentazione di falsi certificati medici) che fanno scattare subito il procedimento che porta al licenziamento.
L’ipotesi delle tipizzazioni legali dei comportamenti più eclatanti passerebbe per un rafforzamento della riforma Brunetta (legge 15 e Dlgs 150 del 2009), dettagliando in modo più preciso i singoli casi. Verrebbe comunque lasciata la facoltà alle parti, attraverso la contrattazione, di poter integrare queste ipotesi e di specificare anche i casi in cui scatterebbero solo sanzioni conservative (e non il licenziamento). La negoziazione avrebbe però un paletto: non potrebbe superare la legge, e quindi annacquare la disciplina più rigorosa introdotta dalla fonte primaria.
L’ulteriore semplificazione dei procedimenti disciplinari passerebbe, poi, per l’accentramento in capo all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (l’Upd, già presente in tutte le strutture) degli atti per irrogare sanzioni superiori al rimprovero scritto, prevedendo termini perentori di inizio e fine procedimento. Al responsabile della struttura (cioè al singolo dirigente) rimarrebbe la competenza solo per il rimprovero verbale e scritto. Il responsabile dell’ufficio in cui opera il dipendente “infedele” manterrebbe invece la funzione della segnalazione entro un certo termine.
Si starebbe pensando, anche, di consentire in caso di annullamento da parte della magistratura della procedura di recesso per meri vizi procedurali o di forma, di poter reiterare una seconda volta il procedimento disciplinare (rimettendolo in termini l’amministrazione) per mandare via, a questo punto senza più ostacoli, il dipendente reo di comportamenti palesemente negligenti. Infine sulle visite fiscali resta in campo l’ipotesi di una regulation rafforzata in capo all’Inps e non più alle Asl
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Depenalizzato l’«ostacolo» ai revisori. Stop al penale per i manager che frenano i controlli e per le violazioni sulle comunicazioni antiriciclaggio.
Consiglio dei ministri. Via libera del Governo ai due decreti legislativi che tagliano 41 reati: stralciate le disposizioni sull’immigrazione clandestina.

Alla fine, a ridosso della scadenza della delega, arriva al traguardo il pacchetto depenalizzazione. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato definitivamente i due decreti legislativi che permetteranno il taglio di alcune decine di reati (Il Sole 24 Ore ne ha censiti 41, riportati nella tabella pubblicata sotto). Superato lo scoglio del reato di clandestinità, che, almeno per ora, rimane nel perimetro penale, la riunione di ieri non ha prodotto sorprese.
Resta così confermata la depenalizzazione sia del mancato rispetto delle prescrizioni collegate all’autorizzazione alla coltivazione di cannabis per finalità terapeutiche sia la guida senza patente sia l’omesso versamento di ritenute nel limite dei 10.000 euro. Oltre che per la clandestinità alla fine la delega non è stata esercitata anche per la condotta di disturbo con rumori della quiete. Sul versante dell’antiriciclaggio non sono perseguibili penalmente gli inadempimenti relativi all’omessa identificazione e all’omessa registrazione, con la conseguenza, però, di sostituire a una misura pecuniaria penale (la multa fino a 13.000 euro) una sanzione amministrativa che può toccare nei casi più gravi i 30.000 euro.
Effetto che, in realtà, riguarda anche altre condotte ed è coerente con la volontà dell’intera operazione che è dichiaratamente quella di attribuire maggiore forza deterrente a una certa misura amministrativa rispetto a un’incerta, soprattutto per il rischio prescrizione, sanzione penale. Certo, in alcuni, casi la frattura tra vecchio e nuovo e assai profonda.
Prendiamo, per esempio, il caso dell’aborto clandestino o comunque del mancato rispetto delle disposizioni della legge 194/1978: a carico della donna sinora era prevista una multa sì, ma puramente simbolica, 51 euro; con la depenalizzazione la condotta è invece colpita con una sanzione che può arrivare a 10.000 euro. Opposto invece l’impatto depenalizzazione per il manager che ostacola i revisori: sinora era prevista un’ammenda fino a 75.000 euro, mentre dopo la depenalizzazione la sanzione pecuniaria amministrativa può essere anche solo di 10.000 (50.000 nel massimo).
In termini generali, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria ad alcuni reati previsti dal Codice e a tutti i reati che sono contenuti in leggi speciali e puniti con la sola misura della multa o dell’ammenda:
- da 5.000 a 10.000 euro per i reati puniti con la multa o con l’ammenda non superiore nel massimo a 5.000;
- da 5.000 euro 30.000 per i reati puniti con la multa o con l’ammenda non superiore nel massimo a 20.000;
- da 10.000 a 50.000 euro per i reati puniti con la multa o con l’ammenda superiore nel massimo a 20.000.
Rimangono dentro il sistema penale, e quindi esclusi dal provvedimento, i reati che pur prevedendo la sola pena della multa o dell’ammenda attengono alla normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ambiente, territorio e paesaggio, sicurezza pubblica, giochi d’azzardo e scommesse, armi, elezioni e finanziamento ai partiti.
Con un secondo decreto si prevede di sostituire la sanzione penale con la sanzione pecuniaria civile, associata al risarcimento del danno alla parte offesa. Quest’ultima potrà così ricorrere al giudice civile per il risanamento del danno. Il magistrato, accordato l’indennizzo, per alcuni illeciti stabilirà anche una sanzione pecuniaria che sarà incassata dall’Erario.
Il catalogo degli illeciti civili comprende l’ingiuria, il furto del bene da parte di chi ne è comproprietario e quindi in danno degli altri comproprietari, l’appropriazione di cose smarrite: per questo gruppo la sanzione va da 100 a 8.000 euro. Raddoppia invece la sanzione civile per gli illeciti relativi all’uso di scritture private falsificate o la distruzione di scritture private
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rocce scavo più gestibili.
Più semplice gestire le rocce da scavo. Il consiglio dei ministri ha dato via libera al secondo esame preliminare di un dpr che semplifica la disciplina di gestione delle terre e rocce da scavo.

Il provvedimento assorbe in un testo unico tutte le disposizioni vigenti sulla gestione e l'utilizzo di questi sottoprodotti, sul deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti e sulla loro gestione nei siti oggetto di bonifica.
Rispetto al primo esame, il testo è stato integrato e modificato sia a seguito della consultazione pubblica rivolta a cittadini, associazioni e stakeholders del settore, che dal 19 novembre al 19 dicembre scorso hanno potuto presentare sul sito del ministero dell'ambiente proposte di modifica, sia sulla base del parere della Conferenza unificata. Tra le novità introdotte:
• l'allineamento della normativa italiana a quella Ue e il raccordo, in termini normativi, con le procedure di valutazione di impatto ambientale;
• i soggetti che operano nel settore delle terre e rocce da scavo non saranno più obbligati ad attendere la preventiva approvazione del piano di utilizzo delle terre e rocce da parte delle autorità competenti;
• fin dalla fase di predisposizione del piano di utilizzo delle terre e rocce da scavo, i soggetti che le utilizzano possano interagire con le Agenzie regionali e provinciali di protezione ambientale per le verifiche tecniche, anticipando lo svolgimento dei controlli di legge;
• arrivano procedure più veloci per attestare che le terre e rocce da scavo soddisfano i requisiti stabiliti dalle norme Ue e nazionali per essere qualificate come sottoprodotti e non come rifiuti;
• si prevede il rafforzamento del sistema dei controlli e una disciplina più dettagliata ed efficace per il deposito intermedio delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti;
• si dettano tempi certi alle Arpa e Appa per svolgere le attività di analisi (articolo ItaliaOggi del 16.01.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Multe, con l'home banking vale la data di accredito.
Nella definizione dei verbali per le violazioni del codice della strada, qualora il trasgressore si avvalga dell'home banking o altri analoghi strumenti elettronici, il pagamento della sanzione pecuniaria si intende eseguito alla data di accredito dell'importo sul conto dell'ente cui appartiene l'organo accertatore.

L'importante chiarimento è stato fornito dal Ministero dell'Interno con la nota 14.01.2016 n. 300/A/227/16/127/34 di prot..
Ai sensi dell'art. 201 del codice della strada il trasgressore, nei casi consentiti, può pagare la sanzione amministrativa entro 60 giorni dalla contestazione o notificazione. L'importo è ridotto del 30% se il pagamento è effettuato entro cinque giorni. Il trasgressore può corrispondere la somma presso l'ufficio dal quale dipende l'agente accertatore oppure mediante versamento sul conto corrente postale o bancario oppure per mezzo di strumenti di pagamento elettronico.
La corretta individuazione della data di avvenuto pagamento assume grande importanza nella definizione del procedimento sanzionatorio. Infatti, l'art. 206 del codice della strada dispone che, se il pagamento non è avvenuto nei termini, si procede alla riscossione coattiva con la formazione dei ruoli.
Il problema si pone per i pagamenti effettuati tramite l'home banking, che prevedono l'intermediazione di soggetti autorizzati dalla Banca d'Italia a prestare attività di pagamento, e, in generale, per tutte le tipologie di accreditamento che variano in funzione della data e dell'ora in cui è stato impartito l'ordine al prestatore di servizi. E il chiarimento ufficiale è arrivato con la circolare del 14.01.2016 del ministero dell'interno, che ha acquisto al riguardo il parere del ministero dell'economia e delle finanze.
In sostanza, secondo il Viminale, mentre i pagamenti in contanti o tramite conto corrente postale si intendono eseguiti nella stessa data in cui è stato effettuato il versamento, i pagamenti tramite conto corrente e bonifico bancario o altri strumenti elettronici si intendono eseguiti, con effetto liberatorio per il debitore, nella data di accredito dell'importo sul conto dell'organo accertatore (articolo ItaliaOggi del 16.01.2016).

APPALTI: È legge la riforma degli appalti Cantone: una sfida per tutti. Il sì del Senato. Legalità ed efficienza, codice «leggero».
Il Senato ha approvato la legge delega sulla riforma degli appalti che introduce un codice «leggero», premi alle imprese efficienti e nuove regole sulla legalità: decreti attuativi entro il 18 aprile.
Raffaele Cantone, presidente Anac: «Sarà una sfida per tutti».
Mai più appalti in deroga (se non per calamità naturali), stop alle varianti che fanno esplodere i costi delle grandi opere, imprese valutate sulla base della reputazione conquistata in cantiere o nello svolgimento dei servizi, freno ai ricorsi che bloccano le opere e monopolizzano le aule dei Tar, spinta all’innovazione con un forte impulso all’uso del Bim, software di progettazione che consente di anticipare gli imprevisti durante i lavori. E soprattutto una drastica semplificazione normativa abbinata alla scelta di mettere al centro del nuovo sistema l’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, che avrà il doppio compito di scrivere le regole flessibili («soft law») incaricate di calare nella realtà del mercato il nuovo impianto normativo e indirizzare amministrazioni, imprese e professionisti con atti finalmente vincolanti.

In una brutale sintesi è quello che promette la legge delega
(Atto Senato 1678-B) per la riforma degli appalti approvata ieri a larga maggioranza dal Senato (con il sì di Forza Italia e voto contrario dei Cinque Stelle che invece in prima lettura avevano optato per l’astensione). Una promessa da mantenere in fretta, attraverso il decreto legislativo chiamato ad attuare i principi contenuti nella delega (forte di ben 72 criteri direttivi) in norme cogenti. Il decreto deve essere approvato entro il 18 aprile, data in cui scade il termine per recepire le tre direttive europee (23, 24 e 25/2014) che hanno dato il la alla riforma e che il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio ha ribadito di voler rispettare.
«Da oggi il Paese ha una legge che consente trasparenza, efficacia e legalità nelle opere pubbliche -ha twittato il ministro- Governo, Parlamento, Anac, imprese, insieme per questa importantissima e innovativa riforma. Ora tempi rapidi per la sua attuazione in norme semplici». A scrivere materialmente il decreto, che non dovrebbe superare la misura di 120-150 articoli, rispetto agli oltre 600 attuali, sarà la commissione di 19 esperti nominata da Delrio lo scorso settembre. La guida Antonella Manzione, capo del Dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi. Qualche bozza circola già, ma si tratta di documenti preparatori, già a prima vista ancora largamente incompleti.
La delega approvata ieri mette in moto la seconda riforma degli appalti nel giro degli ultimi venti anni. A innescare la prima, con la legge Merloni del 1994 poi ampiamente rimaneggiata e sfociata nel codice del 2006 fu Tangentopoli. Anche oggi, le inchieste che negli ultimi mesi hanno attraversato il mondo dei lavori pubblici - dall’Expo commissariato a Mafia capitale, fino all’ultimo capitolo degli appalti Anas - hanno lasciato il segno. «La corruzione è uno dei motivi principali che hanno impedito la corretta esecuzione delle opere pubbliche in Italia -ha spiegato in Parlamento Delrio-. Questo codice sarà una ricetta efficace».
Non è un caso allora la scelta di far girare il sistema intorno ai (tanti) nuovi compiti dell’Anticorruzione. Con la riforma che contribuirà a scrivere attraverso la «soft law» attuativa del nuovo codice, Cantone sarà dotato di poteri di intervento cautelari (possibilità di bloccare in corsa gare irregolari), mentre il rispetto degli atti di indirizzo al mercato (bandi-tipo, linee guida, pareri) diventerà vincolante per amministrazioni e imprese.
In questa chiave va anche letta la nascita di un albo nazionale dei commissari di gara e il divieto di prevedere scorciatoie normative, bypassando o semplificando le gare, per la realizzazione di grandi eventi. Le deroghe alle procedure ordinarie (90 quelle concesse per la realizzazione dell’Expo) potranno essere ammesse soltanto in risposta a emergenze di Protezione civile. All’Anac spetterà anche il compito di qualificare le stazioni appaltanti, che saranno abilitate a gestire i bandi per fasce di importo in base al grado di organizzazione e competenza.
Per frenare la deriva dei tempi infiniti dei cantieri arriva la stretta sulle varianti da cui passa l’aumento dei costi in due casi su tre nelle grandi opere, con la possibilità di rescindere il contratto oltre certe soglie di importo. Anche qui è prevista una tagliola di Cantone, che potrà sanzionare le Pa inadempienti sugli obblighi di comunicazione.
Importante anche la scelta di valutare le imprese sulla base di un rating di reputazione che terrà conto del comportamento tenuto nei contratti precedenti. Chi dimostrerà di saper rispettare tempi e costi, evitando la prassi del contenzioso per alzare il prezzo in corso d’opera sarà premiato. Per gli altri potrà scattare invece il cartellino rosso. Un modo per allinearsi agli standard anglosassoni dove conta molto come viene eseguito il contratto e non -come finora accaduto in Italia- se sono state (spesso solo) formalmente rispettate le complicatissime procedure dettate dal codice
 (articolo Il Sole 24 Ore del 15.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Le biciclette non possono ancora andare contromano. Parere trasporti.
Le biciclette non possono ancora circolare contromano. Neppure se il comune ha installato un pannello integrativo derogando specificamente al senso unico di marcia.

Lo ha ribadito il Ministero dei Trasporti con il parere n. 4635/2015.
Localmente la creatività delle singole amministrazioni ha dato vita a percorsi originali poco coerenti con i principi della sicurezza stradale. Una delle ipotesi più comuni riguarda la realizzazione di un tracciato ciclabile sulla carreggiata stradale, con senso di marcia contrario a quello consentito ai veicoli a motore.
È evidente che in questa ipotesi si crea un potenziale conflitto tra conducenti antagonisti e tra segnali stradali. Da una parte infatti, specifica il ministero, con l'apposizione del segnale di senso unico si comunica alla generalità degli utenti che tutta la strada è a disposizione per i veicoli orientati correttamente.
Dall'altra si confida nella larghezza della corsia di marcia e nel fatto che i veicoli mantengano il margine destro della strada. L'unica alternativa praticabile per permettere alle biciclette di circolare in esclusiva in senso contrario a quello di marcia secondo il ministero consiste nell'istituire una direzione obbligatoria per i veicoli a motore.
In pratica in questo modo l'utente stradale non ha a disposizione tutta la corsia di marcia ma deve tenere la destra rigorosa. E le biciclette possono teoricamente circolare in deroga in senso contrario senza rischiare incidenti (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

ENTI LOCALIIl Pd vuole tagliare 5.700 comuni. Municipi sotto i 5.000 abitanti obbligati a fondersi. Alla camera spunta una proposta di legge choc. Mini enti sul piede di guerra.
Dagli incentivi alle minacce, dall'associazionismo spontaneo alle fusioni forzose. Non ci sarà scampo per i piccoli comuni, perché per poter esistere un municipio dovrà avere almeno 5.000 abitanti. Chi ne ha meno dovrà fondersi, altrimenti ci penseranno le regioni a intervenire d'imperio per accorpare i comuni.
E se non lo faranno, i governatori rischieranno il taglio dei trasferimenti. Fantascienza? Nient'affatto.

La «soluzione finale» per i mini enti è scritta nero su bianco in una proposta di legge (Atto Camera n. 3420) del Partito democratico (primo firmatario il deputato Emanuele Lodolini) presentata a metà novembre e già assegnata alla commissione affari costituzionali della camera. La tempistica dà da pensare e rivela un atteggiamento quantomeno poco uniforme all'interno del Pd in materia di enti locali.
Fallito l'associazionismo forzoso delle funzioni (come testimoniato dall'ennesimo rinvio dell'obbligo, questa volta al 31.12.2016, disposto dall'ultimo decreto milleproroghe), proprio mentre in parlamento si discuteva di come superare questo modello coercitivo favorendo invece processi di aggregazione dal basso, sulla base di ambiti ottimali anche su base provinciale (come proposto dall'Anci, ma la soluzione non convince molti piccoli comuni), e mentre la legge di stabilità 2016 raddoppiava i contributi per le unioni e le fusioni «spontanee», incentivandole anche con una deroga su misura al tetto del turnover, tra le fila del Pd si pensava a una ricetta molto più «spicciola».
Anche perché, ammettono i 20 deputati proponenti, «nonostante i cospicui incentivi e i contributi previsti da leggi statali» le fusioni sono state pochissime. Meglio, dunque, usare la forza.
Via con un tratto di penna 5.652 comuni, il 70% del totale dei municipi italiani, che, se la proposta di legge diventasse realtà, avrebbero due anni di tempo per fondersi con altri enti fino a raggiungere la soglia minima di 5.000 abitanti. Sarebbe questa, secondo i 20 deputati Pd, l'unica via «per ridurre la frammentarietà dei comuni italiani e favorire il raggiungimento di dimensioni più adeguate, atte a consentire un netto miglioramento della qualità e dell'efficacia dei servizi offerti ai cittadini». Perché secondo Lodolini & C. la fascia demografica tra 5.000 e 10.000 abitanti sarebbe la «dimensione ottimale» per un comune, quella che consente il mantenimento di una dimensione a misura d'uomo coniugandola con servizi efficienti e ottimizzazione delle risorse.
Non solo. Le fusioni sarebbero «ineludibili», si legge nella relazione di accompagnamento alla proposta, perché servirebbero a fronteggiare il rischio di un neocentralismo regionale. Dopo la riforma delle province, l'eccessiva frammentazione amministrativa in piccoli comuni finirebbe per ricondurre in capo alle regioni le funzioni un tempo prerogativa degli enti intermedi. Quindi per mantenerle nell'ambito comunale, via alle fusioni di massa. Chi non si unirà «spontaneamente» entro 24 mesi, sarà accorpato d'imperio dalle regioni, ma a quel punto perderà il diritto a godere di tutti i benefici previsti dalla legge per le fusioni. E se, nei successivi due anni, i governatori non avranno disciplinato con legge regionale gli accorpamenti forzosi, per le regioni scatterà il taglio ai trasferimenti erariali: meno 50% dei contributi non destinati a finanziare sanità e trasporto pubblico locale. Insomma, ce n'è un po' per tutti.
Ma i proponenti si difendono: due anni sono un periodo di tempo congruo per avviare le fusioni «autonomamente, dal basso e secondo criteri di omogeneità, rispettosi delle caratteristiche fisiche dei territori e delle tradizioni». Franca Biglio, presidente dell'Anpci, l'Associazione nazionale dei piccoli comuni italiani, non ci sta. E, quali che siano le chance della Pdl di vedere la luce, annuncia battaglia. «Convocheremo subito il direttivo per decidere il da farsi. Una cosa è certa: non staremo con le mani in mano», annuncia a ItaliaOggi.
«Questa proposta di legge è pura fantascienza», prosegue, «perché la Costituzione parla chiaro e non si può invocarla solo quando fa comodo. La Costituzione parla di referendum, di partecipazione popolare per decidere gli accorpamenti. Pensare di modificare il Tuel, introducendo la soglia minima di 5.000 abitanti, è un attacco all'autonomia decisionale, gestionale e organizzativa, garantita dalla Carta a tutti i comuni. Tutti, nessuno escluso» (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

APPALTI: Taglio alle stazioni appaltanti. Abolito l'incentivo per la progettazione interna alla p.a.. Dal senato arriva il via libera definitivo alla legge delega per la riforma degli appalti.
Riduzione del numero delle stazioni appaltanti e loro qualificazione in un sistema gestito da Anac; abolizione dell'incentivo del 2% per la progettazione interna alle amministrazioni; riallocazione delle funzioni della pubblica amministrazione verso la programmazione e il controllo.

È quanto prevede per il settore pubblico la legge delega sugli appalti pubblici e sulle concessioni (Atto Senato 1678-B) approvata ieri mattina a palazzo Madama con 170 voti favorevoli, 30 contrari e 40 astenuti.
Il provvedimento, che adesso dovrà essere attuato con uno o due decreti delegati (si veda ItaliaOggi del 14.01.2016), nel dettare le linee direttrici per il recepimento delle direttive europee e per la riforma del codice dei contratti pubblici, delinea, fra le altre cose, un profondo «restyling» del ruolo e delle funzioni delle pubbliche amministrazioni.
La legge, anche per questo come per altre materie, assegna all'Autorità nazionale anticorruzione un ruolo fondamentale nell'attuazione di questo indirizzo di rinnovamento del mondo delle stazioni appaltanti partendo dalla considerazione che queste ultime devono in primo luogo aggregarsi.
A tale riguardo la legge delega prevede, da un lato, l'obbligo per i comuni non capoluogo di provincia di ricorrere a centrali di committenza e ad altre forme di aggregazione a livello comunale o ricorrendo ad altri soggetti aggregatori della domanda e, dall'altro, un indirizzo generale alla riduzione del numero delle stazioni appaltanti.
Sotto quest'ultimo profilo la legge chiama in causa l'Autorità anticorruzione che dovrà gestire un apposito sistema di qualificazione delle amministrazioni che bandiscono le gare, valutandone «l'effettiva capacità tecnica e organizzativa sulla base di parametri oggettivi». In altre parole, la riduzione delle stazioni appaltanti sarà effettuata sulla base del sistema di qualificazione gestito da Anac e, proprio in relazione al «grado di qualificazione conseguito», sarà possibile garantire alle amministrazioni di gestire «contratti di maggiore complessità».
La legge prevede poi che sia rinsaldato il rapporto fra stazioni appaltanti e a tale proposito stabilisce che l'Anac si attivi per promuovere «lo sviluppo delle migliori pratiche» e la «facilitazione allo scambio di informazioni fra stazioni appaltanti e di vigilanza».
Dall'altra parte le stazioni appaltanti potranno contare su alcuni strumenti molto importanti che l'Autorità presieduta da Raffaele Cantone dovrà porre in essere a supporto delle stazioni appaltanti. Infatti a fianco delle ormai tradizionali linee guida e atti di indirizzo, l'Anac sarà chiamata a emanare «bandi-tipo e contratti-tipo e altri strumenti di regolazione flessibile», con efficacia vincolante.
L'obiettivo ultimo è anche quello di assicurare a tutti gli operatori del settore una omogeneità procedurale che riduca al massimo la perversa prassi dei bandi «su misura», anche se questo dipenderà molto da come verranno impostati i decreti delegati (o il decreto delegato, vedi ItaliaOggi del 13.01.2016), soprattutto in tema di definizione dei requisiti minimi di accesso alle gare, aspetto considerato fondamentale anche dal formulario sul documento di gara unico europeo.
La parte più rilevante della legge, almeno con riguardo al ruolo delle pubbliche amministrazioni, è quella che stabilisce la riallocazione delle funzioni delle pubbliche amministrazioni verso attività di programmazione (supportata da accurati studi di fattibilità) e controllo (per esempio con la pubblicazione sul sito web del «resoconto finanziario al termine dell'esecuzione del contratto» e l'esclusione dell'applicazione degli incentivi alla progettazione interna della p.a..
In particolare, si prevede come criterio direttivo che venga destinata una somma non superiore al 2% dell'importo posto a base di gara alle attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alle fasi della programmazione degli investimenti, della predisposizione dei bandi, del controllo delle relative procedure, dell'esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei lavori e dei collaudi.
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Ora voce al governo. Decreto entro aprile.
Ora la palla torna al governo. L'esecutivo ha tempo fino al 18 aprile per recepire le direttive europee e fino al «31 luglio» per varare il nuovo Codice degli appalti e delle concessioni, in base alla legge delega approvata definitivamente ieri.
L'intenzione dell'esecutivo sarebbe però quella di adottare entro il 18 aprile un «unico decreto legislativo» che contenga il recepimento delle direttive, il riordino del codice degli appalti e anche le linee guida di carattere generale proposte dall'Anac in chiave «soft low» (si veda quanto anticipato su ItaliaOggi del 13 gennaio scorso). La legge delega prevede più trasparenza e pubblicità nelle gare, più controlli con un forte ruolo di vigilanza affidato all'Anac e un freno al ricorso alle varianti in corso d'opera che sinora hanno consentito di far lievitare a dismisura il costo dei lavori.
Confermato anche il «superamento» della legge obiettivo, un termine che, ha avuto modo di spiegare il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, deriverebbe dalla necessità di «non travolgere interventi per i quali siano sorti obblighi giuridicamente vincolanti». Critico il M5S secondo cui la dizione «giuridicamente vincolanti» rischia di ostacolare l'effettivo stop della «fallimentare legge» voluta da Silvio Berlusconi (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

APPALTI: Per tutti i comuni acquisti in autonomia sotto i 40 mila euro.
Facoltà per tutti i comuni di procedere in autonomia sotto la soglia dei 40.000 euro. Facoltà di derogare alle convenzioni Consip o delle centrali di committenza regionali quando il bene, o il servizio, offerto non sia idoneo a soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione. Facoltà di bypassare il MePa fino a 1.000 euro.

Sono queste le principali novità in materia di acquisti degli enti locali previste dalla legge di stabilità 2016 (legge 208/2015). Tutte, pur confermando la generale tendenza alla centralizzazione, puntano a rendere l'obbligo meno rigido per le commesse di importo modesto o quando vi siano esigenze particolari non standardizzabili.
In questa direzione si muove innanzitutto il comma 501, che estende a tutti i comuni la possibilità di effettuare acquisti in via autonoma sotto la soglia dei 40.000 euro. In precedenza, la deroga era consentita ai soli municipi con popolazione superiore a 10.000 abitanti.
Restano ferme, peraltro, le norme che impongono di fare ricorso alle convenzioni Consip e a quelle stipulate dalla centrali di committenza regionali. Per quanto riguarda gli enti locali, tuttavia, tale obbligo riguarda solo le fattispecie previste dall'art. 9, comma 3, del dl 66/2014 (che prevede l'individuazione ogni anno di categorie di beni e servizi e relative soglie di valore al superamento delle quali è comunque obbligatorio ricorrere a Consip o ad altri soggetti aggregatori), dall'art. 1, comma 512, della stessa legge 208 (per i beni e servizi informatici) e dall'art. 1, comma 7, del dl 95/2012 (per le categorie merceologiche energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile).
Rispetto a quest'ultima norma, peraltro, sempre la legge 208 ha previsto, al comma 494, la possibilità di derogare alle convenzioni se si spuntano corrispettivi inferiori almeno del 10% per telefonia fissa e mobile e del 3% per carburanti extra rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento. I contratti stipulati in deroga devono essere inviati all'Anac.
Inoltre, il comma 510 ha previsto un'altra possibilità di dribblare le convenzioni, allorché il bene, o il servizio, da esse offerto non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali. A tal fine, occorre un'apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di vertice amministrativo (non è chiaro se ci si riferisca al segretario o direttore generale, ovvero, secondo altre letture, alla giunta) e trasmessa alla Corte dei conti.
Si può ritenere, tuttavia, che l'autorizzazione non sia necessaria se l'acquisto riguarda categorie merceologiche che non sono presenti nelle convenzioni. Negli altri casi, occorrerà motivare il provvedimento confrontando in modo tecnicamente rigoroso le caratteristiche essenziali dei beni o servizi oggetto della convenzione e le caratteristiche essenziali dei beni, o servizi, necessari per soddisfare il fabbisogno dell'ente.
Infine, ricordiamo che il comma 450 della legge 296/2006 impone di fare ricorso al MePa, ma a seguito della modifica introdotta dal comma 502 della legge 208 solo per acquisti sopra i 1.000 euro. Trattandosi di un acquisto autonomo, anche in tal caso sembra necessaria l'autorizzazione, salvo il caso di assenza di convenzioni idonee (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Autotutela e silenzio, procedimenti rivisti. Numerose le modifiche contenute nella delega p.a..
La legge n. 124/2015 contenente «deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (c.d. legge Madia) persegue l'obiettivo ambizioso di riorganizzare profondamente le strutture e le funzioni delle p.a., in tutte le loro articolazioni.
La legge prevede una serie di norme di immediata applicazione, ma contiene anche numerose deleghe legislative al governo ad adottare vari decreti legislativi. In questo disegno riformatore si collocano specifici interventi diretti a modificare, in alcuni aspetti, la disciplina generale del procedimento e dell'atto amministrativo, racchiusa nella legge n. 241/1990.
Anche per la modifica della legge n. 241/1990 gli strumenti normativi utilizzati risultano diversificati. Importanti innovazioni contenute nella legge n. 124/2015 sono state immediatamente operanti e in vigore dal 28.08.2015. Si tratta dell'art. 3 (che ha introdotto il nuovo art. 17-bis, riguardante il «silenzio tra pubbliche amministrazioni») e dell'art. 6 (relativo, letteralmente, all'autotutela, ma riguardante nello specifico gli istituti della Scia, dell'annullamento e della sospensione d'ufficio).
Per materie ritenute di elevata difficoltà la tecnica utilizzata è quella della delega al governo. Così avviene all'art. 2, in tema di conferenza dei servizi, all'art. 4 relativo all'introduzione di norme per la semplificazione e l'accelerazione dei procedimenti amministrativi e all'art. 5 con il quale si delega il governo a procedere a una precisa individuazione dei procedimenti oggetto di Scia o di silenzio assenso, ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge n. 241/1990, nonché di quelli per i quali è necessaria l'autorizzazione espressa.
Alcuni di tali decreti legislativi dovrebbero essere oggetto di un primo esame nel consiglio dei ministri che si terrà in data odierna, dove si prevede che approderà un pacchetto contenente una decina di decreti attuativi della riforma Madia. Obiettivo dichiarato è quello di semplificare e rendere più chiari gli adempimenti richiesti ai cittadini e accelerare le procedure amministrative al fine di sostenere la crescita economica.
Gli schemi di ciascun decreto legislativo saranno successivamente trasmessi alle camere per l'espressione dei pareri delle commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari e della commissione parlamentare per la semplificazione, che si pronunciano nel termine di 60 giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il decreto legislativo può essere comunque adottato (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti decentrati, rispuntano i vincoli. Li prevede la manovra in attesa dei decreti Madia.
Non si sono ancora sopiti i contrasti tra Ragioneria generale dello stato e Corte dei conti, su come dovesse essere interpretata la disposizione che «consolidava» per il 2015 le riduzioni da apportare al fondo per il trattamento accessorio per il personale dipendente degli enti pubblici, che già sono stati reintrodotti, con la legge di Stabilità, nuovi vincoli alla contrattazione decentrata.

È il comma 236 della legge di stabilità 2016 a intervenire sul punto. In attesa dei decreti attuativi della legge n. 124 del 07.08.2015 (c.d. riforma della p.a. «Madia»), a decorrere dal 01.01.2016, si prevede che l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001 (e successive modificazioni e integrazioni) non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente.
Il limite da non superare, pertanto, sia per il fondo per il salario accessorio dei dipendenti che per quello inerente la retribuzione di posizione e di risultato dei dirigenti, è rappresentato dall'importo costituito, per le stesse finalità, nell'anno 2015.
Il precitato comma ha reintrodotto anche la riduzione proporzionale al personale cessato. Riprendono vigore, quindi, i metodi, entrambi riconosciuti come validi dalla Corte dei conti, per il calcolo della decurtazione: quello della riduzione «per rateo» e quello della «media mediata».
Resta di difficile interpretazione l'ultima parte del comma in esame, laddove mitiga questa riduzione in considerazione del personale «assumibile».
Non si dovrà tener conto delle cessazioni, se queste saranno state effettivamente sostituite, oppure si potrà considerare il personale astrattamente reclutabile? Sicuramente non mancheranno interventi chiarificatori, ci si auspica, possibilmente, uniformi (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Mail, no a controlli indiscriminati. Si può superare la segretezza se è vietato l’uso personale della posta aziendale.
Privacy e lavoro. Per la Corte dei diritti dell’uomo deve essere esclusa la legittimità di indagini massive.

La rilevanza mediatica della sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto legittimi i controlli del datore di lavoro sulle e-mail aziendali è molto superiore rispetto ai risvolti pratici che la decisione potrà avere nel nostro ordinamento.
La pronuncia, infatti, non legittima affatto controlli indiscriminati sulla posta dei dipendenti ma si limita a ribadire principi già ampiamente vigenti nel nostro ordinamento e codificati nelle linee guida elaborate sin dal 2007 del Garante Privacy e nello Statuto dei lavoratori (modificato di recente nel Jobs Act).
Ma andiamo con ordine, cercando di riepilogare innanzitutto cosa dice la sentenza. La Corte ha riconosciuto l’applicabilità nei confronti delle comunicazioni via e-mail delle tutele previste dalla Convenzione dei diritti dell’uomo per tutto quanto concerne la riservatezza della vita privata; è stata ammessa, tuttavia, la possibilità di superare questa tutela rinforzata, in presenza di alcune condizioni molto stringenti.
La prima condizione è che l’utilizzo per scopi personali dello strumento informatico fornito dall’azienda sia espressamente vietato dal datore di lavoro. Questo elemento è essenziale in quanto -come ribadito anche dalle linee guida del Garante privacy italiano- se esiste una “aspettativa di segretezza” delle comunicazioni veicolate dal dipendente con la posta aziendale, nessun controllo da parte del datore di lavoro è lecito.
La seconda condizione individuata dalla sentenza riguarda la proporzionalità del controllo. È da escludere -secondo i giudici di Strasburgo, ma anche secondo le norme e le prassi vigenti in Italia- la legittimità di controlli massivi, attivati in assenza di un motivo specifico o comunque eseguiti in maniera troppo estesa rispetto alle finalità che si perseguono.
Questi concetti sono pienamente compatibili con le regole che governano nel nostro Paese la questione: tali controlli sono legittimi (e i relativi risultati possono essere utilizzati a fini disciplinari) solo a condizione che gli strumenti informatici non siano coperti da un’aspettativa di segretezza (il Garante privacy ritiene che si debba rimuovere tale aspettativa mediante apposite policy aziendali), e all’ulteriore condizione che le indagini siano effettuate in maniera lecita e proporzionata.
Il Jobs Act non ha modificato tale impostazione e, anzi, ha introdotto (nell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori) una tutela ulteriore per i dipendenti, stabilendo che i dati acquisiti tramite i controlli a distanza sono utilizzabili ai fini disciplinari solo se è stata data comunicazione scritta, mediante l’informativa prevista dall’articolo 13 del Codice privacy, della modalità con cui saranno trattati i dati personali. Inoltre, la sentenza di Strasburgo esamina solo il tema della legittimità del controllo, mentre nulla dice in merito alla congruità della sanzione comminata al lavoratore (il licenziamento) che ha dato origine alla controversia.
La sentenza, quindi, non è destinata a rivoluzionare le regole esistenti; la sua rilevanza mediatica può, tuttavia, avere l’effetto positivo di sensibilizzare l’attenzione verso un tema troppo spesso sottovalutato. Le aziende dovrebbero trarre spunto dalla pronuncia per verificare l’adeguatezza delle proprie policy rispetto agli standard richiesti dalla normativa, verificando prima di ogni cosa se sono state adottate linee guida che affermano in maniera chiara il divieto di utilizzo degli strumenti aziendali per scopi personali.
I lavoratori dovrebbero invece prendere coscienza del fatto che tutti gli strumenti informatici aziendali possono teoricamente essere controllati dal datore di lavoro (nei limiti sopra descritti), e che questo rischio si può evitare mediante piccoli e semplici accorgimenti (ad esempio, l’apertura di una casella di posta personale per tutte le comunicazioni extra lavorative)
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2016).

APPALTI: Più trasparenza negli appalti. Gare digitalizzate, ribassi attenuati, Anac rafforzata. Oggi il senato dà il via libera definitivo alla delega che prevede la riforma del Codice.
Più trasparenza negli appalti pubblici e lotta alla corruzione con il rafforzamento dei poteri dell'Anac; abrogata la legge obiettivo, insieme all'attuale codice dei contratti –che andrà riformato– e al suo regolamento attuativo, sostituito da linee guida approvate con decreto ministeriale; gli appalti saranno aggiudicati valutando il migliore rapporto qualità/prezzo e non si potrà utilizzare il prezzo più basso per i servizi intellettuali; la Pubblica amministrazione sarà indirizzata sulle funzioni di programmazione e controllo e si avvierà un profondo processo di digitalizzazione delle procedure di appalto.

Sono questi alcuni dei punti dei 73 criteri direttivi contenuti nel disegno di legge delega sugli appalti di recepimento delle direttive su appalti e concessioni e di riforma del codice degli appalti pubblici (Atto Senato 1678-B) che sarà approvato definitivamente oggi dal Senato, dopo l'emissione del parere della Commissione bilancio.
La commissione aveva infatti eccepito alcuni profili di criticità dal punto di vista della copertura finanziaria, ma alla fine ha reso un parere non ostativo con alcune raccomandazioni indirizzate, nei fatti, al legislatore delegato al fine di evitare impatti sulla finanza pubblica derivanti, ad esempio, dalla riforma della garanzia globale di esecuzione o dell'applicazioni di sanzioni per il ritardo nelle comunicazioni delle varianti all'Anac, l'Authority anticorruzione.
L'articolato è lo stesso di quello varato dalla Camera e quindi viene a sua volta confermata la duplice strada per attuare la delega: un decreto unico entro aprile 2016 (di recepimento e di riforma del codice), o due decreti delegati, uno per attuare le direttive Ue entro il 18.04.2016 e un altro per riformare il codice dei contratti pubblici, riordinando tutta la materia, entro il 31.07.2016).
Fra le diverse e numerose novità del testo, che introduce anche il cosiddetto débat public per la gestione del consenso per le grandi infrastrutture, va citata la norma che prevede una riallocazione delle funzioni delle pubbliche amministrazioni verso attività di programmazione (supportata da accurati studi di fattibilità) e controllo e l'esclusione dell'applicazione degli incentivi alla progettazione interna della p.a..
In particolare viene destinata una somma non superiore al 2% dell'importo posto a base di gara alle attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alle fasi della programmazione degli investimenti, della predisposizione dei bandi, del controllo delle relative procedure, dell'esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei lavori e dei collaudi.
Importante è anche la modifica della disciplina dell'appalto integrato che dovrà essere limitato nella sua applicazione e non utilizzabile mettendo a base di gara il progetto preliminare. L'appalto integrato sul progetto definitivo andrà limitato prevedendo il ricorso a tale tipo di appalto in relazione al contenuto innovativo o tecnologico delle opere oggetto dell'appalto o della concessione e in rapporto al valore complessivo dei lavori.
Per quel che riguarda la disciplina delle concessioni, il testo prevede l'obbligo di affidamento a terzi, senza ricorso a società in house, per una percentuale pari all'80% (con il restante 20% in house) non solo dei lavori ma anche dei servizi e delle forniture. È previsto il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici, quali quelli di modellazione elettronica e informativa per l'edilizia e le infrastrutture (lett. oo); viene pertanto favorito l'utilizzo delle tecnologie Bim (Building information modeling).
Per l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e di tutti i servizi di natura tecnica, si prevede l'utilizzo del criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa e l'esclusione del prezzo più basso che, per gli altri appalti sarà comunque molto limitato. Fondamentale il rafforzamento delle funzioni dell'Anac che dovrà gestire anche l'albo delle stazioni appaltanti. L'Autorità presieduta da Raffaele Cantone in particolare avrà «anche poteri di controllo, raccomandazione, intervento cautelare e sanzionatorio, nonché di adozione di atti di indirizzo quali linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile, anche dotati di efficacia vincolante».
Non verranno ammesse procedure in deroga al codice dei contratti pubblici, fatta eccezione per «singole fattispecie connesse a particolari esigenze collegate a situazioni emergenziali. Sarà rivista complessivamente la disciplina delle garanzie e si prevede l'abrogazione delle disposizioni in materia di sistema di garanzia globale di esecuzione (performance bond) e per gli appalti in corso la sospensione dell'applicazione delle medesime disposizioni.
Prevista anche la piena accessibilità, visibilità e trasparenza, anche in via telematica agli atti progettuali; ciò allo scopo di consentire un'adeguata ponderazione dell'offerta da parte dei concorrenti, nonché tutele per i subappaltatori, con il pagamento diretto da parte della stazione appaltante. L'istituto del soccorso istruttorio (per la sanatoria di irregolarità nel corso della gara) dovrà essere sempre possibile sulle irregolarità formali, ma senza applicazione di sanzioni (articolo ItaliaOggi del 14.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Addio bollettino. Si paga da luglio con la bolletta. CANONE RAI/ Comunicato con l'Agenzia entrate.
Niente più bollettino Rai da pagare entro il 31 gennaio: il canone verrà addebitato nella bolletta elettrica della casa di residenza a partire dal prossimo mese di luglio, a prescindere dalla persona a cui è intestata.

Lo hanno ricordato ieri l'Agenzia delle entrate e la Rai con un comunicato congiunto (si veda quanto anticipato su ItaliaOggi di ieri).
Il canone, si spiega nella nota, per effetto della legge di Stabilità 2016 (208/2015) è dovuto una sola volta, per ogni famiglia o per gruppo di persone residenti nella stessa casa. Per tutte le altre abitazioni non ci sarà inoltre alcun addebito.
In virtù dell'addebito nella bolletta elettrica, inoltre, scompare anche il rischio di dimenticare il versamento e di incappare nelle sanzioni per il ritardato pagamento. L'importo per il 2016 è stato ridotto a 100 euro, diviso in rate e comincerà ad essere integrato appunto nella bolletta elettrica di luglio. Per qualunque dubbio o chiarimento è sempre possibile consultare il sito www.canone.rai.it.
Per permettere a tutti di conoscere le nuove regole, su tutti i canali della Rai viene inoltre trasmesso a partire da ieri uno spot che illustra le modalità della nuova normativa. La Rai sta inoltre lavorando per attivare nei prossimi giorni un Numero Verde gratuito con cui spiegare ai cittadini tutti i dubbi sul nuovo canone (articolo ItaliaOggi del 14.01.2016).

APPALTI: Riforma appalti al traguardo: oggi l’ok del Senato. Contratti pubblici. Delrio: stagione nuova.
La riforma degli appalti diventa realtà.
A oltre un anno dalla presentazione in Parlamento arriverà probabilmente già stamattina in Senato il via libera definitivo alla delega che punta a rivoluzionare i contratti pubblici
(Atto Senato 1678-B). Un sistema che muove 101 miliardi all'anno (dati Anac 2015) e che nei mesi scorsi è stato più volte al centro delle attenzioni della magistratura, con le inchieste sull'Expo, il Mose e Mafia Capitale, solo per citare i casi più noti. «Gli appalti valgono il 15% del Pil -ha sottolineato il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio- questa riforma apre una nuova stagione per l’economia e la credibilità del Paese».
Ieri l’Aula del Senato ha avviato la discussione sul provvedimento (che raccoglie consensi anche all'opposizione), con qualche fibrillazione, anche legata al caso Quarto, con il Movimento Cinque Stelle che in prima lettura aveva deciso per l'astensione. Oggi invece sono previsti il parere (non ostativo) della commissione Bilancio e le votazioni (ma non si attendono ulteriori modifiche) sul testo tornato dalla Camera con oltre 40 correzioni rispetto a quello licenziato dal Senato a luglio 2015.
Un lavoro che ha arricchito un testo già molto articolato e ha portato a oltre 70 i criteri cui dovrà attenersi il Governo nell’attuare la delega. Senza peraltro poter contare su tempi lunghi. Il termine per recepire le tre direttive Ue che hanno dato il via all'operazione (23, 24 e 25/2014) scade il 18 aprile. Un traguardo che come ha ribadito ieri Delrio, il governo ha intenzione di rispettare, varando in un colpo solo il decreto destinato a recepire le direttive e a mandare in pensione il vecchio codice del 2006.
Il passaggio alla Camera non ha stravolto il cuore della riforma, che resta ancorato al ruolo centrale e a tutta una serie di nuovi poteri affidati all’Autorità Anticorruzione di Raffaele Cantone. Dal compito di qualificare le stazioni appaltanti alla tenuta di un albo dei commissari di gara. Gli atti dell’Autorità (delibere, bandi-tipo) diventeranno vincolanti. Senza contare che spetterà proprio all’Anac mettere a punto le linee guida di attuazione del nuovo codice, che poi saranno approvate con un decreto di Porta Pia.
«Questi nuovi poteri non sostituiranno i poteri di regolazione del ministero che restano -ha sottolineato Delrio-. Ma la corruzione è uno dei fattori che ha impedito di più la corretta esecuzione dei lavori e questo codice, semplificato, risponde in modo efficace all’esigenza di combattere il fenomeno».
Addio allora alle deroghe, paletti più severi sulle varianti e contratti secretati, recupero del ruolo centrale della progettazione, cancellazione del massimo ribasso, rating di reputazione per le imprese, superamento della legge obiettivo. «Questo testo -ha sottolineato Stefano Esposito, relatore e “padre” del provvedimento- cambierà radicalmente gli appalti in Italia: è una delle riforme principali per il Paese»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Controllabile la mail «aziendale». Il dipendente aveva usato a fini personali l’account creato per servizio clienti. Corte diritti dell’uomo. Possibile un’ingerenza di portata limitata - Il lavoratore era poi stato licenziato.
Il controllo della posta elettronica aziendale da parte del datore di lavoro è sì un’ingerenza nel diritto alla vita privata, ma è compatibile con la Convenzione dei diritti dell’uomo se di portata limitata.
È la Corte europea a scriverlo nella sentenza 12.02.2016 nel caso Barbulescu contro Romania. A rivolgersi a Strasburgo un cittadino rumeno, dipendente di una società privata che, su richiesta del datore di lavoro, aveva creato un account per rispondere ai quesiti dei clienti. Era sorta una controversia perché il datore di lavoro sosteneva che l’indirizzo mail era stato usato per fini personali. Di qui il licenziamento e poi, dopo i procedimenti dinanzi ai giudici nazionali, l’approdo a Strasburgo su ricorso del lavoratore.
Prima di tutto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che le mail rientrano nel diritto alla corrispondenza e, quindi, sono tutelate dall’articolo 8 della Convenzione che assicura il diritto al rispetto della vita privata, nella quale sono incluse telefonate e mail anche dagli uffici. Inoltre, a meno che non sia avvertito del contrario, il lavoratore ha una ragionevole aspettativa alla tutela della propria privacy tanto più che, nel caso di specie, non è stato chiarito se il datore di lavoro avesse avvisato il dipendente del controllo sulla posta elettronica e, quindi, sul trattamento dei dati.
Detto questo, però, la Corte valuta la proporzionalità dell’ingerenza, distinguendo tra l’account personale e quello aziendale. Nel caso arrivato a Strasburgo, l’account era stato attivato su richiesta dell’azienda ed è indiscutibile che il lavoratore sapesse che era proibito utilizzare computer e risorse aziendali per fini personali. Un elemento che fa propendere la Corte europea verso la legittimità dell’ingerenza nella vita privata del dipendente, tanto più che il datore di lavoro ha il diritto di verificare l’adempimento dei compiti professionali durante l’orario lavorativo.
Non solo: il datore di lavoro era entrato nell’account del lavoratore credendo che vi fossero comunicazioni con i clienti. Un elemento decisivo, per la Corte, che dà anche rilievo al fatto che l’azienda non ha controllato altri dati o documenti contenuti nel computer del dipendente. Segno della ragionevolezza e della proporzionalità dell’ingerenza. Inoltre, il lavoratore ha potuto rivolgersi ai giudici nazionali per verificare un’eventuale violazione della privacy e non ha spiegato perché ha utilizzato l’account aziendale per fini personali.
Per escludere, poi, la violazione della Convenzione, la Corte considera che durante il procedimento giurisdizionale nazionale sono stati utilizzati diversi accorgimenti per non svelare l’identità delle persone con cui il dipendente si era scambiato mail e il contenuto dei messaggi è stato diffuso in modo limitato, solo per dimostrare che non si trattava di attività professionali, senza che lo stesso contenuto sia stato determinante per il licenziamento. Di qui la conclusione di un giusto bilanciamento tra i diversi diritti in gioco
 (articolo Il Sole 24 Ore del 13.01.2016).

APPALTI: Commissari di gara a sorteggio. Procedure digitalizzate. E limiti al prezzo più basso. APPALTI/ Già pronta la bozza di decreto attuativo della delega (ormai in dirittura).
Commissari di gara scelti a sorteggio dopo la scadenza del termine per le offerte. Sempre con sorteggio si individueranno i metodi per la determinazione dell'anomalia delle offerte, al fine di evitare che queste siano calibrate per guidare la gara. Digitalizzazione delle procedure di appalto. Obbligatori entro il 2017 i metodi e gli strumenti di modellazione elettronica e informativa per l'edilizia e le infrastrutture. Forti limitazioni al prezzo più basso. Affidabili a terzi le attività di «committenza ausiliaria». Confermato il rinvio della normativa di dettaglio alle linee guida del ministero e dell'Anac, soprattutto per i contratti di rilievo nazionale.

E' quanto prevede la prima bozza del decreto attuativo del disegno di legge delega appalti messa a punto dalla Commissione ministeriale presieduta da Antonella Manzione, capo ufficio legislativo della presidenza del Consiglio che ha iniziato a lavorare ben prima della approvazione finale del disegno di legge delega che è approdato ieri in Aula e rispetto al quale dovrebbe arrivare oggi il parere della Commissione bilancio.
Se il disegno di legge delega è ormai consolidato e difficilmente verrà modificato (Atto Senato 1678-B), ben diverso è il discorso per la bozza della commissione ministeriale, un primo elaborato con molte norme «vuote» e qualche testo alternativo (ad esempio sulle centrali di committenza). L'articolato disciplina le procedure per gli appalti pubblici aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere, per i concorsi pubblici di progettazione e per le concessioni affidati sia nei settori ordinari che in quelli speciali (acqua, energia e trasporti) e al suo interno sono state inserite le disposizioni delle direttive europee del 2014 (n. 23, 24 e 25) e i riferimenti alle norme del codice dei contratti pubblici che ad esse si sovrappongono, oltre a diversi criteri di delega del disegno di legge.
La disciplina è applicabile ai contratti di rilevanza comunitaria, mentre per i contratti di rilievo nazionale viene recepita la norma di delega del disegno di legge relativa che richiama al rispetto dei principi (del Trattato e generali) di economicità, efficacia, tempestività, massima semplificazione e rapidità dei procedimenti, non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità, tutela della concorrenza, pubblicità e trasparenza. Per quanto non previsto nel decreto e per i contratti sotto soglia la bozza prevede un rinvio alle linee guida emanate dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dall'Autorità nazionale anticorruzione che sostituiranno l'attuale regolamento del Codice dei contratti pubblici (dpr 207/2010).
La presidenza del Consiglio manterrà una stretta vigilanza su tutta l'operazione di recepimento delle regole europee: viene infatti prevista una «Cabina di regia» con il compito di proporre atti di indirizzo per l'applicazione della normativa, effettuare una ricognizione sullo stato di attuazione del decreto e sulle difficoltà riscontrate dalle stazioni appaltanti nella fase di applicazione. Nella bozza viene dato forte impulso viene alla digitalizzazione delle procedure di appalto attraverso linee guida del Mit e dell'Anac, che dovranno prevedere anche l'interconnessione delle Pubbliche Amministrazioni per l'interoperabilità dei dati.
In attuazione dei criteri di delega si punterà molto anche sulla pubblicità e sul costante aggiornamento sul sito web della stazione appaltante degli atti di programmazione e delle procedure di affidamento. Si prevede che i commissari di gara, da individuare, come dice la delega, fra soggetti iscritti in un albo tenuto dall'Autorità nazionale anticorruzione vengano scelti tramite sorteggio dopo la scadenza del termine per l'invio delle offerte e il presidente della commissione sarà scelto fra i commissari sorteggiati. Sempre con sorteggio si individueranno i metodi per la determinazione dell'anomalia delle offerte, al fine di evitare che queste siano calibrate per guidare la gara.
Saranno affidabili a terzi le attività di supporto e di «committenza ausiliarie» fra cui la consulenza sullo svolgimento o sulla progettazione delle procedure di appalto e la preparazione delle procedure di appalto in nome e per conto della stazione appaltante interessata, oltre alla gestione delle procedure. Per le iniziative in project finance si prevede l'inserimento dei due criteri di delega previsti dal disegno di legge, il recepimento dei contenuti delle norme europee e dei criteri Eurostat (trasferimento del rischio operativo) e si aggiunge che l'Anac provvederà a garantire alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti aggiudicatori «il supporto tecnico necessario».
Una forte spinta viene data all'applicazione obbligatoria di metodi e strumenti telematici di modellazione elettronica e informativa per l'edilizia e le infrastrutture (Bim, Building information modeling), obbligatori a partire da sei mesi dall'entrata in vigore del decreto delegato. Viene recepita l'indicazione del disegno di legge e delle direttive europee a favore dell'utilizzo del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa come migliore rapporto qualità/prezzo (obbligatorio ed esclusivo per i servizi intellettuali), con contestuale limitazione dell'aggiudicazione al prezzo più basso (articolo ItaliaOggi del 13.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Canone Tv Nessun bollettino. Scadenze.
Sul canone Rai bollettini di gennaio in soffitta. Nessuna corsa a sanare eventuali situazioni di morosità per i contribuenti che hanno sempre pagato l'abbonamento alla televisione ma non sono intestatari della bolletta della luce.

Il canone Rai in bolletta è un capitolo che si aprirà a luglio e solo allora si darà il via alle procedure d'incasso del dovuto all'erario. Fino a quel momento, secondo gli esperti, nessun attacco di panico per i contribuenti iper diligenti e che non vogliono avere problemi con il fisco. Sarà necessario aspettare il decreto attuativo che darà forma e contenuto alle disposizioni della legge di stabilità (legge 208/2015).
La norma, infatti, stabilisce che il pagamento del canone avviene in dieci rate mensili addebitate sulle fatture emesse dall'impresa elettrica. Non prevedendo al momento alcun metodo alternativo al pagamento.
La disposizione però rinvia al decreto del ministero dello sviluppo economico e delle altre autorità da emanare entro marzo 2016 in cui saranno definiti termini e modalità della disciplina.
Inoltre sul sito della Rai al link http://www.abbonamenti.rai.it/Ordinari/faq.aspx  si trovano le risposte alle domande frequenti degli utenti.
Al quesito «riceverò il bollettino di pagamento» si risponde così: «No, il primo addebito nella fattura elettrica avverrà con la prima bolletta successiva al 01.07.2016».
Chi vuole specificare di non detenere la televisione, indicando quindi un altro contribuente come detentore dell'abbonamento, dovrà attendere il modello di dichiarazione emanato dall'Agenzia delle entrate.
Sarà infatti la banca dati dell'Agenzia a dover fare un primo censimento tra le famiglie anagrafiche italiane.
Mentre la procedura di rinnovo del canone non riguarda gli apparecchi a cui si applica il canone Rai speciale cioè gli esercizi pubblici. Per essi si continuerà con le procedure standard (articolo ItaliaOggi del 13.01.2016).

GIURISPRUDENZA

VARITruffa al Bancomat? La banca è responsabile. Ininfluente se il Pin è digitato in presenza di sconosciuti. Cassazione. L’istituto «paga» i mancati controlli anche se il cliente non blocca la carta.
La banca deve garantire la sicurezza del servizio bancomat per le manomissioni di terzi, anche quando il titolare della carta non la blocca immediatamente e non fa attenzione a nascondere il Pin quando lo digita.

La Corte di Cassazione - Sez. I civile, con la sentenza 19.01.2016 n. 806, ribalta un doppio verdetto sfavorevole al ricorrente, riconoscendo la fondatezza dei suoi motivi.
Il correntista della banca aveva tentato di eseguire un prelievo bancomat ma l’apparecchio, dopo aver trattenuto la carta, aveva visualizzato la scritta «carta illeggibile» seguita da «sportello fuori servizio». Un inconveniente che il cliente aveva segnalato al vicedirettore della filiale, che lo aveva invitato a passare il giorno dopo; consiglio seguito, senza però rientrare in possesso della carta, che non era stata trovata.
Trascorsi un paio di giorni il correntista si era accorto che dal suo conto erano stati prelevati circa 7mila euro, un “salasso” del quale aveva messo al corrente per iscritto il funzionario, aspettando però ancora 24 ore prima di denunciare il tutto all’autorità giudiziaria.
Per il Tribunale e per la Corte d’appello, il cliente è il solo responsabile di quanto accaduto. Lo “sprovveduto” correntista era stato vittima di una truffa da parte di uno sconosciuto che aveva prima manomesso il bancomat, poi si era avvicinato al ricorrente in difficoltà e con la scusa di aiutarlo aveva memorizzato il codice. Per i giudici di merito, a fronte di un comportamento così poco accorto -aggravato dal mancato blocco della carta- la banca non aveva colpe.
Di parere diverso la Cassazione, secondo la quale l’istituto di credito è venuto meno al suo dovere di diligenza professionale (articolo 1176, secondo comma, del Codice civile). Il vice direttore che ha raccolto la denuncia sul cattivo funzionamento del bancomat, invece di mettersi in allarme per la sottrazione della carta da parte dello sportello, ha rimandato il controllo al giorno successivo. Presenta profili di colpevolezza anche l’omessa verifica, attraverso il circuito delle telecamere, della manomissione del dispositivo da parte di terzi. Elementi che la Corte d’appello non doveva sottovalutare.
La Cassazione ricorda che in una caso come quello esaminato, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, i giudici dovevano verificare che l’istituto bancario avesse adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza. Per la Suprema Corte, «la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento e assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere».
Il Codice civile non precisa la misura della diligenza nelle obbligazioni relative all’esercizio di un’attività professionale: la valutazione, di carattere tecnico, va commisurata alla natura dell’attività e, in particolare, all’obbligo di custodia di uno strumento che è esposto al pubblico ed eroga denaro. La Corte d’appello dovrà ora tenere conto non solo di ciò che l’istituto non ha fatto, come il mancato esame delle telecamere, ma anche di ciò che ha fatto sbagliando, come l’ambigua indicazione di tornare il giorno dopo senza consigliare l’immediato blocco della carta.
Inoltre, la Corte aveva trascurato del tutto la questione di prelievo di molto superiore al plafond contrattuale: 7mila euro a fronte dei 2.500 consentiti
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2016).
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MASSIMA
Ai fini della valutazione della responsabilità contrattuale della banca per il caso di utilizzazione illecita da parte di terzi di carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere omessa, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, la verifica dell’adozione da parte dell’istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante l’intempestività della denuncia dell’avvenuta sottrazione da parte del cliente e le contrarie previsioni regolamentari; infatti, la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere (tratta da http://renatodisa.com).

SEGRETARI COMUNALI: Segretari enti locali. Concorsi Pa, no estensione deroghe.
I segretari dei Comuni e delle Province che si sono trasferiti in altre amministrazioni per processi di mobilità conclusi entro il 2004 non possono ottenere l’aggancio alla dirigenza, com’è stato previsto in seguito dall’articolo 1, comma 49, della Finanziaria per il 2005.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezz. unite civili, nella sentenza 19.01.2016 n. 784, che in questo modo chiude un contenzioso molto ricco sia davanti ai giudici di merito sia davanti a quelli di legittimità.
Il principio-guida, sottolinea la Cassazione, è quello dell’accesso per concorso alla Pa, che non permette interpretazioni estensive delle eventuali deroghe (articolo Il Sole 24 Ore del 20.01.2016).
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MASSIMA
64. In conclusione, in continuità con i tre precedenti di legittimità prima richiamati, deve affermarsi, il seguente principio di diritto: "
il comma 49 dell'art. 1 della legge 311 del 2004 non si applica alle procedure di mobilità dei segretari comunali e provinciali già concluse alla data di entrata in vigore di tale legge".

VARIIl comodato non vale per l’acquirente. Beni immobili. In caso di compravendita la situazione non è opponibile in quanto diritto personale di godimento.
In caso di compravendita di un bene immobile concesso in comodato, questa situazione non è “opponibile” all’acquirente, nel senso che questi può pretendere che il comodatario cessi immediatamente il godimento del bene e attribuisca all’acquirente la piena disponibilità della cosa concessa in comodato.
È quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 18.01.2016 n. 664.
Ai sensi dell’articolo 1803 del codice civile, il comodato è il contratto in forza del quale una parte (il comodante) consegna all’altra (il comodatario) una cosa mobile o immobile allo scopo di consentire a quest’ultima di servirsene per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.
In altri termini, il comodatario è titolare di diritto personale di godimento, con la conseguenza che si tratta di un diritto non opponibile all’avente causa del comodante nella titolarità del bene di cui il comodatario ha il godimento.
Il comodato è un contratto a titolo gratuito, nel senso che il comodatario non deve al comodante alcun corrispettivo per il godimento del bene oggetto del comodato. Il comodatario è comunque tenuto a custodire e a conservare con la diligenza del buon padre di famiglia il bene che gli è concesso in comodato: il comodatario può dunque utilizzarlo per l’uso stabilito nel contratto o per l’uso derivante dalla natura del bene stesso.
Il comodatario deve far restituzione della cosa concessagli in comodato entro il termine convenuto nel contratto; mancando un’indicazione espressa di questo termine, il bene va riconsegnato una volta che il comodatario se ne sia servito in conformità al contratto di comodato.
La legge comunque consente al comodante di domandare la restituzione della cosa concessa in utilizzo al comodatario anche prima dalla scadenza pattuita: infatti, qualora sopravvenga un urgente e imprevisto bisogno del comodante durante il decorso del termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, il comodante può pretendere la restituzione immediata della cosa concessa in comodato. Ancora, quando il comodato sia stato stipulato senza determinazione di durata, la legge impone al comodatario la restituzione a semplice richiesta del comodante.
A causa della menzionata sua natura di diritto personale di godimento, il diritto del comodatario non è dotato delle tipica caratteristica dei diritti reali, e cioè quella consistente nell’imprimersi sul bene che è oggetto del diritto per “seguirlo” in qualunque situazione esso si venga a trovare: ad esempio, se un dato bene sia gravato da un diritto di servitù o da un diritto di usufrutto, l’alienazione di quel bene non pregiudica l’esercizio di quella servitù o di quell’usufrutto, in quanto si tratta di diritti che, essendo impressi sul bene, si impongono a qualsiasi terzo che diventi titolare di quel bene.
Pertanto, se venga alienata una cosa che sia concessa in comodato, il comodatario non può far valere il proprio diritto verso il nuovo proprietario: questi può dunque pretendere che il comodatario cessi il suo utilizzo del bene e metta il nuovo proprietario nella condizione di poter pienamente disporre del bene in questione.
Né al comodato è applicabile l’articolo 1599 del codice civile che permette l’opponibilità all’acquirente della locazione di data certa anteriore alla compravendita: secondo la sentenza in commento, le norme della locazione non si rendono infatti applicabili al comodato
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.01.2016).
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MASSIMA
1.1. Il motivo è infondato.
Il contratto di comodato di un bene stipulato dall'alienante di esso in epoca anteriore al suo trasferimento non è opponibile all'acquirente del bene stesso, atteso che le disposizioni dell'art. 1599 c.c. non sono estensibili, per il loro carattere eccezionale, a rapporti diversi dalla locazione (Cass. 15.05.1991, n. 5454).
L'acquirente a titolo particolare della cosa data in precedenza dal venditore in comodato non può, quindi, risentire alcun pregiudizio dall'esistenza di tale comodato e ha, pertanto, il diritto di far cessare, in qualsiasi momento, a suo libito, il godimento del bene da parte del comodatario e di ottenere la piena disponibilità della cosa (Cass. 17.10.1992, n. 11424; Cass. 07.09.1966, n. 2343; Cass. 27.01.1964, n. 195; Cass. 13.09.1963, n. 2502).
Risulta evidente che l'inopponibilità all'acquirente del contratto di comodato stipulato prima della vendita dall'alienante e l'illegittimità dell'occupazione da parte del comodatario si pongono su piani diversi.
Pertanto, alla luce dei principi sopra ricordati, correttamente e senza incorrere in contraddizioni motivazionali, la Corte di merito, nel determinare l'inizio dell'occupazione illegittima del bene da parte del Comune, ai fini del risarcimento dei danni, ha correttamente fatto riferimento al momento in cui, con lettera ricevuta dall'Amministrazione comunale in data 22.12.2004, il Co. ha manifestato la sua volontà di disporre del bene acquistato, in quanto sola dalla predetta data l'occupazione del bene in questione da parte del Comune è diventata illegittima, in quanto effettuata invito domino.
Va peraltro rimarcato che la Corte di merito, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non considera la predetta lettera inviata all'Amministrazione Comunale come atto di messa in mora, ma esclusivamente come atto di manifestazione al comodatario della volontà dell'acquirente di voler disporre liberamente del bene.

PUBBLICO IMPIEGO: Grava sul lavoratore assente per malattia l’onere di dimostrare la compatibilità del lavoro nelle more svolto presso terzi con l’infermità denunciata, e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico­fisiche (onere probatorio rimasto nella specie non assolto), le relative valutazioni sono riservate al giudice del merito.
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I motivi, e segnatamente il secondo, sono parimenti inammissibili laddove mirano, ancora, ad un diverso apprezzamento dei fatti, in particolare circa la particolarità della patologia sofferta e la sua compatibilità con lo svolgimento di attività lavorativa non pesante. Essi sono poi infondati laddove non considerano che
sarebbe stato onere del lavoratore dimostrare la compatibilità dell'attività lavorativa svolta in favore di terzi con l'infermità determinante l'assenza dai lavoro con l'Associazione datrice di lavoro e col recupero delle energie lavorative (ex aliis, Cass. n. 4237/2015, Cass. 19.12.2000 n.15916).
Deve infine evidenziarsi l'inconferenza della giurisprudenza citata (in particolare Cass. n. 6375/2011), inerente lo svolgimento, da parte del lavoratore assente per malattia, dei normali atti della vita quotidiana con espressa esclusione dell'attività lavorativa presso terzi.
Parimenti inconferente risulta il richiamo alla sentenza n. 4237/2015 di questa Corte, contenuto nella memoria ex art. 378 c.p.c., che, oltre a ribadire che
grava sul lavoratore assente per malattia l'onere di dimostrare la compatibilità del lavoro nelle more svolto presso terzi con l'infermità denunciata, e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche (onere probatorio rimasto nella specie non assolto), ha ribadito che le relative valutazioni sono riservate al giudice del merito (Cass. 19.12.2000, n. 15916 cit.; Cass. 13.04.1999, n. 3647), riguardando peraltro il caso di lavoratore infortunato e non ammalato (laddove solo la malattia comporta, in via generale, una impossibilità di attendere all'attività lavorativa), ove era pacifico che l'attività lavorativa svolta durante la malattia presso terzi non avesse pregiudicato la sua guarigione (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 15.01.2016 n. 586).

CONSIGLIERI COMUNALIL’obbligo di astensione va verificato, in primo luogo, in relazione alla natura degli atti a carattere generale oggetto di deliberazione da parte dell’organo assembleare.
Secondo il chiaro dettato normativo di cui all’ultimo periodo del comma 2 art. 78 D.Lgs. 267/2000, l'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.

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Nel merito il ricorso non merita accoglimento per le considerazioni che seguono.
Quanto alla contestata violazione dell’art. 78 D.Lgs. 267/2000, ritiene il Collegio di poter condividere le argomentazioni ex adversis profuse dalla difesa del Comune resistente.
Nel caso in esame si ritiene che non sussistevano in specie ragioni oggettive per un obbligo di astensione dei consiglieri votanti nominalmente indicati nell’atto introduttivo.
Ed invero, l’obbligo di astensione va verificato, in primo luogo, in relazione alla natura degli atti a carattere generale oggetto di deliberazione da parte dell’organo assembleare. Secondo il chiaro dettato normativo di cui all’ultimo periodo del comma 2 art. 78 D.Lgs. 267/2000, l'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
Nel caso in esame non è revocabile in dubbio la natura del regolamento impugnato, avente certamente carattere generale in quanto conforma per tutto il territorio comunale le modalità di concessione del suolo pubblico e la tipologia degli arredi urbani collocabili sulle stesse aree.
I ricorrenti, tuttavia, non riescono a comprovare la sussistenza dell’ulteriore elemento previsto dalla norma appena richiamata, in presenza del quale scatta anche per gli atti di tal natura l’obbligo di astensione. In particolare, non è comprovata la sussistenza di una correlazione “immediata e diretta” tra il contenuto della delibera e gli specifici interessi del singolo consigliere o dei rispettivi parenti o affini entro il quarto grado.
Ed invero, come evidenziato dalla difesa del Comune resistente, nel ricorso, lungi dall’aver individuato quell’interesse specifico ed in correlazione immediata e diretta con l’approvando regolamento, i ricorrenti forniscono solo le indicazioni dei rapporti di parentele o affinità dei consiglieri ritenuti in presunta posizione di conflitto di interessi.
Si osserva, per altro, che la natura del provvedimento impugnato incide in modo omogeneo sull’intero territorio comunale quanto alle modalità concrete di occupazione di suolo pubblico da parte di esercenti attività commerciali (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 15.01.2016 n. 118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le associazioni di volontariato possono partecipare alle gare di appalto.
Alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e della giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGE 23.12.2009, causa C-305/08) la nozione comunitaria di imprenditore non presuppone la coesistenza dello scopo di lucro dell'impresa, per cui l'assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici.
Quanto, in particolare, alle associazioni di volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli appalti, ove si consideri che la legge quadro sul volontariato, nell'elencare le entrate di tali associazioni, menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa.
Esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese sociali", a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa.
Pertanto appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di lucro non sia elemento idoneo ad escludere, in via di principio, che il servizio di trasporto di urgenza e di infermi svolto dalle associazioni di volontariato sia da classificare nella categoria delle attività economiche in concorrenza con gli altri operatori del settore.
La esposta nozione di imprenditore, tra l'altro, risulta recepita anche dal Codice dei Contratti (DLGS n. 163/2006), che si riferisce all'imprenditore come "operatore economico" ammesso a partecipate alle gare per la realizzazione di opere e l'affidamento di servizi senza ulteriori specificazioni.
Pertanto, nel caso di specie, l'Associazione avendo i requisiti per partecipare alla gara aveva interesse a ricorrere sia avverso la parziale rettifica del bando e degli atti successivi sia avverso la propria conseguente esclusione dalla gara (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.01.2016 n. 116 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Abbandono di rifiuti lungo la strada.
L’art. 14 del codice della strada prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la circostanza che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale, "possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione”.
Sicché, è legittima l'ordinanza sindacale che ha ordinato all’ANAS s.p.a. la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti lungo il percorso extraurbano della Strada Statale n. ...7, previa caratterizzazione degli stessi, secondo la normativa vigente in materia, ripristinando lo stato dei luoghi e le matrici ambientali, ove necessario, entro il termine di gg. 30 dalla notifica.

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... per l'annullamento dell’ordinanza n. 21 del 29.09.2015 con cui il sindaco del comune di Cassano Irpino ha ordinato alla ricorrente di procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi dell'area su cui risulta abbandonato materiale inquinante e precisamente nel sottopaggio in corrispondenza del km 329+350 della strada SS. 7 in località Acquaviva;
...
Premesso che:
- con ordinanza n. 21 del 29.09.2015, prot. n. 3749, il Sindaco del Comune di Cassano Irpino ha ordinato all’ANAS s.p.a. la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti lungo il percorso extraurbano della Strada Statale n. 7, al Km 329+350, previa caratterizzazione degli stessi, secondo la normativa vigente in materia, ripristinando lo stato dei luoghi e le matrici ambientali, ove necessario, entro il termine di gg. 30 dalla notifica;
- con ricorso notificato il 19.11.2015 e depositato il successivo 27 novembre, l’ANAS chiedeva l’annullamento di tale ordine, per i seguenti motivi:
- violazione e falsa applicazione dell'art. 192, co. 3, d.lgs. n. 152/2006, ed in particolare della direttiva 2004/35 CEE con particolare riferimento al principio “chi inquina paga”, inesistenza del presupposto e difetto di motivazione, non essendo di per sé sufficiente il dato non controverso della proprietà dell’area interessata dall’abbandono di materiale di rifiuto anche particolarmente dannoso;
Considerato che il provvedimento qui gravato può trovare adeguato fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada –come giustamente eccepito dalla difesa della parte resistente– ed a cui può attingere comunque l’ordinanza contingibile ed urgente disposta dal Sindaco del Comune di Cassano Irpino per la semplice ed essenziale evenienza legata al fatto che i rifiuti in contestazione, di cui si ordina la rimozione all’ANAS, risultano collocati lungo il percorso extraurbano della Strada Statale n.  (dato in concreto affatto smentito dal ricorrente);
Considerato altresì che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada, intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri, perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo, poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori ecologici per le altre attività proprie della raccolta rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque interferenti, con il normale flusso della circolazione stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore della strada che […] può razionalmente ed efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle pulizie” (Cons. di Stato, IV, sent. n. 2677/2011, che conferma TAR Lazio, sent. n. 7027/2009, TAR Napoli, sent. n. 7428/2006 e TAR Basilicata n. 441/2010);
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se non da altra norma speciale che espressamente la privi della sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre, prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la circostanza che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale, "possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione” (TAR Salerno, II, sent. n. 330/2013, n. 1373/2015 e TAR Puglia Sede d Bari, Sez. III, n. 65 del 2015);
Ritenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni, che il ricorso è infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.01.2016 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nel reato di abuso di ufficio, l’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l’interesse pubblico come obiettivo primario.
In tema di abuso d’ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell’evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito.

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3. Sotto un primo profilo, deve essere rilevato come, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte,
ai fini del perfezionamento del reato di abuso d'ufficio non assume alcun rilievo, stante la sua natura di reato di evento, l'adozione di atti amministrativi illegittimi da parte del pubblico ufficiale agente, ma unicamente il concreto verificarsi (reale o potenziale) di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi atti a sé stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi (Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
Ne discende che
il delitto di abuso d'ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta (fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata che, in relazione alla condotta di un assessore comunale, consistita nell'assegnazione di un immobile di proprietà dell'ente per lo svolgimento di attività di ristorazione con delibera di giunta adottata senza il previo espletamento di procedure ad evidenza pubblica, aveva ritenuto integrato il reato omettendo di verificare se il soggetto assegnatario avesse o meno titolo a conseguire la disponibilità dell'immobile per condurre l'attività di ristorazione) (Sez. 6, n. 10133 del 17/02/2015 - dep. 10/03/2015, Scassellati e altro, Rv. 262800; Sez. 6, n. 1733 del 14/12/2012 - dep. 14/01/2013, Amato, Rv. 254208).
Secondo il principio della c.d. doppia ingiustizia, è, quindi, necessario che ingiusta sia la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto sia l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia, di tal che occorre operare una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza dell'illegittimità della condotta (Sez. 6, n. 35381 del 27/06/2006 Rv. 234832 Moro).
La violazione di legge cui fa riferimento l'art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione (Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia ed altri, Rv. 254124) rispetto alla quale si configura l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706).
Tirando le fila dei principi di diritto sopra rammentati,
la prova della integrazione del reato ex art. 323 c.p. non può esaurirsi nella verifica della violazione di legge, dunque dell'ingiustizia del mezzo adottato, stabilendo una erronea equivalenza fra lo strumento utilizzato ed il risultato-evento che l'incriminazione richiede per la sua consumazione, ma richiede altresì l'accertamento dell'evento di vantaggio ingiusto.
4. A tale insegnamento non si è conformato il Collegio torinese, là dove -contravvenendo ai principi appena ricordati- si è limitato ad argomentare in merito alla violazione del disposto dell'art. 122, comma 7, D.Lgs n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) [che facoltizza le stazioni appaltanti (nella specie il comune) ad utilizzare la procedura negoziata, con selezione dell'appaltatore operata mediante gara informale anziché con bando di gara, per l'assegnazione di lavori di importo complessivo inferiore a un milione di euro senza previo invito a presentare le offerte rivolto a dieci o cinque operatori economici (a secondo del valore dei lavori)] ed ha, di contro, omesso di verificare se la società assegnataria della convenzione avesse titolo per la gestione della bocciofila, id est sia configurabile un vantaggio ingiusto.
Verifica tanto necessaria nel caso di specie nel quale -come dichiarato dallo stesso imputato all'A.G. e dato atto dalla Corte distrettuale- già in passato l'amministrazione comunale aveva seguito un'analoga procedura in considerazione del fatto che, in paese, "vi è una associazione sola che si occupa del gioco delle bocce".
5. La decisione in verifica si appalesa lacunosa anche sotto il diverso profilo del dolo.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
nel reato di abuso di ufficio, l'uso dell'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo quando l'agente si rappresenta e vuole l'evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e  come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l'interesse pubblico come obiettivo primario (fattispecie relativa ad un sindaco che aveva rilasciato un'autorizzazione edilizia in violazione della normativa urbanistica sul risanamento del centro storico, allo scopo esclusivo di favorire il recupero di abitanti nella zona del borgo antico che si stava progressivamente spopolando con rischio di un definitivo abbandono) (Sez. 6, n. 708 del 08/10/2003 - dep. 15/01/2004, Mannello, Rv. 227280).
In tema di abuso d'ufficio, per la configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010 - dep. 27/01/2011, Marotta Rv. 249706).
Di tali principi di legittimità non ha fatto buon governo la Corte di merito,  nella parte in cui, nel confermare il giudizio di colpevolezza in merito al reato di cui al capo 1), ha omesso di esplicitare le ragioni sulla scorta delle quali sia possibile ritenere integrata una prova certa secondo il canone dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio" codificato all'art. 533 cod. proc. pen., che la volontà dell'imputato fosse orientata proprio a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale alla società "Jo.Cl.", e non piuttosto a perseguire in via esclusiva gli interessi della cittadinanza del piccolo comune di Buronzo a che il bocciodromo potesse continuare a rimanere aperto al pubblico (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 14.01.2016 n. 1332).

EDILIZIA PRIVATA: Il reato di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti (...in zone sismiche) ha natura di reato permanente, la cui consumazione si protrae sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con l’allegato progetto, ovvero non termina l’intervento edilizio.
La lesione dell’interesse pubblico tutelato ha carattere continuativo poiché, malgrado la scadenza del termine di legge, permangono pur sempre gli obblighi di informazione dell’autorità comunale, di presentazione dei progetti e di ottenimento dell’autorizzazione regionale, essendo anche oltre quel termine operante il precetto di agire e rilevante penalmente la protrazione dell’omissione e, inoltre, il protrarsi della lesione al bene giuridico protetto è imputabile ad una persistente condotta volontaria del soggetto, il quale continua a “produrre l’effetto” del reato sottraendosi al controllo dell’autorità competente.
Vi è un’intima correlazione tra la procedura di rilascio dei permesso di costruire e quella finalizzata al conseguimento dell’autorizzazione per l’edificazione in zona sismica: al preavviso è attribuita una funzione di controllo della progettazione e di primo atto di quel procedimento che, attraverso le successive fasi della presentazione dei progetti e del loro esame tecnico da parte degli uffici competenti, confluisce nel finale giudizio di eseguibilità dell’opera, atteso che senza l’acquisizione dell’autorizzazione regionale il permesso di costruire non potrebbe essere rilasciato, per la ragione che risulterebbe contraddittorio il riconoscimento della natura permanente (fino all’ultimazione dei lavori) del reato di costruzione in carenza del titolo abilitativo edilizio ed il disconoscimento, invece, della medesima natura al reato di costruzione in assenza di quella autorizzazione che si pone quale presupposto indefettibile del permesso di costruire.

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3.2. - Quanto al secondo motivo di doglianza, relativo alla prescrizione, deve preliminarmente essere affrontata la questione della natura istantanea o permanente degli illeciti di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 94. Sul punto, com'è noto, vi è stato un contrasto giurisprudenziale nell'ambito della terza sezione della Corte di cassazione.
3.2.1. - Il più recente filone giurisprudenziale (da ultimo sostenuto da sez. 3, 11.02.2014, n. 12235, rv. 258738; sez. 3. 04.06.2013, n. 29737, rv. 255823) ritiene che il reato di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti ha natura di reato permanente, la cui consumazione si protrae sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto, ovvero non termina l'intervento edilizio.
Si riprendono, in particolare, le osservazioni contenute nella precedente sentenza sez. 3, 17.02.2011, n. 17217, secondo cui «la lesione dell'interesse pubblico tutelato ha carattere continuativo poiché, malgrado la scadenza del termine di legge, permangono pur sempre gli obblighi di informazione dell'autorità comunale, di presentazione dei progetti e di ottenimento dell'autorizzazione regionale, essendo anche oltre quel termine operante il precetto di agire e rilevante penalmente la protrazione dell'omissione» e, inoltre, «il protrarsi della lesione al bene giuridico protetto è imputabile ad una persistente condotta volontaria del soggetto, il quale continua a "produrre l'effetto" del reato sottraendosi al controllo dell'autorità competente».
Secondo tale orientamento, vi è un'intima correlazione tra la procedura di rilascio del permesso di costruire e quella finalizzata al conseguimento dell'autorizzazione per l'edificazione in zona sismica: al preavviso è attribuita una funzione di controllo della progettazione e di primo atto di quel procedimento che, attraverso le successive fasi della presentazione dei progetti e del loro esame tecnico da parte degli uffici competenti, confluisce nel finale giudizio di eseguibilità dell'opera, atteso che senza l'acquisizione dell'autorizzazione regionale il permesso di costruire non potrebbe essere rilasciato, per la ragione che risulterebbe contraddittorio «il riconoscimento della natura permanente (fino all'ultimazione dei lavori) del reato di costruzione in carenza del titolo abilitativo edilizio ed il disconoscimento, invece, della medesima natura al reato di costruzione in assenza di quella autorizzazione che si pone quale presupposto indefettibile del permesso di costruire» (nello stesso senso, sez. 3, 25.06.2008, n. 35912, rv. 241093, e sez. 3, 05.12.2007, n. 3069/2008, rv. 238629; con riferimento alla normativa previgente, sez. 3, 19.03.1999, n. 7873, rv. 214501).
Se ne conclude che i reati previsti dai  richiamati artt. 93 e 94 e sanzionati dal successivo art. 95 del d.P.R. n. 380 del 2000, hanno natura di reati permanenti, in quanto il primo (art. 93) permane sino a quando chi intraprende l'intervento edilizio in zona sismica non presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto ovvero non termina l'intervento e, il secondo (art. 94), permane sino a quando chi intraprende l'intervento edilizio in zona sismica lo termina ovvero ottiene la relativa autorizzazione.
3.2.2. - Secondo un diverso, più risalente, orientamento (sostenuto, da ultimo, da sez. 3, 30.05.2012, n. 37060; sez. 3, 26.05.2011, n. 23656, Rv. 250487; sez. 3, 08.10.2008, n. 41854, Rv. 241383), il termine di prescrizione delle contravvenzioni di omessa denuncia di inizio lavori in zona sismica, e di esecuzione dei medesimi in assenza di autorizzazione, decorre dalla data di inizio dei lavori, attesa la loro natura istantanea. Si fa, in particolare applicazione del principio affermato dalle sezioni unite, con la decisione 14.07.1999, n. 18, rv 213933, sotto la vigenza della abrogata legge n. 64 del 1974, secondo cui: «I reati previsti dalla legge n. 64 del 1974, artt. 17, 18 e 20 (provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche) e consistenti nell'omissione della presentazione della denuncia dei lavori, e dell'avviso di inizio dei lavori, hanno natura di reati istantanei».
Tale orientamento è stato negli anni richiamato e condiviso da: sez. 3, 08.10.2008, n. 41858, rv. 241424; sez. 3, 08.10.2008, n. 41854, rv. 241383; sez. 3, 13.11.2003, n. 3351/2004, rv. 227396.
3.2.3. - Questo Collegio ritiene di dover aderire al primo degli orientamenti sopra richiamati, seguito nelle più recenti decisioni. Infatti, come da ultimo evidenziato nella sentenza n. 12235 del 2014,
la persistenza dell'offesa al bene giuridico tutelato deve essere mantenuta concettualmente distinta dall'apertura formale di un procedimento amministrativo e comunque dalla possibilità di un controllo postumo, attivate dall'adempimento tardivo del contravventore; con la conseguenza che la persistenza della condotta antigiuridica e la connessa protrazione della lesione all'interesse pubblico di vigilare sulla regolarità tecnica di ogni costruzione in zona sismica, sussistono anche se (anzi proprio perché) l'amministrazione competente non ha aperto un procedimento formale o non ha attivato alcun controllo.
3.2.4. - Ne discende, quanto al caso in esame, che il reato deve ritenersi prescritto, sia se si ritiene -come fa il ricorrente- che le opere siano state concluse nel giugno del 2008, sia se si ritiene -come fa invece il Tribunale- che le stesse si siano concluse nel giugno del 2009. L'ultimazione delle opere è infatti precedente rispetto alla trasmissione degli atti alla Regione e al rilascio della relativa autorizzazione (26.07.2011).
Il termine prescrizionale per le contravvenzioni, che è di cinque anni, a partire dall'entrata in vigore delle modifiche all'art. 157 c.p. e art. 161 c.p., comma 2, operate dalla legge n. 251 del 2005, applicabili ratione temporis ai fatti per cui si procede, è in ogni caso decorso alla data della pronuncia della presente sentenza (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.01.2016 n. 1145).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il contratto può essere rescisso in ogni momento. La Cassazione sugli accordi tra cliente e professionista.
Il cliente può recedere in qualunque momento dal contratto con il professionista anche se è previsto un termine minimo. Ciò a meno che una valutazione del contratto non faccia ritenere che le parti hanno inteso vincolarsi senza deroghe alla durata.

Lo ha sancito la Suprema Corte di Cassazione -Sez. II civile- che, con la sentenza 14.01.2016 n. 469, ha respinto il ricorso di un medico che chiedeva al cliente il risarcimento del danno per aver rotto il contratto prima dei due anni pattuiti.
Nulla da fare, dunque, per il sanitario, ingaggiato per un'attività di anamnesi e cura, che aveva fatto causa a un cliente al fine di ottenere il ristoro da recesso anticipato.
La seconda sezione civile ha infatti spiegato, in fondo alle interessanti motivazioni, che «in tema di contratto d'opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso ad nutum previsto in favore del cliente dal primo comma dell'art. 2237 cod. civ., dovendo verificarsi in concreto in base al contenuto del regolamento negoziale se le parti abbiano inteso o meno vincolarsi in modo da escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita».
Infatti, scrivono ancora i Supremi giudici, in tema di contratto di prestazione d'opera intellettuale, la previsione della possibilità di recesso ad nutum del cliente contemplata dall'articolo 2237 cod. civ., non ha carattere inderogabile e quindi è possibile che, per particolari esigenze delle parti, sia esclusa tale facoltà fino al termine del rapporto; l'apposizione di un termine a un rapporto di collaborazione professionale continuativa può essere sufficiente a integrare la deroga pattizia alla facoltà di recesso così come disciplinata dalla legge, nel senso che a tal fine non è necessario un patto specifico ed espresso.
Tuttavia, il giudice può stabilire la validità della deroga solo sulla base dell'interpretazione globale del contratto.
Di diverso avviso il Procuratore generale della Suprema corte di cassazione che aveva chiesto al Collegio di legittimità di accogliere il ricorso del professionista e di accordare lui il diritto al risarcimento del danno, oltre 200 mila euro (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTILa norma in questione [art. 38, comma 1, lett. f), dlgs 163/2006] "è costantemente interpretata dalla giurisprudenza, in combinato disposto con il comma secondo del medesimo art. 38, nel senso di imporre ai soggetti che concorrono per l’affidamento di contratti pubblici l’onere, a pena di esclusione, di dichiarare l’esistenza a proprio carico di pregresse risoluzioni contrattuali, ovvero, più in generale, di tutti i precedenti professionali dai quali desumere, secondo l’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione procedente, l’(in)affidabilità del concorrente.
Questi, in ossequio ai principi di lealtà, diligenza e buona fede che presiedono ai reciproci rapporti delle parti nella disciplina degli appalti pubblici, non può peraltro operare, in sede di domanda di partecipazione, alcun “filtro” sulle circostanze potenzialmente rilevanti ai fini delle valutazioni che incidono sulla sua moralità professionale ed affidabilità, trattandosi di valutazioni di esclusiva pertinenza della stazione appaltante: il giudizio di rilevanza di quelle circostanze non può, cioè, essere rimesso alla stessa parte interessata, che ne deve comunque fare dichiarazione in gara; e l’omessa dichiarazione di tali vicende comporta la sanzione dell’esclusione, stante l'impossibilità per l’amministrazione di effettuare le proprie valutazioni circa la possibilità o meno di ammettere alla gara l’impresa.
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L'omessa dichiarazione della precedente risoluzione contrattuale (nel caso di specie) determina la falsità della dichiarazione resa in proposito dalla società ricorrente e ne legittima, di per sé sola, l'esclusione.
In tal caso non c'è spazio per il "soccorso istruttorio" invocato nel ricorso perché "tale istituto può essere invocato in caso di dichiarazione incompleta, irregolare o addirittura mancante, non già nell’ipotesi –totalmente diversa– di una dichiarazione esistente, ma scientemente difforme dalla realtà".

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5) La causa va decisa seguendo il percorso argomentativo tracciato da questa Sezione nella sentenza 05.12.2014 n. 1990, pronunciata in relazione ad una vicenda analoga.
Come in quel caso, anche nella presente controversia si discute di un provvedimento di esclusione da una procedura concorsuale indetta da ANAS, disposto sulla base di un duplice ordine di motivi: la sussistenza di una causa ostativa ex art. 38, comma 1, lett. f), del codice dei contratti pubblici, connessa ad una precedente risoluzione contrattuale disposta da altra stazione appaltante e la falsa dichiarazione resa in proposito dal concorrente.
Come in quel caso, il Collegio ritiene decisivo per respingere il ricorso esaminare la questione relativa al secondo motivo di esclusione, di per sé sufficiente a legittimare l’adozione del provvedimento impugnato.
Il disciplinare di gara indicava al paragrafo I) i documenti che dovevano "essere inseriti, a pena di esclusione" nella "Busta A - Documentazione Amministrativa"; tra questi figurava una dichiarazione sostitutiva riguardante, tra l'altro: "j. di non aver commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate della stazione appaltante che bandisce la gara, né errore grave nell'esercizio della propria attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante. A tale specifico riguardo il concorrente elenca dettagliatamente tutti gli episodi per i quali le stazioni appaltanti (e quindi non solo ANAS spa) hanno rilevato ipotesi riconducibili alle fattispecie di cui all'art. 38, comma 1, lettera f), del DLgs 163/2006; tale elencazione deve essere operata, al fine di non incorrere nell'ipotesi di dichiarazione mendace, indipendentemente dalle controversia al riguardo insorte, dal loro esito e dal tempo in cui gli inadempimenti, le negligenze, gli errori e/o ritardi sono state formalmente contestate al concorrente".
Tale dichiarazione è stata resa in termini negativi da Ed.Mo. s.r.l., che dunque non ha fatto cenno alla risoluzione contrattuale disposta il 05/12/2013 da Autostrade per l'Italia s.p.a. per "un grave ritardo nell'esecuzione dei lavori dovuto esclusivamente a grave inadempimento dell'Appaltatore".
Detta risoluzione contrattuale è evidentemente riconducibile alla previsione di cui all’art. 38, comma 1, lett. f), posto che il "grave ritardo" e il "grave inadempimento" addebitati da A.S.P.I. all'odierna ricorrente integrano la "grave negligenza" a cui fa riferimento la disposizione citata (impregiudicato l'esito della causa pendente davanti al Tribunale di Roma); e dunque doveva essere dichiarata in sede di gara, a pena di esclusione, stante l’inequivoca previsione del disciplinare.
Come chiarito nella sentenza di questo TAR, sez. I, 30.03.2015 n. 545 la norma in questione "è costantemente interpretata dalla giurisprudenza, in combinato disposto con il comma secondo del medesimo art. 38, nel senso di imporre ai soggetti che concorrono per l’affidamento di contratti pubblici l’onere, a pena di esclusione, di dichiarare l’esistenza a proprio carico di pregresse risoluzioni contrattuali, ovvero, più in generale, di tutti i precedenti professionali dai quali desumere, secondo l’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione procedente, l’(in)affidabilità del concorrente. Questi, in ossequio ai principi di lealtà, diligenza e buona fede che presiedono ai reciproci rapporti delle parti nella disciplina degli appalti pubblici, non può peraltro operare, in sede di domanda di partecipazione, alcun “filtro” sulle circostanze potenzialmente rilevanti ai fini delle valutazioni che incidono sulla sua moralità professionale ed affidabilità, trattandosi di valutazioni di esclusiva pertinenza della stazione appaltante: il giudizio di rilevanza di quelle circostanze non può, cioè, essere rimesso alla stessa parte interessata, che ne deve comunque fare dichiarazione in gara (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. III, 05.05.2014, n. 2289; id., sez. V, 14.05.2013, n. 2610, e 15.03.2010, n. 1500); e l’omessa dichiarazione di tali vicende comporta la sanzione dell’esclusione, stante l'impossibilità per l’amministrazione di effettuare le proprie valutazioni circa la possibilità o meno di ammettere alla gara l’impresa (così Cons. Stato, sez. V, 21.06.2012, n. 3666)".
L'omessa dichiarazione della precedente risoluzione contrattuale determina dunque la falsità della dichiarazione resa in proposito dalla società ricorrente e ne legittima, di per sé sola, l'esclusione. In tal caso non c'è spazio per il "soccorso istruttorio" invocato nel ricorso perché "tale istituto può essere invocato in caso di dichiarazione incompleta, irregolare o addirittura mancante, non già nell’ipotesi –totalmente diversa– di una dichiarazione esistente, ma scientemente difforme dalla realtà" (così questa Sezione si è espressa nella sentenza 31.07.2015 n. 1133; cfr., nel medesimo senso, la già citata sentenza 05.12.2014 n. 1990).
6) Tanto basta per respingere il ricorso (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 13.01.2016 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni, prevale la graduatoria più vecchia. Cassazione. Regole Pa.
Nonostante il quasi blocco totale alle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, tengono banco alcune questioni collegate all’utilizzo delle graduatorie esistenti.
Con il turn-over al 25% e la situazione di stand-by per regioni ed enti locali impegnati nel riassorbimento dei dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta, lo scorrimento delle graduatorie non è certamente al primo posto nei pensieri degli operatori.
Eppure, qualche spazio assunzionale rimane, soprattutto se collegato all’utilizzo delle facoltà residue degli anni precedenti. E proprio perché avviare nuove procedure concorsuali comporta lunghi tempi di conclusione, l’attenzione viene riposta sull’utilizzo delle graduatorie a tempo indeterminato che, per ora, rimangono valide, per la quasi totalità delle amministrazioni, fino al 31.12.2016.
La sentenza 12.01.2016 n. 280 della Suprema Corte di Cassazione, Sez. lavoro, si è occupata di un’interessante questione: in caso di presenza di più graduatorie valide per il medesimo profilo, qual è quella da cui è necessario partire ai fini dello scorrimento?
I giudici ritengono che la regola generale, in linea con i principi di correttezza e buona fede, imparzialità e buon andamento di cui all’articolo 97 della Costituzione, sia quella di procedere utilizzando la graduatoria di data anteriore (la più “vecchia”), in quanto destinata a scadere per prima. Il criterio “cronologico”, quindi, è la naturale modalità di scelta, che potrà essere derogato solo in presenza di «circostanze di fatto o ragioni di interesse pubblico prevalenti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.01.2016).
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MASSIMA
6.- In primo luogo, va sottolineata l'erroneità della qualificazione, attribuita dalla Corte romana, del carattere di "norma di legge", all'art. 3, comma 2, del d.P.R. 30.03.2001, visto che come si desume dall'assenza del numero di raccolta e dal contenuto dell'atto non si tratta certamente di un atto dotato "forza di legge", ma di un provvedimento di carattere organizzativo generale volto a disciplinare la "Programmazione semestrale delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni" (come si legge nel titolo).
Deve anche essere ricordato che il testo del citato art. 3, comma 2, è il seguente: "2. Nell'attesa dell'espletamento dei concorsi per l'accesso alla qualifica di dirigente previsti dall'art. 28, comma 2, del citato decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, le amministrazioni che hanno formalmente comunicato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri i posti messi a disposizione per le relative procedure concorsuali, possono essere autorizzate alla copertura dei posti stessi, fino ad un terzo, mediante l'utilizzo delle graduatorie ancora vigenti di concorsi banditi direttamente dalle medesime."
Sicché è evidente che in esso non viene dettata alcuna disciplina per l'ipotesi, che viene qui in considerazione, della contemporanea esistenza presso la medesima Amministrazione di una molteplicità di graduatorie valide, ipotesi che, peraltro, rappresenta una anomalia (vedi, in tal senso: Cons. Stato, sez. V, 30.08.2004, n. 5636), in quanto può comportare uno spreco di risorse umane ed economiche da parte dell'Amministrazione.
7.- A ciò consegue che gli unici testi nei quali, all'epoca, erano previsti "indirizzi applicativi" per l'indicata ipotesi erano la Circolare della Funzione Pubblica 31.01.1992, n. 8498 (pubblicata sulla GU Serie Generale n. 49 del 28.02.1992 — Suppl. Ordinario n. 44) e la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 05.03.1993, n. 7 (pubblicata sulla GU n. 57 del 10.03.1993).
In particolare, in entrambe dette Circolari, si stabilisce —nei rispettivi articoli 2— che
le assunzioni di personale, ivi autorizzate, "avvengono attingendo a graduatorie di vincitori e di idonei di concorsi già espletati valide secondo le disposizioni vigenti nei singoli comparti" e che "in presenza di più graduatorie, le assunzioni avvengono utilizzando quelle di data anteriore".
8.- Del resto, deve essere considerato che l'applicazione dell'indicato criterio risponde alla stessa logica per cui, nel corso del tempo, a partire dall'art. 8 del testo unico degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10.01.1957, n. 3, come modificato dall'articolo unico, della legge 08.07.1975, n. 305) —in base al quale: "
Nel caso che alcuni dei posti messi a concorso restino scoperti per rinuncia, decadenza o dimissioni dei vincitori, l'Amministrazione ha facoltà di procedere, nel termine di due anni dalla data di approvazione della graduatoria, ad altrettante nomine secondo l'ordine della graduatoria stessa"— fino all'art. 35, comma 5-ter, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo attualmente vigente —secondo cui: "Le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale presso le Amministrazioni pubbliche rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi regionali"— è stato ampliato progressivamente il perimetro oggettivo di applicazione dell'istituto dello scorrimento, delineandosene il rapporto con le altre modalità di copertura dei posti vacanti, con l'intento di ridurre l'ambito della discrezionalità dell'Amministrazione nella scelta fra le diverse modalità di reclutamento, pur nel persistente riferimento al carattere "meramente eventuale" della copertura, che impedisce di configurare la procedura di scorrimento quale oggetto di un obbligo incondizionato dell'Amministrazione, direttamente collegato alla sopravvenuta vacanza del posto.
In tale percorso si collocano, come tappe intermedie:
a) l'articolo 15, comma 7, del d.P.R. 09.05.1994, n. 487, secondo cui le "graduatorie dei vincitori rimangono efficaci per un termine di diciotto mesi dalla data della sopracitata pubblicazione per eventuali coperture di posti per i quali il concorso è stato bandito e che successivamente ed entro tale data dovessero rendersi disponibili";
b) l'art. 91, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL), che ha previsto che "per gli enti locali le graduatorie concorsuali rimangono efficaci per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione, per l'eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione per i posti istituiti o trasformati successivamente all'indizione del concorso medesimo".

Peraltro, in tutte le menzionate norme generali l'allungamento del termine di validità delle graduatorie è stato principalmente finalizzato al contenimento della spesa, oltre che ad una migliore organizzazione della PA, anche nell'ottica di rispettare i vincoli di bilancio, sempre più stringenti, posti dall'Unione Europea, per il cui perseguimento, con la legge costituzionale 1 del 2012, è stato introdotto il principio del pareggio di bilancio come vincolo costituzionale, modificando gli artt. 81, 97, 117 e 119 della Carta.
Si è così arrivati al noto d.l. 31.08.2013, n. 101 (convertito con modificazioni dalla legge 30.10.2013, n. 125), emanato per razionalizzare le procedure assunzionali delle Pubbliche Amministrazioni, dopo la presa d'atto della imminente scadenza di centinaia di graduatorie, di cui ha prorogato la validità sino a tutto il 2016.
9.- È del tutto evidente che, in simile situazione,
la stessa compresenza di più graduatorie valide per il medesimo profilo e per la stessa Amministrazione rappresenta una situazione patologica ed è quindi certo che essa vada gestita in linea con i principi generali cui è stato ispirato l'anzidetto percorso normativo e, quindi, con la finalità di fare uso della procedura a scorrimento in modo da evitare —o comunque ridurre— l'evenienza della scadenza delle graduatorie.
Ne deriva che
il criterio —di buona amministrazione e, al contempo, di tutela del legittimo affidamento degli idonei inseriti nelle graduatorie— che maggiormente corrisponde ai suddetti obiettivi è quello della utilizzazione prioritaria delle graduatorie di data anteriore, come indicato nelle suddette Circolari, salva restando la discrezionalità della decisione della PA in ordine alla copertura delle vacanze.
Di tutto questo ha tenuto conto —fin da epoca risalente e quindi utile per la presente fattispecie—
la giurisprudenza amministrativa, che, con indirizzo consolidato, ha affermato la legittimità del principio indicato nelle suddette Circolari dell'utilizzazione prioritaria, fra più graduatorie, della graduatoria più antica, precisando che la scelta di seguire un criterio diverso deve essere effettuata in presenza di circostanze particolari che devono essere comunque esplicitate (fra le tante: Cons. Stato, sez. V, 22.08.2003 n. 4742; Cons. Stato, sez. V, 20.01.2004, n. 147; Cons. Stato, sez. V, 30.08.2004, n. 5636; Cons. Stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4484; Cons. Stato, sez. V, 28.09.2007, n. 4974; Cons. Stato, sez. III, 26.03.2013 n. 1692; Cons. Stato, sez. V, n. 5779 del 2002, nonché TAR Sicilia Catania, sez. I, sentenza n. 1966 del 2002; TAR Sicilia Catania, sez. III, sentenza n. 633 del 2002; TAR, Puglia Lecce, sez. II, 23.02.2010, n. 590; TAR Lazio, sez. I-bis, 13.03.2014, n. 2801; TAR Lazio, sez. III, il 19.10.2015, n. 11888).
10.- Di tale giurisprudenza, però, nella sentenza impugnata non si fa cenno così come neppure si considera l'importante sentenza 28.07.2011, n. 14, emessa dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nell'esercizio del potere nomofilattico attribuitole dall'articolo 99, comma 5, del codice del processo amministrativo, consistente nella possibilità di esprimere il principio di diritto nell'interesse della legge anche in caso di dichiarazione dell'irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità del ricorso, dell' estinzione del giudizio.
In particolare,
in tale sentenza il Consiglio di Stato:
a) ha esaminato la questione del rapporto tra le due diverse modalità di reclutamento del personale pubblico, rappresentate dalla utilizzazione dei candidati idonei, collocati in graduatorie concorsuali ancora efficaci, attraverso il meccanismo dello "scorrimento" e dalla la indiziane di un nuovo concorso;
b) di conseguenza, è stato chiamato a determinare se, in presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci, la decisione con cui l'Amministrazione avvia una nuova procedura selettiva debba essere sorretta da una puntuale e approfondita motivazione, volta a illustrare le ragioni della scelta e a giustificare il sacrificio delle posizioni giuridiche dei soggetti idonei.

Con lunga e articolata motivazione, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ha risolto tali problematiche affermando il seguente principio di diritto: "
in presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci, l'Amministrazione, se stabilisce di provvedere alla copertura dei posti vacanti, deve motivare la determinazione riguardante le modalità di reclutamento del personale, anche qualora scelga l'indizione di un nuovo concorso, in luogo dello scorrimento delle graduatorie vigenti".
11.- A tale conclusione il Consiglio di Stato è pervenuto anche attraverso il superamento della tesi fino ad allora dominante nella giurisprudenza amministrativa (tra le ultime: Cons. Stato, sez. V, 19.11.2009, n. 743; Cons. Stato, sez. V, 19.11.2009, n. 8369; Cons. Stato, sez. IV, 27.07.2010, n. 4911) secondo cui la determinazione amministrativa di indiziane di nuove procedure concorsuali, anche in presenza di graduatorie efficaci, essendo ampiamente discrezionale, non necessita di alcuna specifica motivazione, poiché è di per sé conforme alla regola tracciata dall'art. 97 della Costituzione.
Simmetricamente è stata considerata non condivisibile l'idea opposta, in forza della quale la disciplina in materia di "scorrimento" assegnerebbe agli idonei un diritto soggettivo pieno all'assunzione, mediante lo scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità di posti in organico.
Al riguardo si è sottolineato che nelle suddette circostanze l'Amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla copertura delle vacanze, ma deve comunque assumere una decisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabilire se procedere, o meno, al reclutamento del personale.
In altri termini,
resta ferma la discrezionalità dell'Amministrazione in ordine alla decisione relativa alla copertura del posto vacante, ma l'Amministrazione, una volta stabilito di procedere alla provvista del posto, deve sempre motivare sulle modalità prescelte per il reclutamento, dando conto, in ogni caso, della esistenza di eventuali graduatorie degli idonei ancora valide ed efficaci al momento dell'indizione del nuovo concorso.
E nel motivare l'opzione preferita,
l'Amministrazione deve tenere nel massimo rilievo la circostanza che l'ordinamento attuale afferma un "generale favore per l'utilizzazione delle graduatorie degli idonei", che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso.
In particolare,
anche la decisione di "scorrimento", poiché rappresenta un possibile e fisiologico sviluppo delle stessa procedura concorsuale, attuativo dei principi costituzionali, non può essere collocata su un piano diverso e contrapposto rispetto alla determinazione di indizione di un nuovo concorso. Infatti, entrambi tali atti si pongono in rapporto di diretta derivazione dai principi dell'art. 97 Cost. e, quindi, devono essere sottoposti alla medesima disciplina, anche in relazione all'ampiezza dell'obbligo di motivazione.
12.- Del resto, in termini generali, l'ampia portata dell'obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi —ormai saldamente acquisita nel nostro ordinamento, già in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990— è particolarmente rilevante nei casi in cui l'Amministrazione ha dinanzi a sé una pluralità di opzioni, le quali possono determinare costi economici ed amministrativi diversificati e quando deve comunque considerare le posizioni giuridiche di determinati soggetti, titolari di aspettative protette dall'ordinamento. Sicché il Consiglio di Stato considera non condivisibile l'argomento —sostenuto dall'Avvocatura Generale dello Stato, nel presente giudizio— secondo cui le decisioni organizzative dell'Amministrazione, comprese quelle con cui si indice un nuovo concorso, afferendo al "merito", non richiederebbero alcuna particolare motivazione, trattandosi di una tesi che trascura di considerare non solo il valore di principio dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, ma anche la circostanza secondo cui le opzioni compiute dal soggetto pubblico in questo ambito hanno importanti ricadute in termini di efficacia ed efficienza e incidono, comunque, sulle aspettative e sugli interessi dei soggetti idonei.
L'Adunanza Plenaria precisa che, parimenti,
per negare la sussistenza dell'obbligo di motivazione, non è pertinente il richiamo alla natura di atto generale del bando, poiché l'obbligo di motivazione non riguarda il contenuto delle disposizioni generali racchiuse in tale atto, bensì la determinazione con cui l'Amministrazione stabilisce la procedura per il reclutamento del personale.
13.- Da ultimo, il Consiglio di Stato precisa che l'affermazione di un dovere più stringente delle Amministrazioni di procedere prioritariamente allo scorrimento delle graduatorie, per la copertura dei posti vacanti, non incide sulla soluzione del problema concernente la qualificazione della posizione giuridica del concorrente idoneo, il quale contesti l'avvio di una nuova procedura concorsuale, né comporta riflessi sulla giurisdizione del giudice amministrativo.
In proposito viene richiamato il principio da tempo consolidato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte di cassazione secondo cui la contestazione della procedura di indizione di un concorso, fondata sull'affermazione di un "diritto allo scorrimento", si basa sulla deduzione non già di una carenza di potere dell'Amministrazione, ma di un vizio di violazione di legge, la cui cognizione spetta, in ogni caso, al giudice amministrativo.
Si ricorda, in particolare, l'articolata ordinanza 09.02.2009, n. 3055, delle Sezioni Unite, secondo cui la contrapposizione tra la tesi, che assegna all'Amministrazione un ampio potere di valutazione discrezionale e l'opinione secondo la quale la disciplina positiva obbliga l'Amministrazione a realizzare la semplificazione e l'economia connesse all'utilizzo delle graduatorie approvate in precedenza, escludendo senz'altro l'espletamento di nuove procedure, costituisce "un problema strettamente di merito, la cui soluzione, pertanto, non interessa la giurisdizione, atteso che, anche aderendo alla seconda delle tesi esposte, il provvedimento di apertura della procedura concorsuale risulterebbe affetto dal vizio di violazione di legge, non certo emanato in carenza di potere (ovvero nullo perché viziato da "difetto assoluto di attribuzione", ai sensi della legge n. 241 del 1990)."
14.- Da quanto fin qui si è detto si desume che, nella specie —a prescindere dalla definizione della natura delle richiamate Circolari, che peraltro non appaiono di tipo meramente interpretativo, quali quelle prese in considerazione da Cass. SU 09.10.2007, n. 23031— ciò che conta è che il decreto dirigenziale (d.d.g.) del 18.02.2001, con il quale è stato disposto di utilizzare a scorrimento contemporaneamente le graduatorie di tutti e tre i suindicati concorsi anziché di utilizzare per lo scorrimento soltanto la graduatoria di data anteriore (nella quale erano inseriti gli attuali ricorrenti), è da considerare viziato perché privo della motivazione necessaria a spiegare le ragioni per cui l'Amministrazione ha ritenuto di non privilegiare il criterio cronologico nell'uso delle graduatorie a scorrimento.
Tale criterio, infatti, oltre ad essere indicato dalle Circolari suddette che all'epoca erano l'unica fonte esistente per disciplinare l'ipotesi —patologica— della contemporaneità di più graduatorie valide nella stessa Amministrazione, per il medesimo profilo professionale, provenivano da autorità gerarchicamente sovraordinate rispetto a quella che ha emesso il citato d.d.g. e dettavano criteri generali volti a fare sì che tutti i casi singoli fossero trattati allo stesso modo tra loro, in linea con quanto stabilito dal legislatore nel processo di progressivo ampliamento del perimetro oggettivo di applicazione dell'istituto dello scorrimento, a partire dall'art. 15, comma 7, del d.P.R. 09.05.1994, n. 487.
Si tratta di una applicazione del generale obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi —saldamente acquisita nel nostro ordinamento, già in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, come si è detto— anche ai provvedimenti in tema di reclutamento del personale (con il sistema dello scorrimento delle graduatorie ovvero con quella della indizione di un nuovo concorso), di cui la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 28.07.2011, n. 14 e la successiva giurisprudenza amministrativa ad essa conforme hanno definito le ragioni, ma che, anche prima, era richiesto specialmente nell'ipotesi —che ricorre nella specie— di mancata utilizzazione del criterio cronologico, non solo espressamente previsto dalle Circolari suindicate ma anche maggiormente coerente con l'allungamento dei termini di validità delle graduatorie medesime e quindi maggiormente rispondente ai principi di cui all'art. 97 Cost., ma non per questo "cogente", potendo l'Amministrazione discostarsene, purché con adeguata giustificazione.
15.- Non va, del resto, dimenticato che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 310 del 2010, ha ribadito con forza che attraverso la motivazione —che è lo "strumento volto ad esternare le ragioni e il procedimento logico seguiti dall'autorità amministrativa"— si realizza l'esigenza di conoscibilità dell'azione amministrativa, che è intrinseca ai principi di buon andamento e d'imparzialità. Infatti, soltanto la motivazione può rendere accessibile e controllabile dagli stessi protagonisti —oltre che ed eventualmente dagli organi giurisdizionali— le modalità attraverso le quali gli organi amministrativi si sono attenuti all'obbligo di favorire un contraddittorio democratico e partecipativo con i soggetti coinvolti nei processi decisionali pubblici, che è essenziale per prevenire eventuali problemi derivanti dalla inevitabile penetrazione dell'attività amministrativa di tipo autoritativo negli spazi individuali dei singoli destinatari.
E il Giudice delle leggi —in più occasioni e, in particolare, nella citata sentenza n. 310 del 2010— ha anche affermato che, ai principi di pubblicità e di trasparenza dell'azione amministrativa, che caratterizzano il "giusto procedimento" introdotto dalla legge n. 241 del 1990, "va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stesse amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.; sul principio di pubblicità, sentenza n. 104 del 2006, punto 3.2 del Considerato in diritto)". Ed ha aggiunto che grazie alla motivazione —specialmente in caso di provvedimenti amministrativi a carattere discrezionale tanto più se dotati di indubbia lesività per le situazioni giuridiche dei soggetti che ne sono destinatari— si realizza la trasparenza della PA e si rende comprensibile ai cittadini, ma anche al giudice, il procedimento logico seguito dall'autorità amministrativa onde consentire la verifica della legittimità dell'atto emanato.
16. Detto questo, deve essere anche precisato che, in base ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. SU 11.07.1994, n. 6532; Cass. 14.01.2002, n. 332; Cass. 26.06.2006, n. 14728; Cass. 03.06.2015, n. 11487), al fine della disapplicazione, in via incidentale, dell'atto amministrativo, il giudice ordinario può sindacare tutti i possibili vizi di legittimità del provvedimento, quindi non solo l'incompetenza e la violazione di legge, ma anche l'eccesso di potere, di cui, per lo, giustizia amministrativa, l'inosservanza immotivata di Circolari del tipo di quelle che vengono qui in considerazione, costituisce una figura tipica.
Tuttavia è altrettanto pacifico che il giudice ordinario non abbia il potere di sostituire l'Amministrazione negli accertamenti e valutazioni discrezionali di merito che sono di sua esclusiva competenza.
Nella specie —come risulta confermato anche dalla citata sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato— il decreto dirigenziale di cui si tratta è un atto discrezionale della PA, che, per quel che qui rileva, si innesta in una fattispecie di tipo contrattuale, nel cui ambito si inseriscono le domande avanzate dai ricorrenti —in qualità di candidati utilmente collocati nella graduatoria finale del concorso a n. 17 posti di dirigente amministrativo indetto dal MIUR) pubblicata l'08.08.2000— riguardanti la pretesa al riconoscimento del diritto allo "scorrimento prioritario" della graduatoria del concorso da loro espletato, che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario perché con essa si fa valere, al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, il "diritto all'assunzione", senza che la contestazione investa l'esercizio del potere dell'Amministrazione di merito, cui corrisponde una situazione di interesse legittimo, la cui tutela spetta al giudice amministrativo ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 4.
Ne consegue che, alla rilevata illegittimità del d.d.g. del 18.02.2001 in argomento, non può conseguire la relativa disapplicazione.
17.- Tuttavia, quello che per il diritto amministrativo è il vizio —nella specie di eccesso di potere, come si è detto— derivante dalla mancata motivazione dell'atto e, in particolare dalla mancata giustificazione dell'omesso rispetto del criterio cronologico previsto dalle anzidette Circolari, nel rapporto privatistico nel quale si innesta il provvedimento amministrativo de quo tale vizio rileva come comportamento della PA non corretto, in quanto limitativo di posizioni di diritto soggettivo (il diritto allo "scorrimento prioritario" in argomento) dei destinatari dell'atto (e, in particolare, degli attuali ricorrenti) senza alcuna esternazione delle ragioni e del procedimento logico seguiti dall'autorità amministrativa al riguardo.
Questo —come si desume anche dalla richiamata sentenza costituzionale n. 310 del 2010, oltre che dalla giurisprudenza amministrativa— si traduce nella violazione dell'art. 97, primo comma, Cost. nonché del diritto di difesa dei destinatari dell'atto.
E comporta anche una violazione dell'art. 3 Cost., in quanto per effetto del suddetto atto si è venuta a creare una situazione particolare di assunzioni di personale governata da un criterio diverso da quello generale indicato dalle circolati de quibus, senza alcuna giustificazione.
Tutto questo, di conseguenza, si traduce nel mancato rispetto da parte della PA dei criteri generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., essendo stato leso, senza alcuna motivazione, il diritto dei ricorrenti allo "scorrimento prioritario" della graduatoria del concorso da loro espletato, sul quale potevano fare legittimo affidamento in qualità di idonei inseriti nella graduatoria più risalente tra quelle ancora valide al momento dell'emanazione del d.d.g. 18.02.2001 per posti di dirigente amministrativo del MIUR.
Ne deriva che la situazione prodottasi, ai fini del presente giudizio, è configurabile come inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre un danno risarcibile
(arg. ex: Cass. SU 23.09.2013, n. 21671).

APPALTI: Prima dell'aggiudicazione definitiva non essendovi alcuna posizione consolidata dell'impresa concorrente l'Amministrazione ben può provvedere all'annullamento o alla revoca dell'aggiudicazione provvisoria in favore di un concorrente.
L'aggiudicazione provvisoria quale atto che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara non costituisce provvedimento conclusivo del procedimento, facendo nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso.
Pertanto detta aggiudicazione, al contrario di quella definitiva, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita, ed alla Stazione appaltante è quindi riconosciuta la possibilità di procedere alla sua revoca o al suo annullamento ovvero, ancora, di non procedere affatto all'aggiudicazione definitiva.
Ne consegue che l'adozione di un provvedimento di autotutela con riguardo all'aggiudicazione provvisoria, proprio in quanto atto endoprocedimentale, non richiede l'inoltro agli interessati di specifica comunicazione di avvio del procedimento e quindi non postula la loro partecipazione al relativo procedimento, essendo sufficiente la comunicazione del provvedimento finale.
In altri termini, prima dell'aggiudicazione definitiva -non essendovi alcuna posizione consolidata dell'impresa concorrente- l'Amministrazione ben può provvedere anche in via implicita all'annullamento o alla revoca dell'aggiudicazione disposta in via provvisoria in favore di un concorrente, senza che sussista l'obbligo di attivare una specifica partecipazione procedimentale con quest'ultimo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.01.2016 n. 67 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono, il comune deve approfondire. Il Cds sul rifiuto per un'installazione tardiva.
Non basta accertare che un termoconvettore è stato installato tardivamente per rigettare la richiesta di condono edilizio. Per rifiutare il beneficio occorrono infatti indicazioni più precise sull'effettiva abitabilità del manufatto prima del 31.12.1993.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 11.01.2016 n. 54.
Un utente ha trasformato abusivamente una cantina in un monolocale presentando domanda di condono edilizio e dichiarando che tutti i lavori sono stati effettuati prima del 31.12.1993. Il comune ha rigettato la richiesta evidenziando carenze documentali e indicazioni verbali generiche di alcuni vicini di casa. Ma anche accertando che successivamente a quella data l'interessato avrebbe installato nell'abitazione un termoconvettore.
I giudici di palazzo Spada hanno censurato questa decisione. Dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio, specifica il collegio, risulta evidente che l'immobile in questione aveva una propria autonomia strutturale già alla data del 31.12.1993. Non è sufficiente il successivo sopralluogo dei vigili che nel 1995 hanno riscontrato il montaggio in corso di un termoconvettore per inficiare questa dichiarazione, prosegue la sentenza.
La questione avrebbe dovuto essere meglio approfondita eventualmente acquisendo agli atti specifiche dichiarazioni di testimoni in grado di chiarire definitivamente se il locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993 (articolo ItaliaOggi del 19.01.2016).
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MASSIMA
5. Nel merito, l’appello è fondato.
Dall’esame del provvedimento impugnato e dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio, risulta che l’immobile in questione –alla data del 31.12.1993- aveva una propria autonomia strutturale.
I lavori eseguiti nel corso del 1995 hanno riguardato la separazione dell’impianto idraulico e di quello di riscaldamento, rispetto a quelli già esistenti nell’unità immobiliare principale rimasta in proprietà dell’attuale appellante e non venduta, a differenza dell’immobile in questione.
Il diniego di condono ha attribuito rilevanza decisiva agli esposti dei condomini (il primo dell’11.08.1995), i quali hanno lamentato il fatto che erano allora in corso i lavori di allacciamento dell’acqua e del gas, mentre la relazione di data 28.10.1995 della polizia municipale di Torrile si dà atto dello svolgimento di lavori idraulici relativi al montaggio di un termoconvettore.
Ritiene al riguardo la Sezione che l’istruttoria posta a base del diniego non risulta adeguata, come dedotto dall’appellante.
Gli accertamenti specifici posti in essere dal Comune hanno riguardato infatti unicamente il montaggio –dopo la data del 31.12.1993- del termoconvettore, i cui lavori di per sé sono compatibili con una precedente destinazione dell’immobile ad abitazione.
Gli esposti dei vicini, oggettivamente rilevanti e da valutare del corso del procedimento, non sono stati oggetto di un esame in relazione alla preesistente situazione di fatto.
In presenza della dichiarazione posta a base della istanza di condono e di risultanze di per sé inevitabilmente equivoche (perché si trattava di ricostruire quale fosse la situazione alla data del 31.12.1993), il Comune non avrebbe dovuto interpretare acriticamente il contenuto degli esposti nel senso più sfavorevole al richiedente, ma avrebbe dovuto chiedere ai sottoscrittori dell’esposto se alla data del 31.12.1993 il locale in questione fosse destinato a cantina o ad abitazione.
Il vizio di cui è affetto l’atto impugnato in primo grado è di inadeguata istruttoria, sicché –in sede di esecuzione della presente sentenza– il Comune dovrà rinnovare il procedimento:
a) con l’acquisizione in loco, ove sia possibile, delle dichiarazioni di coloro che erano a conoscenza delle circostanze (non solo di coloro che hanno sottoscritto l’esposto, ma se del caso anche di altri proprietari o residenti nell’edificio), allo scopo di chiarire se il locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993;
b) verificando comunque se il medesimo locale –oltre che ‘abitato’- era ‘abitabile’, e cioè se a quella data vi era quanto meno un servizio igienico e quant’altro vada considerato indispensabile perché vi fosse tale abitabilità.

In considerazione del fatto che è comunque onere del richiedente dimostrare la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per il condono (anche perché è del tutto logico che egli e non l’Amministrazione sia in possesso di elementi oggettivi circa l’ultimazione delle opere), in sede di rinnovazione del procedimento l’Amministrazione dovrà consentire all’interessato la produzione di ulteriori elementi (quali fatture, bollette, ricevute, ecc.) volti a ricostruire i fatti effettivamente accaduti e, in sede di conclusione del procedimento, dovrà complessivamente valutare l’esito dell’istruttoria.
6. Per le suesposte considerazioni, l’appello va accolto e, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado va accolto, con il conseguente annullamento dell’atto impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune.

EDILIZIA PRIVATA: Ok all'addestramento cani sui terreni a uso agricolo.
Se lo strumento urbanistico consente interventi connessi all'attività agricola, attività agrituristiche, realizzazione di servizi e attrezzature pubbliche o di uso o interesse pubblico, non c'è motivo alcuno per negare il diritto a esercitare, in zona agricola, l'attività di addestramento cani finalizzato alla cosiddetta pet-terapy anche a chi non è imprenditore agricolo.

Ciò in quanto, ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 05.01.2016 n. 6, la legge 349 del 93, che regolamenta l'attività di cinotecnica, non impone a colui che esercita l'attività di assumere necessariamente lo status di imprenditore agricolo.
Peraltro, precisa la sentenza, le norme tecniche nella loro formulazione letterale permettono gli interventi connessi all'attività agricola «contemplati dalla vigente legislazione», in tal modo effettuando un rinvio recettizio di tipo dinamico alle disposizioni normative vigenti, tra le quali acquistano rilevanza gli articoli 1 e 2 della sopraindicata legge 349/1996.
Con riferimento alla disciplina specifica che regolamenta l'attività cinotecnica, si è anche rilevato, nell'ambiguità della norma che semplicemente elenca le tre tipologie di attività (ossia allevamento, selezione e addestramento delle razze canine), non si possono ravvisare ragioni logiche per escludere la sua operatività nel caso di iniziative limitate al solo addestramento.
Se, in pratica, è ammessa l'attività in forma non imprenditoriale, è ipotizzabile che la specializzazione investa anche solo una delle tre fasi normativamente contemplate e che l'operatore effettui le prestazioni coinvolgendo gli animali che vengono di volta in volta condotti in loco dai rispettivi proprietari.
Peraltro, la cura delle patologie che affliggono talune persone mediante l'ausilio di animali ben può rientrare nella definizione di «servizi di interesse pubblico», adoperata dall'amministrazione per descrivere gli interventi ammessi nella zona ove la ricorrente intende svolgere l'attività (articolo ItaliaOggi del 14.01.2016).

APPALTICon l’interdittiva perdere l’appalto non è automatico. Tar di Pescara. Provvedimenti antimafia.
L’impresa colpita da interdittiva antimafia non può perdere in automatico l’appalto se il prefetto ne ha disposto la gestione «straordinaria e temporanea» limitata a garantire il «completamento dell’esecuzione del contratto» di interesse pubblico.
Il TAR Abruzzo-Pescara -sentenza 04.01.2016 n. 1– ha così annullato la rescissione di un contratto di gestione pubblica illuminazione decisa da un Comune contro una cooperativa -già oggetto di informativa antimafia (articolo 84, Dlgs 159/2011)- dopo la gestione straordinaria ordinata dal prefetto solo per completare i contratti in corso e ritenuti dai commissari più «urgenti e necessari» per valore e numero di addetti.
Ciò è previsto dalle misure anticorruzione della riforma Pa -articolo 32, Dl 90/2014- «anche nei casi in cui sia stata emessa dal prefetto un’informativa antimafia interdittiva e sussista l’urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici» e anche quando il Codice antimafia (articolo 94) consente alle stazioni appaltanti -in via eccezionale e motivata- di mantenere le ditte “indiziate” (opera quasi finita, fornitura essenziale all’interesse pubblico o fornitore non sostituibile presto).
Per il Comune, invece, l’annullamento del contratto era «doveroso» per le stesse norme, poiché per il «completamento» in gestione straordinaria occorreva «quantomeno un inizio di esecuzione materiale» e non come in questo caso «solo preliminari misure organizzative (…)».
Ritenendo tale tesi «arbitrariamente restrittiva», i giudici hanno spiegato che «il riferimento alla fase dell’esecuzione è da intendersi nel senso proprio giuridico come fase successiva a quella di stipula del contratto e non in quello meramente empirico di materiale inizio della prestazione che peraltro non è affatto contemplato dal legislatore (…)».
Il Tar ha poi chiarito che, al contrario di quanto detta il Codice in caso di interdittiva, nella gestione straordinaria «si tratta di una valutazione (…) rimessa al prefetto e mira a sterilizzare tale condizionamento mafioso, consentendo così una gestione da esso immune, che priva quindi le stazioni appaltanti del potere di recedere sulla base del mero presupposto dell’interdittiva (…)».
Il Tar sottolinea che «la norma mira principalmente a tutelare l’interesse pubblico alla prosecuzione del rapporto... già instaurato, senza gravare l’amministrazione dell’onere di espletare una nuova gara» e che l’appalto in esame, «manifestamente incluso» nella gestione straordinaria «per scelta» dei commissari (e da qui il motivo del ricorso contro il Comune), già solo per l’alta base d’asta (29 milioni) «rientra ampiamente nei parametri specificati dal prefetto per la selezion
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.01.2016).
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MASSIMA
2.- Il ricorso è fondato.
La tesi dell’Amministrazione deriva da una lettura arbitrariamente restrittiva dell’articolo 32 del d.l. n. 90 del 2014.
Quest’ultimo, al comma 10, dispone che le misure previste dal comma 1 (tra cui il potere del Prefetto di disporre “la straordinaria e temporanea gestione dell’impresa limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto ovvero dell’accordo contrattuale o della concessione”) si applicano anche nei casi in cui sia stata emessa dal Prefetto un’informativa antimafia interdittiva “e sussista l’urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero dell’accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici, ancorché ricorrano i presupposti di cui all’articolo 94, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 (…) Le stesse misure sono revocate e cessano comunque di produrre effetti in caso di passaggio in giudicato di sentenza di annullamento dell’informazione antimafia interdittiva (…) ovvero di aggiornamento dell’esito della predetta informazione ai sensi dell’articolo 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011 (…)”.
Secondo il Comune resistente, l’espressone “completamento dell’esecuzione del contratto” implicherebbe la necessità che vi sia stata quantomeno un inizio di esecuzione materiale dello stesso, cosa che nel caso di specie difetterebbe, atteso che l’impresa avrebbe attuato solo preliminari misure organizzative propedeutiche all’esecuzione.
L’errore di tale prospettazione è evidente, atteso che essa postula che la ratio della norma sia solo la tutela dell’impresa a continuare un appalto per il quale ha già iniziato l’esecuzione.
Viceversa,
la norma mira principalmente a tutelare l’interesse pubblico alla prosecuzione del rapporto contrattuale già instaurato, senza gravare l’Amministrazione dell’onere di espletare una nuova gara, e quindi mira a salvaguardare l’attuazione dei principi di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa.
Appare infatti rimessa al Prefetto l’individuazione degli appalti che è opportuno completare e la legge individua i criteri che quest’ultimo deve utilizzare per individuarli, vale a dire l’indifferibilità per la tutela di diritti fondamentali, la salvaguardia dei livelli occupazionali e dei bilanci pubblici.
Il riferimento alla fase dell’esecuzione è da intendersi nel senso proprio giuridico come fase successiva a quella di stipula del contratto e non in quello meramente empirico di materiale inizio della prestazione che peraltro non è affatto contemplato dal legislatore, che viceversa ha utilizzato espressioni del tutto generiche.

Nel caso di specie, il Prefetto di Modena, con il provvedimento del 21.05.2015, ha disposto la continuazione della gestione dell’impresa con riferimento “esclusivamente ai contratti pubblici di appalto ed alle concessioni di natura pubblica in corso di esecuzione ovvero di completamento e tuttora in essere, di cui la CPL C. è titolare”; il medesimo, inoltre, ha nominato i due commissari ed ha demandato agli stessi di eseguire preliminarmente una ricognizione di tutti i contratti pubblici di appalto e di tutte le concessioni di natura pubblica in corso di esecuzione o di completamento di cui l’impresa è titolare, escludendo quelli già revocati nel frattempo; ed ha poi disposto che gli stessi provvedessero a selezionare, tra tali contratti, quelli “la cui esecuzione o prosecuzione sia ritenuta urgente e necessaria, in considerazione dell’elevato importo dell’appalto e del considerevole numero di lavoratori dell’azienda impiegati”.
Nel caso in esame, appare evidente che i due commissari, agendo avverso l’annullamento dell’aggiudicazione, abbiano ritenuto di includere tra tali contratti anche quello in questione.
Del resto, già solo per il rilevante importo posto a base d’asta, lo stesso rientra ampiamente nei parametri specificati dal Prefetto per la selezione.
Appare altresì evidente che il Comune resistente ha annullato l’aggiudicazione e risolto il contratto solo successivamente al provvedimento prefettizio di nomina dei Commissari.
Non v’è pertanto alcun elemento che possa giustificare la pretesa dell’Amministrazione resistente di ritenere il contratto in disamina escluso dal provvedimento di gestione straordinaria, risultandovi invece il medesimo manifestamente incluso, per scelta dei Commissari nominati dal Prefetto ed in conformità dei criteri da questo specificati.
Né giova il riferimento al comma 3 dell’articolo 94 del d.lgs. n. 159 del 2011, il quale si limita solo a prevedere, nell’ambito della disciplina generale degli effetti dell’informativa interdittiva antimafia, la possibilità eccezionale di non procedere alla revoca o recesso dal contratto di appalto nel caso, tra l’altro, di opera in corso di ultimazione: “I soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell'interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.
Viceversa, le misure di gestione straordinaria dell’impresa hanno carattere distinto e speciale, in quanto mirano a contenere in radice l’interferenza mafiosa nell’impresa.
Quindi le due disposizioni sono tra loro autonome.
Più in particolare,
la facoltà di continuare il rapporto con imprese, nonostante il collegamento delle stesse con organizzazioni malavitose, prevista dall’articolo 94 del d.lgs. n. 159 del 2011, è ipotesi -data l'evidente ratio di pieno sfavore legislativo alle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici- remota e residuale, e dunque consentita al solo fine di tutelare l'interesse pubblico attraverso una valutazione di convenienza in relazione a circostanze particolari, quali il tempo dell'esecuzione del contratto o la sua natura, o la difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 197 del 2012); pertanto la stazione appaltante, mentre può richiamare l'informativa a supporto della decisione di risolvere il contratto, senza addurre particolari giustificazioni, ha viceversa il dovere di motivare adeguatamente nel caso in cui, nonostante la presenza di un inquinamento mafioso, l'interesse pubblico alla completa esecuzione del contratto è così pregnante da legittimare un'impresa sospetta ad effettuare lavori pubblici (Tar Napoli, sentenza n. 860 del 2014).

Nel caso di cui all’articolo 32 del d.l. n. 90 del 2014, viceversa, la valutazione non è rimessa alla Stazione appaltante e non riguarda la scelta se far completare o meno l’appalto ad un’impresa in cui sussistono infiltrazioni mafiose; si tratta di una valutazione che è viceversa rimessa al Prefetto e riguarda una misura che mira a sterilizzare tale condizionamento mafioso, consentendo così una gestione da esso immune, che priva quindi le stazioni appaltanti del potere di recedere sulla base del mero presupposto dell’interdittiva antimafia.
La situazione di impresa sottoposta a informativa positiva su infiltrazioni mafiose e quella di impresa sottoposta a gestione straordinaria non sono pertanto assimilabili, altrimenti sarebbe del tutto priva di ragione la funzione di quest’ultimo istituto, disciplinato dall’articolo 32 cit. del d.l. n. 90 del 2014.
Ne consegue vieppiù che la fattispecie in esame non può rientrare nell’ambito di applicazione della clausola di cui all’articolo 15 del contratto di appalto, invocato dalla stazione appaltante -in virtù della quale, in caso di accertamento positivo nella certificazione antimafia, ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, il contratto sarà risolto di diritto-.
La fondatezza del ricorso per i profili esaminati, priva di rilevanza la questione in ordine alla retroattività o meno del provvedimento del Prefetto di Modena, con il quale è stata successivamente accolta l’istanza di iscrizione della ricorrente negli elenchi dei prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a rischio mafioso.

APPALTI: Non sono assimilabili la situazione di impresa sottoposta a informativa positiva su infiltrazioni mafiose e quella di impresa sottoposta a gestione straordinaria.
La facoltà di continuare il rapporto con imprese, nonostante il collegamento delle stesse con organizzazioni malavitose, prevista dall'art. 94 del d.lgs. n. 159 del 2011, è ipotesi -data l'evidente ratio di pieno sfavore legislativo alle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici- remota e residuale, e dunque consentita al solo fine di tutelare l'interesse pubblico attraverso una valutazione di convenienza in relazione a circostanze particolari, quali il tempo dell'esecuzione del contratto o la sua natura, o la difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata; pertanto la stazione appaltante, mentre può richiamare l'informativa a supporto della decisione di risolvere il contratto, senza addurre particolari giustificazioni, ha viceversa il dovere di motivare adeguatamente nel caso in cui, nonostante la presenza di un inquinamento mafioso, l'interesse pubblico alla completa esecuzione del contratto è così pregnante da legittimare un'impresa sospetta ad effettuare lavori pubblici.
Nel caso di cui all'art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, viceversa, la valutazione non è rimessa alla Stazione appaltante e non riguarda la scelta se far completare o meno l'appalto ad un'impresa in cui sussistono infiltrazioni mafiose; si tratta di una valutazione che è viceversa rimessa al Prefetto e riguarda una misura che mira a sterilizzare tale condizionamento mafioso, consentendo così una gestione da esso immune, che priva quindi le stazioni appaltanti del potere di recedere sulla base del mero presupposto dell'interdittiva antimafia.
La situazione di impresa sottoposta a informativa positiva su infiltrazioni mafiose e quella di impresa sottoposta a gestione straordinaria non sono pertanto assimilabili, altrimenti sarebbe del tutto priva di ragione la funzione di quest'ultimo istituto, disciplinato dall'articolo 32 cit. del d.l. n. 90 del 2014 (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.01.2016 n. 1 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: I costi di sicurezza contano. Nei bandi.
Niente appalti senza costi di sicurezza interni. Deve essere esclusa dalla gara l'impresa che in sede di offerta economica non ha indicato gli oneri necessari a evitare gli infortuni, anche se un incombente del genere non risulta richiesto dal bando. E ciò perché si tratta di un precetto imperativo per qualsiasi tipo di procedura pubblica, quale che sia la posta in palio: lavori, servizi o forniture.

Lo ribadisce il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 30.12.2015 n. 5873.
Secondo palazzo Spada il principio secondo cui ogni impresa che partecipa a un appalto pubblico deve indicare gli oneri di sicurezza aziendali è un obbligo che integra «dall'esterno» la legge di gara: se non si adegua, dunque, l'azienda resta fuori dalla procedura benché il bando non preveda l'estromissione ad hoc (articolo ItaliaOggi del 13.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: L'impresa che non partecipa alla gara non può contestare la relativa procedura e l'aggiudicazione in favore di ditte terze: eccezioni.
In materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto e affidamenti di servizi, il tema della legittimazione al ricorso (o titolo) è declinato nel senso che essa deve essere correlata alla circostanza che l'instaurazione del giudizio non solo sia proposta da chi è legittimato al ricorso, ma anche che non appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto, pretese impossibili o contra ius.
L'impresa che non partecipa alla gara non può contestare la relativa procedura e l'aggiudicazione in favore di ditte terze; a tale regola generale va fatta eccezione, per esigenze di ampliamento della tutela della concorrenza, solamente in tre tassative ipotesi e cioè quando: si contesti in radice l'indizione della gara; all'inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo l'amministrazione disposto l'affidamento in via diretta del contratto; si impugnino direttamente le clausole del bando deducendo che le stesse siano immediatamente escludenti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.12.2015 n. 5862 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: È illegittimo disporre l'acquisizione gratuita, o, in ipotesi, effettuare questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è responsabile dell'abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell'ordine di demolizione. Essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una misura prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un'inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste conseguenze.
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di conoscenza, che presuppone la previa notifica del provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di inottemperanza.
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La presentazione dell'istanza di sanatoria dell'abuso edilizio determina l’obbligo dell’amministrazione di procedere prioritariamente all’esame della domanda di condono, paralizzando il corso dei procedimenti per l’applicazione delle misure repressive fino alla definizione dell’istanza di sanatoria.
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l’ottemperanza da parte dell’interessato.

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... per l'annullamento della determina dirigenziale n. 63026/14 del 29.04.2014 notificata il 07.05.2014 con la quale il Comune di Cercola ha dichiarato l'accertamento di inottemperanza all'ordinanza di demolizione n. 39 del 2005 e disposto l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere realizzate;
...
2.1. Deve il Collegio confermare la delibazione di fondatezza del ricorso già tratteggiata nella sede monitoria, in accoglimento del primo mezzo di gravame, con il quale il ricorrente deduce illegittimità della disposta ed impugnata acquisizione gratuita al patrimonio delle opere da lui realizzate, sostenendo che la presupposta ordinanza di demolizione n. 39/2005 è stata notificata solo alla comproprietaria signora Silvestro Raffaella, sua moglie, ma non anche a lui.
Ritiene al riguardo che l’omessa notifica del provvedimento di demolizione rende inapplicabile nei confronti dei comproprietari pretermessi la sanzione acquisitiva.
2.2. La doglianza è fondata, rispondendo ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell’irrogazione della sanzione dell’acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell’ordinanza di demolizione, l’inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l’irrogazione della sanzione acquisitiva.
Il Consiglio di Stato ha di recente suggellato l’orientamento che deponeva nei tratteggiati sensi (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 30.01.2014 n. 711; TAR Lazio–Roma, Sez. I–quater, n. 1788/2011; TAR Sicilia-Palermo, Sez. II 11.11.2014 n. 2783) avendo ribadito che “È illegittimo disporre l'acquisizione gratuita, o, in ipotesi, effettuare questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è responsabile dell'abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell'ordine di demolizione. Essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una misura prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un'inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste conseguenze” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.04.2015 n. 1927 ).
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di conoscenza, che presuppone la previa notifica del provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di inottemperanza.
In punto di fatto deve il Collegio valutare, ex artt. 64, co. 4, c.p.a. e 116 c.p.c., l’inerzia del Comune che non ha ottemperato all’ordine istruttorio disposto con ordinanza n. 4420/2015 (debitamente notificata al Comune a cura del ricorrente in data 21-23/09/2015), non depositando copia dell’ordinanza demolitoria così come notificata, nonché la ulteriore documentazione relativa alla domanda di condono prot. n. 18219/04.
Ragion per cui va ritenuta provata la dedotta circostanza della omessa notifica dell’ordinanza di demolizione al comproprietario ricorrente.
Il mancato adempimento da parte del Comune degli incombenti istruttori disposti con riferimento alla pendenza dell’istanza di condono induce a dar credito alle allegazioni del ricorrente anche riguardo alle censure con le quali si deduce la violazione degli artt. 38 e 44 della legge n. 47 del 1985 che contemplerebbero la sospensione dei procedimenti sanzionatori in pendenza della definizione delle domande di condono.
Al riguardo è da osservare che per il manufatto in questione risulta presentata domanda di condono in base alla legge n. 326 del 2003.
Orbene, per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della legge n. 47 del 1985, richiamati dall’art. 32, co. 25, del decreto-legge n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di sanatoria dell'abuso edilizio determina l’obbligo dell’amministrazione di procedere prioritariamente all’esame della domanda di condono, paralizzando il corso dei procedimenti per l’applicazione delle misure repressive fino alla definizione dell’istanza di sanatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 03/05/2005, n. 2137).
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l’ottemperanza da parte dell’interessato (cfr. Cons. St., sez. VI, 11/09/2013, n. 4496).
Sancisce l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione adottata in pendenza dell’esame della domanda di condono la costante giurisprudenza d’appello (Consiglio di Stato, Sez. V, 23.06.2014 n. 3143; Consiglio di Stato, Sez. V, 24.04.2013 n. 2280; Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012 n. 5553), seguita anche dalla Sezione in numerosissimi casi (cfr. ex multis, TAR Campania–Napoli, Sez. III, 14.08.2013, n. 4122; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.02.2013 n. 843).
Sulla medesima scia si sono infatti poste la Sezione ed il Tribunale (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 07.12.2010, n. 27066, ID, 13.07.2010, n. 16690; TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 26.08.2010 , n. 17238) e più di recente TAR Campania-Napoli, Sez. III 07.09.2012, n. 3786) (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.12.2015 n. 5876 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
Va ribadito
il principio di piena vincolatività delle previsioni degli strumenti urbanistici che prevedono piani attuativi e che a quest’ultimo è possibile derogare solo in presenza della fattispecie di origine giurisprudenziale comunemente indicata come “lotto intercluso”.
In materia di governo del territorio, costituisce regola generale e imperativa il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio. Tali prescrizioni, di solito contenute nelle n.t.a., sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Da questo principio derivano i seguenti corollari:
- quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento;
- in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
- l'assenza del piano attuativo non è surrogabile con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo, infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
- non sono configurabili equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
- lo strumento attuativo è necessario anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
A fronte di tale rigoroso quadro interpretativo, è stata individuata in sede giurisprudenziale un’eccezione alla regola della necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio, comunemente indicata come “lotto intercluso”.
Quest’ultima ipotesi si realizza quando l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g..
Si consente, in sostanza, l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico.
Solo in questi casi, quindi, lo strumento urbanistico può considerarsi superfluo, in quanto è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo).
Una concessione edilizia può essere, quindi, rilasciata anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore, solo quando venga accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato; vi è già stata, cioè, una pressoché completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione.
Si può quindi prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all'interno, e, vieppiù, all'esterno, del comparto attinto dall'attività edificatoria assentita senza previa approvazione dello strumento attuativo non implica anche quell'adeguatezza e quella proporzionalità delle opere in parola rispetto all'aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate.

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4) Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato che il Comune non avrebbe dato conto dell’effettivo stato dei luoghi e, in particolare, dell’effettiva necessità di opere di urbanizzazione riguardo l’area dove insiste il lotto del ricorrente.
Il motivo è infondato.
Si deve in questa sede ribadire il principio di piena vincolatività delle previsioni degli strumenti urbanistici che prevedono piani attuativi e che a quest’ultimo è possibile derogare solo in presenza della fattispecie di origine giurisprudenziale comunemente indicata come “lotto intercluso”.
In materia di governo del territorio, costituisce regola generale e imperativa il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio. Tali prescrizioni, di solito contenute nelle n.t.a., sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Da questo principio derivano i seguenti corollari:
- quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento (Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
- in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
- l'assenza del piano attuativo non è surrogabile con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo, infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2015, n. 3483; Cons. Sr., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
- non sono configurabili equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
- lo strumento attuativo è necessario anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
A fronte di tale rigoroso quadro interpretativo, è stata individuata in sede giurisprudenziale un’eccezione alla regola della necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio, comunemente indicata come “lotto intercluso”.
Quest’ultima ipotesi si realizza quando l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g..
Si consente, in sostanza, l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699).
Solo in questi casi, quindi, lo strumento urbanistico può considerarsi superfluo, in quanto è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo) (Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.12.2014 n. 5488).
Una concessione edilizia può essere, quindi, rilasciata anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore, solo quando venga accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato; vi è già stata, cioè, una pressoché completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione.
Si può quindi prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti (Consiglio di Stato, Sez. V, 31/10/2013, n. 5251; C.d.S., V, 05.12.2012, n. 6229; 05.10.2011, n. 5450; IV, 01.08.2007, n. 4276; 21.12.2006, n. 7769).
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all'interno, e, vieppiù, all'esterno, del comparto attinto dall'attività edificatoria assentita senza previa approvazione dello strumento attuativo non implica anche quell'adeguatezza e quella proporzionalità delle opere in parola rispetto all'aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164).
Nel caso di specie parte ricorrente non ha dimostrato ricorra tale situazione e, anzi, a fronte della rilevazione da parte del Comune dell’assenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria nell’area, si è limitato a depositare una generica dichiarazione derivante dallo stesso Comune secondo cui il terreno in questione confina con una la strada comunale di Circumvallazione e che detta strada è già servita con opere di urbanizzazione primaria, “quali rete elettrica, rete idrica, rete fognante etc.”, nonché una serie di foto della predetta strada.
Tale dichiarazione è assolutamente insufficiente innanzitutto per la sua genericità, non dando indicazioni sul grado di urbanizzazione dell’intera area, né sulle specifiche opere di urbanizzazione esistenti in questione, né tantomeno dà conto dell’adeguatezza di tali opere; inoltre, la dichiarazione in esame fa riferimento solamente alle opere a servizio della strada Comunale e non specifica le aree servite da tali impianti, oltre quella immediatamente adiacenti la medesima strada.
Ancora, la strada in questione si trova a confine del comparto e la dichiarazione non specifica se le opere indicate servano quello in cui si trova il fondo o quello vicino.
Infine, in ogni caso, l’esistenza delle sole opere di urbanizzazione primaria e non di quelle di urbanizzazione secondaria non è sufficiente perché possa affermarsi l’esistenza di un “lotto intercluso”.
Il motivo è, quindi, da rigettare (
TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 18.12.2015 n. 5801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo giurisprudenza, l'art. 2, comma 1, l. 19.11.1968, n. 1187, prevede la durata quinquennale dei vincoli che comportano l'inedificabilità dei suoli discendenti dal PRG.
Tale durata è riferibile a tutti i vincoli, senza possibilità di distinzione tra vincoli di natura sostanziale e vincoli di natura solo strumentale, tra i secondi dei quali rientra la subordinazione dell'edificabilità di un'area alla previa formazione di un piano esecutivo.
Deve però escludersi che la decadenza di cui al citato art. 2 dei vincoli strumentali previsti dallo strumento urbanistico possa applicarsi nei casi in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore la possibilità di ricorso ad un piano di lottizzazione ad iniziativa privata.
In questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata, consentendo di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi della P.A., esclude la configurabilità dello schema ablatorio, e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo.

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5) Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto che, anche qualora si volesse ritenere soggetta l’edificazione nell’area in questione all’approvazione del P.I.P., tale onere sarebbe da intendersi come vincolo di in edificabilità assoluta, ormai decaduto in forza del decorso del periodo di validità di cinque anni dall’entrata in vigore del PRG.
Il motivo è infondato.
Secondo giurisprudenza, l'art. 2, comma 1, l. 19.11.1968, n. 1187, prevede la durata quinquennale dei vincoli che comportano l'inedificabilità dei suoli discendenti dal PRG.
Tale durata è riferibile a tutti i vincoli, senza possibilità di distinzione tra vincoli di natura sostanziale e vincoli di natura solo strumentale, tra i secondi dei quali rientra la subordinazione dell'edificabilità di un'area alla previa formazione di un piano esecutivo.
Deve però escludersi che la decadenza di cui al citato art. 2 dei vincoli strumentali previsti dallo strumento urbanistico possa applicarsi nei casi in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore la possibilità di ricorso ad un piano di lottizzazione ad iniziativa privata.
In questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata, consentendo di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi della P.A., esclude la configurabilità dello schema ablatorio, e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo (Cons. Stato, Sez. V, 31/10/2013, n. 5251; IV, 24.03.2009, n. 1765; V, 03.04.2000, n. 1908).
Nel caso di specie, come peraltro indicato dal Comune, nella memoria di costituzione e non contestato da parte ricorrente, il PRG prevede la possibilità del ricorso a un piano di lottizzazione ad iniziativa provata e, pertanto, il vincolo non può considerarsi avente carattere ablatorio (
TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 18.12.2015 n. 5801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul termine di 10 giorni che la stazione appaltante deve assegnare all'appaltatore che sia incorso in una irregolarità essenziale, sanabile, nella predisposizione della gara, laddove -comunemente- veniva considerato come perentorio a pena di esclusione e che, invece, il CdS definisce sostanzialmente ordinatorio e suscettibile di proroga in presenza di difficoltà oggettive dell'appaltatore interessato.
In presenza di una obiettiva impossibilità o difficoltà di rispettare il termine di dieci giorni per procedere alla regolarizzazione documentale di cui all’art. 38, comma 2-bis, del codice degli appalti, appare possibile concedere una proroga del termine.
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... per la riforma della sentenza breve del TAR LAZIO-ROMA: SEZIONE III n. 11259/2015, resa tra le parti, concernente affidamento dei servizi di pulizia sanificazione ed altri servizi presso enti del servizio sanitario nazionale - richiesta regolarizzazione cauzione provvisoria con applicazione sanzione pecuniaria.
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Vista la domanda di sospensione dell'efficacia della sentenza del Tribunale amministrativo regionale di reiezione del ricorso di primo grado, presentata in via incidentale dalla parte appellante;
- Relatore nella camera di consiglio del giorno 17.12.2015 il Cons. Ni.Ru. e uditi per le parti gli avvocati Sa.St.Da. e An.Cl.;
- Considerato che, ad un sommario esame, l’appello appare assistito da apprezzabili elementi di fondatezza, tenuto conto che, in presenza di una obiettiva impossibilità o difficoltà di rispettare il termine di dieci giorni per procedere alla regolarizzazione documentale di cui all’art. 38, comma 2-bis, del codice degli appalti, appare possibile concedere una proroga del termine,
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), accoglie l'istanza cautelare (Ricorso numero: 9720/2015) e, per l'effetto, sospende l'esecutività della sentenza impugnata e fissa per la trattazione della causa l’udienza pubblica del 17.03.2016, salvo diversa determinazione presidenziale
(Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 18.12.2015 n. 5627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica a mezzo PEC: l'indirizzo deve essere esatto.
Ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1, l. n. 53 del 21.01.1994, “la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all'indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”.
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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 3763 del 30/03/2015, con il quale il R.U.P. di Irpiniambiente s.p.a. ha comunicato l'aggiudicazione definitiva della gara per l'affidamento del servizio di pulizia sedi aziendali, di tutti gli atti connessi e presupposti, nonché per la condanna al risarcimento del danno
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- Rilevata preliminarmente la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dal difensore dell’amministrazione resistente sulla scorta della sua notifica alla cooperativa controinteressata presso un indirizzo di posta elettronica certificata (multiservice.amica@pec.it) diverso da quello (multiserviceamicacoop@pec.it) risultante dai “pubblici elenchi” (nella specie dal registro delle imprese tenuto dalla Camera di Commercio), in violazione dell’art. 3-bis l. n. 53/1994;
- Rilevato infatti che, ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1, l. n. 53 del 21.01.1994, “la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all'indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”;
- Considerato che il mancato rispetto della citata disposizione, la cui efficacia prescrittiva è rafforzata dall’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente”, non può non produrre la nullità della notificazione eseguita secondo modalità difformi da quelle sancite dal legislatore;
- Rilevato altresì che non sussistono i presupposti per fare applicazione dell’art. 44, comma 4, cod. proc. amm., ai sensi del quale “nei casi in cui sia nulla la notificazione e il destinatario non si costituisca in giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla”, atteso che la parte ricorrente, alla luce del su richiamato univoco disposto normativo, avrebbe potuto facilmente controllare che l’indirizzo pec indicato dalla controinteressata negli atti da essa provenienti inerenti al procedimento di gara di cui si tratta, dalla prima utilizzato per la notifica del ricorso, non corrispondeva a quello risultante dall’elenco della Camera di Commercio;
- Ritenuto quindi, come anticipato, che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.12.2015 n. 2652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: L'installazione e gestione di distributori automatici di generi alimentari rientra nella concessione di un servizio pubblico.
Ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (codice dei contratti pubblici), la procedura di affidamento di una concessione di servizi non è soggetta alle norme contenute nella parte II dello stesso codice; ed infatti, nel delineare l'ambito oggettivo e soggettivo di applicazione delle suddette disposizioni il cit. art. 30 stabilisce che "le procedure di affidamento di concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei contratti pubblici, ed invece assoggettate ai principi desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità".
Rientra nella concessione di un servizio pubblico l'assegnazione del servizio costituito dalla installazione e gestione di distributori automatici di generi alimentari all'interno di strutture ospedaliere (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 17.12.2015 n. 3609 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è una “pena” ma una sanzione amministrativa e dunque non è soggetto alla prescrizione.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso.
Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen.
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2015 n. 49331).

EDILIZIA PRIVATA: Il reato di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti sottoposti a valutazione sismica (art. 50 d.P.R. n. 380 del 2001) può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti e, quindi, anche dal proprietario, dal committente, dal titolare della concessione edilizia, dal direttore e dall’assuntore dei lavori.
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3. Per ciò che concerne, invece, la violazione della normativa antisismica di cui al capo C) dell'imputazione,
la prevalente giurisprudenza di questa Corte qualifica come permanente il reato di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti, osservando che la sua consumazione si protrae sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto, ovvero non termina l'intervento edilizio (Sez. 3, n. 12235 del 11/2/2014, Petrolo, Rv. 258738; Sez. 3, n. 29737 del 4/6/2013, Vella Pasquale, Rv. 255823, cui si rinvia anche per i richiami ai precedenti).
Ne consegue che, anche in questo caso, la prescrizione non risulta ancora maturata.
4. Con riferimento a tale ipotesi contravvenzionale, peraltro, i ricorrenti hanno posto in discussione anche la riferibilità del reato alle loro posizioni soggettive. Segnatamente, come rilevato in premessa, la questione è stata sollevata dal PU., quale direttore dei lavori e progettista e dai GE., assuntori dei lavori.
L'assunto, in entrambi i casi, è infondato.
L'articolo 95 d.P.R. 380/2001 attribuisce la responsabilità del reato a chiunque violi le disposizioni richiamate, cosicché la violazione assume la natura di reato comune, che può essere quindi realizzato dal proprietario, dal committente, dal titolare della concessione edilizia e da qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da coloro che abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato la costruzione senza il doveroso controllo del rispetto degli adempimenti di legge (Sez. 3, n. 35387 del 24/05/2007, Trozzo, Rv. 237537; Sez. 3, n. 887 del 10/12/1999 (dep. 2000), Scardellato O, Rv. 215602; Sez. 3, n. 4438 del  10/04/1997, Biagiottì, Rv. 208031).
Con particolare riferimento alla figura del direttore dei lavori, si è affermato che «(...) Il direttore dei lavori risponde del reato previsto dagli artt. 93 e 94 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo anch'egli destinatario del divieto di esecuzione dei lavori in assenza della autorizzazione ed in violazione delle prescrizioni tecniche contenute nei decreti ministeriali di cui agli artt. 52 e 83 del citato d.P.R., atteso che le disposizioni sulla vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, prevedendo un complesso sistema di cautele rivolto ad impedire l'esecuzione di opere non conformi alle norme tecniche, ha determinato una posizione di controllo su attività potenzialmente lesive in capo al direttore dei lavori» (Sez. 3, n. 33469 del 15/06/2006, Osso ed altri, Rv. 235122. V. anche Sez. 3, n. 7775 del 05/12/2013 (dep. 2014), Damiano, Rv. 258854; Sez. 3, n. 6675 del 20/12/2011 (dep. 2012), Lo Presti, Rv. 252021).
A conclusioni analoghe si è pervenuti, come si è detto, anche con specifico riguardo agli assuntori dei lavori (Sez. F, n. 35298 del 24/07/2008, Sparviero, Rv. 240665. Conf. Sez. 3, n. 35387 del 24/05/2007, Trozzo, Rv. 237537, cit.; Sez. 3, n. 33558 del 06/06/2003, Mosca, Rv. 225555).
5. Va pertanto ribadito il principio secondo il quale
il reato di cui all'art. 95 d.RR. 380/2001 può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti e, quindi, anche dal proprietario, dal committente, dal titolare della concessione edilizia, dal direttore e dall'assuntore dei lavori (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.12.2015 n. 49991).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Organismi in house, i concorsi al Tar. Il Cds: si tratta di soggetti di diritto pubblico.
Tutti gli organismi in house di pubbliche amministrazioni sono anche necessariamente organismi di diritto pubblico, mentre non è vero il contrario (cioè non è vero che per il solo fatto che un organismo sia qualificabile come organismo di diritto pubblico ai fini della contrattualistica pubblica, per ciò stesso sarà anche qualificabile come pubblica amministrazione ai fini del riparto di giurisdizione in tema di assunzione del personale dipendente).

A sottolinearlo sono stati i giudici della VI Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 11.12.2015 n. 5643.
Pertanto, ed è quello che si evidenzia in sede di commento, restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in relazione all'art. 1, c. 2, del dlgs 165/2001, in base al quale per p.a. si intendono tutte le amministrazioni dello stato, comprese quelle a ordinamento autonomo.
I supremi giudici amministrativi, hanno altresì richiamato in particolare una recente sentenza delle s.u. (25.11.2013, n. 26283, punti 4. e 5.), la quale delinea i connotati che qualificano le società in house; queste della società hanno solo la forma esteriore ma costituiscono in realtà articolazioni in senso sostanziale della pubblica amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi (si vedano a tale riguardo anche Cass., s.u., nn. 5491, 7177 e 16622/2014, tutte sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e Corte conti, e inoltre Cds, sez. VI, n. 2515 del 2015, p. 4.3. , sull'organismo in house come mera articolazione organizzativa interna dell'ente).
Per quanto riguarda, poi, la devoluzione della controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 7, comma 2, c.p.a. «Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti a esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo»; tale norma è già di per sé idonea a radicare la giurisdizione del G.a. in relazione ad atti di soggetti che, pur avendo una natura privatistica, come nel caso degli enti pubblici economici, sono tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo, come senz'altro avviene nel caso di specie.
Lo conferma, se fosse mai revocabile in dubbio, il testo dell'art. 1, comma 1-ter della legge 241/1990 secondo cui «I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1» (ovvero dei principi del procedimento amministrativo); ed è altrettanto indubbio che un'azienda speciale, se qualificabile come soggetto privato, è preposto (anche) all'esercizio di attività amministrative. Dunque, già dal combinato disposto dell'art. 7, c. 2, c.p.a., e art. 1, comma 1-ter, della legge 241/1990 può ritenersi radicata la giurisdizione del giudice amministrativo (articolo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Per le assunzioni alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, compresi gli enti pubblici regionali, vige la regola del pubblico concorso di cui all’articolo 97 della Costituzione.
La circostanza che in virtù dell’articolo 35 del Dlgs 165/2001 le assunzioni di alcune categorie di pubblici dipendenti possano avvenire mediante espletamento di procedure selettive, o mediante avviamento dei soggetti iscritti nelle liste di collocamento, rappresenta una semplificazione dello strumento tecnico del pubblico concorso, ma non il superamento delle esigenze di trasparenza e imparzialità insite nel concetto di concorsualità volute dalla norma costituzionale.

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Ritiene il Collegio che l'orientamento espresso nelle richiamate decisioni del 2013 non può essere confermato e seguito alla luce dei principi affermati nella recente sentenza SS.UU n. 4685 del 20015 , perché in quest'ultima sentenza risulta più volte ribadito che per le assunzioni alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tra queste anche gli enti pubblici regionali, vige la regola del pubblico concorso prevista dall'art. 97 Cost. e "la circostanza che con l'art. 35, le assunzioni di alcune categorie di pubblici dipendenti possano avvenire mediante espletamento di procedure selettive, o mediante avviamento dei soggetti iscritti nelle liste di collocamento, rappresenta, dunque, una semplificazione dello strumento tecnico (il pubblico concorso), ma non il superamento delle esigenze di trasparenza ed imparzialità insite nel concetto di concorsualità volute dalla norma costituzionale".
Va anche considerato che l'istituto concernente il diritto di precedenza, attribuito ai lavoratori assunti a tempo determinato, è stato introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 8-bis del D.L. 28.01.1983, n. 17, convertito nella L. 25.03.1983, n. 79, il cui primo comma così dispone: "I lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa a carattere stagionale con contratto a tempo determinato, stipulato ai sensi della L. 18.04.1962, n. 230, art. 1, comma 2, lett. a), e successive modificazioni ed integrazioni, hanno diritto di precedenza nell'assunzione con la medesima qualifica presso la stessa azienda, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro".
Il secondo comma precisa: "La condizione di cui al comma precedente si applica anche a lavoratori assunti a nonna del D.L. 03.12.1977, n. 876, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 03.02.1978, n. 18 e della L. 26.11.1979, n. 598, le cui disposizioni restano in vigore e sono estese a tutti i settori economici".
Successivamente, la L. 28.02.1987, n. 56, all'art. 23, secondo comma, ha disposto che "I lavoratori che abbiano prestato attività lavorative con contratto a tempo determinato nelle ipotesi previste dal D.L. 29.01.1983, n. 17, art. 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25.03.1983, n. 79, hanno diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda, con la medesima qualifica quando per questa è obbligatoria la richiesta numerica e a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro."
Infine -ed a prescindere dalla riforma attuata con il D.Lgs. n. 368 del 2001, che all'art. 11, comma 1, ha disposto l'abrogazione dell'art. 23 della legge 56/1987- con l'art. 9-bis (Lavoratori stagionali), convertito in L. 19.07.1993 n. 236, è stato sostituito il comma 2 dell'art. 23 della L. 28.02.1987, n. 56, riproducendone il testo, con la sola eliminazione della dicitura: "quando per questa è obbligatoria la richiesta numerica" (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 04.12.2015 n. 24743).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensore, all’esterno meno limiti. Deroga a distanze e vedute se il manufatto è classificabile come «volume tecnico».
Barriere architettoniche. Le condizioni della giurisprudenza amministrativa e di legittimità per superare i vincoli all’installazione.
Posizionare un ascensore all’esterno di un edificio può costituire una scelta tecnica obbligata specie nei centri storici, dove gli immobili più antichi di solito non consentono di realizzare l’impianto all’interno del caseggiato. Da questa scelta obbligata possono però derivare una serie di problematiche, soprattutto in materia di distanze, di titoli abilitativi e di autorizzazioni paesaggistiche, che la giurisprudenza ha risolto in relazione alla natura giuridica del manufatto.
Il volume tecnico
Il TAR Liguria, Sez. I, con la sentenza 03.12.2015 n. 1002, ha respinto il ricorso con cui un confinante aveva impugnato il provvedimento comunale che assentiva al condominio proprietario del palazzo di fronte la realizzazione di un ascensore esterno. I giudici liguri hanno affermato la natura di volume tecnico del manufatto e hanno di conseguenza escluso la violazione delle norme in tema di vedute e di distanze tra costruzioni (articoli 907 e 873 del Codice civile).
Nella sentenza si ricorda innanzitutto che per volume tecnico deve intendersi quell’opera edilizia priva di una autonomia funzionale, anche potenziale, destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per soddisfarne le esigenze tecniche. In questa nozione rientrano anche gli impianti che non possono essere ubicati all’interno della costruzione, ma che devono considerarsi necessari per il pieno utilizzo dell’abitazione, tra cui, appunto, l’ascensore.
La decisione condivide sul punto l’orientamento già espresso dalla Cassazione (n. 2566/2011) secondo cui questa nozione di volume tecnico rispecchia il mutamento anche demografico della nostra società, che ormai «considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche».
Il Tar ha inoltre escluso la violazione dell’articolo 79, comma 2, del Dpr n. 380/2001, che impone il rispetto delle distanze anche nel caso di opere finalizzate alla eliminazione di barriere architettoniche, nell’ipotesi in cui tra queste ed gli altri fabbricati «non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune». Viene richiamata al riguardo la pronuncia del Consiglio di Stato n. 6253/2012, secondo cui nell’interpretazione di tale norma va dato rilievo al Dm n. 236/1989, ovvero il regolamento di attuazione della legge sulle barriere architettoniche. L’articolo 2 del decreto, infatti, qualifica come spazio esterno «l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici» e come parti comuni dell’edificio «quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari».
Applicando questo criterio interpretativo all’ultima parte dell’articolo 79, comma 2, appare chiaro che il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree «di proprietà o di uso comune», ha inteso richiamare non solo il dato giuridico dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il semplice elemento materiale dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti.
Inoltre la definizione di parte comune non presuppone che le unità immobiliari siano parte di un medesimo edificio; anzi, dal combinato disposto con la definizione di spazio esterno si ricava che uno spazio esterno comune può certamente interessare anche più edifici.
Il vincolo paesaggistico
Sempre in relazione alla natura di volume tecnico, il Tar Campania, con la sentenza n. 6431/2014, ha poi ricordato che in base all’articolo 7, comma 2, della legge n. 13/1989 sull’eliminazione delle barriere architettoniche, gli ascensori esterni ai manufatti anche se alterano la sagoma dell’edificio sono soggetti a mera autorizzazione (oggi sostituita dalla Dia), grazie all’articolo 48 della legge n. 457/1978.
I giudici napoletani hanno anche evidenziato come la stessa ratio che in materia urbanistica porta a escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile induce ugualmente a escludere gli stessi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Dunque per i giudici gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici, quali gli ascensori, rientrano nell’eccezione di cui all’articolo 167, comma 4, lettera a), del Codice dei beni culturali (Dlgs n. 42/2004) e sono pertanto suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica (anche se, in senso contrario si è espresso il Consiglio di Stato, sezione IV, con la sentenza n. 2222 del 29.04.2014).
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In condominio via libera possibile con 500 millesimi. Gli spazi comuni. I contrari possono non pagare.
L’installazione di un ascensore in un edificio che ne è sprovvisto costituisce un’innovazione, quindi in condominio la delibera deve essere assunta in assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno 2/3 del valore millesimale dell’edificio (articolo 1136, comma 5, del Codice civile).
È ritenuta una innovazione utile, ma consentita soltanto se non arrechi pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non alteri il decoro architettonico o non renda talune parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, da intendersi come sensibile menomazione dell’utilità che costui può trarre dalla cosa comune.
L’uso delle parti comuni
Il concetto di inservibilità della cosa comune non può però consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua nomale utilizzazione, ma è costituito dalla sua concreta inutilizzabilità secondo la sua naturale fruibilità (Cassazione, sentenza n. 18334/2012).
La valutazione è senza dubbio più severa nel caso in cui l’ascensore sia installato all’interno dell’edificio, dove il sacrificio che subiscono le dimensioni delle scale o dell’atrio è più sentito. Ma anche quando l’impianto viene posizionato all’esterno possono insorgere problemi, fermi restando gli identici presupposti per ritenere legittima l’opera.
Esiste in ogni caso un “principio di solidarietà condominiale” che ha un peso nelle decisioni tra vicini di casa, soprattutto se agevolano chi è disabile oppure semplicemente anziano.
Il principio è stato recepito, oltre che da consolidata giurisprudenza (vedi da ultimo Cassazione, n. 16486/2015), anche dalla riforma del condominio (legge n. 220/2012), che modificando l’articolo 1120 del Codice civile ha disposto che le innovazioni dirette ad eliminare le barriere architettoniche, tra cui appunto l’installazione dell’ascensore, possono essere deliberate con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea portatori di almeno la metà del valore millesimale.
La disciplina si applica in via generale a tutti gli edifici, non necessariamente solo a quelli in cui dimorino soggetti affetti da menomazioni o limitazioni funzionali permanenti, perché la norma serve a consentire la “visitabilità” degli edifici da parte di tutti coloro che hanno occasione di accedervi, compresi eventuali portatori di handicap.
Le spese
Si tratta comunque di una innovazione voluttuaria, nel senso che la decisione della maggioranza non obbliga i contrari a partecipare alla spesa. Paga solo chi intende usufruire del servizio.
Nulla vieta ad alcuni condomini di esprimersi favorevolmente all’installazione e di dichiarare di non volersi avvantaggiare dell’ascensore, con la conseguenza che coloro che invece si servono dell’impianto dovranno sopportare anche la quota di spesa dei condomini non aderenti.
I contrari possono sempre, anche in tempi successivi, entrare a far parte della comunione, rimborsando le spese sostenute dai proprietari dell’impianto, versando cioè una quota comprensiva del costo dell’installazione e della manutenzione straordinaria eventualmente eseguita nel corso degli anni: il tutto tenendo magari presente, da un lato, la svalutazione della moneta nel frattempo intervenuta e, dall’altro, il minor valore dell’opera per vetustà, uso e obsolescenza
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva –non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale– non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale –da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno– va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) –il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico– si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
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7. Col settimo motivo del ricorso principale la ricorrente imputa alla Corte d'appello una motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia laddove la medesima ha affermato il diritto del dipendente al risarcimento del danno da dequalificazione professionale a decorrere dall'01.11.2004 senza aver svolto alcun approfondimento istruttorio, ma basandosi unicamente su elementi presuntivi.
8. Con l'ottavo motivo la ricorrente censura l'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. laddove la Corte di merito ha affermato l'esistenza del diritto del lavoratore al risarcimento del danno da dequalificazione professionale a decorrere dall'01.11.2004 senza aver svolto alcun approfondimento istruttorio, ma basandosi unicamente su semplici presunzioni. Osserva la Corte che anche questi due ultimi due motivi, che possono esaminarsi unitariamente per evidenti ragioni di connessione, sono infondati.
Invero, che la prova del danno possa fornirsi con presunzioni è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. S.U. n. 6572 del 24.03.2006) che al riguardo hanno statuito quanto segue: "In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva -non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale- non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale -da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) -il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico- si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove."
Nella fattispecie la Corte territoriale ha adeguatamente motivato con argomentazione logica il proprio convincimento sulla rilevata sussistenza del danno da demansionamento sulla base dei seguenti elementi presuntivi: - Durata della accertata dequalificazione, collocazione del dipendente in una posizione diversa da quella in precedenza ricoperta, sottrazione di mansioni dal contenuto professionale più elevato e lo spostamento del medesimo alla direzione di una struttura qualificata dalla stessa società di minore importanza e di minor rilievo (
massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 23.11.2015 n. 23838).

EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità per dieci anni. Chiunque realizzi i lavori risponde di rovina o difetto. RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE/ Lo dice la seconda sezione civile della Cassazione.
Chiunque realizzi lavori di ristrutturazione di un edificio sarà responsabile, così come il costruttore, per la rovina o difetto delle opere per dieci anni.

A sottolinearlo sono stati i giudici della Corte di Cassazione -Sez. II civile- sentenza 04.11.2015 n. 22553.
 Secondo gli Ermellini, la responsabilità ex art. 1669 c.c., potrà essere invocata con riguardo al compimento di opere (rectius di interventi di modificazione o riparazione) afferenti a un preesistente edificio o ad altra preesistente cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata, e pertanto anche gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione (rectius gli esecutori delle opere integrative) possono rispondere ai sensi dell'art. 1669 c.c. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile o sugli elementi essenziali delle strutture dell'edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell'immobile stesso (si vedano: Cass. 04.01.1993 n. 13; più di recente, segue la stessa linea interpretativa, Cass. 29.09.2009 n. 20853).
Nel processo, la parte ricorrente sosteneva che la responsabilità per rovina e difetti di cose immobili (regolata dall'art. 1669 c.c.) dovrebbe essere ascritta alle sole ipotesi in cui siano riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell'edificio stesso o di una parte di esso, ma non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a una durata.
Pertanto la fattispecie delineata dalla norma sarebbe integrata solo quando, entro dieci anni dalla realizzazione dell'edificio o della cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata, si prospettino rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti, dipendenti da vizi del suolo o difetti della costruzione, afferenti all'edificio medesimo o alla cosa immobile interessata.
I giudici di piazza Cavour hanno, però, richiamato l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, osservando che l'opera alla quale la norma fa riferimento, non si identifica necessariamente con l'edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all'originaria costruzione dell'edificio, con la conseguenza che anche il termine «compimento», ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l'edificio in sé considerato, bensì l'opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell'edificio (articolo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Niente cartello di divieto sulla strada chiusa.
Non ha diritto al rilascio di un passo carrabile l'utente che risiede in una strada privata interdetta di fatto al pubblico passaggio. Anche se nella zona è attivo un esercizio commerciale infatti questo dato non è sufficiente ad identificare l'uso indiscriminato della via da parte dei cittadini.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 28.10.2015 n. 4940.
Un cittadino ha richiesto al comune il rilascio di un passo carrabile davanti al suo garage ubicato in una strada senza uscita di Reggio Calabria. Contro il conseguente rilascio dell'autorizzazione alcuni vicini hanno proposto con successo ricorso al Tar. E i giudici di palazzo Spada hanno confermato questa decisione.
La strada in questione risulta privata e senza uscita. Oltre a non risultare nell'elenco delle strade comunali, specifica il collegio, l'intera area in questione non può essere classificata a uso pubblico «non essendo idonea a soddisfare le esigenze della collettività, vale a dire un numero indeterminato di cittadini, essendo del tutto priva oltre l'accesso, di qualsiasi collegamento con la viabilità comunale».
In buona sostanza a parere del collegio si tratta della tipica strada privata destinata ad un uso residenziale. La presenza di un esercizio commerciale di vicinato non smentisce questa impostazione, conclude il Consiglio di stato. Gli indici rilevatori di un uso pubblico dell'area non sono stati documentati e per questo motivo il comune non poteva autorizzare un passo carrabile (articolo ItaliaOggi Sette del 18.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIONo al bar notturno se il regolamento non lo permette. Rumori. Tribunale di Milano.
Se il regolamento di condominio vieta di destinare i negozi a usi che rechino disturbo –sia per rumori che per esalazioni o altro– alla restante parte del fabbricato, l’attività di bar, soprattutto notturno, non può continuare.
Con una sentenza attenta a alla quiete e al riposo il TRIBUNALE di Milano (Sez. XIII civile, sentenza 26.10.2015 n. 11944) è intervenuto su una questione che era nata a seguito dell’attività notturna di un bar, con continui rumori e schiamazzi. L’amministratore di condominio conveniva in giudizio le condòmine proprietarie e locatrici dell’unità immobiliare a uso commerciale, nonché l’esercente, che esercitava, in qualità di conduttore dell’immobile, l’attività di bar in ambito condominiale.
Il condominio chiedeva la condanna a far cessare l’attività dell’esercizio commerciale di cui sopra e, in subordine, ad adottare le misure idonee a eliminare le immissioni di rumore.
Il Tribunale disponeva una consulenza tecnica d’ufficio fonometrica. In corso di causa l’attività di bar contestata e le immissioni rumorose lamentate dal condominio cessavano.
Il Tribunale di Milano, nella Sentenza firmata da Marco Manunta, presidente della XIII Sezione Civile, sanciva pertanto la cessazione della materia del contendere.
Tuttavia condannava tutti i convenuti in via solidale alle spese di giudizio, dando atto che la domanda del Condominio era fondata e che gli avventori del bar che si trovavano all’esterno dell’esercizio provocavano rumori, schiamazzi e quant’altro in ore notturne, oltre la soglia di normale tollerabilità.
Specificava poi che l’articolo 8 del regolamento condominiale vietava «qualunque fatto che possa arrecare (...) molestia o disturbo» e, comunque, non permetteva di destinare i negozi ad usi non «adeguati al decoro generale» e che recassero «disturbo –sia per rumori che esalazioni o altro– (...) alla restante parte del fabbricato».
Alla luce di tutto questo risultava, in primo luogo, che l’amministratore era certamente legittimato processualmente ad agire per il rispetto del regolamento, come riconosciuto dalla costante giurisprudenza (Cassazione, sentenza 21841/2010).
In secondo luogo, risultava evidente che la pretesa fatta valere dall’attore si presentava fondata nei confronti di tutte le parti convenute: dell’esercizio commerciale (bar) per l’attività di disturbo e delle altre convenute per aver consentito la destinazione dell’immobile di loro proprietà all’esercizio di attività lesiva del diritto alla tranquillità, sancito nel regolamento condominiale e particolarmente disturbante per le modalità e gli orari di apertura del locale
 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.01.2016).

AGGIORNAMENTO AL 13.01.2016

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IN EVIDENZA

URBANISTICA: L’Amministrazione Comunale non può unilateralmente riqualificare come di urbanizzazione primaria le opere che prima concordemente erano state individuate a scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria e fissare di conseguenza, sempre in modo unilaterale, un nuovo quadro economico ben più gravoso per la società rispetto a quello previamente pattuito, pretendendo la corresponsione dell’ulteriore somma di euro 579.635,59 a titolo di oneri tabellari per quest’ultima tipologia di urbanizzazione, in quanto ritenuti non più scomputabili.
In altri termini, a prescindere dalla legittima riquantificazione in sede di rilascio del titolo edilizio degli oneri tabellari dovuti ai sensi di legge, detta operazione si è sostanziata in una vera e propria modifica unilaterale della convezione nell’intera sua parte economica, venendo così ad incidere su un rapporto contrattuale ormai cristallizzato e, quindi, insuscettibile di variazioni senza il consenso di tutte le parti stipulanti.

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1. Con il primo mezzo di censura la società appellante deduce l’erroneità della gravata sentenza laddove, nel respingere il corrispondente motivo di ricorso, ha statuito che non può “ritenersi che la convenzione comporti un divieto di nuova quantificazione degli oneri edilizi in sede di rilascio del permesso di costruire”.
Secondo Ed., infatti, tale motivazione rammostra il travisamento in cui è incorso il Tar che non avrebbe colto le ragioni sottese alla censura dedotta, volte non già a contestare la possibilità di riquantificare gli oneri di urbanizzazione tabellarmente dovuti, bensì a contestare la modifica unilaterale da parte dell’Amministrazione del complessivo quadro economico convenzionalmente pattuito.
2. La doglianza è da condividere .
3. Ed invero, dalla lettura del ricorso di primo grado emerge chiaramente come Ed. non abbia contestato l’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione secondo le tabelle medio tempore intervenute, tanto è vero che si è resa disponibile a versare –come in effetti ha poi versato– la somma di Euro 204.462,28 derivante proprio dall’aggiornamento di cui trattasi.
Quello che l’odierna appellante ha censurato è stata, invece, l’unilaterale modifica della convenzione operata dall’Amministrazione, qualificando come opere di urbanizzazione primaria le opere che prima concordemente erano state qualificate di urbanizzazione secondaria -e quindi da eseguire a scomputo dei relativi oneri- e fissando, di conseguenza, un nuovo quadro economico del tutto diverso ed abnorme rispetto a quello previamente pattuito.
E detta censura, così come formulata ed argomentata, si appalesa fondata.
Invero, come ampiamente si è dato conto nella narrativa in fatto, alla rideterminazione del quadro economico unilateralmente operata dal Comune è conseguito un ben maggiore aggravio finanziario per la società rispetto a quello derivante dal mero (e consentito) aggiornamento tabellare degli oneri, e ciò pur a fronte dell’inalterata consistenza delle opere poste a carico della società che, si ricorda, hanno un valore di gran lunga superiore agli oneri da scomputare.
Basti al riguardo considerare che a fronte dell’importo tabellare complessivamente dovuto per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria pari ad euro 1.328.772, la società ha in carico la realizzazione di opere per un importo complessivo stimato in euro 2.301.344 e, quindi, per un valore superiore di circa un milione di euro.
Così, pur potendo riquantificare gli oneri tabellari dovuti ai sensi di legge, l’Amministrazione non poteva unilateralmente riqualificare come di urbanizzazione primaria le opere che prima concordemente erano state individuate a scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria e fissare di conseguenza, sempre in modo unilaterale, un nuovo quadro economico ben più gravoso per la società rispetto a quello previamente pattuito, pretendendo la corresponsione dell’ulteriore somma di euro 579.635,59 a titolo di oneri tabellari per quest’ultima tipologia di urbanizzazione, in quanto ritenuti non più scomputabili.
Infatti per tale via l’Amministrazione, modificando in modo unilaterale gli accordi convenzionalmente pattuiti, è venuta profondamente a mutare in senso negativo il peso economico gravante sulla società:
- acquisendo opere di urbanizzazione primaria per un valore di oltre due milioni di euro rispetto ai 544.675,99 euro tabellarmente dovuti;
- determinando l’insorgere di un nuovo credito di euro 784.097,86 nei confronti della società, pari all’intero importo tabellare dovuto per le opere di urbanizzazione secondaria in quanto da ritenersi non scomputato.
In altri termini, a prescindere dalla legittima riquantificazione in sede di rilascio del titolo edilizio degli oneri tabellari dovuti ai sensi di legge, detta operazione si è sostanziata in una vera e propria modifica unilaterale della convezione nell’intera sua parte economica, venendo così ad incidere su un rapporto contrattuale ormai cristallizzato e, quindi, insuscettibile di variazioni senza il consenso di tutte le parti stipulanti.
4. Conclusivamente, il mutamento delle condizioni di cui alla convenzione urbanistica stipulata il 07.09.2006 operato dal Comune di Varese in modo unilaterale e senza consenso della parte direttamente incisa non è ammissibile e, conseguentemente, in modo illegittimo l’Amministrazione ha preteso dalla società la citata somma di Euro 579.635,59 a titolo di oneri tabellari dovuti per le opere di urbanizzazione secondaria in quanto da ritenersi non scomputati.
5. Attesa la natura assorbente del mezzo di censura sopra esaminato, può prescindersi dall’esame dei restanti motivi di ricorso .
6. Per quanto sopra, assorbito quant’altro, il ricorso va accolto siccome fondato e per l’effetto,in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso proposto dalla Ed. in primo grado con ogni consequenziale effetto, così per come in dispositivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.01.2015 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E' improprio il ricorso allo strumento della variante urbanistica semplificata ex art. 5 del d.P.R. nr. 447 del 1998 a cagione dell’insussistenza del presupposto fattuale richiesto dalla stessa norma;
Invero, quest’ultima -come è noto- consente la variante in una approvazione del progetto dell’insediamento produttivo, laddove l’area interessata dall’intervento abbia una destinazione incompatibile con lo stesso, soltanto a condizione che “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato”.
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Questa Sezione ha sempre sottolineato in modo rigoroso il carattere eccezionale e derogatorio della procedura disciplinata dal ricordato art. 5, la quale non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità “ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico generale: pertanto, perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di queste, laddove per “insufficienza” deve intendersi, in costanza degli standard previsti, una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da realizzare.
Più specificamente, si è affermato che, se è vero che il concetto di sufficienza o insufficienza delle aree esistenti va verificato “in relazione al progetto presentato”, il che certamente significa che esiste un margine di flessibilità e adattabilità di quest’ultimo, per inserirlo nel contesto risultante dallo strumento urbanistico, resta fermo, però, che il parametro di riferimento è costituito dallo strumento vigente, il quale non può essere esso oggetto di modifiche per adeguarlo alle esigenze del proponente.
A tali rilievi, poi, va aggiunto ciò che la logica suggerisce in relazione all’ipotesi in cui il progetto abbia a oggetto un insediamento commerciale, e non produttivo: ipotesi rientrante nel d.P.R. nr. 447/1998 per effetto dell’art. 1-bis ivi inserito dal d.P.R. 07.12.2000, nr. 440, ed alla quale quindi si estende la previsione della variante semplificata di cui al più volte citato art. 5, originariamente elaborata per i soli insediamenti produttivi.
In tali casi, è evidente che il presupposto fattuale costituito dalla assenza o insufficienza nello strumento urbanistico di aree a destinazione specifica e coerente con il progetto va inteso nel senso della necessità di verificare preventivamente la disponibilità non soltanto di aree stricto sensu destinate a insediamenti produttivi (zone D), ma anche di aree con destinazione commerciale, anche se non in via esclusiva, quali certamente sono le aree con destinazione a zona C di espansione.
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Nel caso che qui occupa, il giudizio di “insufficienza” delle aree esistenti nel P.d.F. è scaturito non già da una ritenuta insufficienza delle superfici bensì da un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’impatto che la realizzazione della struttura avrebbe avuto sulle diverse e residue destinazioni impresse alle medesime aree.
Se così stanno le cose, questa Sezione ritiene molto discutibile che in tal modo possa dirsi integrato il presupposto normativo de quo, attraverso un quanto meno opinabile giudizio tecnico che ha portato il rappresentante del Comune in sede di Conferenza di servizi a sostenere che nelle aree in questione avrebbero potuto essere insediati solo esercizi di vicinato (limitazione, quest’ultima, non presente nelle disposizioni urbanistiche vigenti e che a sua volta è discesa dal suindicato apprezzamento tecnico-discrezionale); è evidente, infatti, che quella dell’inserimento della struttura commerciale nell’area in discorso e del suo raccordo con le altre destinazioni a questa impresse dal P.d.F. era questione afferente alle modalità esecutive dell’insediamento, e da affrontare in una alle altre problematiche connesse al rilascio dell’autorizzazione unica per l’esercizio commerciale (così come, ad esempio, quanto al raccordo con la viabilità esistente, su cui si tornerà appresso).
L’aver elevato tale problematica a elemento impeditivo a monte dell’utilizzabilità delle aree in questione, in modo da integrare il presupposto normativo per procedere a variante urbanistica su altra e diversa porzione del territorio comunale, costituisce chiaro elemento indiziario di sviamento di potere, inteso a offrire ai proponenti il progetto la possibilità, non consentita alla stregua della vigente disciplina urbanistica, di operare su aree in loro proprietà non compatibili dal punto di vista urbanistico con l’insediamento de quo.
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Il più volte citato art. 5, d.P.R. nr. 447/1998 impone di tener conto “delle osservazioni proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17.08.1990, n. 1150” (comma 1), e, quindi, delle osservazioni relative alla proposta di variante urbanistica ritualmente formulate da chi sarebbe legittimato a proporle in base alla legislazione urbanistica.
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In tema di legislazione nazionale e regionale sulla pianificazione commerciale, condivisibile giurisprudenza di primo grado ha affermato che il principio di libertà dell’iniziativa economica privata contenuto nell’art. 41 Cost. impone di interpretare la disciplina di cui agli artt. 6 e 8 del decreto legislativo 31.03.1998, nr. 114 (che sono le norme base della pianificazione regionale e comunale in subiecta materia) non con criteri restrittivi, ma in modo da consentirne lo svolgimento concreto, potendo essa essere limitata solo per gravi e preminenti motivi di interesse pubblico: pertanto, non può essere legittimamente negato l’insediamento di nuove strutture di vendita, né l’ampliamento di quelle esistenti, ove il diniego sia motivato unicamente sulla base della mancanza della fissazione dei criteri inerenti la programmazione locale.

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... avverso e per l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione dei suoi effetti, della sentenza del TAR della Campania, Sezione di Salerno, Sezione Seconda, nr. 1838/11 del 16.11.2011, non notificata, che ha respinto il ricorso (nr. 1772/2008) proposto avverso la delibera del Consiglio Comunale di Montecorvino Rovella nr. 17 del 16.06.2008 (che ha approvato una variante urbanistica ex art. 5 del d.P.R. 20.10.1998, nr. 447, per l’insediamento di una media struttura commerciale di vendita), nonché i successivi motivi aggiunti proposti, tra l’altro, avverso il provvedimento unico conclusivo del Responsabile del Settore Tecnico del S.U.A.P. Associato della Comunità Montana “Monti Piacentini” nr. 2/2010 del 04.03.2010 (che ha rilasciato il titolo edilizio per la costruzione dell’opificio commerciale e, nello stesso tempo, l’autorizzazione per l’apertura della struttura di vendita che dovrà esservi allocata).
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7. La Sezione reputa invece fondato, come già anticipato in fase cautelare, il secondo mezzo, col quale si reitera la censura relativa all’improprio ricorso allo strumento della variante urbanistica semplificata ex art. 5 del d.P.R. nr. 447 del 1998, a cagione dell’insussistenza del presupposto fattuale richiesto dalla stessa norma; quest’ultima, come è noto, consente la variante in una approvazione del progetto dell’insediamento produttivo, laddove l’area interessata dall’intervento abbia una destinazione incompatibile con lo stesso, soltanto a condizione che “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato”.
7.1. Al riguardo, giova premettere una sintetica ricostruzione dell’iter procedimentale per la parte che qui interessa, nel quale le odierne appellanti hanno ritenuto di cogliere un atteggiamento ondivago e contraddittorio da parte del Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Montecorvino Rovella.
Quest’ultimo, dopo avere genericamente attestato, nella fase iniziale della Conferenza di servizi convocata ai sensi del precitato art. 5 del d.P.R. nr. 447/1998, la indisponibilità di aree utili, in occasione dell’ultima seduta della Conferenza medesima (27.02.2008) produsse un’apposita nota con la quale, in riscontro a sollecitazioni pervenute ab externo, precisava che per vero nel vigente assetto urbanistico –riveniente, come già rilevato, dal P.d.F. all’epoca in vigore nel territorio comunale– talune aree astrattamente idonee vi sarebbero state, ma che queste non erano in concreto sfruttabili per la realizzazione del progetto di cui alla proposta.
Più specificamente, a quanto era dato evincere dalla detta nota:
a) esistevano due comparti siti in zona C di espansione, per un’estensione complessiva di circa mq 80.000, fra le cui destinazioni vi era anche quella commerciale, ma per questi doveva ritenersi non possibile la realizzazione di una media struttura di vendita (quale era quella di cui alla proposta de qua) siccome incompatibile con la prevalente destinazione residenziale delle dette aree, sulle quali pertanto avrebbero potuto essere realizzati soltanto esercizi “di vicinato”;
b) esisteva, almeno formalmente, anche un’area destinata a P.I.P. (in località Pianella), ma su di essa vi era innanzi tutto un problema di salute pubblica, legato alle emissioni provenienti da un elettrodotto ivi situato, che fin dal 2002 l’A.R.P.A. aveva accertato essere superiori ai minimi consentiti dalla legislazione regionale, al punto da indurre il Comune a programmare l’abbandono dell’area in questione, incaricando i tecnici redattori del nuovo P.R.G. in itinere di individuare altra area P.I.P.;
c) in ogni caso, sempre con riguardo all’area in località Pianella, le N.T.A. del P.I.P. (art. 5) consentivano in loco solo le “attività commerciali all’ingrosso” (e non anche quelle al dettaglio, quale è quella per cui è causa).
7.2. Così sommariamente ricostruita la motivazione –ritenuta legittima dal primo giudice– che ha nella specie indotto l’Amministrazione a seguire la strada della variante semplificata ai sensi del più volte citato art. 5, d.P.R. nr. 447/1998, e acclarato che questa faceva perno non già sull’assenza, ma sull’insufficienza delle aree a destinazione commerciale (pure esistenti sul territorio comunale), è opportuno richiamare, sempre in via preliminare, alcuni principi desumibili dalla giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, questa Sezione ha sempre sottolineato in modo rigoroso il carattere eccezionale e derogatorio della procedura disciplinata dal ricordato art. 5, la quale non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità “ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico generale: pertanto, perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di queste, laddove per “insufficienza” deve intendersi, in costanza degli standard previsti, una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da realizzare (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.07.2011, nr. 4308; id., 25.06.2007, nr. 3593; id., 03.03.2006, nr. 1038).
Più specificamente, si è affermato che, se è vero che il concetto di sufficienza o insufficienza delle aree esistenti va verificato “in relazione al progetto presentato”, il che certamente significa che esiste un margine di flessibilità e adattabilità di quest’ultimo, per inserirlo nel contesto risultante dallo strumento urbanistico, resta fermo, però, che il parametro di riferimento è costituito dallo strumento vigente, il quale non può essere esso oggetto di modifiche per adeguarlo alle esigenze del proponente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, nr. 3593/2007, cit.).
A tali rilievi, poi, va aggiunto ciò che la logica suggerisce in relazione all’ipotesi in cui il progetto abbia a oggetto un insediamento commerciale, e non produttivo: ipotesi rientrante nel d.P.R. nr. 447/1998 per effetto dell’art. 1-bis ivi inserito dal d.P.R. 07.12.2000, nr. 440, ed alla quale quindi si estende la previsione della variante semplificata di cui al più volte citato art. 5, originariamente elaborata per i soli insediamenti produttivi.
In tali casi, è evidente che il presupposto fattuale costituito dalla assenza o insufficienza nello strumento urbanistico di aree a destinazione specifica e coerente con il progetto va inteso nel senso della necessità di verificare preventivamente la disponibilità non soltanto di aree stricto sensu destinate a insediamenti produttivi (zone D), ma anche di aree con destinazione commerciale, anche se non in via esclusiva, quali certamente sono le aree con destinazione a zona C di espansione.
7.3. Tutto ciò premesso, nel caso che qui occupa il giudizio di “insufficienza” delle aree esistenti nel P.d.F. è scaturito non già da una ritenuta insufficienza delle superfici (ché non risulta contestato da nessuno, né durante il procedimento amministrativo, né nel presente giudizio, che la predetta zona C fosse per estensione ampiamente in grado di accogliere l’insediamento de quo), bensì da un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’impatto che la realizzazione della struttura avrebbe avuto sulle diverse e residue destinazioni impresse alle medesime aree.
Se così stanno le cose, questa Sezione ritiene molto discutibile che in tal modo possa dirsi integrato il presupposto normativo de quo, attraverso un quanto meno opinabile giudizio tecnico che ha portato il rappresentante del Comune in sede di Conferenza di servizi a sostenere che nelle aree in questione avrebbero potuto essere insediati solo esercizi di vicinato (limitazione, quest’ultima, non presente nelle disposizioni urbanistiche vigenti e che a sua volta è discesa dal suindicato apprezzamento tecnico-discrezionale); è evidente, infatti, che quella dell’inserimento della struttura commerciale nell’area in discorso e del suo raccordo con le altre destinazioni a questa impresse dal P.d.F. era questione afferente alle modalità esecutive dell’insediamento, e da affrontare in una alle altre problematiche connesse al rilascio dell’autorizzazione unica per l’esercizio commerciale (così come, ad esempio, quanto al raccordo con la viabilità esistente, su cui si tornerà appresso).
L’aver elevato tale problematica a elemento impeditivo a monte dell’utilizzabilità delle aree in questione, in modo da integrare il presupposto normativo per procedere a variante urbanistica su altra e diversa porzione del territorio comunale, costituisce chiaro elemento indiziario di sviamento di potere, inteso a offrire ai proponenti il progetto la possibilità, non consentita alla stregua della vigente disciplina urbanistica, di operare su aree in loro proprietà non compatibili dal punto di vista urbanistico con l’insediamento de quo.
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11. Infondato è anche il motivo con cui ci si duole dell’omesso esame delle osservazioni pervenute durante la procedura di variante urbanistica.
Al riguardo, giova premettere che il più volte citato art. 5, d.P.R. nr. 447/1998 impone di tener conto “delle osservazioni proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17.08.1990, n. 1150” (comma 1), e, quindi, delle osservazioni relative alla proposta di variante urbanistica ritualmente formulate da chi sarebbe legittimato a proporle in base alla legislazione urbanistica.
Orbene, non pare a questa Sezione che nella specie sia stata del tutto omessa la considerazione delle osservazioni pervenute: innanzi tutto, come già sopra evidenziato, è proprio sulla scorta delle dette osservazioni che il Responsabile del Settore Urbanistica del Comune procedette, superando l’iniziale generica attestazione di insussistenza di aree a destinazione commerciale, a quel peculiare “approfondimento” sulle aree esistenti nel P.d.F. e sulla loro insufficienza (del quale si è vista, per altro riguardo, l’illegittimità).
Quanto sopra dimostra che le osservazioni pervenute da parte degli aventi titolo sono state realmente esaminate e prese in considerazione, non essendo indispensabile, a tal fine, che nei verbali della Conferenza fosse inserita un’espressa e specifica motivazione in replica o a confutazione di ciascun singolo rilievo in esse formulato.
12. Va respinta anche la censura articolata in primo grado in ordine alla pretesa illegittimità degli atti impugnati a causa della mancanza della previa pianificazione degli insediamenti commerciali, non essendosi il Comune di Montecorvino Rovella ancora dotato del S.I.A.D. previsto dall’art. 13, comma 1, della già citata l.r. nr. 1 del 2000.
Ed invero, in tema di legislazione nazionale e regionale sulla pianificazione commerciale, condivisibile giurisprudenza di primo grado ha affermato che il principio di libertà dell’iniziativa economica privata contenuto nell’art. 41 Cost. impone di interpretare la disciplina di cui agli artt. 6 e 8 del decreto legislativo 31.03.1998, nr. 114 (che sono le norme base della pianificazione regionale e comunale in subiecta materia), non con criteri restrittivi, ma in modo da consentirne lo svolgimento concreto, potendo essa essere limitata solo per gravi e preminenti motivi di interesse pubblico: pertanto, non può essere legittimamente negato l’insediamento di nuove strutture di vendita, né l’ampliamento di quelle esistenti, ove il diniego sia motivato unicamente sulla base della mancanza della fissazione dei criteri inerenti la programmazione locale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2016 n. 27 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'attività cinotecnica che –per espressa definizione normativa– è configurabile come attività agricola, diretta all’allevamento, addestramento e selezione delle razze canine.
La disciplina della cd. “cinotecnica” è racchiusa nella L. 349/1993, ai sensi della quale consiste nell’attività “volta all'allevamento, alla selezione e all'addestramento delle razze canine” (art. 1, comma 1), mentre assume natura imprenditoriale agricola “quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto” (art. 2, comma 1): tali soggetti così definiti sono “imprenditori agricoli, ai sensi dell'articolo 2135 del codice civile”.
Una prima riflessione conduce a ritenere plausibile, in quanto giuridicamente ammissibile, l’espletamento dell’attività cinotecnica in forma non imprenditoriale, secondo quanto stabilisce lo stesso art. 2, comma 3, della L. 349/1993 per cui “Non sono comunque imprenditori agricoli gli allevatori che producono nell'arco di un anno un numero di cani inferiore a quello determinato, per tipi o per razze, con decreto del Ministro dell'agricoltura e delle foreste da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
A questo proposito, il D.M. 28/01/1994 statuisce che “Non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli inferiore alle trenta unità”. Il legislatore regolamenta l’attività cinotecnica svolta in forma professionale, ponendo alcuni requisiti minimi (afferenti al reddito e al numero di capi), in difetto dei quali il soggetto interessato non assume la qualifica di imprenditore agricolo.
In buona sostanza, la L. 349/1993 non impone a colui che esercita l’attività cinotecnica di assumere necessariamente lo status di imprenditore agricolo.
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Né tale conclusione si evince dalla previsione pianificatoria del Comune per la quale nell’area ricadente nel PLIS sono ammessi soltanto “interventi connessi all’attività agricola, attività agrituristiche, realizzazione di servizi e attrezzature pubbliche o di uso o interesse pubblico”.
Innanzitutto non appare direttamente pertinente il richiamo agli artt. 59 e ss. della L.r. 12/2005, i quali disciplinano gli interventi edificatori in zona agricola, mentre l’iniziativa economica di cui si controverte non prevede la realizzazione di opere edili.
Lo stesso art. 2135 del c.c. –nello stabilire il criterio di collegamento dell'attività economica con il fattore produttivo “terra”, individuando le “attività connesse” come quelle che si inseriscono nel ciclo dell'economia agricola- è comunque rubricato “imprenditore agricolo”, e dunque si rivolge ai soggetti che (diversamente dal caso di specie) prestano l’attività in forma professionale.
Osserva infine il Collegio che l’art. 7 delle NTA già citato, nella sua formulazione letterale, permette gli interventi connessi all’attività agricola “contemplati dalla vigente legislazione”, in tal modo effettuando un rinvio recettizio di tipo dinamico alle disposizioni normative vigenti, tra le quali acquistano rilevanza gli artt. 1 e 2 della L. 349/1996.
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Un ulteriore profilo investe la definizione di attività cinotecnica, che ad avviso della resistente difesa deve necessariamente comprendere l’allevamento e la selezione canina.
Nell’ambiguità della norma, che semplicemente elenca le tre tipologie di attività (ossia allevamento, selezione e addestramento delle razze canine), il Collegio non ravvisa ragioni logiche per escludere la sua operatività nel caso di iniziative limitate al solo addestramento.
Se, come già rilevato, è ammessa l’attività in forma non imprenditoriale, è ipotizzabile che la specializzazione investa esclusivamente una delle 3 fasi normativamente contemplate e che l’operatore effettui le prestazioni coinvolgendo gli animali che vengono di volta in volta condotti in loco dai rispettivi proprietari.
Se è logico ritenere che, in via ordinaria, l’addestramento sia rivolto agli animali allevati sul fondo, è comunque ragionevole consentire che il predetto singolo segmento qualificante dell’attività possa essere valorizzato secondo l’indicazione (non esplicitamente preclusiva) fornita dalla norma.
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La pet therapy consiste effettivamente in un’attività terapeutica di promozione della salute dei soggetti beneficiari, i quali si trovano in condizioni di particolare debolezza o fragilità: l’instaurazione di una relazione positiva con l’animale domestico realizza un evidente interesse di portata generale, ossia il miglioramento del benessere degli individui in difficoltà.
La cura delle patologie che affliggono talune persone mediante l’ausilio di animali ben può rientrare nella definizione di “servizi di interesse pubblico”, adoperata dall’amministrazione per descrivere gli interventi ammessi nella zona ove la ricorrente svolge la propria attività.

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... per l'annullamento DELL’ORDINANZA DEL RESPONSABILE DELLO SPORTELLO UNICO PER LE ATTIVITA’ PRODUTTIVE IN DATA 05/08/2014, CHE HA DISPOSTO LA CESSAZIONE IMMEDIATA DELL’ATTIVITA’ DI ADDESTRAMENTO CANI ESERCITATA IN VIRTU’ DELLA SCIA DEL 16/06/2014.
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FATTO
In data 25/11/2013 la ricorrente depositava all’amministrazione comunale una prima SCIA per l’avvio di una nuova attività di onoterapia, pet therapy, addestramento (doc. 2 Comune). Con successiva SCIA presentata il 16/06/2014, la Sig.ra Mi. integrava la dichiarazione precedente, segnalando una variazione consistente nell’addestramento di cani –singolarmente o in gruppo– con un massimo di 10 unità.
Con l’atto impugnato, il Commissario aggiunto inibiva l’esercizio dell’attività, la quale si svolgerebbe in area agricola ricadente nel Parco della Savarona, per il quale l’art. 7 delle NTA del Piano dei Servizi consente soltanto –fino all’adozione dello strumento di pianificazione specifico per il Parco– “interventi connessi all’attività agricola, attività agrituristiche, realizzazione di servizi e attrezzature pubbliche o di uso o interesse pubblico”.
Con gravame ritualmente notificato e tempestivamente depositato presso la Segreteria della Sezione, l’esponente impugna il provvedimento in epigrafe, illustrando le seguenti censure in diritto:
a) Violazione degli artt. 1 e 2 della L. 23/08/1993 n. 349, in quanto l’attività cinotecnica –per espressa definizione normativa– è configurabile come attività agricola, diretta all’allevamento, addestramento e selezione delle razze canine;
b) Violazione degli artt. 1 e 2 della L. 349/1993 sotto altro profilo, eccesso di potere per carenza di motivazione dal momento che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in zona agricola sono del tutto incompatibili gli insediamenti residenziali, mentre sono ammessi utilizzi di tipo intermedio tra quello agricolo e quello edificatorio (ad esempio, parcheggio, caccia, sport, agriturismo), tra l’altro in assenza di opere edilizie;
c) Eccesso di potere per illogicità manifesta, dato che la pet therapy consiste in un’attività terapeutica finalizzata a migliorare la salute di un paziente (appartenente a fasce fragili, come anziani, malati, disabili fisici e psichici) avvalendosi di animali domestici come cani, gatti, cavalli, asini, conigli, capre, maiali, volatili; dunque si realizza un chiaro interesse pubblico, trattandosi anche di favorire la convivenza tra uomo e cane.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione, chiedendo la reiezione del gravame. In particolare sottolinea in punto di fatto che la Sig.ra Mi. è priva della qualifica di imprenditore agricolo e che l’area in cui insiste l’attività si trova all’interno di un Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS). La ricorrente è munita della sola agibilità sanitaria per un’attività asini-amatoriale (priva di collegamento con l’attività economica legata all’agricoltura).
Con la SCIA del 16/06/2014 ha introdotto l’addestramento di cani, con conseguente trasformazione dell’attività da amatoriale a professionale. In punto di diritto, l’amministrazione invoca l’art. 1 della L. 349/1993, per cui è attività riconducibile all’agricoltura soltanto quella che contempla l’allevamento e la selezione dei cani (in connessione inscindibile con l’addestramento), e che presuppone in aggiunta il titolo di imprenditore agricolo (circostanza desumibile dall’art. 7 delle NTA del Piano dei Servizi, che richiamano gli interventi regolati all’art. 59 della L.r. 12/2005). Anche la recinzione (in precedenza soltanto amovibile) non è consentita dall’art. 7.
Con ordinanza n. 1009, emessa alla Camera di consiglio del 05/12/2014, questo Tribunale ha motivatamente accolto la domanda cautelare.
Alla pubblica udienza del 02.12.2015 il gravame introduttivo è stato chiamato per la discussione e trattenuto in decisione.
DIRITTO
La ricorrente censura il provvedimento comunale che ha paralizzato gli effetti della SCIA depositata il 16/06/2014.
1. Ad avviso del Collegio sono anzitutto fondati i primi due motivi di ricorso, per le ragioni illustrate di seguito.
1.1 La disciplina della cd. “cinotecnica” è racchiusa nella L. 349/1993, ai sensi della quale consiste nell’attività “volta all'allevamento, alla selezione e all'addestramento delle razze canine” (art. 1, comma 1), mentre assume natura imprenditoriale agricola “quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto” (art. 2, comma 1): tali soggetti così definiti sono “imprenditori agricoli, ai sensi dell'articolo 2135 del codice civile”.
1.2 Una prima riflessione conduce a ritenere plausibile, in quanto giuridicamente ammissibile, l’espletamento dell’attività cinotecnica in forma non imprenditoriale, secondo quanto stabilisce lo stesso art. 2, comma 3, della L. 349/1993 per cui “Non sono comunque imprenditori agricoli gli allevatori che producono nell'arco di un anno un numero di cani inferiore a quello determinato, per tipi o per razze, con decreto del Ministro dell'agricoltura e delle foreste da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
A questo proposito, il D.M. 28/01/1994 statuisce che “Non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli inferiore alle trenta unità”. Il legislatore regolamenta l’attività cinotecnica svolta in forma professionale, ponendo alcuni requisiti minimi (afferenti al reddito e al numero di capi), in difetto dei quali il soggetto interessato non assume la qualifica di imprenditore agricolo.
1.3 In buona sostanza, la L. 349/1993 non impone a colui che esercita l’attività cinotecnica di assumere necessariamente lo status di imprenditore agricolo.
Né tale conclusione si evince dalla previsione pianificatoria del Comune di Quinzano d’Oglio (art. 7 delle NTA del Piano dei Servizi), per la quale nell’area ricadente nel PLIS sono ammessi soltanto “interventi connessi all’attività agricola, attività agrituristiche, realizzazione di servizi e attrezzature pubbliche o di uso o interesse pubblico”.
Innanzitutto non appare direttamente pertinente il richiamo agli artt. 59 e ss. della L.r. 12/2005, i quali disciplinano gli interventi edificatori in zona agricola, mentre l’iniziativa economica di cui si controverte non prevede la realizzazione di opere edili.
Lo stesso art. 2135 del c.c. –nello stabilire il criterio di collegamento dell'attività economica con il fattore produttivo “terra”, individuando le “attività connesse” come quelle che si inseriscono nel ciclo dell'economia agricola (cfr. Corte di Cassazione, sez. I civile –10/5/2013 n. 11237)– è comunque rubricato “imprenditore agricolo”, e dunque si rivolge ai soggetti che (diversamente dal caso di specie) prestano l’attività in forma professionale.
Osserva infine il Collegio che l’art. 7 delle NTA già citato, nella sua formulazione letterale, permette gli interventi connessi all’attività agricola “contemplati dalla vigente legislazione”, in tal modo effettuando un rinvio recettizio di tipo dinamico alle disposizioni normative vigenti, tra le quali acquistano rilevanza gli artt. 1 e 2 della L. 349/1996.
1.4 Un ulteriore profilo investe la definizione di attività cinotecnica, che ad avviso della resistente difesa deve necessariamente comprendere l’allevamento e la selezione canina. Nell’ambiguità della norma, che semplicemente elenca le tre tipologie di attività (ossia allevamento, selezione e addestramento delle razze canine), il Collegio non ravvisa ragioni logiche per escludere la sua operatività nel caso di iniziative limitate al solo addestramento.
Se, come già rilevato, è ammessa l’attività in forma non imprenditoriale, è ipotizzabile che la specializzazione investa esclusivamente una delle 3 fasi normativamente contemplate e che l’operatore effettui le prestazioni coinvolgendo gli animali che vengono di volta in volta condotti in loco dai rispettivi proprietari.
Se è logico ritenere che, in via ordinaria, l’addestramento sia rivolto agli animali allevati sul fondo, è comunque ragionevole consentire che il predetto singolo segmento qualificante dell’attività possa essere valorizzato secondo l’indicazione (non esplicitamente preclusiva) fornita dalla norma.
2. Appare meritevole di positivo apprezzamento anche il terzo motivo, con il quale parte ricorrente deduce l’eccesso di potere per illogicità manifesta, in quanto la pet therapy consiste effettivamente in un’attività terapeutica di promozione della salute dei soggetti beneficiari, i quali si trovano in condizioni di particolare debolezza o fragilità: l’instaurazione di una relazione positiva con l’animale domestico realizza un evidente interesse di portata generale, ossia il miglioramento del benessere degli individui in difficoltà.
La cura delle patologie che affliggono talune persone mediante l’ausilio di animali ben può rientrare nella definizione di “servizi di interesse pubblico”, adoperata dall’amministrazione per descrivere gli interventi ammessi nella zona ove la ricorrente svolge la propria attività.
In conclusione, la pretesa è fondata e merita accoglimento, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 05.01.2016 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Il Direttore dei Lavori può ordinare varianti in corso d'opera ancorché in carenza della preventiva approvazione del comune.
In tema di appalto di opera pubblica, qualora i lavori appaltati dal Comune siano variati per ordine scritto del direttore dei lavori, che si palesi carente dell'indicazione della preventiva approvazione dell'amministrazione committente, ma che successivamente siano autorizzati con una perizia di variante e suppletiva, ai sensi dell'art. 342 della legge 20.03.1865 n. 2248 all. F e dall'art. 13 del capitolato generale di appalto approvato con il d.P.R. 16.07.1962 n. 1063 (applicabili ratione temporis), e con la conseguente delibera del consiglio comunale, l'originaria irregolarità dell'ordine privo di quell'indicazione deve ritenersi sanata in virtù dell'intervenuta ratifica dell'ordine medesimo.
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4.1. L'esercizio dello ius varlandi dell'Amministrazione, nell'ambito del rapporto contrattuale di appalto pubblico, incontra i limiti dettati (ratione temporis) dall'art. 342 e ss. della L. n. 2248 del 1865 (All. F) e dagli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 1063 del 1962 (Capitolato Generale 00.PP.).
4.2. Alla luce di tali previsioni,
le variazioni al progetto dell'opera pubblica possono legittimamente intervenire in tre casi, specificamente nominati:
a) a seguito dell'ordine scritto del Direttore dei lavori, con la «superiore approvazione» dell'Amministrazione appaltante;
b) in caso di assoluta urgenza, su richiesta del D.L. (il quale dovrà darne avviso all'Amministrazione appaltante),
c) quando sia reputato utile o necessario introdurre variazioni o aggiunge non previste dal contratto e che comportino variazioni di prezzo, mediante l'approvazione da parte della D.L. di una perizia suppletiva.

4.3. Nel caso di specie, l'impresa ricorrente invoca, al contempo, l'esistenza di un ordine scritto del D.L., ma anche l'esistenza di una perizia di variante approvata dall'Amministrazione comunale oltre che l'urgente necessità dell'intervento.

4.4. Ma se l'urgente necessità è stata espressamente esclusa dalla Corte territoriale, con sintetica ma chiara motivazione (alle pp. 10-11 della sentenza), così che è da escludere la fondatezza della doglianza proposta al riguardo con il secondo mezzo di cassazione, nessuna idonea considerazione è stata espressa dal giudice distrettuale a proposito della legittimità (o meno) delle altre due ipotesi di esercizio del ius variandi, pure avanzate e riscontrate nella stessa premessa motivazionale della decisione.
4.5. In particolare,
non appare corretta l'esclusione della legittimità della prima di tali ipotesi di esercizio del ius variandi dell'Amministrazione (quello della variazione determinatasi a seguito dell'ordine scritto da parte del Direttore dei lavori, con la «superiore approvazione» dell'Amministrazione appaltante, di cui all'art. 342, 1° co., disp. cit.) in quanto l'omessa indicazione dei profili formali della approvazione da parte dell'Autorità amministrativa nell'ordine impartito dalla Direzione Lavori, pur avendo un preciso rilievo (avendo il significato di esplicitare la rispondenza di esso ai voleri dell'amministrazione appaltante), non appare decisivo ai fini della legittimità dell'ordine non dovendo esso necessariamente sussistere al momento in cui il DL abbia impartito l'ordine scritto.
4.5.2. Come già questa stessa Corte ha affermato, un tale requisito può intervenire anche in un momento successivo, a sanatoria dell'ordine (in ipotesi annullabile) ma formalmente dato.
4.5.3. Infatti, non solo alla luce degli artt. 21-octies e 21-nonies della L. n. 241 del 1990, non applicabili ratione temporis, ma sulla base dei principi che sono ad essi sottesi, invocabili anche con riferimento al caso esaminato, in quanto immanenti nel sistema,
questa Corte ha in passato già affermato, finanche in caso di ordine non scritto, il principio di sanatoria, quando (Sez. l, Sentenza n. 5172 del 1994) ha stabilito che «In caso di variazioni ai lavori appaltati da un comune non disposte con ordine scritto da parte del direttore del lavori (come prescritto dall'art. 342 della legge 20.03.1865 n. 2248 all. F e dall'art. 13 del capitolato generale di appalto approvato con il d.P.R. 16.07.1962 n. 1063), ma riassunte in una perizia di variante, l'approvazione della perizia da parte della giunta comunale che agisca in via di urgenza con i poteri del consiglio comunale (nella specie, sciolto ed in attesa di rinnovo) sana l'irregolarità derivante dalla mancanza dell'ordine scritto e comporta il riconoscimento del diritto dell'appaltatore a ricevere il compenso per le opere eseguite, anche se il nuovo consiglio comunale non ratifichi la delibera della giunta, atteso che, ai sensi dell'art. 140 del T.U. sulla legge comunale e provinciale, di cui al R.D. 04.02.1915 n. 148, la mancata ratifica, da parte del consiglio comunale, della delibera assunta della giunta comunale in via d'urgenza non può elidere gli effetti prodotti "medio tempore" dal provvedimento della giunta.
4.6. Ne deriva la fondatezza della censura di violazione di legge ove la stessa sia intesa a far rilevare l'errore, così come commesso da parte della Corte territoriale, costituito dal mancato rispetto del principio del richiamo formale dell'approvazione dell'organo superiore quand'anche tale approvazione sia intervenuta in un momento successivo, vuoi attraverso la redazione ed approvazione della perizia di variante, vuoi con la deliberazione di approvazione di questa con riferimento alle opere che non hanno formato oggetto del contratto originario.
4.7. La Corte territoriale, infatti, ha considerato decisiva la mancanza dell'approvazione al momento della formulazione dell'ordine, da parte della D.L. all'impresa, senza considerare che l'approvazione è, tuttavia, intervenuta, sia pure in un momento di poco posteriore.
4.8. Del resto, tale approvazione (indipendentemente dalle successive vicende del provvedimento dapprima dato, poi revocato ed infine confermato: da considerarsi irrilevanti, dovendo riferirsi al solo momento approvativo, successivo all'ordine del DL) è consistita anche nell'approvazione di una perizia di variante e suppletiva, secondo quella terza ipotesi di esercizio legittimo del ius variandi da parte dell'Amministrazione. Ciò che non ha formato oggetto di specifica considerazione da parte del giudice distrettuale, con violazione della norma di legge e dell'obbligo motivazionale.
4.9. Infine, a completamento del ragionamento giudiziale, resta del tutto esterna la questione dei limiti quantitativi della variazione apportata rispetto al credito dell'appaltatore (potendo questo subire anche legittime decurtazioni ove tali limiti siano stati superati) e rispetto al finanziamento che l'Amministrazione abbia richiesto (profilo che non attiene al rapporto contrattuale ma alla provvista dei mezzi, che è problema tutto esterno al contratto e interno all'attività della stazione appaltante).
4.10. Ne segue la cassazione con rinvio della sentenza affinché, in diversa composizione la Corte territoriale riesamini le risultanze processuali alla luce del seguente principio di diritto: "
In tema di appalto di opera pubblica, qualora i lavori appaltati dal Comune siano variati per ordine scritto del direttore dei lavori, che si palesi carente dell'indicazione della preventiva approvazione dell'amministrazione committente, ma che successivamente siano autorizzati con una perizia di variante e suppletiva, ai sensi dell'art. 342 della legge 20.03.1865 n. 2248 all. F e dall'art. 13 del capitolato generale di appalto approvato con il d.P.R. 16.07.1962 n. 1063 (applicabili ratione temporis), e con la conseguente delibera del consiglio comunale, l'originaria irregolarità dell'ordine privo di quell'indicazione deve ritenersi sanata in virtù dell'intervenuta ratifica dell'ordine medesimo" (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 18.12.2015 n. 25524).

EDILIZIA PRIVATA: Grandi distributori automatici con licenza edilizia.
Per installare dei distributori automatici di alimenti e bevande di grandi dimensioni sulle strade con caratteristiche di ingombro non dissimili da quelle di un chiosco serve la licenza edilizia.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 06.11.2015 n. 5064.
Un esercente titolare di concessione per l'occupazione di suolo pubblico con distributori automatici è entrato in conflitto con il comune di Crotone a causa del posizionamento di un impianto nel centro abitato.
In sede di contenzioso amministrativo il Tar ha confermato in parte la decisione del comune stabilendo l'irregolarità urbanistico edilizia dell'installazione. E i giudici di palazzo Spada hanno confermato questa decisione.
In pratica i distributori automatici di alimenti e bevande se hanno caratteristiche dimensionali importanti sono assimilabili a un chiosco quindi l'impatto visivo del manufatto determina una effettiva trasformazione dello stato dei luoghi.
Quindi al di là di tutte le altre considerazioni di carattere amministrativo per il posizionamento degli impianti più grandi su una strada o una piazza comunale serve un permesso di costruire (articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).
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MASSIMA
... per la riforma della sentenza del TAR CALABRIA–CATANZARO, SEZIONE II, n. 478/2015, resa tra le parti, concernente demolizione di opere abusivamente realizzate consistenti nell'installazione di due distributori automatici di bevande e alimenti;
...
... il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, per ragioni di merito che consentono di assorbire qualsiasi questione preliminare.
Appare infatti necessario sottolineare, in primo luogo, che il ricordato regolamento TOSAP –nel prescrivere i pareri del servizio dei Lavori pubblici e del Servizio urbanistica– non avrebbe potuto derogare alle prescrizioni, di rango superiore, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), che nell’art. 3, comma 1, lettera e), punto e.5, definisce “interventi di nuova costruzione” –soggetti a permesso di costruire, a norma del successivo art. 10– “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all’interno di strutture ricettive all’aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta e il soggiorno di turisti”.
L’art. 6 “attività edilizia libera”, comma 1, lettera e), a sua volta, esclude l’esigenza di titolo abilitativo per “le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”.
I distributori automatici di alimenti e bevande potrebbero essere inseriti, in effetti, nell’una o nell’altra categoria, a seconda della relativa collocazione e delle effettive dimensioni (che solo ove molto ridotte giustificherebbero l’assimilazione degli stessi a meri arredi, se situati all’interno o nelle aree pertinenziali degli edifici).
Nella situazione in esame, tuttavia,
la documentazione anche fotografica in atti mostra un manufatto a sé stante di dimensioni non irrisorie, destinato ad occupare circa tre metri quadrati di suolo pubblico, con caratteristiche non dissimili da quelle di un chiosco e di impatto visivo tale da determinare una effettiva trasformazione dello stato dei luoghi, con conseguente necessità di permesso di costruire.
Non appare possibile sostenere, in senso contrario, che la struttura di cui trattasi –in quanto oggetto di una concessione temporanea per l’occupazione di suolo pubblico– non fosse destinata al soddisfacimento di esigenze stabili, in quanto confermano la necessità del titolo edilizio la non manifesta temporaneità dell’installazione, nonché la prevista proroga tacita della concessione ad ogni scadenza e la stessa impostazione difensiva dell’appellante (che postula la trasformazione in diritto quesito dell’affidamento, maturato in ordine ad una determinata collocazione).
La documentazione depositata dal Comune, inoltre, non conferma alcune prospettazioni dell’appellante, che aveva affermato di avere accettato solo un temporaneo spostamento, in coincidenza di lavori di sistemazione dell’intero piazzale e della relativa pavimentazione, con l’aspettativa di riottenere il medesimo posizionamento al termine dei lavori stessi.
Tali affermazioni potrebbero apparire avallate da una nota del Comune di Crotone del 23.06.2011 (n. prot. 34135), in cui –dato l’imminente inizio delle opere di sistemazione– il dirigente comunale di settore, con atto a firma anche del responsabile unico del procedimento, comunicava la necessità e l’urgenza di spostare il manufatto di cui trattasi “e contestualmente di definire un nuovo e più idoneo posizionamento nell’ambito dello stesso piazzale”: a tale comunicazione si riferiva, appunto, la medesima appellante nel richiedere, con nota protocollata presso il Comune il 06.05.2013 (n. prot. 20130021541) il riposizionamento della struttura nella piazza di originaria collocazione, in base alla concessione di occupazione permanente di suolo pubblico n. 31 del 30.04.2009.
Veniva ignorata, tuttavia, la comunicazione della già citata società concessionaria Ak. s.p.a. n. 373/2011 del 25.10.2011, con cui si escludeva il rinnovo della predetta concessione n. 31 del 2009 “alla scadenza naturale del 31.12.2011”, con disposta rimozione del manufatto.
Tale comunicazione faceva seguito, peraltro, al provvedimento della medesima Ak. n. 83/2010 del 16.03.2010, che escludeva il tacito rinnovo di detta concessione (in conformità alle clausole, contenute nella medesima), con affermata disponibilità ad esaminare con la ditta interessata nuove zone di posizionamento (in effetti successivamente individuate, con concessione n. 5 del 2012).
Di tali pregresse disposizioni non sembra sia stata data notizia al commissario ad acta, che registrava solo una comunicazione del Comune di non poter rilasciare “ulteriori” concessioni di occupazione di suolo pubblico nel piazzale di cui trattasi (in quanto interessato da un nuovo progetto di sistemazione), rilevando al riguardo che la ditta Spina sarebbe già stata “attualmente titolare della predetta concessione”.
Il Collegio non è chiamato, in ogni caso, a valutare la pronuncia del commissario ad acta, né i presupposti e gli effetti della revoca (che non risulta impugnata) dell’originaria concessione di suolo pubblico, in quanto il successivo ordine di rimozione d’ufficio (n. 12 del 13.01.2015) risulta emesso per assenza di titolo abilitativo, a norma dell’art. 27 (vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia) del d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina l’esecuzione di opere senza titolo su aree di proprietà pubblica, nonché in ogni caso di difformità dalle norme urbanistiche.
Nel ritenere che tale determinazione sia stata legittimamente emessa, il giudice di primo grado ha espresso considerazioni condivisibili, per le ragioni già in precedenza illustrate, né può sostenersi che tale giudizio violasse l’art. 112 Cod. proc. civ., non potendosi esaminare le argomentazioni difensive della ricorrente senza un necessario raffronto con la motivazione dell’atto impugnato, ovvero con la necessità (anche se per il passato non rilevata) che il manufatto in questione richiedesse l’apposito permesso di costruire.
Ugualmente condivisibile, pertanto, in assenza di tale necessario presupposto, non poteva che ritenersi l’esito negativo della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) n. prot. 2281 del 16.01.2015.
Indipendentemente quindi da ogni considerazione sulla tutela, invocata dall’appellante, del suo affidamento, sta di fatto che nella situazione in esame –posto che per “concessione permanente” si intende un titolo stabile, ma non irrevocabile alle scadenze, soprattutto in presenza di superiori interessi pubblici (nel caso di specie: ragioni di decoro della piazza oggetto di restauro)– l’unica circostanza ai presenti riguardi addebitabile all’Amministrazione appare, in conclusione, quella di non essersi pronunciata –ferma la sua autonoma valutazione al riguardo- sull’istanza di riposizionamento, pervenuta il 06.05.2013.
Non può tuttavia ignorarsi che detta istanza non teneva in alcun conto due successive comunicazioni (nn. 83 del 2010 e 373 del 2011), con cui la società concessionaria del Comune per le occupazioni di suolo pubblico escludeva il rinnovo, alla scadenza, della concessione di cui trattasi.
In tale contesto il Collegio ritiene che debba disporsi il rigetto dell’appello, poiché la documentazione in atti esclude comunque sia un reale affidamento dell’istante, sia le conseguenze risarcitorie per il c.d. “danno da ritardo”; tale ritardo dell’Amministrazione, nell’esplicitare le ragioni di rigetto dell’istanza del 2013, costituisce però, ad avviso del Collegio stesso, ragione sufficiente per disporre la compensazione delle spese giudiziali.

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: LA CORTE DEI CONTI SU NUOVO ORDINAMENTO CONTABILE E SOTTOSCRIZIONE DEL CONTRATTO DECENTRATO (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.01.2016).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Parziale rettifica del comunicato del Presidente del 10.11.2015 a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 501 della legge 28.12.2015, n. 208 (comunicato del Presidente 08.01.2016 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Estesa ai Comuni con meno di 10.000 abitanti la possibilità di procedere ad acquisti autonomi per importi inferiori a 40.000 euro.
Con l’entrata in vigore della c.d. Legge di stabilità 2016, è estesa anche ai Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti la possibilità di procedere ad acquisti autonomi per importi inferiori a 40.000 euro. Dal 01.01.2016 l’Autorità provvederà a rilasciare il Codice Identificativo Gara - CIG - a tutti i Comuni che procedono all’acquisto di lavori, servizi e forniture sotto l’importo indicato.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: nuova proroga dell’entrata in vigore delle sanzioni (ANCE di Bergamo, circolare 07.01.2016 n. 1).

SICUREZZA LAVOROOggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modificazioni e integrazioni - risposta al quesito in merito alla corretta interpretazione della figura del preposto alla sorveglianza dei ponteggi ai sensi dell'art. 136 del Testo Unico, e in particolare ai compiti ad esso assegnati e ai requisiti di formazione, anche in confronto con quelli ricadenti sul preposto ex articolo 2, comma 1, lettera e) (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 29.12.2015 n. 16/2015).

SICUREZZA LAVOROOggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modificazioni e integrazioni - risposta al quesito in merito alla bonifica preventiva degli ordigni bellici (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 29.12.2015 n. 14/2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI: Legge di Stabilità 2016 (Legge 28.12.2015 n. 208) “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” Articolo unico - Nota di lettura preliminare sulle norme di interesse dei Comuni in materia di finanza e fiscalità locale (IFEL, 05.01.2016 (corretto l'08.01.2016) - tratto da www.fondazioneifel.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L. Sergio, Unioni di comuni: la nociva proroga dell’avvio delle funzioni comunali fondamentali in forma associata - Focus normativo e novità previste dalla legge di Stabilità 2016 (10.01.2016 - tratto da www.studiocataldi.it).

VARI: Legge di stabilità 2016: per i pagamenti con carta di credito non serve il documento d'identità (05.01.2016 - link a (www.studiocataldi.it).

APPALTI: S. Varone, La partecipazione degli enti pubblici alle gare di appalto e la tutela della concorrenza - NOTA A CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SEZ. V, SENTENZA 18.12.2014, CAUSA C-568/13 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2015).

GURI - GUUE -BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 dell'11.01.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.12.2015, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 30.12.2015 n. 188).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 05.01.2016, "Delibera Giunta regionale 14.12.2015 - n. X/4593 - Approvazione delle linee guida per l’infrastruttura di ricarica dei veicoli elettrici, pubblicata sul BURL n. 52, serie Ordinaria di martedì 22.12.2015" (errata-corrige).

APPALTI: G.U.U.E. 06.01.2016 n. L 3 "REGOLAMENTO DI ESECUZIONE (UE) 2016/7 DELLA COMMISSIONE del 05.01.2016 che stabilisce il modello di formulario per il documento di gara unico europeo".

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Per il Responsabile Anticorruzione non c'è conflitto d'interessi?
IL CASO: Il ruolo di Responsabile per la prevenzione della sicurezza non dovrebbe essere incompatibile con lo svolgimento di funzioni gestionali nell'ambito del proprio settore?
Se, infatti, il Comandante della Polizia locale, responsabile di un ufficio con competenze gestionali, non può svolgere le attività in relazione alle quali compie anche attività di vigilanza e controllo, perché il RPC può ancora svolgere, senza che si intraveda un conflitto di interessi, le funzioni proprie di detto ruolo anche se è incaricato della responsabilità di servizi del Comune?

(Risponde l'avv. Nadia Corà)
Il ruolo di Comandante della Polizia locale, che è collegato all'esercizio delle funzioni di controllo, è incompatibile con funzioni di servizi di un Comune per i quali sia necessario emettere, per le attività oggetto di controllo, provvedimenti autorizzatori o concessori, sussistendo un'ipotesi di conflitto di interesse, anche potenziale.
Il principio è stato ripetutamente affermato dall'ANAC con plurimi orientamenti (Orientamento n. 19 del 10.06.2015 Orientamento n. 57 del 03.07.2014).
La ragione del conflitto, anche solo potenziale, di interessi è da ravvisarsi nella inconciliabilità tra funzioni di controllo da un lato e funzioni di amministrazione attiva dall'altro lato.
Sulla necessità di tenere distinti i due ruoli l'ANAC è intervenuta anche con riferimento a figure diverse dal Comandante della Polizia Locale, come, ad esempio, con riferimento al ruolo del Responsabile della corruzione (RPC) rispetto al quale l'aggiornamento 2015 del PNA ha manifestato seri dubbi sulla compatibilità del ruolo con le funzioni di amministrazione attiva.
Al riguardo l'ANAC ha evidenziato che "Il RPC deve essere scelto, di norma, tra i dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia in servizio. Questo criterio è volto ad assicurare che il RPC sia un dirigente stabile dell'amministrazione, con una adeguata conoscenza della sua organizzazione e del suo funzionamento, dotato della necessaria imparzialità ed autonomia valutativa e scelto, di norma, tra i dirigenti non assegnati ad uffici che svolgano attività di gestione e di amministrazione attiva.
La nomina di un dirigente esterno o di un dipendente con qualifica non dirigenziale deve essere considerata come una assoluta eccezione, da motivare adeguatamente in base alla dimostrata assenza di soggetti aventi i requisiti previsti dalla legge. Considerata la posizione di indipendenza che deve essere assicurata al RPC non appare coerente con i requisiti di legge la nomina di un dirigente che provenga direttamente da uffici di diretta collaborazione con l'organo di indirizzo laddove esista un vincolo fiduciario
".
Precisa ulteriormente l'Autorità che "lo svolgimento delle funzioni di RPC in condizioni di indipendenza e di garanzia è stato solo in parte oggetto di disciplina della l. 190/2012 con disposizioni che mirano ad impedire una revoca anticipata dall'incarico e, inizialmente, solo con riferimento al caso di coincidenza del RPC con il segretario comunale (art. 1, co. 82, della l. 190/2012).
A completare la disciplina è intervenuto l'art. 15, co. 3, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, che ha esteso l'intervento dell'ANAC in caso di revoca, applicabile in via generale.
Sono assenti, invece, norme che prevedono sia specifiche garanzie in sede di nomina (eventualmente nella forma di un parere dell'ANAC sulle nomine), sia misure da adottare da parte delle stesse amministrazioni o enti dirette ad assicurare che il RPC svolga il suo delicato compito in modo imparziale, al riparo da possibili ritorsioni.
Nell'attesa di una chiarificazione in sede di attuazione della l. 124/2015, si invitano tutte le pubbliche amministrazioni, le società e gli enti di diritto privato in controllo pubblico a regolare adeguatamente la materia, con atti organizzativi generali (ad esempio, negli enti locali, il regolamento degli uffici e dei servizi) e comunque nell'atto con il quale l'organo di indirizzo individua il dirigente e lo nomina RPC.
E' intenzione dell'Autorità verificare che gli atti di nomina siano coerenti con tale finalità
" (tratto dalla newsletter 12.01.2016 n. 132 di http://asmecomm.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Seggi, prima gli sconfitti. Il mancato sindaco può fare gruppo a sé. Il candidato non eletto rappresenta non tanto la lista quanto la coalizione.
È corretta la costituzione di gruppi consiliari in un ente in cui tre consiglieri, già candidati sindaci non eletti, hanno comunicato di assumere la carica di capogruppo per liste che, pur appartenendo alle proprie coalizioni, non hanno espresso consiglieri comunali?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000). La materia, pertanto, è regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta dal citato art. 38 del Tuel.
Nella fattispecie, lo statuto del comune prevede che «i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare», mentre il regolamento del consiglio comunale stabilisce che «i consiglieri eletti nella medesima lista formano, di regola, un gruppo consiliare». La disposizione statutaria appare, pertanto, più rigida rispetto all'articolo del regolamento, laddove si prevede che «di regola» i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare.
La norma dello statuto consentendo, altresì, la mobilità tra gruppi, prevede la costituzione del gruppo misto ove si iscrivono di diritto, tra gli altri, i consiglieri che si dichiarano indipendenti, e dispone che «ove una lista presentata all'elezione abbia ottenuto un solo consigliere, a questi sono riconosciuti i diritti e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare».
Benché non sia chiaramente desumibile se i consiglieri interessati abbiano costituito gruppi unipersonali, comunque, in assenza di norme regolamentari che integrino ulteriormente la disposizione statutaria, i gruppi unipersonali sono riconosciuti solo nei confronti dei consiglieri eletti nell'ambito di una lista, escludendosi, dunque, la formazione di gruppi unipersonali dopo l'insediamento del consiglio.
L'articolo 73 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'elezione del consiglio nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, al comma 11 prevede, dopo il riparto dei seggi tra le varie liste, che il primo seggio venga assegnato al candidato sindaco non eletto, e, in caso di collegamento tra più liste, tale seggio si detrae dai seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste collegate.
Come ha evidenziato il Consiglio di stato, con sentenza della V sezione, 12.12.2003, n. 8208, la normativa sopra citata «impone palesemente di dedurre in via prioritaria il seggio controverso da quelli riservati alla coalizione di riferimento, e non da quelli spettanti alla lista che lo ha presentato, e di procedere, poi all'assegnazione di quelli rimasti mediante l'individuazione dei quozienti più alti conseguiti dai candidati dalle liste collegate».
Tale principio è confermato da giurisprudenza più recente (Tar Campania, sez. I, n. 2124/2013 del 22.04.2013) la quale ha ribadito che l'interessato «è stato proclamato eletto non già quale candidato al consiglio comunale (di una lista) ma quale candidato sindaco uscito sconfitto dalla competizione, del più vasto schieramento composto da quattro liste in conformità al già citato art. 73, comma 11».
Il candidato sindaco non eletto fa parte, quindi, del consiglio non come esponente di una lista, ma in qualità di maggior rappresentante della coalizione nella sua interezza.
Nel caso di specie, il primo o unico seggio attribuito al complesso di liste collegate, compete, pertanto, al candidato sindaco non eletto, il quale, anche in virtù del più generale principio di rappresentanza di più liste, come riconosciuto dal regolamento del comune in questione («di regola») rispetto all'analoga previsione statutaria, può costituire un gruppo autonomo, acquisendo i corrispondenti diritti e le relative prerogative (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONELa richiesta è da considerarsi inammissibile in quanto il richiesto risulta essere:
1) sprovvisto del requisito della generalità ed astrattezza,
2) si pone in una possibile posizione di pregiudizialità rispetto ad eventuali forme di responsabilità amministrativo-contabile,
3) si presenta potenzialmente idoneo ad interferire con le competenze di altri organi giurisdizionali.

Sicché,
le richieste di parere non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, ossia non devono implicare valutazione di comportamenti amministrativi, in particolare se connessi ad atti già adottati o comportamenti espletati, ovvero da adottarsi e/o in corso di adozione per i quali si chiede il conforto della Corte al fine di evitare che l’Amministrazione, nell’espletamento della propria attività istituzionale, possa incorrere in censurabili violazioni di carattere amministrativo e/o di natura erariale.
Nel caso di specie
l’assenza dei prescritti requisiti della generalità ed astrattezza appaiono evidenti in considerazione del fatto che il quesito formulato si inquadra in una prospettiva applicativa posto che esso inerisce ad un caso concreto di cui l’Amministrazione fornisce tutti i dettagli.
Per questi motivi,
risulta evidente che qualsiasi considerazione espressa dalla Sezione in ordine al quesito formulato andrebbe inevitabilmente a condizionare scelte di carattere discrezionale e di merito, riservate alla competenza esclusiva dell’ente, e ad interferire con le competenze di altri organi giurisdizionali.

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Con la suindicata richiesta di parere, presentata ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, il Sindaco e il Dirigente Area Tecnica del comune di Bussolengo (VR), dopo aver rappresentato, con ricostruzione estremamente dettagliata comprensiva anche dei nomi degli incaricati, degli importi e dei dettagli del progetto definitivo/esecutivo relativo ai lavori di riqualificazione strutturale di alcune strade comunali, nonché delle delibere di approvazione degli elaborati ed aver precisato di avere in corso di approvazione il nuovo regolamento per l’attribuzione e la ripartizione del fondo di incentivazione per la progettazione, hanno formulato il seguente quesito:
<1) se, al personale dell'ufficio tecnico, incaricato di svolgere le funzioni di Responsabile unico del procedimento, progettista, direttore lavori, responsabile della sicurezza, possa essere riconosciuto l'incentivo per la progettazione di cui all'art. 92, del Decreto legislativo 163/2006 e smi;
2) se il personale dell'ufficio tecnico, inquadrato come istruttore tecnico e avente la qualifica di geometra o architetto, sia tenuto, una volta incaricato, a svolgere dette funzioni, indipendentemente dalla corresponsione dell'incentivo per la progettazione
>.
In proposito i predetti richiedenti hanno precisato che: <Il primo quesito riveste il carattere di generalità e attiene a temi riguardanti la contabilità pubblica, in quanto si tratta di stabilire la corretta natura di alcuni lavori pubblici, da considerare come nuovi lavori o manutenzioni straordinarie. Detta differenza risulta sostanziale e influisce sulla spesa pubblica, in quanto nel primo caso può essere corrisposto l'incentivo, mentre nel secondo caso non può essere corrisposto.
Il secondo quesito è importante invece per verificare se gli incarichi afferenti alle professioni di geometra, architetto, ingegnere, possano essere sempre attribuiti al personale dell'ufficio tecnico inquadrato in categoria C o D, in quanto si verrebbe così a ridurre la spesa per la progettazione delle manutenzioni straordinarie ed ordinarie
>.
...
Quanto alle condizioni oggettive,
la richiesta è da considerarsi inammissibile in quanto il richiesto risulta essere:
1) sprovvisto del requisito della generalità ed astrattezza,
2) si pone in una possibile posizione di pregiudizialità rispetto ad eventuali forme di responsabilità amministrativo-contabile,
3) si presenta potenzialmente idoneo ad interferire con le competenze di altri organi giurisdizionali.

Si precisa, in proposito, che nell’esercizio della funzione consultiva le Sezione regionali di controllo non possono diventare “organi di consulenza generale delle autonomie locali”; questo per evitare che la Corte venga coinvolta, in varia misura “nei processi decisionali degli enti, condizionando quell’attività amministrativa su cui è chiamata ad esercitare il controllo che, per definizione, deve essere esterno e neutrale” (Sezione delle Autonomie, delibera n. 5/AUT/2006).
Pertanto
le richieste di parere non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali, ossia non devono implicare valutazione di comportamenti amministrativi, in particolare se connessi ad atti già adottati o comportamenti espletati, ovvero da adottarsi e/o in corso di adozione per i quali si chiede il conforto della Corte al fine di evitare che l’Amministrazione, nell’espletamento della propria attività istituzionale, possa incorrere in censurabili violazioni di carattere amministrativo e/o di natura erariale.
Nel caso di specie
l’assenza dei prescritti requisiti della generalità ed astrattezza appaiono evidenti in considerazione del fatto che il quesito formulato si inquadra in una prospettiva applicativa posto che esso inerisce ad un caso concreto di cui l’Amministrazione fornisce tutti i dettagli.
Per questi motivi,
risulta evidente che qualsiasi considerazione espressa dalla Sezione in ordine al quesito formulato andrebbe inevitabilmente a condizionare scelte di carattere discrezionale e di merito, riservate alla competenza esclusiva dell’ente, e ad interferire con le competenze di altri organi giurisdizionali.
Sul punto, tra l’altro, esiste consolidata giurisprudenza.
In conseguenza,
la richiesta all’esame è da ritenersi inammissibile (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 23.12.2015 n. 632).

PATRIMONIO: Riduzione delle locazioni inapplicabile tra le p.a..
La riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva stipulati dalle p.a., prevista dal dl n. 95/2012, non è applicabile nell'ipotesi in cui entrambe le parti in causa siano ricomprese nell'alveo delle pubbliche amministrazioni. In questo caso, infatti, non si realizza la finalità della norma, vale a dire quella di contenere la spesa pubblica, in quanto gli effetti monetari sarebbero del tutto neutri.

È quanto ha precisato la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l'Emilia-Romagna, nel testo del parere 15.12.2015 n. 157, con cui viene fatta chiarezza sulla portata della norma contenuta all'articolo 3, comma 4 del dl n. 95/2012, come modificato dall'articolo 24, comma 4 del dl n. 66/2014.
In detta disposizione, lo si ricorderà, viene precisato che per esigenze di riduzione della spesa pubblica, a partire dall'01/07/2014 i canoni dei contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili istituzionali stipulati dalle amministrazioni pubbliche, devono essere ridotti del 15%, salvo diritto di recesso esercitabile dal locatore. Sulla scorta di ciò, il sindaco del Comune di Reggio Emilia, ha chiesto alla Corte se detta norma fosse applicabile al caso in cui le parti in causa in un contratto di locazione passiva appartengano entrambe all'alveo della Pubblica amministrazione.
Per il collegio della magistratura contabile emiliana, la disposizione in oggetto non pare applicabile nell'ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni. In tal senso, infatti, è preclusiva l'interpretazione della normativa che, lo si ribadisce, intende realizzare «il contenimento della spesa pubblica».
Ed è evidente, si legge nel parere, che la ratio della norma non si realizza quando il rapporto, sui cui canoni dovrebbe essere applicata la riduzione automatica del 15%, intervenga tra esse. Infatti, l'effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto all'obiettivo di contenimento della spesa pubblica, essendo di tutta evidenza che l'inserimento della clausola di riduzione, pur comportando per una p.a. un risparmio del 15%, per l'altra comporterebbe, in egual misura, un minor introito (articolo ItaliaOggi del 07.01.2016).

NEWS

APPALTI: Delega appalti, rush finale. Al Senato.
Il ddl delega sugli appalti pubblici da oggi all'esame dell'aula del senato; il governo auspica il varo definitivo entro la settimana.

Dovrebbe concludersi in questi giorni il lungo esame del ddl delega (Atto Senato 1678-B) per il recepimento delle direttive sugli appalti e concessioni pubbliche, avviato a fine agosto 2014 con l'approvazione in consiglio dei ministri su proposta dell'allora ministro Maurizio Lupi.
Il provvedimento, dopo i sensibili ritocchi apportati alla camera, in questa terza lettura al senato non è stato modificato. Arriva in aula quindi lo stesso testo approvato a Montecitorio nonostante alcune commissioni avessero espresso profili di incompatibilità con le regole europee.
In particolare era stata la commissione lavoro a puntare il dito sulla disciplina delle cosiddette clausole sociali. L'eccezione che era stata fatta dalla commissione riguardava il vincolo per l'assunzione di tutti i dipendenti del contratto di appalto in essere; si eccepiva che derivasse dalla legge e non dal contratto collettivo nazionale.
Nonostante i pareri critici, tesi al miglioramento del ddl che, soprattutto con la prima lettura, cambiò radicalmente forma rispetto al testo del governo, l'aula del senato darà il suo via libera a breve consentendo quindi l'avvio dell'iter di messa a punto dei decreti delegati. In realtà lo stesso ddl prevede due strade: un unico decreto delegato entro il 18 aprile oppure due decreti, uno per recepire le direttive, l'altro per la riforma del codice appalti.
Sul fronte governativo il viceministro alle infrastrutture, Riccardo Nencini, intervenendo in commissione per quel che riguarda l'attuazione della delega che il parlamento approverà, ha già prima delle vacanze natalizie confermato l'intenzione di adottare un «unico» decreto legislativo di attuazione delle deleghe contenute nella riforma entro la scadenza del 18.04.2016, «anche al fine di assicurare la piena compatibilità tra la legislazione nazionale e quella dell'Ue».
Nel frattempo la commissione ministeriale è già al lavoro per definire un elaborato che dovrà essere sottoposto a consultazione pubblica prima dell'avvio dei pareri di rito, commissioni parlamentari incluse (articolo ItaliaOggi del 12.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGORegioni. Incarichi p.a. Sanzioni da rivedere.
Troppo eccessive le sanzioni a carico dei dirigenti p.a. che conferiscono incarichi illegittimi e quindi nulli. Oltre a rispondere delle conseguenze economiche degli atti adottati, gli organi che hanno conferito incarichi in violazione del dlgs n. 39/2013 non potranno più affidarne nessuno per un periodo di tre mesi.

Troppo per la conferenza delle regioni che in un documento approvato lo scorso 17 dicembre ha chiesto di rivedere l'impianto sanzionatorio del dlgs 39/2013.
Il parlamentino dei presidenti di regione si fa forte del parere dell'Autorità nazionale anticorruzione, anch'essa critica nei confronti della disciplina sul conferimento di incarichi pubblici. L'Anac non condivide la previsione di una sanzione «automatica» senza alcuna valutazione «dei comportamenti individuali dei componenti dell'organo che ha conferito l'incarico».
Per questo la Conferenza delle regioni chiede che le sanzioni vengano subordinate «al previo accertamento della sussistenza di colpa o dolo», che siano commisurate alla gravità della condotta e che siano solamente di natura pecuniaria (articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Anche i vigili vogliono il contributo di 80 euro. Legge di Stabilità poco chiara. E i sindacati battono cassa.
I dipendenti dei corpi di polizia locale vanno alla caccia degli 80 euro straordinari che la legge di Stabilità 2016 attribuisce ai «corpi di polizia».

I sindacati stanno chiedendo ai vari comuni l'erogazione della somma, prevista dall'articolo 1, comma 972, della legge 208, ai sensi del quale «nelle more dell'attuazione della delega sulla revisione dei ruoli delle Forze di polizia, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e delle Forze armate e per il riconoscimento dell'impegno profuso al fine di fronteggiare le eccezionali esigenze di sicurezza nazionale, per l'anno 2016 al personale appartenente ai corpi di polizia, al Corpo nazionale dei vigili del fuoco e alle Forze armate non destinatario di un trattamento retributivo dirigenziale è riconosciuto un contributo straordinario pari a 960 euro su base annua, da corrispondere in quote di pari importo a partire dalla prima retribuzione utile e in relazione al periodo di servizio prestato nel corso dell'anno 2016. Il contributo non ha natura retributiva, non concorre alla formazione del reddito complessivo ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e dell'imposta regionale sulle attività produttive e non è assoggettato a contribuzione previdenziale e assistenziale».
La fonte della pretesa deriva dalla poca precisione del testo normativo, che non parla di «forze di polizia».
Se il legislatore avesse utilizzato i corretti termini tecnici, nessun dubbio vi sarebbe stato sulla limitazione del benefit alle sole Polizia di stato, Corpo della polizia penitenziaria, Corpo forestale dello Stato (destinato all'accorpamento con l'Arma dei Carabinieri), Arma dei Carabinieri e Corpo della guardia di finanza.
Invece, la norma parla genericamente di «corpi di polizia». Questa ambiguità letterale dà, dunque, modo ai dipendenti dei corpi di polizia locale di avanzare la pretesa.
L'interpretazione letterale non appare, comunque, in grado di superare l'obiezione fondamentale secondo la quale anche laddove i corpi di polizia locale dovessero essere ricompresi nel beneficio, non è consentito ai comuni farsi carico del costo degli 80 euro.
L'articolo 1, comma 972, della legge 208/2015 prevede che il bonus straordinario sia finanziato esclusivamente a carico del bilancio dello stato e che non si tratta di un trattamento retributivo di natura contrattuale (anche perché, molti dei destinatari non appartengono al personale pubblico contrattualizzato).
Ai sensi dell'articolo 2, comma 3, del dlgs 165/2001 per il personale contrattualizzato «l'attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi». Ma, la legge 208/2015 non assegna alla contrattazione collettiva del comparto enti locali la possibilità di finanziare il bonus straordinario di 80 euro, né consente un finanziamento a carico dei bilanci degli enti locali.
In ogni caso, quindi, i comuni non possono legittimamente accogliere le richieste dei sindacati. L'attribuzione eventuale del bonus potrebbe essere consentita solo laddove il Mef lo consentisse espressamente, sulla falsa riga del bonus di 80 euro disposto col decreto legge 66/2014 (articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego e art. 18 sotto la lente. I possibili effetti legati alla sentenza della Corte di Cassazione.
Ha scatenato numerose polemiche la sentenza della Cassazione sull'estensione delle nuove disposizioni normative relative al nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al pubblico impiego.
In attesa che venga emanato il Testo unico della Pubblica amministrazione, la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro ha predisposto uno studio sugli effetti dell'applicazione dei licenziamenti per giusta causa ai dipendenti pubblici.
In particolare, sono stati analizzati i flussi relativi all'anno 2014 delle comunicazioni obbligatorie, diffusi dal Ministero del lavoro, sulla base dei dati trasmessi dai datori di lavoro in caso di interruzione del rapporto di lavoro.
In un anno in Italia nel settore privato vengono interrotti 10,139 milioni di rapporti di lavoro tra subordinati e collaborazioni coordinate e continuative. La maggior parte delle interruzioni, pari a 6,73 milioni, riguarda i rapporti a tempo determinato che terminano in relazione alla naturale scadenza fissata dalle parti. Ma se si guardano i dati sui licenziamenti italiani, si scopre che nel 2014 ci sono stati 1,09 milioni di licenziamenti nel settore privato.
Tra questi, 828 mila casi derivano da un licenziamento economico, mentre in 89 mila casi si è proceduto con un licenziamento per motivi disciplinari ossia, di giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Pertanto, i licenziamenti per motivi disciplinari rappresentano l'8% del totale e lo 0,67% degli oltre 13 milioni di rapporti di lavoro attivi nel settore privato.
Se le stesse percentuali venissero applicate anche ai 3.233.000 rapporti di lavoro del pubblico impiego, emergerebbe che i lavoratori potenzialmente licenziabili per motivi disciplinari sarebbero ogni anno circa 21.661 a fronte di un costo medio del lavoratore pubblico pari a 48.936 euro. Il costo complessivo dei dipendenti pubblici potenzialmente destinatari di un provvedimento di licenziamento per giusta causa sarebbe, quindi, pari a 1,060 miliardi di euro.
Questi dati sono stati commentati dal Presidente della Fondazione Studi consulenti del lavoro, Rosario De Luca: «Abbiamo provato a semplificare come potrebbe svilupparsi l'applicazione percentuale delle statistiche del settore privato al settore pubblico attraverso una simulazione un po' provocatoria per sottolineare che, se nel settore privato a fronte di questi licenziamenti ci sono poi delle assunzioni, anche nel settore pubblico si dovrebbe pensare ad una maggiore flessibilità, al di là di quello che risparmierebbe lo Stato, che poco non è. Lo scopo della nostra provocazione», ha precisato De Luca, «è spiegare che questi provvedimenti dovrebbero portare a una corsa alla meritocrazia e ad una maggiore qualità della prestazione lavorativa. Se venissero attuati, infatti, ci sarebbe una maggiore competitività sul lavoro, mentre in caso contrario potrebbero portare a fenomeni di lassismo che ogni tanto vengono segnalati nel settore pubblico» (articolo ItaliaOggi del 12.01.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATALe differenze locali sulla superficie pesano sui lavori. Gli effetti per nuovi edifici e ristrutturazioni. Urbanistica. Definizioni e calcoli diversi da un Comune all’altro.
In teoria la superficie delle costruzioni è un parametro edilizio abbastanza semplice da calcolare, nei fatti, invece, è un parametro disomogeno, che cambia da Comune a Comune. Ai sensi dell’articolo 4 del Testo unico dell’edilizia (Dpr n. 380/2001), ciascuno degli 8mila Comuni presenti in Italia può disciplinare le modalità costruttive applicabili al proprio territorio.
Ogni Comune, quindi, è dotato di un regolamento edilizio, mediante il quale, in parallelo con lo strumento urbanistico comunale, vengono tra l’altro disciplinate le modalità di calcolo della superficie e/o del volume delle costruzioni. Ad ogni Comune corrisponde pertanto una determinata modalità di calcolo della superficie, spesso anche largamente diversa da quella prevista in altri territori comunali.
La frammentazione è anche di livello nominalistico, in quanto i Comuni, ai fini della determinazione delle superfici degli immobili, utilizzano definizioni tra loro disomogenee (e così si parla di superficie lorda di pavimento, di superficie utile lorda o, ancora, di superficie abitabile lorda).
Le conseguenze
Le differenze possono avere implicazioni molto concrete.
In primo luogo, mediante la definizione della superficie, il Comune all’atto pratico disciplina quali specifiche porzioni degli immobili sono ricomprese nella complessiva capacità edificatoria ammessa dallo strumento urbanistico comunale e quali superfici rappresentano, invece, porzioni liberamente realizzabili, in quanto escluse nel conteggio di questa capacità massima.
Le esclusioni possono, ad esempio, riguardare gli spazi aperti (balconi o terrazze), gli spazi di collegamento verticale (vani scala e ascensori) o, ancora, i vani sottotetto e i piani interrati e seminterrati.
Così, a parità di capacità edificatoria, le edificazioni possono avere una conformazione ed una articolazione diversa a seconda che ci si trovi in uno o nell’altro dei Comuni d’Italia.
Questo ha inoltre una diretta incidenza rispetto al valore degli immobili, atteso che le superfici realizzabili, ma escluse dal conteggio della volumetria complessivamente ammessa, possono essere oggetto di compravendita e hanno una determinata valutazione nel mercato immobiliare.
Inoltre, le diverse modalità di calcolo delle superfici tra i Comuni rilevano non solo in caso di nuova costruzione, ma anche nel caso di interventi sugli edificati esistenti: le modalità di conteggio possono infatti incidere anche riguardo alla verifica della superficie esistente e di quella recuperabile.
A Milano, Roma e Napoli
Queste diversità ostacolano l’attività dei professionisti del settore, i quali sono costretti ad adeguare l’attività di progettazione alle peculiarità dei singoli territori in cui, di volta in volta, operano.
Un caso significativo delle peculiarità presenti nei regolamenti comunali è quello di Milano, dove si prevede che, tra l’altro, siano esclusi dal conteggio della superficie lorda di pavimento gli spazi per attività comuni di pertinenza dell’intero edificio (quali ad esempio eventuali locali per il fitness, sale comuni ricreative e di riunione), entro determinati limiti e a condizione che questi spazi siano individuati con atto d’asservimento trascritto e da citare negli atti di compravendita.
A Roma, tra le altre esclusioni, rilevano i locali completamente interrati o emergenti fuori terra non oltre 0,80 metri e destinati a funzioni accessorie asservite alle unità immobiliari, quali cantine e depositi.
A Napoli, invece non generano volume i vani scala, ma per la sola parte emergente dalla linea di gronda o dalla copertura dell’edificio.
Il regolamento unico
Il legislatore, con il Dl n. 133/2014 (Sblocca Italia), ha posto le basi per rimediare a queste frammentazioni. La legge, in vigore dal 12.11.2014, ha previsto infatti che il Governo, le regioni e le autonomie locali, al fine di uniformare le norme edilizie, concludano accordi o intese volti all’adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, che costituirà il riferimento unico per tutti i Comuni. Al momento i lavori per la redazione dello schema di regolamento-tipo sono ancora in corso e, alla luce delle possibili favorevoli ricadute sul settore, ci si augura che siano conclusi a breve.
 
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Per gli immobili ad alta efficienza i calcoli sono «soft». Le misure. Lombardia tra le più generose.
Anche le normative edilizie sull’efficienza energetica impattano sul calcolo dei volumi edificabili. La consistenza reale di un edificato viene, infatti, influenzata anche dalle discipline nazionali e regionali che, al fine di favorire lo sviluppo di immobili ad alta efficienza energetica, introducono modalità premiali per il conteggio delle superfici e dei volumi.
A livello nazionale, il legislatore, con il Dlgs 102/2014 in attuazione della direttiva 2012/27/Ue, ha previsto una serie di incentivi alla realizzazione di nuovi edifici energicamente efficienti, nonché alla riqualificazione energetica degli edifici esistenti, tra i quali la possibilità di derogare -entro certi limiti- alle normative nazionali, regionali e comunali inerenti alle distanze minime tra edifici, alle distanze dai confini e alle distanze di protezione del nastro stradale.
L’obiettivo di risparmio energetico cui concorrono le misure del decreto, consiste nella riduzione, entro il 2020, di 20 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio dei consumi di energia primaria. Al raggiungimento di questo obiettivo, possono concorrere anche le Regioni, con il coinvolgimento degli enti locali, attuando i propri strumenti di programmazione energetica. Di conseguenza molte Regioni hanno adottato misure per incentivare l’efficienza energetica dei fabbricati.
Tra le varie normative regionali oggi esistenti, merita di essere segnalata la riforma introdotta dalla Regione Lombardia. Con legge 10.11.2015, n. 38, la Lombardia ha previsto, tra l’altro, che negli interventi di manutenzione straordinaria, restauro e ristrutturazione edilizia che consentano di raggiungere una riduzione superiore al 10% dell’indice di prestazione energetica dettato dalla Regione, così come nelle nuove costruzioni ricadenti nel tessuto urbano consolidato che raggiungono una riduzione superiore al 20% rispetto all’indice, la superficie lorda di pavimento, i volumi e i rapporti di copertura dell’unità immobiliare o dell’edificio sono da calcolare al netto dei muri perimetrali, portanti e di tamponamento, nonché dei solai che costituiscono l’involucro dell’edificio.
Per gli interventi di nuova costruzione esterni al tessuto consolidato sono previsti obiettivi di riduzione ancor più marcati.
A parità di capacità edificatoria, nuovi interventi che garantiscano il raggiungimento di queste soglie di risparmio energetico, potranno dunque avere consistenza effettiva maggiore rispetto ad interventi di minore efficienza.
Ma anche negli interventi sull’esistente -compresi quelli minori di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo (di per sé gratuiti) che assicurino il conseguimento degli obiettivi di efficienza energetica dettati dalla Regione- le superfici pari all’ingombro dell’involucro edilizio (che nei fabbricati di antica formazione hanno rilevante estensione) potranno essere aggiunte agli spazi abitabili, secondo le destinazioni più appetite dal mercato
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Imbullonati, retromarcia fiscale. I macchinari non sono più soggetti a imposte e tasse. Lo prevede la legge di Stabilità 2016. Ritorno al passato per terreni montani o di collina.
Dal 1° gennaio i macchinari imbullonati non sono più soggetti al pagamento di imposte e tasse. Da quest'anno, infatti, i macchinari industriali non concorrono alla determinazione della rendita catastale per i fabbricati a destinazione speciale iscritti nelle categorie «D» ed «E».
Esonerati dal prelievo fiscale i terreni montani o di collina e quelli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione. L'esenzione si estende, inoltre, ai terreni ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile.

Lo prevede l'articolo 1 della legge di Stabilità 2016 (208/2015).
Macchinari industriali. Dunque, la nuova legge di stabilità 2016 esclude dalla stima diretta catastale macchinari, congegni, attrezzature e altri impianti, funzionali al processo produttivo. Ciò comporta che non devono più esser presi in considerazione nella stima diretta catastale macchinari imbullonati e altri impianti. Mentre continuano a concorrere nel calcolo della rendita il suolo e le costruzioni e tutti gli «elementi ad essi strutturalmente connessi che ne accrescono la qualità e l'utilità, nei limiti dell'ordinario apprezzamento».
È del tutto evidente che la rideterminazione delle rendite produce come effetto la riduzione dell'imposizione fiscale e, in particolare, di Imu e Tasi. I contribuenti interessati, però, sono tenuti a richiedere un nuovo provvedimento catastale e devono porre in essere celermente degli adempimenti. A partire dal 01.01.2016, ex lege, gli intestatari degli immobili destinati alle attività produttive, iscritti nelle categorie «D» ed «E», devono presentare gli atti di aggiornamento per ottenere il ricalcolo della rendita catastale degli immobili già censiti.
È stabilito che solo per gli atti di aggiornamento presentati entro il 15.06.2016 le rendite catastali rideterminate avranno effetti retroattivi a partire dal 1° gennaio dello stesso anno.
Con questo intervento normativo il legislatore ha modificato le disposizioni contenute nella legge di Stabilità 2015 (190/2014) con le quali aveva previsto la tassabilità dei macchinari industriali. Nella stima non rientrano più il carroponte e tutte le componenti impiantistiche che assicurano all'unità immobiliare un'autonomia funzionale e reddituale. E non concorrono più al calcolo della rendita un complesso di elementi, ritenuti funzionalmente collegati, costituiti da impianti, macchine, generatori di corrente e relativi motori.
Pertanto, viene superata la previsione contenuta nella norma d'interpretazione autentica (articolo 1, comma 244, della legge 190/2014), che aveva indicato le modalità tecnico-estimative per la determinazione della rendita catastale delle unità immobiliari destinate alle attività industriali e aveva previsto che, nelle more dell'attuazione delle disposizioni relative alla revisione della disciplina del sistema estimativo del catasto dei fabbricati, l'articolo 10 del regio decreto-legge 652/1939 si applicasse in base alle istruzioni fornite dall'Agenzia del territorio con la circolare 6/2012. La suddetta circolare, infatti, aveva dettato le linee guida per individuare e valutare le componenti impiantistiche aventi rilevanza catastale.
Per gli impianti eolici, per esempio, l'Agenzia aveva chiarito che sono ritenuti elementi costitutivi gli edifici, le aree, i generatori della forza motrice, le dighe, i canali adduttori o di scarico, la rete di trasmissione e di distribuzione di merci (circolare 14/2007).
Esenzione terreni agricoli. Dal 2016 non sono tenuti al pagamento dell'imposta municipale i titolari di terreni montani o di collina ubicati nei comuni elencati nella circolare del Ministero dell'economia e delle finanze 9/1993. Sono esonerati dall'Imu anche i terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione, quelli ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile.
Si tratta di un evidente ritorno al passato, poiché il legislatore per individuare i comuni montani o di collina rinvia alla circolare ministeriale 9/1993. Quindi, non fa più fede l'elenco predisposto dall'istituto nazionale di statistica (Istat), al quale le amministrazioni locali hanno dovuto fare riferimento lo scorso anno, come disposto espressamente dal dl 4/2015.
Nell'elenco allegato alla citata circolare, redatto utilizzando i dati forniti dal Ministero dell'agricoltura e delle foreste, sono indicati i comuni, suddivisi per provincia di appartenenza, sul cui territorio i terreni agricoli saranno esenti dall'imposta municipale, in base a quanto disposto dall'articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 504/1992.
Se a fianco dell'indicazione del comune non è riportata alcuna annotazione, vuol dire che l'esenzione opera sull'intero territorio. Qualora, invece, sia riportata l'annotazione parzialmente delimitato «PD», l'agevolazione sarà circoscritta a una parte del territorio. Questo comporta che negli enti montani e di collina non sono più richiesti requisiti soggettivi in capo ai possessori dei terreni, ma conta solo la loro inclusione nella circolare ministeriale.
Gli altri terreni, indipendentemente dalla loro ubicazione, possono invece fruire del trattamento agevolato solo se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola. Sono poi esonerati dal prelievo i terreni ubicati nei comuni delle isole minori di cui all'allegato A della legge 448/ 2001 e quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Va precisato che possono essere considerati terreni agricoli, secondo la definizione contenuta nell'articolo 2135 del codice civile, quelli utilizzati per l'esercizio dell'attività agricola, ovvero la coltivazione del fondo, la silvicoltura, l'allevamento animali e le attività connesse. I benefici fiscali sui terreni agricoli non sono più limitati alle persone fisiche, ma si estendono anche alle società.
Del resto, dal 2012 per la qualificazione di coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale la disciplina Imu richiama l'articolo 1 del decreto legislativo 99/2004, che ricomprende nella suddetta nozione anche le società in qualsiasi forma costituite. Quindi, i benefici fiscali spettano sia alle società di persone sia alle società di capitali, nonché alle cooperative (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Esperti estimatori senza segreti. L'accesso è consentito a tutti gli atti dell'immobile. Dal tribunale di Roma guida sui professionisti nominati nelle esecuzioni immobiliari.
L'esperto estimatore in caso di esecuzioni immobiliari è autorizzato ad acquisire direttamente presso gli uffici pubblici i documenti che si profilino necessari o utili per l'espletamento dell'incarico (anche in copia semplice).
È in particolare autorizzato ad accedere a ogni documento concernente gli immobili pignorati, ivi compresi i documenti relativi ad atti di acquisto e rapporti di locazione, in possesso del comune, dell'ufficio del registro, della agenzia del territorio o dell'amministratore del condominio o di notaio, ed a estrarne copia, non operando nel caso di specie le limitazioni previste in tema di trattamento dati personali.

Questo è quanto si legge nella guida 17.12.2015 del TRIBUNALE di Roma (Sez. IV) sui compiti dell'esperto estimatore nominato in caso di esecuzioni immobiliari.
L'esperto nominato dovrà verificare, prima di ogni altra attività, la completezza della documentazione di cui all'articolo 567, comma 2 c.p.c., mediante l'esame degli atti (estratto del catasto e certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all'immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento, oppure certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari) e dovrà accertare la conformità tra la descrizione attuale del bene (indirizzo, numero civico, piano, interno, dati catastali e confini) e quella contenuta nel pignoramento .
Valore di mercato immobile. L'esperto estimatore sarà tenuto a determinare il valore di mercato dell'immobile con espressa e compiuta indicazione del criterio di stima e analitica descrizione delle fonti cui si sarà fatto riferimento, secondo il procedimento prescritto dall'articolo 568, secondo comma c.p.c..
Inoltre nella determinazione del valore dell'immobile sarà tenuto a considerare i dati relativi alle vendite forzate effettuate nello stesso territorio e per la stessa tipologia di bene, anche mediante consultazione dei dati accessibili sul sito del Tribunale di Roma, a specifici atti pubblici di compravendita di beni analoghi, per collocazione e/o tipologia, indagini di mercato con specifica indicazione delle agenzie immobiliari consultate, alle banche dati nazionali operando le opportune decurtazioni sul prezzo di stima considerando lo stato di conservazione dell'immobile e, come opponibili alla procedura esecutiva, i soli contratti di locazione e i provvedimenti di assegnazione al coniuge aventi data certa anteriore alla data di trascrizione del pignoramento.
L'assegnazione della casa coniugale dovrà essere ritenuta opponibile nei limiti di nove anni dalla data del provvedimento di assegnazione se non trascritta nei pubblici registri ed anteriore alla data di trascrizione del pignoramento, non opponibile alla procedura se disposta con provvedimento successivo alla data di trascrizione del pignoramento, sempre opponibile se trascritta in data anteriore alla data di trascrizione del pignoramento (in questo caso l'immobile verrà valutato come se fosse nuda proprietà) (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Nel 2016 la casa fa il pieno di bonus. Detrazione del 50% dell’Iva per chi acquista dal costruttore e del 19% dei canoni in caso di leasing.
Sono molte le conferme e le novità contenute nella legge di Stabilità 2016 che riguardano la casa. Si va dalla proroga fino al 31.12.2016 di tutti i bonus edilizi alla conferma del bonus del 50% per l’acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici; dalla conferma della detrazione del 65% agli interventi verdi effettuati dagli Istituti autonomi per le case popolari all’estensione di questa detrazione anche ai dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli impianti di riscaldamento e climatizzazione.
Tra le novità, in particolare, si segnala la nuova possibilità di detrarre dall’Irpef il 19% dei canoni di leasing (e del relativo riscatto) pagati dal 2016 al 2020 per acquistare o costruire un’unità immobiliare da adibire ad abitazione principale entro un anno dalla consegna, e la possibilità di detrarre il 50% dell’Iva pagata quest’anno o successivamente per l’acquisto, effettuato nel 2016, di unità immobiliari a destinazione residenziale, di classe energetica A o B, cedute da imprese costruttrici delle stesse.
C’è inoltre la possibilità per i condòmini incapienti di cedere la loro detrazione al costruttore che ha svolto i lavori di risparmio energetico qualificato sulle parti comuni, così da abbassare la loro quota parte e non perdere il beneficio fiscale.
L’Iva per acquisto di abitazione
Le persone fisiche potranno detrarre dall’Irpef il 50% dell’Iva pagata (dal 01.01.2016), per l’acquisto dall’impresa costruttrice fatto entro il 31.12.2016 -fa fede l’atto notarile-, di unità immobiliari a destinazione residenziale, di classe energetica A o B. La detrazione dovrà essere ripartita in 10 anni.
Poiché non vi sono vincoli relativi alla destinazione ad abitazione principale, la detrazione spetta anche ai soci, persone fisiche, di società di persone, nel caso in cui l’acquisto agevolato venga effettuato nel 2016 da parte della società. Dovrà essere chiarito se potranno beneficiare di questa detrazione Irpef anche i soci, persone fisiche, di Srl trasparenti.
Abitazione principale in leasing
La legge di Stabilità 2016 ha introdotto dal 01.01.2016 al 31.12.2020 una nuova spesa detraibile dall’Irpef al 19%, che riguarda l’acquisto o la costruzione, tramite leasing (canoni e oneri accessori per un importo non superiore a 8mila euro e riscatto per un importo non superiore a 20mila euro), di abitazioni da parte di giovani, con età inferiore a 35 anni, con un reddito complessivo entro i 55mila euro e non già titolari di diritti di proprietà su altri immobili a destinazione abitativa.
Sempre dal 2016 al 2020, questa stessa detrazione è applicabile anche a chi ha 35 anni o più, con le stesse condizioni, ma dimezzando le spese massime ammissibili. La norma non dice nulla relativamente al caso in cui il contratto sia stipulato prima dei 35 anni e prosegua dopo il compimento di questa età.
Il nuovo incentivo fiscale è molto conveniente se confrontato con la detrazione Irpef del 19% degli interessi pagati sui mutui ipotecari per l’acquisto o la costruzione/ristrutturazione dell’abitazione principale, dove l’onere detraibile al 19% è costituito solo dagli interessi passivi pagati (e non dalla quota capitale della rata del mutuo) e per un importo massimo annuale rispettivamente di 4mila euro (detrazione massima annuale di 760 euro) e di 2.582,28 euro (detrazione massima annuale di 491 euro). Il nuovo incentivo consente di detrarre dall’Irpef il 19% di tutto il canone di leasing (quota capitale e quota interessi), oltre che i relativi oneri accessori.
Inoltre, l’importo annuale massimo delle spese agevolate è pari a 8mila euro (4mila euro per i non giovani), consentendo una detrazione massima di 1.520 euro annui (760 euro per i non giovani). La nuova agevolazione, poi, prevede la possibilità di detrarre anche il riscatto finale, per un importo non superiore a 20mila euro (10mila euro per i non giovani), consentendo una detrazione massima di 3.800 euro (1.900 euro per i non giovani)
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego, per il contratto restano 4 «aree». Delega Pa. Nei prossimi giorni convocazione dei sindacati all’Aran - Resta il nodo del settore università e ricerca.
Riordino dei comparti del pubblico impiego, con un nuovo incontro all’Aran con i sindacati che dovrebbe tenersi a metà gennaio. La riorganizzazione della dirigenza pubblica, per favorire maggior trasparenza e mobilità (anche con il settore privato) degli incarichi che potranno durare al massimo 6 anni (4+2) con una valutazione più mirata delle performance. E poi, un nuovo testo unico del lavoro pubblico per aggiornare il Dlgs 165 del 2001 e la riforma Brunetta del 2009 e regolare tutti i principali aspetti del rapporto d’impiego, compresi i “delicati” procedimenti disciplinari (oggi sostanzialmente bloccati per norme troppe complesse e anche per l’inerzia dei capi struttura).
Si compone di tre tasselli il pacchetto di riforma del lavoro pubblico, che vedrà la luce probabilmente quest’estate, con il varo dei provvedimenti attuativi della legge Madia.
Il primo passaggio, obbligato, di questo percorso è la semplificazione delle aree di negoziazione in applicazione del Dlgs 150 del 2009. Oggi i comparti pubblici sono 12, e adesso scenderanno a 4: Amministrazioni centrali, Scuola, Sanità, e Regioni ed autonomie locali. «Convocherò le organizzazioni sindacali nei prossimi giorni -annuncia il presidente dell’Aran, Sergio Gasparrini-. Qui resta da sciogliere la sorte dell’area Università e Ricerca; stiamo discutendo se tenere questi settori all’interno del comparto Scuola o di integrarli in quello delle Pa centrali. Troveremo una soluzione. Sono comunque fiducioso che si arriverà presto a un accordo».
Il riordino delle aree di contrattazione è infatti il presupposto per riaprire, dopo una stagione che dura da più di 5 anni, il tavolo negoziale per il rinnovo del Ccnl ai 3 milioni di “travet”: la legge di Stabilità 2016 mette sul piatto 300 milioni (già giudicati perciò una “mancia” dalle sigle sindacali); e molto probabilmente, per il quinquennio passato, non ci sarà recupero del blocco (salvo, forse, la conferma dell’indennità di vacanza contrattuale riconosciuta nel 2010).
La strada per il nuovo contratto si annuncia, quindi, in salita.
Sul fronte della dirigenza, ci si aspettano grandi novità. Intanto il debutto dei ruoli unici (uno per lo Stato, uno per le regioni e uno per gli enti locali); poi, secondo la legge delega, si dovrà disegnare un percorso meritocratico e di formazione continua per i manager pubblici. Si dovrebbe puntare pure su una più ampia mobilità e su un sistema di valutazione effettivo (e slegato dal potere politico), che nei casi più gravi potrà portare alla revoca dell’incarico.
Il restyling della disciplina del lavoro pubblico arriverà invece con il nuovo Testo unico, che dovrà disciplinare, in modo unitario, diverse tematiche dagli accertamenti medico-legali sulle assenze dal servizio per malattia dei dipendenti pubblici; all’individuazione di limitate e tassative fattispecie dove si potrà ricorrere a forme di lavoro flessibile; al decollo delle regole sulla valutazione dei “travet”; agli annunciati interventi sui procedimenti disciplinari.
Qui, in particolare, l’ipotesi allo studio dei tecnici di palazzo Vidoni è quella di accentrare in capo all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (l’Upd, già presente in tutte le strutture) le procedure per irrogare sanzioni superiori al rimprovero scritto, prevedendo termini perentori di inizio e fine del procedimento. Al responsabile della struttura (cioè al singolo dirigente) rimarrebbe la competenza solo per il rimprovero verbale e scritto. Il responsabile dell’ufficio in cui opera il dipendente “infedele” manterrebbe invece la funzione della segnalazione entro un certo termine.
Sul delicato, e dibattuto tema, dell’articolo 18, l’orientamento del governo e del ministro, Marianna Madia, è quello di mantenere la tutela reale. Potrebbero esserci ritocchi alla fattispecie di licenziamento per scarso rendimento (si sta studiando una semplificazione della procedura); e, forse, si potrebbe consentire la reiterazione del provvedimento disciplinare, se si accerta un vizio di forma. L’idea, allo studio dei tecnici di Funzione pubblica, è di consentire alla Pa una seconda chance per licenziare il fannullone: se il giudice annulla il recesso per un vizio formale, scatta la reintegra, ma l’amministrazione può rifare il procedimento e, così, correttamente licenziare il dipendente “infedele”.
Gli esperti si aspettano una riforma organica del lavoro pubblico, e soprattutto che tutti i tasselli “viaggino in simultanea”: «Riordino della dirigenza, rinnovo del Ccnl e Testo unico devono arrivare insieme -spiega Sandro Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’università di Bologna-. Si rischia altrimenti di avere norme contrattuali contraddittorie o già superate rispetto al nuovo quadro regolatorio. L’attesa è anche per l’opera di ripulitura di tutte le disposizioni sul pubblico impiego stratificatesi negli anni. Un’operazione che, se fatta bene, aiuterà anche dal punto di vista dei contenziosi giudiziari»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Operativo il database antimafia. Le stazioni appaltanti possono consultare il cv delle aziende. Il Viminale ha annunciato l'attivazione della piattaforma web a tutela degli appalti pubblici.
Un database per controllare online il pedigree delle imprese negli appalti pubblici.

Giunge ai nastri di partenza la Banca dati nazionale unica per la documentazione antimafia (Bdna). Il ministero dell'interno ha annunciato che da ieri è in funzione il data base, che contribuirà ad accelerare e semplificare il rilascio delle comunicazioni e informazioni antimafia.
È una piattaforma informatica per consentire alle stazioni appaltanti di ottenere l'immediato rilascio della documentazione liberatoria relativa all'operatore economico inserito nell'archivio informatico della banca dati.
La banca dati istituita dal Codice Antimafia (dlgs 159/2011), ed è disciplinata nel dettaglio dal regolamento adottato con dpcm del 30.10.2014 n. 193.
La piattaforma è consultabile dalle stazioni appaltanti pubbliche, enti pubblici, società controllate pubbliche, concessionari di opere pubbliche, che devono acquisire la documentazione antimafia prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici.
Le informazioni servono anche prima di rilasciare o consentire licenze o autorizzazioni.
La documentazione antimafia, a esempio, serve per licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio; attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici, contributi, finanziamenti o mutui agevolati; iscrizioni negli elenchi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la pubblica amministrazione; iscrizioni nei registri della camera di commercio per l'esercizio del commercio all'ingrosso e nei registri di commissionari astatori presso i mercati annonari all'ingrosso.
Sono abilitati alla consultazione anche ordini professionali, camere di commercio e Autorità anticorruzione.
Nella banca dati unica sono contenute le comunicazioni e le informazioni antimafia, liberatorie e interdittive.
La banca dati nazionale unica consente anche la consultazione dei dati acquisiti nel corso degli accessi nei cantieri delle imprese interessate all'esecuzione di lavori pubblici disposti dal prefetto.
Il rilascio delle comunicazioni e informazioni antimafia sarà immediato se non risultano a carico degli interessati le cause di divieto, sospensione e decadenza. La risposta alla richiesta sarà inoltrata per via telematica.
Se emergessero cause di divieto, sospensione o decadenza o comunque una documentazione antimafia interdittiva, la Banca dati nazionale risponderà, contestualmente per via telematica, al soggetto richiedente e alla Prefettura, che non è possibile rilasciare immediatamente la comunicazione antimafia liberatoria.
Il regolamento stabilisce il termine massimo di conservazione dei dati: cinque anni per i dati relativi alla documentazione antimafia liberatoria; quindici anni per i dati relativi alla documentazione antimafia interdittiva.
Gli accessi alla banca dati saranno tracciati per evitare abusi. Sempre per ragioni di sicurezza le operazioni di accesso alla Banca dati saranno oggetto di controllo specifico (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

APPALTI: Appalti Ue, basterà un'autocertificazione. La Commissione europea ha varato il documento unico. Le imprese potranno candidarsi alle gare via web.
Semplificati gli adempimenti amministrativi per le imprese che partecipano alle gare pubbliche europee. Tutte le imprese che partecipano all'appalto pubblico europeo potranno auto-certificare telematicamente il rispetto dei criteri normativi e dei requisiti di capacità finanziaria richiesti.
Solamente l'impresa vincitrice dovrà in seguito presentare tutta la documentazione a riprova di essere qualificata a svolgere le attività previste dal contratto.

Tutto questo grazie all'approvazione, il 05.01.2016, da parte della Commissione europea del documento unico europeo degli appalti (cosiddetto European Single Procurement Document, Espd costituito da tre direttive).
Le tre direttive della riforma europea dovranno essere adottate dai 28 Stati membri entro il prossimo 17 aprile e i Paesi entro ottobre 2018 dovranno fare in modo che il sistema delle gare pubbliche sia completamente basato su web entro ottobre 2018.
Il documento prenderà il posto dei diversi sistemi degli appalti pubblici in vigore nei 28 paesi Ue. Alle gare pubbliche degli stati Ue potranno partecipare tutte le imprese europee, indipendentemente dal Paese in cui sono ubicate.
Autocertificazione via web. Grazie al nuovo documento unico verrà notevolmente semplificata la burocrazia per la partecipazione alle gare d'appalto pubbliche da parte delle imprese, e in particolare delle pmi europee. Il nuovo sistema, sostiene Bruxelles, permetterà a tutte le imprese di autocertificare via web il rispetto dei criteri normativi e delle eventuali esigenze di capacità finanziaria richieste.
In ogni caso, tutti gli operatori economici che parteciperanno alla gara pubblica dovranno dichiarare di essere in grado, su richiesta e senza indugio, di fornire i documenti necessari a dimostrare la propria idoneità, a meno che questi non siano già accessibili via pubblici registri.
Uniformità di adempimenti. Nelle nota tecnica sul documento unico degli appalti la Commissione europea evidenzia che attualmente alcuni paesi hanno già introdotto forme di auto-dichiarazione, mentre altri richiedono che tutte le parti interessate forniscano prova documentale della loro idoneità, capacità e status finanziario-economico. Con l'Espd tutte le imprese invece potranno auto-certificare elettronicamente i loro requisiti che dovranno essere dimostrati con documenti cartacei solo dall'azienda vincitrice della gara d' appalto.
Il «documento unico» potrà essere scaricato, riempito manualmente e sottoposto elettronicamente. Lo scopo delle norme sugli appalti pubblici è garantire a tutti gli operatori economici dell'Ue una reale possibilità di vedersi attribuito un appalto pubblico. Procedure rapide e solide sono fondamentali anche per sostenere gli investimenti ed evitare ritardi. Quasi la metà dei fondi strutturali e di investimento europei viene erogata tramite gli appalti pubblici.
«Riducendo il volume dei documenti necessari, lo Espd renderà più semplice la partecipazione delle imprese agli appalti pubblici e le pubbliche amministrazioni potranno beneficiare di un più ampio ventaglio di offerte, che assicureranno miglior rapporto qualità/prezzo» ha dichiarato Elzbieta Bienkowska, commissaria europea per il mercato interno, l'industria e l'imprenditoria.
L'obiettivo continua la Commissaria europea «è un uso efficiente dei fondi Ue attraverso un'applicazione coerente e corretta delle norme sugli appalti in tutta l'Ue, così da contribuire all'agenda dell'Ue per l'occupazione, la crescita e gli investimenti» (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Bilanci locali, incognite à gogo. Vincoli per tutti, blocco dei tributi, fondi in ritardo. Anche il 2016 si annuncia difficile sul fronte contabile. Dubbi sugli oneri di urbanizzazione.
Incognite à gogo per i bilanci degli enti locali. Anche per il 2016, la legge di stabilità e il decreto Milleproroghe non definiscono in modo compiuto il quadro entro il quale comuni, province e città metropolitane sono chiamati a costruire i preventivi. Quasi inevitabile, quindi, il solito valzer di proroghe della scadenza, al momento già rinviata al prossimo 31 marzo.
Il primo e maggiore dubbio riguarda la portata dei vincoli di finanza pubblica, che da quest'anno riguardano anche i comuni con meno di 1.000 abitanti. La legge 208/2015 ha cancellato il Patto e introdotto la regola del pareggio finale di sola competenza, ma rimane irrisolta la questione circa la rilevanza della legge 243/2012, che oltre a imporre il pareggio corrente, vincola pure la cassa.
Per i comuni, è stato in gran parte modificato il quadro delle entrate, con un impatto sulle singole amministrazioni ancora tutto da chiarire. Le novità in materia di tributi hanno un duplice impatto: da un lato, gli enti perdono la possibilità di manovrare la leva fiscale, sia aumentando le aliquote che adottando qualsiasi altro provvedimento da cui possa derivare un aumento del prelievo.
Secondo quanto chiarito negli anni passati dalla giurisprudenza contabile (cfr per esempio Corte conti, Lombardia, parere n. 74/2008) con argomentazioni che paiono tuttora valide, il divieto si applica anche nel caso di istituzione di nuovi tributi. Sono vietati anche gli aumenti indiretti, ossia derivanti dall'eliminazione o attenuazione di agevolazioni già concesse in precedenza. Sono esclusi dal blocco gli enti in dissesto e pre-dissesto, la Tari e le tariffe di natura patrimoniale (come il Cosap), mentre rientra il Cimp.
I comuni potranno mantenere (con espressa deliberazione) la maggiorazione Tasi dello 0,8 per mille ove deliberata entro il 30.09.2015. Dall'altro lato, vi sarà una perdita di gettito derivante dalle misure di detassazione introdotte a favore di abitazioni principali, terreni e immobili perdutivi. In sostanza, occorrerà abbassare le previsioni relative a Imu e, soprattutto Tasi, compensando le minori entrate a valere sul fondo di solidarietà.
Ma sul quantum l'incertezza regna sovrana. Come già accaduto in passato, infatti, questo dare-avere potrebbe non essere perfettamente neutrale per i singoli enti. Le somme stanziate dalla legge di stabilità per ristorare i comuni dei mancati introiti fiscali ammontano a circa 3,8 miliardi, molto meno di quanto richiesto dall'Anci (5 miliardi). In questa prospettiva, emerge un'altra criticità è legata alla tempistica: difficilmente la distribuzione del fondo sarà completata prima dell'estate.
Anche questa purtroppo non è una novità: già negli anni passati, infatti, abbiamo dovuto fronteggiare ampi ritardi. Basti pensare che, nel 2015, il dpcm di riparto è stato firmato solo il 10 settembre (anche se le cifre sono state rese note qualche settimana prima), mentre secondo la tabella di marcia prevista legislativamente il provvedimento avrebbe dovuto perfezionarsi entro il 31 dicembre dell'anno precedente o al massimo nei 15 giorni successivi.
Nel 2016, tale scadenza è addirittura posticipata al 30 aprile (mentre dal 2017 dovrebbe stabilizzarsi al 30 novembre dell'anno precedente). Problematica è anche la possibilità di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per finanziare spese correnti, ammessa dalla manovra ma esclusa dalle nuove norme contabili. Ancora più complessa la situazione degli enti di area vasta, per i quali anche quello appena iniziato sarà un anno di assoluta emergenza (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

APPALTI SERVIZI: Affidamenti diretti, regole precise per l'in house providing. Gli affidamenti diretti alle società pubbliche non scompaiono, ma vengono regolati in modo più chiaro.
Lo schema di decreto legislativo per la riforma della disciplina delle società pubbliche non elimina il cosiddetto in house providing, cioè la gestione di servizi pubblici mediante strumenti societari destinatari diretti degli incarichi.
D'altra parte, l'in house providing è espressamente ammesso e consentito dalla giurisprudenza e normativa europea.
Proprio alla giurisprudenza si rifà lo schema di decreto legislativo, nell'intento di specificare con migliore comprensibilità i requisiti necessari perché si possa parlare di un vero e proprio in house providing.
In primo luogo, le società a controllo pubblico titolari di affidamenti diretti non debbono avere partecipazione di capitali privati. Eccezioni espresse possono essere disposte esclusivamente dalla legge, purché comunque la partecipazione privata non disponga di poteri di veto e non eserciti influenza determinante nelle decisioni della società.
Oltre al presupposto soggettivo dell'assenza di capitali privati, per un vero e proprio in house providing occorrono due ulteriori elementi.
Il primo è il cosiddetto «controllo analogo» a quello che l'ente esercita nei confronti dei propri uffici: la società, insomma, anche se persona giuridica autonoma deve dipendere dall'ente come se ne fosse un'articolazione, in virtù del rapporto di delegazione intersoggettiva che deriva dal contratto di servizio.
Perché il controllo analogo sussista, occorre tuttavia che l'amministrazione pubblica socia (o l'insieme degli enti nel caso di società pluripersonali) sia titolare di un potere di direzione e coordinamento particolarmente intenso, tale da privare l'organo amministrativo della società dell'ordinaria autonomia prevista dalle regole civilistiche, sì da giungere fino al potere di adottare atti vincolanti ai quali l'organo amministrativo societario deve assoggettarsi. Per questa ragione, gli statuti delle società in house possono contenere clausole in deroga alle disposizioni degli articoli 2380-bis e 2409 del codice civile in tema di esclusività della gestione delle società. Gli intensi poteri di ingerenza dell'ente pubblico partecipante richiesti dal modello in house providing possono anche essere acquisiti mediante appositi patti parasociali, di durata anche superiore ai 5 anni.
Il secondo elemento necessario per il modello in house impone che gli statuti delle società prevedano che non meno dell'80% della loro attività sino effettuate per lo svolgimento dei compiti ad esse affidati dall'ente pubblico partecipante.
La restante parte della produzione rispetto a quella prevalente, sarà consentita solo a condizione che da essa derivino economie di scala o altri guadagni di efficienza produttiva per lo svolgimento delle attività principali della società.
Il riferimento all'80% delle attività non appare sufficientemente preciso: non si capisce se esso derivi dal fatturato, oppure dalla percentuale delle attività lavorative. Sarebbe necessaria una precisazione.
Sta di fatto, però, che il superamento del limite dell'80% costituisce grave irregolarità della gestione e causa di responsabilità per l'organo amministrativo, tale da imporre alla società partecipata di rimediare. Lo schema del dlgs impone alla società di rinunciare a una parte di rapporti di fornitura con soggetti terzi (diversi dall'amministrazione partecipante), risolvendo i connessi contratti.
In alternativa, la società potrebbe rinunciare all'affidamento diretto ottenuto dall'ente pubblico partecipante. Il quale, in questo caso, potrebbe nuovamente affidare le attività prima assegnate alla società in house solo rivolgendosi al mercato, attraverso procedure competitive entro i sei mesi successivi allo scioglimento dei rapporti contrattuali con la ex società in house, la quale, in questo periodo, potrà comunque continuare a rivolgere le proprie prestazioni all'ente (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

APPALTI: Appalti, mini-enti in difficoltà. Con le convenzioni Consip approvvigionamenti a rischio. La centralizzazione degli acquisti sta creando problemi per il rifornimento di carburante.
La centralizzazione degli appalti alla Consip rafforzata dalla legge 208/2015 inizia subito a creare problemi applicativi per i piccoli comuni.
La questione riguarda in particolare l’approvvigionamento dei carburanti rete. Sul territorio dei comuni di piccole dimensioni non è per nulla detto che siano presenti gestori selezionati dalla Consip o da altri soggetti aggregatori regionali, né, comunque, che il gestore eventualmente presente sia particolarmente vicino alla sede comunale.
Anche se un comune abbia la fortuna di ospitare un distributore nel proprio territorio, molto facilmente esso si trova nell’estrema periferia o in zone industriali, a diverse decine di chilometri di distanza dalle sedi degli uffici. Per contro, nell’ambito dei confini comunali o, comunque, piazzati ben più vicini alle sedi, possono trovarsi distributori non selezionati da Consip e soggetti aggregatori.
L’articolo 1, comma 494, della legge 208/2015, nel modificare l’articolo 1, comma 7, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012 rende più difficile ai comuni rendersi autonomi dalle disfunzioni organizzative che possono discendere dagli appalti delle centrali di committenza. Infatti, si stabilisce che è fatta salva la possibilità di procedere ad affidamenti anche al di fuori delle convenzioni Consip, ma a condizione «che gli stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica», e prevedano corrispettivi inferiori almeno del 3%, nel caso dei carburanti.
È evidente che l’obbligo di utilizzare convenzioni di centrali di committenza diverse dalla Consip ben difficilmente sortirà effetti diversi dalle convenzioni Consip. Altrettanto ovvio avrebbe dovuto essere per il legislatore prendere atto che nel caso in cui un solo distributore sia presente nel territorio di un comune, l’esperimento della procedura aperta risulta oggettivamente eccessivo: di fatto, la distanza o «rendita di posizione» esclude tutti gli esercenti più distanti.
D’altra parte, proprio la rendita di posizione dell’esercente lo dissuaderebbe dall’applicare qualsiasi sconto ai corrispettivi indicati dalla Consip. Gli enti di piccole dimensioni si troveranno in un vicolo cieco: avvalersi dei distributori lontani e scomodi individuati dalla Consip, o attivare strumenti di gara non esaustivamente disciplinati dalla legge 208/2015, che non ha nemmeno preso in considerazione l’ipotesi della gara deserta, la quale, ai sensi del dlgs 163/2006, dovrebbe comunque consentire la procedura negoziata.
Occorrerebbero indicazioni pratiche, perché i comuni non debbano sostenere l’onere della spesa di benzina connessa alla necessità di percorrere decine di chilometri proprio per rifornirsi di benzina, oltre al costo orario della persona chiamata a effettuare il rifornimento. Potrebbe essere utile considerare questi costi come risparmio da utilizzare per giustificare contratti con gestori, attivati autonomamente, con ribassi anche inferiori al 3% imposto dalla legge di Stabilità, laddove detti risparmi, sommati ai ribassi ottenuti, assicurino comunque un costo inferiore del 3% a quello che si sosterrebbe avvalendosi delle convenzioni dei soggetti aggregatori.
Ma, in assenza di specificazioni normative, per i comuni è rischiosissimo agire anche col solo buon senso. È facile immaginare che le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti saranno presto inondate da quesiti sul tema (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

LAVORI PUBBLICI: Le mille proroghe per gli appalti. Piccoli comuni: opere fino a 40 mila affidate direttamente. In vigore fino a luglio la qualificazione agevolata e l'anticipazione prezzi al 20%.
Fino a fine luglio qualificazione per lavori e progettazioni agevolata e anticipazione prezzi al 20% dell'importo dei lavori; acquisti fino a 40 mila euro senza ricorso alle centrali di committenza per i comuni con meno di 10 mila abitanti.

Sono queste alcune delle novità contenute nel decreto-legge 30.12.2015, n. 210, cosiddetto «mille proroghe» e nella legge di Stabilità per il 2016.
Con il decreto «mille proroghe», per quel che concerne la qualificazione alla procedure di affidamento di appalti di servizi di ingegneria e architettura, il governo ha deciso di prorogare fino alla fine di luglio 2016 l'efficacia dell'art. 253, comma 15-bis del codice dei contratti pubblici che consente a professionisti, società di ingegneria e a raggruppamenti temporanei di progettisti di qualificarsi nelle gare con i migliori cinque anni del decennio (fatturato) e con i migliori tre anni del quinquennio (personale).
Per la norma, introdotta nel 2010 e già prorogata nel 2013, il differimento è stato previsto di sette mesi come se si trattasse di una proroga di natura «tecnica» in attesa dell'entrata in vigore della riforma del codice dei contratti pubblici e del recepimento delle direttive europee.
Nel disegno di legge delega appalti, che è ormai alle battute finali e dovrebbe essere approvato in via definitiva entro questo mese, si prevede infatti che il decreto, o i decreti delegati, debbano essere perfezionati al massimo entro fine luglio, se il governo dovesse optare per l'attuazione della delega in due step (prima il recepimento delle direttive entro aprile e poi la riforma del codice entro fine luglio).
Altri sette mesi sono stati previsti anche per l'applicazione della norma sull'anticipazione prezzi per gli appalti di lavori che con il decreto-legge 192/2014 era stata elevata dal 10 al 20% dell'importo del contratto ma fino al 31.12.2015; quindi fino a fine giugno le stazioni appaltanti avranno l'obbligo di continuare a corrispondere un quinto di anticipazione del prezzo.
General contractor e attestati Soa. Si potrà utilizzare sempre fino a tutto luglio 2016 l'articolo 189, comma 5, del codice dei contratti pubblici che consente la possibilità per i contraenti generali di dimostrare l'adeguata idoneità tecnica e organizzativa attraverso la produzione di attestati Soa al posto dei certificati di esecuzione dei lavori.
Per quel che riguarda invece la legge di Stabilità per il 2016 (28.12.2015, n. 208) le principali novità riguardano le modalità di gestione centralizzata degli appalti a cominciare dalla disposizione che consente ai comuni con popolazione inferiore ai 10 mila abitanti di procedere senza ricorrere alle centrali di committenza in caso di stipula dei contratti di importo fino a 40 mila euro che quindi potranno essere affidati direttamente dall'ente locale.
Viene rafforzato il ruolo di Consip, che potrà occuparsi anche degli appalti relativi alle attività di «manutenzione», mentre per rendere comunque efficace l'obbligo di ricorso alle centrali di committenza si prevede che nei territori in cui esse non siano costituite o operative dovrà essere la centrale regionale di committenza di riferimento a individuare un'altra centrale di committenza.
Dal punto di vista programmatorio rileva l'obbligo per le amministrazioni pubbliche di approvare, entro il mese di ottobre di ciascun anno, il programma biennale e suoi aggiornamenti annuali degli acquisti di beni e di servizi di importo unitario stimato superiore a un milione di euro.
Infine, viene soppressa l'Unità tecnica finanza di progetto (istituita dall'art. 7 della legge n. 144/1999 presso il Cipe) e le sue funzioni sono trasferite al Dipartimento per la programmazione e il coordinamento di politica economica della presidenza del consiglio dei ministri (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

PATRIMONIO: Edifici pubblici, collaudi solo a chi è a regola d'arte. Parte il monitoraggio sull'obbligo di inserire quadri e sculture.
Al via il monitoraggio semestrale sull'applicazione dell'obbligo di inserimento delle opere d'arte negli edifici pubblici soggetti alla legge 717/1949; non sarà collaudabile l'opera che non le contiene.

Sono queste alcune delle indicazioni che il ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha fornito con nota 10.12.2015 n. 2798 di prot. rispetto ad alcune indicazioni contenute nel Dpcm 29.08.2014 n. 171 sulla vigilanza nella realizzazione delle opere d'arte negli edifici pubblici ai sensi della legge 717/1949.
Si tratta della disciplina in base alla quale una quota percentuale dell'importo di progetto deve essere destinato alla realizzazione delle opere d'arte per edifici pubblici. La percentuale in particolare è stata nel tempo modulata prevedendo: il 2% del costo dell'opera per i progetti di importo pari o superiore a 1 milione di euro e inferiori a 5 milioni di euro; l'1% per i progetti di importo pari o superiore a 5 milioni di euro e inferiori a 20 milioni di euro; lo 0,5% per gli importi pari o superiori a 20 milioni di euro.
Per definire le modalità applicative di questa disciplina nel 2006 sono state emanate (decreto datato 23.03.2006) delle linee guida sull'applicazione della legge 717 e successivamente è stata emessa una circolare del Mit del 28.05.2014 n. 3278 che ha sottolineato l'esigenza di svolgere con attenzione le attività di verifica, validazione e approvazione dei progetti, nonché del quadro economico e ha specificato quali debbano essere i compiti del responsabile del procedimento e del collaudatore.
 Il primo, fra le altre cose, deve promuovere in tempi adeguati il bando per la scelta degli artisti che dovranno eseguire le opere d'arte, mentre il secondo, in sede di collaudo, deve verificare che la normativa sia stata applicata correttamente, al punto da non poterla collaudare finché le opere d'arte non sono state tutte eseguite.
La circolare del ministero dei beni culturali si preoccupa di fornire indicazioni «atteso che per molte realizzazioni di edifici pubblici non si rilevano competenze specifiche» nell'ambito delle singole amministrazioni.
In particolare, si invitano le stazioni appaltanti tenute ad applicare l'obbligo della legge 717 ad attivarsi per un «necessario raccordo e collaborazione istituzionale fra la direzione generale arte e architettura contemporanea e gli uffici periferici del ministero
». A tale riguardo la circolare contiene un allegato con una scheda per avviare il monitoraggio sull'obbligo previsto dalla legge 717, da inviare al ministero ogni sei mesi (30 giugno e 31 dicembre) e sottolinea l'esigenza di verificare, in sede di rilascio dei pareri, che la legge 717 sia applicata.
Inoltre, il ministero chiede di effettuare una «costante azione di monitoraggio», arrivando anche ad attuare poteri sostitutivi (che saranno svolti dalle soprintendenze dei beni culturali competenti per territorio). Proprio le soprintendenze sono poi chiamate dalla circolare a sensibilizzare le pubbliche amministrazioni «con nota formale» impartendo l'obbligo del rispetto della norma e quindi l'avvio da parte del responsabile unico del procedimento dell'avvio della procedura concorsuale di selezione degli artisti (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

VARI: Patente, la revoca agisce dalla data della sentenza. Alcol e droga. Circolare Motorizzazione.
La prassi resta invariata fino a un eventuale bocciatura da parte della Cassazione: il periodo di “blocco” di tre anni -nel quale chi subisce la revoca della patente per guida in stato di ebbrezza grave o sotto effetto di droghe non può conseguire una nuova licenza- va contato a partire dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di condanna e non da quella in cui è avvenuta l’infrazione.
Lo ha stabilito la Motorizzazione, con la nota 21.12.2015 n. 29675 di prot., che indica la volontà di non seguire la giurisprudenza contraria (di cui si è dato conto sul Sole 24 Ore dell’8 dicembre scorso).
La Motorizzazione ha deciso così perché confortata da altra giurisprudenza recente riguardo alla norma che impone il blocco (articolo 219, comma 3-ter, del Codice della strada): l’ordinanza 19572/2015, emessa il 28 settembre dello scorso anno dal Tribunale di Firenze. Un provvedimento preso con motivazioni che la circolare definisce «fondate su una interpretazione strettamente giuridica della norma» e non su «circostanze di fatto (tempi del processo, ecc.)» che invece hanno pesato su altre sentenze di senso contrario.
In effetti, il comma 3-ter fa decorrere i tre anni di “blocco” dalla «data di accertamento del reato» e il Tribunale di Firenze interpreta queste parole sia in senso letterale sia in senso logico-sistematico giungendo alla conclusione che esse indichino il giorno di passaggio in giudicato della condanna.
Dal punto di vista letterale, i giudici di Firenze notano che spetta istituzionalmente al giudice accertare la sussistenza di un reato. Se ne deduce che l’accertamento effettuato dagli organi di polizia non conta a questi fini. A riprova di ciò, si cita il fatto che, se avesse voluto stabilire diversamente, la norma non avrebbe usato la parola «reato» ma «consumazione dell’illecito» o simili, legate comunque al momento in cui gli agenti verbalizzano l’accaduto e non a quando il giudice dichiara definitivamente che si è trattato di un reato.
Dal punto di vista logico-sistematico, occorre notare che l’articolo 224, comma 2, del Codice della strada lega la revoca della patente a una «condanna irrevocabile», come può essere solo col passaggio in giudicato. Sempre dall’articolo 224 emerge che la revoca viene disposta dal prefetto solo dopo tale passaggio, per cui l’imputato non potrebbe nemmeno candidarsi per gli esami necessari a ottenere una nuova patente, essendo formalmente ancora titolare della propria.
Dunque, gli uffici della Motorizzazione continueranno a respingere le domande basate su un calcolo dei tre anni che parta dalla data dell’infrazione. Faranno così -afferma la circolare- fino a quando non arriveranno decisioni contrarie dai «massimi organi giurisdizionali».
Resta il problema pratico di una revoca disposta anche dopo diversi anni dall’accaduto, dati i tempi della giustizia. Da un lato, non è detto che i divieti di guida che il Codice della strada consente di adottare in via cautelare bastino a evitare che un conducente pericoloso circoli. D’altra parte, se dopo l’infrazione l’imputato assume un comportamento ineccepibile, gli si causano pregiudizi per troppo tempo
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2016).

SICUREZZA LAVORO: Ponteggi, preposti per scelta.
La presenza del «preposto» dipende dall'organizzazione aziendale e, soprattutto, dalla volontà del datore di lavoro di non sovraintendere personalmente alle operazioni di sorveglianza alle attività di particolare rischio (come ponteggi, paratoie, cassoni, demolizioni di cantieri edili).

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 29.12.2015 n. 16/2015.
L'interpello. La commissione risponde ai quesiti dell'associazione nazionale costruttori edili (Ance), al fine di sapere la corretta interpretazione della figura del «preposto alla sorveglianza dei ponteggi» (figura prevista dall'art. 136 del dlgs n. 81/2008, il T.U. sicurezza), e in particolare ai compiti e ai requisiti di formazione.
Chi è il «preposto». Preliminarmente, la commissione nota che la figura del «preposto» è disciplinata, di principio, dall'art. 2 del T.u. sicurezza, ai sensi del quale è tale definita «la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende all'attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa» (gli obblighi sono dettagliati dall'art. 19 dello stesso T.u.).
Figura non obbligatoria. Ai sensi dell'art. 2 del T.u., precisa la commissione, la figura del «preposto» non è obbligatoria, «ma è una scelta del datore di lavoro in base all'organizzazione e alla complessità della sua azienda».
In particolare, il preposto è un soggetto dotato di un potere gerarchico e funzionale, sia pure limitato, e di adeguate competenze professionali al quale il datore di lavoro «fa ricorso in genere allorquando non può personalmente sovraintendere all'attività lavorativa e controllare l'attuazione delle direttive da lui impartite».
Attività rischiose. In alcuni casi, il T.u. prescrive la presenza di un preposto al fine di sorveglianza di particolari operazioni lavorative. È il caso, ad esempio, dell'art. 136 laddove è stabilito che «il datore di lavoro assicura che i ponteggi siano montati, smontati o trasformati sotto la diretta sorveglianza di un preposto».
In tal caso, spiega la commissione, la normativa richiede specificatamente che i lavori siano effettuati sotto la diretta sorveglianza di soggetto preposto e gerarchicamente sovraordinato ai lavoratori che svolgono tali attività, il quale «ovviamente può essere lo stesso datore di lavoro purché abbia seguito gli appositi corsi di formazione».
La formazione. Riguardo agli aspetti della formazione, inoltre, la commissione precisa che il preposto deve partecipare a due corsi: a quelli di formazione o aggiornamento disciplinati dall'allegato XXI del T.u. oltre al corso di formazione ordinario, previsto dall'art. 37 dello stesso T.u.
Altri casi. Infine, la commissione evidenzia che il T.u prevede la presenza di un preposto anche per altre attività:
a) costruzione, sistemazione, trasformazione o smantellamento di una paratoia o di cassone nei cantieri temporanei o mobili (art. 149, comma 2);
b) lavori di demolizione nei cantieri temporanei o mobili (art. 151).
In entrambi questi casi, però, per i preposti non è richiesta alcuna formazione aggiuntiva oltre quella ordinaria (art. 37 del T.u.) (articolo ItaliaOggi del 07.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Vecchio Mud confermato con riserva di integrazioni. Ambiente. Il modello si potrà utilizzare per le dichiarazioni in scadenza in aprile.
Il Mud dello scorso anno vale anche per la dichiarazione riferita al 2015 e per quelle degli anni futuri (Sistri permettendo).
È questa la novità fondamentale del Dpcm 21.12.2015 relativo al Mud, il modello unico di dichiarazione ambientale, pubblicato sulla la Gazzetta ufficiale n. 300 del 28.12.2015.
Il nuovo Mud conferma il vecchio modello di cui al Dpcm del 17.12.2014, ma dispone anche per gli anni successivi, poiché quel modello del 2014 «sarà utilizzato per le dichiarazioni da presentare … entro il 30 aprile di ogni anno, con riferimento all’anno precedente e sino alla piena entrata in operatività del Sistri».
Quindi, il nuovo Dpcm del 2015 non reca alcun allegato, ma si riserva di fornire informazioni aggiuntive alle istruzioni riportate in allegato al Dpcm 17.12.2014. Queste informazioni saranno rese disponibili sui seguenti siti internet: www.sviluppoeconomico.gov.it; www.minambiente.it; www.isprambiente.gov.it; www.unioncamere.it; www.infocamere.it; www.ecocerved.it.
È allora necessario che tutti coloro i quali sono obbligati al Mud consultino con particolare attenzione tali siti al fine di poter reperire le informazioni necessarie per la compilazione del modello e la sua consegna entro il 30.04.2016 alla Camera di commercio della provincia dove ha sede l’unità locale cui è riferita la dichiarazione (chi effettua solo trasporto e gli intermediari senza detenzione lo presentano alla Cciaa della provincia ove l’impresa ha la sede legale).
I soggetti interessati, infatti, dovranno dichiarare i rifiuti prodotti e gestiti nel 2015 e le apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee) immesse sul mercato.
Il rinvio a future informazioni aggiuntive rende evidente che le modifiche al Mud non erano ancora pronte e che, quindi, esso cambierà. Tuttavia, con la pubblicazione del Decreto 21.12.2015 si eviterà di far slittare in avanti la data del 30.04.2016. Infatti, l’articolo 6, comma 2-bis della legge 70/1994 stabilisce che se le modifiche e le integrazioni sono apportate al Mud, nell’anno successivo a quello di riferimento e pubblicate sulla Gazzetta ufficiale con Dpcm entro il 1° marzo, «il termine per la presentazione del modello è fissato in centoventi giorni a decorrere dalla data di pubblicazione del predetto decreto».
Quindi, se il Dpcm in esame non fosse stato pubblicato entro la fine del 2015 e il provvedimento completo di modifiche e integrazioni avesse trovato la via della Gazzetta solo entro il prossimo 1° marzo, il termine di presentazione del Mud sarebbe slittato di sei mesi dal giorno della pubblicazione, travolgendo il consueto 30 aprile e procurando sicuramente scompiglio nella già non semplice vita delle imprese italiane.
Il Mud, dunque, a dispetto delle apparenze cambierà. Le sanzioni invece non cambieranno: l’articolo 11, comma 3-bis, del Dl 101/2013 (Legge 125/2013) stabilisce, così, che fino al 31.12.2016 (come previsto dal Dl milleproroghe in corso di pubblicazione in Gazzetta ufficiale) continuano ad applicarsi (anche) le sanzioni relative al Mud di cui all’articolo 258, commi 1 e 5, Dlgs 152/2006 (nella versione precedente alla modifica del Dlgs 205/2010) anche per l’omessa, incompleta o inesatta presentazione del Mud (sanzione amministrativa pecuniaria dal 2.600 a 15.500 euro). Si aggiunge la presentazione in ritardo entro il 29 giugno (sanzione amministrativa pecuniaria dal 26 a 160 euro).
Le indicazioni incomplete o inesatte che, però, consentono di ricostruire le informazioni dovute, sono invece colpite con la sanzione amministrativa pecuniaria da 260 a 1.550 euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2016).

ENTI LOCALITornano i controlli preventivi. Alla Corte conti la verifica sulle nuove partecipate. Lo prevede lo schema di decreto legislativo di riordino delle società pubbliche.
Tornano i controlli esterni preventivi di legittimità, sia pure limitati alla sola fattispecie della costituzione di nuove società partecipate.

Il dlgs di riordino delle società pubbliche, in dirittura in consiglio dei ministri (sai veda ItaliaOggi di ieri), rispolvera i controlli preventivi, modificando in parte il ruolo delle sezioni regionali della Corte dei conti, affidando loro per la prima volta ed in via espressa una funzione di vera e propria verifica preventiva della legittimità delle delibere finalizzate alla costituzione delle società.
Si prevede, infatti, che le amministrazioni pubbliche prima di adottare il provvedimento destinato a far sorgere una società dovranno inviare lo schema dell'atto e la relazione tecnica allegata alla sezione della Corte dei conti competente. La magistratura contabile verificherà la congruenza delle motivazioni sulla necessità della società per il perseguimento dei fini istituzionali dell'ente, degli obiettivi gestionali e della convenienza economica e sostenibilità finanziaria, anche confrontando la scelta dell'ente con modalità alternative di gestione, come la gestione in via diretta o l'esternalizzazione (tramite appalti o concessioni).
Inoltre, la Corte dei conti verificherà la coerenza della costituzione di nuove società con i piani di razionalizzazione delle partecipate, se adottati. Come per ogni vero e proprio procedimento di controllo, la sezione competente entro 30 giorni dovrà formulare rilievi, altrimenti l'accertamento si intenderà positivo. La Corte dei conti potrà chiedere una volta sola chiarimenti, sospendendo il termine per il controllo e l'ente interessato dovrà rispondere con specifico riferimento ai rilievi mossi dalla sezione.
Le diffusissime violazioni delle molteplici norme che da anni, ormai, indicano alle amministrazioni pubbliche locali di rivedere l'assetto delle società partecipate devono aver convinto il legislatore che i soli controlli interni o l'esercizio di un'autonomia decisionale «responsabile» non bastino ad assicurare il rispetto delle norme. Da qui la scelta, da considerare inevitabile, di ripristinare i controlli preventivi, che probabilmente andrebbe estesa a moltissime altre materie.
C'è, tuttavia, un'incongruenza. L'attività di controllo non è di natura giurisdizionale, ma amministrativa. Affidare, dunque, i controlli ad un giudice significa coinvolgerlo in una funzione di amministrazione, il che non è perfettamente in linea con la Costituzione e l'indipendenza dei giudici. Per altro, se si qualificassero gli atti di controllo della Corte alla stregua di provvedimenti amministrativi si arriverebbe al paradosso della possibilità che gli enti ricorrano al Tar contro provvedimenti del giudice contabile (articolo ItaliaOggi del 06.01.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSOCIETA' PARTECIPATE/ Le disposizioni sul personale. Reclutamenti doc.
Reclutamenti e mobilità del personale delle società partecipate seguiranno i modelli operativi vigenti nelle pubbliche amministrazioni, sia pure con rilevanti peculiarità.

Lo schema del decreto attuativo della riforma Madia riguardante le partecipate fa il punto sulla disciplina dei rapporti di lavoro dei circa 1 milione di dipendenti delle società pubbliche.
Regole generali. Poiché le società sono persone giuridiche di diritto privato, ai rapporti di lavoro dei loro dipendenti si applicano le disposizioni previste dal codice civile, dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell'impresa e dai contratti collettivi. A tale disciplina generale derogano le specifiche disposizioni contenute nel decreto legislativo di riforma delle partecipate.
Reclutamento. Lo schema riprende le indicazioni contenute nell'art. 18 del dl 112/2008. Le società a controllo pubblico sono obbligate ad adottare regolamenti interni, con i quali fissare criteri e modalità delle assunzioni, rispettosi dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, nonché dei principi di cui all'art. 35, co. 3, del dlgs 165/2001.
In poche parole, il reclutamento dovrà avvenire mediante concorsi. Occorre ricordare che le società dovranno applicare anche le regole anticorruzione, particolarmente rigorose per il rischio specifico connesso proprio ai reclutamenti. In assenza dei regolamenti interni, o laddove le assunzioni non abbiano rispettato le procedure viste prima, le assunzioni saranno nulle. Spetterà al giudice ordinario la giurisdizione sia sulla validità dei regolamenti, sia sulle procedure di assunzione.
Obiettivi di contenimento. Ciascuna amministrazione partecipante dovrà definire obiettivi specifici annualmente, per indicare alle società gli strumenti di contenimento dei costi del personale, anche facendo riferimento alle norme che impongono vincoli alle amministrazioni stesse. Le direttive delle amministrazioni dovranno essere recepite dalle società, attraverso la contrattazione di secondo livello.
Mobilità. Alle società è data facoltà di stipulare accordi tra loro, per attivare processi di mobilità obbligatoria, senza il consenso dei dipendenti, dovute a comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Tali mobilità avverranno nel raggio di 50 km (art. 30, co. 2, primo periodo, dlgs 165/2001).
Tuttavia, gli accordi collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali possono ampliare il raggio territoriale dei trasferimenti. Le p.a. dovranno adottare atti di indirizzo, per indicare alle società di esperire le procedure di mobilità, prima di attivare procedure finalizzati a nuovi reclutamenti. La mobilità tra le società partecipate e le amministrazioni pubbliche, partecipanti o meno al capitale, è vietata.
Esuberi. La mobilità obbligatoria potrà essere utilizzata anche per favorire il riassorbimento di eventuali esuberi, dovuti a ragioni economiche o organizzative. In questo caso, le società a controllo pubblico potranno farsi carico per un periodo massimo di tre anni di una quota non superiore al 30% del costo del personale trasferito, purché le proprie disponibilità di bilancio lo consentano.
In questo caso, le risorse che le società cedenti trasferiscono alle cessionarie non concorrono alla formazione dell'imponibile per le imposte sul reddito e l'Irap. Per favorire i processi di razionalizzazione, fusione o soppressione delle società (anche mediante loro liquidazione), al personale delle società soppresse andato in esubero si potrà applicare la disciplina di tutela prevista nel caso di cessione d'azienda, in deroga all'art. 29 del dlgs 276/2003. In questo modo, il personale potrà essere trasferito all'aggiudicatario della prima gara successiva alla chiusura delle attività delle società.
Reinternalizzazione. Fermo restando il divieto della mobilità dalle società alle amministrazioni pubbliche, lo schema di dlgs attribuisce alle amministrazioni la facoltà di reinternalizzare proprio personale, a suo tempo trasferito alle società partecipate, prima di procedere a nuove assunzioni dall'esterno.
Ciò sempre laddove le società debbano ridimensionarsi. La reinternalizzazione (per la prima volta espressamente consentita dalla legge) potrà essere effettuata esclusivamente nei limiti dei tetti del turn-over.
Regole privatistiche. Come ultima ratio, laddove i dipendenti delle società non siano ricollocati mediante le mobilità o le rinternalizzazioni, per loro si applicano le norme in tema di mobilità regolata dalla legge 223/1991 e gli ammortizzatori sociali (Naspi e Asdi) previsti dal dlgs 22/2015 (articolo ItaliaOggi del 06.01.2016).

SICUREZZA LAVOROIn ogni scavo il rischio di ordigni bellici.
La valutazione del rischio inerente alla presenza di ordigni bellici inesplosi è dovuta sempre, per ogni attività di scavo, quale che sia la profondità e la tipologia. La valutazione va fatta dal coordinatore per la sicurezza ed è inutile rivolgersi alle strutture amministrative pubbliche (il ministero della difesa, per esempio), in quanto non esistono mappature ufficiali sui territori interessati dalla presenza di ordigni bellici.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 29.12.2015 n. 14/2015.
Tre quesiti. I chiarimenti sono arrivati a risposta di tre quesiti del consiglio nazionale degli ingegneri:
1) se, appunto, la valutazione del rischio di presenza di ordigni bellici inesplosi sia da intendersi relativa ai rischi derivanti dalle attività di scavo ovvero limitatamente ai rischi derivanti dalla specifica attività di bonifica da eseguirsi da parte di impresa specializzata in bonifiche di ordigni bellici;
2) se la valutazione di tale rischio, che deve essere effettuata dal coordinatore per la sicurezza, sia sempre necessaria (cioè in ogni cantiere in cui sia prevista un'attività di scavo) oppure soltanto a seguito di specifica richiesta da parte del committente, motivata sulla base di dati storici oggettivi che testimonino la possibilità di rinvenimenti di ordigni bellici inesplosi;
3) quale sia il ruolo e le forme di collaborazione previste e consentite dalla normativa con il ministero della difesa e/o Stato maggiore della difesa, soggetti che presumibilmente sono in possesso di mappature ufficiali in tema di ordigni bellici inesplosi.
Tre chiarimenti. Rispondendo al primo quesito, la commissione precisa che la valutazione del rischio inerente alla presenza di ordigni bellici inesplosi «deve intendersi riferita alle attività di scavo, di qualsiasi profondità e tipologia, come espressamente previsto dall'art. 28 del dlgs n. 81/2008», il T.u. sicurezza.
In merito al secondo quesito, la commissione precisa che la predetta valutazione «deve essere sempre effettuata dal coordinatore per la sicurezza, in sede progettuale, qualora in cantiere siano previste attività di scavo». Ad esempio, la valutazione, nell'ambito del Piano di sicurezza e di coordinamento (Psc), può essere effettuata sulla base di dati disponibili per via di:
• analisi storiografica;
• fonti bibliografiche di storia locale;
• fonti conservate presso gli Archivi di Stato, archivi dei comitati provinciali protezione antiaerea e archivi delle prefetture;
• fonti del ministero della difesa (uffici Bcm di Padova e di Napoli rispettivamente per l'Italia settentrionale e l'Italia meridionale e le isole);
• stazioni dei carabinieri;
• aerofototeca nazionale di Roma;
• vicinanza a linee viarie, ferroviarie, porti o comunque infrastrutture strategiche durante il conflitto bellico;
• eventuali aree precedentemente bonificate prossime a quelle in esame.
In alternativa o a integrazione dell'analisi documentale (specie qualora questa risulti di scarsa entità) può essere effettuata anche un'analisi strumentale.
Infine, in merito al terzo quesito la commissione precisa che «non esiste alcuna mappatura ufficiale comprensiva di tutte le aree del territorio nazionale interessata dalla presenza di possibili ordigni bellici» e che il ministero della difesa ha avviato un progetto di realizzazione di un database geografico (articolo ItaliaOggi del 06.01.2016).

CONDOMINIO - PATRIMONIO: Contro la legionellosi prevenzione negli impianti idrici. Salute. Vanno applicate le Linee guida.
Nel maggio del 2015 sono state pubblicate dal ministero della Salute le nuove «Linee guida per la prevenzione e il controllo della Legionellosi», un documento che estende l’obbligo di redigere un «Protocollo di controllo del rischio Legionellosi» anche ai condomìni e alle strutture civili in genere.
L’amministratore di condominio viene reso responsabile della realizzazione del «Protocollo di controllo del rischio Legionellosi», documento che deve contenere una “valutazione del rischio” con l’obiettivo di identificare tutti i fattori di rischio del condominio e, in particolare, degli impianti idrici (come l’impianto centralizzato per la produzione di acqua calda sanitaria), e una “gestione del rischio” nella quale vengono definite le procedure per la manutenzione degli impianti idrici nonché le procedure per i periodici controlli microbiologici dell’acqua erogata.
Che cos’è
Legionella è un batterio aerobio che vive nell’acqua. L’infezione per l’uomo si contrae inalando goccioline di acqua (termine tecnico: “aerosol”) provenienti da un impianto idrico contaminato.
Il batterio predilige temperature dell’acqua calda; l’intervallo ottimale per la crescita è tra i 35 e i 45°C e per questo motivo lo si ritrova facilmente negli impianti per la produzione di acqua calda sanitaria.
In linea di principio, nei condomìni con la produzione di acqua calda sanitaria “centralizzata”, che viene accumulata all’interno di serbatoi di grandi dimensioni che favoriscono il ristagno dell’acqua e la ricrescita del batterio, il rischio è maggiore che in quelli in cui la produzione di acqua calda sanitaria avviene all’interno delle singole unità abitative, per esempio con caldaie murali. Il rischio principale risiede nei bollitori dell’acqua calda e nelle tubazioni delle parti comuni.
Rischi dalle incrostazioni
Esistono anche altri fattori che possono favorire la ricrescita di legionella negli impianti. Le incrostazioni calcaree, essendo porose, sono facilmente colonizzabile dalla legionella, che trova in esse una protezione da interventi di natura esterna (innalzamenti della temperatura, uso di disinfettanti chimici, eccetera). Le corrosioni delle tubazioni, invece, riducono la capacità dei disinfettanti normalmente impiegati per la protezione delle tubazioni.
Un corretto trattamento dell’acqua, in accordo alla Norma Uni - Cti 8065, consente di prevenire i fenomeni di incrostazione e di corrosione, mantenendo in perfetta efficienza gli impianti. Tale trattamento, reso obbligatorio del decreto Dpr 59/2009 e dal nuovo “Decreto Requisiti Minimi”, anche per gli impianti termici di potenzialità inferiore a 350 kW, consente un considerevole risparmio energetico, mantenendo nel contempo l’impianto in perfetta efficienza.
Intervenire preventivamente impiegando un idoneo trattamento dell’acqua contribuisce oltre che a far risparmiare energia anche a limitare la formazione di calcare e delle corrosioni che sono i principali agenti che concorrono allo sviluppo e alla crescita della Legionella. Nel caso in cui si riscontrino significative concentrazioni di Legionella pneumophila, è possibile risanare l’impianto utilizzando uno o più metodi di bonifica indicati nelle Linee guida ministeriali.
Tali metodi spaziano dall’innalzamento della temperatura all’utilizzo di disinfettanti chimici (biocidi), all’impiego di sistemi fisici come le lampade a raggi ultravioletti: il metodo più appropriato viene in genere selezionato in funzione del tipo di impianto, dei materiali utilizzati, delle semplicità e sicurezza d’impiego, dei costi di investimento e dei costi di gestione
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.01.2016).

ENTI LOCALI: Rivoluzione nelle partecipate. Danno erariale per i manager, cancellate le scatole vuote. Pronta per il CdM la riforma delle società locali. Arriva l'amministratore unico.
Rivoluzione nelle partecipate pubbliche. Per i manager è in arrivo la responsabilità erariale per i danni (patrimoniali e non) cagionati agli enti pubblici partecipanti. E anche i rappresentanti degli enti nelle società risponderanno per danno erariale se hanno «colpevolmente» trascurato di esercitare i propri diritti di socio, «pregiudicando il valore della partecipazione».

La galassia delle oltre 7.700 sarà drasticamente ridotta. La parola d'ordine sarà disboscare i rami secchi a cominciare dalle «scatole vuote», ossia quelle società che per più di tre anni consecutivi non abbiano depositato il bilancio né compiuto atti di gestione.
Entro un anno dalla riforma, esse verranno cancellate d'ufficio dal registro delle imprese. Sotto la mannaia potrebbero finire circa 3 mila micro-società che hanno un numero di dipendenti inferiore ai componenti del consiglio di amministrazione. Cda che diventeranno l'eccezione nella gestione delle partecipate, visto che la regola sarà l'amministratore unico. Ogni anno ciascun ente pubblico dovrà effettuare un monitoraggio dell'andamento delle società di cui detiene partecipazioni (dirette o indirette).
Qualora vengano rilevate anomalie dovrà scattare la razionalizzazione, da attuarsi mediante fusione, liquidazione o cessione. Per esempio, i tagli saranno obbligatori dopo 4 bilanci chiusi in perdita su 5 esercizi (ma la regola non varrà per le società che gestiscono servizi di interesse generale) o per quelle prive di dipendenti oppure con un fatturato medio inferiore a una soglia minima ancora da definire.
A prevederlo è la bozza di decreto legislativo, che, in attuazione della legge delega di riforma della p.a. (legge 124/2015), riscrive le regole in materia di società partecipate, raggruppandole in un Testo unico organico. Il dlgs, pronto per il consiglio dei ministri del 15 gennaio, parla chiaro: non sarà possibile dare vita a una società per produrre beni e servizi non strettamente necessari alle finalità istituzionali dell'ente.
Le p.a. potranno costituire o acquisire partecipazioni in società esclusivamente per:
- produrre servizi di interesse generale;
- progettare e realizzare un'opera pubblica;
- realizzare e gestire un'opera in partnership con i privati;
- autoprodurre beni o servizi strumentali all'ente;
- svolgere funzioni amministrative;
- svolgere servizi di committenza ai sensi del Codice appalti.
Le partecipazioni non conformi ai paletti di cui sopra dovranno essere alienate. A questo scopo gli enti pubblici dovranno avviare, entro sei mesi dall'entrata in vigore del dlgs, una ricognizione di tutte le partecipazioni possedute direttamente o indirettamente. La dismissione delle partecipazioni non conformi dovrà avvenire entro un anno dal monitoraggio. In caso di inadempienza il rapporto societario si intenderà estinto e il socio cessato avrà diritto alla liquidazione in denaro delle quote.
Paletti anche agli stipendi dei manager. Entro sei mesi arriverà un decreto con i criteri per determinare le remunerazioni degli amministratori che in ogni caso dovranno essere proporzionate alla qualifica professionale dei manager, all'impegno di lavoro richiesto e alle dimensioni della società. Una parte dello stipendio, in ogni caso, sarà commisurata ai risultati di bilancio raggiunti nell'esercizio precedente. «In caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell'amministratore», si legge nello schema di dlgs, «la parte variabile non potrà essere corrisposta».
L'altra novità per i manager riguarda la possibilità di essere chiamati a rispondere di danno erariale per i danni, patrimoniali e non, subìti direttamente dagli enti pubblici partecipanti. La responsabilità erariale si aggiunge alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali. Per danno erariale potranno essere chiamati a rispondere anche i rappresentanti dell'ente pubblico, o comunque «i titolari del potere di decidere per esso» (quindi per esempio i sindaci) che «abbiano colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, pregiudicando il valore della partecipazione».
Per le partecipate degli enti locali si prevedono regole ad hoc in caso di risultato di esercizio negativo. Come anticipato su ItaliaOggi del 06.10.2015, le amministrazioni locali dovranno accantonare in un apposito fondo vincolato un importo pari alla perdita che non sia stata immediatamente ripianata. L'accantonamento dovrà avvenire in misura proporzionale alla quota di partecipazione e in pratica costituirà una zavorra che gli enti locali controllanti dovranno accollarsi in caso di perdita.
Le somme torneranno disponibili solo quando le perdite verranno ripianate o nel caso in cui la partecipazione venga dismessa, o, ancora, la società venga posta in liquidazione. In sede di prima applicazione del decreto, si prevede un percorso graduale. Per gli anni 2015-2017 gli enti soci di società che hanno registrato perdite nel triennio 2011-2013 dovranno accantonare, in proporzione alla quota di partecipazione, una somma pari alla differenza tra il risultato conseguito nell'esercizio precedente e il risultato medio 2011-2013, migliorato del 25% per il 2014, del 50% per il 2015 e del 75% per il 2016.
L'aver chiuso gli ultimi tre esercizi in perdita costituirà giusta causa per procedere alla riduzione del 30% dei compensi degli amministratori. Un risultato economico negativo per due anni consecutivi porterà alla revoca del management (articolo ItaliaOggi del 05.01.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti, assunzioni bloccate anche negli enti locali.
Assunzioni di dirigenti bloccate in modo quasi assoluto per le pubbliche amministrazioni nel 2016, sia a tempo indeterminato, sia a tempo determinato.

Sono le conseguenze dell'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015 (legge di Stabilità per il 2016), che dal blocco delle assunzioni delle qualifiche dirigenziali ha inteso trarre, da un lato, spazi per l'avvio del nuovo sistema degli incarichi dirigenziali di cui si occuperanno i decreti legislativi attuativi della legge 124/2015, dall'altro un contenimento della spesa complessiva di personale, capace in parte di concorrere al finanziamento delle esigue risorse disponibili per i rinnovi dei contratti pubblici.
Il blocco delle assunzioni delle qualifiche dirigenziali non è a regime, ma limitato nel tempo. Esso, infatti, opera nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi della riforma Madia, nonché in attesa della completa attuazione della legge 190/2014, articolo 1 commi 422, 423, 424 e 425.
In attesa dei decreti attuativi e della sofferta ricollocazione dei dipendenti provinciali soprannumerari, l'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015 impone di rendere «indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, come rideterminati in applicazione dell'articolo 2 del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, e successive modificazioni, vacanti alla data del 15.10.2015».
Rendere indisponibili i posti vacanti, significa sostanzialmente impedire che essi siano coperti, come se fossero cancellati dalla dotazione organica.
È per questa ragione che finché non si saranno avverate le condizioni indicate prima, il comma 219 impedisce assunzioni sia a tempo indeterminato, sia a termine. Infatti, ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 gli incarichi dirigenziali «a contratto», cioè a tempo determinato, vanno a coprire la dotazione organica. Dunque, se i posti vacanti sono resi indisponibili, questo vale tanto per la copertura a tempo indeterminato, quanto per gli incarichi a contratto.
La tagliola è particolarmente forte, tanto che gli incarichi dirigenziali conferiti a copertura dei posti da rendere indisponibili dopo il 15.10.2015 e fino all'01/01/2016 cessano di diritto alla data dell'01/01/2016, con risoluzione dei relativi contratti. Il comma 219 fa salvi i casi per i quali, alla data del 15.10.2015, «sia stato avviato il procedimento per il conferimento dell'incarico».
Sono conferibili, ancora, gli incarichi assegnati anche dopo l'01/01/2016, «concernenti i posti dirigenziali in enti pubblici nazionali o strutture organizzative istituiti dopo il 31.12.2011, i posti dirigenziali specificamente previsti dalla legge o appartenenti a strutture organizzative oggetto di riordino negli anni 2014 e 2015 con riduzione del numero dei posti e, comunque, gli incarichi conferiti a dirigenti assunti per concorso pubblico bandito prima della data di entrata in vigore della presente legge o da espletare a norma del comma 216, oppure in applicazione delle procedure di mobilità previste dalla legge».
Il comma 219 specifica che in ogni altro caso, in ciascuna amministrazione possono essere conferiti incarichi dirigenziali solo entro i posti disponibili (tenendo conto, cioè, di quelli resi indisponibili). Di fatto, sarà possibile assegnare incarichi dirigenziali solo su nuove vacanze createsi nel corso del 2016.
Nella morsa imposta dalla legge ricadono in pieno anche regioni ed enti locali. Il comma 219 non lascia campo a dubbio alcuno, visto che ricomprende nel divieto tutte le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001, tra cui sono elencate appunto regioni ed enti locali.
Il riferimento nel comma 219 all'obbligo di rideterminare le dotazioni organiche previsto dal dl 95/2012, convertito in legge 135/2012, riguardante le sole amministrazioni statali, non deve trarre in inganno. Non vale certo ad escludere regioni ed enti locali, ma solo a precisare che i posti vacanti sono quelli risultanti dalla rideterminazione, per quegli enti che l'abbiano realizzata.
D'altra parte, la conferma che gli enti locali debbono rendere indisponibili i posti vacanti dirigenziali è data dal successivo comma 224, che elenca categorie di personale escluso dal divieto del comma 219 (tra cui il personale non contrattualizzato), specificando che sono da escludere i dipendenti delle città metropolitane e delle province adibito all'esercizio di funzioni fondamentali. Se gli enti locali non fossero coinvolti nel divieto di cui al comma 219 tale precisazione non sarebbe stata necessaria.
Pertanto, comuni e aree vaste non potranno effettuare assunzioni ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000, in quanto si tratta di contratti a termine entro la dotazione. Si può ritenere, invece, applicabile il comma 2 dell'articolo 110 (articolo ItaliaOggi del 05.01.2016).

PATRIMONIO: Edilizia scolastica, tre proroghe per la messa in sicurezza delle scuole. Sono contenute nel recente dl milleproroghe.
Edilizia scolastica, tre mesi in più per poter fruire dei fondi per la messa in sicurezza degli edifici. E un anno in più per l'adeguamento alle normative antincendio nelle scuole.

Sono due delle misure contenute nel cosiddetto Milleproroghe», cioè il decreto legge 30.12.2015, n. 210 «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30 dicembre.
Il decreto legge, come spiega il governo, per quanto riguarda l'edilizia scolastica, prevede due proroghe: «1) In relazione ai vecchi piani stralcio di edilizia scolastica per la messa in sicurezza degli edifici (delibera Cipe n. 32/2010 del 13.05.2010 e la delibera Cipe n. 6/2012 del 20.01.2012), la legge sulla Buona Scuola, fissava all'articolo 1, comma 165, un ultimo termine, il 16.01.2016, per la trasmissione da parte degli enti beneficiari al Miur delle aggiudicazioni provvisorie delle opere, pena la revoca dei fondi e la loro riprogrammazione da parte del Cipe sulla base del Programma nazionale triennale 2015-2017 di edilizia scolastica. Il Milleproroghe sposta questo termine al 30.04.2016».
«Per quanto riguarda i finanziamenti Bei», prosegue la nota, illustrando la seconda proroga contenuta nel dl 210/15, «905 milioni di euro a totale carico dello Stato - (di cui all'articolo 10 del Dl 12.09.2013 n. 104), il termine per l'aggiudicazione provvisoria fissato al 31.01.2016 viene spostato al 29.02.2016». Prorogato, infine, al 21.12.2016, il termine delle nuove regole per la prevenzione degli incendi nelle scuole.
Le tre proroghe contenute nel dl 30.12.2015, n. 210 vanno ad aggiungersi agli interventi finanziari più recenti compiti dal governo per sostenere l'edilizia scolastica. Il Ministro dell'istruzione, Stefania Giannini, ha firmato pochi giorni fa il decreto per la ripartizione delle risorse per l'adeguamento antisismico delle scuole, 40 milioni di euro previsti dalla legge Buona Scuola (legge 107 del 2015), destinati a rendere più sicuri gli edifici scolastici che sorgono nelle zone particolarmente esposte a rischio sismico. «Complessivamente saranno erogati 37.536.601 euro per un totale di 50 interventi di adeguamento antisismico», spiega una nota del dicastero.
«La valutazione e la conseguente selezione dei Piani regionali degli interventi sono state effettuate da un'apposita Commissione, istituita con decreto direttoriale n. 57 del 09.12.2015, della quale fa parte anche il Dipartimento per la Protezione Civile. Il decreto prevede l'approvazione degli interventi, individua i termini per l'esecuzione della progettazione e per l'aggiudicazione dei lavori, definisce le modalità di rendicontazione a cui gli enti locali dovranno attenersi e le procedure per l'eventuale revoca dei finanziamenti, stabilisce i parametri per il monitoraggio degli interventi» (articolo ItaliaOggi del 05.01.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La manovra blocca le assunzioni di nuovi dirigenti. Personale. Le incognite della Stabilità.
I Comuni e le Regioni possono continuare a utilizzare nel 2016 i resti derivanti dalle cessazioni del personale dell’ultimo triennio per dar corso ad assunzioni di nuovo personale? Possono effettuare assunzioni di dirigenti a tempo indeterminato? Che cosa avviene delle procedure di assunzione in corso? Municipi e Regioni sono obbligati, come le amministrazioni statali, a rendere indisponibili i posti di dirigente vacanti alla data dello scorso 15 ottobre?
Sono questi i principali dubbi in materia di personale sollevati dalla legge di Stabilità (legge 208/2015), un provvedimento che si conferma di lettura assai difficile nella parte relativa alle modifiche apportate dal Parlamento e che rischia di sollevare il solito balletto di interpretazioni.
La stretta sulle assunzioni si concretizza nella limitazione per ognuno degli anni del triennio 2016/2018 delle assunzioni di personale da parte delle amministrazioni statali, delle Regioni e degli enti locali nel tetto del 25% dei risparmi derivanti dalle cessazioni dell’anno precedente. Il comma 228 utilizza espressamente la formula in base alla quale in questo triennio le amministrazioni «possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale».
Il che sembra comprendere qualunque voce che concorre alle nuove assunzioni, con l’unica deroga espressamente prevista dalla stessa norma per le assunzioni del personale in sovrannumero degli enti di area vasta. Non viene utilizzata, a differenza del passato, la voce «capacità assunzionale», che permetteva di trarre la conclusione (circolare 1/2015 della Funzione Pubblica e degli Affari Regionali) che la limitazione riguardasse solo gli spazi finanziari dedicati alle assunzioni che si sono determinati nell’anno.
Ma non viene abrogata la possibilità di utilizzare i resti delle capacità assunzionali del triennio precedente, contenuta nell’articolo 3, comma 5, quinto periodo del Dl 90/2014, come modificato dal Dl 78/2015. Nella direzione di continuare a considerare non compresi nel blocco i resti delle capacità assunzionali va anche il fatto che, sulla base del principio del «tempus regit actum», numerose amministrazioni hanno in corso procedure di assunzione, avviate in condizioni di piena legittimità sulla base delle regole in vigore. Solo le residue capacità assunzionali del 2013 e 2014 possono comunque essere utilizzate per assunzioni con procedure ordinarie, visto che quelle del 2015 sono riservate alle assunzioni del personale in sovrannumero degli enti di area vasta.
Si prevede che le assunzioni riguardino solamente il personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale, dal che sembra doversi trarre la drastica conclusione che non sia possibile assumere nuovi dirigenti a tempo indeterminato e che gli enti possano far ricorso al solo tempo determinato. Ambito in cui non sono ovviamente in alcun modo compresi i responsabili nei Comuni privi di dirigenti.
Un altro dubbio riguarda i dirigenti: anche nei Comuni e nelle Regioni i posti vacanti al 15 ottobre devono essere resi indisponibili? Va precisato che cosa si intenda con questa formula inedita: essa sembra voler escludere la possibilità di dare corso ad assunzioni quanto obbligare gli enti alla cancellazione dei posti dalla dotazione organica. Il comma 219 include nell’obbligo tutte le Pa, ma fa riferimento agli organici che gli enti hanno già ridotto sulla base del Dl 95/2012, obbligo dettato solo per le amministrazioni dello Stato.
Inoltre, le regioni e gli enti locali –sulla base del comma 221- devono limitarsi a rivedere le competenze degli uffici di livello dirigenziale ed eliminare le duplicazioni, senza che la norma detti termini o sanzioni. Occorre inoltre chiarire quali siano in concreto i risparmi che gli enti traggono da questa norma, visto che essi possono usarli nel recupero delle somme illegittimamente inserite nei fondi per la contrattazione decentrata
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, più tempo per adeguarsi. Slitta al 01.01.2017 l'applicabilità delle sanzioni. Da green economy, milleproroghe e dcpm Mud le regole ambientali del nuovo anno.
A disegnare la «road map» 2016 per la gestione dei rifiuti sono tre provvedimenti licenziati in stretta sequenza negli ultimi giorni del 2015, ossia la legge «green economy», il rituale decreto legge «milleproroghe» e il dpcm sulla dichiarazione ambientale «Mud».
Tracciamento rifiuti. Il dl n. 210, recante «Disposizioni urgenti in materia di proroga termini» (cosiddetto milleproroghe), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30/12/2015 ha sancito lo slittamento al 01.01.2017 dell'applicabilità delle sanzioni per l'omesso controllo telematico dei rifiuti (ma non di quelle per omessa iscrizione e pagamento del contributo annuale), prolungando fino al 31.12.2016 il periodo del cd. «doppio binario» in base al quale (anche) i soggetti obbligati al Sistri devono continuare a effettuare il tradizionale tracciamento dei residui tramite registri, formulari e Mud.
E proprio in relazione a quest'ultimo, con dpcm 21.12.2015 (pubblicato sulla G.U. del successivo giorno 28, n. 300) il governo ha confermato per la dichiarazione in scadenza il prossimo 30.04.2016 il «modello unico di dichiarazione» recato dall'omonimo provvedimento del precedente 17.12.2014, promettendo la pubblicazione attraverso i propri siti istituzionali di informazioni aggiuntive per il suo utilizzo.
Novità per la tenuta di registri di carico/scarico e formulari di trasporto arrivano invece con la legge recante «Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali» approvata il 22.12.2015. In base alla legge in parola (meglio nota come «green economy») gli imprenditori agricoli potranno, secondo il novellato articolo 193 del dlgs 152/2006, delegare la tenuta dei formulari alle cooperative di cui sono soci e che abbiano messo a disposizione siti di deposito temporaneo.
Con la modifica dell'articolo 190 del dlgs 152/2006 arrivano semplificazioni anche per i registri dei rifiuti prodotti da manutenzione d'impianti idrici, con la possibilità di tenerli presso sedi di coordinamento organizzativo o equivalenti previa comunicazione alle autorità di controllo. Rinnovate, con allargata portata, anche le disposizioni di favore previste dal dl 201/2011 per la gestione dei rifiuti pericolosi (compresi quelli individuati da codice Cer 18.01.03*) coincidenti con aghi, siringhe e oggetti taglienti usati.
Barbieri e parrucchieri, istituti di bellezza, di tatuaggio e piercing così come (ora) imprese agricole potranno (oltre che trasportarli liberamente in conto proprio fino a 30 kg/giorno a impianti di smaltimento) adempiere agli obblighi di tenuta di registri, Mud e (novità) «controllo della tracciabilità dei rifiuti» (ossia «Sistri») attraverso compilazione e conservazione dei formulari, in sede o tramite associazioni e società di servizi.
La precisazione sul Sistri è stata plausibilmente introdotta per non aver la legge 125/2013 (di riformulazione del novero dei soggetti obbligati al tracciamento telematico) confermato il regime di favore previsto dall'originaria versione del dl in parola.
Particolari rifiuti. Sempre con il «green economy» arrivano novità per la gestione di particolari tipologie di rifiuti. Estensione in primis per il regime transitorio «tecnico» da osservare per raccolta, trasporto, stoccaggio e trattamento dei Raee: con la modifica del dlgs 49/2014 è stabilito che fino all'adozione del futuro dm Minambiente in materia, il «trattamento adeguato» continuerà ad essere soddisfatto, per i soggetti che vi hanno aderito, tramite l'osservanza degli accordi tra Centro di coordinamento Raee e associazioni di categoria; valido titolo per il trattamento sarà altresì costituito, oltre che dall'autorizzazione ex articolo 208 del dlgs 152/2006, dall'Aia (autorizzazione integrata ambientale) ex articolo 231 dello stesso decreto.
Con la modifica dell'articolo 188 del dlgs 152/2006 è altresì sancito l'obbligo per produttori iniziali o detentori di rifiuti di metalli ferrosi e non ferrosi che non provvedano direttamente al loro trattamento di affidarne raccolta, trasporto recupero o smaltimento esclusivamente a terzi (pubblici privati) titolati alle suddette operazioni diversi dai meri raccoglitori ambulanti ex articolo 266, Codice ambientale.
Stretta anche per il campo di applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo.
Da un lato i materiali litoidi da attività di estrazione saranno assoggettati alla specifica normativa dettata per queste ultime. Parallelamente, con la novella del dm 161/2012 (sull'utilizzo delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti da parte di cantieri di grandi dimensioni sottoposti a Via/Aia) sono ricondotti sotto la disciplina delle estrattive anche i residui di lavorazione di materiali lapidei.
L'intervento appare in linea con lo schema decreto approvato in via preliminare dal governo il 06.11.2015, laddove nel riorganizzare la normativa sulla gestione delle terre e rocce da scavo non appare più contemplarne nella definizione i residui da estrazione (riconducendone anche l'eventuale gestione come sottoprodotti nella diversa e citata disciplina).
Nell'ambito del divieto di abbandono di rifiuti ex dall'articolo 255 del dlgs 152/2006 viene poi ritagliata (con dubbio valore dissuasivo per condotte già illecite) una mini sanzione amministrativa (da 20 a 150 euro, in luogo di quella da 300 a 3000) per l'abbandono di mini rifiuti (ossia quelli di piccolissime dimensioni previsti dal neo parallelo articolo 232-ter, quali prodotti da fumo, scontrini, fazzoletti di carta e gomme da masticare) sul suolo, nelle acque e negli scarichi (con raddoppio delle pene qualora la condotta riguardi i citati primi prodotti).
Operazioni. Dal «green economy» arrivano infine novità per alcune attività relative ai rifiuti. Allargata in primo luogo la nozione di «autocompostaggio» ex articolo 183 del dlgs 152/2006 (ossia di scarti organici di rifiuti urbani per il loro riutilizzo in sito), ora comprendente quello effettuato anche da utenze non domestiche. Prevista inoltre una riduzione della tariff
a rifiuti urbani per due categorie di soggetti: utenze domestiche che effettuano (auto)compostaggio aerobico individuale di propri rifiuti organici da cucina, sfalci e potature da giardino; utenze non domestiche che operano compostaggio aerobico individuale di residui naturali non pericolosi da attività agricole e vivaistiche.
Semplificazioni per realizzazione ed esercizio di impianti di compostaggio aerobico di rifiuti (evidentemente prodotti da terzi), ora possibile tramite denuncia di inizio attività a condizione che: processino residui da cucine, mense, mercati, giardini, parchi, attività agricole e vivaistiche; interessi macchinari con capacità fino a 80 tonnellate annue per il trattamento di rifiuti raccolti nell'ambito comunale; funzionino nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche, antisismiche, ambientali, di sicurezza, antincendio e igienico-sanitarie, di efficienza energetica, tutela di beni culturali e del paesaggio; sia stato acquisito il parere Arpa.
Il riformulato quadro normativo appare confermare l'esclusione dell'autocompostaggio dalla disciplina dei rifiuti (fatto salvo il rispetto del dlgs 75/2010 sui fertilizzanti), confortando la posizione già adottata da molte amministrazioni locali. Rimodulato inoltre il regime di conferimento dei rifiuti in discarica.
Da un lato viene definitivamente abrogato il divieto di avviare a tale smaltimento rifiuti con «Pci» superiore a 13 mila kJ/kg ex articolo 6 del dlgs 36/2003. Dall'altro arriva invece una stretta generale sulle condizioni che i rifiuti comunque ammessi (ex citato articolo 6) in discarica dovranno soddisfare per trovarvi effettiva collocazione: con la novella dell'articolo 7 del dlgs 36/2003 la deroga all'obbligo di preventivo trattamento varrà (oltre che per gli inerti tecnicamente non processabili) solo per i rifiuti in relazione ai quali, in base ad emanandi criteri dell'Ispra, sarà dimostrato essere detto processo né utile ad abbassare il rischio di inquinamento né indispensabile per ricondurne la pericolosità.
Con la novella dell'articolo 197 del dlgs 152/2006 è inoltre chiarito che le miscelazioni di rifiuti non vietate sono conducibili senza obbligo di autorizzazione e non possono essere sottoposte a prescrizioni ulteriori rispetto a quelle già previste dalle norme di riferimento (articolo ItaliaOggi Sette del 04.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Verifiche antimafia in un clic. Countdown per la banca dati nazionale sulle infiltrazioni. Lo prevede il dpcm n. 193/2014. Operatività al via dal 7 gennaio, salvo proroghe.
Verifiche antimafia con un clic. Dal 07.01.2016 sarà operativa la banca dati per gli appalti, connessa con le altre costituite presso il ministero dell'interno, la Dia (per i dati acquisiti nel corso di accessi ai cantieri) e quelle detenute da soggetti pubblici contenenti dati necessari per il rilascio della documentazione antimafia.
Sulla base dei dati immessi dall'operatore che effettuerà la consultazione, il sistema informativo, se l'impresa sarà censita, verificherà le informazioni esistenti negli archivi della stessa banca dati, nonché nelle altre banche dati collegate. Se non risulteranno a carico degli interessati le cause di divieto, sospensione e decadenza di cui all'articolo 67 del codice antimafia, la banca dati nazionale rilascerà immediatamente, per via telematica, al soggetto richiedente, la comunicazione antimafia liberatoria.

Tutto questo lo prevede il dpcm 30.10.2014 n. 193 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 07.01.2015 n. 4 (l'articolo 99 del codice antimafia dlgs n. 159/2011 prevede che la banca dati diventi operativa entro 12 mesi dalla pubblicazione del regolamento). Con le informazioni contenute nella banca dati si potrà accertare immediatamente che l'impresa non avrà subito infiltrazioni e potrà partecipare alle gare d'appalto (articolo ItaliaOggi Sette del 04.01.2016).

VARI: Comprar casa con più opzioni. Tra le strade alternative non c'è solo il rent to buy. Vantaggi e svantaggi delle varie forme contrattuali secondo la guida del Notariato.
Non solo rent to buy. Per avere a disposizione un'abitazione senza essere costretti a versare subito il prezzo integrale o contrarre un mutuo si possono infatti percorrere una serie di strade alternative.

Lo ricorda il Consiglio nazionale del notariato nella guida per il cittadino: «Il rent to buy e altri modi per comprare casa» (si veda ItaliaOggi Sette del 14/12/2015).
Si può per esempio optare per la locazione con patto di futura vendita, schema contrattuale nel quale la locazione è collegata a un preliminare di vendita. Entrambi i contratti devono essere redatti in forma scritta e il preliminare può essere trascritto per tutelare l'acquirente nei confronti dei terzi.
Il corrispettivo per l'utilizzo dell'immobile può consistere in un canone cui si associa una caparra o un acconto prezzo oppure, secondo lo schema proprio del rent to buy, un canone composito da imputare in parte alla locazione in parte ad acconto del prezzo di vendita.
Un'altra soluzione è rappresentata dalla più classica vendita con riserva della proprietà, nella quale l'immobile viene messo da subito a disposizione dell'acquirente, ma la proprietà si trasferisce soltanto con il pagamento dell'ultima rata del prezzo, secondo gli accordi intercorsi tra le parti.
Anche in questo caso necessita la forma scritta, anche perché il contratto potrà essere trascritto soltanto se redatto sotto forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata. Si può poi consentire alla vendita, e al conseguente trasferimento della proprietà, anche senza il versamento dell'intero prezzo pattuito, venendo così incontro all'interesse dell'acquirente che non abbia a disposizione la necessaria liquidità e che non riesca a contrarre un mutuo, al quale viene sostanzialmente consentito un pagamento dilazionato.
Il rischio assunto dal venditore è controbilanciato dall'iscrizione di un'ipoteca sul medesimo immobile in favore del precedente proprietario, che verrà cancellata con il saldo di quanto dovuto. È infine possibile anticipare gli effetti del contratto preliminare, pattuendo l'immediata consegna dell'immobile. In questi casi solitamente viene richiesto all'acquirente il versamento di una caparra o di un acconto nella misura del 5-10% del prezzo, concordando altresì una serie di versamenti periodici anteriori alla stipula del rogito e al versamento del saldo.
Di seguito, in tabella, proviamo quindi a rielaborare in maniera sintetica i vantaggi e gli svantaggi legati alle varie forme contrattuali siccome evidenziati nelle tabelle elaborate nella guida del Notariato (articolo ItaliaOggi Sette del 04.01.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Segnaletica raffazzonata. Rischio ricorsi a pioggia.
I comuni non si adeguano alla segnaletica del Codice della strada. Con il rischio di possibili sanzioni e una pioggia di ricorsi.

Un caso per tutti è quello delle lanterne dei semafori: nonostante le disposizioni degli artt. 159 e 169 del Codice, le lanterne per l'attraversamento pedonale sono ancora con il vecchio formato e tipo.
Oltre al pericolo che arrecano, esse comportano peraltro anche un maggior consumo di energia e l'impiego irregolare delle indicazioni di corsia. Non solo. Numerosi sinistri stradali derivano dall'usura dei materiali o dalla mancata manutenzione, ovvero l'installazione in condizioni difformi dalle prescrizioni del regolamento. Mancano in sostanza la manutenzione ed il controllo tecnico dell'efficienza.
In diversi casi sono dunque emersi atti o delibere, viziati da eccesso di potere, attraverso i quali si è inteso perseguire risultati e obiettivi estranei alla buona circolazione stradale. In una tale situazione, ed in caso di grave pericolo per la sicurezza, potrebbero ricorrere le condizioni per l'esercizio del potere sostitutivo previsto dall'art. 5, comma 2, del Codice. In pratica il ministero preposto si sostituisce all'ente.
In base all'art. 208, commi 2 e 4 del Codice, i comuni sono tenuti a determinare annualmente con delibera della giunta le quote dei proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie da destinare al miglioramento e adeguamento della circolazione delle strade, al potenziamento e alla manutenzione della segnaletica anche semaforica. Va ricordato altresì, che l'articolo 393 del regolamento, fa obbligo agli enti locali di istituire un apposito capitolo di bilancio, di entrata e uscita, oltre a dover fare un rendiconto finale al ministero Infrastrutture.
Esiste pertanto una tassatività sulla destinazione dei proventi delle sanzioni pecuniarie. Il risparmio sull'adeguamento della segnaletica produce effetti negativi in termini di costi sociali ma anche giudiziali in quanto il mancato adeguamento in caso di ricorso può essere imputato direttamente al comune (articolo ItaliaOggi Sette del 04.01.2016).

VARI: Pubblicazioni blocca-compensazione. Ammissione al concordato preventivo.
La pubblicazione nel registro imprese dell'ammissione alla procedura di concordato preventivo impedisce la compensazione e quindi gli istituti bancari non possono trattenere le somme versate da terzi in conto (compensazione) del proprio credito.

Un società, con specifico ricorso, chiedeva al tribunale di Prato il termine per presentare la proposta di concordato preventivo unitamente al piano. Con il medesimo ricorso chiedeva l'autorizzazione allo scioglimento dei contratti bancari relativi all'anticipazione delle somme di ordini ricevuti da clienti o di fatture emesse con conferimento alla banca di mandato irrevocabile all'incasso e patto di compensazione o, eventualmente, di cessione di credito pro solvendo.
Con decreto del 23.09.2015 il tribunale concedeva il termine e dichiarava non luogo a provvedere sulla richiesta di autorizzazione allo scioglimento dei contratti bancari di anticipazione con mandato all'incasso e patto di compensazione o, eventualmente, con cessione di credito, non potendo gli istituti bancari contraenti, dalla data in cui il ricorso è pubblicato nel registro delle imprese, incamerare le somme versate da terzi, a compensazione o a garanzia di quanto anticipato.
Per il tribunale la presentazione della domanda di concordato (pieno o in bianco) cristallizza la situazione con la conseguenza che la compensazione tra i suoi debiti e crediti da lui vantati nei confronti dei creditori, a mente dell'articolo 56 l.f., richiamato dall'articolo 169 l.f. occorre che i rispettivi crediti siano preesistenti all'apertura della procedura concorsuale.
La compensazione pertanto non può operare nell'ipotesi in cui il debitore abbia conferito a una banca un mandato all'incasso di un proprio credito attribuendole la facoltà di compensare il relativo importo con lo scoperto di un conto corrente da lui intrattenuto con la medesima banca poiché, a differenza della cessione di credito, il mandato all'incasso non determina il trasferimento del credito a favore del mandatario, ma l'obbligo di quest'ultimo di restituire la somma riscossa al mandante.
Tale obbligo non sorge al momento del conferimento del mandato ma soltanto all'atto della riscossione del credito con la conseguenza che qualora quest'ultima debba aver luogo dopo la presentazione della domanda di concordato preventivo non sussistono i presupposti per la compensazione. In relazione poi alle eventuali anticipazioni con cessioni di credito pro solvendo è necessario stabilire sono o meno opponibili.
Se non sono opponibile non sussiste alcuna necessità di provvedere allo scioglimento mentre se sono opponibili devono essere considerate a garanzia delle anticipazioni concesse e, quali garanzie, pendendo la procedura di concordato preventivo, non possono essere escusse salva l'ipotesi di contratti di garanzia finanziaria di cui al dlgs 170/2004 per cui è prevista la deroga all'articolo 163 l.f. (articolo ItaliaOggi Sette del 04.01.2016).

ENTI LOCALI - VARICarta d'identità elettronica. Spazio alle impronte e alla donazione degli organi. In Gazzetta Ufficiale il decreto che fissa le modalità di emissione. Dopo 20 anni.
Dopo un'attesa di 20 anni arriva la carta d'identità elettronica. Conterrà le impronte digitali e anche la possibilità di indicare la scelta sulla donazione degli organi. Un 'altra novità, rispetto a quella tradizionale, è la presenza di un Pin che permetterà l'accesso ai servizi online dedicati.

La consegna della Cie (questo l'acronimo ufficiale) avverrà «entro sei giorni lavorativi».
La disciplina è contenuta nel decreto del ministero dell'interno (emanato di concerto con il ministero dell'economia e delle finanze e con il ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione) del 23.12.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30.12.2015 n. 302) che fissa le modalità tecniche di emissione della carta d'identità elettronica.
Il piano per il rilascio della Cie sarà graduale e i vari step saranno fissati da una commissione ad hoc.
Fotografia storica. Il progetto della carta d'identità elettronica è in cantiere da quasi venti anni. Ideato nel 1997, aveva registrato varie sperimentazioni e anche il rilascio di alcune carte d'identità elettroniche. In una fase successiva si era anche pensato ad un unico documento digitale o con l'incorporazione della stessa tessera sanitaria, ma tutto si era arenato. Ora il governo Renzi (nel dl enti locali della scorsa estate 2015 sono state anche stanziate specifiche risorse per il rilancio della carta d'identità elettronica) .
Come richiedere la carta d'identità digitale. La richiesta di rilascio verrà presentata dal cittadino all'ufficio anagrafico del comune di residenza o al consolato, se residenti all'estero. Il cittadino maggiorenne, in sede di richiesta al comune di rilascio della carta d'identità elettronica, avrà la facoltà di indicare il proprio consenso, ovvero diniego, alla donazione di organi e tessuti in caso di morte.
Nel caso in cui il cittadino intenderà modificare la propria volontà, si dovrà recare presso la propria Asl di appartenenza oppure le aziende ospedaliere o gli ambulatori dei medici di medicina generale o i centri regionali per i trapianti o -limitatamente al momento di rinnovo della Cie- anche presso il comune. Il comune o il consolato, verificata l'identità del richiedente, accerteranno l'assenza di eventuali motivi ostativi al rilascio della Cie per il tramite del Ssce (Sistema di servizi per il circuito di emissione della Cie), secondo quanto indicato nell'allegato B del decreto in commento.
Il comune o il consolato rilasceranno al richiedente la ricevuta della richiesta della Cie, comprensiva del numero della pratica e della prima parte dei codici pin/puk associati alla Cie. Nella carta andrà inserita l'immagine del volto del titolare, attraverso una foto digitalizzata, e l'immagine delle impronte digitali. Ma anche (nei casi previsti) la firma autografata e l'autorizzazione o meno all'espatrio.
Realizzazione supporto fisico della Cie. Il supporto fisico della Cie sarà realizzato con le tecniche tipiche della produzione di carte valori, integrato con un microprocessore per la memorizzazione delle informazioni necessarie per la verifica dell'identità del titolare, inclusi gli elementi biometrici primari e secondari, nonché per l'autenticazione in rete.
Gli elementi biometrici primari e secondari memorizzati nel microprocessore saranno utilizzati esclusivamente per verificare l'autenticità della Cie e l'identità del titolare attraverso elementi comparativi direttamente disponibili ed escludendo confronti in modalità «uno a molti» a fini di identificazione.
Il cittadino (o i genitori o i tutori in caso di minori) potranno prenotare la richiesta di rilascio della Cie collegandosi a Cieonline secondo le modalità indicate sul portale (articolo ItaliaOggi del 02.01.2016).

VARIScompare la ricetta rossa Promemoria per i farmaci.
I cittadini che richiedono una prescrizione farmaceutica al proprio medico di medicina generale ricevono un promemoria stampato (contenente numero di ricetta elettronica, dati anagrafici, codice fiscale dell'assistito e prescrizione) su carta bianca con il quale possono recarsi in farmacia e ritirare il farmaco prescritto. Il farmacista visualizza nel proprio computer la ricetta dematerializzata ed eroga il farmaco inserendo la fustella nell'apposito spazio del promemoria.

Queste novità sono contenute nel decreto del presidente della repubblica 14.11.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31.12.2015 n. 303) sulle prescrizioni farmaceutiche generate in formato elettronico, in vigore da ieri. Il provvedimento è attuativo dell'articolo 13, comma 2-quater, del decreto legge 21.06.2013 convertito con modificazioni dalla legge 09.08.2013 n. 198. Si tratta del primo passo verso la totale digitalizzazione e in un prossimo futuro, quando il sistema entrerà a pieno regime, la stampa del promemoria diverrà opzionale.
Con la dematerializzazione delle prescrizioni specialistiche (c.d. impegnative per visite ed esami), il promemoria cartaceo stampato dal medico curante deve essere tenuto a portata di mano dal paziente per prenotare le prestazioni e consegnato al momento dell'accettazione per la visita o gli esami, come accade oggi con la ricetta rossa.
La farmacia all'atto della dispensazione del medicinale, riscuote la quota l'eventuale quota di partecipazione dell'assistito prevista dalla normativa vigente nella regione o nella provincia autonoma in cui la farmacia ha sede, anche con riferimento al regime di esenzione eventualmente indicato dal medico sulla ricetta.
Spetta alle regioni e alle province autonome, in sede si esecuzione dei controlli finalizzati alla compensazione interregionale dei rimborsi delle ricette farmaceutiche in formato elettronico, verificare che le ricette siano state redatte nel rispetto delle regole inerenti la prescrizione dei medicinali vigenti nella residenza dell'assistito, con particolare e riguardo ai medicinali prescrivibili, alle caratteristiche del medico prescrittore, alle modalità dell'erogazione e alle condizioni indicate nel piano terapeutico (articolo ItaliaOggi del 02.01.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIProcesso amministrativo agile. Sentenza semplificata col sollecito dell'istanza di prelievo. LEGGE DI STABILITÀ 2016/Le modifiche al codice contro riti irragionevolmente lunghi.
Processo amministrativo deciso con sentenza semplificata, quando la definizione è sollecitata dall'interessato, con l'istanza cosiddetta di prelievo.

È quanto prevede la legge di Stabilità per il 2016 (208/2015), che modifica il codice del processo amministrativo, consentendo la discussione del giudizio in camera di consiglio. Tra l'altro il sollecito è necessario se si intende chiedere l'indennizzo per processo irragionevolmente lungo (legge 89/2001).
Ma vediamo di illustrare le novità che riguardano i tribunali amministrativi e il consiglio di stato.
Prelievo
Per sollecitare la decisione del ricorso il codice del processo amministrativo prevede la cosiddetta istanza di prelievo. Con questa richiesta, in base all'articolo 71, comma 2, del codice del processo amministrativo (dlgs n. 104 del 2010), l'interessato segnala l'urgenza del ricorso e chiede la fissazione dell'udienza di discussione della causa.
In relazione all'istanza di prelievo, la legge di Stabilità 2016 inserisce un nuovo articolo 71-bis, che ne disciplina gli effetti. Il giudice, a seguito della presentazione dell'istanza di prelievo, infatti, se il contraddittorio è pieno e cioè se tutte le parti interessate sono state regolarmente chiamate nel giudizio e se l'istruttoria completata, può, sentite le parti, definire il giudizio in camera di consiglio, con sentenza in forma semplificata.
La semplificazione riguarda la motivazione della sentenza. Essa può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo oppure, se del caso, a un precedente conforme (articolo 74 del codice del processo amministrativo).
La sentenza semplificata è prevista, in generale, nel caso in cui ravvisi la manifesta fondatezza oppure la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso.
A questi casi si aggiunge, ora, quello del sollecito con istanza di prelievo.
In tale ultima ipotesi la parte, con l'istanza di prelievo, aderisce alla possibilità di una redazione sintetica delle motivazioni della sentenza.
Processi Lumaca
L'istanza di prelievo è necessaria per poter chiedere l'indennizzo dei danni subito dalle lungaggini del processo amministrativo. La legge 89/2001 chiede alle parti di essere diligenti e di avvalersi degli strumenti processuali per accelerare la definizione del contenzioso. Nel processo amministrativo questo implica che la parte deve presentare l'istanza di prelievo almeno sei mesi prima dello spirare del termine (articolo 1-ter, comma 3 della legge 89/2001).
Come si legge nei lavori preparatori, già attualmente l'istanza di prelievo è presupposto per accedere all'indennizzo da durata irragionevole del processo amministrativo: l'articolo 54 del dl 112 del 2008 ha stabilito che la domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo non è stata presentata l'istanza di prelievo né con riguardo al periodo anteriore alla sua presentazione. La legge di Stabilità 2016 specifica il termine entro il quale l'istanza deve essere presentata.
Ottemperanza
Il comma 781 della legge di Stabilità 2016 modifica l'articolo 114, comma 4, lett. e), del Codice del processo amministrativo, relativo al giudizio di ottemperanza.
Questo giudizio serve a ottenere l'esecuzione delle sentenze amministrative e anche di quelle civili (o decisioni equiparate) nei confronti della pubblica amministrazione inadempiente.
La citata norma prevede che il giudice con l'accoglimento del ricorso fissi la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva e per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato.
La lettera e) però esclude la possibilità di determinare questo aggravio se che è manifestamente iniquo, e se sussistono altre ragioni ostative. La legge di Stabilità 2016 permette di aggiungere sempre gli interessi legali. La norma in esame precisa, infatti, che, se l'ottemperanza ha ad oggetto il pagamento di somme, la penalità di mora decorre dall'ordine di pagamento contenuto nella sentenza di ottemperanza e che tale penalità non è manifestamente iniqua se stabilita in misura pari agli interessi legali (articolo ItaliaOggi del 02.01.2016).

TRIBUTI: Bloccato l'aumento delle aliquote spettanti a enti locali e regioni. La misura del governo per contenere la pressione tributaria complessiva.
Gli enti locali e le regioni non possono aumentare per l'anno 2016 le aliquote o le tariffe dei tributi ad essi spettanti.

È quanto si ricava dalla lettura dell'art. 1, comma 26, della legge di Stabilità per l'anno 2016 (208/2015), che al fine di contenere il livello complessivo di pressione tributaria, in coerenza con gli equilibri generali di finanza pubblica, dispone la sospensione dell'efficacia delle leggi regionali e delle deliberazioni degli enti locali nella parte in cui prevedono aumenti dei tributi e delle addizionali attribuiti alle regioni e agli enti locali con legge dello Stato rispetto ai livelli di aliquote o tariffe applicabili per l'anno 2015.
Si tratta di un tuffo nel passato, visto che dal 2008 al 2012 il legislatore non ha fatto altro che prorogare in vario modo la sospensione del potere delle regioni e degli enti locali di deliberare aumenti dei tributi ad essi attribuiti, per poi allentarlo al momento in cui sono stati approvati i decreti sul federalismo fiscale.
Dopo lo stop definitivamente imposto dall'art. 4, comma 4, del dl 02.03.2012, n. 16 -che ha abrogato le norme istitutive del «blocco degli aumenti» e le successive norme di proroga- ecco riaffacciarsi l'esigenza di realizzare un temporaneo contenimento della pressione fiscale.
È apprezzabile che il legislatore della legge di Stabilità abbia fatto chiarezza rispetto all'originaria formulazione della norma che dava adito a molti dubbi applicativi.
Si ricorda, infatti, che inizialmente la norma affermava che «è fatto divieto alle regioni e agli enti locali di deliberare aumenti dei tributi nonché delle addizionali ad essi attribuiti con legge dello Stato rispetto ai livelli di aliquote deliberate, entro la data del 30.07.2015, per l'esercizio 2015».
La norma era molto atecnica perché, innanzitutto, parlando di «livelli di aliquote», sembrava escludere le tariffe e parlando di «delibere» sembrava riferita ai soli enti locali e non alle regioni. Ma la cosa che non si comprendeva è perché si fosse voluto indicare il 30.07.2015, data fissata per il termine di approvazione per la deliberazione del bilancio di previsione disposto dal decreto del Ministero dell'interno 13.05.2015. La norma dimenticava, però, che detta data è stata espressamente derogata per le città metropolitane e delle province per le quali il termine è slittato al 30.09.2015.
Per la Sicilia, poi, il differimento riguardava oltre che i liberi consorzi comunali anche i comuni, come disposto dal decreto del Ministero dell'interno 30.07.2015. Voler limitare il blocco dell'aumento del livello di pressione tributaria esistente al 30.07.2015 escludeva, pertanto, irragionevolmente, questi ultimi enti locali, i quali, per di più, erano già stati privilegiati da una specifica norma di deroga.
Fortunatamente è stato eliminato il riferimento alle specifiche mensilità e si è più correttamente parlato di «livelli di aliquote o tariffe applicabili per l'anno 2015».
L'intervento in extremis è stato, poi, decisivo, in materia di tributi regionali, giacché parlare di «sospensione dell'efficacia delle leggi regionali» ha posto al riparo il contribuente dagli aumenti dei tributi che le regioni hanno già potuto legittimamente approvare per l'anno 2016. Infatti, a differenza di quanto avviene per i comuni, le regioni non hanno un termine mobile legato al bilancio di previsione entro il quale deliberare aliquote o tariffe. Le singole norme che disciplinano i tributi regionali impongono alle regioni di stabilire la misura del tributo normalmente entro il 31 dicembre di ogni anno, per l'annualità successiva.
Per cui il divieto imposto dalla precedente formulazione della norma risultava del tutto indifferente per le regioni, in quanto la norma della legge di Stabilità entra in vigore il 01.01.2016, quando, cioè, le regioni hanno già potuto esercitare legittimamente il potere di deliberare in materia di tributi per l'anno 2016.
Per buona pace del contribuente, quindi, il «ritocco» del legislatore nel corso dei lavori parlamentari della norma sul «blocco dei tributi», non dovrebbe far assistere ad aumenti della pressione tributarie da parte degli enti territoriali (articolo ItaliaOggi del 02.01.2016).

TRIBUTI: Famiglie e imprese sollevate dal peso della Tasi. Escluse le ville di lusso.
Agevolazioni Tasi per famiglie e imprese. Dal 2016, infatti, non saranno più soggetti al pagamento della Tasi tutti gli immobili destinati a abitazione principale e relative pertinenze, già esentati dall'Imu, esclusi quelli di lusso, le ville e i castelli. Solo un'aliquota ridotta all'1 per mille, invece, per i beni merci delle imprese edilizie invenduti e non locati. È inoltre lasciata ai comuni la facoltà di aumentarla fino al 2,5 per mille.

Lo prevede il testo della legge di Stabilità 2016 (208/2015).
Abitazioni principali. Dal prossimo anno, dunque, saranno escluse dalla Tasi tutti gli immobili destinati a abitazione principale, con relative pertinenze (garage, cantine), già esonerati dal pagamento dell'Imu, tranne quelli di lusso, le ville e i castelli. Saranno ancora soggette al prelievo, e se ne intuisce la ratio, le unità immobiliari iscritte nelle categorie catastali A1, A8 e A9.
Contrariamente a quanto sostenuto, non si tratta tecnicamente di un'esenzione per le «prime case», ma di un'esclusione dal campo di applicazione del tributo. Recita la norma della legge di Stabilità, che ha modificato il comma 669 della legge 147/2013, che terreni agricoli e abitazioni principali non rientrano nel presupposto impositivo.
Previsione irrazionale, o quantomeno discutibile, considerato che i titolari di immobili destinati a abitazione principale sono quelli che più di tutti fruiscono dei servizi indivisibili.
Beni merce delle imprese. La norma della Stabilità, poi, integra l'art. 1, comma 678, della legge 147/2013, stabilendo che per i fabbricati costruiti e destinati dall'impresa alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati, l'aliquota è ridotta all'1 per mille.
I comuni, però, possono modificare la suddetta aliquota, in aumento, sino al 2,5‰ o, in diminuzione, fino all'azzeramento. In realtà, per questi immobili il legislatore avrebbe potuto fare molto di più, tenuto conto che per fruire dell'aliquota agevolata è imposta come condizione che devono essere invenduti e non locati.
Quindi, sarebbe stato più equo esonerarli dall'imposta come avviene per l'Imu. In aggiunta, per loro natura non dovrebbero neppure rientrare nel presupposto impositivo. È infatti illogico che gli stessi immobili siano esentati dall'Imu, che è un'imposta patrimoniale, e siano assoggettati alla Tasi, che è un'imposta sui servizi.
La condizione di immobili inutilizzati dovrebbe escludere l'assoggettamento a un'imposta la cui finalità è quella di finanziare i servizi indivisibili (trasporto locale, illuminazione, manutenzione stradale, verde pubblico e così via). Ma nulla impedisce ai comuni di deliberare con regolamento eventuali agevolazioni, anziché aumentare l'aliquota dell'1 per mille, come prevede la legge di Stabilità.
Del resto, le amministrazioni locali possono stabilire riduzioni senza un tetto massimo e esenzioni anche per la Tasi. È opportuno che, con regolamento comunale, i beni merci delle imprese vengano esonerati dal pagamento dell'imposta sui servizi (articolo ItaliaOggi del 02.01.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA  -TRIBUTIAddio alla privativa sui rifiuti. Tassazione ridotta all'osso per chi smaltisce da solo.
Bloccato l'aumento delle aliquote spettanti a enti locali e regioni.
In gennaio in Cdm la bozza di Testo unico sui servizi pubblici locali. Ecco cosa prevede.
Addio entro la fine del 2016 alla privativa comunale sui rifiuti.
È una delle principali novità previste dalla bozza di testo unico sui servizi pubblici locali che il governo dovrebbe approvare nel corso del mese di gennaio del nuovo anno, insieme ad altri nove decreti legislativi con i quali l'Esecutivo intende ridisegnare il volto della pa dando attuazione alle linee guida tracciate dalla legge «Madia» (legge 124/2015).
Il provvedimento ha l'ambizione di raccogliere e coordinare l'intera disciplina quadro della materia, con riferimento sia ai c.d. servizi pubblici locali di interesse economico generale o locale, sia ai cd servizi a rete. I secondi, a differenza dei primi, sono suscettibili di essere organizzati tramite collegamenti strutturali o funzionali tra le sedi di produzione del bene o di svolgimento del servizio, come accade per quelli relativi al ciclo dei rifiuti.
Rispetto ai rifiuti (così come in materia di servizio idrico integrato, servizio di distribuzione dell'energia elettrica e del gas naturale, trasporto pubblico locale e servizio farmaceutico), peraltro, il testo fa salve le norme di settore, ma allo stesso tempo introduce alcune importanti modifiche alle stesse. Fra queste, spicca il correttivo all'art. 198 del dlgs 152/2006, al quale viene inserito un nuovo comma 1-bis in virtù del quale il regime di privativa dei comuni ai fini della gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento (previsto sino all'inizio dell'attività da parte del soggetto aggiudicatario della gara a evidenza pubblica indetta dall'Autorità d'ambito), cesserà in ogni caso alla data del 31.12.2016.
A quel punto, i produttori che dimostrino di aver avviato i rifiuti alla gestione mediante attestazione rilasciata dal soggetto preposto potranno essere assoggettati alla Tari o alla tariffa sostitutiva solo per le eventuali componenti accessorie effettivamente prestate e contabilmente separate. È fatta salva la possibilità per i comuni di introdurre con delibera motivata un contributo a garanzia del servizio universale. Tale regime, si noti, non riguarderà più i soli rifiuti speciali, tanto che viene espressamente modificato il comma 649 della l 147/2013, escludendo l'obbligo di copertura integrale per i costi relativi a tutti i rifiuti al cui smaltimento provvedono a proprie spese i relativi produttori comprovandone l'avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente.
Più in generale, lo schema di decreto prevede la soppressione dei regimi di privativa ed esclusiva, comunque denominati, non conformi ai princìpi generali in materia di concorrenza. A tal fine, entro sei mesi dall'entrata in vigore del provvedimento, gli enti competenti dovranno compierne una ricognizione puntuale verificando la sussistenza delle condizioni che ne consentono la conservazione o ne impongono la modifica per adeguarli al nuovo regime.
Tale adempimento si inquadra nel più vasto riconoscimento a comuni e città metropolitane della funzione fondamentale di individuare le attività di interesse generale il cui svolgimento è necessario al fine di assicurare la soddisfazione dei bisogni degli appartenenti alle comunità locali, in condizioni di accessibilità fisica ed economica, di continuità e non discriminazione, e ai migliori livelli di qualità e sicurezza, così da garantire l'omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale. L'individuazione dei servizi pubblici locali di interesse economico generale dovrà essere effettuata previa verifica che le attività non siano o non possano essere fornite da imprese che operano secondo le normali regole di mercato in modo soddisfacente e a condizioni coerenti con il pubblico interesse.
A tal fine, potranno essere effettuate anche delle consultazioni pubbliche, da svolgersi anche per via telematica e che dovranno concludersi con un documento che ne attesti i risultati. Sul versante operativo, lo schema di decreto rafforza la distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi, anche attraverso la modifica della disciplina sulle incompatibilità o sull'inconferibilità di incarichi o cariche.
Viene introdotta, infine, una revisione della disciplina dei regimi di proprietà e gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, in base a princìpi di tutela e valorizzazione della proprietà pubblica, di efficienza, di promozione della concorrenza, di contenimento dei costi di gestione, di semplificazione (articolo ItaliaOggi del 02.01.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Stabilizzazioni à gogo. Il Caso/a Milano.
Stabilizzazioni per precari nel comune di Milano. Il capoluogo lombardo ha pubblicato alcuni bandi di concorso, che non fanno altro se non confermare la confusione estrema cagionata nella gestione del personale dal convulso insieme di norme e, soprattutto, di interpretazioni suggerite dalla Corte dei conti.
Tutto discende dalla discutibile teoria espressa dalla Sezione Autonomie, secondo la quale i «resti assunzionali» farebbero storia a sé e non rientrerebbero nel plafond del budget assunzionale degli anni 2015 e 2016, riservato dai commi 424 e 425 della legge 190/2014 alla ricollocazione del personale provinciale in sovrannumero.
La lettura suggerita dalla magistratura contabile crea evidenti cortocircuiti.
Il comune di Milano, come del resto tutte le altre amministrazioni che intendano utilizzare i «resti», evidentemente ha sottratto i posti messi a concorso, finanziati con i resti assunzionali, dall'elenco dei posti disponibili per le ricollocazioni dei dipendenti provinciali in sovrannumero. Il che porta alla conseguenza di un rallentamento del già complicatissimo processo.
Ma, più si rallenta la ricollocazione dei soprannumerari, più si allunga l'attesa degli idonei dei concorsi, i quali continuano a restare al palo, specie se i comuni invece di utilizzare i resti per scorrere le graduatorie, decidono di stabilizzare i precari, con quel simulacro di concorsi rappresentato dalle selezioni riservate, previste dall'articolo 4, comma 6, del dl 101/2013, convertito in legge 125/2013. Il quale, peraltro, prevede un limite finanziario pari al 50% delle risorse finanziarie disponibili ai sensi della normativa vigente in materia di assunzioni. Tale limite è espressamente imposto per garantire un «adeguato accesso dall'esterno», che però i già citati commi 424 e 425 impediscono, vietando le assunzioni appunto dall'esterno.
Le stabilizzazioni avviate dal comune di Milano (così come quelle di qualsiasi altra amministrazione), dunque, nonostante peschino il finanziamento dai resti assunzionali appaiono a forte sospetto di legittimità, in quanto non si inquadrano in un programma di assunzioni che includa anche reclutamenti dall'esterno, a tutto detrimento, quindi, degli idonei in attesa e dei soprannumerari delle province (articolo ItaliaOggi del 02.01.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Sulla legittimità della revoca dell'aggiudicazione del servizio aereo assunta a carico di una compagnia aerea in ragione della mancata presentazione della garanzia fideiussoria prevista dall'art.113 del codice dei contratti pubblici.
L'art. 113, c. 1, del codice degli appalti prevede l'obbligo per l'aggiudicatario ed esecutore dell'appalto di costituire una garanzia fideiussoria, con l'ulteriore previsione (c. 4) che la mancata costituzione della garanzia di cui al c.1 determina la decadenza dell'affidamento.
Dalla natura e finalità connesse a tale prestazione, si tratta di un adempimento dovuto, la cui inadempienza va collegata al mero fatto dell'affidatario senza alcuna discrezionalità da parte della stazione appaltate in ordine alle conseguenze del mancato adempimento.
Circa i tempi di presentazione di detta garanzia la normativa del T.U. degli appalti alcunché precisa; nondimeno appare ragionevole ritenere, avuto riguardo alla ratio della cauzione, chiaramente ravvisabile nella garanzia della puntuale esecuzione delle prestazioni contrattuali, che il termine ultimo entro il quale produrre il documento in questione sia quello che coincide con la stipula del contratto di appalto.
Ne consegue, nel caso di specie, la legittimità della determinazione regionale con cui è stata disposta la revoca dell'aggiudicazione del servizio aereo assunta a carico della compagnia aerea in ragione della mancata presentazione della garanzia fideiussoria prevista dal summenzionato art. 113 codice dei contratti pubblici (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2016 n. 34 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAVa richiamato il prevalente insegnamento giurisprudenziale secondo cui, in sèguito all’annullamento giurisdizionale di un titolo abilitativo (o di un diniego di esso), l’Amministrazione deve riesaminare la relativa istanza non già “ora per allora”, ma tenendo conto della normativa sopravvenuta medio tempore, con il solo limite –che qui non viene in rilievo- dell’inopponibilità delle modifiche legislative intervenute dopo la notifica della sentenza da parte del ricorrente vittorioso.
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... avverso e per l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione dei suoi effetti, della sentenza del TAR della Campania, Sezione di Salerno, Sezione Seconda, nr. 1838/11 del 16.11.2011, non notificata, che ha respinto il ricorso (nr. 1772/2008) proposto avverso la delibera del Consiglio Comunale di Montecorvino Rovella nr. 17 del 16.06.2008 (che ha approvato una variante urbanistica ex art. 5 del d.P.R. 20.10.1998, nr. 447, per l’insediamento di una media struttura commerciale di vendita), nonché i successivi motivi aggiunti proposti, tra l’altro, avverso il provvedimento unico conclusivo del Responsabile del Settore Tecnico del S.U.A.P. Associato della Comunità Montana “Monti Piacentini” nr. 2/2010 del 04.03.2010 (che ha rilasciato il titolo edilizio per la costruzione dell’opificio commerciale e, nello stesso tempo, l’autorizzazione per l’apertura della struttura di vendita che dovrà esservi allocata).
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4. Tutto ciò premesso, l’appello è fondato, e va dunque accolto nei sensi che saranno di sèguito precisati.
5. In ordine logico, anche per la sua connessione con l’appello incidentale proposto dagli appellati, signori Co. e Ca. e società Se. S.r.l., conviene principiare dal primo motivo di appello, col quale si lamenta in modo veemente l’erroneità della declaratoria di improcedibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, cui il primo giudice è pervenuto in ordine alla doglianza afferente alla mancata sottoposizione della variante urbanistica alle procedure previste dal decreto legislativo 03.04.2006, nr. 152, in materia di valutazione ambientale strategica (V.A.S.).
In particolare il TAR, se per un verso ha ritenuto che, all’epoca in cui la variante fu posta in essere, essa avrebbe dovuto certamente essere sottoposta a V.A.S. sulla scorta del tenore dell’art. 6 del citato d.lgs. nr. 152 del 2006, ha però poi evidenziato doversi fare i conti con le modifiche a tale norma medio tempore intervenute per effetto del decreto legislativo 29.06.2010, nr. 128, che, con previsione certamente riferibile anche a interventi del tipo che qui interessa, ha inserito al comma 12 del medesimo art. 6 la seguente disposizione: “…Per le modifiche dei piani e dei programmi elaborati per la pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli conseguenti a provvedimenti di autorizzazione di opere singole che hanno per legge l’effetto di variante ai suddetti piani e programmi, ferma restando l’applicazione della disciplina in materia di VIA, la valutazione ambientale strategica non è necessaria per la localizzazione delle singole opere”.
Pertanto, secondo il giudice di prime cure, in ogni caso in sede di rinnovazione dell’attività amministrativa all’esito di un eventuale annullamento della delibera approvativa della variante sicuramente non sarebbe stato più necessario attivare la procedura di V.A.S.: donde il difetto di interesse delle istanti alla decisione sul punto.
Orbene, la Sezione non concorda con le odierne appellanti, che definiscono il ragionamento così sintetizzato affetto da un “clamoroso” o “inaudito” errore di diritto, che sarebbe costituito dall’avere il primo giudice applicato alla fattispecie al suo esame una norma non in vigore all’epoca in cui la stessa si era verificata, con violazione del principio tempus regit actum.
Al riguardo, va infatti richiamato il prevalente insegnamento giurisprudenziale secondo cui, in sèguito all’annullamento giurisdizionale di un titolo abilitativo (o di un diniego di esso), l’Amministrazione deve riesaminare la relativa istanza non già “ora per allora”, ma tenendo conto della normativa sopravvenuta medio tempore, con il solo limite –che qui non viene in rilievo- dell’inopponibilità delle modifiche legislative intervenute dopo la notifica della sentenza da parte del ricorrente vittorioso (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 10.01.2012, nr. 36; id., 22.02.2002, nr. 1079).
Di conseguenza, non è vero che nel caso che qui occupa il primo giudice abbia assunto a parametro della legittimità dei provvedimenti impugnati una norma non ancora in vigore al momento della loro venuta ad esistenza; molto più semplicemente, nella sentenza impugnata si è preso atto di un sopravvenuto mutamento della situazione di diritto, tale da privare di ogni utilità per la parte ricorrente un ipotetico accoglimento della censura de qua (atteso che, come già evidenziato, in sede di riavvio della procedura di variante l’Amministrazione non avrebbe potuto che concludere nel senso della non necessità di V.A.S.).
Ed è appena il caso di aggiungere, ancorché le società istanti non ne abbiano fatto espressa richiesta, che neanche astrattamente può dirsi sussistente un interesse all’accertamento incidentale della divisata illegittimità a fini risarcitori, ai sensi dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm., dal momento che la sopravvenuta modifica normativa ha privato le ricorrenti medesime anche di ogni chance di ottenere un risultato diverso in relazione alla doglianza de qua.
6. Le conclusioni che precedono comportano anche l’improcedibilità dell’appello incidentale, con il quale gli originari controinteressati hanno censurato il capo di sentenza relativo alla ritenuta necessità di V.A.S. nel regime normativo anteriore alla novella del 2010, assumendo che neanche in tale assetto la valutazione ambientale sarebbe stata necessaria: è del tutto evidente che l’approfondimento di tale questione diventa superfluo alla luce dell’accertata correttezza della conclusione in rito raggiunta dal primo giudice sul punto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2016 n. 27 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl risarcimento dei danni per il ritardo dell'amministrazione nell'adozione di un provvedimento dovuto può essere richiesto esclusivamente nelle ipotesi in cui sia stato previamente accertato e dichiarato dal Giudice il silenzio inadempimento dell'amministrazione.
Invero, in tema di presupposti per il risarcimento del danno da ritardo, al fine del necessario accertamento della colposità dell'inerzia la cui dimostrazione incombe sul danneggiato, non è sufficiente la sola violazione del termine massimo di durata del procedimento amministrativo, poiché tale violazione di per sé non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa.
Il comportamento dell'Amministrazione, inoltre, deve essere valutato unitamente alla condotta dell'istante, il quale riveste il ruolo di parte essenziale e attiva del procedimento e in tale veste dispone di poteri idonei a incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e giustiziali riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra cui il rito del silenzio che deve essere attivato con tempestività rilevando altrimenti, ai fini dell'art. 1227 c.c. (art. 30 c.p.a.) in ordine all'accertamento della spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del danno risarcibile.
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La previsione di cui all’art. 30 c.p.a. deve ritenersi valevole anche per la responsabilità da ritardo della pubblica amministrazione.
Ne consegue che per ottenere il risarcimento del danno da ritardo occorre una iniziativa del danneggiato volata a fare risaltare l’inerzia dell’amministrazione. Tale ordine di idee è conforme ai principi solidaristici che informano l’ordinamento e che impongono di attivarsi nel limite di un apprezzabile sacrificio al fine di evitare che la situazione produttiva del danno si aggravi con il passare del tempo. Detto in altre parole non è lecito che l’asserito danneggiato rimanga inerte per poi giovarsi dell’inerzia della p.a. a fini risarcitori.
Occorre, invece, affinché il danno possa essere risarcibile un’iniziativa del danneggiato che metta in mora l’amministrazione e ciò soprattutto quando come nel caso di specie fa difetto una espressa previsione di un termine finale.

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A tal riguardo la giurisprudenza ha evidenziato che il risarcimento dei danni per il ritardo dell'amministrazione nell'adozione di un provvedimento dovuto può essere richiesto esclusivamente nelle ipotesi in cui sia stato previamente accertato e dichiarato dal Giudice il silenzio inadempimento dell'amministrazione (TAR Sicilia Palermo III 05.06.2015 n. 1316).
E’ stato altresì affermato che in tema di presupposti per il risarcimento del danno da ritardo, al fine del necessario accertamento della colposità dell'inerzia la cui dimostrazione incombe sul danneggiato, non è sufficiente la sola violazione del termine massimo di durata del procedimento amministrativo, poiché tale violazione di per sé non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa.
Il comportamento dell'Amministrazione, inoltre, deve essere valutato unitamente alla condotta dell'istante, il quale riveste il ruolo di parte essenziale e attiva del procedimento e in tale veste dispone di poteri idonei a incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e giustiziali riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra cui il rito del silenzio che deve essere attivato con tempestività rilevando altrimenti, ai fini dell'art. 1227 c.c. (art. 30 c.p.a.) in ordine all'accertamento della spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del danno risarcibile (TAR Sicilia Palermo II 26.05.2015 n. 1243)
In sostanza la previsione di cui all’art. 30 c.p.a. deve ritenersi valevole anche per la responsabilità da ritardo della pubblica amministrazione.
Ne consegue che per ottenere il risarcimento del danno da ritardo occorre una iniziativa del danneggiato volata a fare risaltare l’inerzia dell’amministrazione. Tale ordine di idee è conforme ai principi solidaristici che informano l’ordinamento e che impongono di attivarsi nel limite di un apprezzabile sacrificio al fine di evitare che la situazione produttiva del danno si aggravi con il passare del tempo. Detto in altre parole non è lecito che l’asserito danneggiato rimanga inerte per poi giovarsi dell’inerzia della p.a. a fini risarcitori.
Occorre, invece, affinché il danno possa essere risarcibile un’iniziativa del danneggiato che metta in mora l’amministrazione e ciò soprattutto quando come nel caso di specie fa difetto una espressa previsione di un termine finale (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 08.01.2016 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo rilascio della concessione edilizia e reato di abuso d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, a seguito della trasformazione da reato di pura condotta a dolo specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n. 1234 del 1997, il dolo richiesto è generico con riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo,
la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusti.
Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
Non va del resto dimenticato, per cogliere l'importanza dell'accertamento sull'elemento soggettivo, che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede appunto il "dolo intenzionale", nel senso che l'agente deve aver agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia [per quanto qui potrebbe interessare] l'ingiusto profitto patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l'altrui danno ingiusto.
In altri termini,
non sarebbe sufficiente che il soggetto attivo abbia agito con "dolo diretto", cioè rappresentandosi l'evento come verificabile con elevato grado di probabilità, né con "dolo eventuale", cioè accettando il rischio del suo verificarsi: è necessario che l'evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa.
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Tanto premesso, va detto che la motivazione impugnata non appare del tutto congrua in ordine alla valutazione dell'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio.
Come è noto,
in tema di abuso d'ufficio, a seguito della trasformazione da reato di pura condotta a dolo specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n. 1234 del 1997, il dolo richiesto è generico con riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo,
la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusti.
Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (cfr. Sez. VI, 25.01.2013, Barla ed altri).
Sotto questo profilo, la motivazione della Corte è manifestamente carente e contraddittoria.
Proprio la complessità della situazione giuridica non può semplicisticamente autorizzare un addebito in punto di consapevole violazione delle norme a carico dei funzionari che hanno curato l'iter concessorio.
Mentre è stato impropriamente valorizzato l'iter definito come eccessivamente sollecito della pratica, allorquando in tutta evidenza tale procedura non ha interessato e visti coinvolti solo gli odierni imputati e, comunque, allorquando non si è in presenza di una abnormità evidente della procedura, quanto alla tempistica e/o ai diversi passaggi che hanno portato al rilascio del titolo.
Non va del resto dimenticato, per cogliere l'importanza dell'accertamento sull'elemento soggettivo, che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede appunto il "dolo intenzionale", nel senso che l'agente deve aver agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia [per quanto qui potrebbe interessare] l'ingiusto profitto patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l'altrui danno ingiusto.
In altri termini,
non sarebbe sufficiente che il soggetto attivo abbia agito con "dolo diretto", cioè rappresentandosi l'evento come verificabile con elevato grado di probabilità, né con "dolo eventuale", cioè accettando il rischio del suo verificarsi: è necessario che l'evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa (Sezione VI, 17.11.2009, Ratti ed altro) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 07.01.2016 n. 87).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Con l’accordo di programma decide il Tar. Sezioni Unite. La competenza delle cause del privato che vi aderisce è del giudice amministrativo.
Più agevole trovare il giudice cui rivolgersi nella gestione del territorio: con una prima pronuncia (sentenza 07.01.2016 n. 64) le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione chiariscono cosa accada quando più enti pubblici (Comune, Provincia e Regione) stipulino un accordo di programma e un privato vi aderisca, lamentandosi poi dei danni subiti per ritardi ed inadempimenti dei soggetti pubblici.
Con altra sentenza 07.01.2016 n. 67, la stessa Corte chiarisce in dettaglio cosa capiti quando, nel determinare l’indennità di esproprio, il giudice venga tratto in errore da una consulenza tecnica imprecisa.
La pronuncia che riguarda gli accordi di programma si riferisce a un intervento di bonifica e recupero di una zona industriale: Comune, Provincia e Regione avevano previsto obblighi reciproci, dando il via ad una società privata cui spettava la realizzazione e gestione di un interporto.
Ritardi e inadempimenti hanno poi generato una richiesta di risarcimento danni che dapprima è stato deciso in sede arbitrale, per poi tornare, a distanza di 10 anni, dinanzi un diverso giudice. Il principio espresso dalla Cassazione è che la presenza di un “accordo” tra amministrazioni, condiviso da privati, ha l’effetto di spostare tutte le eventuali controversie dinanzi al giudice amministrativo.
Esiste infatti una norma specifica (articolo 11 legge 241/1990) che affida a Tar e Consiglio di Stato tutte le questioni che possano scaturire da accordi, indipendentemente dalla materia del contendere. Nel caso specifico, poiché la società privata aveva realizzato interventi di bonifica e recupero subendo notevoli ritardi causati da pubbliche amministrazioni, il relativo contenzioso comunque era riconducibile all’accordo di programma.
La società esecutrice danneggiata, pur essendosi limitata a «prendere formale conoscenza» del contenuto dell’accordo di programma tra gli enti pubblici, di tale accordo era parte determinante essendosi impegnata a progettare, eseguire, pagare indennizzi di esproprio, realizzare infrastrutture ed assumere personale. Anche se l’accordo era stato stipulato solo tra Pa per coordinare gli impegni assunti da tali enti pubblici, tutte le liti riconducibili alla esecuzione di detto accordo subiscono lo stesso regime, e cioè spettano al giudice amministrativo.
Stesso del ragionamento del, del resto, è stato applicato per obblighi di privati assunti con accordi con soggetti pubblici, per risanare aree inquinate (nella zona industriale di Trieste, Cassazione 18192/2013) o per una convenzione di lottizzazione (732/2005) o per contestazioni sull'esecuzione di parcheggi pubblici (15608/2001).
Con la stessa logica, di assoluta semplificazione, le Sezioni unite hanno deciso la sorte di un’indennità di esproprio, a valle di una procedura di pianificazione.
Nella sentenza n. 67 del 07.01.2016 è stata decisa la sorte di un indennizzo calcolato equivocando sulla collocazione di un’area: questo errore del consulente tecnico non riguarda il ragionamento del giudice, che ha pronunciato una sentenza correttamente argomentata.
In sintesi, sia le controversie che riguardano il momento iniziale dell’esecuzione di opere pubbliche (accordi) sia quelle sugli aspetti di dettaglio (stime dei suoli), esigono particolare attenzione al fine di evitare errori di giudici e di consulenti
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016).

PATRIMONIO: Insidie: non c'è colpa del Comune se si cade su un gradino scivoloso. Occorre tenere un comportamento prudente.
Secondo la Cassazione il danneggiato avrebbe dovuto tenere conto dello stato dei luoghi.
Brutta disavventura per un turista che si accingeva a raggiungere la spiaggia: fatale l'ultimo scalino della scaletta di ferro che dalla strada porta al mare e la scivolata che provoca all'uomo una rovinosa caduta e danni alla schiena.
Ciononostante non è colpa del Comune: l'avventore avrebbe dovuto, infatti, tenere un comportamento più prudente, adeguato allo stato dei luoghi e per tutelare la propria incolumità.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI Civile, con ordinanza 07.01.2016 n. 56.
Sia in primo che in secondo grado il turista vede rigettarsi la richiesta di risarcimento dei danni cagionati da cosa in custodia, contro il Comune di Catania, per essere scivolato mentre si stava recando a mare.
Secondo la difesa la caduta dal ventiseiesimo scalino di una scaletta in ferro che dal solarium, a livello stradale, consentiva la discesa a mare è provocata dalla mancanza di un prodotto antisdrucciolevole. In più, viene evidenziato che lo scalino "incriminato" si trovava nella parte terminale della scala, immerso nell'acqua.
Anche gli Ermellini, tuttavia, concordano con i giudici di merito nel ritenere non sussistente la responsabilità per custodia del Comune ex art. 2051 c.c., mancando la prova circa il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno.
Il fatto che sugli ultimi gradini della scala non fossero applicate strisce antiscivolo non è una circostanza incompatibile con una struttura dei gradini di per sé predisposta per evitare di scivolare.
Inoltre, come evidenziato dai giudici di merito, il particolare contesto in cui era avvenuto l'infortunio (una lunga discesa in mare attraverso una scala) richiedeva da parte dei fruitori una particolare attenzione ad esso adeguata.
La Corte territoriale ha correttamente applicato i principi di diritto formulati dalla Cassazione secondo cui "La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall'art. 2051 cod. civ., ha carattere oggettivo, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del verificarsi dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia".
Inoltre, laddove il danno non sia l'effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento, "ma richieda che l'agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno".
A ciò deve aggiungersi che "l'allocazione della responsabilità oggettiva per custodia in capo al proprietario del bene demaniale per i danni che esso può provocare agli utenti non esime gli utenti stessi dal dover far uso di una ragionevole prudenza, adeguata allo stato dei luoghi, a salvaguardia della propria incolumità".
Il ricorso va pertanto rigettato (commento tratto da www.studiocataldi.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della Pubblica Amministrazione, non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria, insieme alla prova del danno subito e del nesso di causalità, anche la sussistenza dell'elemento soggettivo nella forma del dolo ovvero della colpa, fatti salvi i peculiari principi applicabili alla responsabilità delle amministrazioni aggiudicatrici in materia di pubblici appalti.
Si deve, quindi, verificare se l'adozione e l'esecuzione degli atti amministrativi contestati sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti ad un atto illegittimo quando la violazione risulti commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore scusabile, come ad esempio nel caso della sussistenza di contrasti giudiziari, di incertezza del quadro normativo di riferimento o di particolare complessità della situazione di fatto.

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4. La residua materia del contendere ancora da definire si concentra sulla domanda risarcitoria azionata dalla società ricorrente in relazione ai danni subiti per effetto dei provvedimenti amministrativi annullati da questo Tribunale con la sentenza n. 1138/2015.
4.1. In tale parte, l’azione è fondata e merita accoglimento, sia pure entro i limiti di seguito precisati, risultando provata la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che soggettivo della responsabilità aquiliana.
Invero, per giurisprudenza pacifica, ai fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della Pubblica Amministrazione, non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria, insieme alla prova del danno subito e del nesso di causalità, anche la sussistenza dell'elemento soggettivo nella forma del dolo ovvero della colpa, fatti salvi i peculiari principi applicabili alla responsabilità delle amministrazioni aggiudicatrici in materia di pubblici appalti (cfr., per tutte, Corte di Giustizia CE, sez. III, 30.09.2010, C-314/09).
Si deve, quindi, verificare se l'adozione e l'esecuzione degli atti amministrativi contestati sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti ad un atto illegittimo quando la violazione risulti commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato.
Viceversa la responsabilità deve essere negata quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore scusabile, come ad esempio nel caso della sussistenza di contrasti giudiziari, di incertezza del quadro normativo di riferimento o di particolare complessità della situazione di fatto (cfr., fra le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, 07.01.2013 n. 23; Consiglio di Stato sez. V, 31.07.2012 n. 4337) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 07.01.2016 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Sezioni Unite. Ici. Competenza verificata solo dopo la giurisdizione.
Spetta al giudice tributario decidere sull’opposizione del contribuente in materia di Ici e la Cassazione può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione ignorato dal giudice ordinario che si era (peraltro) dichiarato incompetente.

Con una motivazione lunga e articolata, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione (sentenza 05.01.2016 n. 29) hanno deciso una controversia nata in provincia di Mantova su un recupero coattivo di Ici per circa 200mila euro e portata dalla contribuente davanti al Tribunale ordinario di Brescia, sezione staccata di Breno.
Qui il giudice aveva deciso per la propria giurisdizione, rilevando però l’incompetenza territoriale, trasferita al Tribunale di Mantova. Impugnato dalla contribuente in Cassazione con istanza di regolamento di competenza, l’intricato fascicolo è approdato alle Sezioni Unite dopo che la Sesta civile aveva ravvisato un indirizzo non proprio univoco sul versante della pregiudizialità -tutta civilistica- tra regolamento di giurisdizione e quello di competenza.
Le SU, richiamandosi tra l’altro al giudice naturale evocato dalla Costituzione, hanno stabilito che sulla decisione del Tribunale di Brescia non si era ancora formato il giudicato, e che pertanto la Corte può d’ufficio rilevare il difetto di giurisdizione che è sempre “pregiudiziale” rispetto alla determinazione della competenza.
Quanto poi alla “titolarità” giurisdizionale del caso specifico, le Sezioni Unite, dopo aver assimilato l’ingiunzione fiscale emessa dal Comune in pendenza di giudizio tributario a un normale «ruolo», hanno conseguentemente affermato la “titolarità” esclusiva del giudice tributario
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2016).

SICUREZZA LAVORO: Appalti, vigilanza generale al committente. Sicurezza. Spetta al coordinatore controllare che le ditte esecutrici rispettino gli adempimenti previsti dal Psc.
Nell'appalto d'opera la vigilanza sull'operato delle ditte esecutrici non è passibile di delega: il coordinatore controlla gli adempimenti delle aziende e il committente esercita una “vigilanza” sul coordinatore.
È i principio della Corte di cassazione, IV Sez. penale, con la sentenza 05.01.2015 n. 16.
Il giudizio trae origine da un infortunio mortale sul lavoro accaduto a un lavoratore apprendista il quale era caduto attraverso l'apertura esistente sul tetto di un fabbricato in costruzione, mentre era intento ai lavori di posa in opera di una guaina bituminosa.
Sia in primo che in secondo grado sono stati condannati per omicidio colposo sia l'amministratore della società committente che il coordinatore per l'esecuzione.
Quanto a quest'ultimo la Corte di cassazione, nel respingere i motivi di ricorso, ha ribadito che compito del coordinatore per l'esecuzione è quello di verificare che le misure previste dal piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) siano adottate dalle ditte esecutrici. Nel caso di specie si trattava di porre in essere le misure che già nel piano erano state ritenute necessarie a proteggere dal rischio di cadute di lavoratori, stante la presenza di aperture nel tetto dell'edificio in costruzione.
In merito alla posizione del committente la sentenza non manca di puntualizzare la previsione di cui all'articolo 93, comma 2, del Dlgs 81/2008 (Tu sulla salute e sicurezza sul lavoro), secondo la quale la designazione del coordinatore per la progettazione e per l'esecuzioni non esonera il committente dalle responsabilità connesse alla verifica dell'adempimento degli obblighi in capo al coordinatore per l'esecuzione.
Il committente è tenuto a svolgere attività di vigilanza sull'adempimento, da parte del coordinatore per la sicurezza, della verifica che l'impresa esecutrice abbia osservato le disposizioni a essa pertinenti, contenute nel Psc. Pertanto, è palese l'infondatezza secondo cui la “delega di funzioni” rilasciata dal committente al coordinatore per l'esecuzione dei lavori esonera il committente stesso dall'obbligo di vigilare sugli adempimenti ai quali il coordinatore è tenuto. Certamente quelli del committente non sono obblighi delegabili al coordinatore sul quale è invece tenuto a vigilare, né, essenzialmente, appare imputabile il committente su compiti propri del coordinatore.
Infatti, come si rileva dalla sentenza della Cassazione che ha assolto il committente, l'affermazione svolta dalla Corte di appello secondo cui il committente non aveva vigilato sul rispetto delle misure contenute nel Pos, non è in alcun modo connessa a specifiche circostanze di fatto, che ne evidenzino il fondamento.
Né è apparsa rilevante la stessa sentenza della corte territoriale allorché afferma quando e come l'azione di controllo del committente sull'operato del coordinatore si sarebbe e potuto svolgere, in rapporto delle fasi di lavorazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza sul lavoro, il committente deve vigilare sul coordinatore.
Cassazione penale: il committente è tenuto a vigilare sull'adempimento da parte del coordinatore della verifica che l'impresa esecutrice abbia osservato le disposizioni ad essa pertinenti contenute nel Psc.
Con la sentenza 05.01.2016 n. 16, la IV Sez. penale della Corte di Cassazione fornisce alcuni chiarimenti in merito alla posizione di garanzia gravante sul committente in materia di sicurezza sul lavoro.
La suprema Corte ricorda che a partire dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996, nella giurisprudenza di legittimità la responsabilità del committente ha cominciato ad essere derivata dalla violazione di alcuni obblighi specifici, quali l'informazione sui rischi dell'ambiente di lavoro e la cooperazione nell'apprestamento delle misure di protezione e prevenzione, ritenendosi che resti ferma la responsabilità dell'appaltatore per l'inosservanza degli obblighi prevenzionali su di lui gravanti.
Ribadito il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d'opera, tanto in capo al datore di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche) che del committente, si è anche richiamata la necessità che tale principio non conosca un'applicazione automatica, "non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori".
Ne consegue che, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, "occorre verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo".
DOVERI DI PREVENZIONE TANTO SUL COMMITTENTE TANTO SUL COORDINATORE PER L'ESECUZIONE. Ciò posto -e rimarcata infine la non coincidenza degli statuti rispettivamente del committente e del datore di lavoro-committente, fermo restando che le due figure possono in concreto cumularsi – la Cassazione penale sottolinea che la nomina di un coordinatore per l'esecuzione alloca doveri prevenzionistici tanto sulla figura del committente che su quella del coordinatore per la esecuzione.
La suprema Corte richiama la previsione dell'art. 6 d.lgs. n. 494/1996 (norma vigente al tempo del fatto), oggi riproposta dall'articolo 93, co. 2, d.lgs. n. 81/2008, secondo la quale la designazione del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l'esecuzione dei lavori non esonera il committente dalle responsabilità connesse alla verifica dell'adempimento degli obblighi posti in capo al coordinatore per l'esecuzione.
Alla lettera a) dell'art. 93, in particolare, si legge che il coordinatore per l'esecuzione dei lavori durante la realizzazione dell'opera verifica l'applicazione da parte dell'impresa esecutrice o dei lavoratori autonomi delle disposizioni loro pertinenti contenuti nel piano di sicurezza e di coordinamento.
Tanto implica che il committente è tenuto a svolgere un'attività di vigilanza sull'adempimento da parte del coordinatore della verifica che l'impresa esecutrice abbia osservato le disposizioni ad essa pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento.
NESSUNA DELEGA DAL COMMITTENTE AL COORDINATORE. Ciò –conclude la Cassazione- rende palese l'infondatezza del rilievo difensivo per il quale la "delega di funzioni" rilasciata dal committente al coordinatore per l'esecuzione dei lavori esonera il primo dall'obbligo di vigilare sugli adempimenti ai quali il secondo è tenuto.
Quello di vigilare sull'operato delle ditte esecutrici non è obbligo possibile oggetto di delega dal committente al coordinatore, essendo previsto dalla legge in via originaria in capo al coordinatore per l'esecuzione.
Non vi è luogo quindi ad alcuna delega di funzioni al riguardo, e l'area di rischio governata dal committente è per l'appunto definita in passato dall'art. 6 citato ed oggi dall'articolo 93, co. 2, d.lgs. n. 81/2008 (commento tratto da
www.casaeclima.com).
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MASSIMA
4. Quanto al secondo motivo, esso risulta fondato con riferimento alla posizione del Di Be..
4.1. Quanto al Ca., non è nella capacità di questo collegio comprendere l'argomento utilizzato dall'esponente per affermarne l'assenza di responsabilità.
Il compito del coordinatore per l'esecuzione é quello di verificare che le misure previste nel piano di sicurezza di coordinamento siano adottate dalle ditte esecutrici. Nel caso di specie si trattava di porre in essere le misure che già nel predetto piano erano state ritenute necessarie a proteggere dal rischio di cadute i lavoratori stante la presenza di apertura nel tetto dell'edificio in costruzione.
4.2. Quanto al Di Be., a questi è stato ascritto di non aver osservato l'obbligo di "verificare l'adempimento da parte delle ditte esecutrici, delle disposizioni loro pertinenti contenuti nel piano di sicurezza e di coordinamento, con particolare riferimento all'adozione di misure atte a prevenire la caduta dei lavoratori dall'alto" (così l'imputazione).
La Corte di appello ha affermato che al medesimo è stato contestato "di non aver verificato l'adempimento delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza, in violazione dell'obbligo che permane a suo carico anche in caso di delega di funzioni".
In nessun passaggio si esplicitano le circostanze fattuali dalle quali si ricavano tali giudizi. Ma, soprattutto, essi presuppongono obblighi che la legislazione non pone in capo al committente.
E' opportuno svolgere qualche breve considerazione in merito alla posizione di garanzia gravante sul committente.
A partire dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 494/1996, nella giurisprudenza di legittimità la responsabilità del committente ha cominciato ad essere derivata dalla violazione di alcuni obblighi specifici, quali l'informazione sui rischi dell'ambiente di lavoro e la cooperazione nell'apprestamento delle misure di protezione e prevenzione, ritenendosi che resti ferma la responsabilità dell'appaltatore per l'inosservanza degli obblighi prevenzionali su di lui gravanti (Sez. 3, n. 6884 del 18/11/2008 - dep. 18/02/2009, Rappa, Rv. 242735).
Ribadito il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d'opera, tanto in capo al datore di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche) che del committente, si è anche richiamata la necessità che tale principio non conosca un'applicazione automatica, "non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori".
Ne consegue che, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, "occorre verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo"
(Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012 - dep. 30/01/2012, Marangio e altri, Rv. 252672).
4.3. Ciò posto -e rimarcata infine la non coincidenza degli statuti rispettivamente del committente e del datore di lavoro-committente, fermo restando che le due figure possono in concreto cumularsi-
va ancora considerato che la nomina di un coordinatore per l'esecuzione alloca doveri prevenzionistici tanto sulla figura del committente che su quella del coordinatore per la esecuzione.
E' sufficiente porre mente alla previsione dell'art. 6 d.lgs. n. 494/1996 (norma vigente al tempo del fatto), oggi riproposta dall'articolo 93, co. 2 d.lgs. n. 81/2008, secondo la quale la designazione del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l'esecuzione dei lavori non esonera il committente dalle responsabilità connesse alla verifica dell'adempimento degli obblighi posti in capo al coordinatore per l'esecuzione.
Alla lettera a) dell'art. 93, in particolare, si legge che il coordinatore per l'esecuzione dei lavori durante la realizzazione dell'opera verifica l'applicazione da parte dell'impresa esecutrice o dei lavoratori autonomi delle disposizioni loro pertinenti contenuti nel piano di sicurezza e di coordinamento. Tanto implica che il committente é tenuto a svolgere un'attività di vigilanza sull'adempimento da parte del coordinatore della verifica che l'impresa esecutrice abbia osservato le disposizioni ad essa pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento. Come d'altra parte ripetutamente rammentato anche da questa Corte.
Ciò rende palese l'infondatezza del rilievo difensivo per il quale la "delega di funzioni" rilasciata dal committente al coordinatore per l'esecuzione dei lavori esonera il primo dall'obbligo di vigilare sugli adempimenti ai quali il secondo é tenuto.
Quello di vigilare sull'operato delle ditte esecutrici non è obbligo possibile oggetto di delega dal committente al coordinatore, essendo previsto dalla legge in via originaria in capo al coordinatore per l'esecuzione. Non vi è luogo quindi ad alcuna delega di funzioni al riguardo, e l'area di rischio governata dal committente é per l'appunto definita in passato dall'art. 6 citato ed oggi dall'articolo 93, co. 2, d.lgs. n. 81/2008.
E tuttavia, si deve rilevare che, l'affermazione svolta dalla Corte di Appello, per la quale il Di Be. non aveva vigilato sul rispetto delle misure contenute nel Piano di sicurezza e di coordinamento, non é in alcun modo connessa a specifiche circostanze di fatto, che ne evidenzino il fondamento. Non rivela, la sentenza, quando e come l'azione di controllo sull'operato del Ca. si sarebbe dovuta e potuta svolgere, in rapporto alle fasi di lavorazione, secondo le linee di principio sopra rammentate.
Neppure integrando la motivazione qui impugnata con quella resa dal primo giudice é possibile comprendere a quali evidenze processuali la Corte di Appello abbia inteso riferirsi, poiché il Tribunale aveva fondato il giudizio di responsabilità dell'imputato sulla mancata fornitura alla ditta appaltatrice di informazioni specifiche sui pericoli all'interno del cantiere (richiamandosi all'art. 7 d.lgs. n. 626/94) e sull'omessa formazione e apprestamento di tutela al giovane lavoratore, apprendista (Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 05.01.2016 n. 16).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha chiarito che, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti.
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... per l'annullamento del provvedimento del Direttore della Divisione Agro-Alimentare della Provincia di Pavia prot. n. 24058 dell’08.04.2014 (Anno 2014 Titolo 009 Classe 011 Fasc. 19) notificato in data 17.04.2014, nella parte in cui richiede ai Curatori fallimentari, in qualità di legali rappresentanti della fallita F.lli B. S.p.a, la presentazione di un piano per il ripristino dell’area oggetto dell’impianto di recupero rifiuti, sito in Via ... n. 2 Vigevano, entro sessanta giorni della notifica del provvedimento; - nonché di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali.
...
2. Il ricorso è fondato.
Dall’esame degli atti risulta che il provvedimento impugnato contiene un espresso obbligo per i curatori fallimentari di presentazione di un piano per il ripristino dell'area oggetto dell'impianto di recupero rifiuti. Non si tratta quindi di un mero atto di conoscenza ed è irrilevante il fatto che l’obbligo sorga ex lege o per provvedimento dell’amministrazione.
In secondo luogo non è contestato che i suddetti curatori non erano stati autorizzati all’esercizio provvisorio dell’impresa e non l’hanno comunque esercitata.
In merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha chiarito che, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti (TAR Campania, Salerno, Sez. I, 18.10.2010, n. 11823; TAR Toscana, Sez. II, 08.01.2010, n. 8; TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2062; TAR Veneto, Sez. III, sentenza 04.12.2012 n. 1498).
In definitiva quindi il ricorso va accolto con annullamento degli atti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 05.01.2016 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza urbanistica contiene elementi differenti e propri rispetto alla nozione civilistica: il manufatto pertinenziale deve essere preordinato ad una oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, da ciò consegue che lo stesso non ha valore di mercato autonomo, ed è dotato comunque di un volume modesto rispetto all’edificio principale.
La realizzazione di una tettoia di mq. 25 circa con copertura in lamiera e struttura in paletti metallici in alluminio, imbullonata alla recinzione dell’area privata, va qualificata come intervento di nuova costruzione ex art. 3, lett. e), del t.u. n. 380 del 2001, con il consequenziale assoggettamento dell’intervento medesimo, di trasformazione edilizia, al permesso di costruire.
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Diversamente da quanto ritiene parte appellante, non viene in rilievo una pertinenza, essendo stata realizzata un’opera edilizia autonoma, opera che, comportando un mutamento nell’assetto dei luoghi e una trasformazione del territorio, necessitava del permesso di costruire.
In termini generali va rammentato che l’art. 817 cod. civ. definisce pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa.
La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza amministrativa è però meno ampia di quella civilistica.
La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio; dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Un’opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la disponibilità di entrambe:
- la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico;
- ed ancora, i beni che nel diritto civile assumono senz'altro natura pertinenziale non sono tali ai fini dell'applicazione delle regole che governano l'attività edilizia, ogniqualvolta assumono autonomia rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime concessorio. Ne discende, dunque, che in materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere che siano prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
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Nella specie, si tratta di un manufatto, avente una superficie non irrilevante, forse minore dei 25 mq., ma comunque di certo non irrilevante, con copertura in lamiera e struttura in paletti metallici, imbullonato alla recinzione dell’area privata e dunque tutt’altro che agevolmente rimovibile, destinato, sotto l’aspetto funzionale, a soddisfare esigenze prolungate nel tempo e in ogni caso tutt’altro che temporanee, con la conseguenza che, per la realizzazione di opere come il manufatto medesimo, occorre conseguire il permesso di costruire.
La natura strutturalmente, e funzionalmente, non precaria della tettoia, o baracca, di cui si discute, risulta dunque sussistere, al di là delle considerazioni difensive rivolte –comprensibilmente, ma infondatamente- a minimizzare l’entità dell’intervento realizzato.
Alla luce delle considerazioni su esposte è da ritenere che le caratteristiche e la funzione della struttura, realizzata con l’impiego di paletti metallici e avente, come detto, una superficie non irrilevante, non consentano di qualificare l’opera stessa come pertinenza.

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1. Ma.Da. ha impugnato, davanti al TAR del Lazio, la determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 1858 del 21.11.2014 con la quale gli è stata ingiunta la demolizione di un’opera edilizia abusiva consistente nella realizzazione di una tettoia di mq. 25 circa con copertura in lamiera e struttura in paletti metallici in alluminio, imbullonata alla recinzione dell’area privata, in sostituzione di precedente tettoia in ondulato metallico.
Con la sentenza impugnata il Tribunale amministrativo ha respinto il ricorso –con la condanna del ricorrente alle spese a favore di Roma Capitale- con la motivazione che segue: il ricorrente assume l’illegittimità del provvedimento in ragione del carattere pertinenziale dell’opera rispetto al bene principale cui accede…il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire, come nel caso di una tettoia in ferro delle dimensioni quali quelle per cui è causa e ancorata con pali fissi di metallo…per tali ragioni la realizzazione di una tettoia di tal genere, comportando la trasformazione edilizia del territorio ex art. 3 comma 1 lett. e) del D.P.R. n. 380/2001, si caratterizza, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, in termini di "nuova costruzione", tale da necessitare del previo rilascio del pertinente titolo abilitativo… (segue la citazione di precedenti giurisprudenziali per i quali la realizzazione di manufatti e di tettoie con struttura metallica e copertura in lamiere zincate simili a quello per cui è causa costituisce nuova costruzione per la quale occorre il permesso di costruire).
2. Il Da. ha proposto appello contestando statuizioni e argomentazioni della sentenza e deducendo, con un unico, articolato motivo, violazione dell’art. 26 della legge n. 1034/1971 per insufficiente motivazione, in relazione al fatto che il richiamo a precedenti giurisprudenziali non risulta nella specie integrato dalle insopprimibili specificità del caso concreto.
Il percorso motivazionale –si legge tra l’altro nell’atto d’appello- risulta insufficiente a sorreggere la decisione gravata, mentre il riferimento ai precedenti giurisprudenziali è scarno e lacunoso non avendo, la sentenza, motivato circa l’applicabilità, al caso in esame, dei precedenti giurisprudenziali relativi alla necessità del permesso di costruire per la realizzazione di tettoie.
L’opera realizzata, di dimensioni modestissime, in lamierato ondulato, destinata al ricovero di piccoli oggetti, non sarebbe né stabile né permanente e avrebbe carattere di pertinenza dell’edificio principale.
Come tale, non sarebbe soggetta a permesso di costruire, con conseguente illegittimità dell’ingiunzione di demolizione.
3. Resiste Roma Capitale.
4.L’appello è infondato e va respinto.
La sentenza breve di rigetto del Tar va confermata essenzialmente perché risulta corretta –pur nella oggettiva concisione della motivazione della pronuncia, coerente, del resto, con la natura semplificata della decisione di primo grado- la qualificazione data all’opera abusiva realizzata come intervento di nuova costruzione ex art. 3, lett. e), del t.u. n. 380 del 2001, con il consequenziale assoggettamento dell’intervento medesimo, di trasformazione edilizia, al permesso di costruire.
Diversamente da quanto ritiene parte appellante, non viene in rilievo una pertinenza, essendo stata realizzata, in base agli atti e ai documenti di causa, un’opera edilizia autonoma, opera che, comportando un mutamento nell’assetto dei luoghi e una trasformazione del territorio, necessitava del permesso di costruire.
In termini generali va rammentato che l’art. 817 cod. civ. definisce pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa.
La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza amministrativa è però meno ampia di quella civilistica.
La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio; dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Un’opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme.
Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la disponibilità di entrambe (conf., ex plurimis, Cons. Stato, IV, n. 5509/2009 –e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali ulteriori-, secondo cui la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico; conf. inoltre Cons. Stato, sez. IV, n. 4636/2009: i beni che nel diritto civile assumono senz'altro natura pertinenziale non sono tali ai fini dell'applicazione delle regole che governano l'attività edilizia, ogniqualvolta assumono autonomia rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime concessorio. Ne discende, dunque, che in materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere che siano prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico; v. anche Cons. Stato, n. 2549/2011).
Nella specie, ad avviso di questo Consiglio, dalla descrizione dell’opera contenuta nell’atto impugnato, dalla fotografia in atti e in generale dalla documentazione prodotta emerge che, sul piano strutturale, si tratta di un manufatto, avente una superficie non irrilevante, forse minore dei 25 mq. ai quali si fa riferimento nella determina impugnata in primo grado, ma comunque di certo non irrilevante, con copertura in lamiera e struttura in paletti metallici, imbullonato alla recinzione dell’area privata e dunque tutt’altro che agevolmente rimovibile, destinato, sotto l’aspetto funzionale, a soddisfare esigenze prolungate nel tempo e in ogni caso tutt’altro che temporanee, con la conseguenza che, per la realizzazione di opere come il manufatto medesimo, occorre conseguire il permesso di costruire.
In modo condivisibile in sentenza è stata negata natura pertinenziale al manufatto, considerandolo intervento che implica una trasformazione urbanistico–edilizia del territorio.
La natura strutturalmente, e funzionalmente, non precaria della tettoia, o baracca, di cui si discute, risulta dunque sussistere, al di là delle considerazioni difensive rivolte –comprensibilmente, ma infondatamente- a minimizzare l’entità dell’intervento realizzato.
Alla luce delle considerazioni su esposte è da ritenere che le caratteristiche e la funzione della struttura, realizzata con l’impiego di paletti metallici e avente, come detto, una superficie non irrilevante, non consentano di qualificare l’opera stessa come pertinenza.
Di qui il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.01.2015 n. 19 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio considera che il detto muretto si caratterizzi come vero e proprio muro di cinta in quanto posto sul confine ed avente una evidente funzione di separazione e difesa dei distinti lotti di proprietà (tale qualificazione fa venir meno –per quanto mai possa in questa sede rilevarsi e considerarsi, e ferme comunque le autonome valutazioni del giudice civile, competente a quei fini- la questione dell’obbligo di rispettare le distanze legali ai sensi del combinato disposto degli artt. 873 e 878 Cod. civ.).
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In ordine alla verifica di quale titolo edilizio fosse richiesto per la realizzazione va precisato che il Testo unico dell’edilizia (approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380) non contiene indicazioni dirimenti: non vi è detto se il muro di cinta necessiti del permesso di costruire in quanto intervento di nuova costruzione (ai sensi degli articoli 3, comma 1, lettera e), e 10 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) ovvero se sia sufficiente la denuncia di inizio di attività di cui all'articolo 22 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001 (in seguito: segnalazione certificata di inizio di attività, ai sensi dell' articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nel testo introdotto dal comma 4-bis dell'articolo 49 d.l. 31.05.2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla l. 30.07.2010, n. 122).
L’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, è nel senso che più che all’astratto genus o tipologia di intervento edilizio (sussumibile nella categoria delle opere funzionali a chiudere i confini sui fondi finitimi) occorrere far riferimento all’impatto effettivo che le opere a ciò strumentali generano sul territorio: con la conseguenza che si deve qualificare l’intervento edilizio quale nuova costruzione (con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie.
Sulla base di tale approccio attento al rapporto effettivo dell’innovazione con la preesistenza territoriale, e che prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato per qualificare l’opus quale muro di recinzione (o altre simili), la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività di cui all'articolo 22 e, in seguito, al regime della segnalazione certificata di inizio di attività di cui al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del 1990.
Non contraddice quanto appena detto la circostanza che, nel caso specifico, la precitata sentenza di questa Sezione n. 3408 del 2014, il Collegio abbia invece ritenuto necessario il permesso di costruire per la realizzazione di un muro di cinta con altezza al colmo pari a 1,70 mt., tenuto conto del fatto che la ratio decidendi era nel senso che quel singolo intervento aveva determinato un'incidenza sull'assetto complessivo del territorio di entità ed impatto tali da produrre un'apprezzabile trasformazione urbanistica o edilizia.
Era quella una motivazione puntuale, adattata al caso di specie, confermativa dell’approccio sostanzialista (e non nominalistico) che attribuisce in ogni caso rilievo alla consistenza quali-quantitativa del concreto intervento edilizio sul territorio.
Ciò detto, deve essere conseguentemente qui puntualmente confermato l'orientamento secondo cui, in linea generale, la realizzazione di recinzioni, muri di cinta e cancellate rimane assoggettata al regime della d.i.a. (in seguito: s.c.i.a.) ove dette opere non superino in concreto la soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, occorrendo -invece- il permesso di costruire, ove detti interventi superino tale soglia.
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Il muro divisorio di che trattasi, in quanto assoggettato a semplice d.i.a. (ora s.c.i.a.), non era passibile di ordinanza di demolizione, atteso che per le opere sottoposte a d.i.a. la sanzione applicabile è unicamente la sanzione pecuniaria (cfr. art. 37 T.U. cit., che fa salve le ipotesi degli interventi eseguiti su beni culturali ovvero in zona tipizzata come “A” dallo strumento urbanistico).

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1.- Ba.Lo., in proprio e quale titolare della ditta Lo., impugna la sentenza del Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia-Romagna, sezione di Parma, 15.01.2015 n. 7 che ha respinto il ricorso dallo stesso proposto avverso il provvedimento 16.01.2014 n. 398 dell’Unione Bassa Est Parmense, recante l’ordine di demolizione di opere edilizie (sostanzialmente, di un muretto divisorio in cemento armato) realizzate sine titulo lungo il confine nord del lotto posto all’interno del piano particolareggiato per insediamenti produttivi denominato “Parma Nord” a confine con la proprietà Ca..
L’appellante insiste anche in questo grado nell’assumere la legittimità dell’intervento edilizio, come semplice muretto di recinzione a supporto della rete metallica posta a divisione dei lotti, legittimato dal permesso di costruire n. 17 del 20.06.2003 rilasciato per la realizzazione del capannone e dalla delibera del Comune di Mezzano 27.06.2002, n. 27 recante l’approvazione delle opere dell’intero comparto a destinazione artigianale-industriale.
Conclude l’appellante per l’accoglimento, con l’appello, del ricorso di primo grado e per l’annullamento dell’atto in quella sede gravato, in riforma della impugnata sentenza.
Si è costituita in giudizio l’Unione Bassa Est Parmense per resistere all’appello e per chiederne la reiezione.
Le parti hanno scambiato memorie illustrative e memorie di replica in vista dell’udienza di discussione.
All’udienza pubblica del 01.12.2015 la causa è stata trattenuta per la sentenza.
2.- L’appello è fondato e va accolto.
3.- L’ordine di demolizione impugnato in primo grado riguarda un muretto in cemento armato posto sul lato nord del lotto in titolarità dell’odierna società appellante, a confine con proprietà Ca..
La demolizione è stata disposta dall’odierna amministrazione appellata sull’assunto che quel muro sia stato realizzato dagli originari titolari del lotto (M.. L. & F. s.p.a.) senza la previa acquisizione del permesso di costruire.
Gli argomenti qui controversi riguardano:
a) la natura giuridica del muro, se in particolare si tratti di muro di cinta ovvero di muro di contenimento del terreno (in quella parte ad andamento declive) e, in quest’ultima ipotesi, se superi o non superi in altezza il piano di campagna;
b) le connesse questioni inerenti il tipo di titolo legittimante l’intervento e la corretta sanzione da applicare, ove fosse mai stata necessaria la previa acquisizione di un titolo. In sostanza, se la sanzione reale della riduzione in pristino impugnata con il ricorso di primo grado sia sanzione appropriata in relazione al profilo di pretesa abusività contestato.
Il giudice di primo grado è pervenuto all’adozione della gravata sentenza reiettiva ritenendo che il muro divisorio non potesse qualificarsi come muro di solo contenimento del terreno: e tanto vuoi perché il riempimento della scarpata sarebbe ascrivibile ad opera dell’uomo (e quindi non si tratterebbe di un terrapieno “naturale”), vuoi perché il muro risulterebbe eretto ad una quota, al colmo, senz’altro superiore al piano di campagna. Di qui la ritenuta congruità della sanzione demolitoria dell’opera, qualificata come nuova costruzione e come tale priva di titolo edilizio in quanto mai assentita con permesso di costruire.
4.- Il Collegio ritiene che tali conclusioni non siano da condividere e che non resistano alle censure dedotte dalla appellante.
In particolare, il Collegio considera che il detto muretto si caratterizzi come vero e proprio muro di cinta (come del resto accertato dalla relazione di consulenza tecnica nel giudizio civile dinanzi al Tribunale di Parma promosso dal confinante Ca. nei confronti dell’odierno appellante) in quanto posto sul confine ed avente una evidente funzione di separazione e difesa dei distinti lotti di proprietà (tale qualificazione fa venir meno –per quanto mai possa in questa sede rilevarsi e considerarsi, e ferme comunque le autonome valutazioni del giudice civile, competente a quei fini- la questione dell’obbligo di rispettare le distanze legali ai sensi del combinato disposto degli artt. 873 e 878 Cod. civ.).
Si può prescindere, sulla base delle considerazioni in diritto che si svolgeranno più avanti, dall’approfondire qui la questione in fatto se detto muro sia svolga anche la funzione pratica di muro di contenimento di un terreno naturalmente in declivio (assunto che varrebbe, secondo la prospettazione, ad escludere la rilevanza della previa acquisizione di un titolo legittimante la sua erezione).
Ciò posto in termini di qualificazione giuridica, il Collegio ritiene che prima di affrontare la questione della legittimità dell’ordinanza di demolizione vada preliminarmente verificato quale titolo edilizio fosse richiesto per la realizzazione.
Il Testo unico dell’edilizia (approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380) non contiene indicazioni dirimenti: non vi è detto se il muro di cinta necessiti del permesso di costruire in quanto intervento di nuova costruzione (ai sensi degli articoli 3, comma 1, lettera e), e 10 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) ovvero se sia sufficiente la denuncia di inizio di attività di cui all'articolo 22 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001 (in seguito: segnalazione certificata di inizio di attività, ai sensi dell'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nel testo introdotto dal comma 4-bis dell' articolo 49 d.l. 31.05.2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla l. 30.07.2010, n. 122).
5.- L’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, è nel senso che più che all’astratto genus o tipologia di intervento edilizio (sussumibile nella categoria delle opere funzionali a chiudere i confini sui fondi finitimi) occorrere far riferimento all’impatto effettivo che le opere a ciò strumentali generano sul territorio: con la conseguenza che si deve qualificare l’intervento edilizio quale nuova costruzione (con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie (es. Cons. Stato, VI, 04.07.2014 n. 3408).
Sulla base di tale approccio attento al rapporto effettivo dell’innovazione con la preesistenza territoriale, e che prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato per qualificare l’opus quale muro di recinzione (o altre simili), la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività di cui all'articolo 22 e, in seguito, al regime della segnalazione certificata di inizio di attività di cui al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del 1990 (in tal senso: Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2621).
Non contraddice quanto appena detto la circostanza che, nel caso specifico, la precitata sentenza di questa Sezione n. 3408 del 2014, il Collegio abbia invece ritenuto necessario il permesso di costruire per la realizzazione di un muro di cinta con altezza al colmo pari a 1,70 mt., tenuto conto del fatto che la ratio decidendi era nel senso che quel singolo intervento aveva determinato un'incidenza sull'assetto complessivo del territorio di entità ed impatto tali da produrre un'apprezzabile trasformazione urbanistica o edilizia.
Era quella una motivazione puntuale, adattata al caso di specie, confermativa dell’approccio sostanzialista (e non nominalistico) che attribuisce in ogni caso rilievo alla consistenza quali-quantitativa del concreto intervento edilizio sul territorio.
Ciò detto, deve essere conseguentemente qui puntualmente confermato l'orientamento secondo cui, in linea generale, la realizzazione di recinzioni, muri di cinta e cancellate rimane assoggettata al regime della d.i.a. (in seguito: s.c.i.a.) ove dette opere non superino in concreto la soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, occorrendo -invece- il permesso di costruire, ove detti interventi superino tale soglia.
6.- Venendo al caso che ne occupa, si deve anzitutto rilevare che il muro divisorio di che trattasi risulta di altezza tanto modesta da essere visivamente percepito solo dal lato della proprietà Ca., essendo dall’altra parte completamente neutralizzato, sul piano dell’impatto visivo, dal terrapieno che copre il muro per quasi tutta la sua altezza.
Per conseguenza, l'impatto sortito dal manufatto in parola sul piano urbanistico-edilizio risulta di scarsa incidenza sole che si consideri che -come emerge dal materiale fotografico acquisito- lo stesso manufatto supera di poco (al di là della sua maggiore o minore percezione visiva a seconda del versante prospettico) il piano di campagna; e che l’effettiva funzione divisoria dei distinti lotti di proprietà è in concreto assicurata da una rete metallica infissa sul predetto muro (sulla legittimità del titolo alla apposizione della rete metallica non si è fatta qui questione, l’ordine di abbattimento avendo riguardato il solo muro portante).
Nel caso in esame, pertanto, il manufatto non rappresenta un’opera comportante un’apprezzabile trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio: tanto più se si considera che il giudizio è necessariamente relazionale rispetto al concreto contesto e che, nella specie, queste opere sono state realizzate contestualmente ed in funzione complementare a quelle di urbanizzazione di una vasto comparto a destinazione artigianale-industriale.
La rilevanza di cui si verte, ai fini della rammentata capacità trasformativa, va invero considerata in modo proporzionale: cioè dopo essere stata rapportata non alla consistenza in assoluto dell’innovazione, bensì alla condizione del contesto in cui è inserita. Sicché un manufatto di minimo impatto che in un certo contesto può risultare necessitante del massimo titolo edilizio, può non risultarlo altrove. E non vi è dubbio che un contesto come quello di un comparto a destinazione artigianale- industriale attenuti il rilievo di fatto che avrebbe la medesima opera in un contesto abitativo.
Da quanto sopra consegue che il muro divisorio di che trattasi, in quanto assoggettato a semplice d.i.a. (ora s.c.i.a.), non era passibile di ordinanza di demolizione, atteso che per le opere sottoposte a d.i.a. la sanzione applicabile è unicamente la sanzione pecuniaria (cfr. art. 37 T.U. cit., che fa salve le ipotesi, qui non ricorrenti, degli interventi eseguiti su beni culturali ovvero in zona tipizzata come “A” dallo strumento urbanistico).
Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va accolto e, in riforma della impugnata sentenza, va accolto il ricorso di primo grado, con conseguenziale annullamento degli atti in quella sede gravati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.01.2016 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare d'appalto, il Consiglio di Stato chiarisce sull'indicazione degli oneri di sicurezza aziendale. Vanno indicati anche quando il bando non lo prevede.
a) in tutte le gare di appalti di lavori, servizi e forniture, le imprese devono indicare in sede di offerta economica gli oneri di sicurezza aziendali (c.d. costi di sicurezza interni); tale obbligo integra un precetto imperativo che etero integra la legge di gara, ove questa sia silente sul punto o comunque compatibile con esso, nel rispetto del ‘principio di tassatività attenuata’ delle cause di esclusione, sancito dall’art. 46 del codice dei contratti pubblici;
b) nel caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa (come nel caso di specie) prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015.

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7. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto (e in particolare dei principi elaborati dalle sentenze dell’Adunanza plenaria nn. 9 del 2015, 3 del 2015, 16 del 2014 e 9 del 2014, cui si rinvia ai sensi dell’art. 120, co. 10, c.p.a.):
a) in tutte le gare di appalti di lavori, servizi e forniture, le imprese devono indicare in sede di offerta economica gli oneri di sicurezza aziendali (c.d. costi di sicurezza interni); tale obbligo integra un precetto imperativo che etero integra la legge di gara, ove questa sia silente sul punto o comunque compatibile con esso, nel rispetto del ‘principio di tassatività attenuata’ delle cause di esclusione, sancito dall’art. 46 del codice dei contratti pubblici;
b) nel caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa (come nel caso di specie) prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015;
c) nella vicenda in esame:
   I) il bando di gara (e in particolare il Modello D) non ha imposto di non esplicitare, da parte dell’impresa concorrente, i costi di sicurezza aziendali (anzi il Modello D ha specificato, nelle avvertenze sub lett. a), che la dichiarazione relativa all’offerta economica doveva essere compilata adeguandola alla fattispecie);
   II) in ogni caso, quand’anche si dovesse ritenere che il bando di gara abbia escluso l’obbligo delle imprese di indicare i costi di sicurezza aziendale in sede di offerta, in parte qua esso è stato espressamente impugnato dalla ditta Servizi (sicché per tale ipotesi non si può che disporre l’annullamento in parte qua del bando, nel senso del suo adeguamento alle disposizioni di legge, quale fonte del dovere dell’Amministrazione di disporre l’esclusione dell’appellante)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.12.2015 n. 5873 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per quanto concerne la violazione delle garanzie procedimentali partecipative e dell’obbligo di preavviso di rigetto sancito dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, va richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio per la quale:
I) non vi è l’obbligo di preavviso in relazione ai procedimenti attivati d’ufficio (come nel caso di specie);
II) non ha carattere tassativo l’elenco delle ipotesi, di cui all’ultimo periodo dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, per le quali non è necessaria la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda;
sotto tale angolazione, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto la norma sancita dall’art. 10-bis cit., va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il quale, nell’imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell’atto allorché il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (come verificatosi nel caso di specie, in cui viene in rilievo un atto dovuto).

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7.2. Scendendo all’esame del ricorso di primo grado, il Collegio osserva che lo stesso esame risulta infondato, sia in fatto che in diritto, atteso che:
a) l’art. 4, l. 25.08.1991, n. 287, -che impone al titolare della licenza di avviare in concreto l’attività commerciale entro centottanta giorni dalla data del rilascio del titolo ovvero di non sospendere l’attività per oltre un anno- configura un’ipotesi di decadenza ex lege della licenza di commercio, benché definita impropriamente come ‘revoca’, trattandosi di un effetto giuridico che si determina al verificarsi delle condizioni di non esercizio indicate dalla medesima norma e che comporta, da parte dell’autorità competente, l’adozione del provvedimento che si pone alla stregua di un atto dovuto di natura dichiarativa, salvo che non sia disposta una proroga a seguito di apposita motivata richiesta, prima del decorso del termine assegnato dalla legge; la prova rigorosa della presenza di cause di forza maggiore, che impedirebbero di iniziare o riavviare l’attività commerciale, incombe sul titolare della licenza, sicché il Comune legittimamente fa decorrere dalla data della prima comunicazione della chiusura dell’esercizio il termine annuale di inattività, costituente il presupposto per l’emanazione del provvedimento di decadenza ex art. 4 cit. (cfr. fra le tante Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 852; Sez. V, 25.05.2009, n. 3232; Sez. V, 27.09.2004, n. 6321, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.);
b) come risulta dalla precedente ricostruzione in fatto:
   I) i germani Cr. erano gli unici destinatari del provvedimento di decadenza in quanto titolari della licenza commerciale iure successionis, non essendo mai stata autorizzata dal Comune la cessione del titolo ad altri soggetti (società Cr., società Ra.);
   II) gli eredi Cr. non hanno evitato la pronuncia di decadenza dimostrando la forza maggiore che avrebbe impedito loro di riaprire il locale, né hanno mai dimostrato il possesso di locali idonei dove trasferire l’attività commerciale; sotto tale angolazione deve escludersi che il Comune avesse l’obbligo di riscontrare la richiesta di voltura prima dell’emanazione del provvedimento di decadenza;
   III) in ogni caso il Comune ha negato la proroga dell’attività di sospensione e tale atto non è stato tempestivamente impugnato;
   IV) sia il diniego di proroga che il provvedimento di decadenza sono corredati da adeguata motivazione (per altro non necessaria relativamente agli atti vincolati), avuto riguardo alla mancata prova della forza maggiore;
c) il trasferimento di un’azienda commerciale di somministrazione di alcolici, alimentari e bevande, inter vivos o mortis causa, è condizionato al positivo riscontro, da parte dell’autorità comunale, di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dall’ordinamento di settore;
d) per quanto concerne, infine, la violazione delle garanzie procedimentali partecipative e dell’obbligo di preavviso di rigetto sancito dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, va richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, n. 2548 del 2012; Cons. giust. amm., 04.07.2011, n. 472, cui si rinvia ai sensi dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), per la quale:
   I) non vi è l’obbligo di preavviso in relazione ai procedimenti attivati d’ufficio (come nel caso di specie);
   II) non ha carattere tassativo l’elenco delle ipotesi, di cui all’ultimo periodo dell’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, per le quali non è necessaria la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda; sotto tale angolazione, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto la norma sancita dall’art. 10-bis cit., va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990, il quale, nell’imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell’atto allorché il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (come verificatosi nel caso di specie, in cui viene in rilievo un atto dovuto);
   III) la nota dei privati pervenuta al Comune il 23.07.2005 era del tutto irrilevante ai fini della pronuncia di decadenza, non prospettando alcuna causa di forza maggiore; correttamene il Comune non l’ha tenuta in considerazione.
8. In conclusione l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.12.2015 n. 5868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIADal disposto dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 si ricava il principio secondo cui vi deve essere necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario dell'area, per configurare un suo obbligo a provvedere allo smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati, precisando, inoltre, che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo.
E’ stato, in particolare, affermato che:
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22, oggi sostituito dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n. 152 ("Norme in materia ambientale") prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa”;
- “L'art. 192, d.lgs. n. 152/2006 dispone che l'obbligo di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido con il responsabile, anche a carico del proprietario del sito e del titolare di diritti reali o personali di godimento relativi ad esso, solo se tale violazione sia anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai preposti al controllo”;
- “In tema di abbandono di rifiuti, ai sensi dell'art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006, il proprietario dell'area è tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo”.
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Riguardo, invece, alla carenza di motivazione, si ritiene che, dall’esame del corpo del provvedimento, risulti assolutamente immotivato l’ordine di esecuzione della rimozione nei confronti della ricorrente per la sua mera qualità di proprietaria dell’area, senza un previo accertamento della sua responsabilità per l’abbandono dei rifiuti.
Deve, inoltre, ricordarsi che tale orientamento risulta, altresì, supportato dalla nota sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 04.03.2015, causa C-534/2013, che si è pronunciata sulla questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria, con le ordinanze 25.09.2013, n. 21 e 13.11.2013, n. 25 con riferimento agli obblighi del proprietario incolpevole in ordine alla messa in sicurezza e alla bonifica di un sito inquinato.
Sposando l’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa, ritenuto conforme all’ordinamento comunitario e, in particolare, al principio “chi inquina paga” sancito dell’art. 191 TFUE, il Giudice europeo ha confermato che, qualora il proprietario di un’area inquinata non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica della stessa.
L’applicazione del regime di responsabilità istituito dalla Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale ha, invero, come suo ineludibile presupposto essenziale l’individuazione di un soggetto che possa essere qualificato come responsabile della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato.
Nel caso in cui il proprietario risulti incolpevole sarà, quindi, tenuto al mero rimborso delle spese relative agli interventi realizzati d’ufficio dall’Autorità competente, nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione di tali interventi e solo nell’ipotesi in cui non sia stata nel frattempo accertata la responsabilità di altri soggetti o se risulti impossibile rivalersi nei confronti dei medesimi.
Tali principi devono, senza alcun dubbio, ricevere applicazione anche nell’ipotesi di abbandono di rifiuti.
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Con il presente ricorso la società istante ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il Direttore dell’Area Gestione, Territorio e Ambiente del comune intimato, rilevata a seguito di sopralluogo compiuto dalla Polizia Locale la presenza di materiali vari e macerie lungo il tratto di strada sterrata che congiunge la via Pirandello con la via Adda, ne ha ordinato alla società istante la rimozione, il recupero o lo smaltimento entro 60 giorni, ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, nella sua qualità di proprietaria dell’area.
A sostegno del proprio gravame l’istante ha dedotto la violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990, dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, oltre che l’eccesso di potere per carenza dei presupposti di fatto, difetto di istruttoria e di motivazione, ingiustizia manifesta e contraddittorietà.
Successivamente l’istante ha prodotto una memoria a sostegno delle proprie conclusioni.
Alla pubblica udienza del 26.11.2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Il ricorso è fondato.
Il collegio ritiene, invero, che l’ordine che il Comune intimato ha emesso nei confronti della ricorrente si ponga in contrasto con il disposto dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 e che non sia sorretto da adeguata motivazione.
In ordine al primo profilo di censura, infatti, ai sensi della norma succitata: “1. L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate…
”.
In proposito, la costante giurisprudenza ha affermato che dal disposto dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 si ricava il principio secondo cui vi deve essere necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario dell'area, per configurare un suo obbligo a provvedere allo smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati, precisando, inoltre, che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo.
E’ stato, in particolare, affermato che:
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22, oggi sostituito dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n. 152 ("Norme in materia ambientale") prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa” (Cons. Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 84);
- “L'art. 192, d.lgs. n. 152/2006 dispone che l'obbligo di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido con il responsabile, anche a carico del proprietario del sito e del titolare di diritti reali o personali di godimento relativi ad esso, solo se tale violazione sia anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai preposti al controllo” (Cons. Stato, sez. V, 25 giugno 2010, n. 4073);
- “In tema di abbandono di rifiuti, ai sensi dell'art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006, il proprietario dell'area è tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo” (Cons. Stato, sez. V, 20.08.2012, n. 4635).
Riguardo, invece, alla carenza di motivazione, si ritiene che, dall’esame del corpo del provvedimento, risulti assolutamente immotivato l’ordine di esecuzione della rimozione nei confronti della ricorrente per la sua mera qualità di proprietaria dell’area, senza un previo accertamento della sua responsabilità per l’abbandono dei rifiuti.
Deve, inoltre, ricordarsi che tale orientamento risulta, altresì, supportato dalla nota sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 04.03.2015, causa C-534/2013, che si è pronunciata sulla questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria, con le ordinanze 25.09.2013, n. 21 e 13.11.2013, n. 25 con riferimento agli obblighi del proprietario incolpevole in ordine alla messa in sicurezza e alla bonifica di un sito inquinato.
Sposando l’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa, ritenuto conforme all’ordinamento comunitario e, in particolare, al principio “chi inquina paga” sancito dell’art. 191 TFUE, il Giudice europeo ha confermato che, qualora il proprietario di un’area inquinata non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica della stessa.
L’applicazione del regime di responsabilità istituito dalla Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale ha, invero, come suo ineludibile presupposto essenziale l’individuazione di un soggetto che possa essere qualificato come responsabile della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato.
Nel caso in cui il proprietario risulti incolpevole sarà, quindi, tenuto al mero rimborso delle spese relative agli interventi realizzati d’ufficio dall’Autorità competente, nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione di tali interventi e solo nell’ipotesi in cui non sia stata nel frattempo accertata la responsabilità di altri soggetti o se risulti impossibile rivalersi nei confronti dei medesimi.
Tali principi devono, senza alcun dubbio, ricevere applicazione anche nell’ipotesi di abbandono di rifiuti.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 30.12.2015 n. 2867 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività di affittacamere, pur differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni, ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno.
Nel caso di specie non si rinviene la radicale oggettiva diversità tra le due modalità di destinazione denunciate dall’appellante e dunque non è configurabile una falsa rappresentazione in ordine al denunciato cambio di destinazione dell’immobile, per effetto della parziale sovrapposizione tra le due forme di destinazione e dell’ulteriore circostanza che l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente diverse da quelle che configurano l’affittacamere comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria.

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4.– L’appello è infondato.
4.1.– L’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza per le seguenti ragioni:
a) la questione della mancanza di opere edilizie nelle sei camere non sarebbe motivo posto a base del provvedimento impugnato;
b) l’indisponibilità giuridica sarebbe conseguenza dei sequestri giudiziari risultanti esistenti all’atto dell’adozione del provvedimento di annullamento impugnato;
c) la non conformità urbanistico-edilizia, conseguente alla pluralità di abusi esistenti sul fabbricato nel corso del 2004;
d) la falsa rappresentazione dei dati di cui alle lettere b) e c) da parte dell’appellata al momento della presentazione della domanda di autorizzazione.
L’appellante critica, inoltre, la sentenza nella parte in cui ha ritenuto assimilabile l’attività di affittacamere a quella alberghiera, in ragione della diversità tipologica delle attività. Inoltre, si rileva come la parte appellata aveva presentato, nel 2004, «istanza di condono edilizio nella quale dichiarava che il fabbricato (…) era da destinarsi ad attività alberghiera, tale essendo la finalità delle opere edili autorizzate senza permesso».
I motivi non sono fondati.
In relazione al punto a), il preteso errore del primo giudice nel valutare un profilo non oggetto del provvedimento impugnato non ha rilevanza ai fini della presente decisione.
In relazione al punto b), a parte l‘effettiva esistenza della perdurante efficacia dei sequestri, tale provvedimenti, come bene mette in rilievo l’appellata, esistevano comunque al momento del rilascio dell’autorizzazione; e non viene indicata alcuna ragione che giustifichi l’annullamento nel 2013.
In relazione al punto c), è sufficiente rilevare che la questione edilizia è stata affrontata in modo indebito dal Comune, come sopra risulta: con la conseguenza che non può, allo stato, costituire valida ragione di annullamento dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale.
In relazione al punto d), alla luce di quanto esposto non risultano omissioni ingannevoli al momento della domanda di autorizzazione per giustificare l’annullamento dell’atto autorizzatorio rilasciato. Per l’asserita falsità per la mancata comunicazione circa la destinazione dei beni a finalità alberghiera e non di affittacamere, si deve anzitutto rilevare che l'attività di affittacamere, pur differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno (cfr. Cass., II, 08.11.2010, n. 22665).
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi che (a prescindere dall’effettività del mutamento di destinazione e dalla valenza della rinuncia alla domanda di condono da parte dell’appellante, successivamente intervenuta) non sussiste la radicale oggettiva diversità tra le due modalità di destinazione denunciata dall’appellante.
Si tenga conto, inoltre, che la legge della Regione Campania 24.11.2001, n. 17 (Disciplina delle strutture ricettive extralberghiere) dispone che, in caso di gestione delle camere secondo modalità differenti da quelle autorizzate dalla legge, si applicano soltanto sanzioni pecuniarie. In definitiva, non è configurabile una falsa rappresentazione in ordine al denunciato cambio di destinazione dell’immobile, considerata la parziale sovrapposizione tra le due forme di destinazione e la circostanza che l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente diverse da quelle che configurano l’”affittacamere” comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria.
5.– Per le ragioni sin qui esposte, i provvedimenti impugnati risultano privi di un’adeguata motivazione e di istruttoria, sono illegittimi e vanno annullati: e il Comune dovrà riesercitare il potere in conformità a quanto considerato dalla presente decisione (
massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.12.2015 n. 5856 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In merito al provvedimento sanzionatorio della realizzazione del manufatto abusivamente realizzato, è infondato l’asserito vizio concernente il difetto di motivazione laddove, nel provvedimento di rigetto della domanda di condono, l’ente comunale afferma che essa non può essere accolta in quanto “l’aumento di altezza di una parte del piano sottotetto ha comportato l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario, non consentito dalle norme del vigente Piano di Recupero”, richiamando, l’atto in questione, le valutazioni svolte dall’ufficio tecnico comunale.
Dunque, ingiungendosi, nell’ordinanza di demolizione, la rimozione della maggiore altezza della parte di sottotetto, deve concludersi che la motivazione è conforme ai parametri di adeguatezza necessari per consentire l’esercizio del diritto di difesa e il controllo giurisdizionale avendo, la P.A., chiaramente indicato le ragioni poste a fondamento degli atti censurati.
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Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione».
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.

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3.3.– Con il terzo motivo sia assume che erroneamente l’amministrazione e la sentenza impugnata avrebbero ritenuto che l’intervento contestato non sarebbe consentito dagli strumenti urbanistici.
In relazione all’asserito contrasto con il piano di recupero, si deduce che sarebbe mancata una adeguata istruttoria e che il sottotetto avrebbe subito rispetto all’iniziale concessione edilizia n. 13 del 19998 una «ininfluente modifica del grado di inclinazione del solaio».
In relazione alla mancata applicazione di quanto previsto, per le zone BE, dal superiore piano regolatore generale, si rileva che questo, consentendo le «ricostruzioni previa demolizione» ricomprenderebbe, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dal primo giudice, anche gli interventi di «ristrutturazione» e che, comunque, l’intervento in questione sarebbe consistito in una vera e propria ricostruzione integrale previa demolizione dell’esistente.
Il motivo non è fondato.
In relazione al piano di recupero, l’art. 27 per la zona A5 nella quale ricade il fabbricato («edifici compatibili con i caratteri originari in particolari condizioni di degrado») ammette gli interventi di ristrutturazione edilizia «nei limiti di cui al precedente art. 10 ‘soffitte e sottotetti’ purché ciò non comporti l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario» e l’art. 10 dispone che «è prescritta la conservazione delle caratteristiche degli edifici preesistenti da demolire parzialmente o totalmente per quanto riguarda (…) l’altezza di imposta della copertura».
Nella fattispecie in esame risulta, invece, provata «l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario». Sul punto, l’appellante, nonostante si tratti di elementi nella sua disponibilità, si limita genericamente ad affermare che il sottotetto ha un subito «una ininfluente modifica del grado di inclinazione del solaio».
In relazione al piano regolatore generale, gli appellanti non hanno dimostrato, pur vendendo ancora una volta in rilievo elementi nella loro disponibilità, che, in effetti, l’intervento in questione si sia risolto in una «demolizione e ricostruzione».
3.4.– Con il quarto motivo, si deduce che il primo giudice avrebbe erroneamente applicato le risultanze della verificazione disposta al fine di stabilire se la demolizione delle opere abusive avrebbe comportato pregiudizio per le parti del manufatto conformi a legge. Sul punto, si afferma che il verificatore avrebbe accertato la fattibilità tecnologica ma, per la mancata conoscenza delle strutture del manufatto, non sarebbe stato in grado di accertare se effettivamente la disposta demolizione recherebbe pregiudizio alle parti rimanente dell’edificio.
Il motivo non è fondato.
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione». Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (Cons. Stato, sez. VI, 09.04.2013, n. 1912).
Nella fattispecie in esame, il verificatore, nominato in primo grado, ha ritenuto di non potere fornire una risposta al quesito perché si è in presenza di «un’opera da demolire della quale non è ben noto lo stato di integrità, non si conoscono i materiali e le relative caratteristiche, non si conoscono esattamente le fasi costruttive e gli schemi strutturali che ne hanno caratterizzato l’edificazione».
A tale proposito, il verificatore ha valutato criticamente l’apporto conoscitivo fornito dalle perizie di parte che hanno fornito elementi di natura «empirica» e non «analitica».
La verificazione disposta in primo grado non è, pertanto, riuscita a pervenire a risultati univoci per l’assenza di dati conoscitivi che sarebbe stato onere dell’appellante fornire.
In definitiva, in presenza di un elemento che deve essere provato dal privato non si può dedurre un vizio della verificazione tecnica per censurare la sentenza e l’operato della pubblica amministrazione. Sarebbe stato onere dell’appellante, si ribadisce, dimostrare l’esistenza del pregiudizio alle parti dell’edificio non abusive anche mediante la messa a disposizione dei dati necessari al verificatore (
massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.12.2015 n. 5846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI presupposti per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio della concessione di costruzione con effetti ex tunc sono:
l’illegittimità originaria del provvedimento,
l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e/o l’eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l’Amministrazione o ha approfittato di un errore della medesima.
Orbene, l’Amministrazione deve, sia pure sinteticamente, dare conto della sussistenza di tali presupposti con l’avvertenza che pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere de quo, la caducazione che intervenga ad una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono state completate esige una più puntuale e convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento.

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... per la riforma della sentenza del TAR ABRUZZO - SEZ. STACCATA DI PESCARA: SEZIONE I n. 501/2014, resa tra le parti, concernente annullamento d'ufficio del permesso di costruire
...
Ritiene la Sezione che il gravame debba essere respinto e che quindi il dispositivo della sentenza impugnata debba essere confermato, non senza precisare a tale esito deve pervenirsi, ancorché in accoglimento di censura dedotta in promo grado da parte appellata, sulla base di una motivazione diversa da quella esposta nella sentenza gravata.
In tale ottica va anzitutto ritenuto che non appare condivisibile l’affermazione del primo giudice secondo cui alla fattispecie attiene un vincolo espropriativo preordinato alla realizzazione della strada graficizzata nella tavola n. 7b del Piano Regolatore Esecutivo.
In quest’ultimo è invero contenuta la disciplina di interventi edilizi di tipo residenziale per la quale, anche con riguardo alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria , è ammessa la possibilità della loro realizzazione non soltanto da parte del Comune, previo esproprio delle aree occorrenti, ma anche da parte dei privati proprietari delle aree ricomprese nel Piano, mediante lo strumento della convenzione di lottizzazione.
In presenza di siffatta alternativa, è noto e pacifico, che il vincolo attinente alle opere di urbanizzazione non è un vincolo di natura espropriativa. di durata quinquennale, bensì, contenendo detto piano già la dichiarazione di p.u. delle dette opere, un vincolo che ha validità decennale ex art. 16-17 della L.U..
E’ altresì condivisibile l’affermazione della difesa del Comune appellante secondo cui in nessun caso un atto privato di compravendita qual è quello stipulato tra la parte appellata e la sig.ra Ga.Sc. può mutare la destinazione di zona nella quale un’area originariamente è collocata. come del resto è previsto dallo stesso P.R.E. in esame, né potendo un contratto tra privati avere l’effetto di una variante.
Va aggiunto che la validità del vincolo decennale della distanza delle costruzione dalla strada è stato ritualmente rinnovato dal Comune con la deliberazione consiliare n. 4 del marzo 2010, non potendosi opporre al riguardo l’omessa comunicazione preventiva a parte appellata di tale rinnovo non essendo essa proprietaria di una volumetria residenziale all’interno della zona d’espansione.
Alla stregua delle considerazione che precedono ne deriva che gran parte dell’impianto motivazionale della sentenza impugnata non può essere confermato in questa sede.
Non può non essere rilevato, tuttavia, che il provvedimento impugnato è stato adottato al solo scopo di affermare il ripristino della legalità violata avendo natura di annullamento d’ufficio volta ad invalidare precedenti tutoli edilizi rilasciati a parte appellata nonostante sin dall’origine non ne esistessero le condizioni.
In tale ambito è d’uopo richiamare il costante orientamento di questo giudice in tema di annullamento d’ufficio.
In tale ottica va ricordato che “in materia edilizia, i presupposti per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio della concessione di costruzione con effetti ex tunc sono l'illegittimità originaria del provvedimento, l'interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità (i.e. tutela del territorio), l'assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e/o l'eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha approfittato di un errore della medesima, tenendo presente che all'uopo quest'ultima deve dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza di tali presupposti con l'avvertenza che pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere de quo, la caducazione che intervenga a una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono state completate esige una più puntuale e convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento" (Cons. Stato Sez. IV 27.11.2010 - n. 8291).
Rileva di conseguenza nella fattispecie che l’autotutela è stata esercita nel 2013 in relazione a permessi di costruire volti ad eseguire lavori di ristrutturazione ed ampliamento del 2006 e del 2012
Né può essere omesso di osservare che il Comune, affatto ingannato da parte appellata, confrontando la documentazione progettuale allegata ai detti permessi di costruire con quella già in suo possesso descrittiva dei confini preesistenti, ben avrebbe potuto accorgersi del mutamento dei confini sulla base del quale quest’ultima intendeva eseguire gli interventi.
Tanto meno il Comune appellante ha posto a confronto, sul piano motivazionale, la realizzazione della piscina con la possibilità che la stessa non fosse incompatibile con il vincolo della distanza dalla strada, avuto riguardo alla prevista possibilità di apportare “lievi modifiche” al P.R.E. che ben potrebbero riguardare anche una strada di piano ad oggi soltanto graficizzata.
L’appello va in conclusione respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.12.2015 n. 5830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 non consente di sanare le opere edilizie che abbiano comportato l'aumento di volumi (anche tecnici).
Ma, proprio perché intende valorizzare e salvaguardare le aree sottoposte al vincolo paesaggistico, consente alla Soprintendenza di esaminare favorevolmente l'istanza di sanatoria (ovviamente, ferme restando tutte le altre valutazioni di sua competenza), quando l'istanza preveda la demolizione di volumi, del tutto legittimamente realizzati, per ‘compensare' il mantenimento di altri, realizzati senza titolo.
In altri termini, purché si mantenga il rispetto dei limiti legittimamente assentibili in tema delle superfici e dei volumi, ben può la Soprintendenza ritenere accoglibile l'istanza di sanatoria, quando la demolizione di volumi legittimamente assentiti consenta di ritenere che, nel suo complesso, la volumetria legittimamente assentibile non sia inferiore a quella da porre a base del provvedimento di sanatoria.
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Secondo l’orientamento nettamente maggioritario, tali volumi possono essere irrilevanti sotto il profilo edilizio ed urbanistico, ma possono non esserlo sotto il profilo paesaggistico.

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Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito precisati.
La Soprintendenza ha negato l’autorizzazione ad un intervento di demolizione e ricostruzione (già realizzato) perché tale intervento avrebbe comportato un aumento di volumetria; sicché l’autorizzazione in sanatoria risulterebbe preclusa dal chiaro divieto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004.
La parte ricorrente ha negato tale incremento di volumetria, sostenendo che, in realtà, l’intervento avrebbe nel complesso determinato una riduzione della volumetria complessiva.
Poiché tale riduzione non è stata contestata, l’istanza cautelare è stata accolta perché “L'art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 non consente di sanare le opere edilizie che abbiano comportato l'aumento di volumi (anche tecnici), ma, proprio perché intende valorizzare e salvaguardare le aree sottoposte al vincolo paesaggistico, consente alla Soprintendenza di esaminare favorevolmente l'istanza di sanatoria (ovviamente, ferme restando tutte le altre valutazioni di sua competenza), quando l'istanza preveda la demolizione di volumi, del tutto legittimamente realizzati, per ‘compensare' il mantenimento di altri, realizzati senza titolo. In altri termini, purché si mantenga il rispetto dei limiti legittimamente assentibili in tema delle superfici e dei volumi, ben può la Soprintendenza ritenere accoglibile l'istanza di sanatoria, quando la demolizione di volumi legittimamente assentiti consenta di ritenere che, nel suo complesso, la volumetria legittimamente assentibile non sia inferiore a quella da porre a base del provvedimento di sanatoria” (CdS, sez. VI, n. 1671/2013).
La riduzione della volumetria complessiva è confermata nella relazione tecnica del Comune di Napoli; anche se il Comune stesso precisa (nella nota PG/2014/1017408 del 23.12.2014) che tale riduzione è dovuta al fatto che, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento Edilizio del Comune di Napoli esclude dal calcolo della volumetria una serie di volumi (quali il volume entroterra, porticati pubblici o privati al 60% della superficie entroterra, logge in una determinata misura, volumi tecnici ecc.).
Orbene, secondo l’orientamento nettamente maggioritario tali volumi possono essere irrilevanti sotto il profilo edilizio ed urbanistico, ma possono non esserlo sotto il profilo paesaggistico (Cons. Stato, sez. VI, n. 12/2015). E tuttavia, è stata la stessa Soprintendenza ad escludere l’incompatibilità delle opere, così come realizzate, con i valori di tutela del paesaggio, come si evince dal parere rilasciato in data 29.05.2015.
In conclusione, pertanto, il ricorso dev’essere accolto (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 23.12.2015 n. 5891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Speciali «trattabili». Cds su appalti nel settore del gas.
A un appalto sotto soglia Ue, bandito da un soggetto operante in un settore «speciale», sono applicabili soltanto i principi del Trattato e non tutto il codice dei contratti pubblici.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.12.2015 n. 5824 relativa a una gara di appalto per l'affidamento di tre lotti di lavori nel settore del gas (considerato dalle norme nazionali e europee come «settore speciale»).
In particolare, il problema affrontato dai giudici riguardava l'applicabilità alla gara del secondo comma dell'articolo 48 del codice dei contratti pubblici che impone di chiedere all'aggiudicatario e al secondo classificato la comprova dei requisiti dichiarati in sede di gara. Era successo che gli aggiudicatari dei tre lotti non avevano trasmesso entro il termine di dieci giorni la documentazione integrativa richiesta dalla stazione appaltante.
I giudici negano che sia applicabile l'articolo 48 partendo dalla presa d'atto che la gara, riguardante un contratto pubblico in uno dei settori speciali di importo inferiore alla soglia comunitaria era soggetto all'articolo 238 del codice dei contratti pubblici per il quale (comma 1) si applicano alle sole amministrazioni aggiudicatrici (e non ai soggetti operanti nei «settori speciali» dell'acqua, energia e trasporti come dettagliate dagli articoli dal 208 a 213 del codice) le disposizioni della parte III del codice che riguardano gli appalti di lavori, forniture e servizi di rilevanza nazionale.
Il secondo comma della stessa norma stabilisce invece che ai soggetti operanti nei settori «speciali» (prima detti «esclusi»), siano esse le imprese pubbliche o soggetti titolari di diritti speciali e esclusivi, si devono applicare soltanto i principi dettati dal Trattato Ce a tutela della concorrenza.
La verifica va quindi fatta rispetto alle regole interne che la stazione appaltante si è data, cioè rispetto ai suoi regolamenti che non hanno la rigidità prevista dalla normativa generale sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici.
Nel caso specifico, la sentenza ha affermato che non assurge al rango di «principio» la disciplina della scansione temporale delle operazioni di verifica dei requisiti dei partecipanti alla gara e quindi l'invio tardivo della documentazione non può inficiare l'aggiudicazione (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2016).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICILa programmazione delle opere pubbliche è modificabile, dall’ente locale, sulla base di nuove considerazioni attinenti alla migliore gestione dell’interesse pubblico, nell’esercizio del potere di autotutela.
Ne deriva che il Comune interessato è legittimato a porre in essere quanto necessario per mutare gli atti della propria programmazione.
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3. La controversia concerne gli atti con i quali il Comune appellato ha interrotto il procedimento di cui in narrativa, riguardante la procedura aperta per l’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori di realizzazione del nuovo polo scolastico di Via Gavazzi – Viale Italia, che impegnava l’importo a base d’asta di €. 9.038.000,00 (di cui €. 105.000,00 per oneri della sicurezza non soggetti a ribasso), revocando l’aggiudicazione provvisoria già disposta in favore dell’odierna appellante e procedendo a nuova programmazione delle opere pubbliche.
L’appello è infondato.
3.1. Non è fondata la censura di incompetenza della Giunta Comunale a disporre l’impugnata revoca.
E’ vero che la programmazione delle opere pubbliche rientra nella competenza del Consiglio Comunale, ma l’operato del Comune appellato non ha violato tale riparto di competenze.
Deve essere rilevato che l’atto di revoca è stato uno dei primi provvedimenti della Giunta da poco insediatasi dopo il rinnovo del Consiglio Comunale.
La Giunta ha preso atto del fatto che una somma di notevolissimo rilievo era impegnata per l’intervento di cui ora si discute; deve essere osservato che in quel momento non era stato stipulato il contratto di appalto e anzi non si era nemmeno concluso il procedimento di aggiudicazione.
La Giunta ha ritenuto l’impegno di spesa manifestamente eccessivo e ha avviato gli atti necessari per una nuova programmazione.
In tale situazione di fatto, è evidente che la conclusione del procedimento di aggiudicazione avrebbe reso impossibile, o quanto meno ben più complicata, la modifica della programmazione del Comune.
Nella descritta situazione di fatto, ragionevolmente la Giunta ha proceduto alla revoca della procedura in corso, attuando quindi una sorta di “misura di salvaguardia” necessaria per non pregiudicare l’esercizio della potestà programmatoria del Comune e consentire l’esercizio dell’amplissima discrezionalità, propria di tali scelte.
Potrebbe essere sostenuto che le misure di salvaguardia sono provvedimenti cautelari, che giustificano la sospensione, non l’arresto definitivo del procedimento.
Peraltro, tale argomentazione non è stata proposta dall’appellante e appare di dubbia applicabilità in relazione alle procedure di affidamento degli appalti pubblici, nelle quali le offerte hanno un termine massimo di validità.
In ogni modo, tale argomentazione non è in concreto rilevante nel caso in esame, in quanto il problema è stato superato dalla successiva modifica della programmazione delle opere pubbliche.
Nello stesso ordine di idee, deve essere respinta la doglianza relativa alla violazione dell’art. 11, primo comma, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, dedotta rilevando che gli atti di revoca della gara sono in contrasto con la programmazione delle opere pubbliche allora vigente.
E’ evidente, infatti, che tale programmazione è modificabile, dall’ente locale, sulla base di nuove considerazioni attinenti alla migliore gestione dell’interesse pubblico, nell’esercizio del potere di autotutela; di conseguenza, il Comune è legittimato a porre in essere quanto necessario per mutare gli atti della propria programmazione.
Con gli atti concernenti la revoca della precedente gara, il Comune non ha modificato il programma delle opere pubbliche, ma ha invece posto in essere atti preordinati a tale modifica, di fatto poi disposta, a tale scopo impedendo il formarsi di preclusione al dispiegamento delle sue potestà discrezionali.
L’argomentazione deve quindi essere disattesa (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.12.2015 n. 5823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  Nei contratti sottoscritti con la pubblica amministrazione è richiesta la forma scritta, fatta eccezione per quelli conclusi in ambito commerciale. Tra queste figure negoziali non rientra però l'appalto di opere pubbliche, né l'«appalto in variante».
I contratti conclusi dalla P.A., richiedendo la forma scritta ad substantiam (quindi con esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi), devono essere consacrati in un unico documento -nel quale siano indicate le clausole disciplinanti il rapporto e la volontà della Amministrazione sia manifestata dall'organo rappresentativo dell'ente- salvo che la legge non autorizzi espressamente la conclusione a distanza, a mezzo di corrispondenza, come nell'ipotesi eccezionale, prevista dall'art. 17 del r.d. n. 2240 del 1923, di contratti conclusi con ditte commerciali.
Tra tali contratti non rientra quello di appalto di opere pubbliche, per il quale, attesa anche la necessità di accordi specifici e complessi, deve escludersi che il consenso possa formarsi sulla base di scritti successivi atteggiantisi come proposta e accettazione fra assenti
.
Tale principio non è in contrasto con quanto affermato da questa stessa Corte (Sez. 1) nella Sentenza n.  10069 del 2008 atteso che,
nel caso richiamato, si è trattato di un appalto in variante, ossia di quella limitatissima ipotesi di modificazione della base contrattuale, laddove è stato ritenuto sufficiente il rispetto delle condizioni previste dall'art. 342 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. F., ossia la presenza dell'ordine del direttore dei lavori e l'intervenuta successiva approvazione dell'ente pubblico.
Infatti,
il contratto di appalto di 00.PP. non può formarsi attraverso gli atti prenegoziali proprio del diritto comune e ciò non per ragioni di natura formale ma di tipo sostanziale, essendo necessario che opere corrispettivi di un certo rilievo, con spesa a carico delle casse pubbliche, devono avere certezza della esatta consistenza ed articolazione dei lavori nonché delle risorse stanziate per il loro pagamento, con forme e tempi precisamente stabiliti.
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1. Con il primo mezzo di ricorso principale (violazione e falsa applicazione dell'art. 17 RD n. 2240 del 1923, degli artt. 1362, 1367 e 1371 c.c., 1988 c.c. e 2033 c.c.), la società sportiva pone il seguente quesito di diritto: «Statuisca l'Ecc.ma Corte adita se, in presenza di uno scambio di dichiarazioni negoziali provenienti dal Sindaco di un Comune e dal legale rappresentante di una società di capitali, operanti un rinvio per relationem alle previgenti condizioni contenute in alcune delibere della GM, debba ritenersi avvenuta e regolarizzata l'instaurazione del rapporto obbligatorio ai sensi dell'art. 17 del RD n. 2420 del 1923, tenuto conto del collegamento esistente tra il rapporto negoziale e l'attività di produzione di servizi in precedenza esercitata dalla società stessa e della conformità del rapporto negoziale alla prassi commerciale invalsa nel settore».
1.1. Con esso si lamenta, anzitutto, una violazione di legge, quella della norma di cui all'art. 17 RD n. 2240 del 1923, applicabile anche ai Comuni, essendovi stato l'incontro dei consensi delle due parti in ordine alla conferma «del previgente rapporto» e non ostandovi la materia oggetto della negoziazione.
...
11. Il primo motivo del ricorso principale non è fondato in quanto esso contrasta con i principi di diritto già affermati da questa Corte e che
escludono l'applicabilità della disposizione invocata come violata dal giudice distrettuale ai pubblici appalti.
11.1. Questa Corte ha affermato il principio di diritto, a cui occorre dare continuità in questa sede, per essere esso ancora valido e pienamente fondato, secondo cui
i contratti conclusi dalla P.A., richiedendo la forma scritta ad substantiam (quindi con esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi), devono essere consacrati in un unico documento -nel quale siano indicate le clausole disciplinanti il rapporto e la volontà della Amministrazione sia manifestata dall'organo rappresentativo dell'ente- salvo che la legge non autorizzi espressamente la conclusione a distanza, a mezzo di corrispondenza, come nell'ipotesi eccezionale, prevista dall'art. 17 del r.d. n. 2240 del 1923, di contratti conclusi con ditte commerciali; tra tali contratti non rientra quello di appalto di opere pubbliche, per il quale, attesa anche la necessità di accordi specifici e complessi, deve escludersi che il consenso possa formarsi sulla base di scritti successivi atteggiantisi come proposta e accettazione fra assenti (Cass. Sez. 1, sentt. nn. 59 del 2001e 7297 del 2009).
11.2. Né tale principio è in contrasto con quanto affermato da questa stessa Corte (Sez. 1) nella Sentenza n.  10069 del 2008 atteso che,
nel caso richiamato, si è trattato di un appalto in variante, ossia di quella limitatissima ipotesi di modificazione della base contrattuale, laddove è stato ritenuto sufficiente il rispetto delle condizioni previste dall'art. 342 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. F., ossia la presenza dell'ordine del direttore dei lavori e l'intervenuta successiva approvazione dell'ente pubblico.
11.3. Infatti,
il contratto di appalto di 00.PP. non può formarsi attraverso gli atti prenegoziali proprio del diritto comune e ciò non per ragioni di natura formale ma di tipo sostanziale, essendo necessario che opere corrispettivi di un certo rilievo, con spesa a carico delle casse pubbliche, devono avere certezza della esatta consistenza ed articolazione dei lavori nonché delle risorse stanziate per il loro pagamento, con forme e tempi precisamente stabiliti (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 22.12.2015 n. 25798).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione delle opere abusive e di ripristino dello stato dei luoghi ha carattere essenzialmente reale, per cui esso deve essere disposto nei confronti di tutti i soggetti che vantano attualmente un diritto reale sul bene, nella qualità di eredi o aventi causa dell’originario proprietario, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione dell’illecito, che peraltro ha natura permanente, tant’è che il manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio ai valori tutelati dalle misure repressive fino alla sua rimozione.
L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che impongono l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione richieda una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico o una comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo.
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Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente la demolizione delle opere abusive, dagli interventi eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34 contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla demolizione, qualora essa non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in totale difformità quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale, per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti mutamento della destinazione d'uso implicante variazione degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero violazione non procedurali delle norme in materia di edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto, da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e modificando la sagoma dell’edificio.
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
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L’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo.
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La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione impugnata e neppure ne determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza.

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... per l'annullamento dell’ordinanza dirigenziale n. 91 del 09/06/2009, concernente l’eliminazione delle opere abusive realizzate relative al tetto del fabbricato sito in Via ... n. 11, in difformità del permesso di costruire n. 51/04; nonché degli atti connessi.
...
1. Nel merito i ricorrenti deducono che:
- i lavori sarebbero stati realizzati dal dante causa, per cui i ricorrenti sarebbero estranei all’abuso;
- mancherebbe una adeguata istruttoria ed una congrua motivazione; l’abuso, consistente in una maggiore altezza del sottotetto, non sarebbe di tale gravità da giustificare la demolizione;
- sarebbe stata presentata istanza per accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001; l’intervento, realizzato in zona E agricola, sarebbe conforme allo strumento urbanistico;
- il disposto ripristino dello stato dei luoghi configgerebbe con l’interesse pubblico, oltre che con quello privato dei ricorrenti.
1.1. L'ordine di demolizione delle opere abusive e di ripristino dello stato dei luoghi ha carattere essenzialmente reale, per cui esso deve essere disposto nei confronti di tutti i soggetti che vantano attualmente un diritto reale sul bene, nella qualità di eredi o aventi causa dell’originario proprietario, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione dell’illecito, che peraltro ha natura permanente, tant’è che il manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio ai valori tutelati dalle misure repressive fino alla sua rimozione (cfr. Cons. St., sez. VI, 15/04/2015, n. 1927).
1.2. L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che impongono l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione richieda una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico o una comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons. St., sez. VI, 05/01/2015, n. 13).
1.3. Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente la demolizione delle opere abusive, dagli interventi eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34 contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla demolizione, qualora essa non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in totale difformità quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale, per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti mutamento della destinazione d'uso implicante variazione degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero violazione non procedurali delle norme in materia di edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto, da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e modificando la sagoma dell’edificio (cfr. TAR Campania, sez. II, 04/02/2013, n. 699).
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
1.4. E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo (cfr. Cons. St., sez. IV, 26/08/2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità urbanistica e, se del caso, della compatibilità paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt. 146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in caso di interventi in aree vincolate.
Sennonché nella specie non risulta che l’istanza di sanatoria sia stata accolta; né risulta che sia stato tempestivamente e ritualmente impugnato il diniego sia pure tacito, mentre semmai emerge che la creazione di superfici utili o volumi è ostativa al rilascio della compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167, co. 4, del d.lgs. n. 42 del 2004.
Giova infine soggiungere che la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione impugnata e neppure ne determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza (cfr. Cons. St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
2. In conclusione l’impugnativa va quindi respinta. Non vi è luogo ad una pronuncia sulle spese attesa la mancata costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.12.2015 n. 5866 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDall’art. 125, commi 10 e 11, del codice dei contratti pubblici si ricava che:
1) il cottimo fiduciario è una procedura negoziata in cui le acquisizioni avvengono mediante affidamento a terzi (art. 125, comma 4);
2) l'acquisizione in economia di beni e servizi è ammessa in relazione all'oggetto e ai limiti di importo delle singole voci di spesa, preventivamente individuate con provvedimento di ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie specifiche esigenze. Il ricorso all'acquisizione in economia è altresì consentito nelle seguenti ipotesi:
   a) risoluzione di un precedente rapporto contrattuale, o in danno del contraente inadempiente, quando ciò sia ritenuto necessario o conveniente per conseguire la prestazione nel termine previsto dal contratto;
   b) necessità di completare le prestazioni di un contratto in corso, ivi non previste, se non sia possibile imporne l'esecuzione nell'ambito del contratto medesimo;
   c) prestazioni periodiche di servizi, forniture, a seguito della scadenza dei relativi contratti, nelle more dello svolgimento delle ordinarie procedure di scelta del contraente, nella misura strettamente necessaria;
   d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente imprevedibili, al fine di scongiurare situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l'igiene e salute pubblica, ovvero per il patrimonio storico, artistico, culturale (art. 125, comma 10);
3) Per servizi o forniture di importo pari o superiore a quarantamila euro e fino alle soglie di cui al comma 9, l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante. Per servizi o forniture inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento. (art. 125, comma 11).
Dal quadro normativo sopra tracciato sono, dunque, sostanzialmente enucleabili due ipotesi che legittimano il ricorso al cottimo: una che contempla la previa regolamentazione da parte della stazione appaltante, e l’altra che discende da alcune situazioni contingenti o urgenti direttamente e tassativamente individuate dal legislatore.

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L’appello è infondato.
L’unico motivo di censura proposto, è incentrato –in diritto- sulla pretesa esperibilità della procedura di cottimo fiduciario quando, come nel caso di specie, l’appalto di servizi sia sotto soglia, giusto quanto asseritamente previsto dall’art. 125, comma 11, del codice dei contratti pubblici. Il giudice di prime cure avrebbe dunque errato nell’applicare, in luogo del comma 11 cit., la norma “limitativa” di cui al comma 10, che invece prevede specifici e stringenti presupposti.
L’argomentazione non può essere condivisa.
E’ sufficiente, in proposito, una rapida rassegna delle norme citate. Dalle stesse si ricava che:
1) il cottimo fiduciario è una procedura negoziata in cui le acquisizioni avvengono mediante affidamento a terzi (art. 125, comma 4);
2) l'acquisizione in economia di beni e servizi è ammessa in relazione all'oggetto e ai limiti di importo delle singole voci di spesa, preventivamente individuate con provvedimento di ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie specifiche esigenze. Il ricorso all'acquisizione in economia è altresì consentito nelle seguenti ipotesi:
   a) risoluzione di un precedente rapporto contrattuale, o in danno del contraente inadempiente, quando ciò sia ritenuto necessario o conveniente per conseguire la prestazione nel termine previsto dal contratto;
   b) necessità di completare le prestazioni di un contratto in corso, ivi non previste, se non sia possibile imporne l'esecuzione nell'ambito del contratto medesimo;
   c) prestazioni periodiche di servizi, forniture, a seguito della scadenza dei relativi contratti, nelle more dello svolgimento delle ordinarie procedure di scelta del contraente, nella misura strettamente necessaria;
   d) urgenza, determinata da eventi oggettivamente imprevedibili, al fine di scongiurare situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l'igiene e salute pubblica, ovvero per il patrimonio storico, artistico, culturale (art. 125, comma 10);
3) Per servizi o forniture di importo pari o superiore a quarantamila euro e fino alle soglie di cui al comma 9, l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante. Per servizi o forniture inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento. (art. 125, comma 11).
Dal quadro normativo sopra tracciato sono, dunque, sostanzialmente enucleabili due ipotesi che legittimano il ricorso al cottimo: una che contempla la previa regolamentazione da parte della stazione appaltante, e l’altra che discende da alcune situazioni contingenti o urgenti direttamente e tassativamente individuate dal legislatore.
Nessuna delle ipotesi citate, però, ricorre nel caso di specie, e la circostanza non è contestata. Ciò che invece è contestata in sede di gravame è unicamente la mancata applicazione del comma 11.
Ma il comma 11 non individua una diversa e peculiare procedura sganciata dai presupposti legittimanti, limitandosi piuttosto a dettare regole di evidenza minimali –maggiormente elastiche rispetto al sopra soglia ed al sotto soglia ordinario di cui all’art. 124– dedicate proprio a disciplinare il cottimo fiduciario ove esso costituisca opzione consentita dal comma 10.
Ne consegue che in mancanza di adeguata motivazione circa il ricorrere dei presupposti, più volte citati, la scelta della procedura di cottimo è illegittima, come esattamente già affermato dal giudice di prime cure.
L’appello è pertanto respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2015 n. 5808 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ai fini della partecipazione alle gare di appalto la fattispecie dell’affitto di azienda rientra tra quelle che soggiacciono all’obbligo di rendere dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, lettera c), del dlgs n. 163/2006 riguardante anche gli amministratori e direttori tecnici dell’impresa cedente nel caso in cui sia intervenuta un’operazione di cessione di azienda in favore del concorrente nell’anno anteriore alla pubblicazione del bando.
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A fronte della obbligatorietà ex lege della dichiarazione relativa alla posizione della impresa cedente, l’inosservanza di un tale onere documentale comporta la esclusione dalla gara del soggetto concorrente, ancorché la misura espulsiva non sia stata espressamente contemplata dalla lex specialis di gara.
Neppure appare configurabile l’esperimento del c.d. soccorso istruttorio di cui all’art. 46 dlgs n. 163/2006 ai fini di ottenere una sorta di sanatoria della inadempienza documentale di che trattasi.
Invero, come chiarito di recente dall’Adunanza Plenaria, in presenza di un obbligo dichiarativo ex lege non può trovare spazio la regolarizzazione disposta dalla stazione appaltante, non essendo consentita la produzione tardiva della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa.
Insomma questo Consesso ha avuto modo più volte di sconfessare la c.d. teoria del falso innocuo o sostanzialistica ponendo l’accento sulla necessità degli obblighi dichiarativi e sul valore della completezza delle dichiarazioni in sede di offerta, corollario di principi di matrice comunitaria come quelli della trasparenza, par condicio tra i partecipanti e proporzionalità.
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Dal comportamento contra legem tenuto dalla stazione appaltante deriva un danno alla posizione dalla concorrente, appunto per mancata aggiudicazione, che può trovare ristoro in forma specifica, con la riasssegnazione dell’aggiudicazione in favore dell’appellante Società e subentro nel contratto illegittimamente stipulato.
In ipotesi poi di sostanziale non praticabilità del subentro nel rapporto contrattuale, stante il tempo trascorso e lo stato di avanzamento dei lavori nel frattempo eseguiti, dovrà essere riconosciuto alla Società appellante il risarcimento per equivalente.
In particolare venendo alla quantificazione del risarcimento, trattandosi di danno da mancata aggiudicazione dell’appalto esso va commisurato alle utilità economiche che la Società ha perduto a causa della mancata esecuzione del contratto.
Spetta quindi alla suindicata Società:
- l’utile effettivo che la stessa avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria quale risultante dall’offerta economica presentata in sede di gara;
- il danno c.d. curriculare dovuto alla perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale, da liquidarsi in via equitativa in una somma pari al 5% sull’importo del’appalto.
Spettano, ancora all’appellante, gli interessi legali sulle predette somme progressivamente e via via rivalutate, dalla data di stipula sino alla liquidazione del danno, in funzione compensativa della mancata disponibilità del denaro a titolo di risarcimento danno.

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L’appello è fondato e va, pertanto, accolto.
Il Tar con il decisum qui in contestazione avalla la legittimità dell’operato della stazione appaltante e aderisce in particolare ad una impostazione sostanzialistica della problematica relativa all’art. 38 codice del dei contratti, nel senso di ritenere che l’inosservanza dell’obbligo dichiarativo può portare alla esclusione dalla gara solo se è prevista dal bando.
Nella specie, soggiunge sempre il primo giudice, il bando di gara non prevedeva in modo specifico che la dichiarazione fosse riferita anche all’amministratore di un’azienda acquisita né correlava l’incompletezza della dichiarazione alla sanzione espulsiva, sicché, secondo il TAR, non doveva essere disposta l’esclusione della Sa..
Le argomentazioni e conclusioni del Tribunale amministrativo piemontese non sono condivisibili.
E’ pacifico in punto di fatto che Sa. nel partecipare alla gara non ha inserito nella propria offerta le dichiarazioni ex art. 38 citato relative anche all’amministratore unico della Ne.Sy. e al Direttore tecnico della stessa, pur avendo dalla stessa Società preso il fitto d’azienda, intervenuto, in particolare, tre mesi prima della pubblicazione del bando di gara.
In relazione a tale indiscussa circostanza l’indagine giuridica da condursi da parte del Collegio non può non interessare i seguenti punti e cioè:
- se con riferimento alle prescrizioni normative (art. 38 dlgs n. 163/2006) e di quelle recate dalla lex specialis di gara la Sa. avrebbe dovuto o meno rendere la dichiarazione ex art. 38 più volte citato relativamente alla società dalla quale aveva affittato l’azienda;
- se la manchevolezza in cui è incorsa Sa.,una volta accertato l’obbligo a rendere la dichiarazione nei sensi di cui sopra, costituiva causa giustificativa di esclusione dalla gara oppure siffatta “irregolarità” era sanabile con l’attivazione, come poi di fatto avvenuto, del c.d. soccorso istruttorio.
Ora, avuto riguardo alla questione sub a) questa Sezione non può non richiamare il principio giurisprudenziale costantemente affermato (Cons. Stato Sez. 05/11/2014 n. 5470) e di recente ribadito da questa Sezione proprio in occasione della definizione del parallelo giudizio instaurato per controversia all’esame (sentenza n. 4100 del 01/09/2015) secondo il quale: “ai fini della partecipazione alle gare di appalto la fattispecie dell’affitto di azienda rientra tra quelle che soggiacciono all’obbligo di rendere dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, lettera c), del dlgs n. 163/2006 riguardante anche gli amministratori e direttori tecnici dell’impresa cedente nel caso in cui sia intervenuta un’operazione di cessione di azienda in favore del concorrente nell’anno anteriore alla pubblicazione del bando”.
Sul punto poi è utile altresì rammentare quanto sancito dall’Adunanza Plenaria con le pronunce n. 10 e 21 del 2012, secondo cui l’obbligo dichiarativo ex art. 38 scaturisce direttamente dalla legge.
Da tale assunto “maggiore” deriva anche la soluzione della questione sub b), nel senso che, a fronte della obbligatorietà ex lege della dichiarazione relativa alla posizione della impresa cedente, l’inosservanza di un tale onere documentale comporta la esclusione dalla gara del soggetto concorrente, ancorché la misura espulsiva non sia stata espressamente contemplata dalla lex specialis di gara.
Neppure appare configurabile l’esperimento del c.d. soccorso istruttorio di cui all’art. 46 dlgs n. 163/2006 ai fini di ottenere una sorta di sanatoria della inadempienza documentale di che trattasi.
Invero, come chiarito di recente dall’Adunanza Plenaria con sentenza n. 9 del 24/02/2014, in presenza di un obbligo dichiarativo ex lege non può trovare spazio la regolarizzazione disposta dalla stazione appaltante, non essendo consentita la produzione tardiva della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa.
Insomma questo Consesso ha avuto modo più volte di sconfessare la c.d. teoria del falso innocuo o sostanzialistica ponendo l’accento sulla necessità degli obblighi dichiarativi e sul valore della completezza delle dichiarazioni in sede di offerta, corollario di principi di matrice comunitaria come quelli della trasparenza, par condicio tra i partecipanti e proporzionalità (cfr Cons. Stato n. 21/2012 già citata; idem Sez. III 06/02/2014 n. 583).
Conclusivamente la carenza di dichiarazione fatta registrare dalla controinteressata Società Sa. costituisce violazione di un obbligo prescritto dalla legislazione che regge a monte la gara di che trattasi; e l’inverarsi di tale omissiva circostanza, come fondatamente eccepito dalla parte appellante, avrebbe dovuto produrre l’adozione della misura sanzionatoria di esclusione dalla procedura concorsuale a carico dell’attuale appellata.
L’Amministrazione appaltante a seguito di una non consentita integrazione documentale ha confermato l’aggiudicazione della gara con la determina n. 1 del 19.01.2015 dell’appalto de quo in favore di Sa. e non v’è dubbio che un tale provvedimento, per quanto sopra esposto, si appalesa illegittimo e va perciò annullato.
Per completezza della trattazione della causa va esaminata l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata ex adverso dalla difesa della Sa..
Secondo l’attuale appellata, El.Go. si è limitata ad impugnare il provvedimento di conferma dell’aggiudicazione senza gravare gli atti della procedura ed in particolare il verbale della seduta del 01/07/2014 in cui la Sa. è stata ammessa alla procedura di gara.
L’eccezione è infondata.
In primo luogo deve rilevarsi come l’attuale appellante ha conseguito favorevolmente la definizione dell’originaria impugnazione della determina n. 13/2014 di aggiudicazione della gara e tale decisum (sentenza n. 190/2015 ) è stata confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza 4100/2015 con conseguente formazione del giudicato.
In ogni caso alcun onere di specifica impugnazione del verbale di ammissione alla gara di Sa. può ravvisarsi in capo ad El.Go., trattandosi di atto endoprocedimentale e nemmeno lesivo delle proprie posizioni, avuto riguardo al fatto che allo stato l’esito della gara era ancora del tutto incerto, sicché anche sotto un profilo pratico non v’era da impugnare (all’epoca) alcunché.
L’appello va accolto anche in relazione alla domanda risarcitoria.
Invero dal comportamento contra legem tenuto dalla stazione appaltante deriva un danno alla posizione dalla concorrente, appunto per mancata aggiudicazione, che può trovare ristoro in forma specifica, con la riasssegnazione dell’aggiudicazione in favore dell’appellante Società e subentro nel contratto illegittimamente stipulato.
In ipotesi poi di sostanziale non praticabilità del subentro nel rapporto contrattuale, stante il tempo trascorso e lo stato di avanzamento dei lavori nel frattempo eseguiti, dovrà essere riconosciuto alla Società appellante il risarcimento per equivalente.
In particolare venendo alla quantificazione del risarcimento, trattandosi di danno da mancata aggiudicazione dell’appalto esso va commisurato alle utilità economiche che El.Go. ha perduto a causa della mancata esecuzione del contratto (Cons. Stato Sez. VI 05/05/2015 n. 4283).
Spetta quindi alla suindicata Società:
- l’utile effettivo che El.Go. avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria quale risultante dall’offerta economica presentata in sede di gara (Cons. Stato n. 4283/2015 citata);
- il danno c.d. curriculare dovuto alla perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale (Cons. Stato Sez. VI 09/06/2008 n. 1751), da liquidarsi in via equitativa in una somma pari al 5% sull’importo del’appalto.
Spettano, ancora all’appellante, gli interessi legali sulle predette somme progressivamente e via via rivalutate, dalla data di stipula sino alla liquidazione del danno, in funzione compensativa della mancata disponibilità del denaro a titolo di risarcimento danno.
Per le suesposte considerazioni l’appello, in quanto fondato va accolto in relazione sia agli aspetti impugnatori che risarcitori, con integrale riforma dell’impugnata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.12.2015 n. 5803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Dalla lettura dell’art. 38, lett. c), codice dei contratti emerge come, ai fini dell’esclusione dalla partecipazione dalle procedure, in caso di sentenza ex art. 444 c.p.p. la condanna riportata dai soggetti non deve essere passata in giudicato o divenuta irrevocabile.
Infatti, mentre nelle altre due ipotesi previste, sentenza di condanna o decreto penale, è lo stesso legislatore che prescrive la necessità che questi siano passati in giudicato o divenuti irrevocabili, nel caso di patteggiamento nulla in questo senso è previsto.
Tale scelta del legislatore –che probabilmente deriva dal fatto che nel patteggiamento vi è un’ammissione di responsabilità con non contestazione dei fatti addebitati– risulta all’evidenza laddove lo stesso legislatore, parla esclusivamente di “sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale”, senza prevedere la necessità che questa sia divenuta irrevocabile.
Tuttavia, in base a quanto sopra detto, è da ritenere che anche la sentenza di patteggiamento non divenuta irrevocabile deve essere dichiarata in base al disposto dell’art. 38, con la conseguenza che la dichiarazione, resa in sede di partecipazione, di assenza di condanne definitive nei confronti del legale rappresentante, in presenza, all’opposto, di una sentenza di patteggiamento, anche se ancora non divenuta irrevocabile, è, una dichiarazione mendace, per ciò solo costituente legittima causa di esclusione dalla gara.
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Il ricorso è fondato.
La lettera di invito dell’appalto in questione richiede, ai fini dell’ammissione alla gara, che i partecipanti presentino la dichiarazione ex art. 38 codice dei contratti.
Per l’art. 38, lett. c), codice dei contratti “Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: c) nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale; è comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva Ce 2004/18; l'esclusione e il divieto operano se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice; degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio.
In ogni caso l'esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata; l'esclusione e il divieto in ogni caso non operano quando il reato e' stato depenalizzato ovvero quando e' intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato e' stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima
”.
Dalla lettura della norma in esame emerge come, ai fini dell’esclusione dalla partecipazione dalle procedure, in caso di sentenza ex art. 444 c.p.p. la condanna riportata dai soggetti non deve essere passata in giudicato o divenuta irrevocabile.
Infatti, mentre nelle altre due ipotesi previste, sentenza di condanna o decreto penale, è lo stesso legislatore che prescrive la necessità che questi siano passati in giudicato o divenuti irrevocabili, nel caso di patteggiamento nulla in questo senso è previsto.
Tale scelta del legislatore –che probabilmente deriva dal fatto che nel patteggiamento vi è un’ammissione di responsabilità con non contestazione dei fatti addebitati– risulta all’evidenza laddove lo stesso legislatore, parla esclusivamente di “sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale”, senza prevedere la necessità che questa sia divenuta irrevocabile.
Nel caso in esame, la società aggiudicataria ha dichiarato che nei confronti del sig. -OMISSIS-, già amministratore e direttore tecnico e attuale socio di maggioranza della società, non era stata pronunciata alcuna condanna ex art. 38 codice dei contratti.
Tuttavia, in base a quanto sopra detto, è da ritenere che anche la sentenza di patteggiamento non divenuta irrevocabile deve essere dichiarata in base al disposto dell’art. 38, con la conseguenza che la dichiarazione, resa in sede di partecipazione, di assenza di condanne definitive nei confronti del legale rappresentante, in presenza, all’opposto, di una sentenza di patteggiamento, anche se ancora non divenuta irrevocabile, è, una dichiarazione mendace, per ciò solo costituente legittima causa di esclusione dalla gara.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 21.12.2015 n. 3662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI Sull'accertamento del diritto alla revisione del prezzo di appalto.
La decisione di effettuare la revisione prezzi e la determinazione dei parametri da osservarsi a tal fine sono espressione di una sfera di valutazione discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato innanzi al giudice amministrativo nel termine decadenziale di legge, atteso che la posizione dell'appaltatore assume carattere di diritto soggettivo solo dopo che l'Amministrazione abbia riconosciuto la sua pretesa e si verta in materia del quantum del compenso revisionale.
Nel caso di specie, concernente l'accertamento del diritto alla revisione dei prezzi per la realizzazione di interventi finalizzati al risparmio energetico di un'Azienda ospedaliera, il rapporto negoziale fra le parti -quanto al riconoscimento di compensi revisionali- recava una clausola di chiaro contenuto negativo, così che la pretesa azionata in alcun modo poteva ricondursi a un diritto soggettivo perfetto tutelabile con azione di accertamento, ove il contratto rechi un'apposita clausola che preveda il puntuale obbligo dell'Amministrazione di dar luogo alla revisione dei prezzi (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.12.2015 n. 5779 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Gara nulla se l’ente non è capace di aprire i files. Tar Bari. Appalti.
L’impresa che ha correttamente usato gli atti digitali per formulare offerte in procedure sul mercato elettronico non può essere esclusa dalla Pa se questa non ha competenze informatiche per leggere i documenti non cartacei.
Il TAR Puglia-Bari -Sez. I, sentenza 18.12.2015 n. 1646– ha dichiarato illegittima un’aggiudicazione, su piattaforma del mercato elettronico della Pa (Mepa), escludendo una ditta concorrente che, come richiesto dal bando, aveva inviato offerta telematica. L’ente, non riuscendo ad aprire i file inviati con firma digitale, li ha ritenuti danneggiati.
E ha considerato quelli senza firma elettronica richiesti a gara scaduta per un ulteriore controllo non corrispondenti ai primi, per la loro diversa denominazione. Ma sarebbe bastato un programma idoneo alla lettura dei documenti sui dettagli tecnici ed economici per l’appalto e per gli altri occorreva sapere che la diversità di denominazione dipendeva dal tipo di estensione e formato.
Accogliendo la tesi della ricorrente, i giudici spiegano che, se l’offerta è stata redatta e inviata come da bando, «la mancata lettura della documentazione» a corredo «risulta imputabile esclusivamente a responsabilità della Pa». Che avrebbe facilmente ovviato con un supplemento istruttorio, anche con personale più qualificato, anche perché in una perizia di parte i file sono risultati leggibili.
La sentenza ha poi stabilito che anche la ditta esclusa, data l’inutilità dell’annullamento degli atti, vanta un interesse (meritevole di tutela) ad accertare la illegittimità dell’azione amministrativa per chiedere in separata sede il risarcimento del danno «rapportato alla possibile chance di vittoria»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2016).
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MASSIMA
3. Tanto premesso in fatto, in diritto il ricorso è fondato e merita accoglimento, sebbene ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a. l’interesse della ricorrente vada limitato alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità degli atti di gara, non avendo la stessa più interesse alla loro caducazione, non potendo trarne alcuna utilità, per essere stata completamente eseguita la fornitura dall’aggiudicataria, odierna controinteressata.
Infatti, tenuto conto, del fatto che non è più possibile allo stato attuale la rinnovazione di una gara ormai completamente esaurita nei suoi effetti, la ricorrente vanta sicuramente un interesse, ai sensi dell’art. 34, comma 3 cod. proc. amm., meritevole di tutela, all’accertamento della illegittimità dell’azione amministrativa al fine di richiedere in separata sede il risarcimento del danno evidentemente rapportato alla possibile chance di vittoria (cfr. Tar Bari, Sez. I, 10.12.2014, n. 1525).
3.1 Dalla perizia di parte, redatta dall’ing. P.Ca., le cui convincenti argomentazioni e conclusioni il Collegio ritiene di condividere, è emerso che
i “file” forniti dall’odierna ricorrente, risultano perfettamente leggibili e privi di qualsivoglia errore informatico che possa comprometterne la lettura e che eventuali problemi nella loro apertura e lettura sono da addebitarsi alla mancanza di conoscenze (di base) o strumentazioni informatiche (software di base) di chi era addetto alla ricezione di tali documenti; che la sottoscrizione digitale degli stessi è stata effettuata nei termini di gara, in particolare tutti tra il 20 ed il 21 ottobre, e non era dunque modificabile in data successiva a quella riportata; che anche i file non firmati digitalmente, inviati a titolo di cortesia, risultano essere perfettamente leggibili.
3.2 Alla luce delle predette incontestate risultanze, dunque,
è emerso che l’offerta della ricorrente è stata correttamente redatta e trasmessa e che la mancata lettura della documentazione presentata a suo corredo risulta imputabile esclusivamente a responsabilità della P.A., che avrebbe facilmente potuto ovviare all’inconveniente registrato disponendo un supplemento istruttorio, anche con l’ausilio di personale all’uopo maggiormente qualificato, in grado di procedere all’utilizzo dei programmi informatici necessari (e, per quanto emerso, scaricabili liberamente da internet nella loro versione gratuita), onde poter agevolmente procedere all’apertura dei file trasmessi dalla La. e pervenuti alla S.A. tramite piattaforma Mepa.
3.3 Nei termini innanzi precisati, dunque, il ricorso va accolto.
In conclusione, dalle argomentazioni espresse in precedenza discende la declaratoria di improcedibilità della domanda impugnatoria di cui al ricorso introduttivo, così come integrato da motivi aggiunti, per sopravvenuto difetto di interesse; nonché l’accertamento, ai sensi dell’art. 34, comma 3 cod. proc. amm., dell’illegittimità del provvedimento di esclusione della ricorrente e, per derivationem, degli atti di aggiudicazione provvisoria e definitiva, atteso che, nella specie, la ricorrente è stata illegittimamente esclusa dalla procedura de qua, così vedendosi preclusa la chance di essere selezionata quale migliore offerente, essendo mancata la valutazione della sua offerta tecnica ed economica, nell’ambito di una procedura caratterizzata da due sole offerte in competizione.

APPALTI SERVIZI: E' illegittimo l'affidamento in house di servizi laddove è stato disposto in carenza del presupposto della convenienza economica rispetto agli oneri che la Pa avrebbe sostenuto con la relativa esternalizzazione.
Il modello organizzativo dell’in house providing è stato recentemente decifrato da questa Sezione come modalità eccezionale, rispetto a quella ordinaria della scelta dell’affidatario in esito a procedure concorrenziali, e, con particolare riferimento ad una situazione identica a quella qui controversa, precluso dal combinato disposto dell’art. 4, commi 7 e 8, d.l. n. 95 del 2012 (che obbligano, per un verso, le pubbliche amministrazioni ad acquisire beni e servizi mediante procedure concorrenziali e che consentono, per un altro verso, l’affidamento diretto a società a totale partecipazione pubblica nelle sole ipotesi di gestione di servizi di interesse generale, mentre quello in questione esula dall’ambito di tale eccezione, attenendo a un servizio strumentale all’amministrazione affidataria del servizio).
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1.- E’ controversa la legittimità dei provvedimenti con i quali l’ASL TA, dopo aver bandito una gara per la scelta dell’impresa alla quale affidare l’appalto avente ad oggetto la pulizia e la sanificazione delle proprie strutture, ha deciso di revocare la procedura selettiva e di assegnare il servizio alla propria società in house (Sanitaservice).
Il Tribunale pugliese, adìto da due società che avevano partecipato alla procedura inizialmente indetta dalla ASL TA, ha giudicato illegittima sia la delibera n. 603 del 2014 (impugnata con i ricorsi introduttivi), in quanto approvativa di un business plan fondato su un computo del costo del lavoro inferiore a quello minimo previsto nella procedura inizialmente indetta (e poi revocata), sia la delibera n. 859 del 2014 (adottata al dichiarato fine di correggere il predetto errore ed impugnata con i motivi aggiunti), in quanto, in ogni caso, viziata dal difetto del presupposto della convenienza economica della gestione del servizio in house, così come deliberata, rispetto agli oneri che sarebbero stati sostenuti per effetto dell’affidamento dell’appalto in esito alla gara originariamente bandita.
L’ASL TA contesta la correttezza del gravato giudizio di illegittimità, insistendo nel sostenere l’erroneità del rilievo della mancanza di economicità della gestione del servizio in house, assunto dal TAR a fondamento della pronuncia di annullamento appellata, e concludendo per la riforma di quest’ultima e per la conseguente reiezione dei ricorsi di primo grado.
2.- Occorre preliminarmente disattendere l’eccezione di rito con cui la Cascina Global Service s.r.l. ha sostenuto l’intervenuta estinzione del giudizio, in ragione della tardività della sua riassunzione, in seguito alla dichiarazione di interruzione del processo con l’ordinanza assunta nella camera di consiglio del 09.07.2015, da parte dell’ASL TA.
Premesso, infatti, che il termine dimidiato per la riassunzione, stabilito in 45 giorni per effetto del combinato disposto degli artt. 80, comma 3, 119 e 120 c.p.a., dev’essere computato a decorrere dal giorno in cui la parte ha avuto conoscenza legale dell’evento interruttivo, deve rilevarsi che non risulta provata la data in cui la ASL TA ha avuto conoscenza del decesso del proprio difensore (da valersi quale dies a quo del calcolo del termine asseritamente inosservato).
Non consta, in particolare, che l’Azienda appellante abbia dichiarato la morte del proprio avvocato (essendo stato depositato il suo certificato di morte dalla Chemi Pul Italiana s.r.l.), o che abbia avuto conoscenza dell’evento alla camera di consiglio del 09.07.2015 (nella quale nessuno è comparso per l’ASL TA) o, ancora, che sia stata informata del fatto per mezzo della comunicazione dell’ordinanza dichiarativa dell’interruzione del giudizio (che non risulta mai eseguita dalla Segreteria), sicché la riassunzione deve intendersi rituale e tempestiva, con conseguente reiezione dell’eccezione in esame.
3.- Nel merito, l’appello è infondato, alla stregua delle considerazioni di seguito esposte, e va respinto.
3.1- Con un unico, articolato motivo di ricorso l’Azienda appellante critica la correttezza del giudizio relativo alla mancanza di convenienza economica dell’affidamento del servizio a Sanitaservice, deducendo, in particolare, l’erroneità dell’assunzione, quale parametro di valutazione, del costo dell’appalto originariamente messo a gara ed assumendo, in ogni caso, l’idoneità del (secondo) business plan, approvato con la deliberazione n. 859 del 2014 ad attestare la congruità degli oneri della contestata assegnazione dell’appalto alla propria società in house.
3.2- Deve premettersi che il modello organizzativo dell’in house providing è stato recentemente decifrato da questa Sezione (Cons. St., sez. III, 07.05.2015, n. 2291) come modalità eccezionale, rispetto a quella ordinaria della scelta dell’affidatario in esito a procedure concorrenziali, e, con particolare riferimento ad una situazione identica a quella qui controversa (affidamento diretto alla Sanitaservice ASL BR s.r.l. da parte della A.S.L. di Brindisi del servizio di pulizia e di sanificazione), precluso dal combinato disposto dell’art. 4, commi 7 e 8, d.l. n. 95 del 2012 (che obbligano, per un verso, le pubbliche amministrazioni ad acquisire beni e servizi mediante procedure concorrenziali e che consentono, per un altro verso, l’affidamento diretto a società a totale partecipazione pubblica nelle sole ipotesi di gestione di servizi di interesse generale, mentre quello in questione esula dall’ambito di tale eccezione, attenendo a un servizio strumentale all’amministrazione affidataria del servizio).
3.3- Così riscontrata la difformità dell’affidamento controverso dal paradigma legale di riferimento (e, quindi, la sua illegittimità), alla stregua delle argomentazioni assunte a fondamento della decisione citata (e da intendersi qui integralmente richiamate), occorre, in ogni caso, confermare la fondatezza delle (diverse) ragioni assunte a fondamento del gravato giudizio di illegittimità.
Occorre, al riguardo, rilevare che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il TAR non ha arbitrariamente sindacato il merito della scelta dell’affidamento in house ma ha correttamente scrutinato l’attendibilità della motivazione dichiaratamente assunta dalla stessa amministrazione a sostegno di quella decisione e, cioè, la convenienza economica dell’affidamento diretto alla propria società, rispetto alla selezione del contraente in esito ad una pubblica gara.
Così chiarito che la verifica della fondatezza delle ragioni addotte dalla stessa Azienda a sostegno della scelta dell’internalizzazione del servizio di pulizia e di sanificazione attiene direttamente alla disamina della coerenza e della correttezza della stessa motivazione della contestata opzione gestoria (e non si estende fino ad un inammissibile sindacato del merito della relativa scelta), rileva il Collegio, per un verso, che il TAR ha correttamente assunto come parametro di valutazione della legittimità di quest’ultima proprio la stima dei costi operata dalla ASL TA negli atti della gara inizialmente indetta (da valersi quale l’unico criterio razionale di esame della convenienza economica della gestione in house del servizio, rispetto alla sua esternalizzazione) e, per un altro, che la determinazione controversa risulta fondata su una ricostruzione inattendibile (ovviamente, se confrontata con gli importi preventivati nell’ambito della procedura selettiva poi revocata) dei dati di costo delle prestazioni contrattuali dovute dal gestore del servizio.
E’ sufficiente, al riguardo, osservare che nel (secondo) business plan (approvato con la delibera n. 859 del 2014), a fronte di un modesto incremento, rispetto all’oggetto dell’appalto messo inizialmente a gara, delle ore lavorative annue e delle superfici da pulire (che incide in maniera trascurabile sul costo totale delle prestazioni), il corrispettivo complessivo del servizio risulta irragionevolmente superiore, sia a quello a base d’asta, sia a quello offerto in sede di gara dalla Cascina Global Service s.r.l. (che ha presentato la prima offerta non anomala).
A ben vedere, infatti, a fronte del corrispettivo offerto dalla Cascina Global Service s.r.l. (pari ad Euro 14.796.000), quello corrisposto alla Sanitaservice (pari a circa Euro 18.000.000) risulta superiore di oltre Euro 3.200.000 al costo che l’Azienda avrebbe sostenuto affidando il servizio in esito alla procedura concorrenziale inizialmente bandita, con conseguente, palese smentita del presupposto (logico e giuridico) dell’internalizzazione del servizio: la convenienza economica della gestione in house, rispetto all’assegnazione dell’appalto mediante una gara pubblica.
Né vale ad inficiare la correttezza di tale (matematico) rilievo la prospettazione con cui l’Azienda appellante tenta di spiegare la composizione delle voci di costo assunte a fondamento del computo del corrispettivo dovuto alla propria società in house, in quanto la stima degli oneri relativi alla principale componente, e, cioè, il costo del lavoro, si rivela fallace, in quanto basata su elementi errati.
E ciò sia perché nel monte ore sono state erroneamente computate le ore necessarie per le sostituzioni del personale assente (posto che il costo delle ore effettive di servizio comprende già quello delle sostituzioni, come chiarito, tra le tante, da Cons. St., sez. III, 02.03.2015, n. 1020), sia perché l’incremento del monte ore da 315.484 (così stimato negli atti della procedura revocata) a 322.353 non risulta giustificato da allegazioni attendibili e verificabili (soprattutto tenendo conto che il primo dato era stato computato con riferimento all’orario effettivo e non a quello teorico e che le superfici aggiuntive presentano un’estensione molto ridotta).
Ma, in ogni caso, quand’anche si giudicasse plausibile il computo del monte ore contenuto nel secondo business plan, l’incremento di 6.900 ore effettive di servizio non appare in alcun modo sufficiente a giustificare un aumento del costo complessivo dell’appalto di Euro 3.200.000.
3.4- Ne consegue, in definitiva, che il contestato affidamento diretto dell’appalto alla Sanitaservice dev’essere giudicato illegittimo, siccome fondato sull’erroneo presupposto della sua convenienza economica (rispetto agli oneri che avrebbe sopportato l’Azienda con l’esternalizzazione del servizio).
3.5- L’affidamento diretto del servizio alla Sanitaservice risulta, peraltro, illegittimo (a conferma della fondatezza dell’argomentazione sopra svolta) anche in quanto disposto in violazione dei vincolanti prezzi di riferimento stabiliti, ai sensi dell’art. 17 d.l. 06.07.2011, n. 98, dall’Osservatorio dei contratti pubblici presso l’AVCP (ora ANAC), applicando i quali il costo del servizio sarebbe stato molto più basso (perlomeno di Euro 1.500.000 circa) di quello corrisposto alla predetta società in house, come fondatamente dedotto dalla Cascina Global Service s.r.l. con la prima censura riproposta in appello ed esaminabile congiuntamente all’appello principale (in quanto afferente alla medesima questione dell’attendibilità della motivazione relativa alla convenienza economica dell’affidamento diretto in contestazione).
3.6- Resta così confermato che con il (peraltro doveroso) ricorso al mercato l’ASL TA avrebbe conseguito un risparmio significativo e che, al contrario, con la gestione in house non ritrae alcuna convenienza economica e sopporta un costo aggiuntivo, rispetto al corrispettivo che avrebbe dovuto corrispondere a un gestore scelto in esito a una gara pubblica.
4.- Alle considerazioni che precedono conseguono, quindi, la reiezione dell’appello e la conferma della decisione impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.12.2015 n. 5732 - ink a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sino a quanto un torrente (per lo più a secco durante l'anno) rimane iscritto nell'elenco delle acque pubbliche è sempre necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
Neanche l’appellante (e, per suo conto, il perito di parte) affermano l’inesistenza dell’impluvio o “vallone”, limitandosi a sostenere che quello in questione non avrebbe mai avuto, o comunque avrebbe nel tempo perduto le caratteristiche del “torrente”, necessarie a giustificare il regime di tutela (paesaggistica) differenziata.
Peraltro, nella relazione geologica presentata a corredo della domanda di permesso di costruire, si legge che “… il torrente La Morte … è caratterizzato da assenza di circolazione idrica superficiale significativa per molti mesi l’anno …”, così confermando la tesi di controparte secondo la quale, almeno per alcuni mesi, esiste un corpo idrico superficiale.
Sicché, una simile valutazione passa necessariamente per la revisione e modifica dei provvedimenti costitutivi del vincolo sul territorio, nel caso in esame (trattandosi sì di tutela paesaggistica ope legis, ma relativamente a corsi d’acqua minori) dell’elenco dei corsi d’acqua pubblici, e non può certo essere sostituita da un apprezzamento diretto effettuato in questa sede; in altri termini, l’appellante può coltivare l’iniziativa volta alla “derubricazione”, ma non può ottenere che a ciò provveda direttamente il giudice della legittimità dell’azione amministrativa.
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per effetto della sola presentazione della domanda di sanatoria non si determina la caducazione del provvedimento sanzionatorio già adottato (e l’improcedibilità della relativa impugnazione) ma soltanto la sua temporanea ineseguibilità.
All’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica, edilizia, paesaggistica ed ambientale; viceversa, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquisterà la sua efficacia, con decorrenza di un nuovo termine per l’esecuzione spontanea della demolizione.
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5.2. Vi è difetto di istruttoria e di motivazione sull’esistenza del torrente.
La tesi dell’appellante è che non vi sia mai stato un torrente, ma un piccolo impluvio (che si forma naturalmente per il deflusso delle acque meteoriche) denominato Vallone, evidenziato soltanto nella mappa catastale risalente al 1900, e che esso nel corso del tempo, vuoi per mutamenti oromorfologici, vuoi per mutamenti delle condizioni climatiche, si sia naturalmente prosciugato “lasciando al suo posto una strada pubblica (via Oliveto) – l’unica che, peraltro ora carrabile, conduce alla vicina frazione Marina”. “In effetti, la viabilità comunale è stata realizzata nell’ex alveo, che oggi è ridotto ad un piccolo fosso di scolo, privo di acqua, posto sul lato destro della carreggiata” (perizia di parte).
Mancherebbe dunque il presupposto della tutela paesaggistica.
5.3. Tanto più che l’appellante ha chiesto alla Regione, al Comune ed al Ministero che l’elenco dei corsi d’acqua venga aggiornato, ai sensi degli artt. 142, comma 3, del Codice, e 76 della l.r. 34/2002, derubricando il c.d. Vallone La Morte.
5.4. Quanto ai presupposti per l’esercizio dell’autotutela, essendo il Comune di Joppolo competente all’istruttoria finalizzata all’acquisizione del nulla osta paesaggistico, avrebbe dovuto sospendere gli effetti del provvedimento ed invitare l’appellante a produrre la relazione paesaggistica per coinvolgere nell’istruttoria la competente soprintendenza statale.
5.5. In generale, il Comune avrebbe dovuto verificare la possibilità di conservare il provvedimento e di pervenire alla sanatoria.
5.6. Il comportamento del Comune comporta eccesso di potere per sviamento e per violazione dei canoni di correttezza e buon andamento, posto che si è inteso incidere su un impianto di pubblica utilità già attivato, solo per sedare le preoccupazioni allarmistiche di isolati cittadini.
6. Si sono costituiti in giudizio, e controdeducono, il Comune di Joppolo ed un gruppo di cittadini di Joppolo residenti a poca distanza dall’impianto (già interventori ad opponendum in primo grado).
7. L’appellante ha, dichiaratamente, invertito l’ordine delle censure; ma al Collegio sembra confacente sul piano logico seguire l’ordine del ricorso introduttivo e della sentenza di primo grado.
7.1. Per quanto concerne la lamentata insussistenza dei presupposti dei provvedimenti impugnati, la tesi dell’appellante è che sul luogo a monte del quale è stato installato il palo che supporta gli impianti di comunicazione, vi sia ormai solo un fosso di scolo a margine della strada comunale, sulla quale si affacciano ristoranti ed altre attività commerciali, e che nessuna alterazione del paesaggio venga determinata dall’installazione del palo (a partire da una quota più alta di 10 metri).
La tesi non può essere seguita.
Anzitutto, perché una verificazione effettuata da un funzionario regionale afferma il contrario.
Ed anche perché, a ben vedere, neanche l’appellante (e, per suo conto, il perito di parte) affermano l’inesistenza dell’impluvio o “vallone”, limitandosi a sostenere che quello in questione non avrebbe mai avuto, o comunque avrebbe nel tempo perduto le caratteristiche del “torrente”, necessarie a giustificare il regime di tutela (paesaggistica) differenziata.
Peraltro, nella relazione geologica presentata a corredo della domanda di permesso di costruire, si legge che “… il torrente La Morte … è caratterizzato da assenza di circolazione idrica superficiale significativa per molti mesi l’anno …” (pag. 16), così confermando la tesi di controparte secondo la quale, almeno per alcuni mesi, esiste un corpo idrico superficiale.
In ogni caso, una simile valutazione passa necessariamente per la revisione e modifica dei provvedimenti costitutivi del vincolo sul territorio, nel caso in esame (trattandosi sì di tutela paesaggistica ope legis, ma relativamente a corsi d’acqua minori) dell’elenco dei corsi d’acqua pubblici, e non può certo essere sostituita da un apprezzamento diretto effettuato in questa sede; in altri termini, l’appellante può coltivare l’iniziativa volta alla “derubricazione”, ma non può ottenere che a ciò provveda direttamente il giudice della legittimità dell’azione amministrativa.
Tanto più che con d.C.C. n. 30/2008, il Comune aveva preso atto di uno studio geologico, commissionato per verificare quali corsi d’acqua meritassero di rimanere sottoposti a vincolo, che individuava i torrenti e i fiumi che non possiedono valore naturalistico, nell’ambito del quale, tuttavia, non era stato incluso il Vallone La Morte.
7.2. Una volta riscontrata la ricomprensione dell’impianto nel perimetro del vincolo paesaggistico, ne discendeva la necessità della previa autorizzazione paesaggistica, che però non è stata chiesta (a quanto sembra, anche il Comune si è avveduto della sua necessità solo a realizzazione avvenuta).
Dalla mancanza del presupposto di legittimità del titolo edilizio discende, ai sensi degli artt. 27, 32, comma 3, e 31, comma 1, del d.lgs. 380/2001, nonché dell’art. 167 del Codice, la necessità dell’adozione della sanzione ripristinatoria dello stato dei luoghi precedente alla realizzazione delle opere abusive (senza che, evidentemente, possa assumere alcun rilievo la correttezza o meno dell’indicazione, nel provvedimento, delle norme applicate), salva la presentazione di una domanda di sanatoria.
Non essendoci volumi edificati, sembra in astratto perseguibile un procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica in sanatoria, ai sensi degli artt. 146, comma 4, 167, commi 4 e 5, del Codice.
L’appellante ha presentato domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, del Codice, concernente gli effetti penali dell’abuso, ma che, ex art. 167, comma 5, si intende presentata anche agli effetti amministrativi.
Con nota prot. 231495 in data 17.07.2014, la Regione ha chiesto al Comune di Joppolo di presentare la documentazione prevista dalla d.G.R. n. 393/2009 – allegato 1.
L’appellante, in data 15.10.2014, ha diffidato il Comune ad evadere la richiesta e la Regione a concludere conseguentemente il procedimento.
7.3. Da ciò consegue che –impregiudicata ogni valutazione sul comportamento del Comune nel procedimento di sanatoria e in generale sulla responsabilità dell’inerzia lamentata dall’appellante- è corretta la valutazione del TAR in ordine all’impossibilità da parte del Comune di evitare il ripristino attraverso una ponderazione degli interessi, in quanto la compatibilità e quindi la possibilità della sanatoria dell’impianto travalicano, in base all’assetto delle competenze concretamente vigente in Calabria, l’ambito decisionale dell’ente locale.
In ogni caso, come sottolinea la difesa del Comune, la valutazione comparativa dell’interesse del privato non sarebbe stata necessaria in quanto il provvedimento era stato rilasciato a causa della errata rappresentazione dello stato dei luoghi (quanto alla distanza dal torrente) da parte dello stesso privato istante.
7.4. La pendenza dell’accertamento in sanatoria ha comunque effetti sul provvedimento ripristinatorio.
Il Collegio ritiene preferibile la tesi secondo la quale, per effetto della sola presentazione della domanda di sanatoria, non si determina la caducazione del provvedimento sanzionatorio già adottato (e l’improcedibilità della relativa impugnazione), ma soltanto la sua temporanea ineseguibilità.
All’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica, edilizia, paesaggistica ed ambientale; viceversa, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquisterà la sua efficacia, con decorrenza di un nuovo termine per l’esecuzione spontanea della demolizione.
Ciò non comporta che sia errata la pronuncia del TAR, per il fatto di non aver espressamente statuito l’ineseguibilità temporanea del ripristino dei luoghi. Quello dell’ineseguibilità è infatti un aspetto che verrebbe in rilievo in presenza di provvedimenti di esecuzione d’ufficio del ripristino o che comunque presuppongano l’inottemperanza all’ordine di demolizione (ulteriori sanzioni pecuniarie, acquisizione gratuita del sedime); provvedimenti che, in pendenza del procedimento di sanatoria, non risultano adottati.
8. In conclusione, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.12.2015 n. 5700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla questione interpretativa di stabilire cosa debba intendersi per “irregolarità essenziale”, ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006.
L'art. 39 del D.L. n. 90 del 2014, per le sole procedure bandite dopo la sua entrata in vigore, ha inserito il comma 2-bis all'art. 38 e il comma 1-ter all’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, introducendo una sanzione pecuniaria per la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive, obbligando la stazione appaltante ad assegnare al concorrente un termine non superiore a dieci giorni per la produzione o l'integrazione delle dichiarazioni carenti e imponendo l'esclusione nel solo caso di inosservanza di tale ultimo adempimento. In tal modo si è profondamente inciso il regime normativo delle dichiarazioni richieste ai fini dell'ammissione in gara. Il nuovo quadro normativo, infatti, è chiaramente orientato alla dequalificazione delle irregolarità dichiarative da fattori escludenti a carenze regolarizzabili o sanzionabili in via pecuniaria, soluzione questa che punta ad appurare il più possibile l'effettiva titolarità dei requisiti richiesti, senza vanificare o stravolgere l'esito della gara in ragione di mere carenze formali.
Le modifiche introdotte risultano, peraltro, finalizzate a superare le incertezze interpretative e applicative del combinato disposto degli artt. 38 e 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, mediante la procedimentalizzazione del potere di soccorso istruttorio (che diventa doveroso per ogni ipotesi di mancanza o di irregolarità delle dichiarazioni sostitutive) e la configurazione dell'esclusione dalla procedura come sanzione unicamente legittimata dall'omessa produzione, integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni carenti entro il termine assegnato dalla stazione appaltante (e non più da carenze originarie).
Come chiarito in giurisprudenza, la nuova disposizione “offre, quale indice ermeneutico, l'argomento della chiara volontà del legislatore di evitare (nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell'ammissione alla gara delle offerte presentate) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni), di imporre un'istruttoria veloce, ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni (prima della valutazione dell'ammissibilità della domanda), e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell'impresa concorrente, all'obbligo di integrazione documentale (entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante)”.
Come chiarito anche dall’Anac, “La nuova previsione, dunque, esclusivamente per i casi della mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2, prevede l’obbligo del concorrente di pagare, in favore della stazione appaltante, la sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria, e ciò, è da ritenere, solamente al fine di poter integrare e regolarizzare le relative omissioni e/o carenze. L’esclusione del concorrente dalla gara, invece, sarà disposta dalla stazione appaltante esclusivamente a seguito dell’inutile decorso del termine assegnato ai fini della regolarizzazione (cioè senza che il concorrente integri o regolarizzi le dichiarazioni carenti o irregolari).
La finalità della disposizione è sicuramente quella di evitare l’esclusione dalla gara per mere carenze documentali -ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni- imponendo a tal fine un’istruttoria veloce ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni, prima della valutazione dell’ammissibilità dell’offerta o della domanda, e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, all’obbligo di integrazione documentale entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante.
Sulla base di tale disposizione, pertanto, ai fini della partecipazione alla gara, assume rilievo l’effettiva sussistenza dei requisiti di ordine generale in capo ai concorrenti e non le formalità né la completezza del contenuto della dichiarazione resa a dimostrazione del possesso dei predetti requisiti. Si conferma in tal modo l’orientamento giurisprudenziale a tenore del quale occorre dare prevalenza al dato sostanziale (la sussistenza dei requisiti) rispetto a quello formale (completezza delle autodichiarazioni rese dai concorrenti) e, dunque, l’esclusione dalla gara potrà essere disposta non più in presenza di dichiarazione incompleta, o addirittura omessa, ma esclusivamente nel caso in cui il concorrente non ottemperi alla richiesta della stazione appaltante ovvero non possieda, effettivamente, il requisito.
Sotto tale profilo, la novella in esame sembra finalizzata, altresì, alla deflazione del contenzioso derivante da provvedimenti di esclusione dalle gare d’appalto, per vizi formali –cui non corrisponda l’interesse sostanziale alla reale affidabilità del concorrente– sulle dichiarazioni rese dai partecipanti, con conseguente possibile riduzione dei casi di annullamento e di sospensione dei provvedimenti di aggiudicazione, ciò che, peraltro, si desume dalla collocazione dello stesso art. 39, nel Titolo IV del d.l. 90/2014 conv. in l. 114/2014, dedicato alle «misure per lo snellimento del processo amministrativo e l’attuazione del processo civile telematico», come sopra già accennato”.
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Tanto premesso in termini generali, osserva il Collegio che l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2015 non specifica alcunché in ordine al concetto di essenzialità delle irregolarità, lasciando alle singole Stazioni appaltanti il compito di individuare i casi nei quali è consentita la produzione, l’integrazione e la regolarizzazione degli elementi e delle dichiarazioni di cui all’art. 38, commi 1 e 2, ovvero degli altri requisiti di partecipazione ai sensi dell’estensione operata dal comma 1-ter dell’art. 46, secondo cui “le disposizioni di cui all'articolo 38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
Come chiarito dall’Anac, “è ragionevole ritenere che, con la nozione di irregolarità essenziale, il legislatore abbia voluto riferirsi ad ogni irregolarità nella redazione della dichiarazione, oltre all’omissione e all’incompletezza, che non consenta alla stazione appaltante di individuare con chiarezza il soggetto ed il contenuto della dichiarazione stessa, ai fini dell’individuazione dei singoli requisiti di ordine generale che devono essere posseduti dal concorrente e, in alcuni casi, per esso dai soggetti specificamente indicati dallo stesso art. 38, comma 1, del Codice.
Tale interpretazione si desume, oltre che dalla ratio sottesa alla norma –che, peraltro, nel prevedere una specifica sanzione pecuniaria, intende realizzare l’obiettivo di evitare che a fronte della generale sanabilità delle carenze e delle omissioni, gli operatori siano indotti a produrre dichiarazioni da cui non si evinca il reale possesso dei singoli requisiti generali e l’esatta individuazione dei soggetti che devono possederli anche da un dato testuale della medesima, che assume maggior pregnanza da una lettura sistematica dei primi due periodi del citato comma 2-bis.
Infatti, nel secondo periodo della norma appena richiamata è espressamente stabilito che nei casi di irregolarità essenziale «la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere». L’espresso riferimento al contenuto delle dichiarazioni ed ai soggetti che le devono prestare, rende palese l’intento del legislatore di estendere l’applicazione della norma a tutte le carenze –in termini di omissioni, incompletezze e irregolarità– riferite agli elementi ed alle dichiarazioni di cui all’art. 38 nonché agli aspetti relativi all’identificazione dei centri di imputabilità delle dichiarazioni stesse”.
In conclusione, ad avviso dell’Anac, “le carenze essenziali riguardano l’impossibilità di stabilire se il singolo requisito contemplato dal comma 1 dell’art. 38 sia posseduto o meno e da quali soggetti (indicati dallo stesso articolo). Ciò che si verifica nei casi in cui:
a. non sussiste dichiarazione in merito ad una specifica lettera del comma 1 dell’art. 38 del Codice;
b. la dichiarazione sussiste ma non da parte di uno dei soggetti o con riferimento ad uno dei soggetti che la norma individua come titolare del requisito;
c. la dichiarazione sussiste ma dalla medesima non si evince se il requisito sia posseduto o meno”.
Con specifico riferimento all’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006, poi, la determinazione n. 1 del 2015 sottolinea come “la novella normativa introdotta dall’art. 39 del d.l. 90/2014 conv. in l. 114/2014, con riferimento alle previsioni di cui all’art. 46 del Codice, determini un superamento dei principi [giurisprudenziali], comportando un’inversione radicale di principio; inversione in base alla quale è generalmente sanabile qualsiasi carenza, omissione o irregolarità, con il solo limite intrinseco dell’inalterabilità del contenuto dell’offerta, della certezza in ordine alla provenienza della stessa, del principio di segretezza che presiede alla presentazione della medesima e di inalterabilità delle condizioni in cui versano i concorrenti al momento della scadenza del termine per la partecipazione alla gara”.
Poiché il comma 1-ter citato stabilisce che le disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis, si applicano ad ogni ipotesi di mancanza, di incompletezza o di irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara, può ben ritenersi che “sia consentito in sede di gara procedere alla sanatoria di ogni omissione o incompletezza documentale, superando l’illustrato limite della sola integrazione e regolarizzazione di quanto già dichiarato e prodotto in gara. Inoltre, il riferimento ivi contenuto anche agli elementi e non solo alle dichiarazioni, consente un’estensione dell’istituto del soccorso istruttorio a tutti i documenti da produrre in gara, in relazione ai requisiti di partecipazione ma non anche per supplire a carenze dell’offerta”.
Ad avviso dell’Anac, “la novella in esame [ha] sì confermato le fattispecie ascrivibili alla categoria delle cause tassative di esclusione (l’art. 39 del d.l. 90/2014 non interviene, infatti, sui commi 1 e 1-bis dell’art. 46) ma, operando “a valle” di tale individuazione, consent[e], ora, che siano resi, integrati o regolarizzati (nella fase iniziale della gara) anche gli elementi e le dichiarazioni (anche di terzi) prescritti dalla legge, dal bando o dal disciplinare di gara, la cui assenza o irregolarità sotto la previgente disciplina determinavano l’esclusione dalla gara (si tratta di ipotesi, evidentemente, ulteriori rispetto alle dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, del Codice). Pertanto, ove vi sia un’omissione, incompletezza, irregolarità di una dichiarazione con carattere dell’essenzialità –da individuarsi come tale in applicazione della disciplina sulla cause tassative di esclusione– la stazione appaltante non potrà più procedere direttamente all’esclusione del concorrente ma dovrà avviare il procedimento contemplato nell’art. 38, comma 2-bis del Codice, volto alla irrogazione della sanzione pecuniaria ivi prevista ed alla sanatoria delle irregolarità rilevate”.
Insomma, “le irregolarità essenziali, ai fini di quanto previsto dall’art. 38, comma 2-bis, coincidono con le irregolarità che attengono a dichiarazioni ed elementi inerenti le cause tassative di esclusione (come individuate nella determinazione n. 4/2012), previste nel bando, nella legge o nel disciplinare di gara, in ordine alle quali non è più consentito procedere ad esclusione del concorrente prima della richiesta di regolarizzazione da parte della stazione appaltante –fatta eccezione per quelli che afferiscono all’offerta nei termini sopra indicati- come specificato nei successivi paragrafi”.
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Ritiene il Collegio che questa interpretazione sia condivisibile, sotto un duplice profilo.
In primo luogo, contrariamente a quanto dedotto dalla Stazione appaltante, anche ai fini dell’art. 46, comma 1-ter, citato assume rilievo la nozione di “irregolarità essenziale”: la norma in esame, infatti, si limita ad estendere le disposizioni di cui art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 162 del 2006 ad ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara.
L’intera disposizione di cui all’art. 38, comma 2-bis –e quindi anche la distinzione tra irregolarità essenziali, che impongono il soccorso istruttorio e l’applicazione della sanzione pecuniaria, e irregolarità non essenziali, a fronte delle quali invece nessuna integrazione o regolarizzazione documentale può essere chiesta dalla Stazione appaltante né alcuna sanzione può essere irrogata– trova pertanto applicazione alle carenze ed omissioni relative ai requisiti di partecipazione diversi da quelli di ordine generale.
Non può certo ritenersi, infatti, che per essi sia previsto un regime diverso e più rigoroso, che imponga alla Stazione appaltante di procedere al soccorso istruttorio e di irrogare la sanzione pecuniaria per qualsiasi tipo di irregolarità, ovvero anche per quelle non essenziali. Ciò comporterebbe non solo una palese violazione della lettera e della ratio della disposizione normativa, ma altresì una lesione del principio di ragionevolezza ed uguaglianza.
In secondo luogo, ritiene il Tribunale di condividere la lettura interpretativa fornita dall’Anac, secondo cui l’art. 46, comma 1-ter, citato consente di regolarizzare gli elementi e le dichiarazioni prescritti dalla legge, dal bando o dal disciplinare di gara, la cui assenza o irregolarità sotto la previgente disciplina avrebbe determinato l’esclusione dalla gara.
Il carattere dell’essenzialità dell’irregolarità, quindi, è da individuarsi “in applicazione della disciplina sulla cause tassative di esclusione”, nel senso che esso ricorre quando le irregolarità attengono a dichiarazioni ed elementi che, precedentemente all’introduzione della nuova disciplina, avrebbero giustificato l’esclusione dalla procedura di gara.
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2. Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto per le seguenti ragioni.
2.1. Oggetto di gravame sono: il provvedimento n. 5669 del 2015, con cui la Asl di Teramo ha applicato alla società ricorrente la sanzione pecuniaria di cui all’art. 38, comma 2-bis, e all’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006, a causa della mancata dimostrazione, da parte della concorrente, del possesso della certificazione del sistema di qualità UNI CEI ISO 9000 che, ai sensi dell’art. 75, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, le avrebbe consentito di avvalersi del beneficio della riduzione del 50% della cauzione provvisoria, considerando detta irregolarità essenziale, il provvedimento n. 582371 del 2015 che ha confermato l’applicazione della sanzione pecuniaria di cui si è detto, il provvedimento n. 58251 del 2015 con cui la Stazione appaltante ha conseguentemente escusso la polizza Carige ed infine il provvedimento n. 58582 del 2015 con cui, a seguito del deposito da parte della concorrente dei documenti e delle dichiarazioni mancanti, è stata riammessa in gara.
Con un gruppo di censure, parte ricorrente ha denunciato violazione di legge ed eccesso di potere, in quanto l’irregolarità riscontrata dalla Stazione appaltante non sarebbe essenziale e, quindi, non avrebbe dovuto portare all’irrogazione della sanzione di cui all’art. 38, comma 2-bis, e all’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Ed invero, la Stazione appaltante ha riscontrato, con la nota n. 5669 del 2015, tra l’altro, una violazione dell’art. 10, lett. B), punto 5, del disciplinare di gara e, precisamente, una non regolare costituzione della cauzione provvisoria a garanzia di offerta, secondo quanto disposto dall’art. 75 del d.lgs. n. 163 del 2006. L’importo della polizza fideiussoria presentata, infatti, era inferiore del 50% rispetto a quanto previsto dalla legge di gara e non risultava documentato il possesso della certificazione del sistema di qualità UNI CEI ISO 9000 che, ai sensi dell’art. 75, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, avrebbe consentito di avvalersi del beneficio della riduzione del 50% della cauzione provvisoria.
Ad avviso della Stazione appaltante, questa irregolare costituzione della cauzione provvisoria giustificava l’attivazione del soccorso istruttorio e l’irrogazione della sanzione di cui agli artt. 38, comma 2 bis, e 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006.
La sollevata censura pone il problema interpretativo di stabilire cosa debba intendersi per “irregolarità essenziale”, ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006.
2.2. Ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, come modificato inserito dall'art. 39, comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114, “La mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara (…)”.
L’art. 46, comma 1-ter, del medesimo testo normativo, anch’esso aggiunto dall'art. 39, comma 2, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114, stabilisce che “Le disposizioni di cui articolo 38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
L'art. 39 del D.L. n. 90 del 2014, insomma, per le sole procedure bandite dopo la sua entrata in vigore, ha inserito il comma 2-bis all'art. 38 e il comma 1-ter all’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, introducendo –come si è visto– una sanzione pecuniaria per la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive, obbligando la stazione appaltante ad assegnare al concorrente un termine non superiore a dieci giorni per la produzione o l'integrazione delle dichiarazioni carenti e imponendo l'esclusione nel solo caso di inosservanza di tale ultimo adempimento. In tal modo si è profondamente inciso il regime normativo delle dichiarazioni richieste ai fini dell'ammissione in gara. Il nuovo quadro normativo, infatti, è chiaramente orientato alla dequalificazione delle irregolarità dichiarative da fattori escludenti a carenze regolarizzabili o sanzionabili in via pecuniaria, soluzione questa che punta ad appurare il più possibile l'effettiva titolarità dei requisiti richiesti, senza vanificare o stravolgere l'esito della gara in ragione di mere carenze formali (Tar Valle d’Aosta, n. 25 del 2015).
Le modifiche introdotte risultano, peraltro, finalizzate a superare le incertezze interpretative e applicative del combinato disposto degli artt. 38 e 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, mediante la procedimentalizzazione del potere di soccorso istruttorio (che diventa doveroso per ogni ipotesi di mancanza o di irregolarità delle dichiarazioni sostitutive) e la configurazione dell'esclusione dalla procedura come sanzione unicamente legittimata dall'omessa produzione, integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni carenti entro il termine assegnato dalla stazione appaltante (e non più da carenze originarie) (C.d.S. n. 5890 del 2014).
Come chiarito in giurisprudenza, la nuova disposizione “offre, quale indice ermeneutico, l'argomento della chiara volontà del legislatore di evitare (nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell'ammissione alla gara delle offerte presentate) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni), di imporre un'istruttoria veloce, ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni (prima della valutazione dell'ammissibilità della domanda), e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell'impresa concorrente, all'obbligo di integrazione documentale (entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante)” (C.d.S. n. 5890 del 2014).
Come chiarito anche dall’Anac, nella determinazione n. 1 del 2015, “La nuova previsione, dunque, esclusivamente per i casi della mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2, prevede l’obbligo del concorrente di pagare, in favore della stazione appaltante, la sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria, e ciò, è da ritenere, solamente al fine di poter integrare e regolarizzare le relative omissioni e/o carenze. L’esclusione del concorrente dalla gara, invece, sarà disposta dalla stazione appaltante esclusivamente a seguito dell’inutile decorso del termine assegnato ai fini della regolarizzazione (cioè senza che il concorrente integri o regolarizzi le dichiarazioni carenti o irregolari).
La finalità della disposizione è sicuramente quella di evitare l’esclusione dalla gara per mere carenze documentali -ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni- imponendo a tal fine un’istruttoria veloce ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni, prima della valutazione dell’ammissibilità dell’offerta o della domanda, e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, all’obbligo di integrazione documentale entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante (in tal senso, Ad. Pl. Cons. St. n. 16/2014 cit.).
Sulla base di tale disposizione, pertanto, ai fini della partecipazione alla gara, assume rilievo l’effettiva sussistenza dei requisiti di ordine generale in capo ai concorrenti e non le formalità né la completezza del contenuto della dichiarazione resa a dimostrazione del possesso dei predetti requisiti. Si conferma in tal modo l’orientamento giurisprudenziale a tenore del quale occorre dare prevalenza al dato sostanziale (la sussistenza dei requisiti) rispetto a quello formale (completezza delle autodichiarazioni rese dai concorrenti) e, dunque, l’esclusione dalla gara potrà essere disposta non più in presenza di dichiarazione incompleta, o addirittura omessa, ma esclusivamente nel caso in cui il concorrente non ottemperi alla richiesta della stazione appaltante ovvero non possieda, effettivamente, il requisito.
Sotto tale profilo, la novella in esame sembra finalizzata, altresì, alla deflazione del contenzioso derivante da provvedimenti di esclusione dalle gare d’appalto, per vizi formali –cui non corrisponda l’interesse sostanziale alla reale affidabilità del concorrente– sulle dichiarazioni rese dai partecipanti, con conseguente possibile riduzione dei casi di annullamento e di sospensione dei provvedimenti di aggiudicazione, ciò che, peraltro, si desume dalla collocazione dello stesso art. 39, nel Titolo IV del d.l. 90/2014 conv. in l. 114/2014, dedicato alle «misure per lo snellimento del processo amministrativo e l’attuazione del processo civile telematico
», come sopra già accennato”.
2.3. Tanto premesso in termini generali, osserva il Collegio che l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2015 non specifica alcunché in ordine al concetto di essenzialità delle irregolarità, lasciando alle singole Stazioni appaltanti il compito di individuare i casi nei quali è consentita la produzione, l’integrazione e la regolarizzazione degli elementi e delle dichiarazioni di cui all’art. 38, commi 1 e 2, ovvero degli altri requisiti di partecipazione ai sensi dell’estensione operata dal comma 1-ter dell’art. 46, secondo cui “le disposizioni di cui all'articolo 38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
Come chiarito dall’Anac nella determinazione n. 1 del 2015, “è ragionevole ritenere che, con la nozione di irregolarità essenziale, il legislatore abbia voluto riferirsi ad ogni irregolarità nella redazione della dichiarazione, oltre all’omissione e all’incompletezza, che non consenta alla stazione appaltante di individuare con chiarezza il soggetto ed il contenuto della dichiarazione stessa, ai fini dell’individuazione dei singoli requisiti di ordine generale che devono essere posseduti dal concorrente e, in alcuni casi, per esso dai soggetti specificamente indicati dallo stesso art. 38, comma 1, del Codice.
Tale interpretazione si desume, oltre che dalla ratio sottesa alla norma –che, peraltro, nel prevedere una specifica sanzione pecuniaria, intende realizzare l’obiettivo di evitare che a fronte della generale sanabilità delle carenze e delle omissioni, gli operatori siano indotti a produrre dichiarazioni da cui non si evinca il reale possesso dei singoli requisiti generali e l’esatta individuazione dei soggetti che devono possederli  anche da un dato testuale della medesima, che assume maggior pregnanza da una lettura sistematica dei primi due periodi del citato comma 2-bis.
Infatti, nel secondo periodo della norma appena richiamata è espressamente stabilito che nei casi di irregolarità essenziale «la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere». L’espresso riferimento al contenuto delle dichiarazioni ed ai soggetti che le devono prestare, rende palese l’intento del legislatore di estendere l’applicazione della norma a tutte le carenze –in termini di omissioni, incompletezze e irregolarità– riferite agli elementi ed alle dichiarazioni di cui all’art. 38 nonché agli aspetti relativi all’identificazione dei centri di imputabilità delle dichiarazioni stesse
”.
In conclusione, ad avviso dell’Anac, “le carenze essenziali riguardano l’impossibilità di stabilire se il singolo requisito contemplato dal comma 1 dell’art. 38 sia posseduto o meno e da quali soggetti (indicati dallo stesso articolo). Ciò che si verifica nei casi in cui:
a. non sussiste dichiarazione in merito ad una specifica lettera del comma 1 dell’art. 38 del Codice;
b. la dichiarazione sussiste ma non da parte di uno dei soggetti o con riferimento ad uno dei soggetti che la norma individua come titolare del requisito;
c. la dichiarazione sussiste ma dalla medesima non si evince se il requisito sia posseduto o meno
”.
Con specifico riferimento all’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006, poi, la determinazione n. 1 del 2015 sottolinea come “la novella normativa introdotta dall’art. 39 del d.l. 90/2014 conv. in l. 114/2014, con riferimento alle previsioni di cui all’art. 46 del Codice, determini un superamento dei principi [giurisprudenziali], comportando un’inversione radicale di principio; inversione in base alla quale è generalmente sanabile qualsiasi carenza, omissione o irregolarità, con il solo limite intrinseco dell’inalterabilità del contenuto dell’offerta, della certezza in ordine alla provenienza della stessa, del principio di segretezza che presiede alla presentazione della medesima e di inalterabilità delle condizioni in cui versano i concorrenti al momento della scadenza del termine per la partecipazione alla gara”.
Poiché il comma 1-ter citato stabilisce che le disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis, si applicano ad ogni ipotesi di mancanza, di incompletezza o di irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara, può ben ritenersi che “sia consentito in sede di gara procedere alla sanatoria di ogni omissione o incompletezza documentale, superando l’illustrato limite della sola integrazione e regolarizzazione di quanto già dichiarato e prodotto in gara. Inoltre, il riferimento ivi contenuto anche agli elementi e non solo alle dichiarazioni, consente un’estensione dell’istituto del soccorso istruttorio a tutti i documenti da produrre in gara, in relazione ai requisiti di partecipazione ma non anche per supplire a carenze dell’offerta”.
Ad avviso dell’Anac, “la novella in esame [ha] sì confermato le fattispecie ascrivibili alla categoria delle cause tassative di esclusione (l’art. 39 del d.l. 90/2014 non interviene, infatti, sui commi 1 e 1-bis dell’art. 46) ma, operando “a valle” di tale individuazione, consent[e], ora, che siano resi, integrati o regolarizzati (nella fase iniziale della gara) anche gli elementi e le dichiarazioni (anche di terzi) prescritti dalla legge, dal bando o dal disciplinare di gara, la cui assenza o irregolarità sotto la previgente disciplina determinavano l’esclusione dalla gara (si tratta di ipotesi, evidentemente, ulteriori rispetto alle dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, del Codice). Pertanto, ove vi sia un’omissione, incompletezza, irregolarità di una dichiarazione con carattere dell’essenzialità –da individuarsi come tale in applicazione della disciplina sulla cause tassative di esclusione– la stazione appaltante non potrà più procedere direttamente all’esclusione del concorrente ma dovrà avviare il procedimento contemplato nell’art. 38, comma 2-bis del Codice, volto alla irrogazione della sanzione pecuniaria ivi prevista ed alla sanatoria delle irregolarità rilevate”.
Insomma, “le irregolarità essenziali, ai fini di quanto previsto dall’art. 38, comma 2-bis, coincidono con le irregolarità che attengono a dichiarazioni ed elementi inerenti le cause tassative di esclusione (come individuate nella determinazione n. 4/2012), previste nel bando, nella legge o nel disciplinare di gara, in ordine alle quali non è più consentito procedere ad esclusione del concorrente prima della richiesta di regolarizzazione da parte della stazione appaltante –fatta eccezione per quelli che afferiscono all’offerta nei termini sopra indicati- come specificato nei successivi paragrafi”.
Ritiene il Collegio che questa interpretazione sia condivisibile, sotto un duplice profilo.
In primo luogo, contrariamente a quanto dedotto dalla Stazione appaltante, anche ai fini dell’art. 46, comma 1-ter, citato assume rilievo la nozione di “irregolarità essenziale”: la norma in esame, infatti, si limita ad estendere le disposizioni di cui art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 162 del 2006 ad ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara.
L’intera disposizione di cui all’art. 38, comma 2-bis –e quindi anche la distinzione tra irregolarità essenziali, che impongono il soccorso istruttorio e l’applicazione della sanzione pecuniaria, e irregolarità non essenziali, a fronte delle quali invece nessuna integrazione o regolarizzazione documentale può essere chiesta dalla Stazione appaltante né alcuna sanzione può essere irrogata– trova pertanto applicazione alle carenze ed omissioni relative ai requisiti di partecipazione diversi da quelli di ordine generale.
Non può certo ritenersi, infatti, che per essi sia previsto un regime diverso e più rigoroso, che imponga alla Stazione appaltante di procedere al soccorso istruttorio e di irrogare la sanzione pecuniaria per qualsiasi tipo di irregolarità, ovvero anche per quelle non essenziali. Ciò comporterebbe non solo una palese violazione della lettera e della ratio della disposizione normativa, ma altresì una lesione del principio di ragionevolezza ed uguaglianza.
In secondo luogo, ritiene il Tribunale di condividere la lettura interpretativa fornita dall’Anac, secondo cui l’art. 46, comma 1-ter, citato consente di regolarizzare gli elementi e le dichiarazioni prescritti dalla legge, dal bando o dal disciplinare di gara, la cui assenza o irregolarità sotto la previgente disciplina avrebbe determinato l’esclusione dalla gara. Il carattere dell’essenzialità dell’irregolarità, quindi, è da individuarsi “in applicazione della disciplina sulla cause tassative di esclusione”, nel senso che esso ricorre quando le irregolarità attengono a dichiarazioni ed elementi che, precedentemente all’introduzione della nuova disciplina, avrebbero giustificato l’esclusione dalla procedura di gara.
Nel caso di specie, l’art. 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 è stato applicato dalla Asl di Teramo, con conseguente attivazione del soccorso istruttorio e irrogazione della relativa sanzione pecuniaria, a causa dell’irregolare costituzione della cauzione provvisoria a garanzia dell’offerta: l’importo della polizza fideiussoria presentata, infatti, è inferiore del 50% rispetto a quanto previsto dall’art. 10, lett. B), punto 5, del disciplinare di gara e non risulta documentato il possesso della certificazione del sistema di qualità UNI CEI ISO 9000 che, ai sensi dell’art. 75, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, avrebbe consentito di avvalersi del beneficio della riduzione del 50% della cauzione provvisoria.
Tuttavia, osserva il Collegio che, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, in applicazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, la presentazione di una cauzione provvisoria affetta da irregolarità non costituisce causa di esclusione dalla gara. Ciò in quanto l'art. 75, commi 1 e 6, del d.lgs. 163 del 2006, che prescrive l'obbligo di corredare l'offerta di una garanzia pari al 2 % del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente, a garanzia della serietà dell'impegno di sottoscrivere il contratto e quale liquidazione preventiva e forfettaria del danno in caso di mancata stipula per fatto dell'affidatario, non prevede alcuna sanzione di inammissibilità dell'offerta o di esclusione del concorrente per l'ipotesi di irregolarità della cauzione provvisoria, a differenza di quanto prevede, invece, il comma 8 dello stesso art. 75, con riferimento alla garanzia fideiussoria del 10% dell'importo contrattuale per l'esecuzione del contratto, qualora l'offerente risultasse affidatario (Tar Bolzano, n. 145 del 2015).
Ne consegue che le irregolarità concernenti la cauzione provvisoria comunque prestata nei termini previsti dalla "lex specialis" non possono condurre all'esclusione dalla competizione, dovendosi far luogo alla loro regolarizzazione (Cons. Stato, n. 4764 del 2015; Cons. Stato, n. 147 del 2015).
Nel caso di specie, la cauzione provvisoria è stata prestata dalla società ricorrente, ancorché in misura ridotta del 50% rispetto a quanto prescritto dal disciplinare di gara: ciò perché la concorrente era in possesso della certificazione del sistema di qualità UNI CEI ISO 9000 che, ai sensi dell’art. 75, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, le consentiva appunto di avvalersi del beneficio della riduzione del 50%.
L’unica irregolarità in cui è incorsa la società ricorrente è stata quella del mancato deposito di detta certificazione che, tuttavia, ella possedeva e che, afferendo al più alla irregolare costituzione della cauzione provvisoria a garanzia dell’offerta, non può considerarsi, per quanto sopra detto, di carattere essenziale. Non si tratta, infatti, di omissione nella produzione documentale, a fronte della quale, prima della novella del 2014, la Stazione appaltante avrebbe potuto comminare l’esclusione dalla procedura di gara.
Ne consegue che la Stazione appaltante non poteva, a fronte di detta omessa produzione, irrogare la sanzione pecuniaria di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006, trattandosi appunto di irregolarità non essenziale (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 17.12.2015 n. 833 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire.
Si è in presenza di "varianti essenziali" al permesso di costruire (e non già in presenza di un'ipotesi di "difformità totale") laddove le prime sono caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate da un consistente, nei termini e nelle percentuali individuate dalla legge regionale, aumento della superficie utile lorda e della cubatura assentite, e dal regolamento edilizio.
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In materia urbanistica, la nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire costituisce una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e quella parziale, sanzionata dall'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Pertanto non rileva nella fattispecie la novella ex art. 17, comma 1, lett. n) decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164 che, tra l'altro, nell'affermare che il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito, fa salve, in ogni caso, le diverse previsioni da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, pacificamente disattese nel caso di specie e la cui violazione trova presidio proprio nella fattispecie ex art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 che punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dai regolamenti edilizi nonché dalla normativa urbanistica statale e regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
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2. L'inammissibilità del primo motivo di ricorso deriva dal fatto che esso è del tutto disarticolato rispetto alle ragioni della decisione.
Il tribunale non ha infatti ritenuto che gli abusi fossero consistiti in una modificazione della destinazione d'uso tale da determinare un'ipotesi di difformità totale ma esclusivamente in una "variazione essenziale" al permesso di costruire e alle successive varianti, avendo affermato che sono state disattese le norme, di cui all'articolo 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e di cui all'articolo 6 L.R. Piemonte n. 56 del 1977 e successive modifiche in quanto dagli interventi è derivato un aumento di entità superiore al 5% della superficie utile lorda e della volumetria, oltre ad essere state disattese le previsioni di cui all'articolo 20, comma 2, lett. d), del regolamento edilizio (al piano interrato -destinato a locale di sgombero/cantina/deposito- erano stati realizzati locali con caratteristica di finiture di civile abitazione ed in particolare un locale taverna dotato di forno pizza, tavolo frigorifero, cronotermostato ed un locale camera arredata con letto matrimoniale addossato alla parete ed un locale sauna-idromassaggio attrezzato con vasca idromassaggio e sauna, oltre a un locale deposito, ufficio, relax e locale tecnico ospitante gli impianti tecnologici) nonché dell'articolo 20, comma 2, lett. e) del regolamento edilizio (al primo piano (sottotetto) si constatava l'accorpamento di tutta la manica di "sottotetto non accessibile" alla camera e al bagno con conseguente incremento di superficie utile lorda ed inoltre l'incremento dell'altezza del colmo della falda di copertura al lato nordovest con maggiore altezza interna dei locali in misura eccedente il progetto autorizzato).
Il tribunale ha osservato che
si è, nel caso di specie, in presenza di "varianti essenziali" al permesso di costruire (e non già in presenza di un'ipotesi di "difformità totale") caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate da un consistente, nei termini e nelle percentuali individuate dalla legge regionale, aumento della superficie utile lorda e della cubatura assentite, e dal regolamento edilizio.
Nel pervenire a tale conclusione, il tribunale si è attenuto alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale,
in materia urbanistica, la nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire costituisce una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e quella parziale, sanzionata dall'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, n. 41167 del 17/04/2012, Ingrosso, Rv. 253599).
Pertanto non rileva nella fattispecie la novella ex art. 17, comma 1, lett. n), decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164 che, tra l'altro, nell'affermare che il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito, fa salve, in ogni caso, le diverse previsioni da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, pacificamente disattese nel caso di specie e la cui violazione trova presidio proprio nella fattispecie ex art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 che punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dai regolamenti edilizi nonché dalla normativa urbanistica statale e regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
Né, in presenza di una definizione del processo con il rito abbreviato e dunque allo stato degli atti, la ricorrente può reclamare il mancato accesso -peraltro del tutto discutibile in considerazione dei risultati probatori conseguiti come in precedenza segnalati e del tutto sottovalutati con l'articolazione della doglianza- ad alternative istruttorie o a sospensioni del processo in attesa di una sanatoria o di una regolarizzazione degli abusi
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.12.2015 n. 49583).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti pubblicitari, fuorilegge il divieto totale.
La giunta municipale non può deliberare un generico divieto di installazione assoluta di cartelli pubblicitari sul suolo demaniale. In questo modo infatti il comune inibisce arbitrariamente qualsiasi attività imprenditoriale lecita.

Lo ha chiarito il TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, con la sentenza 15.12.2015 n. 556.
Il comune di Tavagnacco ha rigettato la domanda di rinnovo di un impianto pubblicitario per contrasto della richiesta con una sopravvenuta deliberazione della giunta che nel fissare le linee guida per l'installazione degli impianti pubblicitari ne vieta la posa su tutto il territorio, al di fuori degli impianti specificamente adibiti alle pubbliche affissioni.
Contro questa determinazione di rifiuto l'interessato ha proposto con successo ricorso ai giudici amministrativi.
La giunta comunale non può arbitrariamente fissare un divieto generico e assoluto di installazione di impianti pubblicitari. L'amministrazione locale deve infatti comparare i diversi interessi coinvolti e valutare caso per caso le determinazioni più opportune. Le linee guida della giunta non possono sostituirsi ai regolamenti e non possono impedire in maniera totale le installazioni pubblicitarie (articolo ItaliaOggi del 05.01.2016).
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MASSIMA
6.1. Il primo motivo di impugnazione è infondato.
Il rinnovo dell’autorizzazione è stato correttamente assoggettato alle linee guida assunte dalla deliberazione di Giunta medio tempore approvata.
Invero,
il rinnovo è pur sempre un nuovo provvedimento autorizzatorio e non un atto meramente conformativo, conseguentemente esso è adottato all’esito di una aggiornata ponderazione degli interessi coinvolti e di un nuovo apprezzamento della situazione fattuale, nonché sulla scorta della normativa vigente in quel momento, secondo il principio del tempus regit actum (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2356/2015).
Diversamente, infatti, si finirebbe, da un lato, per attribuire ultravigenza a una disciplina oramai abrogata, e, dall’altro lato, per limitare fortemente la potestà normativa del Comune, consentendogli di incidere esclusivamente sugli impianti pubblicitari di nuova installazione, e non anche su quelli in passato già autorizzati.

6.2.1. Conformemente al criterio ermeneutico di conservazione, le linee guida contenute nella richiamata deliberazione giuntale devono intendersi come applicabili alle sole ipotesi in cui la competenza al rilascio dell’autorizzazione sia comunale, con esclusione, quindi, delle ipotesi in cui tale competenza spetti ad altra Autorità.
6.2.2. Di contro, come già osservato da questo Tribunale in sede cautelare,
la deliberazione giuntale impugnata è illegittima per aver fissato un divieto generico e assoluto di installazione di cartelli pubblicitari su suolo demaniale (cfr., TAR Veneto, Sez. III, sentenza n. 339/2006; TAR Toscana, Sez. I, sentenza n. 404/1998): è pertanto fondato, in parte qua, il secondo motivo di impugnazione.
Invero,
a fronte di un’attività imprenditoriale lecita, quale quella in esame, l’Amministrazione deve valutare caso per caso, nella comparazione dei diversi interessi coinvolti, ivi compreso quello alla sicurezza e fluidità della circolazione stradale, e quello al decoro urbano e all’armonico utilizzo del territorio, se rilasciare o meno il richiesto provvedimento ampliativo .
Ben può l’organo di governo dell’Ente fornire delle linee guida alla struttura burocratica, purché si tratti di indirizzi di massima e che comunque non impediscano totalmente il rilascio delle autorizzazioni in questione.

EDILIZIA PRIVATAE’ ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme".
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che ha avuto modo di precisare che “ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non- incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione.
La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nullaosta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario.
L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il Giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”;
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che per costruire in area vincolata non è sufficiente l’autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che laddove l’autorizzazione manchi la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all’art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 [di recente: Cassazione penale sez. III 07/10/2014 n. 952: “i climatizzatori/condizionatori d'aria costituiscono impianti tecnologici e, pertanto, se collocati all'esterno dei fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, sicché la loro realizzazione o installazione, seppure non necessitante del permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di inizio di attività (s.c.i.a.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R. cit., non rientrando tra gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo. In ogni caso, poiché anche l'attività edilizia c.d. libera deve essere attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, ne consegue che ove l'installazione di condizionatore (già soggetta a s.c.i.a.) abbia luogo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, essa è da ritenersi condizionata anche a nulla-osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004)"];
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di “separatezza” pervenendo all’affermazione secondo la quale "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali” (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale. L’autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
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4.4.4. E’ ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012 sent. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura
”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme" (C.d.S., sez. V, 11.03.1995, n. 376; C.d.S. Sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
4.4.5. Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile sez. I 07/04/2006 n. 8244) ha avuto modo di precisare che “ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non- incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione.
La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nullaosta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario.
L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il Giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli
”;
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. Pen. Sez. III 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l’autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che laddove l’autorizzazione manchi la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all’art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 [Cass. Pen. n. 10502/1999, 1093/1998, 6681/1998; di recente: Cassazione penale sez. III 07/10/2014 n. 952: “i climatizzatori/condizionatori d'aria costituiscono impianti tecnologici e, pertanto, se collocati all'esterno dei fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, sicché la loro realizzazione o installazione, seppure non necessitante del permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di inizio di attività (s.c.i.a.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R. cit., non rientrando tra gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo. In ogni caso, poiché anche l'attività edilizia c.d. libera deve essere attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, ne consegue che ove l'installazione di condizionatore (già soggetta a s.c.i.a.) abbia luogo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, essa è da ritenersi condizionata anche a nulla-osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004)"];
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di “separatezza” pervenendo all’affermazione secondo la quale (TAR Roma (Lazio) sez. II 02/12/2014 n. 12140 “è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali” (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
4.4.6. In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L’autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però –per venire alla fattispecie verificatasi nella presente causa- la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell’autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l’autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l’autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell’inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada –e ciò non è accaduto nella vicenda in esame, al momento della presentazione del mezzo e durante il giudizio di primo grado, quantomeno- ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: - TAR Torino –Piemonte- sez. I 07/11/2012 n. 1166 “la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori” ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell’avvenuto rilascio –su progetto conferme- di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Napoli –Campania- sez. VI 26.03.2015 n. 1815) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.12.2015 n. 5663 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se aria e luce sono insufficienti niente abitabilità dell'alloggio.
E' legittimo il
diniego di rilascio di certificato di abitabilità laddove risulta che:
- l’unità ha altezza interna pari a metri 2,62. Il piano di calpestio è posto a circa metri 2 sotto il circostante piano campagna, la differenza tra la quota del terreno circostante e l’intradosso del solaio di copertura del locale è circa cm. 60;
- l’unità immobiliare non ha adeguata e sufficiente illuminazione ed aerazione naturale diretta in quanto le finestre non garantiscono il rapporto aeroilluminante minimo prescritto. La superficie finestrata apribile è inferiore ad 1/8 della superficie del pavimento. La superficie finestrata apribile risulta rispettivamente del 5% per il locale cucina–soggiorno, del 5% per la camera da metri quadrati 14,46, del 4% per la camera da metri quadrati 16,24 e del 2% per la camera da metri quadrati 16,75. Le finestre sono impostate all’altezza di circa metri 2 dal pavimento;
- l’unità immobiliare posta al piano interrato non consente la permanenza a fini abitativi di persone, essendo ciò vietato dall’art. 76 del regolamento edilizio e dall’art. 58 delle istruzioni ministeriali del 20.06.1896 poi parzialmente modificate dal d.m. 05.07.1975;
- vi è difetto di aria e di luce e non sussistono le condizioni minime di rispetto dei requisiti igienico–sanitari e di salubrità dei locali così come prescritti dall’art. 218 del testo unico delle leggi sanitarie e dagli artt. 3 e 5 del d.m. 05.07.1975;
- le caratteristiche complessive dell’unità non sono adeguate alla destinazione d’uso residenziale.

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... per l'annullamento del provvedimento di diniego di rilascio di certificato di abitabilità;
...
1. Con il provvedimento impugnato il comune di Venezia ha rigettato l’istanza di rilascio del certificato di agibilità.
Con precedente provvedimento in data 01.12.2005 era stata rilasciata concessione edilizia in sanatoria per cambio d’uso del piano interrato da cantina–magazzino ad unità residenziale.
Il diniego di cui sopra è motivato in relazione tra l’altro alle seguenti circostanze:
- l’unità ha altezza interna pari a metri 2,62. Il piano di calpestio è posto a circa metri 2 sotto il circostante piano campagna, la differenza tra la quota del terreno circostante e l’intradosso del solaio di copertura del locale è circa cm. 60;
- l’unità immobiliare non ha adeguata e sufficiente illuminazione ed aerazione naturale diretta in quanto le finestre non garantiscono il rapporto aeroilluminante minimo prescritto. La superficie finestrata apribile è inferiore ad 1/8 della superficie del pavimento. La superficie finestrata apribile risulta rispettivamente del 5% per il locale cucina–soggiorno, del 5% per la camera da metri quadrati 14,46, del 4% per la camera da metri quadrati 16,24 e del 2% per la camera da metri quadrati 16,75. Le finestre sono impostate all’altezza di circa metri 2 dal pavimento;
- l’unità immobiliare posta al piano interrato non consente la permanenza a fini abitativi di persone, essendo ciò vietato dall’art. 76 del regolamento edilizio e dall’art. 58 delle istruzioni ministeriali del 20.06.1896 poi parzialmente modificate dal d.m. 05.07.1975;
- vi è difetto di aria e di luce e non sussistono le condizioni minime di rispetto dei requisiti igienico–sanitari e di salubrità dei locali così come prescritti dall’art. 218 del testo unico delle leggi sanitarie e dagli artt. 3 e 5 del d.m. 05.07.1975;
- le caratteristiche complessive dell’unità non sono adeguate alla destinazione d’uso residenziale.
2. Parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 35 della legge n. 47 del 1985, eccesso di potere, travisamento di fatti, difetto di motivazione, carenza d’istruttoria, erronea valutazione degli elementi fattuali.
Lamenta in particolare che l’art. 35 della legge n. 47 del 1985 consente, ai fini del rilascio del certificato di abitabilità per manufatti condonati, la deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni.
La censura è infondata.
Infatti l’amministrazione ha valutato le condizioni di igiene e salubrità, così come le è imposto di fare dall’art. 24 del testo unico dell’edilizia.
Nel caso di specie non si tratta di semplice contrasto tra lo stato del sito e le prescrizioni regolamentari, ma di carenza dei requisiti di igiene e salubrità che devono in ogni caso sussistere per effetto di disposizioni di legge, quali l’art. 24 del testo unico dell’edilizia, l’art. 47 della legge n. 47 del 1985, l’art. 218 del testo unico delle leggi sanitarie.
Con il provvedimento impugnato è stata data congrua motivazione in relazione alla concomitanza di una pluralità di elementi di fatto determinante l’insussistenza dei requisiti di igiene e salubrità.
Tali elementi di fatto sono dati dall’altezza interna, dalla differenza tra la quota del terreno circostante e l’intradosso del solaio di copertura del locale, dall’insufficiente apporto di aria e luce dato dalle finestre.
3. Parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della legge regionale n. 12 del 1999, eccesso di potere, carenza di motivazione, errore e illogicità manifesta. Lamenta in particolare che il mancato rispetto dell’altezza media di metri 2,70 nonché della superficie finestrata apribile di almeno un ottavo della superficie di pavimento di cui al d.m. del 1975 non costituiscono carenze tali da determinare necessariamente la violazione delle norme igieniche e sanitarie.
Sotto tale profilo dovrebbe essere considerata la legge regionale n. 12 del 1999 che fissa le condizioni e i limiti per il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti alla data del 31.12.1998, tra cui l’altezza utile media di almeno metri 2,40 per i locali adibiti ad abitazione ed un rapporto illuminante pari ad almeno un sedicesimo della superficie di pavimento.
La censura è infondata perché nel caso di specie non si tratta di un sottotetto, ma di un piano interrato. La legge regionale n. 12 del 1999 prevede disposizioni eccezionali di deroga delle norme generali, che in quanto tali non possono essere applicate fuori dei casi considerati (art. 14 delle preleggi).
4. Parte ricorrente lamenta carenza e contraddittorietà della motivazione e insussistenza di una lesione al diritto alla salute. Lamenta in particolare che la legge non detta nessuna prescrizione in materia di altezza media e/o di dimensioni della superficie finestrata, limitandosi a stabilire che non vi sia difetto di luce e di aria.
La censura è infondata.
L’amministrazione ha infatti svolto un congruo e motivato giudizio, sulla base di una pluralità di elementi di fatto, giungendo alla conclusione che vi è difetto di luce e di aria tale per cui verrebbe arrecato un pregiudizio alla salute se gli ambienti fossero abitabili.
5. Parte ricorrente lamenta violazione degli articoli 10 e 11 della legge n. 15 del 2005, eccesso di potere per difetto e carenza di motivazione. Lamenta in particolare che l’amministrazione non ha valutato la possibilità di disporre prescrizioni al fine di rendere abitabili gli ambienti.
La censura è infondata, dovendo l’amministrazione valutare l’abitabilità dei locali sulla base dello stato di fatto esistente.
In conclusione il ricorso è infondato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.12.2015 n. 1326 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina delle costruzioni in zone sismiche: “Non conta la natura dei materiali impiegati”.
Cassazione: è irrilevante anche l'eventuale natura precaria dell'intervento.
Le specifiche finalità della disciplina delle costruzioni in zone sismiche hanno determinato “la previsione di un rigoroso regime autorizzatorio (articolo 93) che impone, a chiunque intenda procedere ad interventi in tali zone, di darne preavviso scritto allo sportello unico che, a sua volta, provvede alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale.
La speciale disciplina si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità”.

Lo rammenta la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 11.12.2015 n. 48950.
Dal contenuto delle disposizioni che regolano la materia si rileva come il loro ambito di applicazione sia particolarmente esteso, riferendosi non solo alla costruzione dei nuovi edifici, ma anche ad interventi su manufatti già esistenti, in ordine ai quali si prendono in esame le sopraelevazioni (articolo 90) e le riparazioni (articolo 91)”, osserva la suprema Corte.
IRRILEVANTE LA NATURA DEI MATERIALI IMPIEGATI E DELLE RELATIVE STRUTTURE. “Del tutto inconferente, ai fini dell'applicazione della disciplina, è stata ritenuta la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni che regolano la materia hanno una portata particolarmente ampia, perché finalizzate alla tutela dell'incolumità pubblica e devono, quindi, applicarsi a “tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità" a nulla rilevando, appunto, la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture.
Altrettanto irrilevante –aggiunge la Cassazione- è la eventuale natura precaria dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche
” (commento tratto da www.casaeclima.com).

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MASSIMA
1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente ricordare, per quanto attiene al primo motivo di ricorso, come l'articolo 20 della Legge Regionale 16.04.2003 n. 4 stabilisca che, in deroga ad ogni altra disposizione normativa, non sono soggette a concessione o autorizzazione né sono considerate aumento di superficie utile o di volume né modifica della sagoma della costruzione, la chiusura di terrazze di collegamento e/o la copertura di spazi interni con strutture precarie, ferma restando l'acquisizione preventiva del nulla osta da parte della Soprintendenza dei beni culturali ed ambientali nel caso di immobili soggetti a vincolo.
In tali casi, contestualmente all'inizio dei lavori, il proprietario dell'unità immobiliare deve limitarsi a presentare al sindaco una relazione a firma di un professionista abilitato alla progettazione, che asseveri le opere da compiersi ed il rispetto delle norme di sicurezza e delle norme urbanistiche, nonché di quelle igienico-sanitarie vigenti ed a versare a favore del comune un determinato importo per ogni metro quadro di superficie sottoposta a chiusura con struttura precaria.
Tali disposizioni sono applicabili anche alla chiusura di verande o balconi con strutture precarie, come previsto dall'articolo 9 della legge regionale 10.08.1985, n. 37.
Ai fini dell'applicazione delle richiamate disposizioni il medesimo articolo precisa, al comma 4, che sono da considerare strutture precarie tutte quelle realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione, mentre si definiscono verande tutte le chiusure o strutture precarie come sopra realizzate, relative a qualunque superficie esistente su balconi, terrazze e anche tra fabbricati. Alle verande sono assimilate le altre strutture, aperte almeno da un lato, quali tettoie, pensiline, gazebo ed altre ancora, comunque denominate, la cui chiusura sia realizzata con strutture precarie, sempreché ricadenti su aree private.
La disposizione in esame consente anche, a determinate condizioni, la regolarizzazione delle opere della stessa tipologia già realizzate.
2. Dei rapporti tra la summenzionata disciplina regionale e la normativa statale contenuta nel D.p.r. 380/2001 si è ripetutamente occupata la giurisprudenza di questa Corte.
Si è così avuto modo di chiarire che, in ogni caso, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali fissati dalla legislazione nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi (Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 2017 del 25/10/2007 (dep. 2008), Giangrasso, Rv. 238555; Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, RM. in proc. Moltisanti, Rv. 234935. Conf., ma con riferimento ad altre disposizioni normative della Regione siciliana, Sez. 3, n. 4861 del 09/12/2004 (dep. 2005), Garufi, Rv. 230914; Sez. 3, n. 6814 del 11/01/2002, Castiglia V, Rv. 221427).
Con specifico riferimento alla individuazione in via di eccezione, ad opera della Legge regionale 4/2003, di opere precarie non soggette a permesso di costruire, si è osservato che il legislatore regionale ha privilegiato il "criterio strutturale", considerando la circostanza che le parti di cui la costruzione si compone siano facilmente rimovibili, in luogo di quello "funzionale", relativo all'uso realmente precario e temporaneo cui la costruzione è destinata e che dette disposizioni non possono trovare applicazione al di fuori dei casi in esse espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261156; Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237533).
Si è infine specificato, come pure ricordato in ricorso, che la legislazione regionale in disamina è applicabile con riferimento alla sola disciplina urbanistica, restando quindi sottratta quella relativa alla disciplina edilizia antisismica e quella per le costruzioni in conglomerato cementizio armato, le quali attengono alla sicurezza statica degli edifici, rientrante nella competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, Cost., con la conseguenza che dette opere continuano ad essere soggette ai controlli preventivi previsti dalla legislazione nazionale (Sez. 3, n. 37375 del 20/06/2013, P.M. in proc. Serpicelli, Rv. 257594; Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli ed altro, Rv. 255254; Sez. 3, n. 38405 del 09/07/2008, Di Benedetto e altro, Rv. 241287).
3. Date tali premesse, appare di tutta evidenza che la Corte territoriale non è incorsa in alcuna violazione della disciplina statale applicata né, tanto meno, di quella regionale impropriamente richiamata in ricorso.
I giudici del gravame hanno infatti dato dimostrazione di aver fatto buon uso dei condivisibili principi dianzi richiamati e di aver adeguatamente considerato l'ambito di operatività della normativa regionale, inequivocabilmente limitato alle opere chiaramente definite dal menzionato articolo 20 L.R. 4/2003, entro il quale non potevano certo collocarsi le opere descritte nel capo di imputazione.
Invero, la Corte del merito evidenzia come sia stata accertata in fatto la realizzazione, attraverso la chiusura di una veranda, di un diverso e stabile corpo di fabbrica, la cui consistenza risulta dimostrata dalla documentazione fotografica in atti.
I giudici del gravame, richiamando il condiviso contenuto della decisione del primo giudice, evidenziano anche, in modo inequivocabile, che le opere erano state realizzate mediante mattoni forati e non anche con materiale amovibile.
A fronte di tali dati decisivi, il ricorso si limita a riproporre la tesi difensiva già platealmente smentita nel giudizio di merito, facendo peraltro ricorso ad argomenti in fatto che non possono avere ingresso in questa sede. Le censure formulate in ricorso sul punto sono, pertanto, destituite di fondamento.
4. A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso.
Le opere realizzate, per la loro natura e consistenza, richiedevano il rispetto della disciplina dettata per la realizzazione di costruzioni in zone sismiche.
Va a tale proposito ricordato come si sia specificato (Sez. 3, n. 29737 del 04/06/2013, Vella, Rv. 255823) con argomentazioni che pare opportuno riproporre anche in questa occasione, come
le specifiche finalità della disciplina delle costruzioni in zone sismiche abbiano determinato la previsione di un rigoroso regime autorizzatorio (articolo 93) che impone, a chiunque intenda procedere ad interventi in tali zone, di darne preavviso scritto allo sportello unico che, a sua volta, provvede alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale.
La speciale disciplina si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità.
Dal contenuto delle disposizioni che regolano la materia si rileva come il loro ambito di applicazione sia particolarmente esteso, riferendosi non solo alla costruzione dei nuovi edifici, ma anche ad interventi su manufatti già esistenti, in ordine ai quali si prendono in esame le sopraelevazioni (articolo 90) e le riparazioni (articolo 91).
Del tutto inconferente, ai fini dell'applicazione della disciplina, è stata ritenuta la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni che regolano la materia hanno una portata particolarmente ampia, perché finalizzate alla tutela dell'incolumità pubblica e devono, quindi, applicarsi a "tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità" a nulla rilevando, appunto, la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture
(Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 (dep. 2012), D'Onofrio, Rv. 252441; Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia, Rv. 251284; Sez. 3, n. 23076 del 27/4/2011, Coppa, non massimata; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo e altro, Rv. 237375; Sez. 3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci R, Rv. 220269. Il principio è stato ribadito anche con riferimento alla cartellonistica autostradale in Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola e altro, Rv. 253056).
Altrettanto irrilevante è la eventuale natura precaria dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche (Sez. 3, n.23076 del 27/4/2011, cit.; Sez. 3, n. 38405 del 09/07/2008, Di Benedetto e altro, Rv. 241288; Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia e altro, Rv. 237842; Sez. 3, n. 48684 del 28/10/2003, Noto, Rv. 226561; Sez. 3, n. 33158 del 29/05/2002, P.M. in proc. Bianchini P, Rv. 222254).
A ciò va aggiunto che, nel caso di specie, la Corte del merito ha opportunamente rivolto l'attenzione alla specifica tipologia delle opere, osservando anche in punto di fatto che, per ciò che concerne la realizzazione del muro di contenimento, la rilasciata sanatoria era stata preceduta da un certificato di idoneità sismica, evidentemente richiesto dall'interessato, comprovante, dunque, l'applicabilità della suddetta normativa anche nel caso in esame.
Le osservazioni formulate dai giudici dell'appello rendono peraltro evidente l'irrilevanza dei contenuti della Circolare richiamata dal ricorrente, evidentemente riferita a fattispecie del tutto diverse da quella in esame ed, in ogni caso, non avente alcun valore vincolante (cfr. Sez. 3, n. 25170 del 13/06/2012 Rv. 252771) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 11.12.2015 n. 48950).

EDILIZIA PRIVATA: Un intervento di demolizione e ricostruzione con volumetria non superiore a quella complessiva preesistente e, dunque, certamente non incidente sul carico urbanistico, quale elemento considerato dalla norma evidentemente determinante, non può oggi –atteso che si prescinde, per gli immobili non sottoposti a vincoli, anche dalla modifica della sagoma-, non rientrare nelle ristrutturazioni edilizie “leggere”, come tali assoggettabili a mera segnalazione certificata di attività, ove siano stati rispettati gli ulteriori requisiti contemplati dall’art. 22 d.P.R. n. 380 del 2001.
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3. Va anzitutto osservato che l’assunto in base al quale il Tribunale di Asti è pervenuto ad assoluzione dell’imputato non è, in adesione alle ragioni puntualmente sviluppate dal P.M. ricorrente, condivisibile.
E’ incontroverso il fatto che, nella specie, ricevuta nel 2010 un’ordinanza comunale con cui lo si invitava a sostituire la copertura in fibra d’amianto di un manufatto di sua proprietà, l’imputato decideva di abbattere integralmente l’edificio e di ricostruirlo in blocchi di calcestruzzo; era stato così edificato un nuovo manufatto, con sagoma inferiore e volume totale inferiore rispetto a quello precedente, in totale assenza di titolo abilitativo.
4. Ciò posto, la sentenza impugnata ha ritenuto che l’attività posta in essere debba essere qualificata come “intervento di manutenzione straordinaria” e non già come intervento di “ristrutturazione edilizia”, sì da non essere soggetta al rilascio del permesso a costruire: infatti, a seguito delle modifiche operate al testo dell’articolo 3, comma 1, lettera b), del Decreto del Presidente della Repubblica cit., dal Decreto Legge 12.09.2014, n. 133, articolo, convertito in Legge 11.11.2014, n. 164 (il cui originario contenuto era nel senso che dovessero intendersi per interventi di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico–sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso” e il cui contenuto successivo e’, invece, ora, nel senso che per interventi di manutenzione straordinaria debbono intendersi “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico–sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”), si sarebbe ampliata la definizione di “interventi di manutenzione straordinaria”; infatti, ha continuato la sentenza, per effetto della nuova definizione, sarebbero incluse in essa tutte le attività manutentive che, pur incidendo sulle superfici di un edificio, non abbiano tuttavia determinato un aumento del volume complessivo della costruzione (come nella specie avvenuto).
5. Va di contro osservato, però, che, come correttamente sottolineato dal P.M. ricorrente, l’articolo 3, comma 1, lettera d), dello stesso Decreto del Presidente della Repubblica, come modificato dal Decreto Legge n. 69 del 2013, articolo 30 comma 1, lettera a), convertito con modificazioni nella Legge n. 98 del 2013, prevede che
rientrino all’interno degli interventi di ristrutturazione edilizia “anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”; sicché deve ritenersi che il legislatore, come segnalato dall’inequivoco riferimento alla “demolizione e ricostruzione” del preesistente edificio, quand’anche di uguale volumetria, abbia inteso comunque ricomprendere l’intervento di specie in quello di ristrutturazione edilizia e non già di manutenzione edilizia, non potendo ritenersi che l’ambito applicativo della disposizione, rimasta sul punto significativamente inalterata anche a seguito della modifica impressa alla Legge n. 164 del 2014, articolo 3, comma 1, lettera b), abbia subito riduzioni anche solo di carattere interpretativo tali da escluderne appunto la attività, tipicamente considerata, di abbattimento e ricostruzione.
E ciò, a maggior ragione, ove si consideri che il tratto essenziale degli interventi di manutenzione straordinaria continua a consistere nella finalizzazione degli stessi alla “rinnovazione e sostituzione di parti anche strutturali degli edifici”, di per sé non compatibile con una condotta, ben diversa, di abbattimento e ricostruzione dell’intero edificio.

6. Ritenuto dunque che l’intervento posto in essere dall’imputato rientrava in quello di ristrutturazione edilizia, va però osservato che lo stesso, per gli elementi di fatto incontroversi che lo hanno caratterizzato, ovvero, in particolare, il mancato aumento della volumetria, non richiedeva il rilascio del permesso a costruire, bensì, al momento dei fatti, di una mera d.i.a., ovvero, alla data odierna, di una s.c.i.a..
Va infatti osservato che,
secondo quanto previsto dall’articolo 10, comma 1, lettera c), del Decreto del Presidente della Repubblica cit., come modificato, da ultimo, dal Decreto Legge n. 133 del 2014, articolo 17, convertito in Legge n. 164 del 2014, sono assoggettati a permesso di costruire “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici e dei prospetti”, ovvero che si connettano a mutamenti di destinazione d’uso, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), mentre, ai sensi dell’articolo 22, comma 1, del medesimo Decreto del Presidente della Repubblica, “sono realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività (in precedenza, denuncia di inizio di attività) gli interventi non riconducibili all’elenco di cui all’articolo 10, e all’articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
E questa Corte ha più volte precisato, in concordanza con tali previsioni, ancor prima delle modifiche da ultimo intervenute, che
devono ritenersi realizzabili, previa mera denunzia di attività (non alternativa al permesso di costruire, equivalente come detto alla odierna S.c.i.a.), le ristrutturazioni edilizie di portata minore: quelle, cioè, che determinano una semplice modifica dell’ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica, nel senso, cioè, di diversa da quelle descritte dall’articolo 10, comma 1, lettera c), che possono incidere, invece, sul carico urbanistico (Sez. 3, n. 20350 del 16/03/2010, Magistrati, Rv. 247177; Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010, Cavallo, Rv. 246757); e, da ultimo, sempre questa Corte è pervenuta ad affermare che, per effetto delle più recenti modifiche (Decreto Legge 21.06.2013, n. 69, articolo 30, conv. in Legge 09.08.2013, n. 98), gli interventi di “ristrutturazione edilizia”, consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati alla procedura semplificata della S.c.i.a., se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell’edificio (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260551).
Ne consegue che
un intervento di demolizione e ricostruzione con volumetria non superiore, come nella specie, a quella complessiva preesistente, e dunque certamente non incidente sul carico urbanistico, quale elemento considerato dalla norma evidentemente determinante, non poteva (già prima delle ultime modifiche intervenute) e non può, a maggior ragione oggi, atteso che si prescinde, per gli immobili non sottoposti a vincoli, anche dalla modifica della sagoma, non rientrare nelle ristrutturazioni edilizie “leggere”, come tali assoggettabili a mera segnalazione certificata di attività, ove siano stati rispettati gli ulteriori requisiti contemplati dall’articolo 22 cit..
E, nella specie, non risulta, né dalla contestazione di cui all’imputazione né dalla sentenza impugnata né, infine, dal ricorso che l’intervento non sia stato conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–edilizia vigente ovvero abbia riguardato immobile vincolato.
Ne consegue che, integrando comunque il fatto materiale contestato, sia pure per ragioni diverse da quelle illustrate dalla sentenza impugnata, un mero illecito amministrativo, il ricorso del P.M. va rigettato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.12.2015 n. 48947).

EDILIZIA PRIVATA: Quando gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma prevedano anche la possibilità di costruire "in aderenza" od "in appoggio", si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss. cod. civ., con la conseguenza si applica il criterio della prevenzione, in forza del quale che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo così il vicino —che intenda a sua volta edificare— nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, cod. civ.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
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1. — Con l'unico motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 873 cod. civ. e 10 del Piano regolatore generale e del Regolamento edilizio del Comune di Tagliacozzo, che prevede la possibilità di costruire in aderenza sul confine.
Secondo i ricorrenti, la Corte di Appello avrebbe errato a non tener conto del principio della prevenzione temporale, sotteso alla norma di cui all'art. 873 cod. proc. civ., per il quale il preveniente ha facoltà di costruire sul confine.
La censura è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte suprema, dalla quale non v'è ragione di discostarsi,
il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 cod. civ., è derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse dal confine; salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l'edificare a distanza regolamentare e l'erigere la propria fabbrica fino ad occupare l'estremo limite del confine medesimo, ma non anche quella di costruire a distanza inferiore dal confine, poiché detta prescrizione ha lo scopo di ripartire tra i proprietari confinanti l'onere della creazione della zona di distacco (Sez. 2, Sentenza n. 23693 del 06/11/2014, Rv. 633061); ciò perché, quando gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma prevedano la possibilità di costruire "in aderenza" od "in appoggio", si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss. cod. civ., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, cod. civ.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Sez. 2, Sentenza n. 8465 del 09/04/2010, Rv. 612355; analogamente, Sez. 2, Sentenza n. 13286 del 05/10/2000, Rv. 540788; Sez. 2, Sentenza n. 11899 del 07/08/2002, Rv. 556776).
Nella specie, la Corte di Appello di L'Aquila dà atto —a p. 2 della sentenza impugnata— che lo strumento urbanistico comunale vigente all'epoca della costruzione consentiva la possibilità di costruire in aderenza ad un altro fabbricato, ma ha omesso di applicare il principio della prevenzione, ritenendo così che la costruzione edificata dal convenuto sul confine fosse a distanza non legale, nonostante che mancasse al di là del confine alcuna costruzione e che il convenuto, pertanto, fosse da qualificarsi preveniente.
2. — La sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio alla Corte di Appello di L'Aquila in diversa composizione, che si conformerà al seguente principio di diritto: «
Quando gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma prevedano anche la possibilità di costruire "in aderenza" od "in appoggio", si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss. cod. civ., con la conseguenza si applica il criterio della prevenzione, in forza del quale che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo così il vicino —che intenda a sua volta edificare— nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, cod. civ.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.12.2015 n. 25032).

APPALTIVia libera alle varianti migliorative. Consiglio di Stato. Se la gara si aggiudica all’offerta economicamente più vantaggiosa.
Nuovo impulso dal Consiglio di Stato alle “varianti migliorative” degli appalti pubblici.
Con la sentenza 11.12.2015 n. 5655 -Sez. V- diventa più agevole proporre soluzioni tecniche quando l’aggiudicazione avviene a favore dell’offerta «economicamente più vantaggiosa» (articolo 81-83 del Dlgs 163/2006). Anche quando il progetto posto a base di gara è definitivo, le imprese possono proporre variazioni migliorative rese possibili dal possesso di specifiche conoscenze tecnologiche. L’unico obbligo è quello di rispettare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dal bando e di non danneggiare la parità di trattamento rispetto ad altri concorrenti.
Nel caso esaminato si discuteva di un appalto con progettazione definitiva già predisposta, per realizzare un centro natatorio, con possibili varianti migliorative sulla qualità architettonica e sulle caratteristiche dei materiali di finitura da utilizzare. Uno dei concorrenti aveva proposto di utilizzare, per la copertura di una piscina, 16 pilastri e pareti in prefabbricati, invece di pilastri gettati in opera volta per volta. Questa modifica è stata ritenuta coerente con il progetto, e quindi valutabile dalla commissione giudicatrice con specifico punteggio. Trova così conferma l’orientamento già emerso in altri casi, ad esempio quando si è ritenuto che il risparmio energetico derivante da pensiline fotovoltaiche per 33 posti auto, possa rappresentare una miglioria ad un progetto di riqualificazione di un parco urbano (Tar Bari 846/2015).
Più delicata è stata la questione risolta dal Tar Liguria (351/2013, riformata poi per motivi procedurali) relativa ai lavori sul torrente Bisagno a Genova, quando non si discuteva solo di fondazioni e di micro pali, di cunicoli e di abbassamento dell’alveo, ma anche di vere e proprie incongruenze del progetto iniziale che rendevano indispensabili le modifiche proposte delle imprese. Proprio attraverso la possibilità di intervenire sul progetto con varianti migliorative (sindacabili dal giudice con il parametro della coerenza e della logica) è infatti anche possibile criticare il progetto iniziale.
In scala minore rispetto ai problemi liguri, ad esempio, si può proporre la modifica del tracciato di una rete fognaria prevista sotto la sede stradale, offrendo una collocazione su adiacenti aree private (Tar Napoli 1978/2015). Se la commissione di gara condivide le soluzioni migliorative, si pone il problema dei prezzi da adottare per attuare le proposte: il Consiglio di Stato (5160 /2013) ritiene che gli oneri economici derivanti dalle migliorie trovino compensazione all’interno della complessiva offerta economica presentata. Su questi presupposti, ci si prepara all’imminente entrata in vigore della Direttiva Ue 24/2014, che privilegia l’offerta economicamente più vantaggiosa
 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
7.1. Con il primo motivo del ricorso principale di primo grado (pagine 4 - 9), la ditta Te. ha dedotto che:
I) la stazione appaltante avrebbe dovuto escludere la ditta aggiudicataria perché la proposta di variante migliorativa relativa all’elemento T.1.2. –copertura della vasca della piscina– era inammissibile in quanto recante una soluzione tecnica eccedente i limiti inderogabili previsti dalla legge di gara; in particolare la ditta Gorrasi, invece di realizzare 16 pilastri di cemento armato gettati in opera, li ha sostituiti con 16 pilastri prefabbricati (e pareti esterne dell’involucro sempre in strutture prefabbricate);
II) in ogni caso la commissione avrebbe dovuto assegnare all’offerta tecnica della ditta Go., in relazione all’elemento T.1.2., un punteggio pari a zero.
7.1.1. Il motivo è sia inammissibile che infondato e deve essere respinto nella sua globalità alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto:
a) in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. Corte giust. UE, 12.03.2015, C-538/13, Vigilio Ltd; Cons. Stato, Ad. plen., 30.07.2014, n. 16; Ad. plen., 25.02.2014, n. 9; Ad. plen., 30.01.2014, n. 7; Sez. V, 27.03.2015, n. 1601, cui si rinvia ai sensi del combinato disposto degli artt. 74, 88, co.2, lett. d), e 120, co. 10, c.p.a.), deve ritenersi che:
   I)
il principio di tassatività delle cause di esclusione sancito dall’art. 46, co. 1-bis, del codice dei contratti pubblici esige, ove richiamato in relazione allo scrutinio di offerte tecniche, che le stesse debbano essere escluse solo quando siano a tal punto carenti degli elementi essenziali da ingenerare una situazione di «incertezza assoluta sul contenuto …. dell’offerta», ovvero in presenza di specifiche clausole della legge di gara che tipizzino una siffatta situazione di incertezza assoluta;
   II)
la valutazione delle offerte –e dunque anche della loro “incertezza assoluta”– nonché l’attribuzione dei punteggi da parte della commissione giudicatrice, rientrano nell’ampia discrezionalità tecnica riconosciuta a tale organo, sicché le censure che impingono il merito di tale valutazione (opinabile) sono inammissibili, perché sollecitano il giudice amministrativo ad esercitare un sindacato sostitutorio, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall’art. 134 c.p.a., fatto salvo il limite della abnormità della scelta tecnica;
   III)
la previsione esplicita della possibilità di presentare varianti progettuali in sede di offerta (a fortiori per il tipo di gara in contestazione, un appalto di lavori basato sulla sola progettazione definitiva), è stata oggi generalizzata dall’art. 76 del codice dei contratti pubblici (per qualsivoglia appalto); l’amministrazione deve indicare, in sede di redazione della lex specialis, se le varianti sono ammesse e, in caso affermativo, identificare i loro requisiti minimi;
   IV)
la ratio della scelta normativa –nazionale e comunitaria- si fonda sulla circostanza che, allorquando il sistema di selezione delle offerte sia basato sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la stazione appaltante ha maggiore discrezionalità e soprattutto sceglie il contraente valutando non solo criteri matematici ma la complessità dell’offerta proposta alla luce della vantaggiosità della stessa in funzione dell’interesse proprio; nel corso del procedimento di gara, quindi, potrebbero rendersi necessari degli aggiustamenti rispetto al progetto base elaborato dall’amministrazione, favorevolmente apprezzabili perché ritenuti utili dalla medesima stazione appaltante; nel caso, invece, di offerta selezionata col criterio del prezzo più basso, poiché tutte le condizioni tecniche sono predeterminate al momento dell’offerta e non vi è alcuna ragione per modificare l’assetto contrattuale, non è mai ammessa la possibilità di presentare varianti;
   V) in ogni caso, a prescindere dalla espressa previsione di varianti progettuali in sede di bando,
deve ritenersi insito nella scelta del criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa che, anche quando il progetto posto a base di gara sia definitivo, è consentito alle imprese di proporre quelle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio;
b) la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri guida relativi alle varianti in sede di offerta:
   I)
si ammettono varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell’opera o del servizio, purché non si traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla p.a.;
   II)
risulta essenziale che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto al progetto base, che l’offerente dia contezza delle ragioni che giustificano l’adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca l’efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese alla prescrizione variata;
   III)
viene lasciato un ampio margine di discrezionalità alla commissione giudicatrice, trattandosi dell’ambito di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
c) facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, nonché alla stregua delle risultanze della documentazione versata in atti, emerge che:
   I) le censure proposte sono inammissibili nella parte in cui sollecitano il giudice amministrativo a sostituirsi, al di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a., alle valutazioni rimesse alla commissione, che costituiscono manifestazione di una ampia discrezionalità tecnica;
   II) le censure sono infondate anche in fatto, perché la commissione di gara ha ritenuto (sulla scorta di una opinabile ma legittima valutazione) che il progetto esecutivo dell’aggiudicataria non stravolge le linee fondamentali poste a base di quello preliminare e non presenta mende reali in tema di sicurezza, stabilità e conformità ai parametri richiesti;
   III) la legge di gara ha previsto la possibilità di proporre varianti, senza comminare alcuna esclusione e precisando, altresì, i casi in cui la commissione avrebbe dovuto assegnare il punteggio zero (evenienze queste che non si sono verificate nel caso di specie);
   IV) la valutazione dell’organo tecnico non risulta abnorme, in quanto quest’ultimo ha motivato in modo sintetico ma esaustivo sull’ammissibilità dell’offerta e sull’attribuzione dei punteggi ai vari elementi tecnici, senza sconfinare nell’arbitrio e rimanendo nei limiti della opinabilità;
   V) le criticate innovazioni progettuali sono riferibili, nella sostanza, a migliorie proposte secondo quanto stabilito dalla legge di gara e non incidono, pertanto, su elementi essenziali del progetto base.

EDILIZIA PRIVATAPuò essere considerato destinato a servizi religiosi l’edificio destinato alla pratica religiosa, e quindi all’orazione, alla meditazione spirituale, alla celebrazione di cerimonie proprie di quella confessione ed altro, ovvero destinato a strutture strettamente connesse con le necessità del culto.
L’edificio di cui ora si tratta (
destinato a servizi religiosi e all’istruzione primaria) non è destinato a servizi religiosi, in quanto destinato a ospitare una scuola non statale.
E’ evidente che nell’istituto scolastico verrà impartito anche l’insegnamento religioso, presumibilmente con maggiore profondità di quanto non avvenga negli istituti gestiti dallo Stato o da organizzazioni diverse dalla Chiesa Cattolica, ma è evidente che tale circostanza non è sufficiente a qualificare l’edificio in questione come «dedicato al culto».
Sicché, non sussiste il requisito per avere diritto all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione ai sensi dell’art. 9, lett. f), della legge 28.01.1977, n. 10.
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L’appellante sostiene di avere diritto anche sotto diverso titolo all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione, in quanto l’edificio in questione è destinato, appunto, a istruzione primaria.
Neanche questa argomentazione può essere condivisa.
Invero, l’esenzione di cui si tratta deve essere riconosciuta se la struttura realizzata soddisfa un bisogno della collettività, riconosciuto dall’Amministrazione in sede di programmazione o in altri modi.
Nel caso citato dall’appellante è stato riconosciuto il diritto all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione per la realizzazione di una clinica privata.
Il principio affermato in quella controversia non può essere applicato per risolvere quella sottoposta al Collegio, in quanto la previsione urbanistica in quel caso rilevante ha tenuto conto del fatto che la clinica pur privata è inserita nel servizio sanitario nazionale, partecipa agli scopi di questo e accetta i pazienti in condizioni di eguaglianza.
Tali particolarità non ricorrono nel caso di specie, nel quale l’istituto scolastico in questione viene realizzato del tutto al di fuori della programmazione pubblica, secondo una libera scelta imprenditoriale dell’appellante.
Inoltre, è noto che negli istituti non statali gli alunni pagano una retta, e nemmeno viene ipotizzato che l’istituto di cui ora si tratta accolga gli allievi secondo modalità differenti.
In base agli elementi appena riassunti, rileva il Collegio che la struttura in questione non costituisce opera di urbanizzazione secondaria.

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Nel merito, l’appello è infondato.
L’odierna appellante ha ottenuto concessione edilizia per la trasformazione di un edificio di sua proprietà adibito a convitto in scuola primaria.
Essa sostiene di avere diritto all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione ai sensi dell’art. 9, lett. f), della legge 28.01.1977, n. 10, e della legge della Regione Lombardia 09.05.1992, n. 20, nonché degli artt. 16 e 44 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale di Bergamo, in quanto l’edificio in questione è destinato a servizi religiosi e all’istruzione primaria.
Tali asserzioni sono erronee.
Può essere considerato destinato a servizi religiosi l’edificio destinato alla pratica religiosa, e quindi all’orazione, alla meditazione spirituale, alla celebrazione di cerimonie proprie di quella confessione ed altro, ovvero destinato a strutture strettamente connesse con le necessità del culto.
L’edificio di cui ora si tratta non è destinato a servizi religiosi, in quanto destinato a ospitare una scuola non statale.
E’ evidente che nell’istituto scolastico verrà impartito anche l’insegnamento religioso, presumibilmente con maggiore profondità di quanto non avvenga negli istituti gestiti dallo Stato o da organizzazioni diverse dalla Chiesa Cattolica, ma è evidente che tale circostanza non è sufficiente a qualificare l’edificio in questione come «dedicato al culto».
L’appellante sostiene di avere diritto anche sotto diverso titolo all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione, in quanto l’edificio in questione è destinato, appunto, a istruzione primaria.
Neanche questa argomentazione può essere condivisa.
Invero, l’esenzione di cui si tratta deve essere riconosciuta se la struttura realizzata soddisfa un bisogno della collettività, riconosciuto dall’Amministrazione in sede di programmazione o in altri modi.
Nel caso citato dall’appellante (C. di S., V, 12.05.2011, n. 2870) è stato riconosciuto il diritto all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione per la realizzazione di una clinica privata.
Il principio affermato in quella controversia non può essere applicato per risolvere quella sottoposta al Collegio, in quanto la previsione urbanistica in quel caso rilevante ha tenuto conto del fatto che la clinica pur privata è inserita nel servizio sanitario nazionale, partecipa agli scopi di questo e accetta i pazienti in condizioni di eguaglianza.
Tali particolarità non ricorrono nel caso di specie, nel quale l’istituto scolastico in questione viene realizzato del tutto al di fuori della programmazione pubblica, secondo una libera scelta imprenditoriale dell’appellante.
Inoltre, è noto che negli istituti non statali gli alunni pagano una retta, e nemmeno viene ipotizzato che l’istituto di cui ora si tratta accolga gli allievi secondo modalità differenti.
In base agli elementi appena riassunti, rileva il Collegio che la struttura in questione non costituisce opera di urbanizzazione secondaria.
L’appellante deduce in contrario senso, a sostegno della propria tesi, la legge della Regione Lombardia 09.05.1992, n. 20, la quale all’art. 2 stabilisce che: «1. Ai sensi e per gli effetti dell'art. 3, secondo comma, lett. b), del decreto del ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, nonché di quanto previsto dall'art. 22 della L.R. 15.04.1975, n. 51, sono attrezzature di interesse comune per servizi religiosi:
a) gli immobili destinati al culto anche se articolati in più edifici;
b) gli immobili destinati all'abitazione dei ministri del culto, del personale di servizio, nonché quelli destinati ad attività di formazione religiosa;
c) nell'esercizio del ministero pastorale, gli immobili adibiti ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro, che non abbiano fini di lucro.
2. In relazione al disposto dell'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847 e successive modificazioni, le attrezzature di cui al precedente comma costituiscono opere di urbanizzazione secondaria ad ogni effetto
».
Osserva al riguardo il Collegio che la norma è chiaramente rivolta alla contrazione di mutui agevolati per la realizzazione delle opere ivi considerate, e che interpretandola nel senso proposto dall’appellante occorrerebbe interrogarsi sulla sua compatibilità con il complessivo sistema della legislazione urbanistica.
Peraltro, tale disamina si appalesa superflua, in quanto l’immobile in questione, destinato ad ospitare una scuola primaria non statale:
a) non è destinato al culto;
b) non è destinato ad abitazione dei ministri del culto o del personale di servizio e nemmeno ad attività di formazione religiosa;
c) non è destinato ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro pertinenti all’esercizio pastorale, ed è ben dubbio che manchi il fine di lucro.
Deve, in particolare, essere rilevato che la norma regionale in questione prende in considerazione le attività culturali in quanto pertinenti all’esercizio pastorale.
L’attività di una scuola, per quanto privata, non può essere considerata pertinente all’esercizio pastorale, essendo rivolta alla formazione complessiva dell’alunno, con insegnamenti che non possono che esulare dalla sfera religiosa.
Di conseguenza, la legge regionale invocata non sostiene le ragioni dell’appellante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.12.2015 n. 5647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - LAVORI PUBBLICI: Va esclusa la legittimazione dei “cittadini elettori”, atteso che la legittimazione processuale si rinviene solo in capo ai soggetti che presentino una posizione differenziata, in virtù della titolarità, a monte, di una posizione giuridica soggettiva sostanziale precipua; infatti, nel processo amministrativo, fatta eccezione per il giudizio elettorale, per il quale è ammessa l’azione popolare, non è consentito adire il giudice unicamente al fine di conseguire la legalità e la legittimità dell’azione amministrativa, ove ciò non si traduca anche in uno specifico beneficio in favore di chi la propone; altrimenti si avrebbe un ampliamento della legittimazione attiva oltre i casi previsti dalla legge, in contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva della giustizia amministrativa.
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Quanto alla legittimazione dei ricorrenti, nella qualità di consiglieri comunali, il Collegio osserva al riguardo che:
- per costante giurisprudenza, la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto all’organo di cui fanno parte;
- la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo;
- conseguentemente, la contestazione dei consiglieri dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione alle loro prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo.
In questa prospettiva, si è affermato che l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fanno parte, affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato.
È, peraltro, jus receptum che la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare atti degli organi di cui fanno parte sussiste ove vengano dedotte violazioni procedurali direttamente lesive del munus rivestito dal componente dell’organo oppure vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’Ufficio.
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Va evidenziato che la recente giurisprudenza, condivisa da questo TAR, è intervenuta innovativamente sul tema della contestazione delle lesioni del munus del consigliere comunale con un approccio sostanzialistico, sancendo, altresì, il principio del raggiungimento dello scopo, nel senso che, se il ricorrente ha comunque avuto conoscenza di tutti gli elementi documentali utili ai fini di una effettiva partecipazione al dibattito consiliare messi a disposizione in un tempo congruo, questi non può dolersi del mancato rispetto di una norma procedurale volta, per l’appunto, a garantire la detta piena conoscenza.
Orbene, il rispetto della scansione e dell’iter istruttorio descritti
(art. 128 del D.Lgs. n. 163/2006 e art. 13 del D.P.R. n. 207/2010), al di là degli interessi pubblici sottesi, appare, per quel che qui rileva, essenziale per consentire a ciascun consigliere di poter liberamente e consapevolmente deliberare mediante "la valutazione delle proposte risultanti dallo schema, previo confronto con le osservazioni eventualmente formulate dagli interessati grazie alla pubblicità dello schema, per giungere quindi alla "giusta" e legittima individuazione e determinazione delle opere da realizzare nell'anno".
Nel caso, invero, è mancato del tutto l’atto di proposta e di impulso della Giunta, quale è nella sostanza lo schema del programma triennale delle opere pubbliche con l’elenco annuale, e la relativa documentazione tecnico-finanziaria a supporto; è mancata, altresì, la sua sottoposizione al vaglio della collettività per sessanta giorni e conclusivamente la contrapposizione dialettica sul tema tra maggioranza e opposizione, contrapposizione che solo nella sede consiliare può realizzarsi.
Nella fattispecie, l’assenza (incontestata) dello schema di adozione del programma delle opere pubbliche e la violazione dei termini regolamentari per la messa a disposizione di tale necessario atto ai consiglieri sono stati, pertanto, idonei a ledere in concreto il diritto all’informazione e alle garanzie partecipative dei ricorrenti, non avendo avuto essi alcun termine per la conoscenza degli atti in questione, documenti essenziali a corredo sia del programma triennale delle opere pubbliche e dell’elenco annuale sia del bilancio di previsione, con evidente grave lesione delle prerogative consiliari.
Peraltro, indipendentemente dalla circostanza che l’elenco di opere approvato in Consiglio comunale sia stato o meno esibito in corso di seduta (circostanza non chiara), resta il fatto che esso non costituiva, né formalmente né soprattutto sostanzialmente, quello schema previsto dalla legge corredato di tutte le informazioni (finanziarie, urbanistiche, tecniche) necessarie per una consapevole scelta del consigliere comunale sul tema in oggetto.
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6 - La controversia, in via preliminare, pone la questione della legittimazione al ricorso dei ricorrenti, quali cittadini e quali consiglieri comunali contro gli atti del loro Comune, meglio indicati in epigrafe, il cui difetto viene eccepito, a pena d’inammissibilità, dal Comune resistente.
A supporto della propria tesi il Comune ha richiamato precedenti giurisprudenziali in materia.
6.1 – Va esclusa la legittimazione dei “cittadini elettori”, atteso che la legittimazione processuale si rinviene solo in capo ai soggetti che presentino una posizione differenziata, in virtù della titolarità, a monte, di una posizione giuridica soggettiva sostanziale precipua; infatti, nel processo amministrativo, fatta eccezione per il giudizio elettorale, per il quale è ammessa l’azione popolare, non è consentito adire il giudice unicamente al fine di conseguire la legalità e la legittimità dell’azione amministrativa, ove ciò non si traduca anche in uno specifico beneficio in favore di chi la propone; altrimenti si avrebbe un ampliamento della legittimazione attiva oltre i casi previsti dalla legge, in contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva della giustizia amministrativa (TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.11.2013, n. 9376; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 09.05.2013, n. 565).
6.2 – Quanto alla legittimazione dei ricorrenti, nella qualità di consiglieri comunali, il Collegio osserva al riguardo che:
- per costante giurisprudenza, la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discende ab externo rispetto all’organo di cui fanno parte (Consiglio di Stato, sez. V, 31.01.2001, n. 358);
- la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo (Consiglio di Stato, sez. V, 15.12.2005, n. 7122);
- conseguentemente, la contestazione dei consiglieri dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione alle loro prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo (Consiglio di Stato, sez. V, 29.04.2010, n. 2457).
In questa prospettiva, si è affermato che l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fanno parte, affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato (Consiglio di Stato, sez. V, 21.03.2012, n. 1610).
6.3 - È, peraltro, jus receptum che la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare atti degli organi di cui fanno parte sussiste ove vengano dedotte violazioni procedurali direttamente lesive del munus rivestito dal componente dell’organo oppure vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’Ufficio (ex multis, C.d.S., Sez. V, 09.10.2007, n. 5280; C.d.S., sez. I, parere 23.04.2012 n. 1960; Cons. St., sez. V, 19.04.2013, n. 2213).
6.4 - Così riassunto il panorama giurisprudenziale rilevante ai fini della presente decisione, il Collegio ritiene di dover verificare se, per effetto delle denunciate illegittimità procedimentali, non sia stato consentito un consapevole esercizio del voto da parte dei consiglieri sugli atti oggetto di impugnativa oppure se, nel caso, si versi, in concreto, in un’ipotesi di lamentata discordanza rispetto allo schema legale o ancora se trattasi di mero contrasto tra organi risolvibile politicamente.
6.5 - Orbene, ritiene il Collegio che, nel caso, venendo in contestazione, con il primo motivo, non il contenuto dello schema del programma triennale delle opere pubbliche predisposto dalla Giunta, bensì la sua mancanza (peraltro attestata dal Segretario comunale) quale atto allegato alla proposta di deliberazione di approvazione del programma triennale delle oo.pp., nonché il rispetto dei termini per il deposito presso la Segreteria degli atti relativi agli argomenti iscritti all’ordine del giorno, sussista la legittimazione ad agire dei ricorrenti.
Questi, infatti, lamentano vizi che, secondo la giurisprudenza, possono incidere sul munus pubblicum e quindi sull’effettivo e regolare esercizio delle peculiari funzioni di consigliere comunale ed in specie sul voto informato.
In particolare, l’assenza di qualsiasi attività istruttoria a supporto di decisioni programmatiche di tale rilevanza, l’assenza di uno schema predisposto secondo le indicazioni ministeriali, la mera allegazione alla deliberazione in questione di due elenchi di opere, senza alcuna delle indicazioni normativamente previste, ove accertati, sono vizi che possono incidere sul diritto del consigliere comunale a poter assumere una decisione consapevole e informata.
6.6 - Ritiene, invece, il Collegio che non sono ammissibili le censure con le quali i ricorrenti fanno valere doglianze non riconducibili alla violazione delle prerogative consiliari, quali la ritenuta illegittima convocazione della seduta del consiglio comunale, che sarebbe avvenuta oltre i termini di cui alla diffida prefettizia (secondo motivo), non essendo esplicitate le ragioni per cui tale asserita illegittimità abbia, in concreto, potuto incidere sulle prerogative di ciascun consigliere.
6.7 - Pertanto, sulla scorta della prospettazione alla base della presente impugnativa e della possibilità di un suo rilievo ai fini della consistenza obiettiva dello ius ad officium del consigliere comunale, conformemente alle coordinate già tracciate dal Consiglio di Stato (sez. V, 19.04.2013, n. 2213), il Collegio intende risolvere in senso positivo la questione della legittimazione ad agire dei consiglieri odierni ricorrenti, sia pure limitatamente al primo motivo dedotto.
7 – Sempre in via preliminare, va dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Prefettura e del Ministero dell’Interno, in quanto non si tratta di Amministrazioni che hanno emesso l’atto impugnato, né di soggetti controinteressati ai sensi dell’art. 41, comma 1, del cod. proc. amm..
La Prefettura di Catanzaro e il Ministero dell’Interno vanno, quindi, estromessi dal presente giudizio.
8 - Passando all’esame del primo motivo di ricorso, con esso i ricorrenti si dolgono della mancanza di schema di programma delle opere pubbliche, non adottato dall’organo competente, della sua mancata allegazione agli atti del Consiglio comunale nei termini regolamentari e della circostanza che ciò abbia inciso sul loro officium.
8.1 - Il Comune resistente sul punto controdeduce che il mancato preventivo deposito del piano triennale e dell’elenco annuale sarebbe da ascrivere a una critica situazione esistente negli uffici tecnici comunali e ad analoga carenza per l’Ufficio del Segretario Comunale.
8.2 - Il motivo è fondato.
8.3 - Sul punto va osservato che, dalla lettura della normativa di riferimento (art. 128 del D.Lgs. n. 163/2006 e art. 13 del D.P.R. n. 207/2010), si evince la puntuale scansione procedimentale prevista dal legislatore ai fini dell’approvazione del programma triennale dei lavori pubblici e del relativo aggiornamento annuale, consistente nei seguenti momenti fondamentali:
a) adozione dello schema di programma triennale con l’aggiornamento annuale redatto entro il 30 settembre di ogni anno ad adottato dalla Giunta comunale entro il 15 ottobre;
b) pubblicità dello schema mediante sua affissione all’albo pretorio per almeno sessanta giorni;
c) approvazione definitiva del programma unitamente al bilancio di previsione.
In particolare, ai sensi dell’art. 128 del d.p.r. n. 163 del 2006: “1. L'attività di realizzazione dei lavori di cui al presente codice di singolo importo superiore a 100.000 euro si svolge sulla base di un programma triennale e di suoi aggiornamenti annuali che le amministrazioni aggiudicatrici predispongono e approvano, nel rispetto dei documenti programmatori, già previsti dalla normativa vigente, e della normativa urbanistica, unitamente all'elenco dei lavori da realizzare nell'anno stesso.
2. Il programma triennale costituisce momento attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e quantificazione dei propri bisogni che le amministrazioni aggiudicatrici predispongono nell'esercizio delle loro autonome competenze e, quando esplicitamente previsto, di concerto con altri soggetti, in conformità agli obiettivi assunti come prioritari. Gli studi individuano i lavori strumentali al soddisfacimento dei predetti bisogni, indicano le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economico-finanziarie degli stessi e contengono l'analisi dello stato di fatto di ogni intervento nelle sue eventuali componenti storico-artistiche, architettoniche, paesaggistiche, e nelle sue componenti di sostenibilità ambientale, socio-economiche, amministrative e tecniche. In particolare le amministrazioni aggiudicatrici individuano con priorità i bisogni che possono essere soddisfatti tramite la realizzazione di lavori finanziabili con capitali privati, in quanto suscettibili di gestione economica. Lo schema di programma triennale e i suoi aggiornamenti annuali sono resi pubblici, prima della loro approvazione, mediante affissione nella sede delle amministrazioni aggiudicatrici per almeno sessanta giorni consecutivi ed eventualmente mediante pubblicazione sul profilo di committente della stazione appaltante.
3. Il programma triennale deve prevedere un ordine di priorità. Nell'ambito di tale ordine sono da ritenere comunque prioritari i lavori di manutenzione, di recupero del patrimonio esistente, di completamento dei lavori già iniziati, i progetti esecutivi approvati, nonché gli interventi per i quali ricorra la possibilità di finanziamento con capitale privato maggioritario …
6. L'inclusione di un lavoro nell'elenco annuale è subordinata, per i lavori di importo inferiore a 1.000.000 di euro, alla previa approvazione almeno di uno studio di fattibilità e, per i lavori di importo pari o superiore a 1.000.000 di euro, alla previa approvazione almeno della progettazione preliminare, redatta ai sensi dell'articolo 93, salvo che per i lavori di manutenzione, per i quali è sufficiente l'indicazione degli interventi accompagnata dalla stima sommaria dei costi, nonché per i lavori di cui all'articolo 153 per i quali è sufficiente lo studio di fattibilità.
7. Un lavoro può essere inserito nell'elenco annuale, limitatamente ad uno o più lotti, purché con riferimento all'intero lavoro sia stata elaborata la progettazione almeno preliminare e siano state quantificate le complessive risorse finanziarie necessarie per la realizzazione dell'intero lavoro …
9. L'elenco annuale predisposto dalle amministrazioni aggiudicatrici deve essere approvato unitamente al bilancio preventivo, di cui costituisce parte integrante, e deve contenere l'indicazione dei mezzi finanziari stanziati sullo stato di previsione o sul proprio bilancio, ovvero disponibili in base a contributi o risorse dello Stato, delle regioni a statuto ordinario o di altri enti pubblici, già stanziati nei rispettivi stati di previsione o bilanci, nonché acquisibili ai sensi dell'articolo 3 del decreto-legge 31.10.1990, n. 310, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.1990, n. 403, e successive modificazioni …
11. Le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute ad adottare il programma triennale e gli elenchi annuali dei lavori sulla base degli schemi tipo, che sono definiti con decreto del Ministro delle infrastrutture; i programmi triennali e gli elenchi annuali dei lavori sono pubblicati sul sito informatico del Ministero delle infrastrutture di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 06.04.2001, n. 20 e per estremi sul sito informatico presso l'Osservatorio …
”.
Ed ancora, ai sensi dell’art. 13 del D.P.R. n. 207/2010, “degli studi di cui all'articolo 11, commi 1 e 3, ogni anno viene redatto, aggiornando quello precedentemente approvato, un programma dei lavori pubblici da eseguire nel successivo triennio. Tale programma è deliberato dalle amministrazioni aggiudicatrici diverse dallo Stato contestualmente al bilancio di previsione e al bilancio pluriennale, ed è ad essi allegato assieme all'elenco dei lavori da avviare nell'anno.
2. Il programma indica, per tipologia e in relazione alle specifiche categorie degli interventi, le loro finalità, i risultati attesi, le priorità, le localizzazioni, le problematiche di ordine ambientale, paesistico ed urbanistico-territoriale, le relazioni con piani di assetto territoriale o di settore, le risorse disponibili, la stima dei costi e dei tempi di attuazione. Le priorità del programma privilegiano valutazioni di pubblica utilità rispetto ad altri elementi in conformità di quanto disposto dal codice.
3. Lo schema di programma e di aggiornamento sono redatti, entro il 30 settembre di ogni anno ed adottati dall'organo competente entro il 15 ottobre di ogni anno. La proposta di aggiornamento è fatta anche in ordine alle esigenze prospettate dai responsabili del procedimento dei singoli interventi. Le Amministrazioni dello Stato procedono all'aggiornamento definitivo del programma entro novanta giorni dall'approvazione della legge di bilancio da parte del Parlamento.
4. Sulla base dell'aggiornamento di cui al comma 3 è redatto, entro la stessa data, l'elenco dei lavori da avviare nell'anno successivo, con l'indicazione del codice unico di progetto, previamente richiesto dai soggetti competenti per ciascun lavoro
”.
8.4 – Ciò posto, va evidenziato che la recente giurisprudenza, condivisa da questo TAR, è intervenuta innovativamente sul tema della contestazione delle lesioni del munus del consigliere comunale con un approccio sostanzialistico, sancendo, altresì, il principio del raggiungimento dello scopo, nel senso che, se il ricorrente ha comunque avuto conoscenza di tutti gli elementi documentali utili ai fini di una effettiva partecipazione al dibattito consiliare messi a disposizione in un tempo congruo, questi non può dolersi del mancato rispetto di una norma procedurale volta, per l’appunto, a garantire la detta piena conoscenza (TAR Molise – sez. I, 12.05.2010 n. 207; TAR Sicilia, sez. I, 23.05.2012, n. 1029).
Orbene, il rispetto della scansione e dell’iter istruttorio su descritti, al di là degli interessi pubblici sottesi (v. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.12.2002, n. 6917), appare, per quel che qui rileva, essenziale per consentire a ciascun consigliere di poter liberamente e consapevolmente deliberare mediante "la valutazione delle proposte risultanti dallo schema, previo confronto con le osservazioni eventualmente formulate dagli interessati grazie alla pubblicità dello schema, per giungere quindi alla "giusta" e legittima individuazione e determinazione delle opere da realizzare nell'anno" (Cons. St., sez. IV, 14.12.2002, n. 6917).
Nel caso, invero, è mancato del tutto l’atto di proposta e di impulso della Giunta, quale è nella sostanza lo schema del programma triennale delle opere pubbliche con l’elenco annuale, e la relativa documentazione tecnico-finanziaria a supporto; è mancata, altresì, la sua sottoposizione al vaglio della collettività per sessanta giorni e conclusivamente la contrapposizione dialettica sul tema tra maggioranza e opposizione, contrapposizione che solo nella sede consiliare può realizzarsi (Cons. St., sez. IV, 14.12.2002, n. 6917).
Nella fattispecie, l’assenza (incontestata) dello schema di adozione del programma delle opere pubbliche e la violazione dei termini regolamentari per la messa a disposizione di tale necessario atto ai consiglieri sono stati, pertanto, idonei a ledere in concreto il diritto all’informazione e alle garanzie partecipative dei ricorrenti, non avendo avuto essi alcun termine per la conoscenza degli atti in questione, documenti essenziali a corredo sia del programma triennale delle opere pubbliche e dell’elenco annuale sia del bilancio di previsione, con evidente grave lesione delle prerogative consiliari.
Peraltro, indipendentemente dalla circostanza che l’elenco di opere approvato in Consiglio comunale sia stato o meno esibito in corso di seduta (circostanza non chiara), resta il fatto che esso non costituiva, né formalmente né soprattutto sostanzialmente, quello schema previsto dalla legge corredato di tutte le informazioni (finanziarie, urbanistiche, tecniche) necessarie per una consapevole scelta del consigliere comunale sul tema in oggetto.
9 - In accoglimento del detto motivo, la delibera di Consiglio comunale impugnata relativa all’approvazione del programma delle opere pubbliche va annullata.
10 - Da ciò discende, l'illegittimità della deliberazione n. 23 del 18.09.2015, recante ad oggetto "Approvazione piano triennale delle opere pubbliche per il triennio 2015/2017 ed elenco annuale", con conseguente illegittimità (derivata) anche della successiva deliberazione del Consiglio Comunale n. 25 del 18.09.2015, recante ad oggetto "Approvazione del bilancio di previsione dell'esercizio 2015 e del bilancio pluriennale per il periodo 2015-2017 ex DPR n. 194/1996, del bilancio di previsione finanziario 2015-2017 ex D.Lgs. n. 118/2011 e della Relazione previsionale e programmatica 2015-2017 (comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti)", posto che, per espressa previsione legislativa, il programma triennale delle opere pubbliche e l’elenco annuale costituiscono parte propedeutica, obbligatoria ed integrante del bilancio di previsione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.12.2015 n. 1922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In tema di abuso d’ufficio il dovere di astensione da parte del soggetto qualificato deve ravvisarsi anche laddove vengano in considerazione provvedimenti per i quali è riconoscibile un interesse personale, anche indiretto, ed il relativo presupposto di fatto deve presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile fattore inquinante in relazione alla determinazione del contenuto dell’atto o dell’operazione da compiere.
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3. Secondo una pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 323 c.p., nella parte relativa all'omessa astensione in presenza di un interesse proprio dell'agente o di un prossimo congiunto, ha introdotto nell'ordinamento, in via diretta e generale, un dovere di astensione per i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio che si trovino in una situazione di conflitto di interessi.
Ne discende che l'inosservanza di tale dovere comporta l'integrazione del reato anche quando faccia difetto, per il procedimento ove l'agente è chiamato ad operare, una specifica disciplina dell'astensione, o nei casi in cui la disciplina eventualmente esistente riguardi un numero più ridotto di ipotesi o sia priva di carattere cogente
(Sez. 6, n. 14457 del 15/03/2013, dep. 27/03/2013, Rv. 255324; Sez. 6, n. 7992/05 del 19/10/2004, Rv. 231477; v., inoltre, Sez. 6, 27.05.2014, n. 38350).
Tale obbligo, infatti, trova la sua fonte nella stessa formulazione dell'art. 323 c.p., ove la previsione della norma incriminatrice descrive come antidoverosa l'omessa astensione in presenza di un interesse proprio e dei propri congiunti, così tipizzando tale situazione di incompatibilità e rinviando alla normativa extrapenale per quelle diverse "negli altri casi prescritti" (v., in motivazione, Sez. 6, n. 11549 del 02/10/1998, dep. 06/11/1998, Rv. 213031).
Nel caso in esame emerge con chiarezza, dalla su esposta ricostruzione in fatto dei Giudici di merito, la presenza di un obbligo di astensione dell'imputato in relazione all'atto di designazione del componente la su indicata Commissione medica locale, sussistendo una situazione di evidente conflitto di interessi in ragione del rapporto di coniugio, con una palese ed originaria violazione del principio generale di imparzialità e trasparenza nell'azione della Pubblica amministrazione, riconducibile all'art. 97 Cost..
Il dovere di astensione, infatti, sussiste quando vengano in considerazione provvedimenti per i quali è riconoscibile un interesse personale anche indiretto (Sez. 6, n. 14457 del 15/03/2013 cit.) ed il relativo presupposto di fatto deve presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile fattore inquinante in relazione alla determinazione del contenuto dell'atto o dell'operazione da compiere.
Potrebbe escludersi il dovere di astensione, dunque, solo con riferimento all'adozione di provvedimenti normativi o di carattere generale (ad es., le delibere di approvazione di piani regolatori generali), frutto di un procedimento complesso in cui confluiscano e si compensino molteplici interessi, collettivi o individuali, sicché la decisione espressa dal pubblico funzionario non riguardi una specifica prescrizione, ma il contenuto generale dell'atto: nel caso in questione, di contro, viene in rilievo l'adozione di un provvedimento ad hoc, il cui esito decisorio è oggettivamente caratterizzato da una correlazione diretta ed immediata fra il contenuto dell'atto e l'incidenza sulla sfera di concreti e specifici interessi del pubblico funzionario e/o dei suoi prossimi congiunti (arg. ex Sez. 6, n. 12642 del 28/01/2015, dep. 25/03/2015, Rv. 263069).
4. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi come costituisca oramai espressione di un consolidato orientamento interpretativo il principio secondo il quale, ai fini dell'integrazione del reato di abuso di ufficio, anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione è necessario che a tale omissione, già fonte di una violazione di legge, si aggiunga l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato (così, tra le diverse, Sez. 6, n. 47978 del 27/10/2009, Rv. 245447; Sez. 6, n. 26324 del 26/04/2007, Rv. 236857; Sez. 6, n. 11415 del 21/02/2003, Rv. 224070).
Nel caso di specie, come si è visto, l'illegittimità della scelta operata dall'imputato attraverso l'atto di designazione compiuto in favore della moglie ne ha determinato un illegittimo accrescimento della sfera patrimoniale per effetto dell'erogazione degli emolumenti spettanti ai componenti la predetta commissione, non essendo affatto necessario -ai fini della distinta valutazione di ingiustizia della condotta e dell'evento di vantaggio patrimoniale, che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo- che l'ingiustizia del vantaggio derivi da una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha caratterizzato l'illegittimità della condotta, qualora l'accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba considerarsi "contra ius" (Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, dep. 18/03/2015, Rv. 262793).
È infatti sufficiente la violazione di prescrizioni normative sul solo versante della condotta, sempre che, per effetto di essa, il privato abbia ottenuto una posizione di maggior favore alla quale non aveva diritto, senza che si renda necessaria l'attribuzione di un vantaggio patrimoniale attraverso la violazione di un'ulteriore norma di legge. Occorre pertanto che il giudice effettui, al riguardo, una duplice valutazione, tenendo ben distinto il profilo inerente all'illegittimità della condotta da quello relativo all'ingiustizia del vantaggio, non potendosi inferire quest'ultima dall'accertata esistenza della violazione di norme di legge o di regolamento (ex plurimis, v. Cass., Sez. 6, 27.06.2009, Moro), ma dovendosi sempre accertare che il privato non abbia titolo a ricevere il vantaggio attribuitogli, perché non dovuto, cioè iniuste datum, ovvero perché ottenuto sine iure (da ultimo, v. Sez. 6, 31 marzo - 19.06.2015, n. 25944).
Il vantaggio, infatti, è ingiusto ogniqualvolta non trovi fondamento in un corrispondente diritto sostanziale, dunque non soltanto qualora sia in sé contrario all'ordinamento, ma anche quando il privato non possa vantare, rispetto ad esso, alcuna situazione giuridica soggettiva a sostegno della relativa pretesa.
In tal senso, la contrarietà a diritto del vantaggio patrimoniale acquisito dal soggetto prescelto per effetto dell'atto di designazione è direttamente scaturita, nel caso di specie, dall'ottenimento e dal conseguente svolgimento di un incarico amministrativo conferito in presenza di una situazione viziata, come si è già avuto modo di rilevare, da un macroscopico conflitto d'interessi.
Del tutto congetturale e non assistito da un congruo sostegno logico-argomentativo deve, infine, ritenersi il passaggio della motivazione (v., supra, il par. 2) in cui il Tribunale fa riferimento, per escludere l'esistenza del dovere di astensione, alle implicazioni di una non meglio precisata valutazione di "compatibilità" della gestione dell'attività lavorativa della moglie, che gli organi dirigenziali avrebbero espresso riguardo alle funzioni in concreto svolte ed all'organizzazione dell'ASL di appartenenza (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 10.12.2015 n. 48913).

APPALTI: Nelle gare d’appalto sono clausole della lex specialis immediatamente lesive, e quindi autonomamente impugnabili senza attendere la loro concreta applicazione da parte della stazione appaltante, le clausole che determinano una sicura preclusione all’ammissione alla gara di un potenziale concorrente.
Un onere di impugnazione immediata di clausole contenute negli atti di indizione della gara, inoltre, può sussistere qualora le relative clausole impediscano una corretta e consapevole elaborazione dell'offerta: tale situazione si verifica, in particolare, qualora la legge di gara preveda disposizioni abnormi che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla procedura concorsuale, ovvero abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta o, ancora, condizioni negoziali che configurano il rapporto contrattuale in termini di eccessiva onerosità e obiettiva non convenienza ed imposizioni di obblighi contra ius.

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Il ricorso è inammissibile.
Nelle gare d’appalto sono clausole della lex specialis immediatamente lesive, e quindi autonomamente impugnabili senza attendere la loro concreta applicazione da parte della stazione appaltante, le clausole che determinano una sicura preclusione all’ammissione alla gara di un potenziale concorrente.
Un onere di impugnazione immediata di clausole contenute negli atti di indizione della gara, inoltre, può sussistere qualora le relative clausole impediscano una corretta e consapevole elaborazione dell'offerta: tale situazione si verifica, in particolare, qualora la legge di gara preveda disposizioni abnormi che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla procedura concorsuale, ovvero abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta o, ancora, condizioni negoziali che configurano il rapporto contrattuale in termini di eccessiva onerosità e obiettiva non convenienza ed imposizioni di obblighi contra ius (cfr. TAR Lazio, I, 13.01.2014 n. 351; TAR Liguria, II, 28.11.2013 n. 1449; TAR Veneto, I, 03.04.2013 n. 491).
Nel caso di specie la ricorrente contesta, in buona sostanza, l’obbligo di rispetto della “clausola sociale” nei termini e con le modalità imposti dalla stazione appaltante che aveva onerato la ditta aggiudicataria dell’assorbimento di tutto il personale dell’impresa uscente con la conservazione, peraltro, del trattamento giuridico ed economico in godimento (cfr. l’art. 9 del disciplinare di gara): obbligo che, secondo la ricorrente, deve essere interpretato in maniera elastica, in coerenza con l’assetto organizzativo proprio della ditta subentrante, atteso che, diversamente, la clausola si porrebbe in evidente contrasto con i canoni di economia e di autonomia che necessariamente permeano, pur calmierati dal principio di utilità sociale, l’attività imprenditoriale e sarebbe, pertanto, illegittima.
Ebbene, a tal proposito deve osservarsi che se la predetta clausola imponeva effettivamente oneri sproporzionati che impedivano una corretta e consapevole elaborazione dell’offerta –la ricorrente ha sottolineato, infatti, “che negli atti di gara non era rinvenibile né il numero esatto del personale in servizio alla data di pubblicazione dell’avviso di gara né, tantomeno la qualifica e il livello retributivo di inquadramento di ciascun lavoratore”, talché non era possibile prevederne il costo con certezza-, tant’è che la ricorrente era fin da subito determinata a disattenderne il contenuto, allora quella clausola doveva essere impugnata tempestivamente, senza attendere di essere esclusa dalla gara in conseguenza della sua (pacificamente preventivata) violazione.
È evidente, peraltro, che la clausola sociale, così come formulata (in maniera chiara, precisa ed inequivoca) nell’art. 9 del disciplinare, non poteva poi essere interpretata dalla ricorrente limitandone l’efficacia prescrittiva a proprio piacimento, alla luce di quell’orientamento giurisprudenziale che afferma che la clausola sociale, ove genericamente richiamata dal bando, ha sì portata cogente, ma non tale da comportare l'obbligo per l'impresa aggiudicataria di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata tutto il personale già utilizzato dalla precedente impresa affidataria del servizio.
Nel caso di specie -lo si ribadisce- la legge di gara non richiamava genericamente la clausola sociale, ma stabiliva espressamente (in grassetto e sottolineato) che “…la ditta aggiudicataria dovrà assorbire tutto il personale impiegato dall’impresa uscente dal precedente appalto, con mantenimento delle condizioni retributive…, pena la risoluzione del contratto, senza necessità di alcun preavviso da parte della Stazione appaltante”.
Si tratta, dunque, di una prescrizione chiara che non consente interpretazioni diverse da quella letterale: sicché, se la ricorrente voleva contestarne la portata (così come ha fatto), perché ritenuta lesiva, doveva impugnarla immediatamente, censurando gli atti di gara “in parte qua”. Ciò in quanto la sua violazione (recte: la sua omessa, integrale applicazione) avrebbe pacificamente ed automaticamente comportato l’eliminazione dalla gara.
Nei confronti dell’odierna ricorrente, infatti, il pregiudizio si è radicato -ossia l’attualità della lesione si è verificata- già con la pubblicazione dell’avviso di gara.
Quanto, poi, all’osservazione dell’interessata secondo cui il rispetto della clausola sociale va verificato in sede di esecuzione del servizio, se ciò è vero, è altresì vero che essa ha comunicato la volontà di non voler applicare la clausola nella sua integralità prima di eseguire le prestazioni, sicché, per economia procedimentale –sarebbe stato assurdo stipulare il contratto per poi risolverlo immediatamente–, sussistendo i presupposti per l’allontanamento della concorrente l’Amministrazione appaltante l’ha (correttamente) esclusa dalla procedura selettiva.
Donde l’inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione della clausola asseritamente lesiva (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.12.2015 n. 5718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’art. 21-nonies della legge 17.08.1990, n. 241 prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
E’ bene aggiungere che il decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha posto uno sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, rappresento da «diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
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4.– L’appello, a prescindere dalla questione relativa all’eccepito difetto di interesse, è infondato.
L’art. 21-nonies della legge 17.08.1990, n. 241 prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, pur volendo prescindere dalla questione relativa alla sussistenza del vizio di legittimità dell’atto di primo grado, manca il requisito rappresentato dalla valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del provvedimento.
Nel caso in esame tale affidamento era particolarmente qualificato, come messo correttamente in rilievo dal primo giudice, in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione delle concessioni annullate. In particolare, risultano trascorsi tredici anni dal rilascio del condono e ventinove anni dalla presentazione della relativa domanda.
Né varrebbe rilevare che tale affidamento non potrebbe venire in rilievo trattandosi di un provvedimento nullo. L’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 indica, in modo tassativo, quali sono i casi di nullità del provvedimento: mancanza degli elementi essenziale dell’atto; difetto assoluto di attribuzione; violazione o elusione del giudicato; casi previsti dalla legge.
Nella fattispecie in esame non è dato riscontrare nessuno dei casi sopra indicati: il Comune, infatti, nella prospettiva dell’appellante, ha adottato un atto difforme dal modello legale per mancanza del parere che, in quanto tale, potrebbe ritenersi annullabile e non nullo.
E’ bene aggiungere che il decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha posto uno sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, rappresento da «diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti.
5.– Gli altri motivi di appello sono anch’essi infondati, in ragione dell’assorbente valenza invalidante sopra riportata. In particolare, l’appellante, con tali motivi, fa valere ulteriori ragioni di invalidità delle rilasciate concessioni edilizie in sanatoria in ragione dell’esistenza di vincoli paesaggistici e per il contrasto con gli strumenti urbanistici.
Quelli indicati sono, però, eventuali vizi di legittimità che, da soli, in assenza degli altri elementi costitutivi del provvedimento di secondo grado, non sarebbero comunque sufficienti a giustificare il disposto annullamento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.12.2015 n. 5625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASpecie in tema di misure pecuniarie, solo un provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria può sortire l’effetto di porre nel nulla, indistintamente, gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione all’abuso, mentre, per converso, un suo diniego non comporta l’onere per il comune di riattivare un procedimento sanzionatorio ormai completamente definito.
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- Rilevato che la ricorrente impugna una cartella esattoriale emessa dal concessionario per la riscossione del comune di Lamezia Terme con riferimento ad un’ordinanza-ingiunzione per il pagamento di una sanzione edilizia notificata il 17.12.2012 e non impugnata, formulando censure sia sul merito della pretesa, sia sulla ritualità formale della cartella;
- Ritenuto che, in materia edilizia, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo consente allo stesso una cognizione limitata alla sola legittimità dell’iscrizione a ruolo, per la mancanza del titolo legittimante o per l’esistenza di fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, senza possibilità di vagliare eventuali vizi dell’esecuzione, che devono essere fatti valere con l’opposizione agli atti esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c., da attivarsi nel caso in cui si contesti la ritualità formale della cartella esattoriale o si adducano vizi di forma del procedimento di esecuzione esattoriale, compresi quelli strettamente inerenti alla notifica della cartella o riguardanti i successivi avvisi di mora (cfr. Cass. civ, Sez. II, 22.02.2010 n. 4139; TAR Marche 17.05.2010 n. 389);
- Considerato che la parte ricorrente, nella parte ammissibile del gravame, sostiene che gli effetti dell’ordinanza ingiunzione sono venuti a meno in seguito alle due SCIA in sanatoria, da lei presentate al comune di Lamezia Terme in data 27.04.2012 ed in data 18.11.2012 e da questo mai decise;
- Ritenuto che, specie in tema di misure pecuniarie, solo un provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria può sortire l’effetto di porre nel nulla, indistintamente, gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione all’abuso, mentre, per converso, un suo diniego non comporta l’onere per il comune di riattivare un procedimento sanzionatorio ormai completamente definito (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 18.04.2013 n. 335) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 10.12.2015 n. 1865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ben Ambientai. Accertamento di compatibilità paesaggistica sussistenza del reato.
In tema di reati edilizi, la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario, che abbia la disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori, a meno che egli non alleghi circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà.
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Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite.
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Il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente" che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato.
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Il reato di cui all'art. 181 D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, qualora sia realizzato attraverso una condotta che si protrae nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo.
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2. Orbene, nel caso di specie, con motivazione congrua e priva di smagliature logiche, la sentenza impugnata ha correttamente affermato la responsabilità dell'imputato in ordine al reato contestato, ritenendo prive di pregio le doglianze difensive.
Come affermato da questa Corte (così Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013, Spataro, Rv. 257676),
in tema di reati edilizi, la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario, che abbia la disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori, a meno che egli non alleghi circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà.
3. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha escluso con motivazione logica e coerente che le condotte contestate fossero da attribuire in via esclusiva al padre dell'imputato, ormai deceduto, in quanto usufruttuario dei terreni su cui erano state realizzate le opere abusive.
I giudici dì merito, infatti, hanno evidenziato che nella nota indirizzata all'Ufficio tecnico del Comune di Carloforte, era stato l'imputato a dichiarare che i lavori edilizi di costruzione sarebbero stati eseguiti "in proprio"; inoltre, il direttore dei lavori nel trasmettere la dichiarazione di rinuncia ha dichiarato di rinunciare per motivi personali "all'incarico del sig. Bo.Ce.".
4. Alla luce di tali considerazioni risulta evidente, pertanto, che l'intervento abusivo non poteva essere considerato come opera esclusiva dell'usufruttuario realizzata all'insaputa del nudo proprietario. Sicché correttamente i giudici merito hanno ritenuto sussistente la responsabilità dell'imputato anche se nudo proprietario dei terreni, evidenziando come le dichiarazioni autoaccusatorie del padre fossero state in realtà funzionali a scagionare il figlio, e perciò altrettanto correttamente, hanno ritenuto privo di pregio l'assunto difensivo secondo il quale, solo il padre dell'imputato, in qualità di usufruttuario e dunque di possessore del terreno, avrebbe dovuto essere considerato autore del reato contestato.
5. Del pari, risultano infondate le censure prospettate con riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti. Sul punto, la sentenza impugnata ha evidenziato che l'autorizzazione n. 7/2007 non aveva certamente assentito l'intervento relativo alla realizzazione di uno stradello di 100 metri per il quale, invece, trattandosi di opera di urbanizzazione primaria, sarebbe stata necessaria la concessione edilizia (la legislazione sarda non ha ancora adottato la terminologia del D.P.R. n. 380 del 2001, ma nella sostanza i due istituti si equivalgono).
Peraltro, i giudici di merito hanno evidenziato come la testimonianza del Sa. aveva chiarito che gli scavi riguardavano un'area maggiore rispetto a quella che sarebbe stata necessaria per la cisterna.
6. Per quanto attiene alla intervenuta dichiarazione di conformità, ne è stata esclusa la rilevanza dai giudici del merito in applicazione del principio per cui
il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite (cfr. Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289).
E' stato anche affermato che
il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del reato di pericolo di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che non richiede per la sua integrazione un effettivo pregiudizio per l'ambiente, in quanto il rilascio di tale provvedimento non implica "automaticamente" che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato (Sez. 3, Sentenza n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263978).
7. Conformemente agli indirizzi sopra citati, la Corte territoriale ha dato atto di alcuni elementi fattuali che hanno assunto significativo rilievo ai fini della valutazione di incidenza delle opere sull'assetto del paesaggio. La motivazione della sentenza impugnata, infatti, ha ritenuto che non potesse considerarsi inoffensiva la realizzazione abusiva di uno sbancamento di terra e la realizzazione di una stradina di quasi 120 metri di lunghezza e di quasi 5 metri di larghezza in una zona assoggettata al vincolo speciale della dichiarazione di notevole interesse pubblico.
Di conseguenza, i giudici di merito hanno concluso con motivazione esaustiva che l'opera realizzata aveva costituito non già la classica pista di campagna, bensì un'opera imponente che aveva mutato i tratti caratteristici della zona.
8. Da ultimo, deve essere rigettata l'eccezione di prescrizione del reato. Infatti, anche con riferimento alla censura relativa alla datazione delle opere, si tratta ancora una volta di un accertamento di fatto che non può essere demandato al giudizio di legittimità, ove la motivazione del provvedimento impugnato sia stata congruamente e logicamente motivata.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha precisato che, all'atto di accertamento da parte del Corpo Forestale, i lavori abusivi erano ancora in corso; tale circostanza era stata confermata dalle fotografie in atti, che attestavano la presenza delle attrezzature da cantiere ancora in corso, scavi e movimenti di terra recentissimi, atteso che, come ha sottolineato il giudice di merito, la sede dei lavori non era interessata dalla crescita di erba, e vi erano anche dei tubi a vista.
Sotto un diverso profilo, la sentenza impugnata ha altresì dato conto del fatto che era possibile ravvisare nelle opere realizzate i caratteri di un intervento unitario di modifica strutturale del terreno, e dunque ritenendo priva di fondamento la prospettiva difensiva finalizzata a prospettare la possibilità di valutare le opere separatamente, segmentando il tempus commissi delicti per ciascuna di esse.
9. Peraltro, giova ricordare che
il reato di cui all'art. 181 D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, qualora sia realizzato attraverso una condotta che si protrae nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 24690 del 18/02/2015, Mancini, Rv. 263926).
Pertanto, tenuto conto della data di accertamento del reato avvenuta in data 25.02.2008, con un termine lungo di prescrizione di sette anni e mezzo, e considerati i periodi di sospensione determinati dai reiterati rinvii del dibattimento disposti per l'adesione del difensore alle astensioni proclamate dagli organismo di categoria (per un totale di centosessantadue giorni), i termini di prescrizione del reato contestato non sono ancora decorsi.
Per tali motivi, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.12.2015 n. 48451 - tratto da www.lexambiente.it).

VARI: Volumetria non toccata, ok alla compravendita.
Nel caso in cui le irregolarità che riguardano un immobile non hanno comportato l'aumento della volumetria, il tribunale potrà autorizzarne la compravendita.

Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza 09.12.2015 n. 24852.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì osservato che per quanto riguarda la nullità prevista dall'art. 40 della legge n. 47 del 1985 -derivando semplicemente dalla mancata indicazione nell'atto, da parte dell'alienante, degli estremi della concessione (ad edificare o in sanatoria)- questa rappresenta una nullità formale, che va ricondotta -nel sistema generale dell'invalidità- all'art. 1418 ultimo comma cod. civ., in quanto la legge speciale eleva a requisito formale del contratto la presenza in esso di alcune dichiarazioni, la cui assenza comporta di per sé la nullità dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità dell'immobile che ne costituisce l'oggetto.
Gli Ermellini hanno, poi, evidenziato che gli artt. 17 e 40 della legge 28.02.1985, n. 47 comminano la nullità degli atti tra vivi con i quali vengano trasferiti diritti reali su immobili ove essi non contengano la dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell'immobile oggetto di compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria, sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene stesso attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia, ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria.
Si evince, quindi, che nessuna invalidità deriverà al contratto dalla difformità della realizzazione edilizia rispetto alla licenza o alla concessione e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.
E quindi, in tema di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi di legge, non può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex art. 2932 cod. civ. non solo qualora l'immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia, ma anche quando l'immobile sia caratterizzato da totale difformità della concessione e manchi la sanatoria (articolo ItaliaOggi Sette del 04.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi della Legge 28.02.1985, n. 47, articolo 40, non può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex articolo 2932 cod. civ. non solo qualora l’immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia (e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione), ma anche quando l’immobile sia caratterizzato da totale difformità della concessione e manchi la sanatoria.
Nel caso in cui, invece, l’immobile, munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati né revocati, abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione (nella specie, per la presenza di un aumento, non consistente, della volumetria fuori terra realizzata, non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile), non sussiste alcuna preclusione all’emanazione della sentenza costitutiva, perché il corrispondente negozio di trasferimento non sarebbe nullo ed è, pertanto, illegittimo il rifiuto del promittente venditore (nella specie, a sua volta acquirente dello stesso immobile in base a precedente rogito notarile) di dare corso alla stipulazione del definitivo, sollecitata dal promissario acquirente
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 09.12.2015 n. 24852).

APPALTI SERVIZILa revisione prezzi nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa riceve regolamentazione cogente dall’art. 6, comma 4, della legge n. 537 del 1993 e successive modificazioni, ora art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, a tutela non solo della parte privata ma dello stesso buon fine delle prestazioni nell’interesse pubblico, in un contesto economico che si caratterizza per la fluttuazione dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta.
Il carattere imperativo della norma non può, quindi, ricevere deroga in base a successive e diverse convenzioni contrattuali fra l’affidatario del servizio e l’ Amministrazione, cui non possa ricondursi, come nel caso di specie, alcuna volontà concludente di rinunzia al benefizio revisionale.
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2. L’appello è fondato nella parte in cui si invoca l’attivazione da parte dell’ Azienda Ospedaliera dell’istruttoria per la verifica dei presupposti per il riconoscimento dei compensi revisionali per il periodo 31.10.2006–14.01.2008.
Si tratta di un arco temporale che è restato regolato dall’originario contratto di affidamento del servizio di pulizia e di sanificazione dei presidi ospedalieri in base all’offerta a tal fine formulata. A detto periodo di vigenza contrattuale non trova quindi applicazione il principio affermato dal TAR –e non contraddetto dall’odierna appellante– in base al quale, per il periodo in cui l’espletamento del servizio è proseguito in virtù di apposita clausola di rinnovo del rapporto contrattuale, con previsione di uno sconto sui corrispettivi inizialmente convenuti, non può trovare applicazione il meccanismo di revisione dei corrispettivi, perché incompatibile con la volontà della ditta di rendere il servizio ad un minor costo rispetto a quello in precedenza concordato e con valutazione, quindi, della congruità del corrispettivo.
Il collegio reputa che -in assenza di espressa dichiarazione della soc. Di. di non avvalersi del meccanismo di revisione dei prezzi per il periodo antecedente al rinnovo dell’appalto dei servizi- non può ricondursi all’applicazione della clausola di rinnovo una rinunzia implicita al riconoscimento dei compensi revisionali per il periodo di vigenza a regime dell’iniziale rapporto contrattuale.
Si tratta, invero, di materia che, nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa, riceve regolamentazione cogente dall’art. 6, comma 4, della legge n. 537 del 1993 e successive modificazioni, ora art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, a tutela non solo della parte privata, ma dello stesso buon fine delle prestazioni nell’interesse pubblico, in un contesto economico che si caratterizza per la fluttuazione dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta.
Il carattere imperativo della norma non può, quindi, ricevere deroga in base a successive e diverse convenzioni contrattuali fra l’affidatario del servizio e l’ Amministrazione, cui non possa ricondursi, come nel caso di specie, alcuna volontà concludente di rinunzia al benefizio revisionale
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 09.12.2015 n. 5601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 65, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, la denuncia concernente le opere di conglomerato cementizio non deve essere effettuata prima del rilascio del permesso di costruire, bensì prima dell’inizio lavori.
Tale denuncia non costituisce dunque presupposto del permesso di costruire, il quale deve essere comunque rilasciato qualora l’opera sia conforme alla normativa urbanistico edilizia vigente, ma costituisce adempimento necessario affinché l’interessato possa dar corso ai lavori (assentiti con il permesso di costruire già rilasciato).
Questa ricostruzione è confermata dagli artt. 68 e segg. del d.P.R. n. 380 del 2001 i quali riservano una disciplina speciale per l’esecuzione di lavori in assenza di denuncia: la fattispecie non viene regolata in maniera analoga a quella dell’abuso edilizio, prevedendosi l’intervento del dirigente dell’ufficio tecnico regionale il quale -una volta constatato, anche su segnalazione del comune, l’inizio di lavori in assenza denuncia- ne dispone l’immediata sospensione.
Se la denuncia costituisse un presupposto del permesso di costruire, i lavori realizzati in assenza di essa dovrebbero considerarsi abusivi (proprio come prospetta l’Amministrazione resistente); con conseguente inutilità di prevedere un trattamento sanzionatorio differenziato.
Ulteriore conferma è data dalla giurisprudenza, la quale ritiene che la presentazione della denuncia delle opere in cemento armato non è idonea ad impedire la decadenza del permesso di costruire per l’inutile decorso del termine annuale previsto per l’inizio lavori, termine stabilito dall’art. 15, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E’ difatti ovvio che se si ritiene che, in questo caso, il termine non viene interrotto e continua a decorre è perché si ritiene anche che il permesso di costruire adottato prima della presentazione della denuncia costituisce titolo pienamente efficace.
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Analogo discorso può essere svolto con riferimento alla relazione per il contenimento energetico atteso che, anche in questo caso, le norme dispongono che la sua presentazione vada effettuata non già prima del rilascio del permesso di costruire ma prima dell’inizio lavori.
Esplicito in tal senso è l’art. 28, primo comma, della legge 09.01.1991, n. 10 (Norme per l'attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia) il quale stabilisce espressamente che tale relazione va presentata contestualmente alla denuncia di inizio lavori.

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10. Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato per le ragioni di seguito esposte.
11. Il permesso di costruire che ha assentito le opere in relazione alla quali il Comune di Legano ha applicato il contributo di costruzione in misura doppia è stato emanato in data 23.11.2005.
12. L’accertamento compiuto dall’Amministrazione, in esito al quale si è desunta l’abusività dell’intervento, è stato effettuato successivamente: solo in data 26.01.2006 si è proceduto a sopralluogo e si è verificata l’avvenuta realizzazione delle opere.
13. Il ricorrente sostiene che l’intervento sarebbe stato realizzato in questo lasso temporale e, dunque, dopo il rilascio del titolo edilizio. In base a questa ricostruzione, l’intervento stesso dovrebbe pertanto considerarsi regolare.
14. L’Amministrazione sostiene però a sua volta che il titolo sarebbe stato in realtà rilasciato solo in data 26.01.2006, giorno in cui la ricorrente ha provveduto al deposito della denuncia dei conglomerati cementizi e della relazione per il contenimento energetico. Prima di questo momento, secondo la stessa Amministrazione, il permesso di costruire doveva considerarsi inefficace, con conseguente abusività delle opere precedentemente realizzate.
15. Ritiene il Collegio che questa argomentazione non sia condivisibile.
16. Va invero osservato che, ai sensi dell’art. 65, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, la denuncia concernente le opere di conglomerato cementizio non deve essere effettuata prima del rilascio del permesso di costruire, bensì prima dell’inizio lavori.
17. Tale denuncia non costituisce dunque presupposto del permesso di costruire, il quale deve essere comunque rilasciato qualora l’opera sia conforme alla normativa urbanistico edilizia vigente, ma costituisce adempimento necessario affinché l’interessato possa dar corso ai lavori (assentiti con il permesso di costruire già rilasciato).
18. Questa ricostruzione è confermata dagli artt. 68 e segg. del d.P.R. n. 380 del 2001 i quali riservano una disciplina speciale per l’esecuzione di lavori in assenza di denuncia: la fattispecie non viene regolata in maniera analoga a quella dell’abuso edilizio, prevedendosi l’intervento del dirigente dell’ufficio tecnico regionale il quale -una volta constatato, anche su segnalazione del comune, l’inizio di lavori in assenza denuncia- ne dispone l’immediata sospensione. Se la denuncia costituisse un presupposto del permesso di costruire, i lavori realizzati in assenza di essa dovrebbero considerarsi abusivi (proprio come prospetta l’Amministrazione resistente); con conseguente inutilità di prevedere un trattamento sanzionatorio differenziato.
19. Ulteriore conferma è data dalla giurisprudenza, la quale ritiene che la presentazione della denuncia delle opere in cemento armato non è idonea ad impedire la decadenza del permesso di costruire per l’inutile decorso del termine annuale previsto per l’inizio lavori, termine stabilito dall’art. 15, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. TAR Veneto, sez. II, 24.01.2008, n. 174). E’ difatti ovvio che se si ritiene che, in questo caso, il termine non viene interrotto e continua a decorre è perché si ritiene anche che il permesso di costruire adottato prima della presentazione della denuncia costituisce titolo pienamente efficace.
20. Analogo discorso può essere svolto con riferimento alla relazione per il contenimento energetico atteso che, anche in questo caso, le norme dispongono che la sua presentazione vada effettuata non già prima del rilascio del permesso di costruire ma prima dell’inizio lavori.
21. Esplicito in tal senso è l’art. 28, primo comma, della legge 09.01.1991, n. 10 (Norme per l'attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia) il quale stabilisce espressamente che tale relazione va presentata contestualmente alla denuncia di inizio lavori.
22. Peraltro il permesso di costruire del 23.11.2005 non contiene alcuna clausola che subordini la sua efficacia alla presentazione della denuncia dei cementi armati e/o della relazione per il contenimento del consumo energetico.
23. Solo nella comunicazione di avvenuta emanazione si specifica che il rilascio è subordinato al deposito dei summenzionati atti (oltre che ad altri adempimenti ivi specificati); si deve però ritenere che l’Amministrazione con il termine “rilascio” abbia in questo caso inteso riferirsi alla consegna del titolo, ormai già in essere e pienamente efficace. Ciò è confermato dal fatto che, in tale comunicazione, il “rilascio” del titolo è subordinato anche ad una serie di altri adempimenti (quali ad esempio il versamento degli oneri) che certamente non incidono sull’efficacia del titolo già emanato.
24. Da quanto sopra discende che, nella fattispecie concreta, non è stata provata la sussistenza dell’abuso; ne consegue quindi che non è giustificata la pretesa del Comune di esigere il doppio del valore del contributo di costruzione.
25. Per queste ragioni il motivo in esame deve essere accolto. L’atto impugnato va pertanto annullato in parte qua e l’Amministrazione deve essere condannata alla restituzione della somma indebitamente percepita pari ad euro 19.852,16, oltre interessi legali.
26. Poiché non è stata provata la malafede del Comune, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., gli interessi decorrono dal giorno della domanda e, dunque, dal giorno di notifica del presente ricorso. Trattandosi di debito di valuta (cfr. Cass. civ., sez. I, 10.11.1994, n. 9388), non è invece dovuta la rivalutazione monetaria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.12.2015 n. 2581 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Venendo in considerazione una controversia inerente alla contestazione di contributi di costruzione, sussiste la giurisdizione di questo plesso di giustizia amministrativa, ai sensi dell’art. 133, lett. f), del cod. proc. amm..
In particolare, secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza, le controversie attinenti alla determinazione dell'an e del quantum dell'oblazione e del contributo per oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione hanno ad oggetto diritti soggettivi delle parti dell'obbligazione contributiva, e sono perciò devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'articolo 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm.; giurisdizione che “comprende la totalità degli aspetti dell'uso del territorio, nessuno escluso (...): sicché deve intendersi in essa inclusa la materia relativa alla determinazione, liquidazione e riscossione degli oneri di urbanizzazione".
La giurisdizione del giudice amministrativo in ordine ai suddetti profili non viene meno a seguito dell’emissione dell’ingiunzione di pagamento ai sensi dell’articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910.
E’ stato, infatti, da tempo chiarito che “per un principio giurisprudenziale pacifico, in materia di opposizione all’ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la disposizione di cui all’art. 3 del R.D. 14.04.1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla cognizione di altro giudice”.
A tal riguardo, va, altresì, osservato che la scelta del mezzo attraverso il quale l’Amministrazione esercita la propria pretesa creditoria è neutra rispetto alla materia del contendere, sicché da essa non può certo dipendere il riparto di giurisdizione.
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Il Consiglio di Stato, pronunciatosi, anche di recente, sul tema della decorrenza della prescrizione del diritto di credito relativo al contributo per costo di costruzione ex art. 11 l. n. 10/1977 (oggi art. 16 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380), ha affermato che il detto termine di prescrizione comincia a decorrere dal momento stesso del rilascio della concessione edilizia.
La disposizione dell’art. 11 della legge n. 10 del 1977, in tema di “Versamento del contributo afferente alla concessione”, stabilisce quanto segue: “La quota di contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata all’atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d’opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle opere”.
Da tale norma si desume, invero, che il fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia, di versare il contributo previsto, è rappresentato dal rilascio della concessione medesima ed è a tale momento, quindi, che occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità del contributo, divenendo il relativo credito certo, liquido o agevolmente liquidabile ed esigibile.
Né alcun rilevo, in senso contrario, può assumere la circostanza che al Comune sia espressamente riconosciuta la facoltà di stabilire modalità e garanzie per il pagamento del contributo, atteso che l’atto di imposizione non ha carattere autoritativo, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti provvedimenti di carattere generale e la sua mancata tempestiva adozione non implica alcun potere dell’Amministrazione di differire il suo diritto di credito, configurandosi, piuttosto, come mancato esercizio del diritto stesso, idoneo a far decorrere il periodo di prescrizione.
Detta decorrenza, secondo la giurisprudenza maggioritaria, vale sia per la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione che per quella relativa al costo di costruzione.

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... per l'annullamento dell’ingiunzione adottata, ai sensi del R.D. 14.04.1910 n. 639, a seguito dell’esecutività disposta dal Consigliere Dirigente della Pretura di Cosenza in data 26.06.1998 e concernente il pagamento di contributi per la costruzione di un fabbricato per civile abitazione pari all’importo di £ 1.485.000.
...
1. Va premesso che, venendo in considerazione una controversia inerente alla contestazione di contributi di costruzione, sussiste la giurisdizione di questo plesso di giustizia amministrativa, ai sensi dell’art. 133, lett. f), del cod. proc. amm. (cfr. Cass. Civ. SS.UU., 16.03.2010, n. 6314; Cass. Civ. SS.UU. 14.07.2005, n. 14801; Consiglio di Stato, sez. IV, 21.08.2013, n. 4208; C.G.A. 18.03.2013, n. 371).
In particolare, secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza, le controversie attinenti alla determinazione dell'an e del quantum dell'oblazione e del contributo per oneri di urbanizzazione e per costo di costruzione hanno ad oggetto diritti soggettivi delle parti dell'obbligazione contributiva, e sono perciò devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'articolo 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm. (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208; da ultimo TAR Lombardia Milano, sez. II, 05.08.2015, n. 1887); giurisdizione che “comprende la totalità degli aspetti dell'uso del territorio, nessuno escluso (...): sicché deve intendersi in essa inclusa la materia relativa alla determinazione, liquidazione e riscossione degli oneri di urbanizzazione" (Cass. civ., SS. UU., 20.10.2006, n. 22514).
La giurisdizione del giudice amministrativo in ordine ai suddetti profili non viene meno a seguito dell’emissione dell’ingiunzione di pagamento ai sensi dell’articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910.
E’ stato, infatti, da tempo chiarito che “per un principio giurisprudenziale pacifico, in materia di opposizione all’ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la disposizione di cui all’art. 3 del R.D. 14.04.1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla cognizione di altro giudice (cfr., di recente, Cass., SS. UU. n. 1238 del 30.01.2002)” (Cons. Stato, Sez. VI, 29.11.2005, n. 6748).
A tal riguardo, va, altresì, osservato che la scelta del mezzo attraverso il quale l’Amministrazione esercita la propria pretesa creditoria è neutra rispetto alla materia del contendere, sicché da essa non può certo dipendere il riparto di giurisdizione (Cass. Civ. S.U., 08.02.2013, n. 3043).
2. Passando all’esame del ricorso, va rilevata l’infondatezza del primo motivo, secondo cui la notificazione dell’ordinanza sarebbe inesistente, in quanto effettuata in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2 del r.d. n. 639/1910, non essendo stata notificata nelle prescritte forme della citazione da un Ufficiale Giudiziario addetto alla Pretura o da un Usciere addetto all’Ufficio di Conciliazione, bensì tramite messo comunale.
Premesso che, nell’ambito della giurisdizione amministrativa, l’ingiunzione de qua rileva non come atto iniziale del procedimento di riscossione coattiva, ma come atto di estrinsecazione formale della pretesa creditoria da far valere nei termini prescrizionali (TAR Milano, sez. II, 12.04.2007, n. 1780; TAR Milano sez. II, 05.08.2015, n. 1887), eventuali vizi della notificazione non incidono sulla validità dell’atto amministrativo, ma si riflettono, semmai, sul termine di impugnazione, che decorre dall’effettiva conoscenza (Consiglio di Stato, sez. IV, 27.10.2003, n. 6631), con l’ulteriore conseguenza che eventuali vizi sono sanati dal raggiungimento dello scopo.
Invero, nel caso, l’ordinanza, ancorché notificata per il tramite del messo comunale (possibilità prevista solo con la successiva legge n. 296 del 2006, art. 1, comma 158), comunque, è stata ricevuta dal destinatario dell’atto, per come ammesso in ricorso, e avverso la stessa sono state fatte valere le doglianze di cui al presente.
Ne consegue, quindi, che la notificazione ha raggiunto lo scopo, restando, pertanto, irrilevanti i vizi di notificazione.
3. Parimenti infondato è il secondo motivo, con il quale, in modo del tutto generico, i ricorrenti lamentano il difetto di motivazione nell’atto impugnato, per l’asserita incertezza sul credito e sull’importo dovuto, in mancanza di indicazioni sulla circostanza che il credito afferisca ad oneri di urbanizzazione o al costo di costruzione e in mancanza di qualunque criterio che possa consentire l’esatta indicazione dell’importo ingiunto.
3.1. Invero, l’atto appare sufficientemente idoneo ad individuare la sua ragione giustificativa, facendo esso riferimento al contributo da corrispondere relativo alla costruzione in zona C in relazione alla concessione edilizia n. 16 e alla variante n. 10 del 14/07/1984.
3.2. Peraltro, anche la contestazione relativa alla quantificazione appare generica, mancando una specifica censura in merito ed essendo onere del ricorrente dimostrarne l’erroneità, opponendo la propria quantificazione a quella dell’Amministrazione, il che non è avvenuto nel caso di specie.
4. Fondato è, invece, il terzo motivo, con il quale i ricorrenti contestano l’intervenuta prescrizione decennale del credito de quo.
I ricorrenti espongono che il de cuius avrebbe realizzato un fabbricato per civile abitazione in agro del Comune di Marano Marchesato, giusta concessione edilizia n. 16/1980 e successiva variante n. 10 al progetto esecutivo (che dall’atto impugnato risulta del 14.07.1984); affermano, altresì, che l’ultimazione dei lavori sarebbe avvenuta il 26.06.1985, senza che sia stato mai vantato il credito in questione da parte dell’Amministrazione intimata.
Orbene, il Consiglio di Stato, pronunciatosi, anche di recente (Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2014, n. 2949; 16.01.2009 n. 216; 06.06.2008 n. 2686), sul tema della decorrenza della prescrizione del diritto di credito relativo al contributo per costo di costruzione ex art. 11 l. n. 10/1977 (oggi art. 16 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380), ha affermato che il detto termine di prescrizione comincia a decorrere dal momento stesso del rilascio della concessione edilizia.
La disposizione dell’art. 11 della legge n. 10 del 1977, in tema di “Versamento del contributo afferente alla concessione”, stabilisce quanto segue: “La quota di contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata all’atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d’opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle opere”.
Da tale norma si desume, invero, che il fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia, di versare il contributo previsto, è rappresentato dal rilascio della concessione medesima ed è a tale momento, quindi, che occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità del contributo, divenendo il relativo credito certo, liquido o agevolmente liquidabile ed esigibile.
Né alcun rilevo, in senso contrario, può assumere la circostanza che al Comune sia espressamente riconosciuta la facoltà di stabilire modalità e garanzie per il pagamento del contributo, atteso che l’atto di imposizione non ha carattere autoritativo, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, applicativo di precedenti provvedimenti di carattere generale e la sua mancata tempestiva adozione non implica alcun potere dell’Amministrazione di differire il suo diritto di credito, configurandosi, piuttosto, come mancato esercizio del diritto stesso, idoneo a far decorrere il periodo di prescrizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.01.2014, n. 2949; Cons. Stato, Sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
Detta decorrenza, secondo la giurisprudenza maggioritaria, vale sia per la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione che per quella relativa al costo di costruzione.
4.1. Nel caso in esame, la concessione risulta essere stata rilasciata nel 1980 e la variante in data 14.07.1984; l’ultimazione dei lavori sarebbe avvenuta in data 26.06.1985, ma non risulta agli atti del giudizio comunicazione della data di ultimazione degli stessi.
Orbene, l’impugnata ingiunzione è diventata esecutoria in data 26.06.1998 ed è stata notificata in data 17.12.1998, ossia quando ormai il diritto di credito del Comune si era estinto per compimento di oltre dieci anni dal rilascio della variante (14.07.1984).
4.2. Va aggiunto che la prescrizione del credito sussiste anche se si volesse seguire la tesi giurisprudenziale, secondo cui, a norma dell’art. 11, comma 2, della legge 28.01.1977 n. 10 (oggi art. 16, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001), il termine prescrizionale comincia a decorrere dal sessantesimo giorno successivo all’ultimazione delle opere.
La citata disposizione va, infatti, coordinata con quella di cui all’art. 4, comma 4, della stessa legge citata n. 10/1977 (oggi art. 15, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001), ai sensi del quale “Il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti esterni alla volontà del concessionario …”.
Poiché la norma citata prevede che, comunque, l’opera deve essere ultimata entro tre anni dal rilascio della concessione, a tutto concedere, il “dies a quo” poteva essere portato avanti di un triennio (al 14.07.1987), per cui, anche in mancanza dell’allegazione della dichiarazione di ultimazione lavori, delle due l’una, o i lavori non erano ultimati alla scadenza dei tre anni e allora la concessione edilizia era venuta meno, ovvero erano terminati, e allora l’Amministrazione avrebbe dovuto richiedere il pagamento del contributo in questione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 16.01.2009, n. 216).
4.3. Alla luce delle considerazioni esposte, essendo ampiamente trascorso il termine decennale di prescrizione, il ricorso merita, per tale motivo, accoglimento (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.12.2015 n. 1846 - link a www.giustizia-amministratva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In materia di bonifica di siti inquinati, l'art. 240, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, si ispira al principio comunitario del "chi inquina, paga" secondo cui l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa.
Tale obbligo, pertanto, non può essere accollato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità, sicché la Pubblica Amministrazione non può ordinare ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento.
Tanto la disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare, l’art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in particolare, gli artt. 240 e segg.), si ispirano al principio secondo cui l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa: l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere invece addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità.
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento (così, nel vigore della precedente disciplina). L’enunciato è conforme al principio “chi inquina, paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 174, ex art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta, come detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli interventi di recupero ambientale, anche di carattere emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero il gestore dell’area interessata.
Va precisato, in argomento, che il principio “chi inquina, paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente). Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve sottolineare che a carico del proprietario dell’area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da pesi.
Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A. competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi interventi.
Del resto, l’obbligo di procedere alla bonifica dell’area non potrebbe neanche essere desunto, come preteso dagli atti impugnati, dall’applicazione della previsione dell’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode); a prescindere da ogni considerazione relativa all’aspetto temporale della problematica (che richiederebbe l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento e non in un periodo di tempo di molto successivo, come avvenuto nel caso di specie), deve, infatti, rilevarsi come si tratti di un criterio che si presenta in contraddizione con i precisi criteri di imputazione degli obblighi di bonifica previsti dagli artt. 240 e ss. e 252-bis, 2° comma, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
In buona sostanza, si tratta pertanto di una disciplina esaustiva della problematica che non può certo essere integrata dalla sovrapposizione di principi (come quello previsto dall’art. 2051 c.c.) desunti da diversa normativa e che determinerebbero la sostanziale alterazione di un contenuto normativo improntato a ben diversi principi.

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L’impostazione seguita dalla Sezione è poi stata pienamente confermata, sotto il profilo del diritto interno, dall’ordinanza 25.09.2013 n. 21 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che ha così concluso: <<emerge, quindi, come l'orientamento interpretativo di gran lunga prevalente escluda la possibilità per l'Amministrazione nazionale di imporre al proprietario non responsabile della contaminazione misure di messa in sicurezza d'emergenza o di bonifica del sito inquinato. A tale indirizzo, l'Adunanza Plenaria ritiene di dover dare continuità, in quanto esso, alla luce delle considerazioni già svolte, esprime l’unica interpretazione compatibile con il tenore letterale delle disposizioni in esame>>.
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Il primo motivo di ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto.
La problematica è già stata affrontata dalla Sezione con numerose decisioni (TAR Toscana, sez. II, 11.05.2010 n. 1397 e 1398, 19.10.2012 n. 1659, 1664 e 1666), spesso rese con riferimento al S.I.N. di Massa-Carrara e che possono essere richiamate anche in funzione motivazionale della presente decisione: <<come questa Sezione ha più volte avuto modo di affermare (cfr., ex multis, TAR Toscana, Sez. II, 17.04.2009, n. 665; id., 06.05.2009, n. 762), tanto la disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare, l’art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in particolare, gli artt. 240 e segg.), si ispirano al principio secondo cui l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa: l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere invece addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità (cfr., nello stesso senso, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.07.2007, n. 1254).
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento (così, nel vigore della precedente disciplina, TAR Veneto, Sez. II, 02.02.2002, n. 320). L’enunciato è conforme al principio “chi inquina, paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 174, ex art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta, come detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli interventi di recupero ambientale, anche di carattere emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero il gestore dell’area interessata (TAR Toscana, Sez. II, n. 665/2009, cit.).
Va precisato, in argomento, che il principio “chi inquina, paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente). Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve sottolineare che a carico del proprietario dell’area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da pesi.
Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A. competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi interventi (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10.07.2007, n. 5355; TAR Toscana, Sez. II, 17.09.2009, n. 1448)……Del resto, l’obbligo di procedere alla bonifica dell’area non potrebbe neanche essere desunto, come preteso dagli atti impugnati, dall’applicazione della previsione dell’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode); a prescindere da ogni considerazione relativa all’aspetto temporale della problematica (che richiederebbe l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento e non in un periodo di tempo di molto successivo, come avvenuto nel caso di specie), deve, infatti, rilevarsi come si tratti di un criterio che si presenta in contraddizione con i precisi criteri di imputazione degli obblighi di bonifica previsti dagli artt. 240 e ss. e 252-bis, 2° comma, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
In buona sostanza, si tratta pertanto di una disciplina esaustiva della problematica che non può certo essere integrata dalla sovrapposizione di principi (come quello previsto dall’art. 2051 c.c.) desunti da diversa normativa e che determinerebbero la sostanziale alterazione di un contenuto normativo improntato a ben diversi principi
>> (TAR Toscana, sez. II, 19.10.2012 n. 1659, 1664 e 1666).
L’impostazione seguita dalla Sezione è poi stata pienamente confermata, sotto il profilo del diritto interno, dall’ordinanza 25.09.2013 n. 21 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (resa proprio sugli appelli proposti sulle sentenze 19.10.2012 n. 1659, 1664 e 1666 della Sezione), che ha così concluso: <<emerge, quindi, come l'orientamento interpretativo di gran lunga prevalente escluda la possibilità per l'Amministrazione nazionale di imporre al proprietario non responsabile della contaminazione misure di messa in sicurezza d'emergenza o di bonifica del sito inquinato. A tale indirizzo, l'Adunanza Plenaria ritiene di dover dare continuità, in quanto esso, alla luce delle considerazioni già svolte, esprime l’unica interpretazione compatibile con il tenore letterale delle disposizioni in esame>>.
Sotto il profilo del diritto comunitario, la soluzione è poi stata confermata da Corte giust. UE, sez. III, 04.03.2015 n. 534 (resa sul rinvio pregiudiziale operato da Cons. Stato, ad plen. ord. 25.09.2013 n. 21) che ha rilevato come <<l’articolo 191, paragrafo 2, TFUE non p(ossa) essere invocato dalle autorità competenti in materia ambientale per imporre misure di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale>> (punto n. 41 della motivazione) e ricapitolato, sulla base della propria precedente giurisprudenza, le condizioni di applicabilità della direttiva 21.04.2004, n. 2004/35/CE (direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale); in particolare le condizioni di applicabilità della dir. 21.04.2004, n. 2004/35/CE sono state individuate:
a) nel fatto che l’<<evento o … incidente>> fonte di inquinamento si sia verificato il 30.04.2007 o successivamente (punto n. 44 della motivazione);
b) nella possibilità, al fine del riconoscimento della responsabilità oggettiva, di riportare l’autore dell’inquinamento alla tipologia di operatore ed alle lavorazioni previste dall’Allegato III alla direttiva (punto n. 53);
c) nel riconoscimento (in aggiunta o in sostituzione dell’elemento riportato alla lettera precedente, in questo caso con riferimento alla responsabilità da dolo o colpa) della sussistenza di un nesso causale tra le attività svolte e l’inquinamento (punti 54 e ss. della motivazione).
Nel caso di specie, dalla documentazione in atti non si evince alcun accertamento istruttorio volto a determinare la sussistenza dei presupposti soggettivi per l’imposizione, a carico dell’odierna ricorrente, degli obblighi di messa in sicurezza; in particolare, né nelle conferenze di servizi che hanno preceduto l’emanazione dell’atto impugnato, né nel decreto direttoriale impugnato si rinviene alcun approfondimento istruttorio volto ad accertare un comportamento dell’odierna ricorrente, che possa aver dato luogo all’inquinamento dell’area; dai pochi elementi valutati dalla conferenza di servizi istruttoria emergono anzi circostanze fattuali (svolgimento di attività di concessionaria di autoveicoli e, successivamente, di stoccaggio sull’area; mancanza di contaminazione del terreno sottostante) che portano a ritenere assai improbabile che l’inquinamento da tetracloroetilene della falda acquifera possa derivare dalle attività svolte dalla ricorrente, essendo piuttosto probabile che derivi da altre attività svolte nell’area industriale in questione.
Per quello che riguarda l’applicabilità della dir. 21.04.2004, n. 2004/35/CE, non è poi stato svolto alcun accertamento in proposito e non sussiste alcun elemento che possa portare a ritenere sussistenti i tre requisiti della responsabilità richiamati da Corte giust. UE, sez. III, 04.03.2015 n. 534.
In definitiva, il ricorso deve pertanto essere accolto e deve essere disposto l’annullamento degli atti impugnati
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza 09.12.2015 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La determinazione di mancato invito ad un operatore economico a partecipare ad una gara può essere individuata anche in precedenti comportamenti negativi del medesimo operatore.
Ai sensi dell'articolo 2 del D.Lgs. 12.4.2006, n.163, l'affidamento e l'esecuzione dei servizi e forniture deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di efficacia, tempestività e correttezza.
In applicazione del citato principio generale, sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento degli appalti di lavori, servizi e forniture e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che gestisce la gara, o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante.
Ciò premesso, se è vero che la citata norma prevede che l'esclusione venga disposta "secondo motivata valutazione della stazione appaltante", è altresì indubitabile che l'esistenza in tal senso di una valutazione discrezionale dell'amministrazione debba essere verificata avuto riguardo alla peculiarità della vicenda oggetto di causa, la quale si caratterizza per la circostanza che l'operatore non invitato era parte del pregresso rapporto contrattuale inerente lo svolgimento del medesimo servizio oggetto di nuovo affidamento.
In tale situazione, dunque, non può farsi esclusivo riferimento, ai fini dell'accertamento della concreta esistenza di una determinazione di non invito e della sua motivazione, agli atti specificamente inerenti la singola procedura concorsuale, ma occorre estendere l'indagine anche a quelli che hanno caratterizzato il rapporto contrattuale in scadenza. Sicché la determinazione di mancato invito e le sue ragioni possono essere individuate anche in atti precedenti nei quali la pubblica amministrazione abbia in anticipo chiaramente palesato la propria volontà di non affidare il servizio per il futuro a tale operatore economico.
Tale valutazione, invero, ove esistente, esprime già le ragioni della "motivata valutazione" e va a costituire, nella nuova procedura, l'atto di mancato invito ovvero ad integrare, quanto a supporto motivazionale, l'atto implicito di mancato invito che, in assenza di espressa determinazione provvedimentale, voglia individuarsi nel nuovo procedimento di affidamento del servizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2015 n. 5564 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Fuori gara con il mancato invito. Consiglio di Stato. Il giudizio negativo sul contraente del precedente appalto.
Se la stazione appaltante si è già espressa sull’affidabilità del contraente uscente che ha commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione dell’appalto, lo stesso può essere escluso “implicitamente” dalla nuova gara anche con un mancato invito, essendo quest’ultimo atto ormai vincolato.
Il Consiglio di Stato -Sez. IV, sentenza 07.12.2015 n. 5564- ha così bocciato il ricorso di una società che contestava a un Tribunale il mancato invito alla nuova gara per il noleggio di sistemi di supporto alle intercettazioni della Procura sulla base di «disservizi e inadempimenti» nel contratto precedente per lo stesso servizio.
Secondo la ricorrente, per l’esclusione dalla nuova gara era necessario un atto formale «secondo motivata valutazione della stazione appaltante» come previsto dal Codice appalti in tema di «requisiti di ordine generale» (comma f, articolo 38, del Dlgs 163/2006) per chi ha commesso grave negligenza o malafede negli affidamenti della Pa che indice il bando.
Per il Tribunale, invece, la «motivata valutazione» era in una nota di contestazioni inviata tre mesi prima della scadenza del contratto e in cui si precisava come, seppur con gravi violazioni, alla risoluzione o al recesso anticipato si fosse preferito attenderne il termine ormai vicino, e si dichiarava la volontà di non rinnovarlo «essendo venuto meno il rapporto di fiducia».
Respingendo la tesi dell’ormai ex gestore, il collegio ha chiarito che in questi casi «… non può farsi esclusivo riferimento, ai fini dell’accertamento della concreta esistenza di una determinazione di non invito e della sua motivazione, agli atti specificamente inerenti la singola procedura concorsuale, ma occorre estendere l’indagine anche a quelli che hanno caratterizzato il rapporto contrattuale in scadenza», perciò «la determinazione di mancato invito e le sue ragioni possono essere individuate anche in atti precedenti nei quali la pubblica amministrazione abbia in anticipo chiaramente palesato la propria volontà di non affidare il servizio per il futuro a tale operatore economico».
Per i giudici, «tale valutazione, invero, ove esistente, esprime già le ragioni della “motivata valutazione” e va a costituire, nella nuova procedura, l’atto di mancato invito ovvero ad integrare, quanto a supporto motivazionale, l’atto implicito di mancato invito che, in assenza di espressa determinazione provvedimentale, voglia individuarsi nel nuovo procedimento di affidamento del servizio».
Nel caso in esame si è spiegato che «si è, dunque, in presenza di un mancato invito consentito dalla normativa, il quale non è arbitrario né irragionevole», posto che «si palesa come atto vincolato, meramente applicativo di una scelta già in precedenza espressa dall’organo pubblico».
Nella sentenza si è poi ribadito che la non “annullabilità” dell'atto adottato in violazione di legge è ammessa dalle norme sul procedimento (articolo 21-octies, articolo 241/1990) solo «qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», ma nella fattispecie ciò vale anche se segue un’attività discrezionale che «(…) in ordine alla motivata valutazione circa la sussistenza di inadempimenti escludenti era già stata esercitata (e consumata)...»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.01.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVORO: Quando muore una persona estranea al cantiere si deve sempre verificare se il comportamento della stessa possa essere qualificato come anormale e quindi capace di interrompere il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante.
Nel valutare la possibile dipendenza causale tra le contestate omissioni di norme cautelari e l'evento morte occorso a carico della Gi. (e in relazione alla presenza di una RSA nel comprensorio dell'ospedale), sarebbe stato (ed è) necessario approfondire -secondo la giurisprudenza di questa Corte richiamata nella stessa sentenza impugnata- se il fatto fosse ricollegabile all'inosservanza delle predette norme secondo i principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., e cioè sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio non rivestisse carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante, e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi.
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Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La motivazione offerta dal GUP nella sentenza impugnata, e contestata dal P.M. ricorrente, appare infatti quanto meno lacunosa e comunque insufficiente, nella premessa che, secondo il prevalente e qui condiviso indirizzo di questa Corte, il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere non può avere per oggetto gli elementi acquisiti dal Pubblico Ministero ma solo la giustificazione adottata dal giudice nel valutarli e, quindi, la riconoscibilità del criterio prognostico adottato nella valutazione d'insieme degli elementi acquisiti dal P.M. per escludere che l'accusa sia sostenibile in giudizio (da ultimo vds. Cass. Sez. 2, n. 5669 del 28/01/2014 - dep. 05/02/2014, P.M. in proc. Schiaffino e altri, Rv. 258211).
Nella specie, la prognosi negativa formulata dal giudice dell'udienza preliminare sull'utilità del dibattimento e sui suoi possibili sviluppi probatori si fonda su una ricostruzione assai sommaria e incompleta del nesso causale fra l'accesso della vittima nel cantiere e il suo successivo decesso.
Ed invero, nella detta sentenza si riconosce che l'art. 109 D.Lgs. 81/2008 -violazione specificamente contestata in rubrica- imponeva una recinzione atta a impedire l'accesso al cantiere da parte di terzi estranei.
Sennonché, posto che la Gi. era invece sicuramente entrata nel cantiere ove fu poi trovata morta, il GUP deduce che non vi sarebbe prova che la donna sia deceduta per effetto del suo ingresso nel cantiere, essendo invece risultato che la stessa era morta per una causa naturale non correlabile ad alcuna delle attività che si svolgevano all'interno del cantiere stesso; ed aggiunge che non sarebbero identificabili integrazioni probatorie che possano eliminare le incertezze circa il concreto svolgimento dei fatti e che possano modificare le conclusioni tratte dal GUP.
A parere di questa Corte, le lacune motivazionali in siffatto percorso logico ineriscono all'esame della serie causale che condusse all'evento, comprensiva dì fattori che il GUP ha totalmente omesso di valutare, dei quali l'ingresso della Gi. nel cantiere fu solo il primo, ma indefettibile elemento:
- nulla si legge nella sentenza circa il fatto che la donna era molto anziana e non autosufficiente, con ciò che ne consegue in punto di possibilità di rimanere vittima di cadute e di difficoltà nell'invocare aiuto;
- né circa il fatto che la Gi. cadeva in un luogo -non adeguatamente recintato- in cui ben difficilmente sarebbe stato possibile trovarla e soccorrerla, in modo tale da rimanere in stato di abbandono;
- né circa il fatto che il decesso avvenne bensì per infarto ma -si legge nell'imputazione- in correlazione con la disidratazione della donna (verificatasi in seguito all'accesso della stessa ad area che doveva essere interdetta all'ingresso di estranei, e presumibilmente a distanza di diverse ore o giorni dall'uscita dell'anziana donna dall'ospedale), disidratazione resa ancor più probabile dalla stagione estiva (i fatti sono dell'agosto 2010);
- né circa il fatto che il primo elemento della serie causale che condusse al decesso della Gi. era pur sempre costituito dalla violazione di una regola codificata di prevenzione di infortuni a terzi estranei al luogo di lavoro, con ciò che ne consegue in termini di prevedibilità di incidenti a terzi, oltretutto nel comprensorio di un ospedale ove insisteva una RSA;
- né infine circa il fatto che non risulta affatto esplorata, in punto di prevedibilità in concreto, la tipologia di pazienti della RSA ove la Gi. era ricoverata, da valutarsi in relazione con i rischi di un potenziale accesso di alcuno di detti pazienti in area non adeguatamente recintata e di un possibile verificarsi di conseguenti incidenti a loro carico.
Con precipuo riguardo a quest'ultimo profilo,
nel valutare la possibile dipendenza causale tra le contestate omissioni di norme cautelari e l'evento morte occorso a carico della Gi. (e in relazione alla presenza di una RSA nel comprensorio dell'ospedale), sarebbe stato (ed è) necessario approfondire -secondo la giurisprudenza di questa Corte richiamata nella stessa sentenza impugnata- se il fatto fosse ricollegabile all'inosservanza delle predette norme secondo i principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., e cioè sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio non rivestisse carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante, e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi (vds. per tutte Cass. Sez. 4, Sentenza n. 23147 del 17/04/2012 Ud. -dep. 12/06/2012 - Rv. 253322).
Tuttavia, il percorso motivazionale seguito dal GUP con l'impugnata sentenza non risulta, secondo questa Corte, aver convenientemente esaminato nella sua completezza né gli effetti della condotta omissiva e negligente contestata agli odierni imputati, nella rispettiva posizione, né gli elementi concomitanti e successivi potenzialmente rilevanti nel decorso causale che portò alla morte dell'anziana donna, né la prevedibilità o meno del comportamento della stessa (e, più in generale, di pazienti presenti all'interno del comprensorio ospedaliero, in specie della RSA ove era ricoverata la Gi.), né conseguentemente -e soprattutto- i possibili sviluppi probatori riferiti all'esame dibattimentale di siffatti elementi (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 04.12.2015 n. 48269).

EDILIZIA PRIVATA: L'intervento di montaggio tenda parasole è da qualificarsi come manutenzione straordinaria.
Questo Tribunale ha recentemente rilevato che: <<con riguardo alle tende parasole, il Collegio rileva che in giurisprudenza possono registrarsi tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un intervento privo di rilevanza edilizia, che non richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio.
Secondo un'opposta opinione, le tende solari sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo permanente e non a titolo precario e pertanto necessiterebbero del Permesso di costruire.
Secondo, infine, una posizione intermedia, l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001>>,
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della natura giuridica degli interventi in questione come interventi di manutenzione straordinaria, che trova il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, del D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia.
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Il Collegio ritiene applicabile le considerazioni appena esposte anche al caso di specie, che non sono inficiate dalla circostanza rilevata da parte ricorrente secondo cui tali strutture avrebbero carattere duraturo a prescindere dal periodo in cui vengono concretamente utilizzate.
Sul punto, sempre con particolare riferimento alle tende parasole installate nell’ambito di attività del tipo di quella per cui è causa, la giurisprudenza amministrativa ha infatti rilevato che: <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>>.
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, l’intervento edilizio costituito dall’installazione di due strutture in ferro di supporto ad un tendaggio di copertura predisposto al fine di offrire riparo dal sole o dalla pioggia agli avventori del locale esercito dalla ricorrente rientrino nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria sottratte, quindi, al regime del Permesso di costruire.
Tali strutture, al più, sono assoggettate al regime semplificato della d.i.a. (ora s.c.i.a.), la cui inosservanza comporta l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37, co. 1, del Testo unico dell’edilizia, di cui al D.P.R. n. 380/2001.

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... per l'annullamento:
- delle ordinanze del Responsabile del Servizio Urbanistica ed Edilizia del Comune di Campomarino nn. 21 e 22, prot. nn. 11358 e 11359 del 14.08.2007, aventi ad oggetto la rimozione, rispettivamente, di n. 1 struttura piramidale in ferro poggiante su 4 montanti e copertura con un telo plastificato per la superficie di mq 100 e n. 2 strutture analoghe per la superficie di 32 mq. nonché l'ordine di ripristino dello status quo ante;
- delle note prot. 5958 del 03.05.2007 e 6858 del 17.05.2007, dei verbali di polizia municipale del Comune di Campomarino n. 11/07 del 20.04.2007 e n. 12/2007 del 05.05.2007.
...
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
Questo Tribunale in una fattispecie analoga a quella oggetto del presente giudizio ha recentemente rilevato che: <<con riguardo alle tende parasole, il Collegio rileva che in giurisprudenza possono registrarsi tre diverse posizioni.
Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di un intervento privo di rilevanza edilizia, che non richiederebbe, in quanto tale, alcun titolo concessorio (TAR Lombardia Milano, sez. III, 31.07.2006, n. 1890).
Secondo un'opposta opinione, le tende solari sarebbero finalizzate alla migliore fruizione di un immobile e risulterebbero destinate ad essere utilizzate in modo permanente e non a titolo precario e pertanto necessiterebbero del Permesso di costruire (TAR Basilicata, sez. I, 27.06.2008, n. 337).
Secondo, infine, una posizione intermedia, l’istallazione di tende da sole rientrerebbe nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria, in quanto non determinerebbe alcun volume autonomo né una modifica permanente dello stato dei luoghi, con la conseguenza che il titolo edilizio a tal fine necessario sarebbe costituito dalla denuncia di inizio attività, ai sensi del combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001
>>,
Il Collegio condivide quest’ultima configurazione della natura giuridica degli interventi in questione come interventi di manutenzione straordinaria, che trova il proprio aggancio normativo nell’art. 3, comma primo, del D.P.R. n. 380/2001, nel testo precedente alle modifiche introdotte dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Infatti, le tende solari, pur alterando lo stato dei luoghi nei quali vengono installate (per cui non possono definirsi interventi di manutenzione ordinaria), hanno tuttavia semplice funzione (accessoria e pertinenziale) di arredo dello spazio esterno, limitata nel tempo e nello spazio, in quanto si tratta di strutture generalmente utilizzate nella sola stagione estiva e che non determinano alcuna variazione plano-volumetrica, per cui non integrano né una nuova costruzione né una ristrutturazione edilizia (così: TAR Molise, sez I, 04.05.2015, n. 181; TAR Molise, sez. I, 31.01.2014, n. 66).
Il Collegio ritiene applicabile le considerazioni appena esposte anche al caso di specie, che non sono inficiate dalla circostanza rilevata da parte ricorrente secondo cui tali strutture avrebbero carattere duraturo a prescindere dal periodo in cui vengono concretamente utilizzate.
Sul punto, sempre con particolare riferimento alle tende parasole installate nell’ambito di attività del tipo di quella per cui è causa, la giurisprudenza amministrativa ha infatti rilevato che: <<hanno carattere pertinenziale e, come tali, non debbono essere assistite da permesso di costruire, le opere che hanno finito per sostituire una preesistente tenda parasole di un esercizio commerciale con una struttura in legno infissa alla facciata dell’edificio a mezzo di una trave e ancorata alla facciata medesima nonché, in proiezione anteriore, al muretto antistante l’accesso dell’esercizio, atteso che la struttura realizzata, pur essendo indubbiamente più stabile e "pesante" rispetto alla tenda parasole di cui ha preso il posto, è palesemente destinata ad assolvere alla medesima funzione di essa, non essendo, per entità e caratteristiche, idonea ad integrare la nozione di "porticato" o di "veranda"; in particolare, detta struttura è insuscettibile di costituire un volume autonomo e aggiuntivo rispetto all’esercizio commerciale cui accede. Ne discende che l’opera in questione va qualificata come mera pertinenza rispetto all’edificio, in quanto tale non necessitante il previo rilascio di concessione edilizia (oggi permesso di costruire)>> (così: Cons. Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
Si deve quindi ritenere che, nel caso di specie, l’intervento edilizio costituito dall’installazione di due strutture in ferro di supporto ad un tendaggio di copertura predisposto al fine di offrire riparo dal sole o dalla pioggia agli avventori del locale esercito dalla ricorrente rientrino nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria sottratte, quindi, al regime del Permesso di costruire (cfr.: TAR Molise 181/2015, cit.; TAR Campania, Napoli Sez. IV, 12.10.2011, n. 5324; TAR Campania, Napoli Sez. IV, 16.12.2011, 5919).
Tali strutture, al più, sono assoggettate al regime semplificato della d.i.a. (ora s.c.i.a.), la cui inosservanza comporta l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37, co. 1, del Testo unico dell’edilizia, di cui al D.P.R. n. 380/2001 (cfr: TAR Molise 31.01.2014, n. 66).
In definitiva, il ricorso deve essere accolto e le ordinanze gravate annullate (TAR Molise, sentenza 04.12.2015 n. 459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn tema di valutazione dell'anomalia dell'offerta e del relativo procedimento di verifica sono da considerare acquisiti i seguenti principi:
   a) il procedimento di verifica dell'anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a garantire e tutelare l'interesse pubblico concretamente perseguito dall'amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell'esecuzione dell'appalto, così che l'esclusione dalla gara dell'offerente per l'anomalia della sua offerta è l'effetto della valutazione (operata dall'amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
   b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l'effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l'assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell'offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l'ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
   c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta;
   d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un'inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione;
   e) anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell'amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione;
   f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono, non può considerarsi viziato il procedimento di verifica per il fatto che l'amministrazione appaltante e per essa la commissione di gara si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs, n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell'offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall'amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l'equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata.

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Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente contesta la motivazione utilizzata dal seggio di gara per escluderla dalla gara, secondo la quale l’offerta determinerebbe un’inammissibile compressione degli oneri di personale al di sotto dei trattamenti minimi salariali, in virtù della ritenuta possibilità di applicazione di una normativa, l’art. 1, comma 118, della L. n. 190/2014, sopravvenuta alla stessa offerta, e, quindi, non invocabile senza una espressa riserva contenuta nella lex specialis di gara.
Occorre premettere che (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 05/09/2014, n. 4516), <<in tema di valutazione dell'anomalia dell'offerta e del relativo procedimento di verifica (che costituisce l'oggetto della controversia in esame) sono da considerare acquisiti i seguenti principi:
   a) il procedimento di verifica dell'anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto: esso mira piuttosto a garantire e tutelare l'interesse pubblico concretamente perseguito dall'amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell'esecuzione dell'appalto (ex multis, C.d.S., sez. III, 14.12.2012, n. 6442; sez. IV, 30.05.2013, n. 2956; sez. V, 18.02.2013, n. 973, 15.04.2013, n. 2063), così che l'esclusione dalla gara dell'offerente per l'anomalia della sua offerta è l'effetto della valutazione (operata dall'amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
   b) il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l'effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l'assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell'offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l'ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto (ex pluribus, C.d.S., sez. IV, 22.03.2013, n. 1633; 23.07.2012, n. 4206; sez. V, 20.02.2012, n. 875; sez. VI, 24.08.2011, n. 4801; 21.05.2009, n. 3146);
   c) il giudizio di anomalia o di incongruità dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta (Cons. Stato, sez. V, 26.06.2012, n. 3737; 22.02.2011, n. 1090; 08.07.2008, n. 3406; 29.01.2009, n. 497);
   d) il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un'inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732);
   e) anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell'amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 06.06.2012, n. 3340; 29.02.2012, n. 1183);
   f) sebbene, poi, la valutazione di congruità debba essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono (Cons. Stato, sez. V, 27.08.2012, n. 4600; sez, V, 16.08.2011, n. 4785; sez. IV, 14.04.2010, n. 2070; sez. VI, 02.04.2010, n. 1893; sez. V, 18.03.2010, n. 1589; 12.06.2009, n. 3762), non può considerarsi viziato il procedimento di verifica per il fatto che l'amministrazione appaltante e per essa la commissione di gara si sia limitata a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrane la congruità, può fornire, ex art. 87, comma 1, D.Lgs, n. 163 del 2006, spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell'offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall'amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l'equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata
>>.
Secondo i detti condivisibili principi, quindi, l’offerta, immutabile nella sua consistenza finale, può essere oggetto di precisazioni e giustificazioni anche sopravvenute (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 03.12.2015 n. 2840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ascensore è un bene necessario.
L'ascensore esterno all'edificio non è una vera e propria costruzione: il condominio ben può realizzarlo a meno di tre metri dal confine con la proprietà del vicino, a patto che la tromba delle scale sia troppo stretta per ospitare la cabina. E ciò perché la popolazione italiana invecchia sempre di più e l'impianto va considerato come un bene necessario per evitare agli anziani di fare le scale a piedi.

È quanto emerge dalla sentenza 03.12.2015 n. 1002, pubblicata dalla I Sez. del TAR Liguria, la regione del nostro Paese dove la crescita zero si fa sentire di più.
Il ricorso del confinante è accolto, ma per un vizio procedurale sul titolo edilizio e non per la lamentata violazione delle norme sulle distanze fra edifici. Secondo la giurisprudenza della Cassazione deve essere considerato ogni opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che risulta destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali.
Nella categoria rientrano le condotte idriche e termiche che non è possibile realizzare all'interno dello stabile. E altrettanto vale per l'ascensore: anche i piccoli spazi previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri non possono far mutare l'opinione in materia.
Insomma: il computo delle distanze tra le proprietà non può tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna dell'ascensore progettato dal condominio. Spese del giudizio compensate appunto perché il ricorso è in parte respinto (articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).
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MASSIMA
L’ingegner Lu.Be. si ritenne leso dalle determinazioni indicate nell’epigrafe per il cui annullamento notificò l’atto 29.07.2015, depositato il 04.08.2015, affidato alle seguenti censure:
- violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 in tema di partecipazione, imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, eccesso di potere per contraddittorietà tra provvedimenti, illogicità, erroneità manifesta, ingiustizia grave e manifesta.
- Violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241, dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ., eccesso di potere per insufficiente istruttoria e motivazione, travisamento dei fatti e dei presupposti, erroneità manifesta.
Si è costituito in causa il condominio di Recco in via Cavour 52 che ha chiesto respingersi la domanda.
Con atto debitamente notificato è intervenuta in causa la signora Ch.No. che ha chiesto respingersi la domanda.
Con atto notificato il 16.10.2015, depositato il 26.10.2015, il ricorrente ha dedotto il seguente ulteriore motivo:
- violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241, dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ., della normativa in tema di superamento delle barriere architettoniche, omessa motivazione, travisamento dei fatti e degli atti presupposti.
Le parti hanno depositato memorie e documenti.
L’impugnazione è rivolta contro gli atti del comune di Recco che hanno assentito la realizzazione dell’ascensore con sporti di uscita sulla facciata a settentrione del condominio resistente: si tratta di un immobile elevato per cinque piani fuori terra che dalla documentazione risulta non avere altre possibilità di installare l’ascensore al servizio dei suoi abitanti. Il fabbricato di proprietà dell’interessato è ubicato in posizione retrostante rispetto al condominio, sì che si pongono questioni soprattutto sulle distanze tra il bene in progetto e l’abitazione del ricorrente.
L’amministrazione condominiale presentò perciò la d.i.a. che preannunciava l’inizio delle opere, il ricorrente intervenne nel procedimento, ottenne la sospensione dei lavori, la cui esecuzione è stata invece legittimata dall’impugnata revoca della citata sospensione.
Con il primo motivo l’interessato denuncia la violazione procedimentale che vizierebbe la revoca impugnata, in quanto trattasi di un atto che incide su una pregressa situazione tutelata, sì che la sua perdita di efficacia può essere decisa solo previo il rispetto delle garanzie procedimentali; nella specie tale osservanza non vi sarebbe stata, posto che l’atto con cui l’amministrazione preannunciava l’intendimento di revocare la precedente sospensione dell’efficacia della d.i.a. è stato inviato il 06.05.2015, che tale comunicazione venne ricevuta dall’odierno ricorrente il 13.05.2015, e che l’atto lesivo è datato 18.05.2013.
Su tali presupposti il collegio deve convenire con la censura, posto che la revoca della sospensione dell’efficacia della d.i.a. che era stata decisa informava favorevolmente la situazione giuridica del ricorrente, sì che egli avrebbe avuto titolo ad avere per tempo la comunicazione ed a controdedurre.
Il motivo è pertanto fondato, ma la sua attitudine a comportare l’annullamento delle determinazioni impugnate (art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241) potrà essere apprezzata all’esito dell’esame degli ulteriori profili dedotti.
Con la seconda articolata censura il ricorrente lamenta nell’ordine la violazione:
- dell’art. 9 del dm 02.04.1968, n. 1444;
- dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380;
- degli artt. 873 e 907 del codice civile.
La norma di cui al decreto 1444/1968 sarebbe violata in quanto non intercorrerebbe il necessario distacco tra la parete finestrata dell’immobile di proprietà dell’interessato e la cabina dell’ascensore che è prevista in vetro con poggioli installati ai diversi piani, così da permettere il transito degli utenti verso gli appartamenti posti ai vari livelli.
La violazione denunciata deriverebbe dalla misurazione operata dal tecnico officiato dal ricorrente, che tuttavia ha considerato le distanze esistenti tra i due fabbricati tracciando una linea in diagonale, e con ciò violando le regole che la condivisa giurisprudenza ha istituito al riguardo (cass. 25.06.1993, n. 7048, tar Sardegna, 14.05.2014, n. 335) che ritiene invece illegittimo l’apprezzamento dei distacchi tra gli edifici avvalendosi del criterio radiale. Ne consegue che non avendo i due immobili una diretta frontistanza la misura indicata è erronea e non può essere condivisa.
Con un successivo profilo di impugnazione il ricorrente lamenta che la cabina dell’ascensore sarà posta a meno di tre metri dal muro confinario esistente tra le due proprietà, bene su cui è tra l’altro edificato un parapetto che consente la vista sul condominio, sì che la nuova edificazione si porrebbe in violazione degli artt. 873 e 907 cod. civ..
In ordine alla prima delle norme citate si osserva che
la giurisprudenza (cass. 03.02.2011, n. 2566 e cons. Stato, 6253 del 2012) ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
La decisione soprattutto della corte di cassazione è giunta all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno).
L’applicazione dei condivisi principi giurisprudenziali al caso di specie comporta la dichiarazione di infondatezza del motivo in esame, posto che
il computo delle distanze tra le proprietà non può tener conto dell’innovazione rappresentata dalla colonna dell’ascensore in progetto, non dovendosi mutare tale opinione solo perché la rappresentazione grafica del manufatto erigendo prefigura degli spazi destinati allo sbarco degli utenti ai diversi livelli; si tratta infatti degli accessori di un manufatto che non va considerato volume tecnico per le ragioni esposte, sì che anche i piccoli spazi previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri non possono far mutare l’opinione al riguardo.
Un’ulteriore censura va esaminata, benché essa presupponga la disattesa considerazione dell’ascensore come costruzione, e come tale ne afferma la soggezione alla disciplina sulle distanze legali.
Rileva al riguardo il ricorrente che il vano ascensore in progetto fronteggerà la parete rocciosa che si contrappone alla facciata nord del condominio controinteressato, e che venne scavata alla base al tempo della costruzione del caseggiato.
La deduzione è corroborata dalla citazione della giurisprudenza che, ai fini del controllo del rispetto delle distanze legali, considera i rilievi di terra creati dall’opera dell’uomo alla stregua di una costruzione, così come può dirsi almeno in parte per la parete posta a settentrione del condominio.
L’assunto è ulteriormente sviluppato con la considerazione della proprietà del muro o parete in capo al ricorrente, ovvero con quella della comproprietà del versante tra le parti in causa, cosa che legittimerebbe comunque l’interessato a dedurre il vizio in considerazione.
Il tribunale non può condividere neppure questo motivo.
Non è infatti prodotto alcun documento che permetta di ritenere che la proprietà del ricorrente si estenda sino al muro, dovendosi per ciò ritenere la carenza di idonei titoli a dar la prova del diritto affermato.
Per sostenere la tesi in esame nel corso dell’udienza per la discussione della causa il difensore del ricorrente ha fatto riferimento a quanto si deduce dai documenti nn. 12 e 13 prodotti dal condominio il 16.10.2015 per affermare che il confine tra le proprietà in contestazione passa sul colmo della parete, restando così insufficiente il distacco tra la facciata della casa ed il fronte roccioso.
Anche in questo caso è possibile rilevare che l’interessato nulla ha allegato in ordine al diritto vantato sui beni in questione, sì che la mera produzione ad opera della controparte di una raffigurazione dello stato dei luoghi può difficilmente essere ricondotta alla nozione di asserzione fatta contra se.
Appare piuttosto corretto l’esame della situazione in fatto alla luce della norme che il codice civile dedica al rapporto tra proprietà vicine, risultando corretto affermare che la specie è regolata dall’art. 881 c.c., in quanto la stessa memoria notificata contenente i motivi aggiunti espone che in caso di pioggia l’acqua scorre sulla parete di che si tratta e così in direzione del fondo condominiale. Ciò configura la situazione del piovente, terminologia utilizzata dalla norma citata per attribuire la titolarità esclusiva del diritto reale sul muro a colui che deve sopportare la caduta delle acque da un tetto o appunto lungo un muro.
Deve pertanto concludersi che anche a voler considerare l’ascensore alla stregua di una costruzione non è dal muro divisorio che possono misurarsi le distanze di legge, trattandosi di un bene che, allo stato delle produzioni e nei limiti della cognizione prevista dall’art. 8 c.p.a., va attribuito in piena proprietà al condominio controinteressato.

E’ poi dedotta l’illegittimità degli atti impugnati, nella parte in cui integrano la violazione dell’art. 907 cc che deriverebbe dalla vicinanza tra la cabina dell’ascensore in progetto ed il prospetto da cui il ricorrente dichiara di esercitare il diritto di veduta sul fondo del condominio sottostante.
La censura è pertanto nel senso che il prospetto (ad esempio immagine di cui al doc. 11 della produzione del condominio 16.10.2015) posto sulla sommità della parete o muro che suddivide i rispettivi fondi aggetta sul condominio, sì che risulterebbero illegittimi gli atti impugnati nella parte in cui hanno ammesso la possibilità di apporre la cabina dell’ascensore ad una distanza inferiore a quella prevista dalla norma denunciata, che a sua volta richiama la modalità di misurazione del distacco che è prevista dall’art. 905 cc.
Il motivo così formulato peraltro collide con la
condivisa giurisprudenza (ad esempio cass. 07.04.2015, n. 6927) che nega la possibilità di configurare l’esistenza del diritto di veduta quando il suo esercizio sia previsto dalla sommità di un muro che costituisce elemento divisorio tra due o più fondi: nella specie sì è già rilevata la scarsa chiarezza circa il confine tra i fondi, ma è certo che la doglianza si basa sulla violazione del diritto che il ricorrente ritrarrebbe dagli atti impugnati ove l’ascensore fosse posto a distanza inferiore a quella di legge rispetto al punto sommitale della parete.
La tutela legale di una consimile situazione di fatto è peraltro esclusa dalla lettura data dalla corte di cassazione alla norme denunciate, con che anche questo motivo non può trovare favorevole considerazione.
Tali conclusioni inducono a ritenere inammissibili anche le censure proposte con i motivi aggiunti, posto che la mancata prova della posizione differenziata in capo al ricorrente esclude che egli possa legittimamente censurare l’inserimento del nuovo ascensore nella facciata nord del condominio resistente.
In conclusione l’infondatezza o l’inammissibilità di tutti i rilievi sollevati dal ricorrente esclude l’incidenza dell’omissione procedimentale rilevata nel corso dell’esame del primo motivo di impugnazione sulla legittimità dei provvedimenti (art. 21-octies citato).
Il ricorso va pertanto accolto in parte, in parte respinto o dichiarato inammissibile, ma gli atti impugnati non possono essere annullati (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 03.12.2015 n. 1002 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali di cui agli articoli 1667, 1668 e 1669 del Cc, integrano, senza escluderne l’applicazione, i principi generali in materia di inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che, nel caso in cui l’opera sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il committente, convenuto per pagamento del prezzo, può, al fine di paralizzare la pretesa avversaria, opporre le difformità e i vizi dell’opera, in virtù del principio inadimplenti non est adimplendum, richiamato dal secondo periodo dell’ultimo comma dell’articolo 1667 del Cc, anche quando non abbia proposto, in via riconvenzionale, la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta.
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1.= Con l'unico motivo di ricorso Sa.Cr.Gi. e Sa.Cr.Ro. denunciano la violazione di norma di diritto in relazione all'art. 1460 cc. (art. 360 n. 3 cpc.).
Secondo i ricorrenti, avrebbe errato il Tribunale di Cagliari laddove ha affermato che l'art. 1460 cc non poteva trovare applicazione alla fattispecie oggetto del giudizio perché i committenti di un'opera, convenuti in giudizio per il pagamento del saldo del prezzo pattuito, possono legittimamente sollevare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 cc. nel caso in cui l'opera sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche e risulti non perfettamente funzionante anche qualora non si siano avvalsi della garanzia per difformità e vizi dell'opera di cui all'art. 2226 cc o siano decaduti per non aver denunciato tempestivamente le difformità e i vizi medesimi ovvero l'azione sia prescritta.
1.1.= Il motivo è infondato.
Questa Corte ha ripetutamente precisato che
in tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali di cui agli artt. 1667, 1668 e 1669 cod. civ. integrano -senza escluderne l'applicazione- i principi generali in materia di inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che, nel caso in cui l'opera sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il committente, convenuto per il pagamento del prezzo, può -al fine di paralizzare la pretesa avversaria- opporre le difformità e i vizi, dell'opera, in virtù del principio "inadimplenti non est adimplendum", richiamato dal secondo periodo dell'ultimo comma dell'art. 1667 cod. civ., anche quando non abbia proposto, in via riconvenzionale, la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta (Cass. n. 4446 del 20/03/2012).
Tuttavia,
è opportuno evidenziare che l'art. 1667 cc., ma lo stesso vale per la normativa di cui all'art. 2226 cc., specifica che il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia purché le difformità o i vizi siano stati denunziati entro (otto giorni e/o) sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna. Ciò significa che il committente convenuto per il pagamento del corrispettivo non ha possibilità di opporre le difformità e i vizi dell'opera, in virtù del principio "inadimplenti non est adimplendum", se i vizi o le difformità non siano stati denunciati nei tempi previsti.
D'altra parte, se così non fosse, verrebbe vanificata la portata dell'art. 2226 cc. e/o dell'art. 1667 cc, cioè, la necessità di una tempestiva denuncia dei vizi e delle difformità da parte del committente, perché sarebbe facilmente superabile.
Ora, la decisione impugnata si è uniformata, correttamente, a questi principi.
Come è stato affermato:
a) gli opponenti non hanno mai contestato che gli impianti di riscaldamento commessi al Meloni fossero stati effettivamente dallo stesso installati nelle abitazione di loro proprietà;
b) gli opponenti non hanno fornito in giudizio compiuta dimostrazione dell'avvenuto inoltro di tempestiva denuncia entro il termine di otto giorni dalla scoperta del vizio, relativo ad un mal funzionamento della caldaia, denunciato, come sembra, con lettera del 20.10.2004 e, cioè, quasi un anno dopo l'avvenuta consegna dell'opera.
Sicché, alla luce delle emergenze istruttorie ed, in particolare, considerata l'irrimediabile tardività della denuncia dei vizi da parte dei committenti, odierni ricorrenti, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto che nel caso concreto non potesse trovare applicazione la normativa di cui all'art. 1460 cc..
In definitiva, il ricorso va rigettato e i ricorrenti, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 cpc, condannati in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo.
Il Collegio, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del DPR 115 del 2002 da atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma i-bis dello stesso art. 13 (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 30.11.2015 n. 24400).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego di sanatoria sia del deposito realizzato, in quanto comportante incremento volumetrico, sia della modificazione della destinazione d’uso (quanto meno parziale) da deposito a spogliatoio per le seguenti motivazioni:
- perché “il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno.
Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati: non è quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma, che costituisce eccezione al principio generale delle necessità del previo assenso codificato dal precedente art. 146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza distinzione alcune, escluse”;
- perché il cambio di destinazione d’uso da locali senza permanenza di persone (deposito) a locali con permanenza di persone (spogliatoio) comporta un aumento del carico urbanistico.

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... per l'annullamento del provvedimento n. 61/M recante rigetto richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati alla via ... 23, e contestuale ordine di demolizione.
...
Il ricorso è infondato.
È pacifico in atti che sull’immobile pende una domanda di condono non ancora definita, sulla quale si sono favorevolmente pronunciati –per i profili paesaggistici– sia il Comune (decreto n. 3/2000) sia la Soprintendenza (provvedimento n. 3937/2000).
Al riguardo, deve per vero ritenersi irrilevante –come osservato da parte ricorrente– il tempo decorso, atteso che “alla luce della disciplina contenuta sia nel r.d. n. 1357 del 1940 che nell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’autorizzazione paesaggistica ha durata quinquennale. Le predette disposizioni sono, però, chiare nel riferire tale durata alle autorizzazioni che, in linea con la loro natura, intervengono prima dell’esecuzione dei lavori, cioè per le legittimazioni de futuro […] potendo la situazione fattuale nelle more trasformarsi e dunque richiedere una nuova valutazione dopo quella scadenza […] Queste norme non si possono, però, per le dette ragioni, applicare in presenza di una domanda di condono edilizio che, per definizione, presuppone che le opere e i lavori siano stati già eseguiti in assenza di un’autorizzazione preventiva. Se, pertanto, l’interessato ottiene il rilascio del parere vincolante dell’autorità preposta alla tutela del paesaggio, tale parere non ha efficacia temporale limitata ai cinque anni” (Cons. di Stato, VI, sent. n. 6216/2012).
Ciò premesso, la prima questione attiene alla astratta sanabilità dell’intervento per il quale è causa, ai sensi dell’art. 167, co. 4, d.lgs. n. 42/2004, il quale prevede che “l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica […] nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’arti. 3, D.P.R. n. 380/2001”, ovvero, rispettivamente:
- opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;
- opere e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso; frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso.
Rispetto a tale previsione, l’Amministrazione ha ritenuto non sanabile né il deposito realizzato sul versante nord, in quanto incremento volumetrico, né la modificazione della destinazione d’uso (quanto meno parziale) da deposito a spogliatoio (che si evince anche dalla Relazione allegata all’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica).
Entrambe le determinazioni devo essere ritenute legittime:
- la prima, perché “il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno. Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi volumi siano del tutto esterni. Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati: non è quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma, che costituisce eccezione al principio generale delle necessità del previo assenso codificato dal precedente art. 146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza distinzione alcune, escluse” (Cons. di Stato, VI, sent. n. 3289/2015; in termini, VI, n. 4079/2013);
- la seconda, perché il cambio di destinazione d’uso da locali senza permanenza di persone (deposito) a locali con permanenza di persone (spogliatoio) comporta un aumento del carico urbanistico (in termini, TAR Milano, II, sent. n. 1659/2015) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.11.2015 n. 2530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sanabilità di interventi realizzati su opere abusive, sulle quali penda procedimento di condono, questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che siano stati espressi i pareri delle competenti amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi, non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o parere favorevole, che sia)”.

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La seconda questione attiene alla sanabilità di interventi realizzati su opere abusive, sulle quali penda procedimento di condono.
Al riguardo, questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che siano stati espressi i pareri delle competenti amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi, non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o parere favorevole, che sia)” (TAR Campania, Napoli, VI, sent. 24017/2010).
Le considerazioni sopra riportate sorreggono dunque la legittimità della determinazione, soprintendentizia prima e comunale poi, di non sanare opere realizzate su un manufatto allo stato attuale non legittimo (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.11.2015 n. 2530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mera qualifica di imprenditore agricolo non è sufficiente ai fini dell’esonero dall’onere di pagare il contributo di costruzione, occorrendo all’uopo quella di imprenditore agricolo “a titolo principale ai sensi dell'articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153” e, quindi, oggigiorno, ai sensi dell’art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. 29/03/2004 n. 99 (secondo cui “Qualunque riferimento nella legislazione vigente all'imprenditore agricolo a titolo principale si intende riferito all'imprenditore agricolo professionale, come definito nel presente articolo”), quella di “imprenditore agricolo a titolo professionale”.
Quest’ultima, postula il possesso di requisiti ulteriori rispetto a quelli che connotano la figura del semplice imprenditore agricolo.
In base all’art. 1, comma 1, del citato D.Lgs. n. 99/2004, infatti, “è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del 17.05.1999, del Consiglio, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.
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Il riconoscimento della qualifica in parola presuppone la sussistenza, in capo all’interessato, dei requisiti indicati nel comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 e il possesso di questi ultimi deve essere, in base al comma 2 del medesimo articolo, accertato “ad ogni effetto” dalle Regioni (o dalle altre autorità dalle medesime individuate).
Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto ed è consacrato in un atto, la qualifica può ritenersi acquisita.
Diversamente da quanto si afferma nella suddetta memoria difensiva, nessun argomento a favore della tesi della natura dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di imprenditore agricolo professionale può trarsi dal menzionato art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004, il quale si limita a disporre l’estensione, alla nuova figura dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le norme previgenti che facevano riferimento a quella dell’imprenditore agricolo a titolo principale (non più esistente, in considerazione dell’abrogazione dell’art. 12 della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art. 1, comma 5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004).

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... per la riforma della sentenza del TAR Lombardia–Brescia, Sez. I, n. 817/2014, resa tra le parti, concernente restituzione somme erogate a titolo di oneri di urbanizzazione.
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Passando al merito dell’appello, occorre partire dal primo motivo, col quale il Comune di Curtatone deduce che il giudice di prime cure avrebbe errato nel ritenere sufficiente, ai fini dell’esenzione prevista dall’art. 17, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001, la mera qualifica di imprenditore agricolo, come definito dall’art. 2135 cod. civ., occorrendo, invece, quella di imprenditore agricolo professionale.
La doglianza è fondata.
Dispone l’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001: “Il contributo di costruzione non è dovuto:
a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153
”.
Come si ricava chiaramente dalla trascritta norma, la mera qualifica di imprenditore agricolo non è sufficiente ai fini dell’esonero dall’onere di pagare il contributo di costruzione, occorrendo all’uopo quella di imprenditore agricolo “a titolo principale ai sensi dell'articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153” e, quindi, oggigiorno, ai sensi dell’art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. 29/03/2004 n. 99 (secondo cui “Qualunque riferimento nella legislazione vigente all'imprenditore agricolo a titolo principale si intende riferito all'imprenditore agricolo professionale, come definito nel presente articolo”), quella di “imprenditore agricolo a titolo professionale” (Cons. Stato, Sez. V, 14/05/2013 n. 2609).
Quest’ultima, postula il possesso di requisiti ulteriori rispetto a quelli che connotano la figura del semplice imprenditore agricolo.
In base all’art. 1, comma 1, del citato D.Lgs. n. 99/2004, infatti, “è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del 17.05.1999, del Consiglio, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.
Nella fattispecie, al momento del rilascio del permesso di costruire n. 31/10, avvenuto in data 01/10/2010, la sig.ra Ro., pur essendo imprenditore agricolo, non possedeva la qualifica imprenditore agricolo professionale.
Quest’ultima, infatti, le è stata riconosciuta (peraltro a titolo provvisorio) solo in data 18/04/2011, (si veda determinazione del Dirigente Area Programmazione Territoriale Settore Agricoltura, Parchi, Caccia e Pesca della Provincia di Milano 18/04/2011 n. 65928).
Obietta l’appellata (memoria di costituzione depositata in data 07/01/2015), che tale riconoscimento avrebbe natura dichiarativa e non costitutiva.
La tesi non convince.
Infatti, il riconoscimento della qualifica in parola presuppone la sussistenza, in capo all’interessato, dei requisiti indicati nel comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 e il possesso di questi ultimi deve essere, in base al comma 2 del medesimo articolo, accertato “ad ogni effetto” dalle Regioni (o dalle altre autorità dalle medesime individuate).
Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto ed è consacrato in un atto, la qualifica può ritenersi acquisita.
Diversamente da quanto si afferma nella suddetta memoria difensiva, nessun argomento a favore della tesi della natura dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di imprenditore agricolo professionale può trarsi dal menzionato art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004, il quale si limita a disporre l’estensione, alla nuova figura dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le norme previgenti che facevano riferimento a quella dell’imprenditore agricolo a titolo principale (non più esistente, in considerazione dell’abrogazione dell’art. 12 della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art. 1, comma 5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004).
Peraltro, l’appellata non avrebbe diritto all’esenzione dal contributo di costruzione, nemmeno se al riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo professionale potesse assegnarsi valore dichiarativo.
Difatti, dagli atti prodotti in giudizio, risulta per tabulas come la stessa, alla data di rilascio del permesso di costruire, non possedesse i requisiti per ottenere la qualifica di che trattasi.
Ed invero, nella domanda, presentata in data 05/04/2011 per il riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo professionale, la sig.ra Rovere ha esplicitamente dichiarato “…di non poter al momento dimostrare il possesso dei requisiti previsti dalla normativa L.R. e successive modifiche, in quanto solo nel corso degli ultimi anni sta strutturando dal punto di vista tecnico ed organizzativo la sua attività in modo da renderla professionale a tutti gli effetti e non oltre il termine massimo di due anni dalla data della presente istanza”.
Nel certificato rilasciato dalla Camera di Commercio Industria, Artigianato e Agricoltura di Milano, si attesta che l’appellata, iscritta come piccolo imprenditore dal 30/12/2004, “si considera imprenditore agricolo professionale e svolge l’attività dal 18/04/2011”.
Per contro, diversamente da quanto la stessa appellata mostra di ritenere, non sono idonee a dimostrare che la stessa possedesse i requisiti richiesti dall’art. 1 comma 1, del D.Lgs. n. 99/2004 in epoca precedente al rilascio del permesso di costruire n. 31/10, le note della Provincia di Milano in data 21/07/2011 e 25/07/2011 (rispettivamente docc. 4 e 5 del fascicolo di primo grado di parte ricorrente) dalla medesima invocate.
La prima (doc. 4) afferma -per quanto qui rileva- che “già a far data dal 11/03/2010 la stipula del contratto di affitto agricolo con la integrazione del 16/03/2010 evidenziava il consistente numero di immobili e terreni in condizione agricola, tale condizione unita alla valutazione dell’ordinamento produttivo come descritto nel fascicolo aziendale permettevano il rilascio della qualifica di imprenditore agricolo professionale in data 18/4/2011”.
Nel confermare che il rilascio (a titolo provvisorio) della qualifica di che trattasi è avvenuta nell’aprile del 2011, la nota attesta che nel marzo 2010 la sig.ra Ro. ha stipulato contratti di affitto per numerose aree agricole, ma tutto ciò evidentemente basta soltanto a dimostrare l’acquisita disponibilità di terreni agricoli, ma non anche il loro effettivo sfruttamento per usi agrari, né, ovviamente, dimostra la sussistenza di tutti gli ulteriori requisiti occorrenti ai fini di poter acquistare la qualifica in parola.
La seconda nota (doc. 5), riporta, invece, le dichiarazioni rese da un soggetto privato (tal sig.ra Ci.Vi.) secondo cui “alla data del 15/11/2010 ed ancor prima a far data dal 11/03/2010, la dr.ssa Ro. aveva tutti i requisiti per ottenere il riconoscimento IAP”.
Ovviamente, tale generica dichiarazione, peraltro in contrasto con tutte le risultanze processuali, risulta inidonea a dimostrare il possesso dei requisiti necessari per il conseguimento della qualifica di cui si discute.
Occorre a questo punto esaminare il secondo motivo del ricorso di primo grado non esaminato dal TAR è riproposto dall’appellata con la memoria di costituzione.
Deduce la sig.ra Ro. che l’esenzione sarebbe, comunque, spettata ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001, in base al quale il contributo non è dovuto “per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela artistico-storica e ambientale”.
Ed invero, il tetto del manufatto sarebbe stato realizzato con pannelli fotovoltaici, per cui senza questi la struttura non sarebbe stata idonea alla sua funzione, con la conseguenza che la reclamata esenzione avrebbe dovuto coprire l’intera costruzione.
La doglianza è priva di pregio.
Al riguardo è sufficiente rilevare che, come emerge dagli atti di causa, i permessi di costruire nn. 31/10 e 48/10, non contemplavano l’installazione dell’impianto fotovoltaico, per cui non sussistevano i presupposti per ottenere l’esenzione di cui all’invocato art. 17, comma 3, lett. e).
In definitiva l’appello va accolto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.11.2015 n. 5363 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se l’altezza di un edificio viene aumentata (abusivamente) in misura modesta, e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in quanto la differenza risulta spalmata sui preesistenti elementi architettonici e non può essere percepita come un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior volume non si può definire come utile, e di conseguenza non rappresenta un ostacolo all’accertamento di compatibilità, si può ritenere che, anche nel caso di specie, il parere paesaggistico negativo fondato esclusivamente sulle limitate differenze rispetto all’autorizzato, le quali non hanno comunque determinato né un aumento di superficie utile, né un aumento di volumetria in senso urbanistico (peraltro compatibile con gli strumenti urbanistici e su cui vi era già un parere positivo) sia privo di adeguata motivazione e in contrasto con la ratio della disposizione applicata.
Risulta incontestato che:
a) il volume del piano interrato costruito è inferiore a quello autorizzato;
b) a seguito dell’innalzamento della quota di imposta di 80 cm, applicando il criterio del volume geometrico, si genera un aumento volumetrico, rispetto all’autorizzato, ritenuto non sanabile, di 75,57 mc;
c) il complessivo incremento di volume geometrico del fabbricato fuori terra ammonta a 118,80 mc, di cui 81,53 dovuti al maggiore spessore di muri esterni e solai e 37,27 all’aumento dell’altezza interna del sottotetto;
d) non vi è stato aumento di superficie utile del fabbricato.
A fronte di tali, accertate, violazioni, la Soprintendenza ha trascurato di verificare se le stesse fossero comunque sanabili alla luce del fatto che il ricorrente (come da doc. A depositato il 07.11.2011) sarebbe stato autorizzato ad un ampliamento dell’edificio in sopraelevazione sulla terrazza di copertura del piano terra, sfruttando la SLP residua, riconoscendone la scarsa percepibilità.
Dato tale preesistente parere, ritenere che l’incremento di volume in questione -dovuto ad un maggiore spessore dei muri, dei solai e della copertura, oltre ad un aumento di 0,43 m dell’altezza media interna del sottotetto del primo piano, che occupa solo all’incirca una metà della copertura del piano terra-, determini una “percepibilità del sito” che giustifichi l’intera demolizione dell’edificio appare superare i criteri di logicità e ragionevolezza oltre che la ratio stessa della norma.
Pertanto, in linea con la recente ordinanza di questo Tribunale n. 39 del 2015, nella quale si legge che, “se l’altezza di un edificio viene aumentata in misura modesta, e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in quanto la differenza risulta spalmata sui preesistenti elementi architettonici e non può essere percepita come un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior volume non si può definire come utile, e di conseguenza non rappresenta un ostacolo all’accertamento di compatibilità”, si può ritenere che, anche nel caso di specie, il parere paesaggistico negativo fondato esclusivamente sulle limitate differenze rispetto all’autorizzato di cui si è dato conto più sopra, le quali non hanno comunque determinato né un aumento di superficie utile, né un aumento di volumetria in senso urbanistico (peraltro compatibile con gli strumenti urbanistici e su cui vi era già un parere positivo) sia privo di adeguata motivazione e in contrasto con la ratio della disposizione applicata.
Ciò non esclude, peraltro, la necessità che, rispetto al suddetto maggiore volume in senso geometrico, sia determinato il dovuto risarcimento ambientale previsto dall’art. 167, comma 5, del Dlgs. 167/2004, in quanto la maggiore altezza dei locali costituisce un vantaggio ricavato dal proprietario dell’edificio.

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... per l'annullamento:
- del parere negativo della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Brescia, Cremona e Mantova, di cui alla nota prot. n. 10393 del 25.06.2013, espresso ai fini della sanatoria per l’esecuzione in difformità dell’autorizzazione paesaggistica;
- della nota del Comune di Toscolano prot. n. 9194 del 04.07.2013, con cui tale parere è stato trasmesso;
- dell’ordinanza n. 201/2013 prot. 11864 del 05.09.2013, avente ad oggetto il ripristino dei luoghi in ragione del rigetto dell’istanza di sanatoria conseguente al suddetto parere negativo della Soprintendenza.
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Nella quinta censura si deduce, l’erronea interpretazione data, sia dalla Soprintendenza, che dal Comune, al concetto di “volume”, ritenendo che quello rilevante ai fini paesaggistici sia da calcolarsi in modo diverso da quello “urbanistico”.
Secondo parte ricorrente, la circolare n. 33 del 2009 definirebbe il volume come “qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergenti dal terreno o dalle sagome di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”, con la conseguenza che dovrebbero essere applicati i concetti di riferimento della disciplina urbanistica e, dunque, risulterebbero sanabili “logge, balconi e portici collegati al fabbricato, aperti su tre lati contenuti entro il 25 % dell’area di sedime del fabbricato stesso”.
Nel caso di specie, il volume, inteso in senso urbanistico, non sarebbe cambiato, né troverebbe alcun riscontro normativo l’affermazione della Soprintendenza secondo cui “i calcoli volumetrici debbono essere svolti rispetto ad una quota fissa esterna all’area di intervento e che tale quota non può variare a seconda che si tratti di quello assentito piuttosto che di quello realizzato”.
Dal punto di vista concreto, nel caso in esame, la variazione della quota è stata determinata dal fatto che si è proceduto ad una minore escavazione a monte del fabbricato a fronte di un riporto a valle di circa 80 cm, con impostazione della costruzione alla quota media: ciò non avrebbe determinato, secondo il ricorrente, quella variazione di volume che, invece, la Soprintendenza ravvisa.
La verificazione disposta da questo Tribunale ha evidenziato il contrario e cioè che l’innalzamento della quota di imposta del fabbricato realizzato rispetto a quello autorizzato ha determinato un aumento di volumetria quantificabile in 75,57 metri cubi. Un ulteriore aumento di 118,80 metri cubi di volumetria è da imputarsi, inoltre, ai maggiori spessori dei muri esistenti, dei solai interpiano e della copertura.
Conclusivamente, le modalità di realizzazione dell’intervento hanno determinato delle variazioni di per sé, in linea di principio, non sanabili.
Né il ricorso può ritenersi fondato nella parte in cui (settima doglianza) deduce la violazione del parere a causa della mancata valutazione delle specifiche variazioni dedotte e “autodenunciate” nella richiesta di sanatoria. Al contrario, il parere prende specificamente in considerazione le differenze rispetto al progetto dichiarate, ma, nel pieno rispetto dei propri poteri, analizza le conseguenze di tali variazioni che non si limitano a quanto dedotto dal ricorrente, ma hanno determinato il ben diverso effetto, non compatibile con la tutela ambientale, dell’aumento della volumetria reale.
Non può, dunque, configurarsi nemmeno alcuna ipotesi di invalidità dell’ordinanza di ripristino derivata da quella degli atti presupposti, risultati immuni dai vizi dedotti e sin qui esaminati, con conseguente rigetto delle doglianze sub 3 e 8.
Nella nona censura il ricorrente lamenta la non proporzionalità dell’ordinanza di ripristino impugnata, che imporrebbe la demolizione e la ricostruzione alla quota ritenuta corretta dell’intero edificio, entro il termine di 120 giorni.
Ciononostante, il ricorso risulta fondato, in ragione di quanto dedotto alle censure 4, 6, 9 e 10.
Parte ricorrente lamenta, infatti, la violazione dei principi comunitari derivanti dall’art. 17 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui la sanzione demolitoria sarebbe ammissibile solo se preposta all’effettiva e concreta tutela di un “interesse antagonista” e proporzionale, così come enucleati nell’ordinanza del TAR Sicilia n. 802 del 10.06.2013, che ha rimesso alla Corte di Giustizia Europea la relativa questione pregiudiziale.
Nella successiva memoria difensiva, però, parte ricorrente stessa dà atto di come, con sentenza del 06.03.2014, la Corte di Giustizia si sia dichiarata incompetente a pronunciarsi sulla questione pregiudiziale rimessale dal TAR Sicilia, rinviando la pronuncia sulla stessa alla decisione del Collegio.
Ciononostante, il Collegio ritiene che, nel caso di specie, non possa escludersi del tutto la dedotta violazione dei principi comunitari (e, anche, per gli stessi motivi, dei principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza della sanzione), atteso che, come chiarito dalla stessa difesa del ricorrente e non smentito dalle controparti, l’ordine di ripristino comporterebbe l’abbattimento dell’intero edificio, non essendo possibile la sola riduzione della quota di imposta del primo piano, che risulta già essere al limite dell’abitabilità a causa delle conseguenze della introduzione di elementi in cemento armato in funzione antisismica che avrebbero, di fatto, se non si fosse alzata la quota, determinato un’altezza interna della campate non compatibile con la normativa edilizia. Ciò comporta che il ripristino delle dimensioni della costruzione conformi al progetto richiederebbe necessariamente la demolizione dello stesso e la sua ricostruzione ad una quota più bassa.
Si potrebbe, dunque, porre un problema di bilanciamento degli interessi in gioco, in un’ottica di valutazione della proporzionalità della sanzione, ma ciò si può, in concreto evitare, atteso che appare suscettibile di positivo apprezzamento la quarta censura dedotta nel ricorso.
Essa tende ad affermare la illegittimità del provvedimento, privilegiando quell’interpretazione finalistica delle norme auspicata dal Ministero nella nota n. 16721 del 13.09.2010 e nella circolare n. 33 del 26.06.2009, in ragione delle quali la Soprintendenza avrebbe dovuto considerare la consistenza minimale delle variazioni di quanto realizzato rispetto a quanto autorizzato e la conseguente non incidenza sul bene tutelato.
In particolare, nella nota richiamata, si chiarisce che “la percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto costituisce un prerequisito di rilevanza paesaggistica del fatto”.
Invero, che tale percepibilità sussista nel caso di specie parrebbe potersi dedurre, empiricamente, dal fatto che il vicino di casa da cui è partita la segnalazione abbia potuto avvedersene.
A prescindere da ciò, la Soprintendenza avrebbe dovuto dare rilievo alla reale incidenza della violazione incidente sul bene tutelato.
Risulta incontestato, infatti, come sintetizzato nella memoria del ricorrente del 10.10.2015, che:
a) il volume del piano interrato costruito è inferiore a quello autorizzato;
b) a seguito dell’innalzamento della quota di imposta di 80 cm, applicando il criterio del volume geometrico, si genera un aumento volumetrico, rispetto all’autorizzato, ritenuto non sanabile, di 75,57 mc;
c) il complessivo incremento di volume geometrico del fabbricato fuori terra ammonta a 118,80 mc, di cui 81,53 dovuti al maggiore spessore di muri esterni e solai e 37,27 all’aumento dell’altezza interna del sottotetto;
d) non vi è stato aumento di superficie utile del fabbricato.
A fronte di tali, accertate, violazioni, la Soprintendenza ha trascurato di verificare se le stesse fossero comunque sanabili alla luce del fatto che il ricorrente (come da doc. A depositato il 07.11.2011) sarebbe stato autorizzato ad un ampliamento dell’edificio in sopraelevazione sulla terrazza di copertura del piano terra, sfruttando la SLP residua, riconoscendone la scarsa percepibilità.
Dato tale preesistente parere, ritenere che l’incremento di volume in questione -dovuto ad un maggiore spessore dei muri, dei solai e della copertura, oltre ad un aumento di 0,43 m dell’altezza media interna del sottotetto del primo piano, che occupa solo all’incirca una metà della copertura del piano terra-, determini una “percepibilità del sito” che giustifichi l’intera demolizione dell’edificio appare superare i criteri di logicità e ragionevolezza oltre che la ratio stessa della norma.
Pertanto, in linea con la recente ordinanza di questo Tribunale n. 39 del 2015, nella quale si legge che, “se l’altezza di un edificio viene aumentata in misura modesta, e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in quanto la differenza risulta spalmata sui preesistenti elementi architettonici e non può essere percepita come un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior volume non si può definire come utile, e di conseguenza non rappresenta un ostacolo all’accertamento di compatibilità”, si può ritenere che, anche nel caso di specie, il parere paesaggistico negativo fondato esclusivamente sulle limitate differenze rispetto all’autorizzato di cui si è dato conto più sopra, le quali non hanno comunque determinato né un aumento di superficie utile, né un aumento di volumetria in senso urbanistico (peraltro compatibile con gli strumenti urbanistici e su cui vi era già un parere positivo) sia privo di adeguata motivazione e in contrasto con la ratio della disposizione applicata.
Ciò non esclude, peraltro, la necessità che, rispetto al suddetto maggiore volume in senso geometrico, sia determinato il dovuto risarcimento ambientale previsto dall’art. 167, comma 5, del Dlgs. 167/2004, in quanto la maggiore altezza dei locali costituisce un vantaggio ricavato dal proprietario dell’edificio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.11.2015 n. 1591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini dell’identificazione della nozione di volume tecnico, come tale escluso dal calcolo della volumetria, occorre fare riferimento a tre ordini di parametri; il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo negativi ricollegati, rispettivamente, all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all’interno della parte abitativa) e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale.
Peraltro, con l’importante precisazione, secondo cui: “L’applicazione di tali criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità".
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Se è vero, del resto, che s’è sostenuto: “Mentre ai fini edilizi un nuovo volume può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio, perché ritenuto volume tecnico), ai fini paesaggistici invece può assumere comunque una rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi”, appare al Collegio chiaro che intanto tale orientamento può valere in quanto si sia, concretamente, in cospetto di una “possibile alterazione dello stato dei luoghi”, ovvero di un pregiudizio al paesaggio, globalmente e complessivamente, e anche in proiezione dinamica, inteso.
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Quanto, poi, alla convinzione, di seguito espressa nel parere contrario gravato, che anche l’eventuale riconduzione delle opere realizzate, nella categoria dei volumi tecnici, non servirebbe comunque a sanarle, sotto il profilo paesaggistico, perché l’applicazione dell’art. 167 d.l.vo 42/2004 sarebbe circoscritta, di necessità, ai soli “abusi minori”, con esclusione di ogni opera –come quella in esame– di rilevanti dimensioni, si tenga presente, in senso contrario, la seguente massima, che tale convinzione recisamente smentisce: “Ai sensi dell’art. 146, comma 12 (ora, comma 4), d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, in relazione alle opere comportanti un aumento di volumetria, l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata ex post dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, fatti salvi i cosiddetti volumi tecnici (costituiti (da) eventuali ipotesi marginali) (e) i cosiddetti abusi minori; la stessa ratio, infatti, che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile, vale ugualmente per escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria”.
In senso analogo: “Per le opere comportanti un aumento di volumetria o cubatura l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata “ex post” dall’autorità preposta alla tutela del vincolo, non rientrando tale ipotesi tra le fattispecie marginali –i cd. abusi minori– che eccezionalmente ammettono la sanatoria ambientale in deroga al divieto generale di nulla – osta postumo; peraltro, la stessa ratio che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile vale ugualmente a far escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, in comb. disp. con l’art. 39, t.u. 06.06.2001 n. 380, e sono, dunque, suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica”.

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Quanto, poi, ai profili tecnico–giuridici della questione, di cui sopra, ritiene il Collegio –atteso che, ovviamente, il provvedimento da rendersi da parte della Soprintendenza, titolare del potere discrezionale in oggetto (non potendosi aderire alla richiesta di parte ricorrente, di condanna della stessa Amministrazione a rendere il parere richiesto, evidentemente in senso conforme ai suoi auspici, ex art. 34, comma 1, lett. c) del c.p.a., trattandosi all’evidenza, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del c.p.a., di attività non vincolata, e residuando inevitabilmente ulteriori margini alla discrezionalità dell’Amministrazione coinvolta, palesati del resto anche nella trattazione che precede) deve necessariamente inscriversi nel tessuto normativo, rappresentato dall’art. 167, comma 4, d.l.vo 42/2004 (ai sensi del quale: "L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”)– il Collegio non può che invitare l’Amministrazione dei Beni e delle Attività Culturali a un’attenta rimeditazione della possibile riconduzione delle opere realizzate, nella nozione di “volumi tecnici”, ai sensi della circolare dello stesso Mi.B.A.C., n. 33 del 26.06.2009, nonché alla luce della sentenza di questa Sezione, n. 1429 del 25.06.2013 (per la cui esposizione, per evidenti ragioni di sintesi, si rinvia all’ampia disamina, effettuata in narrativa).
Vero è, che, nel provvedimento impugnato, sono state spiegate le ragioni, per le quali le opere, eseguite “sine titulo”, non sarebbero ascrivibili alla categoria dei “volumi tecnici” (sostanzialmente, mercé il richiamo alla sentenza del TAR Campania–Napoli, Sez. I, n. 313/2013); peraltro, osserva il Collegio come, in giurisprudenza, siano attestate numerose decisioni, che identificano il volume tecnico nel modo seguente (conformemente, del resto, alla sentenza della Sezione, n. 1429/2013): “Ai fini dell’identificazione della nozione di volume tecnico, come tale escluso dal calcolo della volumetria, occorre fare riferimento a tre ordini di parametri; il primo, positivo, di tipo funzionale, dovendo avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo negativi ricollegati, rispettivamente, all’impossibilità di soluzioni progettuali diverse (nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all’interno della parte abitativa) e ad un rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere fra i volumi e le esigenze edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale”; peraltro, con l’importante precisazione, secondo cui: “L’applicazione di tali criteri induce a concludere che i volumi tecnici degli edifici, per essere esclusi dal calcolo della volumetria, non devono assumere le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità” (TAR Campania–Napoli, Sez. VI, 06/02/2014, n. 785); e, nella specie, l’abitabilità delle opere tecnologiche, rappresentate dal pennello a “T” e dalle scogliere debolmente soffolte, che l’accompagnano per la sua lunghezza, è evidentemente esclusa in assoluto (come pure, del resto, le caratteristiche di “vano chiuso” nonché utilizzabile altro, che per le esigenze di tutela del porto e dell’abitato di Marina di Pisciotta, cui è essenzialmente e primariamente destinato).
Se è vero, del resto, che s’è sostenuto: “Mentre ai fini edilizi un nuovo volume può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio, perché ritenuto volume tecnico), ai fini paesaggistici invece può assumere comunque una rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 02/09/2013, n. 4348), appare al Collegio chiaro che intanto tale orientamento può valere in quanto si sia, concretamente, in cospetto di una “possibile alterazione dello stato dei luoghi”, ovvero di un pregiudizio al paesaggio, globalmente e complessivamente, e anche in proiezione dinamica, inteso (giusta le considerazioni, che si sono espresse, amplius, in precedenza).
Quanto, poi, alla convinzione, di seguito espressa nel parere contrario gravato, che anche l’eventuale riconduzione delle opere realizzate, nella categoria dei volumi tecnici, non servirebbe comunque a sanarle, sotto il profilo paesaggistico, perché l’applicazione dell’art. 167 d.l.vo 42/2004 sarebbe circoscritta, di necessità, ai soli “abusi minori”, con esclusione di ogni opera –come quella in esame– di rilevanti dimensioni, si tenga presente, in senso contrario, la seguente massima, che tale convinzione recisamente smentisce: “Ai sensi dell’art. 146, comma 12 (ora, comma 4), d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, in relazione alle opere comportanti un aumento di volumetria, l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata ex post dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, fatti salvi i cosiddetti volumi tecnici (costituiti (da) eventuali ipotesi marginali) (e) i cosiddetti abusi minori; la stessa ratio, infatti, che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile, vale ugualmente per escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria” (TAR Sardegna, Sez. II, 07/03/2012, n. 249).
In senso analogo, cfr. l’ulteriore massima che segue: “Per le opere comportanti un aumento di volumetria o cubatura l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata “ex post” dall’autorità preposta alla tutela del vincolo, non rientrando tale ipotesi tra le fattispecie marginali –i cd. abusi minori– che eccezionalmente ammettono la sanatoria ambientale in deroga al divieto generale di nulla – osta postumo; peraltro, la stessa ratio che in materia urbanistica induce ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile vale ugualmente a far escludere tali volumi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con la conseguenza che gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano nell’eccezione di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, in comb. disp. con l’art. 39, t.u. 06.06.2001 n. 380, e sono, dunque, suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica” (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, 15/09/2010, n. 435) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.11.2015 n. 2481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATASe è vero che l’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 6, l. n. 15 del 2005, che stabilisce l’obbligo per l’amministrazione nei procedimenti ad istanza di parte di inviare il c.d. “preavviso di rigetto”, non impone nel provvedimento finale la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, è altrettanto vero che l’assolvimento dell’obbligo, imposto dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, di dar conto nella motivazione del provvedimento finale delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione dei motivi ostativi, non può consistere nell’uso di formule di stile che affermino genericamente la loro non accoglibilità, dovendosi dare espressamente conto delle ragioni che hanno portato a disattendere le controdeduzioni formulate.
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Tornando ai profili esposti in precedenza, e alle ragioni per le quali s’è integrata, nella specie, la violazione del giudicato, scaturente dalla sentenza della Sezione, n. 1926/2012 (nei sensi, sopra diffusamente esposti), rileva, inoltre, il Tribunale come, per le stesse considerazioni, ivi formulate, e che si abbiano qui per integralmente richiamate, risulti, altresì, integrata anche la violazione dell’art. 10-bis della l. 241/1990, censurata dal Comune di Pisciotta nel settimo –e ultimo– motivo di ricorso.
Com’è noto, secondo la giurisprudenza: “Se è vero che l’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 6, l. n. 15 del 2005, che stabilisce l’obbligo per l’amministrazione nei procedimenti ad istanza di parte di inviare il c.d. “preavviso di rigetto”, non impone nel provvedimento finale la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, è altrettanto vero che l’assolvimento dell’obbligo, imposto dall’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, di dar conto nella motivazione del provvedimento finale delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione dei motivi ostativi, non può consistere nell’uso di formule di stile che affermino genericamente la loro non accoglibilità, dovendosi dare espressamente conto delle ragioni che hanno portato a disattendere le controdeduzioni formulate” (TAR Sardegna, Sez. II, 02/04/2014, n. 264).
Ora, nella specie, per le ragioni dianzi ampiamente espresse, nel provvedimento gravato non si è dato idoneamente conto dei motivi, per i quali una parte rilevante delle controdeduzioni, rassegnate dal Comune di Pisciotta (vale a dire tutte quelle, nelle quali s’è contestata la mancata ottemperanza alle prescrizioni conformative, discendenti dalla sentenza della Sezione, n. 1926/2012), non siano state ritenute tali, da orientare diversamente, e in senso favorevole alle istanze di parte ricorrente, l’azione della Soprintendenza: ne deriva l’illegittimità, anche sotto tale autonomo profilo di doglianza, del provvedimento gravato.
In definitiva, lo stesso, in accoglimento dei motivi, di cui ai capi I) e VII) dell’atto introduttivo del giudizio, nonché assorbita ogni altra censura, deve essere, in accoglimento del ricorso, annullato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.11.2015 n. 2481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La discrezionalità compressa dal giudice.
Sebbene alle amministrazioni pubbliche sia riconosciuta ampia discrezionalità in sede di pianificazione urbanistica, sicché le disposizioni di piano sono sufficientemente motivate anche con il semplice riferimento ai criteri ed alle finalità generali della pianificazione, tale principio non può trovare applicazione nel caso in cui una pronuncia giurisdizionale imponga al Comune un onere motivazionale maggiore di quello ordinariamente richiesto in sede di pianificazione territoriale, pena la violazione della «regula iuris» derivante dal giudicato amministrativo.

Lo hanno affermato i giudici della II Sez. del TAR Lombardia-Milano, con la sentenza 24.11.2015 n. 2479.
È opportuno, altresì evidenziare che le osservazioni agli strumenti urbanistici in itinere costituiscono di regola un mero apporto collaborativo, che non richiedono una peculiare motivazione in caso di non accoglimento. Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi milanesi una società esponente era proprietaria di un vasto compendio immobiliare, sul quale insistevano sia un castello destinato a residenza sia un fienile per l'attività agricola.
Con il Piano regolatore generale l'area veniva in parte destinata a verde privato e in parte a zona agricola inedificabile. Contro la delibera di approvazione del Prg era proposto dall' esponente ricorso al Tar Lombardia, che era accolto con sentenza, con cui le previsioni urbanistiche relative al fondo della ricorrente erano annullate per difetto di motivazione della scelta urbanistica comunale.
In seguito e in sede di approvazione del nuovo strumento urbanistico generale del Comune (Piano di governo del territorio o Pgt, ai sensi della legge regionale n. 12/2005), l'amministrazione assegnava al compendio la prevalente destinazione a «Giardini e verde privato», oltre che «Impianti tecnologici e attrezzature pubbliche in progetto» e zona di rispetto cimiteriale.
La società esponente, reputando illegittima la determinazione pianificatoria del Comune, proponeva quindi il ricorso oggetto del presente commento, con domanda di risarcimento del danno (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016).
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MASSIMA
1. Il ricorso merita accoglimento, per le ragioni che seguono.
Con sentenza n. 965/2010 (cfr. il doc. 3 della ricorrente), il TAR Lombardia aveva annullato il previgente PRG del Comune resistente, nella sola parte relativa al fondo della società esponente, ritenendo che non fosse stata offerta adeguata motivazione della scelta urbanistica, con la quale al fondo era stata attribuita un destinazione a verde privato e ad area agricola inedificabile, tale da impedirne l’edificazione, anche quella finalizzata all’esercizio dell’attività di impresa agricola.
Secondo il TAR, mancava nel PRG una congrua giustificazione del vincolo di inedificabilità, nonostante la legge regionale della Lombardia n. 93/1980 –applicabile ratione temporis– prevedesse in ogni modo indici edificatori nelle zone agricole.
Per effetto della pronuncia succitata, il Comune aveva l’onere di motivare specificamente la propria nuova scelta urbanistica, mentre nel caso di specie il PGT ha sostanzialmente confermato il carattere non edificabile del fondo, senza addurre però la richiesta specifica motivazione.
Lo scrivente Collegio non ignora certo il dominante indirizzo giurisprudenziale –al quale peraltro il Collegio stesso aderisce– secondo cui
alle Amministrazioni è riconosciuta ampia discrezionalità in sede di pianificazione urbanistica, sicché le disposizioni di piano sono sufficientemente motivate anche con il semplice riferimento ai criteri ed alle finalità generali della pianificazione (corollario di tale indirizzo è che le osservazioni agli strumenti urbanistici in itinere costituiscono di regola un mero apporto collaborativo, che non richiedono una peculiare motivazione in caso di non accoglimento).
Tuttavia, nella presente fattispecie, non può trovare applicazione il succitato orientamento, giacché una pronuncia giurisdizionale –a quanto consta passata in giudicato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2909 del codice civile (“L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto fra le parti, i loro eredi o aventi causa”)– imponeva al Comune un onere motivazionale maggiore di quello ordinariamente richiesto in sede di pianificazione territoriale, pena la violazione della “regula iuris” derivante dal giudicato amministrativo.
Ciò premesso, nel caso di specie il Comune, in sede di controdeduzione all’osservazione n. 68 al PGT presentata dalla ricorrente (cfr. il doc. 5 di quest’ultima per l’osservazione), ha addotto una motivazione assai scarna e poco chiara, parlando molto genericamente di “contrasto con le scelte di Piano”, oppure affermando che “una zona agricola non è una zona bianca” (affermazione peraltro ovvia ma non certo idonea ad assolvere l’onere di specifica motivazione derivante dal giudicato formatosi sulla sentenza del TAR, cfr. per la controdeduzione il doc. 6 della ricorrente).
L’illegittimità della determinazione comunale riguarda non solo l’assegnazione alla porzione più ampia del compendio della destinazione “Giardini ed aree a verde privato”, ma anche quella che ha attribuito ad altra parte del fondo la destinazione a “Impianti tecnologici e attrezzature pubbliche di progetto”, posta a cornice del cimitero, tenuto conto che quest’ultima destinazione interessa l’ingresso all’edificio storico di proprietà dell’esponente, il che appare illogico ed eccessivamente lesivo della posizione della ricorrente, che non è stata adeguatamente considerata dall’Amministrazione, in violazione anche del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa.
Si conferma, in conclusione, l’accoglimento dei motivi n. 1 e n. 2 del ricorso, con assorbimento di ogni altra censura e conseguente annullamento in parte qua del PGT del Comune di Castello di Brianza.

APPALTI: Segretezza dell'offerta, gara ko per violazione.
Tra le violazioni delle regole fondamentali in materia di gara pubblica rientra, certamente, l'inosservanza del principio di segretezza dell'offerta, che si manifesta nella commistione, inammissibile, tra offerta economica ed offerta tecnica, sebbene ci siano delle eccezioni.

È quanto ribadito dai giudici della prima sezione del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con sentenza 23.11.2015 n. 1030.
Ma eccoci alle eccezioni: in taluni casi, infatti, l'anticipata conoscenza di elementi dell'offerta economica non può in alcun modo alterare l'assegnazione, del tutto automatica, dei punteggi relativi all'offerta tecnica, sì da rivelarsi contra legem le norme di gara che prevedessero quale causa di esclusione dalla selezione quella legata all'inclusione dell'offerta economica nella busta relativa all'offerta tecnica.
È stato altresì aggiunto nella sentenza in commento che proprio perché la previsione della necessità dell'assenza nell'offerta tecnica di elementi riferibili all'offerta economica è posta a presidio del principio dell'autonomia dell'apprezzamento discrezionale dell'offerta tecnica rispetto a quello dell'offerta economica, principio il cui rispetto è garantito dall'anteriorità della prima valutazione e dalla necessità che dall'offerta tecnica esulino elementi e valori dell'offerta economica (Cons. stato, sez. VI, 27/11/2014 n. 5890), verrà meno una simile esigenza di segretezza dell'offerta viene meno nel momento in cui la normativa di gara andrà a prevedere criteri di attribuzione dei punteggi tecnici che, per risolversi nella predisposizione di griglie di valori e di formule aritmetiche che danno poi luogo all'automatica individuazione del risultato finale, nessun effettivo margine di autonoma valutazione lasciano alla commissione di gara, la quale si troverà quindi a conoscere le offerte tecniche secondo meccanismi logico-matematici simili a quelli delle offerte economiche.
Nel caso in esame avverso gli atti di gara, compresa la clausola di esclusione applicata dall'ente appaltante, proponeva impugnativa una società, denunciando –ai sensi dell'art. 46, comma 1-bis, del dlgs n. 163 del 2006– l'illegittimità della norma di gara invocata dall'Amministrazione a fondamento dell'atto di esclusione in quanto il carattere assolutamente vincolato dell'attribuzione dei punteggi tecnici avrebbe escluso nella circostanza quel condizionamento dell'operato della Commissione che è alla base del generale divieto di commistione di elementi tecnici ed elementi economici (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016).

APPALTI: L'appalto è salvo pure a costi svelati.
Nell'offerta tecnica per l'appalto c'è traccia anche di costi ma l'impresa non può essere esclusa dalla procedura pubblica solo per questo. Possibile? Sì, perché ad attribuire il punteggio alla prima busta è una griglia molto precisa: il risultato va ritenuto praticamente automatico e dunque la commissione non compie in merito alcuna autonoma valutazione.
Insomma: va escluso che il richiamo alla separata parte economica della proposta possa in qualche modo condizionare il giudizio di chi dovrà decretare la vincitrice della gara.

È quanto emerge dalla sentenza 23.11.2015 n. 1030, pubblicata dalla I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Scala di valori
Annullata l'esclusione della società dalla gara bandita a opera della multiutility. L'impresa è eliminata dalla procedura perché all'interno della busta (elettronica) con l'offerta tecnica spunta un documento che contiene al proprio interno delle determinazioni di importi economici.
Ma la separazione fra l'offerta tecnica e quella economica punta solo a evitare che la commissione giudicatrice possa valutare il progetto già conoscendo i costi. Se però l'attribuzione dei punteggi avviene sulla base di indici molto rigidi, con una scala di valori predisposta in modo da dare meccanicamente l'esito, viene meno l'esigenza di segretezza che impone la separazione fra l'uno e l'altro versante.
Trova dunque ingresso la censura dell'impresa che denuncia ai sensi dell'articolo 46 del codice dei contratti pubblici l'illegittimità della norma di gara invocata dall'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 07.01.2016).
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MASSIMA
- ritenuto che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale,
tra le violazioni delle regole fondamentali in materia –per attenere agli elementi essenziali dell'offerta–, e quindi tra le cause di esclusione tassativamente previste dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, rientra l’inosservanza del principio di segretezza dell’offerta, che si manifesta nella commistione, inammissibile, tra offerta economica ed offerta tecnica, atteso che la conoscenza di elementi economici da parte della commissione di gara è di per sé idonea a determinarne anche in astratto un condizionamento, alterandone la serenità ed imparzialità valutativa, sicché nessun elemento economico deve essere reso noto alla commissione stessa prima che questa abbia effettuato le proprie valutazioni sull’offerta tecnica (v., tra le altre, TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 24.04.2015 n. 394);
- che, tuttavia,
proprio perché la previsione della necessità dell’assenza nell’offerta tecnica di elementi riferibili all’offerta economica è posta a presidio del principio dell’autonomia dell’apprezzamento discrezionale dell’offerta tecnica rispetto a quello dell’offerta economica, principio il cui rispetto è garantito dall’anteriorità della prima valutazione e dalla necessità che dall’offerta tecnica esulino elementi e valori dell’offerta economica (v. Cons. Stato, Sez. VI, 27.11.2014 n. 5890), una simile esigenza di segretezza dell’offerta viene meno quando, come nel caso di specie, la normativa di gara preveda criteri di attribuzione dei punteggi tecnici che, per risolversi nella predisposizione di griglie di valori e di formule aritmetiche che danno poi luogo all’automatica individuazione del risultato finale, nessun effettivo margine di autonoma valutazione lasciano alla commissione di gara, la quale si trova quindi a conoscere le offerte tecniche secondo meccanismi logico-matematici simili a quelli delle offerte economiche;
- che
in tali casi, insomma, l’anticipata conoscenza di elementi dell’offerta economica non può in alcun modo alterare l’assegnazione, del tutto automatica, dei punteggi relativi all’offerta tecnica, sì da rivelarsi contra legem le norme di gara che prevedessero quale causa di esclusione dalla selezione quella legata all’inclusione dell’offerta economica nella busta relativa all’offerta tecnica;
- che nella circostanza, come si è detto, si rientra in quest’ultima ipotesi, non inducendo a diverse conclusioni l’obiezione della difesa dell’ente appaltante in ordine alla previsione –inerente la categoria «proposte migliorative al progetto/capitolato»– secondo cui “la riduzione dei tempi d’intervento offerta dall’impresa deve essere dimostrata mediante cronoprogramma di dettaglio riportante le modalità operative e organizzative previste, ovvero: evidenze dettagliate circa l’organizzazione delle risorse umane, mezzi e attrezzature messi in campo con elencazione e relativa produzione, inclusa l’analisi di eventuali/potenziali criticità”, che implica sì la verifica degli strumenti organizzatori a tal fine previsti e un apprezzamento della Commissione, ma al solo scopo di accertare l’attendibilità della soluzione prospettata –anche in vista dell’acquisizione di un impegno puntuale di cui tenere poi conto in sede di esecuzione dell’appalto quanto alla correttezza delle relative prestazioni–, e senza che ciò incida sulla graduazione dei singoli punteggi secondo la scala di valori rigidamente predisposta dalla lettera di invito;
- che, in conclusione, il ricorso si presenta fondato, con conseguente annullamento degli atti impugnati.

EDILIZIA PRIVATA: Alla luce del disposto della d.G.R., che nel disciplinare la realizzazione di serre bioclimatiche fa salve le prescrizioni minime dettate dalla legislazione statale in tema di distanze, unitamente all’applicazione estensiva alle zone A della norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, risulta evidente l’illecita realizzazione, della serra bioclimatica in questione a distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M. 1444/1968, dalla parete finestrata dell’abitazione della ricorrente.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 stabilisce al comma 1, che "Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle distanze.
Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza, la mancata previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le caratteristiche della nuova edificazione non può che applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso che la necessità di evitare intercapedini dannose per la salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A (caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare maggiormente pressante.
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di 10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da un lato integratrice dell’art. 873 c.c., dall’altro, dotata di “efficacia precettiva ed inderogabile”. Formula, quest’ultima, ribadita dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 134 del 2014, la quale configura altresì l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 come “costituente un corpo unico con la regolazione codicistica” e fonte principale della disciplina nazionale in materia di distanze tra edifici.

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2.3.1. Con riferimento, invece, alla censura dedotta con il secondo ricorso per motivi aggiunti, si ricorda che l’art 5. della L.R. 13/2011 (sul piano casa) ha previsto una specifica deroga volumetrica per la realizzazione dei sistemi di captazione delle radiazioni solari addossati o integrati negli edifici, quali le serre bioclimatiche, etc., atti allo sfruttamento passivo dell'energia solare.
2.3.2. Con D.G.R.V. 1781/2011 si è quindi stabilito, all’art. 3, comma 2, che l’incremento volumetrico derivante dalla realizzazione di una serra bioclimatica “non concorre alla determinazione delle distanze tra edifici, fermo restando le prescrizioni minime dettate dalla legislazione statale”. Quest’ultimo inciso rende evidente che la Giunta Regionale abbia inteso considerare rilevante in tema di distanze (dettate dalla legislazione statale) la realizzazione di una serra bioclimatica, e quindi non l’abbia parificata in tutto ad un volume tecnico irrilevante ai fini del computo delle distanze.
2.3.4. La ricorrente, dunque, oppone la violazione delle distanze stabilite dall’art. 9 D.M. n. 1444/1968, che impone una distanza minima tra pareti finestrate di metri 10; viceversa, il controinteressato eccepisce l’inapplicabilità di tale norma alle zone A, come quella di specie.
2.3.5. Al riguardo giova ricordare che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 stabilisce al comma 1, che "Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle distanze.
2.3.6. Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza (ex multis: Cass. Civ. II, 12767/2008), la mancata previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le caratteristiche della nuova edificazione non può che applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso che la necessità di evitare intercapedini dannose per la salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A (caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare maggiormente pressante (in tal senso Consiglio di Stato, n. 5281/2012; Tar Liguria, I, n. 704/2013; Tar Campania-Salerno, n. 473/2014; TAR Toscana n. 1217/2014; TAR Bolzano n. 295/2014).
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di 10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
2.3.7. Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da un lato integratrice dell’art. 873 c.c. (Cass. Civ. n. 7756/2013), dall’altro, dotata di “efficacia precettiva ed inderogabile”. Formula, quest’ultima, ribadita dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 134 del 2014, la quale configura altresì l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 come “costituente un corpo unico con la regolazione codicistica” e fonte principale della disciplina nazionale in materia di distanze tra edifici.
2.3.8. In conclusione, alla luce del disposto della D.G.R.V. 1781/2011, che nel disciplinare la realizzazione di serre bioclimatiche fa salve le prescrizioni minime dettate dalla legislazione statale in tema di distanze, unitamente all’applicazione estensiva alle zone A della norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, risulta evidente l’illecita realizzazione, della serra bioclimatica in questione a distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M. 1444/1968, dalla parete finestrata dell’abitazione della ricorrente.
3. Pertanto, anche il secondo ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.12.2015 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di abusi edilizi e della data certa di commissione degli stessi, la presentazione di dichiarazioni sostitutive di atto notorio non sono sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale consistenza.
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Benché in giurisprudenza non manchino sul punto diversi indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce all’orientamento già affermato in diverse pronunce della Sezione secondo il quale la qualità di utilizzatore di un immobile realizzato abusivamente in assenza di titolo abilitativo sul demanio o sul patrimonio di enti pubblici, è sufficiente ad individuarlo come destinatario dell’ordine di ripristino senza che vi sia la necessità di accertare chi ha concretamente realizzato l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione”.
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente dall’averli realizzati.
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Sono infondate le censure di cui al secondo motivo, con le quali i ricorrenti lamentano la mancata considerazione del lungo lasso di tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso, il formarsi di un legittimo affidamento a causa della tolleranza da parte dell’Amministrazione che non è intervenuta prima a reprimere gli abusi nonostante ne fosse a conoscenza ed il difetto di motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato, rispetto al quale non può assumere rilevanza l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione dei manufatti, e non è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.

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Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura di cui al primo motivo con la quale i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, perché l’ordine di demolizione non è stato rivolto nei confronti degli autori degli abusi, ma nei loro confronti che sono gli assegnatari degli alloggi, non può essere condivisa.
In primo luogo va osservato che non è stata data una prova certa circa la data della commissione degli abusi, dato che sono state allegate solo delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio prodotte dagli stessi interessati che non sono sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale consistenza.
In secondo luogo, benché in giurisprudenza non manchino sul punto diversi indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce all’orientamento già affermato in diverse pronunce della Sezione (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 30.01.2014, n. 121; id. 15.02.2013, n. 222), secondo il quale la qualità di utilizzatore di un immobile realizzato abusivamente in assenza di titolo abilitativo sul demanio o sul patrimonio di enti pubblici, è sufficiente ad individuarlo come destinatario dell’ordine di ripristino senza che vi sia la necessità di accertare chi ha concretamente realizzato l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione” (in tali termini, con riferimento alla disciplina di cui all’art. 35, cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 31.07.2012, n. 3710; id. 24.07.2012, n. 3567).
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente dall’averli realizzati.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere respinte.
Sono parimenti infondate le censure di cui al secondo motivo, con le quali i ricorrenti lamentano la mancata considerazione del lungo lasso di tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso, il formarsi di un legittimo affidamento a causa della tolleranza da parte dell’Amministrazione che non è intervenuta prima a reprimere gli abusi nonostante ne fosse a conoscenza ed il difetto di motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato, rispetto al quale non può assumere rilevanza l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione dei manufatti, e non è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr. Tar Liguria, 05.06.2014, n. 873).
Inoltre l’assunto secondo il quale l’Amministrazione avrebbe tollerato l’abuso nonostante fosse a conoscenza dello stesso è priva di riscontri.
Infatti non sono significativi, al fine di comprovare tale evenienza, né la circostanza che dei dipendenti dell’ente gestore delle unità abitative di edilizia residenziale pubblica siano transitati attraverso lo scoperto condominiale in occasione dei rinnovi dei contratti, perché è verosimile, come controdedotto dal Comune, che gli stessi non fossero consapevoli dell’abusività dei manufatti, emersa solo in tempi recenti, né la circostanza che uno dei contratti, quello della Sig.ra Si.Br., menzioni, quale oggetto della locazione, anche il garage, atteso che, come chiarito dal difensore del Comune in sede di trattazione orale, per il rinnovo dei contratti sono utilizzati dei moduli prestampati che recano anche l’indicazione del garage.
Per tutti gli altri contratti tale indicazione è stata cancellata con un tratto di penna, mentre solo per un errore materiale la medesima non è stata cancellata nel contratto della Sig.ra Si.Br..
Fermo restando che la menzione del garage nel contratto è comunque inidonea a sanare il carattere abusivo delle opere, è evidente che essendo dovuta ad un errore, non è neppure idonea a comprovare la consapevolezza e la tolleranza delle stesse.
Pertanto in un contesto nel quale la menzione del garage è dovuta ad un errore, tale circostanza risulta inidonea a comprovare la consapevolezza e la tolleranza dell’opera abusiva da parte del Comune, fermo restando che un’eventuale menzione del garage nel contratto anche se voluta non potrebbe comunque sanare il carattere abusivo delle opere.
Ciò premesso, tenuto conto che il mero trascorrere del tempo non può sanare l’abusività dei manufatti, che non è ravvisabile un affidamento incolpevole meritevole di tutela in capo ai ricorrenti, e che il Comune ha accertato che i garage realizzati limitano gli spazi scoperti comuni del condominio da parte degli altri assegnatari degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non sufficientemente ampi per consentire che ogni unità abitativa sia munita di garage, circostanza quest’ultima che rende comunque prevalente l’interesse pubblico alla demolizione rispetto a quello privato di chi utilizza i manufatti abusivi, il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il sistema delineato con l'art. 36 dpr  380/2001 consente la sanatoria dei soli c.d. abusi formali, ovvero degli interventi edilizi realizzati senza titolo abilitativo, ma sostanzialmente conformi alla disciplina edilizia-urbanistica vigente all’epoca della loro esecuzione e a quella operante al momento in cui l’interessato avanza istanza di sanatoria.
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Con la richiesta di permesso di costruire in sanatoria in esame, si intende ricondurre a conformità (con riferimento al rispetto delle distanze dai confini) alcuni dei manufatti in questione attraverso una serie di interventi di demolizione parziale o di demolizione e ricostruzione; in altri termini, nelle intenzioni della ricorrente, il rispetto della "doppia conformità" viene subordinato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a fare acquisire ai manufatti la doppia conformità di cui sopra.
Ebbene, tale prospettata rimodulazione degli interventi già di per sé attesta la mancanza del requisito della doppia conformità (al momento della presentazione della domanda) ed anche la giurisprudenza chiamata ad affrontare casi analoghi ha adottato la medesima soluzione, affermando che:
- laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria;
- la sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda. Essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere. Il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere.
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La cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude il principio di legalità perché svuota la portata precettiva e vincolante della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, vìola la tipicità provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380/2001 alle sole violazioni di ordine formale, così neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei confronti degli autori degli illeciti edilizi.

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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 2727 del 15.03.2013, con il quale il responsabile del servizio Area Tecnica del Comune di Grisignano di Zocco comunicava il diniego del rilascio del permesso di costruire in sanatoria P.E. n. 12P/25.
...
1. Deve rilevarsi, in via preliminare, come l’atto oggetto di impugnativa debba intendersi come atto plurimotivato, alla stregua di quanto sopra rappresentato.
E’ noto che nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi, il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.
2. Nel caso in esame, il principale profilo ostativo posto dal Comune a base della propria valutazione negativa, verte sulla mancanza del requisito della doppia conformità di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001.
3. A riguardo giova ricordare che il sistema delineato con il citato art. 36 consente la sanatoria dei soli c.d. abusi formali, ovvero degli interventi edilizi realizzati senza titolo abilitativo, ma sostanzialmente conformi alla disciplina edilizia-urbanistica vigente all’epoca della loro esecuzione e a quella operante al momento in cui l’interessato avanza istanza di sanatoria.
4. Ciò premesso, vi è da osservare, in via preliminare, che la società agricola Argo, con la richiesta di permesso di costruire in sanatoria in esame, intende ricondurre a conformità (con riferimento al rispetto delle distanze dai confini) alcuni dei manufatti in questione attraverso una serie di interventi di demolizione parziale o di demolizione e ricostruzione; in altri termini, nelle intenzioni della ricorrente, il rispetto della "doppia conformità" viene subordinato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a fare acquisire ai manufatti la doppia conformità di cui sopra.
Ebbene, tale prospettata rimodulazione degli interventi già di per sé attesta la mancanza del requisito della doppia conformità (al momento della presentazione della domanda).
Anche la giurisprudenza chiamata ad affrontare casi analoghi ha adottato la medesima soluzione, affermando che: “laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria”.
Ed ancora che “La sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda. Essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere. Il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere” (Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010, n. 7311; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.10.2014, n. 2523; 13.08.2015, n. 1900).
...
6. Né, infine, anche a prescindere da quanto esposto al punto 4) della presente motivazione, ha pregio l'ulteriore doglianza secondo cui il Comune avrebbe omesso ogni valutazione sulla eventuale conformità sopraggiunta dell'immobile, ovvero sulla pretesa assentibilità dell'opera al momento della presentazione della nuova domanda di sanatoria.
La cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude, infatti, il principio di legalità perché svuota la portata precettiva e vincolante della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, vìola la tipicità provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380/2001 alle sole violazioni di ordine formale, così neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei confronti degli autori degli illeciti edilizi (cfr., per tutte, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 20.03.2014, n. 1689)
  (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 1239 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATALa Pa paga i danni per l’ostruzionismo che si rivela inutile. Tar Liguria. Va risarcito il ritardo del permesso.
Se ha aggravato inutilmente i tempi per il rilascio di un permesso di costruire nell’ambito di procedimento amministrativo per un’autorizzazione o una concessione, la Pubblica amministrazione deve risarcire il privato per la lesione del proprio «interesse legittimo pretensivo» (cioè l’interesse a ottenere un vantaggio da un atto amministrativo).
Il TAR Liguria, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 933, ha condannato così un Comune a risarcire un’impresa del «danno da ritardo» subìto da «atti e comportamenti ostruzionistici» nel rilascio del titolo abilitativo edilizio a un proprio impianto di energia elettrica a biomasse.
L’opera, prevista da un accordo di programma per il rilancio di un’area industriale siglato da entrambe le parti con altri enti pubblici, aveva già ottenuto (con prescrizioni) la Valutazione di impatto ambientale dalla Regione e l’autorizzazione unica dalla Provincia. Il Comune, ha sostenuto la ricorrente, dopo i citati «via libera», anziché rilasciare il permesso di costruire aveva prima archiviato la pratica, poi chiesto una revoca in autotutela alla Provincia, e da ultimo denunciato alla Regione il mancato rispetto della Via nei termini stabiliti.
Soltanto appellandosi al Consiglio di Stato (sentenza 655/2012), l’impresa aveva visto riconoscersi il diritto alla conclusione del procedimento -quindi alla costruzione e all’esercizio della “centrale” -e quello a ottenere un risarcimento- rimesso al giudice di primo grado- per i costi aziendali «inutilmente» sostenuti e per i ricavi nel frattempo (due anni di attesa) non ottenuti.
Il Tar, fissando il risarcimento ma solo «a titolo di danno emergente» per le somme «inutilmente» impiegate tra consulenze legali e costi interni di progetto, ha accertato il diritto dell’azienda come «(...) pieno ed incondizionato, nel senso che non residuava, in capo al comune (...), alcun margine di esercizio della discrezionalità in vista del rilascio del titolo edilizio, tant’è che lo stesso –addirittura- avrebbe potuto ritenersi finanche surrogato dall’autorizzazione unica provinciale (semplificazione autorizzazioni per impianti rinnovabili, articolo 12, Dlgs n. 387/2003, ndr)». I giudici hanno spiegato che in questi casi «può ritenersi (...) concretamente verificata la lesione di un interesse ritenuto meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (qual è, dopo la sentenza di Cassazione, sezioni unite, 22.07.1999, n. 500, anche l’interesse legittimo pretensivo)».
Tale lesione, come affermato, è «(...) procurata contra jus, in violazione dei principi generali di economicità ed efficacia dell’attività amministrativa (oltre che del divieto di inutile aggravamento del procedimento e del dovere di concluderlo in tempi spediti) di cui agli articoli 1 e 2 della legge n. 241/1990, oltre che dei formali impegni assunti dal comune (...)».
Nel caso in esame, valutando i vari presupposti per il risarcimento, si è precisato che «sussiste altresì il nesso di causalità, posto che tutte le altre amministrazioni titolari di interessi pubblici coinvolti nel procedimento (...) avevano già positivamente adottato le decisioni di propria competenza (...), sicché la mancata, tempestiva realizzazione dell’impianto– con la frustrazione dell’interesse legittimo pretensivo della società ricorrente –è dipesa unicamente dalle difficoltà e dagli ostacoli illegittimamente frapposti dal comune (...)»
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Cassazione: il contratto può essere firmato solo con una sigla.
La Corte di Cassazione, Sez.  II civile, con la sentenza 19.11.2015 n. 23669 ha analizzato la validità di una scrittura privata sottoscritta dal promittente acquirente solo con la sua sigla.
Nel caso in esame la promittente acquirente, già immessa nel possesso dell'immobile, ha richiesto il trasferimento dello stesso ai sensi dell'art. 2932 c.c., in quanto, alla sottoscrizione del contratto preliminare, non era mai seguita la stipula di un contratto definitivo.
Si costituiva la promittente venditrice contestando la riferibilità del documento alla promissaria acquirente per non riferibilità alla stessa della sottoscrizione.
La Cassazione ha precisato che
la decifrabilità della sottoscrizione non sarebbe requisito di validità dell'atto dove l'autore sia identificabile nelle sue generalità dal contesto dell'atto medesimo.
La produzione del contratto da parte della promissaria acquirente e il riconoscimento da parte della promissaria venditrice della sua sottoscrizione comporta che la scrittura privata fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni da parte dei sottoscrittori.

In virtù di ciò la Corte ha precisato come
la scrittura privata sottoscritta con sigla sia pienamente valida e riferibile al sottoscrittore quando dal contesto dell'atto è desumibile il soggetto verso cui si producono gli effetti giuridici della sua sottoscrizione (commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
I.= Con il primo motivo del ricorso Bonalumi Renata denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1350 cc e dell'art. 2702 cc. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 3 e 5 cpc.).
Secondo la ricorrente, avrebbe sbagliato la Corte di appello di Milano nell'affermare che la decifrabilità della sottoscrizione non sarebbe requisito di validità dell'atto ove l'autore sia identificabile nelle sue generalità dal contesto dell'atto medesimo e la mancanza di leggibilità non impedisca di riferire la sottoscrizione a quel soggetto, perché ai sensi dell'art. 2702 cc la sottoscrizione sarebbe un requisito essenziale per fare acquistare al documento l'efficacia probatoria.
Piuttosto, andrebbe ritenuto che la scrittura privata sia da ritenere sottoscritta nella sola ipotesi in cui il segno grafico riporti l'indicazione del nome e cognome e, pertanto, una scrittura privata, in difetto della sottoscrizione apposta, secondo i criteri dinanzi indicati, deve ritenersi sfornita dalla medesima. La produzione in giudizio del contratto preliminare da parte della sig.ra Gh. non potrebbe avere efficacia probatoria perché la sig.ra Bo. aveva revocato il suo consenso con raccomandata dell'08.03.2004.
1.1.= Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile per mancato rispetto del principio di autosufficienza.
Come è stato già affermato da questa Corte, in più occasioni:
la produzione in giudizio, di una scrittura privata ad opera della parte, indicata nel corpo dalla scrittura, che non l'aveva sottoscritta (ma lo stesso può essere detto per il caso in cui i segni grafici della sottoscrizione non sono leggibili) costituisce equipollente della mancata sottoscrizione contestuale (o rende decifrabili i segni grafici che compongono la sottoscrizione illeggibile) e, pertanto, perfeziona, sul piano sostanziale o su quello probatorio, il contratto in essa contenuto, purché la controparte del giudizio sia la stessa che aveva già sottoscritto il contratto e non abbia revocato, prima della produzione, il consenso prestato e l'atto sia stato prodotto al fine di invocare l'adempimento delle obbligazioni da esso scaturenti (cass. n. 13103 del 23/12/1995 e cass. n. 11409 del 16/05/2006).
Alla luce di questi principi, correttamente, e con motivazione adeguata e sufficiente, la Corte di Milano ha ritenuto che
la produzione del contratto da parte della Gh. e il riconoscimento da parte di Bo.Re. della propria sottoscrizione comportava che la scrittura privata facesse piena prova della provenienza delle dichiarazioni da parte dei sottoscrittori senza che ne potesse essere accertata la veridicità della sottoscrizione attraverso strumenti probatori quali la perizia grafologica.
D'altra parte,
non vi è dubbio che la produzione della scrittura in giudizio e la corrispondenza tra la persona che ha prodotto la scrittura e la persona indicata nel corpo della scrittura, siano elementi sufficienti a rendere decifrabile i segni grafici che compongono una sottoscrizione illeggibile.
E, per la stessa ragione, correttamente, la Corte di appello di Milano ha ritenuto che,
accertata la riferibilità della firma al contraente sottoscrittore Va.Gh., sarebbe stato incongruo e non pertinente parlare di riconoscimento, perché il riconoscimento concerne, piuttosto, la propria sottoscrizione in un documento prodotto da controparte, mentre, nel caso di specie era la stessa Gh. che produceva il documento e, l'odierna appellante, parte contro la quale la scrittura era stata prodotta, non era abilitata da nessuna norma o principio a mettere in dubbio la firma di controparte.
1.1.a).= La censura è inammissibile nella parte in cui viene richiamata una raccomandata dell'08.03.2004, con la quale la Bo. avrebbe revocato il proprio consenso ancor prima della produzione della scrittura privata nel giudizio da parte della Gh., perché non è stato riprodotto, né richiamato, l'esatto contenuto di tale documento né è stato specificato se tale documento (e/o raccomandata) sia stato fatto valere nel giudizio di appello, e/o l'eccezione sia stata riproposta in appello, posto che risulta dal contesto della sentenza impugnata che il Tribunale aveva già ritenuto ininfluente ai fini della efficacia del contratto preliminare, la revoca del consenso di cui alla lettera della Bo. dell'08.03.2004 e l'attuale ricorrente non ha specificato se tale decisione sia stata censurata in appello.
Come è stato affermato da questa stessa Corte in altra occasione (Cass. n. 18506 del 25/08/2006), che qui si intende ribadire: qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l'omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l'onere non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito.

PUBBLICO IMPIEGO: L’utilizzo indebito del badge da parte del dipendente pubblico, consistente nel timbrare il cartellino del collega di volta in volta assente, integra gli artifici e i raggiri del reato di truffa aggravata, tali da trarre in inganno l’Amministrazione di appartenenza e provocare all’ente stesso dei danni economicamente apprezzabili, nonché di immagine, per via della mancata presenza sul posto dei lavoratori.
In ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume in punto di rispetto degli orari di lavoro e dell'espletamento in concreto delle proprie mansioni, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio in merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.
L'indebito utilizzo dei badges, con le modalità dianzi descritte, configura, quindi
, per il tribunale,
quegli artifici e raggiri che compongono l'elemento materiale del reato di truffa aggravata ai danni dell'Ente pubblico, non potendosi dubitare, per i giudici della cautela, della ricorrenza del danno, essendo certamente da ritenersi come "economicamente apprezzabili" i periodi di assenza, soprattutto alla luce dell'allarmante reiterazione della condotta tenuta.
Su tale ultimo profilo, in particolare,
i giudici del tribunale della libertà, evidenziano come proprio l'evidente ingiustificato protrarsi delle predette condotte di marcatura in orari in cui gli indagati erano assenti dal posto di lavoro, necessariamente ha prodotto un danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una frazione della prestazione giornaliera che in effetti non era stata effettuata, con ulteriore danno patrimoniale e d'immagine conseguente alla mancata presenza del dipendente nel presidio lavorativo, rimasto così sguarnito della corrispondente unità di lavoro; l'apprezzabilità del danno, peraltro, emergerebbe proprio dal carattere quasi quotidiano del raggiro e dal numero di ore lavorative evase, non ostando alla configurabilità del reato la difficoltà di quantificazione del danno atteso che, nella specie, osserva il collegio cautelare, non può porsi in dubbio la rilevanza economica dello stesso né appare rilevate l'omessa quantificazione del danno determinabili in termini monetari nel corso del procedimento.
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Trattasi di argomentazioni del tutto condivisibili, immuni da vizi logici e conformi del resto alla giurisprudenza di questa Corte, essendosi più volte affermato in consimili ipotesi che
la falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili: e sull'apprezzabilità economica, i giudici della cautela di sono soffermati evidenziando come, proprio la reiterazione quasi giornaliera della condotta destinata a celare l'assenza dal lavoro, non poteva non provocare un danno economico apprezzabile all'Amministrazione.
A ciò peraltro va aggiunto, osserva il Collegio,
come sia priva di pregio l'obiezione difensiva fondata sulla possibilità che sembrerebbe riconosciuta dal regolamento comunale
di una "tolleranza" di 30 minuti dal luogo di lavoro, atteso che, da un lato, ciò che si contesta agli indagati non è solo l'assenza dal luogo di lavoro ma anche, e soprattutto, la modalità truffaldina impiegata per garantirsi piena libertà di movimento nell'arco della giornata lavorativa avvalendosi della compiacente collaborazione degli altri colleghi disponibili alla marcatura, scambiandosi reciprocamente i badges per coprirsi a vicenda, con cadenza quasi quotidiana, donde non può ragionevolmente dubitarsi sia dell'apprezzabilità economica che l'assenza ha comportato per ciascuna posizione sia della attribuibilità delle condotte ai singoli indagati.
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10. Può quindi procedersi all'esame del secondo motivo di ricorso, con cui vengono svolte censure di violazione di legge e vizio motivazionale quanto alla sussistenza del fumus dei reati per cui si procede, come da illustrazione del relativo motivo dianzi descritta.
Osserva, sul punto, il Collegio che condizione generale per l'emissione di qualsiasi provvedimento cautelare è la sussistenza di gravi indizi che, quantitativamente e qualitativamente valutati nella loro essenza e nella loro coordinazione logica, resistano a interpretazioni alternative e conducano a ritenere in modo altamente probabile, pur senza raggiungere la certezza propria del giudizio di cognizione, che il reato per cui si indaga sia attribuibile all'imputato (Sez. 1, n. 4117 del 06/07/1995 - dep. 21/09/1995, Franzese e altro, Rv. 202435; nella specie, gli elementi valutati dal tribunale, secondo una valutazione prognostica tipicamente di merito, risultavano idonei a superare la soglia di gravità indiziarla richiesta dall'art. 273 cod. proc. pen. per la conferma della misura custodiale).
E' questo quanto avvenuto nel caso in esame, avendo dato scrupolosamente conto il tribunale del riesame della esistenza di quella gravità indiziaria rispetto ad ambedue le imputazioni cautelari contestate nei fatti oggetto di indagine.
Ed invero, dall'ordinanza impugnata e dal provvedimento del GIP la cui motivazione si salda reciprocamente con quella dell'ordinanza gravata, i cui contenuti vengono condivisi dal tribunale della libertà, è sinteticamente emerso:
   a) che dall'attività di controllo operata attraverso l'installazione delle due videocamere nascoste nelle vicinanze delle due timbratrici installate all'ingresso del Comune di Orta di Atella per rilevare l'ingresso e l'uscita dei dipendenti comunali e degli L.S.U. impiegati presso il predetto Comune (registrazioni protrattesi per due mesi circa, dal 21/03 al 17/05/2013) era emerso che un nutrito gruppo di dipendenti comunali aveva approntato un sistema di scambi reciproci dei badge personali, alcuni registrando in ingresso o in uscita non solo il proprio badge ma anche quello di altri colleghi, in modo da farli risultare presenti ad inizio e fine lavoro;
   b) che i gruppi erano composti da due o più dipendenti che vicendevolmente si scambiavano il badge per la rilevazione delle presenze per conto dei colleghi assenti, ed altri sistematicamente entravano ed uscivano dalla sede di lavoro timbrando non solo il badge personale ma contestualmente utilizzavano altri 3 o 4 badges dei colleghi;
   c) che dall'esame individuale della posizione di tutti gli attuali ricorrenti, era emerso che tale condotta era stata tenuta reiteratamente (in particolare, gli scambi sono descritti nell'ordinanza impugnata tra i gruppi: Ca.Ro. - Ci.Ol.; Pe.Mi. - Della Co.Sp.; Io.Ro. e Ru.An.; Maiello Giuseppe - numerosi altri RSU);
   d) che, al fine di effettuare gli opportuni riscontri incrociati, erano stati acquisiti anche i tabulati relativi alla presenze dei dipendenti coinvolti, gli statini paga e le effigi fotografiche, al fine di confrontarle con quelle estrapolate dai filmati;
   e) che, in particolare, il riscontro effettuato sui cartellini marcatempo, aveva evidenziato che nelle date soggetto di osservazione risultavano numerose obliterazioni in entrata ed in uscita falsamente effettuate vicendevolmente dai predetti indagati, così consentendo agli stessi eludere il controllo sull'orario di ingresso e godere della retribuzione pur se assenti dal luogo di lavoro, assenza che si protraevano per un considerevole lasso di tempo, peraltro reiterandosi la condotta con notevole frequenza, pur nel limitato periodo di osservazione durato meno di due mesi ed anche successivamente la scoperta delle telecamere avvenuta il 16/04/2015 da parte di due L.S.U..
10.1. Quanto, poi, alla qualificazione giuridica dei fatti, il tribunale del riesame, nel condividere l'impostazione del GIP nell'ordinanza genetica, riteneva sussistere sia il delitto di truffa aggravata ex art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen. che quello di cui all'art. 55- quinquies, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165.
10.2. In ordine al primo reato, il tribunale del riesame ha rilevato che
in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume in punto di rispetto degli orari di lavoro e dell'espletamento in concreto delle proprie mansioni, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio in merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul luogo di lavoro; l'indebito utilizzo dei badges, con le modalità dianzi descritte, configura, quindi, per il tribunale, quegli artifici e raggiri che compongono l'elemento materiale del reato di truffa aggravata ai danni dell'Ente pubblico, non potendosi dubitare, per i giudici della cautela, della ricorrenza del danno, essendo certamente da ritenersi come "economicamente apprezzabili" i periodi di assenza, soprattutto alla luce dell'allarmante reiterazione della condotta tenuta; su tale ultimo profilo, in particolare, i giudici del tribunale della libertà, evidenziano come proprio l'evidente ingiustificato protrarsi delle predette condotte di marcatura in orari in cui gli indagati erano assenti dal posto di lavoro, necessariamente ha prodotto un danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una frazione della prestazione giornaliera che in effetti non era stata effettuata, con ulteriore danno patrimoniale e d'immagine conseguente alla mancata presenza del dipendente nel presidio lavorativo, rimasto così sguarnito della corrispondente unità di lavoro; l'apprezzabilità del danno, peraltro, emergerebbe proprio dal carattere quasi quotidiano del raggiro e dal numero di ore lavorative evase, non ostando alla configurabilità del reato la difficoltà di quantificazione del danno atteso che, nella specie, osserva il collegio cautelare, non può porsi in dubbio la rilevanza economica dello stesso né appare rilevate l'omessa quantificazione del danno determinabili in termini monetari nel corso del procedimento.
A ciò va aggiunto quanto correttamente argomentato dal collegio cautelare circa, da un lato, la irrilevanza della mancata verifica dell'assenza del singolo dipendente dal posto di lavoro ovvero all'assenza giustificata dallo svolgimento di attività lavorativa in altra sede, atteso che la contestazione riguarda l'assenza al momento della timbratura; dall'altro, irrilevante il tribunale del riesame ha considerato la circostanza che nel corso della giornata la RG. operante non abbia verificato se i soggetti in favore dei quali i complici avevano timbrato il cartellino informatico, fossero al lavoro o meno, essendo invero significativa la circostanza che al momento della timbratura elettronica il dipendente, il cui badge veniva utilizzato dal complice di turno per attestarne la presenza, non fosse stato presente, circostanza quindi che veniva attestata falsamente.
Trattasi di argomentazioni del tutto condivisibili, immuni da vizi logici e conformi del resto alla giurisprudenza di questa Corte, essendosi più volte affermato in consimili ipotesi che
la falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili (Sez. 2, n. 34210 del 06/10/2006 - dep. 12/10/2006, Buttiglieri, Rv. 235307): e sull'apprezzabilità economica, i giudici della cautela di sono soffermati evidenziando come, proprio la reiterazione quasi giornaliera della condotta destinata a celare l'assenza dal lavoro, non poteva non provocare un danno economico apprezzabile all'Amministrazione.
A ciò peraltro va aggiunto, osserva il Collegio,
come sia priva di pregio l'obiezione difensiva fondata sulla possibilità che sembrerebbe riconosciuta dal regolamento comunale (censura, peraltro, inammissibile, in quanto implicante un accertamento di fatto, che sfugge all'ambito cognitivo di questa Corte) di una "tolleranza" di 30 minuti dal luogo di lavoro, atteso che, da un lato, ciò che si contesta agli indagati non è solo l'assenza dal luogo di lavoro ma anche, e soprattutto, la modalità truffaldina impiegata per garantirsi piena libertà di movimento nell'arco della giornata lavorativa avvalendosi della compiacente collaborazione degli altri colleghi disponibili alla marcatura, scambiandosi reciprocamente i badges per coprirsi a vicenda, con cadenza quasi quotidiana, donde non può ragionevolmente dubitarsi sia dell'apprezzabilità economica che l'assenza ha comportato per ciascuna posizione (peraltro dettagliatamente descritta, senza che abbiano pregio le doglianze difensive sulla presunta mancata prova dell'assenza dal luogo di lavoro che sarebbe comprovata da elementi probatori la cui valutazione, peraltro, come già evidenziato in precedenza, richiederebbe a questa Corte lo svolgimento di apprezzamenti fattuali che, lo si ricorda, esulano dalla giurisdizione di legittimità) sia della attribuibilità delle condotte ai singoli indagati.
10.3. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto alla residua imputazione cautelare (art. 55-quinquies, d.lgs. n. 165 del 2011), in relazione alla quale i giudici del riesame evidenziano come
la predetta fattispecie, a differenza della truffa, si consuma con la mera falsa attestazione della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze; in relazione a tale fattispecie, è evidente che il comportamento fraudolento dei dipendenti, esplicantesi proprio nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, costituisce prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa, quantomeno nell'arco temporale in cui il cartellino marcatempo viene utilizzato da soggetti che non ne sono i titolari, come avvenuto nel caso in esame.
Anche sotto tale profilo, l'ordinanza non merita censura, essendo giuridicamente corretta la configurabilità del delitto previsto dal d.lgs. n. 165 del 2001, non essendovi peraltro dubbio in ordine alla configurabilità del concorso materiale delle due fattispecie penali, desumibile dalla volontà dello stesso legislatore (come si evince dall'inciso contenuto nel comma primo dell'art. 55-quinquies: "Fermo quanto previsto dal codice penale"), che -anche in applicazione dell'art. 15 cod. pen. per come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010 - dep. 19/01/2011, Giordano ed altri, Rv. 248864)- consente di ritenere configurabile il concorso tra la fattispecie di truffa aggravata e quella di false attestazioni o certificazioni, posto che è lo stesso legislatore a prevedere l'applicazione congiunta della fattispecie penale di cui all'art. 55-quinquies con quelle previste dal codice penale, essendo evidente, quindi, la congiunta applicabilità anche della previsione sanzionatoria dell'art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.11.2015 n. 45698).

EDILIZIA PRIVATA: Per l'impugnazione da parte del terzo occorre la conoscenza cartolare del titolo edilizio e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell'opera, l'eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l'incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo.
In ogni caso, nel dubbio, deve comunque farsi applicazione degli artt. 24 e 113 Cost., per i quali la tutela in giudizio dei diritti e interessi legittimi è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
E’ stato però ritenuto in giurisprudenza che, nel caso in cui si contesti l'edificabilità stessa del terreno non si possa attendere il completamento dell'opera, né possa riconoscersi al terzo la libertà di decidere, se e quando accedere agli atti, e ciò a tutela del principio di certezza dei rapporti giuridici, non potendo lasciarsi il soggetto titolare di un permesso edilizio nella perpetua incertezza circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo nell'impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori che ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi. Il principio della certezza delle situazioni giuridiche è infatti posto a tutela di tutte le parti direttamente o indirettamente interessate al provvedimento, compreso il soggetto titolare del permesso di costruire.
Il diritto del terzo alla piena conoscenza della documentazione amministrativa, è uno strumento che il terzo ha l'onere di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che l'attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente.
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall'altra.
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Nell'ordinamento vigente la c.d. "vicinitas", cioè la situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non essendo necessario che la parte ricorrente alleghi e provi anche di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo, atteso che la realizzazione di interventi edificatori, che comportino contra legem l'alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa: non è pertanto necessaria la prova di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia.

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Come è noto, la giurisprudenza ritiene che per l'impugnazione da parte del terzo occorre la conoscenza cartolare del titolo edilizio e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell'opera, l'eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l'incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo (cfr. TAR Lazio Sez. II 07/07/2015 n. 9046; Consiglio di Stato, Ad. Pen. 29.07.2011, n. 15; sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; V n. 3777 del 27.06.2012).
In ogni caso, nel dubbio, deve comunque farsi applicazione degli artt. 24 e 113 Cost., per i quali la tutela in giudizio dei diritti e interessi legittimi è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (Consiglio di Stato n. 2781 del 2014).
E’ stato però ritenuto in giurisprudenza che, nel caso in cui si contesti l'edificabilità stessa del terreno non si possa attendere il completamento dell'opera, né possa riconoscersi al terzo la libertà di decidere, se e quando accedere agli atti, e ciò a tutela del principio di certezza dei rapporti giuridici, non potendo lasciarsi il soggetto titolare di un permesso edilizio nella perpetua incertezza circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo nell'impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori che ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi. Il principio della certezza delle situazioni giuridiche è infatti posto a tutela di tutte le parti direttamente o indirettamente interessate al provvedimento, compreso il soggetto titolare del permesso di costruire (Consiglio di Stato n. 2959 del 2014).
Il diritto del terzo alla piena conoscenza della documentazione amministrativa, è uno strumento che il terzo ha l'onere di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che l'attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente.
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall'altra (Consiglio di Stato IV n. 322 del 21.01.2013).
Nel caso di specie, i lavori sono iniziati il 04.10.2006 e sono terminati il 20.11.2006; nel cantiere non è stato apposto il cartello dal quale desumere gli estremi dell’autorizzazione e della data di inizio/fine lavori; l’istanza di accesso è stata inoltrata al Comune di Costa Volpino il 24.11.2006, a distanza di soli 4 giorni dalla data del completamento dei lavori ed il Comune ha rilasciato la copia degli atti a distanza di mesi, dopo reiterate richieste da parte dell’interessato; la mancata indicazione dell’esistenza di un titolo autorizzatorio sul cantiere non consentivano al ricorrente neppure di valutare se l’intervento fosse stato previamente autorizzato o se fosse abusivo, né di conoscere se pur realizzato in prossimità delle mura perimetrali del cimitero, ricadesse nella fascia di rispetto del cimitero, e se fosse stato autorizzato dal Consiglio Comunale ai sensi dell’art. 388 c. 5 del T.U. delle sanitarie, né se fosse compatibile con la destinazione urbanistica dell’area.
In sostanza, prima dell’esercizio del diritto di accesso il ricorrente non disponeva di alcun elemento certo sul quale fondare la propria pretesa in sede giurisdizionale, con la conseguenza che imporgli la proposizione di un ricorso “veramente al buio” tenuto conto dei connessi oneri che comporta, appare oggettivamente sproporzionato e lesivo dei suoi diritti ed interessi legittimi.
Appare quindi corretta la decisione del primo giudice che ha respinto l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado, tenuto anche conto del principio espresso in precedenza secondo cui, in ogni caso, nel dubbio, deve farsi applicazione degli artt. 24 e 113 Cost., per i quali la tutela in giudizio dei diritti e interessi legittimi è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
L’eccezione deve essere pertanto respinta.
Anche l’eccezione di difetto di legittimazione attiva è destituita di fondamento.
Nell'ordinamento vigente la c.d. "vicinitas", cioè la situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento edilizio assentito, è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere dei confinanti, non essendo necessario che la parte ricorrente alleghi e provi anche di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo, atteso che la realizzazione di interventi edificatori, che comportino contra legem l'alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, deve ritenersi pregiudizievole in re ipsa (cfr., tra le tante, Cons. Stato sez. IV 12.03.2015 n. 1315; Cons. Stato sez. IV 09.09.2014 n. 4547): non è pertanto necessaria la prova di un danno specifico, in quanto il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia (cfr. Cons. Stato sez. VI 11/09/2013 n. 4493; Cons. Stato Sez. IV 04/06/2013 n. 3055).
Nel caso di specie, l’appellato, ricorrente in primo grado, ha dimostrato di risiedere a pochissima distanza dalla stazione radio base, circostanza che consente di riconoscergli la legittimazione attiva all’impugnativa.
L’eccezione deve essere pertanto respinta (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.11.2015 n. 5257 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza più recente ha chiarito che l'art. 338 R.D. cit. vieta l'edificazione, nella fascia di duecento metri dal muro di cinta dei cimiteri, di manufatti che possono essere qualificati come costruzioni edilizie: ha quindi ritenuto che l'installazione di un impianto di telefonia mobile che -per le proprie caratteristiche- non può in alcun modo essere classificato come un manufatto edilizio non è incompatibile con il vincolo cimiteriale (nella specie si trattava di un'antenna staffata sul muro del cimitero e non di una costruzione edificata sul terreno ricadente nella fascia di rispetto).
Detta decisione –pur non essendo riferibile ad una fattispecie concreta identica, perché nel caso di specie si controverte sulla realizzazione di una stazione radio base sulla fascia di rispetto cimiteriale e non sulla semplice collocazione dell’antenna sul muro perimetrale del cimitero– nondimeno contiene una precisazione importante: sussiste il vincolo di inedificabilità solo in presenza di “edifici” e cioè solo quando vengono realizzate delle vere e proprie costruzioni.
Gli impianti di telefonia mobile non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno un impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o muratura.
Il concetto di edificio è nettamente caratterizzato sia in architettura che nel diritto urbanistico: un palo di sostegno e le attrezzature installate su di esso non presentano –evidentemente– la stessa natura.
Inoltre, come ha correttamente rilevato la giurisprudenza più recente di primo grado, le stazioni radio base, sono opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi zonizzazione prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, e dunque possono essere installate anche in zona di rispetto cimiteriale, tenuto anche conto che non ledono gli interessi dei quali il vincolo di inedificabilità persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, –assimilabili ai tralicci dell’energia elettrica– non arrecano alcun danno al decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi di ordine sanitario e, nel caso di specie, nel quale l’impianto è collocato oltre la strada che costeggia il muro perimetrale del cimitero, non incidono neppure sulla possibilità di ampliamento del cimitero.
Correttamente, quindi, la legislazione regionale richiamata dalle appellanti (L.R. Lombardia n. 11/2001 art. 7, regolamento regionale 6/2004 e la circolare regionale 12.03.2007 n. 9) partendo dalla qualifica contenuta nell’art. 86 del codice delle comunicazioni elettroniche, secondo cui detti impianti costituiscono opere di urbanizzazione primaria, specificano che è possibile realizzarli nella fascia di rispetto cimiteriale.
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La natura di opere di urbanizzazione primaria consente di prescindere dalla zonizzazione recata dal P.R.G., potendo gli impianti di telecomunicazione per la telefonia mobile essere realizzati in qualunque zona del territorio comunale.
La giurisprudenza è univoca: “A norma dell’art. 86, c. 3, del D.Lgs. n. 259 del 2003 relativa alla localizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la loro installazione in quanto le infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazioni, di cui agli art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16, comma 7, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne deriva anche alla luce dell’art. 4, comma 7, della L.R. n. 11 del 2001 che gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica".

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Passando all’esame del merito, è necessario richiamare innanzitutto la norma dell’art. 388, comma 1, del R.D. n. 27/07/1934 n. 1265 secondo cui “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza sussiste –in base a detta disposizione– il vincolo di inedificabilità assoluta nella fascia di rispetto del cimitero: il vincolo ex lege può essere rimosso solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quarto comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un'area a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 27.07.2015 n. 3667)
E’ stato quindi precisato in giurisprudenza che il vincolo cimiteriale, che comporta l’inedificabilità assoluta, non consente in alcun modo l’allocazione di edifici, anche non aventi natura residenziale, in ragione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare, e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 04/07/2015 n. 2245; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 03/03/2015 n. 575).
Facendo applicazione di detti principi la sentenza appellata ha annullato le autorizzazioni impugnate.
Secondo il primo giudice, infatti, il vincolo di inedificabilità assoluta gravante sulla fascia di rispetto del cimitero per espressa previsione normativa, impedisce la realizzazione di qualunque manufatto, anche ad uso diverso da quello abitativo, e trattandosi di vincolo imposto ex lege in via astratta, prescinde da qualunque valutazione in merito alla specifica conformazione della costruzione che si intende realizzare in prossimità del cimitero: sulla base di detti presupposti ha ritenuto che non potesse costruirsi neppure un traliccio di telecomunicazioni –struttura impattante– “non più rispettoso della pietas nei confronti dei defunti di quanto non lo sia una abitazione di residenza”.
Le affermazioni del primo giudice non possono essere condivise.
La giurisprudenza più recente ha chiarito che l'art. 338 R.D. cit. vieta l'edificazione, nella fascia di duecento metri dal muro di cinta dei cimiteri, di manufatti che possono essere qualificati come costruzioni edilizie (Cons. Stato Sez. V 14.09.2010 n. 6671): ha quindi ritenuto che l'installazione di un impianto di telefonia mobile che -per le proprie caratteristiche- non può in alcun modo essere classificato come un manufatto edilizio non è incompatibile con il vincolo cimiteriale (nella specie si trattava di un'antenna staffata sul muro del cimitero e non di una costruzione edificata sul terreno ricadente nella fascia di rispetto) (Cons. Stato sez. III 25/11/2014 n. 5837).
Detta decisione –pur non essendo riferibile ad una fattispecie concreta identica, perché nel caso di specie si controverte sulla realizzazione di una stazione radio base sulla fascia di rispetto cimiteriale e non sulla semplice collocazione dell’antenna sul muro perimetrale del cimitero– nondimeno contiene una precisazione importante: sussiste il vincolo di inedificabilità solo in presenza di “edifici” e cioè solo quando vengono realizzate delle vere e proprie costruzioni.
Gli impianti di telefonia mobile non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno un impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o muratura (TAR Puglia Sez. I Lecce 08/04/2015 n. 1120).
Il concetto di edificio, come ha correttamente rilevato la difesa delle appellanti, è nettamente caratterizzato sia in architettura che nel diritto urbanistico: un palo di sostegno e le attrezzature installate su di esso non presentano –evidentemente– la stessa natura (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 17/10/2008 n. 5044).
Inoltre, come ha correttamente rilevato la giurisprudenza più recente di primo grado, le stazioni radio base, sono opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi zonizzazione prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, e dunque possono essere installate anche in zona di rispetto cimiteriale (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 21/02/2014 n. 311; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 25/10/2012 n. 4223; TAR Lazio Sez. II-bis 14/05/2007 n. 4367), tenuto anche conto che non ledono gli interessi dei quali il vincolo di inedificabilità persegue la tutela.
Gli impianti di telefonia mobile, infatti, –assimilabili ai tralicci dell’energia elettrica– non arrecano alcun danno al decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi di ordine sanitario e, nel caso di specie, nel quale l’impianto è collocato oltre la strada che costeggia il muro perimetrale del cimitero, non incidono neppure sulla possibilità di ampliamento del cimitero.
Correttamente, quindi, la legislazione regionale richiamata dalle appellanti (L.R. Lombardia n. 11/2001 art. 7, regolamento regionale 6/2004 e la circolare regionale 12.03.2007 n. 9) partendo dalla qualifica contenuta nell’art. 86 del codice delle comunicazioni elettroniche, secondo cui detti impianti costituiscono opere di urbanizzazione primaria, specificano che è possibile realizzarli nella fascia di rispetto cimiteriale.
Non convince la tesi dell’appellato secondo cui anche per la realizzazione di detti impianti sarebbe necessario ricorrere al procedimento previsto dall’art. 388, c. 5, del R.D. 27/07/1934 n. 1265, in quanto –come già precisato– non si tratta di “edifici”, ma di semplici opere di urbanizzazione primaria riconducibili a tralicci per l’energia elettrica.
Infine, la natura di opere di urbanizzazione primaria consente di prescindere dalla zonizzazione recata dal P.R.G., potendo gli impianti di telecomunicazione per la telefonia mobile essere realizzati in qualunque zona del territorio comunale.
La giurisprudenza è univoca: “A norma dell’art. 86, c. 3, del D.Lgs. n. 259 del 2003 relativa alla localizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la loro installazione in quanto le infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazioni, di cui agli art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16, comma 7, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380. Ne deriva anche alla luce dell’art. 4, comma 7, della L.R. n. 11 del 2001 che gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica" (cfr., tra le tante, TAR Lombardia Sez. II 02/03/2012 n. 351).
Alla stregua delle suesposte considerazioni, gli appelli devono essere accolti con riforma della sentenza di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.11.2015 n. 5257 - link a www.giustizia-amministratva.it).

APPALTI: Il mancato guadagno va provato. Dimostrazione a carico dell’impresa che vuole il risarcimento del danno. Consiglio di Stato. Respinto il ricorso su un appalto assegnato alla società classificata seconda.
La recente sentenza 17.11.2015 n. 5255 del Consiglio di Stato, Sez. III, si inserisce nel filone giurisprudenziale in tema di onere della prova in relazione alla domanda risarcitoria.
La questione è centrale, in quanto in caso di rigetto dell’istanza cautelare i tempi di definizione del contenzioso –per quanto accelerati rispetto al regime processuale ordinario– non consentono all’imprenditore che veda riconosciute le proprie ragioni di ottenere un reale beneficio se non in termini di risarcimento per equivalente. Ciò a maggior ragione ove ciò avvenga all’esito del secondo grado di giudizio.
Il Consiglio di Stato, con la decisione in commento, dopo aver accertato la fondatezza delle doglianze articolate da una società attiva nel settore delle forniture informatiche in relazione alla sentenza del Tar Lazio che, annullando l’aggiudicazione di un appalto triennale bandito dal ministero dell’Interno, aveva assegnato il contratto alla società seconda classificata, è stato chiamato a decidere sull’istanza risarcitoria con cui l’appellante aveva richiesto che -in relazione al tempo trascorso dalla stipula del contratto- il ministero venisse condannato a risarcire il danno correlato alla consumazione di parte del periodo di durata dell’appalto, quantificandolo in proporzione all’utile atteso dichiarato in sede di giustificazioni.
Il collegio ha rigettato la domanda, osservando che l’appellante non aveva dichiarato di non aver altrimenti impiegato, nel periodo predetto, le risorse occorrenti per l’esecuzione dell’appalto, e in generale non aveva prospettato alcun elemento in ordine all’utilizzazione delle figure professionali disponibili in azienda ovvero impegnate in vista dell’esecuzione dell’appalto.
Richiamando quindi l’orientamento secondo il quale,«ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo nel corso di gare pubbliche, va comunque detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio quanto dall’impresa percepito grazie allo svolgimento di ulteriori attività lucrative nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione» e l’onere di provare l’assenza dell’aliunde perceptum vel percepiendum grava non sulla Pa ma sull’impresa, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che la lacuna probatoria impedisse di accogliere la domanda risarcitoria.
Il Consiglio di Stato fa dunque pedissequa applicazione del meccanismo probatorio peculiare elaborato dalla giurisprudenza amministrativa, che si pone in frontale contrasto con un totem della materia istruttoria processuale (soprattutto civilistica), ossia l’inammissibilità della prova negativa: negativa non sunt probanda. Palazzo Spada, in ultima analisi, chiede al ricorrente di provare di non avere realizzato guadagni: solo in presenza di tale prova, il risarcimento può essere riconosciuto.
Se difficilmente può ipotizzarsi il ricorso proficuo alla prova documentale, la via della prova costituenda non è di più facile percorribilità considerando la marginalità e inusualità della prova testimoniale nel processo amministrativo. Che poi la prova del fatto negativo gravi sull’imprenditore è –all’atto pratico- inevitabile, essendo egli l’unico soggetto, almeno in linea di principio, nella condizione di reperire elementi adatti a soddisfare l’onere probatorio. Tuttavia, anche sotto tale profilo si evidenzia l’originalità della posizione del giudice amministrativo: i principi generali della materia probatoria rimettono in capo al debitore la prova del fatto estintivo.
Per converso, seguendo il ragionamento fatto proprio anche dalla decisione in commento, il ricorrente è chiamato a provare il danno –secondo l’ordinario meccanismo delineato dall’articolo 2697 Codice civile– e, contestualmente, a provare che non si siano verificati eventi idonei a incidere, elidendolo in tutto o in parte, sul lamentato nocumento. Si realizza pertanto un totale ribaltamento dell’ottica probatoria, determinando l’orientamento che si è andato consolidando in materia di danno da illegittimo esercizio del potere amministrativo nel corso di gare pubbliche la radicale inversione dell’onere della prova.
Se è pur vero, quindi, che in materia di appalti, dopo la sentenza della Corte di Giustizia sezione III, 30.09.2010, C–314/09, si è ormai consolidata la tesi della responsabilità oggettiva della stazione appaltante, per cui il ricorrente è sollevato dall’onere di provare l’elemento soggettivo della colpa dell’agente, tale vantaggio è controbilanciato dall’intensità dell’onere allegativo imposto in punto di prova del danno.
Proprio la difficoltà della prova può spiegare la relativa infrequenza di pronunce di accoglimento delle istanze risarcitorie proposte a corredo dei ricorsi in materia di appalti. Tale dato, unitamente all’elevato costo del contenzioso disciplinato dall’articolo 120, dlgs 163/2006, può incidere sulla propensione dell’aspirante appaltatore all’impugnativa, posto che, salva l’ipotesi di subentro tempestivo nel contratto all’esito della sospensiva, il ricorso in via giurisdizionale può non costituire un efficace strumento di reintegrazione dell’interesse leso
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2016).
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MASSIMA
17. Con memoria finale, in relazione al tempo trascorso dalla stipula del contratto con SIRFIN, TBS ha chiesto che il Ministero dell’interno venga condannato a risarcirle il danno correlato alla consumazione di parte del periodo di durata dell’appalto, quantificandolo (per l’ipotesi che l’auspicato subentro avvenga alla fine del corrente anno), in proporzione all’utile atteso dichiarato in sede di giustificazioni, nella somma di euro 35.735,84 (4.466,98 al mese, da maggio a dicembre 2015).
18. Il Collegio osserva che l’appellante non ha dichiarato di non aver altrimenti impiegato, nel periodo predetto, le risorse occorrenti per l’esecuzione dell’appalto, e in generale non ha prospettato alcun elemento in ordine all’utilizzazione delle figure professionali disponibili in azienda ovvero impegnate in vista dell’esecuzione dell’appalto.
Tale circostanza, in applicazione dell’orientamento di questo Consiglio, secondo il quale,
ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo nel corso di gare pubbliche, va comunque detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio quanto dall’impresa percepito grazie allo svolgimento di ulteriori attività lucrative nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione e tale onere di provare l’assenza dell’aliunde perceptum vel percepiendum grava non sull’Amministrazione, ma sull’impresa (cfr., da ultimo, III, n. 1839/2015 e n. 5567/2014; IV, n. 1708/2015 e n. 5531/2014; V, n. 4248/2014), impedisce di accogliere la domanda risarcitoria.

EDILIZIA PRIVATA: Lo “ius aedificandi” trova fonte nel diritto di proprietà, del quale rappresenta una facoltà ex art. 832 c.c., sicché i diritti edificatori possono assumere autonoma rilevanza solo in quanto siano oggetto di un’apposita convenzione stipulata dal proprietario dell’area cui accedono; in assenza di tale convenzione, il trasferimento della proprietà del terreno (nella specie, per espropriazione forzata) comporta anche il trasferimento della capacità edificatoria attuale (nella specie, volumetria edificabile connessa a un piano di lottizzazione).
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B. I motivi –che possono trattarsi congiuntamente per la stretta connessione– sono infondati.
   a) In primo luogo, va ricordato che
con le sentenze Corte Cost. n. 5 del 1980 e n. 127 del 1983 è stato escluso che, in base alle leggi che hanno disposto la conformazione edilizia del territorio e condizionato la edificabilità dei suoli al rilascio di una concessione, l’ius aedificandi non inerisca più al diritto di proprietà, potendo la edificabilità delle aree essere stabilita solo con provvedimento dell’autorità; relativamente ai suoli destinati dagli strumenti urbanistici alla edilizia residenziale privata, infatti, la edificazione avviene ad opera del proprietario dell’area il quale, concorrendo le condizioni previste dalla legge, ha diritto ad ottenere la concessione edilizia, che non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti.
L’istituto della concessione edilizia, introdotto con la Legge n. 10 del 1977, non ha dissociato il jus aedificandi dal diritto di proprietà, ma ha solo stabilito i limiti all’esercizio di quel diritto, in relazione alla funzione sociale della proprietà e nel rispetto del parametro costituzionale. L’imposizione di un contributo al proprietario, da corrispondere al comune, si inquadra nell’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale, oltreché politica, sicché la partecipazione agli oneri di urbanizzazione non è illegittima se si mantiene nei limiti della ragionevolezza.
In effetti,
titolo legittimante per ottenere la concessione edilizia (Legge n. 77 del 2010, articolo 4) e ora il permesso di costruire (Testo Unico n. 380 del 2001, articolo 11) è innanzitutto la proprietà.
Dunque,
il diritto di costruire non trova fonte nel provvedimento amministrativo che si limita a verificare i presupposti per l’esercizio del diritto secondo quanto prescritto dalle norme di legge e dagli strumenti urbanistici.
Non possono ricavarsi elementi favorevoli alla tesi della ricorrente dalle previsioni dettate dalla Legge n. 1150 del 1942, articolo 23, in tema di comparto edificatorio, previsto dall’articolo 870 c.c., che costituisce mezzo di attuazione del piano regolatore particolareggiato e rende possibile l’edificazione privata attraverso la formazione di consorzi tra proprietari rappresentanti almeno i tre quarti del valore dell’intero comparto, nonché l’espropriazione delle aree appartenenti ai proprietari non aderenti; la Legge n. 1150 del 1942, articolo 28, prevede, in caso di mancanza di piano particolareggiato, l’autorizzazione ad edificare da parte del Comune.
La ricostruzione della disciplina urbanistica relativa al diritto di costruire non è contraddetta dalle successive norme che in effetti hanno preso in considerazione la categoria dei diritti edificatori e la possibilità di trasferimento della capacità edificatoria in modo autonomo dal diritto di proprietà, secondo quanto si esaminerà infra.
   b) La Legge n. 308 del 2004, articolo 1, comma 21, prevede che qualora, per effetto di vincoli sopravvenuti, diversi da quelli di natura urbanistica, non sia più esercitabile il diritto di edificare che sia stato già assentito a norma delle vigenti disposizioni, è in facoltà del titolare del diritto chiedere di esercitare lo stesso su altra area del territorio comunale, di cui abbia acquisito la disponibilità a fini edificatori; il comma successivo recita in caso di accoglimento dell’istanza presentata ai sensi del comma 21, la traslazione del diritto di edificale su area diversa comporta la contestuale cessione al comune, a titolo gratuito, dell’area interessata dal vincolo sopravvenuto.
In effetti, come previsto anche dalla Legge n. 244 del 2007, comma 258, si tratta di norme dettate per attuare la c.d. perequazione urbanistica –secondo le modalità previste dall’Amministrazione negli strumenti urbanistici– consentendo all’Amministrazione di ottenere la cessione gratuita di area destinata alla realizzazione di interessi pubblici senza procedere a espropriazione ma dando in corrispettivo la traslazione dei diritti edificatori su altra area di proprietà del cedente. Peraltro, come si è accennato, la configurabilità della categoria dei diritti edificatori non sembra avvalorare la tesi della ricorrente.
Ed invero, le considerazioni formulate dalla ricorrente non possono essere condivise, neppure alla luce di quanto previsto dalla Legge Regionale Lombardia n. 12 del 2005, alla quale ha fatto riferimento, e ancora dal Decreto n. 70 del 2011, articolo 5, comma 3, secondo cui “per garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori, all’articolo 2643 c.c., dopo il n. 2), è inserito il seguente: “2-bis) i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione”.
Intanto,
potranno assumere obiettiva e autonoma rilevanza i diritti edificatori, in quanto siano oggetto di apposita convenzione intercorsa con il proprietario dell’area alla quale accedono, posto che lo ius aedificandi trova fonte nel diritto di proprietà, di cui rappresenta una facoltà (articolo 832 c.c.) dovendo escludersi, come sostenuto dalla ricorrente, che –in assenza di uno specifico atto dispositivo– il trasferimento della proprietà dell’area non comporti di per se anche il diritto di costruirvi.
In effetti,
il legislatore ha inteso dare riconoscimento (pubblicità) anche a quegli accordi fra proprietari (cessione di cubatura), con cui una parte (il proprietario cedente) si impegni a prestare il proprio consenso affinché la cubatura (o una parte di essa) che gli compete in base agli strumenti urbanistici venga attribuita dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario), compreso nella stessa zona urbanistica, cosi consentendogli di chiedere ed ottenere una concessione per la costruzione di un immobile di volume maggiore di quello cui avrebbe avuto altrimenti diritto: al fine di consentire al proprietario finitimo di ottenere la concessione edilizia o il permesso di costruire per realizzare una volumetria maggiore di quella che sarebbe consentita, il cedente rinuncia allo sfruttamento edilizio del proprio fondo che è destinato a rimanere inedificato.
Ma, nella specie non potrebbe essere decisivo il riferimento ai diritti edificatori, posto che il proprietario dell’area in oggetto (la ricorrente, che ha subito l’espropriazione immobiliare a seguito di un procedimento esecutivo) non era rimasta titolare dei diritti edificatori ovvero della capacità edificatoria del terreno nel momento in cui la proprietà dello stesso era stata trasferita, atteso che in assenza di una diversa regolamentazione la volumetria edificabile era trasferita con il diritto di di proprietà di cui essa rappresentava una componente ex articolo 832 c.c.: con l’atto di aggiudicazione è stata trasferita la piena proprietà del bene pignorato secondo quanto previsto dall’articolo 2912 c.c..
   c) Infine,
l’assunzione, da parte del proprietario del fondo, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione costituisce un’obbligazione “propter rem”, dovendo dette opere essere eseguite da coloro che sono proprietari al momento del rilascio della concessione edilizia, i quali ben possono essere soggetti diversi da quelli che stipularono la convenzione, per avere da questi acquistato una parte del suolo su cui far sorgere singoli (o gruppi di) lotti (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.11.2015 n. 23130).

EDILIZIA PRIVATA: E' notorio che, se per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta alla vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento nel privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
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Sussiste l'obbligo del Comune di provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua propriet, onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a., che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss..
Come rettamente ha precisato il TAR, il soggetto così legittimato può pretendere l’esercizio di tali poteri vincolati e doverosi (donde l’incomparabilità di tal pretesa alle vicende dell’autotutela spontanea) e la relativa definizione mercé un provvedimento espresso, anche magari esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'istante.
Quindi, il silenzio serbato dalla P.A. integra gli estremi del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in sede giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della vicinitas con la funzione non discrezionale della vigilanza edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie in esame dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto, non così legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A. stessa, ma proprio per questo non ha titolo per rendere coercibile l’omesso esercizio di tal funzione.
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... per la riforma della sentenza del TAR Campania–Salerno, sez. II, n. 2237/2014, resa tra le parti e concernente il silenzio serbato dal Comune intimato sull’istanza del sig. An.Vi. per l’adozione di atti di verifica sulla legittimità di opere edilizie;
... 
- Considerato altresì che, nel merito, l’appello non ha pregio e va disatteso, con la doverosa premessa che lo specifico oggetto del contendere è l’inerzia procedimentale (silenzio) del Comune intimato sull’istanza del sig. A.Vi. e NON la concreta legittimità dell’attività edilizia dell’appellante, argomento, questo, che il Collegio non può trattare, neppure incidenter tantum, sia per il divieto di cui all’art. 30, c. 2, I per., c.p.a. (il potere amministrativo sul punto o non è stato ancora esercitato o non è nella cognizione del Giudice d’appello), sia perché, quand’anche si volesse entrare nel merito della fondatezza della pretesa azionata con il rito del silenzio, già dal contenuto stesso dell’istanza del 01.07.2014 s’evince la permanenza, in capo a detto Comune, della necessità di adempimenti istruttori di esso per l’esatta definizione del procedimento invocato e, dunque, l’inibizione posta al riguardo dal successivo art. 31, c. 3, onde scolora ogni deduzione dell’appellante sulla richiesta dell’“annullamento” d’alcunché);
- Considerato ancora che la dedotta “definitività” del titolo edilizio in capo all’appellante, se è intesa con riferimento al lungo tempo trascorso dal relativo rilascio, di per sé sola non inibisce l’invocata attivazione del procedimento comunale preordinato all’accertamento dell’esistenza -o meno- di abusi edilizi, essendo notorio (cfr., p.es., Cons. St., IV, 04.03.2014 n. 1016) che, se per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta alla vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento nel privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato;
- Considerato pure che, se tal “definitività” si vuol intendere a guisa di decadenza dall’impugnazione del titolo, anche questo dato è inopponibile all’istanza d’attivazione dei poteri di vigilanza edilizia, stante l’evidente diversa qualità degli interessi protetti implicati nell’una vicenda rispetto all’altra, nonché la non sovrapponibilità, né tampoco la coincidenza dell’interesse del privato ad impugnare a quello pubblico connesso ai e garantito dai predetti poteri vincolati di vigilanza, proprio per questo non essendo qui applicabile il principio per cui l’uso strumentale della formazione del silenzio non rimette in termini il privato decaduto dall’azione impugnatoria;
- Considerato che erronea s’appalesa tutta la ricostruzione del procedimento di vigilanza edilizia, che l’appellante tenta con le categorie dell’autotutela spontanea -in particolare con riguardo alla natura discrezionale dell’attivazione dei procedimenti amministrativi di secondo grado-;
- Considerato infatti che sussiste l'obbligo del Comune di provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà (arg. ex Cons. St., IV, 29.04.2014 n. 2228), onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a. (cfr. così Cons. St., IV, 02.02.2011 n. 744; id., VI, 17.01.2014 n. 233), che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss.;
- Considerato di conseguenza che, come rettamente ha precisato il TAR, il soggetto così legittimato può pretendere l’esercizio di tali poteri vincolati e doverosi (donde l’incomparabilità di tal pretesa alle vicende dell’autotutela spontanea) e la relativa definizione mercé un provvedimento espresso, anche magari esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'istante;
- Considerato, quindi che il silenzio serbato dalla P.A., come nella specie è accaduto con l’istanza del sig. A.Vi., integra gli estremi del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in sede giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della vicinitas con la funzione non discrezionale della vigilanza edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie in esame dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto, non così legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A. stessa, ma proprio per questo non ha titolo per rendere coercibile l’omesso esercizio di tal funzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.11.2015 n. 5087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome rilevato dalla dominante giurisprudenza amministrativa, per l'adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti a tutela della pubblica incolumità non occorre il rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione del privato, ex art. 7 della legge n. 241 del 1990, essendo queste incompatibili con l'urgenza del provvedere, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo, che si aggrava (come per l’odierna fattispecie) con il trascorrere del tempo; di fatto la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco non può che essere di pregiudizio per l'urgenza del provvedere.
Né può sostenersi che l’urgenza del provvedere fosse esclusa per il lungo lasso di tempo trascorso dal momento in cui è stato constatato l’accumulo abusivo dei rifiuti in questione, atteso che l'assoluta imprevedibilità della situazione da affrontare non è un presupposto indefettibile per l'adozione delle ordinanze sindacali extra ordinem e che il protrarsi della situazione di pericolo non rende, di per sé, illegittima l'ordinanza, dal momento che in determinate situazioni il trascorrere del tempo non elimina da sé il pericolo, ma può, invece, aggravarlo, pur con la precisazione che la situazione di pericolo deve essere attuale rispetto al momento dell'adozione del provvedimento.
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Il Collegio manifesta adesione all’orientamento, più volte confermato anche da recenti pronunce di questo stesso TAR, in base al quale l’ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la normativa configuri un’ipotesi legale di responsabilità oggettiva.
Il giudice di appello ha confermato tale orientamento sia con riferimento alla precedente disciplina che al disposto di cui all’art. 192 del d.lgs. 152/2006.
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La mancata esecuzione del piano che la società stessa aveva dichiarato di volere osservare ha determinato un aggravamento dell’inquinamento del sito, atteso il carattere di progressivo peggioramento della situazione per il quale, anche ai fini dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, la relativa responsabilità non può che appuntarsi sulla società inadempiente, almeno per il segmento temporale che si estende dall’assunzione dell’obbligo di smaltimento fino all’adozione dell’ordinanza gravata.
Vero è poi che l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006 riconosce al proprietario o ad altro soggetto interessato, nel caso di mancata individuazione del responsabile dell’inquinamento “la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi dì bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o disponibilità”, senza che ciò determini l’assunzione del relativo obbligo; sennonché, nel caso di specie, la ... s.r.l. non si è limitata ad avviare interventi di bonifica poi arrestandosi, ma ha assunto formalmente l’impegno nei confronti dell’Amministrazione di eseguire un completo piano di smaltimento.
In sostanza, indipendentemente dall’attribuzione della responsabilità dell’iniziale sversamento di rifiuti tessili, l’inadempimento della società agli obblighi di smaltimento assunti ha prodotto un aggravamento della situazione ambientale, atteso che l’Amministrazione, anche tenendo conto degli obblighi assunti dalla ricorrente, non ha più provveduto direttamente alla bonifica, avendo maturato un affidamento sul completamento della bonifica maturato per effetto di quanto dichiarato nel tempo dalla stessa ... s.r.l..

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 13 del 05.06.2014 emessa dal Sindaco del Comune di Pozzilli prot. n. 2947/2014, avente ad oggetto lo sgombero dai rifiuti dell’area di proprietà della ricorrente, nonché di ogni atto presupposto, connesso e/o conseguente;
...
Passando al merito del ricorso, con il primo motivo, che può essere scrutinato insieme all’ottavo, la ... s.r.l. lamenta la mancata comunicazione di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 l. n. 241/1990; l’eccesso di potere per difetto di motivazione, nonché la carenza istruttoria, l’illogicità manifesta e il travisamento dei presupposti.
La ... s.r.l., in sostanza, rileva che il procedimento che ha condotto all’adozione dell’ordinanza gravata non sarebbe stato preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, nonostante il provvedimento sia stato emesso all’esito di un iter lungo e tortuoso iniziato nel 2001, allorché l’Amministrazione comunale si era rivolta al Ministero dell’Ambiente per ottenere un finanziamento per procedere all’opera per cui è causa, di modo che non ricorrerebbero i presupposti che avrebbero consentito di omettere l’avviso, tenuto anche conto che il proprio contributo sarebbe stato determinante sull’esito del procedimento.
L’eccezione non coglie nel segno.
Come rilevato dalla dominante giurisprudenza amministrativa, per l'adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti a tutela della pubblica incolumità non occorre il rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione del privato, ex art. 7 della legge n. 241 del 1990, essendo queste incompatibili con l'urgenza del provvedere, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo, che si aggrava (come per l’odierna fattispecie) con il trascorrere del tempo; di fatto la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco non può che essere di pregiudizio per l'urgenza del provvedere (cfr. TAR Lazio, sez. II, 02.12.2014, n. 12136; Cons. Stato, sez. V, 01.12.2014, n. 5919).
Né può sostenersi che l’urgenza del provvedere fosse esclusa per il lungo lasso di tempo trascorso dal momento in cui è stato constatato l’accumulo abusivo dei rifiuti in questione, atteso che l'assoluta imprevedibilità della situazione da affrontare non è un presupposto indefettibile per l'adozione delle ordinanze sindacali extra ordinem e che il protrarsi della situazione di pericolo non rende, di per sé, illegittima l'ordinanza, dal momento che in determinate situazioni il trascorrere del tempo non elimina da sé il pericolo, ma può, invece, aggravarlo, pur con la precisazione che la situazione di pericolo deve essere attuale rispetto al momento dell'adozione del provvedimento (così, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, sent. 04.02.2015, n. 533).
Nel caso di specie già dalla relazione dell’ARPA Molise dell’08.11.2004 risultava una situazione di grave compromissione del sito connotata da caratteri di progressivo peggioramento, atteso che la presenza di balle di indumenti esposti all’umidità e alle intemperie, avevano reso l’ambiente propizio per la nidificazione di uccelli e ratti, creando così condizioni di degrado crescente che avrebbero con il trascorrere del tempo necessariamente compromesso la salubrità dell’area, giustificando l’adozione dell’ordinanza gravata.
Sussisteva quindi l’urgenza di provvedere che ha giustificato l’adozione dell’ordinanza impugnata senza comunicare previamente l’avvio del procedimento, come affermato nel preambolo della medesima ordinanza e ciò nonostante l’ampio lasso di tempo trascorso dall’inizio dell’abusivo deposito dei rifiuti e indipendentemente dal fatto che il Comune abbia, o meno, tenuto un comportamento inerte fino a quel momento.
Peraltro, l’ordinanza è stata preceduta da ripetuti solleciti da parte dell’Amministrazione comunale con i quali la società è stata invitata a riavviare le operazioni di bonifica del sito e da un incontro svoltosi il 27.03.2014 in esito al quale la ... s.r.l. ha manifestato l’intendimento, cui non risulta sia stato dato alcun seguito, di elaborare un nuovo piano di smaltimento.
Ne consegue che prima dell’adozione del provvedimento gravato, l’Amministrazione ha instaurato una fitta interlocuzione con la società ricorrente che ha potuto in contraddittorio far valere le proprie ragioni, sempre tuttavia confermando la volontà di proseguire direttamente l’attività di risanamento del sito e senza richiedere l’intervento dell’Amministrazione resistente, se non nei limiti dell’interposizione di “buoni uffici” per il conseguimento di finanziamenti regionali o statali.
Con i motivi dal secondo al settimo, parte ricorrente censura il provvedimento comunale, lamentando, nella sostanza, che l’onere di ripristino sia stato posto a carico della ... s.r.l. sul semplice presupposto di essere la proprietaria dell’area e dei capannoni, in violazione del principio “chi inquina paga”, già sancito dalla disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 e confermato dal TU Ambiente (d.lgs. n. 152/2006), in base al quale l’obbligo di bonifica dell’area inquinata incombe sul soggetto che, con il proprio comportamento, ha colpevolmente determinato lo smaltimento illecito di rifiuti.
In altre parole l’obbligo di rimozione dei rifiuti può essere accollato unicamente al responsabile dell’illecito, ovvero a colui che con il proprio atteggiamento doloso o colposo abbia causato l’inquinamento, ma, nel caso di specie, nessuna colpa potrebbe essere imputata alla ... s.r.l., essendo incontestato, prosegue la ricorrente, che il deposito illecito dei rifiuti sia stato realizzato dall’impresa affittuaria dell’area, in seguito posta in stato di liquidazione e il cui rappresentante legale si è reso irreperibile.
Anzi, la ricorrente afferma di aver segnalato immediatamente l’abusivo accumulo, rendendo possibile l’avvio del procedimento penale che ha condotto poi al sequestro e, quindi, all’interruzione dell’illecito, svolgendo un’attività di sorveglianza sul conduttore a cui non sarebbe stata nemmeno tenuta, specialmente dopo aver accertato che il conduttore era effettivamente abilitato al trattamento dei rifiuti tessili poi abbandonati.
L’eccezione non coglie nel segno.
Il Collegio preliminarmente manifesta adesione all’orientamento, più volte confermato anche da recenti pronunce di questo stesso TAR, in base al quale l’ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la normativa configuri un’ipotesi legale di responsabilità oggettiva (così tra le ultime TAR Molise, 07.08.2014, n. 489; TAR Molise, 07.07.2014, n. 425; con riferimento al d.lgs. n. 22/1997 cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.01.2005, n. 136. Il giudice di appello ha confermato tale orientamento sia con riferimento alla precedente disciplina che al disposto di cui all’art. 192 del d.lgs. 152/2006; cfr. Cons. Stato, V, 25.08.2008, n. 4061; id. 19.03.2009, n. 1612).
La conferma di tale consolidato principio non giova alla ricorrente nel caso di specie, atteso che essa censura il provvedimento impugnato, asserendo di non aver alcuna responsabilità per l’illecito accumulo di rifiuti nell’area, ma incentrando le proprie censure sul momento in cui i rifiuti in questione sono stati illecitamente ammassati nei capannoni e nell’area circostante, laddove, nel caso di specie, l’ordinanza impugnata impone alla ... s.r.l. di provvedere allo smaltimento, non già invocando la responsabilità della società per la condotta originaria, ma per non aver ottemperato al piano di rimozione che la stessa si era impegnata ad osservare nei confronti del Comune.
Agli atti, infatti, è depositata la nota del 15.05.2012 (prot. in entrata n. 2701), con cui la ... s.r.l., per il tramite del proprio amministratore unico, ha comunicato al Comune di Pozzilli di aver iniziato le operazioni di bonifica del sito già dall’anno 2006 e di aver sostenuto spese per un ammontare di 128.000 euro; con la stessa nota la società ha anche espressamente dichiarato al Comune che: “è Ns. intenzione proseguire con tale smaltimento, nonostante la crisi che imperversa il nostro settore da ormai vari anni”, precisando tuttavia di aver sospeso l’attività durante i mesi invernali e che la bonifica sarebbe ripresa a partire dal mese di giugno 2012, senza che tale impegno venisse poi effettivamente adempiuto.
Tale nota, come confermano anche i toni concilianti ivi utilizzati, indica chiaramente che la ... s.r.l. aveva assunto l’obbligo di compiere le attività di smaltimento necessarie alla bonifica del sito, come confermato anche nell’incontro del 27.03.2014 (oggetto del verbale depositato in atti), all’esito del quale, per un verso, la società si è impegnata a predisporre un (nuovo) piano di smaltimento per lo smaltimento dei rifiuti e, per altro verso, l’Amministrazione comunale ha dichiarato che si sarebbe attivata per proporre tutte le istanze possibili secondo la legislazione vigente per ottenere un finanziamento, prefigurando un rapporto di cooperazione che prevedeva comunque un’allocazione di compiti in cui quello assegnato alla società consisteva nel provvedere direttamente al ripristino dello status quo ante del sito.
Ed è l’inadempimento a tale obbligo volontariamente assunto che è richiamato nella motivazione (invero assai stringata) dell’impugnata ordinanza, con cui l’Amministrazione richiama a supporto della propria determinazione proprio la mancata attuazione da parte della ... s.r.l. del piano di smaltimento, con una valutazione che non pare irrazionale, atteso che a prescindere dall’imputazione della responsabilità per l’iniziale illecito deposito dei rifiuti, l’impresa stessa dichiarava nella nota del 15.05.2012 di aver avviato fin dal 2006 l’attività di bonifica del sito e che intendeva completarla, ingenerando nell’Amministrazione il convincimento che la bonifica sarebbe stata realizzata integralmente ad opera e a spese dalla società ricorrente (salvi eventuali finanziamenti).
In altre parole, ritiene il Collegio, che con la nota del 15.05.2012 con cui ha confermato l’esistenza di un piano per lo smaltimento dei rifiuti ammassati nell’area di sua proprietà, la società ricorrente ha finito per sollevare il Comune da eventuali obblighi di compiere direttamente l’intervento di bonifica, con ciò accollandosi una responsabilità diretta al ripristino dello status quo ante.
Deve quindi ritenersi che dopo la diffida ricevuta dalla Regione nel 2005, la società abbia deciso di provvedere autonomamente alla bonifica, assumendo anche il relativo impegno nei confronti delle Amministrazioni, come sembra confermare la circostanza che non risultano dopo il 2005 comunicazioni con cui la ... s.r.l. abbia diffidato l’Amministrazione a provvedere allo smaltimento.
Per contro, la mancata esecuzione del piano che la società stessa aveva dichiarato di volere osservare ha, invece, determinato un aggravamento dell’inquinamento del sito, atteso il carattere di progressivo peggioramento della situazione per il quale, anche ai fini dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, la relativa responsabilità non può che appuntarsi sulla società inadempiente, almeno per il segmento temporale che si estende dall’assunzione dell’obbligo di smaltimento fino all’adozione dell’ordinanza gravata.
Vero è poi che l’art. 245 del d.lgs. n. 152/2006 riconosce al proprietario o ad altro soggetto interessato, nel caso di mancata individuazione del responsabile dell’inquinamento “la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi dì bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o disponibilità”, senza che ciò determini l’assunzione del relativo obbligo; sennonché, nel caso di specie, la ... s.r.l. non si è limitata ad avviare interventi di bonifica poi arrestandosi, ma ha assunto formalmente l’impegno nei confronti dell’Amministrazione di eseguire un completo piano di smaltimento.
In sostanza, indipendentemente dall’attribuzione della responsabilità dell’iniziale sversamento di rifiuti tessili, l’inadempimento della società agli obblighi di smaltimento assunti ha prodotto un aggravamento della situazione ambientale, atteso che l’Amministrazione, anche tenendo conto degli obblighi assunti dalla ricorrente, non ha più provveduto direttamente alla bonifica, avendo maturato un affidamento sul completamento della bonifica maturato per effetto di quanto dichiarato nel tempo dalla stessa ... s.r.l..
In definitiva il ricorso è infondato e deve pertanto essere respinto (TAR Molise, sentenza 06.11.2015 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il danno da ritardo trova specifica disciplina nell’art 2-bis della legge n. 241 del 1990 a mente del quale "le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all´art. 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato dall´inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento".
Si tratta di una disposizione che tutela in sé il bene della vita inerente alla certezza, in relazione al fattore tempo, dei rapporti giuridici che vedono come parte la pubblica amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva della pubblica amministrazione, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo pubblico al loro espletamento.
Sul piano oggettivo l'illecito de quo riceve qualificazione dall´inosservanza del termine ordinamentale per la conclusione del procedimento; sul piano soggettivo il ritardo deve essere ascrivibile ad un'inosservanza dolosa o colposa dei termini di legge o di regolamento stabiliti per l'adozione dell'atto terminale.
La pretesa alla tempestività dell’azione amministrativa, quindi, è tutelata solo nei limiti dell’art. 30, quarto comma, c.p.a. e dell’art. 2-bis L. n. 241/1990.

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L’eccezione è fondata.
Il danno da ritardo trova specifica disciplina nell’art 2-bis della legge n. 241 del 1990 a mente del quale "le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all´art. 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato dall´inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento".
Si tratta di una disposizione che tutela in sé il bene della vita inerente alla certezza, in relazione al fattore tempo, dei rapporti giuridici che vedono come parte la pubblica amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva della pubblica amministrazione, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo pubblico al loro espletamento (cfr. Cons. St., Sez. V. n. 3405 del 21.06.2013; V, n. 1271 del 28.02.2011).
Sul piano oggettivo l'illecito de quo riceve qualificazione dall´inosservanza del termine ordinamentale per la conclusione del procedimento; sul piano soggettivo il ritardo deve essere ascrivibile ad un'inosservanza dolosa o colposa dei termini di legge o di regolamento stabiliti per l'adozione dell'atto terminale.
La pretesa alla tempestività dell’azione amministrativa, quindi, è tutelata solo nei limiti dell’art. 30, quarto comma, c.p.a. e dell’art. 2-bis L. n. 241/1990.
Nel caso in esame, invece, la pretesa dedotta, se riferita sic et simpliciter alla tempestività dell’azione amministrativa, è priva di tutela; se riferita all’incisione del diritto alla salute (scaturente da asseriti comportamenti omissivi degli organi deputati al controllo di apparati sanitari) spetta alla cognizione del giudice ordinario.
Come affermato da recente giurisprudenza in fattispecie relative a domanda di risarcimento in relazione alla lesione del diritto alla salute, “…è evidente che la fattispecie impinge primariamente sulla fondamentale tutela del diritto alla salute, garantito costituzionalmente come diritto soggettivo perfetto, e al contempo sulla disciplina di istituti regolati in primis dal diritto civile, ma immanenti e trasversali nell’ordinamento giuridico generale, quali la prescrizione, la transazione, la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, l’azione di risarcimento, che riguardano diritti soggettivi non suscettibili di essere degradati e affievoliti in interessi legittimi dalla discrezionalità meramente tecnica dell’Amministrazione in ordine all’apprezzamento dei presupposti per la definizione delle transazioni e delle controversie, disciplina quindi che non può soffrire deroghe se non introdotte con norme primarie… Quanto alla responsabilità ministeriale di natura extracontrattuale, la citata tutela della salute pubblica, assicurata dall’art. 32 Cost., e il connesso obbligo di vigilanza e di controllo e quindi di adozione di tutte le iniziative necessarie pro tempore, sul piano amministrativo ma anche e soprattutto tecnico-scientifico-sanitario, in relazione allo sviluppo delle fenomenologie nel tempo, rientrano di certo e da sempre nelle attribuzioni istituzionali del competente Ministero e quindi nelle connesse responsabilità, a prescindere dalla data di insorgenza dell’evento dannoso, con un accertamento di fatto demandato anch’esso al giudice ordinario” (Cons. St. 1501/2014).
Per i motivi suesposti il ricorso deve dichiararsi inammissibile per difetto di giurisdizione mentre le spese del giudizio possono essere compensate integralmente tra le parti (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.11.2015 n. 3168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decadenza del permesso di costruire non opera di per sé, ma deve necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti.
Contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza più volte richiamata, la giurisprudenza del giudice amministrativo, pur mostrandosi concorde nell’affermare che la decadenza del permesso di costruire costituisce un effetto che discende dall’inutile decorso del termine di inizio e/o completamento dei lavori autorizzati, è, tuttavia, in prevalenza orientata a richiedere, come condizione indispensabile perché detto effetto diventi operativo, l’adozione di un provvedimento formale da parte del competente organo comunale, ancorché meramente dichiarativo e con efficacia ex tunc, qualunque sia l’epoca in cui è stato adottato e quindi anche se intervenuto molto tempo dopo che i termini in questione erano inutilmente decorsi, e ancorché i suoi effetti retroagiscano al momento dell’evento estintivo.
Si tratta, in effetti, di una giurisprudenza risalente nel tempo (cfr. Cons. St., sez. V, 15.06.1998, n. 834; Cons. St., sez. V, 23.11.1996, n. 1414, per il quale l’adozione del provvedimento dichiarativo della decadenza costituisce condizione per l’esercizio dei poteri sanzionatori amministrativi e per l’insorgenza dell’eventuale responsabilità penale del titolare del permesso di costruire per il caso di esecuzione dei lavori oltre il termine prescritto dalla concessione edilizia) e sovente riproposta.
È peraltro incontestabile che anche la giurisprudenza più recente di questo giudice di appello è prevalentemente orientata nel senso che l’operatività della decadenza della concessione edilizia necessita dell’intermediazione di un formale provvedimento amministrativo di carattere dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge e da adottare previa apposita istruttoria.
Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza del giudice di primo grado, per la quale la decadenza del permesso di costruire non opera di per sé, ma deve necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che, sebbene a contenuto vincolato, ha carattere autoritativo e, come tale, non è sottratto all’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può essere adottato solo previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di una potestà provvedimentale.
In una non recente decisione di questo Consiglio di Stato la ragione, che giustificherebbe l’obbligo per l’ente locale di adottare un atto che formalmente dichiari l’intervenuta decadenza del permesso di costruire, è stata individuata nella necessità di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine all’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che giustifichino la pronuncia stessa.
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Con la prima censura parte appellante deduce erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso principale.
La società ricorrente in prime cure ha impugnato il rigetto dell’istanza di permesso di costruire in variante e ha chiesto la condanna del Comune resistente, in via principale, al rilascio del permesso di costruire e al risarcimento del danno da ritardo per equivalente monetario e, in via subordinata, al risarcimento del danno per equivalente.
Il Comune, nel costituirsi, ha eccepito in via preliminare l’avvenuta decadenza del permesso di costruire originario (n. 154 del 21.05.2008) ai sensi dell’articolo 15, comma 2, del d.p.r. n. 380 del 2001 e quindi l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse.
Il Tar Abruzzo, sezione staccata di Pescara, con la sentenza n. 61 del 2013, impugnata in questa sede, ha ritenuto l’eccezione fondata, ed ha così motivato in proposito: <<La decadenza, inoltre, opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza, e che il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, sentenza n. 2915/2012)
>>.
Ritiene il Collegio che tale orientamento giurisprudenziale non possa essere condiviso per le ragioni che seguono.
Il Tar Pescara nella pronuncia di inammissibilità ha richiamato la sentenza di questa Sezione 18.05.2012, n. 2915, la quale, nel prendere in esame il problema di fondo che le parti in causa avevano sottoposto al suo giudizio, e cioè se l’inosservanza delle condizioni da parte del costruttore comporta automaticamente la decadenza del permesso di costruire, che gli era stato rilasciato e che fissava anche i termini di inizio e completamento dei lavori, ovvero se a questo effetto è richiesto un apposito provvedimento da parte del competente organo comunale, ha motivatamente dichiarato di optare per la prima soluzione. La tesi svolta, come meglio si vedrà in seguito, è che, ai sensi dell’art. 15, co. 2, t.u. dell’edilizia, la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio e completamento dei lavori opera di diritto e il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi.
Ha aggiunto il Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 2915 del 2012 che la sua tesi trova conforto nella notazione (del giudice di primo grado) secondo la quale, diversamente opinando, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione, ma anche della Pubblica amministrazione, libera in taluni casi di adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibile disparità di trattamento tra situazioni identiche. Invece il diretto riferimento al dettato legislativo, per quanto attiene ai termini e alle conseguenze che derivano dalla loro elusione, elimina in radice ogni ipotesi di disparità di trattamento; al tempo stesso la necessità dell’applicazione del regime sanzionatorio per i lavori eseguiti dopo il decorso del termine stabilito dal titolo abilitativo è, a sua volta, conseguenza necessitata della violazione da parte dell’interessato di puntuali obblighi a lui assegnati dalla stessa legge.
La conclusione che la citata sentenza trae dal suo argomentare è che la pronuncia di decadenza del titolo edilizio è espressione di un potere strettamente vincolato; ha natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del titolare e assume pertanto decorrenza ex tunc; inoltre il termine di durata del titolo edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio che accerti l’impossibilità del rispetto del termine ab origine fissato, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza più volte richiamata, la giurisprudenza del giudice amministrativo, pur mostrandosi concorde nell’affermare che la decadenza del permesso di costruire costituisce un effetto che discende dall’inutile decorso del termine di inizio e/o completamento dei lavori autorizzati, è, tuttavia, in prevalenza orientata a richiedere, come condizione indispensabile perché detto effetto diventi operativo, l’adozione di un provvedimento formale da parte del competente organo comunale, ancorché meramente dichiarativo e con efficacia ex tunc, qualunque sia l’epoca in cui è stato adottato e quindi anche se intervenuto molto tempo dopo che i termini in questione erano inutilmente decorsi, e ancorché i suoi effetti retroagiscano al momento dell’evento estintivo.
Si tratta, in effetti, di una giurisprudenza risalente nel tempo (cfr. Cons. St., sez. V, 15.06.1998, n. 834; Cons. St., sez. V, 23.11.1996, n. 1414, per il quale l’adozione del provvedimento dichiarativo della decadenza costituisce condizione per l’esercizio dei poteri sanzionatori amministrativi e per l’insorgenza dell’eventuale responsabilità penale del titolare del permesso di costruire per il caso di esecuzione dei lavori oltre il termine prescritto dalla concessione edilizia) e sovente riproposta (Cons. St., sez. V, 20.10.2004, n. 5228).
È peraltro incontestabile che anche la giurisprudenza più recente di questo giudice di appello è prevalentemente orientata nel senso che l’operatività della decadenza della concessione edilizia necessita dell’intermediazione di un formale provvedimento amministrativo di carattere dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge e da adottare previa apposita istruttoria.
Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza del giudice di primo grado, per la quale la decadenza del permesso di costruire non opera di per sé, ma deve necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che, sebbene a contenuto vincolato, ha carattere autoritativo e, come tale, non è sottratto all’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può essere adottato solo previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di una potestà provvedimentale.
In una non recente decisione di questo Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., sez. VI, 17.02.2006, n. 671) la ragione, che giustificherebbe l’obbligo per l’ente locale di adottare un atto che formalmente dichiari l’intervenuta decadenza del permesso di costruire, è stata individuata nella necessità di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine all’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che giustifichino la pronuncia stessa.
Ne consegue che, ad avviso del Collegio, il primo motivo è fondato, non avendo il Comune di Pescara mai assunto alcun provvedimento di decadenza del titolo edilizio, essendo, anzi, tale questione stata eccepita per la prima volta in sede di memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, peraltro nemmeno notificata alla controparte, sebbene ampliativa del thema decidendum su circostanze di fatto non contemplate nel ricorso introduttivo (che invece aveva ad oggetto un provvedimento di diniego di variante al permesso di costruire)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.10.2015 n. 4823 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce variante essenziale del progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione.
Quanto all’unica motivazione di tale provvedimento (qualifica di variante essenziale del progetto presentato), appaiono fondate le argomentazioni esposte in primo grado dall’appellante e riproposte in questa sede, trattandosi di modifiche “riduttive” al progetto originario (si è rinunciato a due unità immobiliari), laddove la semplice “variazione della sagoma dell’edificio si appalesa del tutto inidonea a … fondare la qualificazione di variante come … essenziale”.
Non può non trascurarsi, del resto, che nella specie la legge regionale abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il concetto di “sagoma” nel novero delle modifiche che determinano variazioni essenziali al progetto, così come non vi include tutte quelle variazioni, come quelle di cui al caso di specie, che finiscono per ridurre i parametri edificatori originariamente assentiti al fine di alleggerire il carico volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio di dissesti del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il titolo richiesto deve qualificarsi come variante non essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670; id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496, secondo la quale “costituisce variante essenziale del progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione”).
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Quanto all’unica motivazione di tale provvedimento (qualifica di variante essenziale del progetto presentato), appaiono fondate le argomentazioni esposte in primo grado dall’appellante e riproposte in questa sede, trattandosi di modifiche “riduttive” al progetto originario (Prestige ha rinunciato a due unità immobiliari), laddove la semplice “variazione della sagoma dell’edificio si appalesa del tutto inidonea a … fondare la qualificazione di variante come … essenziale” (cfr. Cons. St., sez. V, 30.07.2002, n. 4081; Cons. St., sez. VI, 12.11.2014, n. 5552).
Non può non trascurarsi, del resto, che, come fondatamente rilevato dall’appellante, nella specie la legge regionale abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il concetto di “sagoma” nel novero delle modifiche che determinano variazioni essenziali al progetto, così come non vi include tutte quelle variazioni, come quelle di cui al caso di specie, che finiscono per ridurre i parametri edificatori originariamente assentiti al fine di alleggerire il carico volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio di dissesti del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il titolo richiesto deve qualificarsi come variante non essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670; id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496, secondo la quale “costituisce variante essenziale del progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione”)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.10.2015 n. 4823 - link a www.giustizia-amministratva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Circa la consistenza dell’onere probatorio che incombe sulla parte che propone domanda di risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo, nonché in ordine alla natura giuridica ed agli elementi costitutivi della responsabilità dell’amministrazione per la lesione di interessi procedimentali, incluso il ritardo nell’attivazione e conclusione del procedimento amministrativo, il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, in forza dei quali:
   a) nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della domanda;
   b) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale dell’interesse legittimo e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative o dei ritardi procedimentali, salvo quanto si dirà in prosieguo in ordine alla norma sancita dall’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990 (secondo cui le pubbliche amministrazioni e i soggetti equiparati sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento);
   c) la prova dell’esistenza del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale a sua volta presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
   d) i doveri di solidarietà sociale che traggono fondamento dall’art. 2 Cost., impongono di valutare complessivamente la condotta tenuta dalle parti private nei confronti della p.a. in funzione dell’obbligo di prevenire o attenuare quanto più possibile le conseguenze negative scaturenti dall’esercizio della funzione pubblica o da condotte ad essa ricollegabili in via immediata e diretta; questo vaglio ridonda anche in relazione all’individuazione, in concreto, dei presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria, onde evitare che situazioni pregiudizievoli prevenibili o evitabili con l’esercizio della normale diligenza si scarichino in modo improprio sulla collettività in generale e sulla finanza pubblica in particolare;
   e) la norma sancita dall’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990 richiama (ed è sussumibile nello) schema fondamentale dell’art. 2043 c.c.; tale norma riconosce che anche il tempo è un bene della vita per il cittadino e rafforza la tutela risarcitoria nei confronti dei ritardi della p.a., stabilendo che le p.a. siano tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento; si riconosce che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica; in questa prospettiva ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del c.d. «rischio amministrativo» e, quindi, spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione ovviamente che tale danno sussista, sia ingiusto (ovvero incida su un interesse materiale sottostante), venga provato e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c.;
   f) conseguentemente, in relazione ai danni da mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato.

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Tanto premesso, rimane da esaminare il mezzo di gravame con cui la società ha riproposto la domanda risarcitoria articolata in primo grado.
Circa la consistenza dell’onere probatorio che incombe sulla parte che propone domanda di risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo, nonché in ordine alla natura giuridica ed agli elementi costitutivi della responsabilità dell’amministrazione per la lesione di interessi procedimentali, incluso il ritardo nell’attivazione e conclusione del procedimento amministrativo, il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, cui si rinvia (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass., sez. un., 23.03.2011, n. 6594; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; sez. V, 12.06.2012, n. 1441; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV, 02.04.2012, n. 1957; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. V, 21.03.2011, n. 1739; sez. V, 28.02.2011, n. 1271; Cons. giust. amm., 24.10.2011, n. 684; sez. IV, 27.11.2010, n. 8291), in forza dei quali:
   a) nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della domanda;
   b) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale dell’interesse legittimo e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative o dei ritardi procedimentali, salvo quanto si dirà in prosieguo in ordine alla norma sancita dall’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990 (secondo cui le pubbliche amministrazioni e i soggetti equiparati sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento);
   c) la prova dell’esistenza del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale a sua volta presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
   d) i doveri di solidarietà sociale che traggono fondamento dall’art. 2 Cost., impongono di valutare complessivamente la condotta tenuta dalle parti private nei confronti della p.a. in funzione dell’obbligo di prevenire o attenuare quanto più possibile le conseguenze negative scaturenti dall’esercizio della funzione pubblica o da condotte ad essa ricollegabili in via immediata e diretta; questo vaglio ridonda anche in relazione all’individuazione, in concreto, dei presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria, onde evitare che situazioni pregiudizievoli prevenibili o evitabili con l’esercizio della normale diligenza si scarichino in modo improprio sulla collettività in generale e sulla finanza pubblica in particolare;
   e) la norma sancita dall’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990 richiama (ed è sussumibile nello) schema fondamentale dell’art. 2043 c.c.; tale norma riconosce che anche il tempo è un bene della vita per il cittadino e rafforza la tutela risarcitoria nei confronti dei ritardi della p.a., stabilendo che le p.a. siano tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento; si riconosce che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica; in questa prospettiva ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del c.d. «rischio amministrativo» e, quindi, spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione ovviamente che tale danno sussista, sia ingiusto (ovvero incida su un interesse materiale sottostante), venga provato e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c.;
   f) conseguentemente, in relazione ai danni da mancato tempestivo esercizio dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del pregiudizio, specie perché ha natura patrimoniale, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo in quanto surroga l’onere di allegazione dei fatti; e se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici per fornire la prova dell’esistenza del danno e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise e, quando il soggetto onerato di tale allegazione non vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno a norma dell’art. 1226 c.c. perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato.
Facendo applicazione dei suesposti principi al caso di specie, è sufficiente osservare che la società ricorrente non ha soddisfatto l’onere di allegare adeguati e puntuali elementi di fatto idonei a sostenere quantomeno la prova presuntiva in ordine alla esistenza del danno e, tantomeno, ne ha provato l’entità, essendosi limitata ad indicare “stimati” maggiori costi di costruzione e ipotetici utili di impresa, senza fornire adeguata documentazione e dimostrazione.
Sulla scorta delle rassegnate conclusioni l’appello deve essere parzialmente accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, il provvedimento di diniego impugnato in primo grado deve essere annullato, mentre si deve respingere la domanda risarcitoria riproposta in appello dalla società
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.10.2015 n. 4823 - link a www.giustizia-amministratva.it).

APPALTI: Azienda in gara se la banca sbaglia.
Occhio alle banche: si rischia di restare fuori dall'appalto. L'impresa si ritrova senza Durc perché manca all'appello una tranche di contributi previdenziali e l'ente non può attestare la regolarità nei versamenti.
L'azienda aggiudicataria subito ne approfitta tentando di impedire che si possa riaprire la procedura. E invece no: perché l'importo mancante risulta esiguo e soprattutto l'errore è addebitabile all'istituto di credito delegato che ha sbagliato il bonifico. Insomma: scatta lo stop all'attribuzione dei lavori con la vittoria nella causa dell'azienda che era a rischio esclusione.

È quanto emerge dalla sentenza 09.10.2015 n. 2178, pubblicata dal TAR Campania-Salerno, Sez. I.
Errore di esecuzione
Niente da fare per il ricorso incidentale dell'azienda controinteressata. Bocciata la censura secondo cui non avrebbe rilievo la regolarizzazione cui nel frattempo è giunto il competitor. E ciò perché secondo l'impresa vincitrice il pagamento successivo non vale a sanare la precedente dichiarazione falsa che farebbe scattare automaticamente l'esclusione della concorrente.
In realtà nel caso specifico l'espulsione dalla procedura scatta ai sensi dell'articolo 38, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 163/2006, che tuttavia richiede «violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali».
Ma la cassa previdenziale conferma: i contributi non versati ammontano a soli 110 euro e le norme applicabili alla fattispecie chiudono un occhio sugli scostamenti contenuti. Lo sbaglio addebitabile alla banca fa il resto. Insomma: gara tutta da rifare (articolo ItaliaOggi del 07.01.2016).
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MASSIMA
- Vista la censura incidentale con la quale viene dedotto che, alla data (22.7.2014) di sottoscrizione della dichiarazione di regolarità contributiva, l’impresa ricorrente non era in possesso del suddetto requisito, come emerge dal DURC acquisito d’ufficio e rilasciato in data 09.01.2015, non assumendo rilievo la procedura di regolarizzazione postuma da essa attuata, sia perché il pagamento successivo non vale a sanare la mendacità della dichiarazione, sia perché la carenza originaria del requisito è causa originaria ed automatica di esclusione;
- Ritenuta l’infondatezza della censura incidentale suindicata;
- Premesso che la causa di esclusione di cui si tratta è integrata, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), d.lvo n. 163/2006, dalla commissione di “violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali”;
- Ritenuto in particolare che non sia ravvisabile il presupposto della “gravità” della violazione, alla luce dell’importo del versamento non eseguito e delle circostanze della violazione;
- Evidenziato, quanto al primo aspetto, che l’omesso versamento ha ad oggetto l’importo di soli € 110 (cfr. nota della Cassa Edile di Como e Lecco del 17.11.2014, allegata alla memoria di parte ricorrente del 05.05.2015), quanto al secondo, che la parte ricorrente ha dimostrato che la violazione è derivata dall’errore di esecuzione del bonifico disposto in data 30.06.2014 imputabile alla banca delegata (cfr. dichiarazione del Banco Popolare del 20.01.2015, ordine di bonifico del 30.06.2015 –recte 30.06.2014– e distinta di bonifico del 30.06.2014);
- Rilevato inoltre che,
ai sensi dell’art. 38, comma 2, quarto periodo, d.lvo n. 163/2006, “si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva di cui all'articolo 2, comma 2, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.11.2002, n. 266”;
- Visto a tal fine l’art. 8, comma 3, d.m. 24.10.2007, vigente ratione temporis, ai sensi del quale “
ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al rilascio del DURC uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto previdenziale ed a ciascuna Cassa edile”;
- Rilevato che la parte ricorrente incidentale non dimostra il carattere grave della contestata omissione, alla luce della disposizione appena citata, mentre l’importo della stessa induce a presumere, come già rilevato, l’assenza del suddetto requisito, indispensabile al fine di giustificare l’espulsione dalla gara dell’impresa irregolare;
- Ritenuto quindi che il ricorso incidentale debba essere respinto, siccome infondato;

TRIBUTI: Niente Ici sul terreno edificabile coltivato.
Qualora un terreno edificabile sia posseduto da una società agricola e condotto e coltivato dai soci, lo stesso non deve essere assoggettato a Ici. Di più, qualora il terreno sia di più comproprietari, non tutti aventi la qualifica di agricoltore, il beneficio Ici si estende anche nei confronti del non agricoltore, giacché la proprietà immobiliare è comune e indivisa, nonché coltivata direttamente dagli altri soggetti in possesso dei requisiti richiesti dalla norma. Da ultimo, neppure il fatto che gli stessi proprietari abbiano presentato al comune un progetto di lottizzazione può pregiudicare l'agevolazione.

È quanto afferma la Ctr di Brescia nella sentenza 07.10.2015 n. 4358/67/15.
Il caso ha a oggetto una richiesta Ici per dei terreni posseduti da una società agricola, costituita solo in parte da agricoltori, comproprietari per i due terzi, i quali risultano edificabili poiché classificati nella zona C1,residenziale di espansione del Piano generale regolatore. Il primo grado di giudizio si concludeva con la conferma dell'accertamento.
L'adita Ctr di Brescia ha invece ribaltato l'esito del primo giudizio, osservando che «in ogni caso non sono considerati fabbricati i terreni posseduti e condotti dai soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs n. 504 del 1992»; e vanno considerati terreni agricoli con il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei confronti di quei proprietari che non abbiano alcuna qualifica agricola perché, essendo la proprietà immobiliare comune e indivisa e nell'esclusivo possesso delle persone munite della qualifica di coltivatore diretto, sussiste il requisito oggettivo per il riconoscimento del trattamento Ici più favorevole anche nei confronti degli altri comproprietari.
Il terreno di cui si discuteva, infatti, era condotto e coltivato dalla società semplice i cui soci, per due terzi, sono i medesimi proprietari dei terreni e, sugli stessi, la società svolgeva attività di allevamento di bovini, coltivazione di fondi agricoli.
Due soci, aggiunge, la Ctr, sono coltivatori diretti iscritti nell'apposita gestione Inps, per cui, ai sensi dell'art. 9 del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa continuano a essere riconosciuti e si applicano i diritti e le agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente a favore delle persone fisiche in possesso delle predette qualifiche.
Oltre all'accoglimento dell'appello, la Ctr ha anche condannato il Comune al pagamento di significative spese di giudizio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
L'appello dei ricorrenti è fondato e va accolto.
Nel caso prospettato in cui i terreni posseduti da una società agricola costituita solo in parte da agricoltori comproprietari per i due terzi, risultano edificabili poiché classificati nella zona C1, residenziale di espansione del Piano generale regolatore vigente, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 15566 del 14/05/2010 depositata il 30/06/2010 ha stabilito che in ogni caso non sono considerati «fabbricati» i terreni posseduti e condotti dai soggetti indicati nel comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs n. 504 del 1992 e vanno considerati terreni agricoli con il beneficio di esenzione dall'Ici anche nei confronti di quei proprietari senza alcuna qualifica agricola perché, essendo la proprietà immobiliare comune e indivisa e nell'esclusivo possesso delle persone munite della qualifica di coltivatore diretto, sussiste il requisito oggettivo per il riconoscimento del trattamento Ici più favorevole anche nei confronti degli altri comproprietari.
Poiché nella fattispecie il terreno oggetto di imposizione è condotto e coltivato dalla società semplice i cui soci, per due terzi, sono i medesimi proprietari dei terreni e la società vi svolge l'attività di allevamento di bovini da latte, coltivazione di fondi agricoli e due soci sono coltivatori diretti iscritti nell'apposita gestione Inps, tutti fatti non contestati dal Comune, ai sensi dell'art. 9 del Dlgs n. 228 del 18.05.2001 alla stessa continuano a essere riconosciuti e si applicano i diritti e le agevolazioni tributarie stabilite dalla normativa vigente a favore delle persone fisiche in possesso i delle predette qualifiche, da cui discende l'illegittimità degli atti emessi dal Comune.
D'altra parte il Comune si è limitato a chiedere l'imposta sulla sola presunzione della suscettibilità edificatoria dei terreni sui quali gli stessi proprietari hanno presentato un piano di lottizzazione, ma non ha provato il mancato utilizzo ai fini agricoli di tali aree.
Per le motivazioni suesposte e ogni altra eccezione disattesa restando assorbita da quanto prefato, l'appello deve essere accolto e, alla soccombenza, deve seguire la condanna al pagamento delle spese di giustizia che vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Commissione tributaria regionale di Milano, sezione staccata di Brescia, sezione 67,definitivamente pronunciando, così decide:
- in accoglimento dell'appello riforma la sentenza di primo grado e annulla l'atto impugnato; le spese di giudizio quantificate in euro 1.500,00 (millecinquento/00) seguono la soccombenza (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Può sussistere la compatibilità paesaggistica circa la sopraelevazione del tetto di circa 40 cm al colmo, e di circa 30 cm in gronda, con maggiore altezza interna del sottotetto.
(a) la nozione di volume utile ai fini urbanistici non è perfettamente sovrapponibile a quella applicata in sede paesistica. L’elemento che rileva nei giudizi paesistici è la percepibilità del volume come ingombro alla visuale;
(b) nello specifico, la sopraelevazione del tetto è stata determinata da un’interpretazione tecnica dello spessore del pacchetto isolante e da un errore nella realizzazione del sostegno centrale in cemento (v. relazione tecnica – doc. 8 del ricorrente). Il maggior volume così ottenuto non rileva ai fini urbanistici, in quanto l’altezza virtuale di ogni piano è fissata in 3 metri;
(c) ai fini paesistici questa qualificazione potrebbe non bastare, in quanto la scelta di aggiungere elementi isolanti all’esterno della sagoma preesistente, senza ridurre le altezze interne, e a maggior ragione l’ingiustificata sopraelevazione del sostegno centrale, comportano il rischio di aumentare l’impatto visivo dell’edificio;
(d) tuttavia, l’incremento dell’impatto visivo non deve essere valutato sulla base di variazioni marginali, ma solo una volta che sia stata superata una certa soglia di percepibilità. In altri termini, se l’altezza di un edificio viene aumentata in misura modesta, e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in quanto la differenza risulta spalmata sui preesistenti elementi architettonici e non può essere percepita come un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior volume non si può definire come utile, e di conseguenza non rappresenta un ostacolo all’accertamento di compatibilità;
(e) resta peraltro ferma la necessità di quantificare il suddetto volume ai fini della determinazione del risarcimento ambientale previsto dall’art. 167, comma 5, del Dlgs. 167/2004, in quanto la maggiore altezza dei locali costituisce una misura del vantaggio ricavato dal proprietario dell’edificio.

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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento del responsabile del Settore Edilizia Privata e Urbanistica prot. n. 10283 del 01.08.2014, con il quale è stato negato in via definitiva l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, in relazione ad alcune opere non autorizzate, eseguite nel corso dei lavori di ristrutturazione di un edificio in via S. Giorgio;
- dell’ordinanza del responsabile del Settore Edilizia Privata e Urbanistica n. 223 del 10.10.2014, con la quale è stata ingiunta la rimessione in pristino;
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Considerato a un sommario esame:
1. Il ricorrente Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero, nel corso dei lavori di ristrutturazione di un edificio situato nel Comune di Toscolano Maderno in via S. Giorgio, ha eseguito una serie di opere non previste dal titolo edilizio.
2. Trattandosi di area sottoposta a vincolo paesistico, il ricorrente ha chiesto al Comune l’accertamento di compatibilità ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
3. Il responsabile del Settore Edilizia Privata e Urbanistica, con provvedimento del 01.08.2014, ha respinto la richiesta, evidenziando che alcune difformità (sopraelevazione del tetto di circa 40 cm al colmo, e di circa 30 cm in gronda, con maggiore altezza interna del sottotetto) comportano la formazione di volume utile ai sensi dell’art. 167, comma 4-a, del Dlgs. 167/2004. Vi sono poi accessi e aperture su cui la Soprintendenza si era espressa negativamente. Al diniego di compatibilità ha fatto seguito l’ordinanza n. 223 del 10.10.2014, con la quale è stata ingiunta la rimessione in pristino.
4. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le seguenti osservazioni:
(a) la nozione di volume utile ai fini urbanistici non è perfettamente sovrapponibile a quella applicata in sede paesistica (v. TAR Brescia Sez. I 08.01.2015 n. 14). L’elemento che rileva nei giudizi paesistici è la percepibilità del volume come ingombro alla visuale;
(b) nello specifico, la sopraelevazione del tetto è stata determinata da un’interpretazione tecnica dello spessore del pacchetto isolante e da un errore nella realizzazione del sostegno centrale in cemento (v. relazione tecnica – doc. 8 del ricorrente). Il maggior volume così ottenuto non rileva ai fini urbanistici, in quanto l’altezza virtuale di ogni piano è fissata in 3 metri;
(c) ai fini paesistici questa qualificazione potrebbe non bastare, in quanto la scelta di aggiungere elementi isolanti all’esterno della sagoma preesistente, senza ridurre le altezze interne, e a maggior ragione l’ingiustificata sopraelevazione del sostegno centrale, comportano il rischio di aumentare l’impatto visivo dell’edificio;
(d) tuttavia, l’incremento dell’impatto visivo non deve essere valutato sulla base di variazioni marginali, ma solo una volta che sia stata superata una certa soglia di percepibilità. In altri termini, se l’altezza di un edificio viene aumentata in misura modesta, e l’effetto sul paesaggio non è evidente, in quanto la differenza risulta spalmata sui preesistenti elementi architettonici e non può essere percepita come un’aggiunta o un’incongruenza, il maggior volume non si può definire come utile, e di conseguenza non rappresenta un ostacolo all’accertamento di compatibilità;
(e) resta peraltro ferma la necessità di quantificare il suddetto volume ai fini della determinazione del risarcimento ambientale previsto dall’art. 167, comma 5, del Dlgs. 167/2004, in quanto la maggiore altezza dei locali costituisce una misura del vantaggio ricavato dal proprietario dell’edificio.
5. Per le restanti questioni la sede appropriata di trattazione appare quella di merito.
6. In definitiva, sussistono le condizioni per concedere una misura cautelare sospensiva.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
(a) accoglie la domanda cautelare come precisato in motivazione;
(b) fissa per la trattazione del merito l'udienza pubblica del 25.11.2015 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 13.01.2015 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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