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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di NOVEMBRE 2015

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aggiornamento al 06.11.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 06.11.2015

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Ancora sulla quota annuale di iscrizione all'ordine/albo professionale da parte dei tecnici pubblici dipendenti:

la Ragioneria Generale dello Stato dice la propria in risposta ad un quesito di un comune. Di seguito il sunto giornalistico e la nota ministeriale:

PUBBLICO IMPIEGOIl legale non paga per l’Albo. Dipendenti pubblici. Due le condizioni: elenco speciale e rapporto subordinato.
La Ragioneria generale dello Stato ha emesso un parere sulla competenza a pagare l'iscrizione dei dipendenti pubblici agli albi professionali.
Dopo la sentenza della Corte di Cassazione 7776/2015, e dopo che alcune sezioni regionali della Corte dei conti hanno ritenuto di non entrare nel merito, con la nota 19.10.2015 n. 79309 di prot. in risposta a una specifica richiesta di un comune, vengono forniti i chiarimenti operativi per gli enti locali.
Affinché i costi della tassa di iscrizione all'albo degli avvocati possano gravare sull'ente pubblico (e quindi essere rimborsati costituendo peraltro spese di personale), sono necessarie due contemporanee condizioni. Innanzitutto deve esistere carattere obbligatorio dell'iscrizione nell'elenco speciale annesso all'albo ai fini dell'espletamento dell'attività del professionista.
In secondo luogo vi deve essere il carattere esclusivo dell'esercizio dell'attività professionale in regime di subordinazione, in cui l'ente locale è l'unico soggetto beneficiario dei risultati di detta attività.
Il parere si occupa anche di altre categorie di dipendenti: ingegneri, architetti, geometri, assistenti sociali. In questi casi l'iscrizione al relativo albo professionale non assume, in via generale, carattere obbligatorio ai fini dell'espletamento delle attività cui soni preposti i lavoratori, né sussistono, elenchi speciali sul modello dell'albo degli avvocati. Quindi, viene a mancare la prima condizione sopra elencata e l'ente locale non può rimborsare la tassa di iscrizione all'albo professionale.
La Rgs, spiega, altresì che per i responsabili degli uffici tecnici non è richiesta l'iscrizione all'albo per la redazione di progetti a favore dell'amministrazione da cui dipendono e questo in virtù dell'articolo 90, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 163/2006, in quanto è sufficiente il rapporto di servizio esistente e la conseguente incardinazione nella struttura dell'ente
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

     Ebbene, nel confermare la nostra tesi siccome argomentata -da ultimo- nell'AGGIORNAMENTO AL 26.10.2015, tuttavia dobbiamo evidenziare che la risposta fornita non risolve il dilemma in materia edilizio-urbanistica. E bene ha fatto la R.G.S. a scrivere per conoscenza al Dipartimento della Funzione Pubblica, evidentemente più titolato in materia per porre la parola "fine" alla questione.
     Non ci resta che attendere -allora- che si pronunzi, debitamente interrogato in termini -da parte di un comune- di recente.
06.11.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

 

IN EVIDENZA

Tecnici comunali, okkio all'abuso di atti d'ufficio!!

     Due le fattispecie ex art. 328 c.p.:
1^- Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
2^- Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
     Circa la 1^ fattispecie, un responsabile dell'UTC ha compiuto una inazione a fronte di una richiesta di compimento di un atto di ufficio dettato da urgenti ragioni di giustizia, proveniente da un organo di polizia giudiziaria e connesso ad un bene di valore primario tutelato dall'ordinamento (repressione dei reati in materia edilizia).
     Circa la 2^ fattispecie, sempre un responsabile dell'UTC è stato condannato poiché la fattispecie di cui all'art. 328, comma 2, c.p., incrimina non tanto l'omissione dell'atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall'istanza di chi vi abbia interesse. L'omissione dell'atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell'agente, poiché questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l'atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, in tal modo, non già la mancata adozione dell'atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l'inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l'attività amministrativa.

C'è sempre da imparare ... e, soprattutto, affinare "la preparazione, l'efficienza, la prudenza e lo zelo" nello svolgimento quotidiano dei propri incombenti d'istituto!!

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Rifiuto di atti d'ufficio: quando il silenzio del Responsabile dell'Ufficio tecnico integra reato.
La contestazione in esame riguarda la autonoma fattispecie di cui al primo comma dell'art. 328 cod. pen. nella quale il pubblico ufficiale indebitamente (senza cioè che ne sia rinvenuta una giustificazione nella legge) rifiuta un atto del suo ufficio incidente su beni di interesse primario (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità), che deve essere compiuto senza ritardo.
La norma ora richiamata
richiede, quindi, che l'atto rifiutato sia "qualificato" e "indifferibile".
L'espressione "per ragioni di....", che figura nella norma incriminatrice, denota la causa dell'atto, espressamente richiamata dalle norme che ne regolano il compimento o desumibile da queste. L'urgenza di compiere l'atto, proprio perché questo va ad incidere su settori essenziali del vivere civile (particolari ragioni alle quali si è accennato), è imposta dal semplice verificarsi di una situazione corrispondente a quella, astrattamente prevista, in funzione della quale il pubblico ufficiale (o l'incaricato di un pubblico servizio) deve immediatamente attivarsi, per non pregiudicare il fine alla cui realizzazione l'atto è preordinato; l'indifferibilità dell'atto si valuta in base all'entità del danno, di tipo naturalistico o giuridico, che il ritardo potrebbe provocare.

All'imputato si è contestato il rifiuto di atti del suo ufficio, che, per ragioni di giustizia, avrebbe dovuto compiere senza ritardo.
Ed invero,
per provvedimento dato per ragione di giustizia deve intendersi qualunque provvedimento od ordine autorizzato da una norma giuridica per l'attuazione del diritto obiettivo e diretto a rendere possibile o più agevole l'attività del giudice, del Pubblico Ministero o degli ufficiali di polizia giudiziaria: sono infatti da comprendere tra le ragioni di giustizia non solo quelle inerenti all'attività giurisdizionale vera e propria, ma anche quelle che attengono all'attività d'indagine del P.M. o all'attività di polizia rivolta all'accertamento del reato o all'attuazione del diritto obiettivo, nel pubblico interesse.
Nella specie, si evince che
siamo in presenza di una inazione dell'imputato a fronte di una richiesta di compimento di un atto di ufficio dettato da urgenti ragioni di giustizia, proveniente da un organo di polizia giudiziaria e connesso ad un bene di valore primario tutelato dall'ordinamento (repressione dei reati in materia edilizia).

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RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palmi dichiarava non luogo a procedere nei confronti di Gi.Ge. per il reato di cui all'art. 328, comma primo, cod. pen., con la formula "perché il fatto non è previsto dalla legge come reato".
Al Ge.
era stato contestato di essersi rifiutato, quale responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Palmi, di riferire, a seguito di richiesta della polizia giudiziaria della polizia municipale di Palmi, se un'opera edilizia realizzata in detto Comune fosse penalmente rilevante.
Da quanto risulta dalla sentenza impugnata, a seguito di un sopralluogo effettuato dal personale del Comando della Polizia municipale di Palmi, unitamente all'imputato, veniva accertata che era in corso di realizzazione da parte di un privato un'opera muraria in cemento armato, senza alcuna autorizzazione. Il giorno seguente, la Polizia municipale inoltrava, senza ricevere alcuna risposta, richiesta all'imputato di riferire con sollecitudine se tale opera fosse penalmente rilevante.
Il Giudice dell'udienza preliminare, riportandosi ad un precedente giurisprudenziale del giudice di legittimità, riteneva che il fatto ascritto all'imputato non fosse previsto dalla legge come reato, in quanto la fattispecie legale prevista dall'art. 328 cod. pen. doveva ritenersi applicabile esclusivamente ai rapporti tra la pubblica amministrazione ed i privati.
2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palmi, chiedendone l'annullamento per violazione della legge penale e mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione (art. 606, comma 1, lett. b ed e cod. proc. pen.).
Lamenta il ricorrente che il giudice avrebbe erroneamente applicato un precedente giurisprudenziale riferito alla diversa fattispecie di cui al secondo comma dell'art. 328 cod. pen. e comunque smentito da altre pronunce di segno contrario.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
2. Gli argomenti posti a fondamento della decisione non sono corretti sotto il profilo giuridico.
Il precedente di legittimità richiamato dalla sentenza impugnata (Sez. 6, n. 2351 del 06/02/1998 - dep. 23/02/1998, Schillizzi A, Rv. 209978) si riferiva infatti a ben diversa situazione fattuale, essendosi pronunciata la Cassazione in merito all'applicabilità del secondo comma dell'art. 328 c.p. ai rapporti tra pubbliche amministrazioni.
Il caso sottoposto alla Suprema Corte riguardava invero una fattispecie di indebito rifiuto di un atto dell'ufficio che investiva il rapporto tra uffici amministrativi, fondato sul mero interesse dell'ufficio richiedente a promuovere il procedimento previsto dalla norma penale (richiesta, provvedimento o obbligo di risposta), sprovvisto di interesse qualificato all'adozione del richiesto atto amministrativo.
La contestazione in esame riguarda invece la autonoma fattispecie di cui al primo comma dell'art. 328 cod. pen. nella quale il pubblico ufficiale indebitamente (senza cioè che ne sia rinvenuta una giustificazione nella legge) rifiuta un atto del suo ufficio incidente su beni di interesse primario (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità), che deve essere compiuto senza ritardo.
La norma ora richiamata
richiede, quindi, che l'atto rifiutato sia "qualificato" e "indifferibile". L'espressione "per ragioni di....", che figura nella norma incriminatrice, denota la causa dell'atto, espressamente richiamata dalle norme che ne regolano il compimento o desumibile da queste. L'urgenza di compiere l'atto, proprio perché questo va ad incidere su settori essenziali del vivere civile (particolari ragioni alle quali si è accennato), è imposta dal semplice verificarsi di una situazione corrispondente a quella, astrattamente prevista, in funzione della quale il pubblico ufficiale (o l'incaricato di un pubblico servizio) deve immediatamente attivarsi, per non pregiudicare il fine alla cui realizzazione l'atto è preordinato; l'indifferibilità dell'atto si valuta in base all'entità del danno, di tipo naturalistico o giuridico, che il ritardo potrebbe provocare.
All'imputato Ge. si è contestato il rifiuto di atti del suo ufficio, che, per ragioni di giustizia, avrebbe dovuto compiere senza ritardo.
Ed invero,
per provvedimento dato per ragione di giustizia deve intendersi qualunque provvedimento od ordine autorizzato da una norma giuridica per l'attuazione del diritto obiettivo e diretto a rendere possibile o più agevole l'attività del giudice, del Pubblico Ministero o degli ufficiali di polizia giudiziaria: sono infatti da comprendere tra le ragioni di giustizia non solo quelle inerenti all'attività giurisdizionale vera e propria, ma anche quelle che attengono all'attività d'indagine del P.M. o all'attività di polizia rivolta all'accertamento del reato o all'attuazione del diritto obiettivo, nel pubblico interesse.
Nella specie, dagli elementi fattuali desunti dalla sentenza impugnata, si evince che
siamo in presenza di una inazione dell'imputato a fronte di una richiesta di compimento di un atto di ufficio dettato da urgenti ragioni di giustizia, proveniente da un organo di polizia giudiziaria e connesso ad un bene di valore primario tutelato dall'ordinamento (repressione dei reati in materia edilizia).
Alla luce di quanto premesso, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio al Tribunale di Palmi affinché, nel rispetto dell'art. 623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. provveda a un nuovo giudizio, attenendosi ai principi di diritto enunciati (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 22.10.2015 n. 44127 - udienza).
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Art. 328 c.p. - Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione
  
1. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
   2. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sul fatto che il pubblico dipendente non risponde, ad istanza, nei successivi 30 gg..
In tema di delitto di omissione di atti d'ufficio, il formarsi del silenzio-rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (art. 328, comma 2, c.p.).
La fattispecie di cui all'art. 328, comma 2, c.p., incrimina non tanto l'omissione dell'atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall'istanza di chi vi abbia interesse. L'omissione dell'atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell'agente, poiché questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l'atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, in tal modo, non già la mancata adozione dell'atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l'inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l'attività amministrativa.
In tal senso, la stessa formulazione della norma, che utilizza la congiunzione "e", delinea una equiparazione ex lege dell'omessa risposta che illustra le ragioni del ritardo alla mancata adozione dell'atto richiesto
.
Ne discende, conclusivamente, che
la richiesta scritta di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono, con il logico corollario che il reato si "consuma" quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l'atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 27.10.2014 la Corte d'appello di Messina, in riforma della sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Barcellona P.G. in data 25.02.2010, ha dichiarato Ci.Do., nella sua qualità di responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Santa Lucia del Mela, colpevole del delitto di cui all'art. 328, comma 2, c.p., per avere omesso di comunicare a Me.Se. l'esito di analisi chimiche effettuate sulla natura inquinante delle acque di scolo che attraversavano un fondo di sua proprietà, malgrado la richiesta del 27.12.2007 e la successiva diffida del 21.04.2008, condannandolo alla pena di euro 400,00 di multa.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è in parte fondato e va pertanto accolto nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati.
2. Il primo, il terzo ed il quarto motivo di doglianza sono inammissibili per manifesta infondatezza, poiché le relative censure sono state prospettate sulla base del richiamo ad un isolato precedente del 1998, rimasto del tutto superato dalla successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
Al riguardo, invero, deve ribadirsi la pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, che ha ormai da tempo stabilito il principio secondo cui,
in tema di delitto di omissione di atti d'ufficio, il formarsi del silenzio-rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, dep. 13/11/2013, Rv. 257706; Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep. 2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n. 5691 del 06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
Rispetto a tale indirizzo dominante, l'unico precedente giurisprudenziale contrario, cui ha fatto riferimento il ricorrente, non può essere sotto alcun profilo condiviso in quanto, come più volte evidenziato in questa Sede, sovrappone la questione del rimedio apprestato dall'ordinamento contro l'inerzia della pubblica amministrazione -consentendo con la finzione del silenzio-rifiuto che il cittadino possa procedere ad impugnazione- con i diversi aspetti problematici inerenti la responsabilità penale del pubblico funzionario.
Senza dire che, con l'esperibilità dei rimedi giurisdizionali avverso il silenzio-rifiuto, non soddisfano neppure interamente le esigenze di tutela nei confronti della pubblica amministrazione (basti pensare al vizio di merito dell'atto amministrativo).
La fattispecie di cui all'art. 328, comma 2, c.p., incrimina non tanto l'omissione dell'atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall'istanza di chi vi abbia interesse. L'omissione dell'atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell'agente, poiché questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l'atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, in tal modo, non già la mancata adozione dell'atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l'inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l'attività amministrativa.
In tal senso, la stessa formulazione della norma, che utilizza la congiunzione "e", delinea una equiparazione ex lege dell'omessa risposta che illustra le ragioni del ritardo alla mancata adozione dell'atto richiesto
(v., in motivazione, Sez. 6, 22.06.2011, n. 43647).
Ne discende, conclusivamente, che
la richiesta scritta di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono, con il logico corollario che il reato si "consuma" quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l'atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato (Sez. 6, 15.01.2014-20.01.2014, n. 2331).
Con riferimento ai su indicati motivi di doglianza, pertanto, la decisione impugnata ha fatto buon governo delle regole stabilite da questa Suprema Corte, ritenendo la condotta in contestazione idonea ad integrare gli estremi del reato omissivo sul pacifico rilievo, in punto di fatto, che la lettera di diffida e messa in mora del 21.04.2008, nonostante fosse direttamente rivolta al Sindaco, era stata da questi inoltrata, il successivo 30.04.2008, al responsabile del Servizio urbanistico tecnico, con l'esplicito "invito a darne immediato riscontro e relativa comunicazione al sottoscritto", così ponendolo in condizione di conoscere l'oggetto dell'incarico da adempiere, a lui affidato nella rispettiva qualità (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 06.10.2015 n. 42610 - udienza).
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Art. 328 c.p. - Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione
   1. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
  
2. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

06.11.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALISulla competenza progettuale dell'ingegnere relativamente ai lavori di adeguamento alle norme di sicurezza di una scuola media quale "bene monumentale”.
I
lavori realizzati sulla scuola media quale "bene monumentale" sono in prevalenza rivolti all’adeguamento impiantistico della struttura, oltre che a modificare parzialmente alcune parti strutturali, al fine di rimuovere le cosiddette barriere architettoniche e di realizzare le vie di fuga, e non sembrano quindi intaccare l’aspetto estetico dell’immobile. Ne consegue che non appaiono toccati, né tantomeno compromessi, gli interessi di natura culturale ed artistica che la Soprintendenza è deputata per legge a tutelare.
Pertanto, alla stregua del richiamato art. 52, co. 2, del R.D. 2537/1925, non si può ritenere sussistente nel caso in esame la asserita riserva di attività progettuale in favore degli architetti, dal momento che la citata norma, inserita nel “Regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto”, nell’individuare oggetto e limiti delle professioni in esame, stabilisce che “le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto;” precisando però subito dopo che “(…) la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Ed, infatti, anche la giurisprudenza citata dalla resistente Soprintendenza (C.d.S., VI, 21/2014), pronunciando sulla (diversa) questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale, ha precisato –in linea con la tesi qui sostenuta dal ricorrente– che tale riserva è comunque solo “parziale” in quanto “Ai sensi dell'art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925 non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell'architetto, ma solo le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell'ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico, restando invece nella competenza dell'ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l'edilizia civile vera e propria”.
E’ il caso di precisare che la sentenza del Consiglio di Stato appena esaminata ha dichiarato legittime le determinazioni amministrative che avevano escluso gli ingegneri dall'affidamento di un servizio diverso da quello oggi in esame: la direzione dei lavori ed il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e di recuperi funzionale di un immobile di interesse storico e artistico.
Il servizio oggetto del presente contenzioso, invece, come già segnalato, attiene principalmente alla revisione impiantistica ed alla messa in sicurezza dell’immobile; ossia, per usare le stesse parole del Consiglio di Stato, a “(…) lavorazioni strutturali ed impiantistiche rientranti nell’edilizia civile propriamente intesa”.
Ed è condivisibile sul punto la giurisprudenza che ritiene che “La nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi dell'art. 52 r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l'intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell'edificazione”.
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... per l'annullamento:
- del provvedimento della Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Messina del 22.07.2014 con il quale è stata denegato il rilascio del parere di competenza sul progetto esecutivo relativo ai lavori di adeguamento alle norme di sicurezza della Scuola media Giuseppe Mazzini di Messina, perché redatto solo da un ingegnere; ed ove occorra, della nota prot. 7202 dell’11.12.2013;
- della nota del Comune di Messina prot. 216824 del 19.09.2014 con la quale è stato dichiarato concluso l’incarico di progettazione del ricorrente; ed ove occorra della nota comunale prot. 124539 del 19.05.2014;
...
L’Ing. Em.Pa. espone di essere un libero professionista, iscritto all’albo degli ingegneri, incaricato negli anni 2000 e 2001 dal Comune di Messina di redigere la progettazione di massima ed esecutiva dei “lavori di adeguamento alle norme di sicurezza della Scuola media Mazzini”.
Dopo aver presentato il progetto di massima nel mese di dicembre 2001, l’Ing. Pa. ha presentato nel mese di giugno 2005 quello esecutivo, che è stato sottoposto ad approvazione delle amministrazioni interessate -tra le quali, la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Messina– nel corso della conferenza dei servizi ch ha avuto luogo nel mese di novembre 2005.
Successivamente, aderendo alle richieste di modifica avanzate dai Vigili del fuoco con riguardo alle vie di fuga della struttura, l’Ing. Pa. ha rettificato il progetto esecutivo, depositandolo nel mese di Marzo 2011; ulteriori modifiche a quest’ultima versione sono state poi effettuate dallo stesso professionista in adesione ai rilievi formulati dall’ente locale interessato; sicché, la stesura finale del progetto esecutivo è stata presentata nel mese di Novembre 2013.
Per la definitiva approvazione dell’impianto progettuale è stata allora riconvocata la conferenza dei servizi nel mese di Dicembre 2013. In tale contesto, la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Messina ha rilevato che l’intervento interessa un vasto edificio vincolato con D.D.S. n. 2076 del 13/09/2012, e che i lavori progettati sono riconducibili al restauro, manutenzione straordinaria ed adeguamento tecnologico; conseguentemente, ha denegato il parere di propria competenza, ritenendo che il progetto avrebbe dovuto essere sottoscritto da un architetto ai sensi dell’articolo 52 del R.D. 2537/1925.
L’amministrazione comunale, adeguandosi al parere della Soprintendenza, ha comunicato all’Ing. Pa. la risoluzione dell’incarico professionale conferitogli.
È seguita una richiesta di revisione in autotutela delle predette determinazioni, formulata dall’Ing. Pa. agli enti interessati. Ma quest’istanza è stata respinta con i provvedimenti indicati in epigrafe, che hanno definitivamente confermato il precedente assetto.
Avverso tali atti, l’Ing. Pa. ha proposto il ricorso in epigrafe, con il quale denuncia i seguenti vizi:
1.- Violazione falsa ed erronea applicazione degli articoli 51 e 52 del R.D. 2537/1925 - eccesso di potere per difetto dei presupposti, contraddittorietà, difetto di motivazione ed illogicità manifesta;
Le invocate disposizioni –si osserva- operano una distinzione tra le due categorie professionali di architetti ed ingegneri ai fini della possibilità di eseguire prestazioni sugli immobili, riservando ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di rilevante carattere artistico o sui beni di interesse storico e culturale; tuttavia, le stesse norme ammettono che in tali specifici settori la progettazione tecnica possa essere compiuta anche dall’ingegnere.
Nel caso di specie, la Soprintendenza -richiamando in motivazione una recente sentenza del Consiglio di Stato (n. 21/2014)- ha ritenuto che gli interventi progettati, riguardanti un immobile di interesse storico/culturale, richiedessero la specifica professionalità dell’architetto, acquisita attraverso la preparazione accademica specifica nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico ed artistico.
In direzione contraria alla tesi dell’amministrazione, il ricorrente deduce invece che gli interventi avrebbero ben potuto essere progettati anche da un ingegnere, dal momento che (i) afferiscono esclusivamente alla cd. parte tecnica (impiantistica e messa in sicurezza dell’immobile: impianti elettrico ed idrico; di riscaldamento; di trasmissione dati, telefonico e TV; impianto rete antincendio, porte antincendio, nuove vie di fuga prescritte dai VV.FF.; nuova scala antincendio esterna al primo piano), e (ii) non interferiscono con i valori architettonici, artistici e culturali tutelati dalla Soprintendenza.
In aggiunta, il ricorrente sottolinea come la Soprintendenza avesse -già nel corso della conferenza di servizi tenutasi nel 2005- approvato il progetto redatto dall’ingegnere, sebbene il complesso risultasse già a quel tempo sottoposto a tutela ope legis.
Costituitasi in giudizio per resistere al ricorso la Soprintendenza ha rilevato, per un verso, che l’approvazione del progetto effettuata nell’anno 2005 è da ascrivere ad una mera svista; per altro verso, che i lavori programmati, oltre alla installazione di vari impianti, contemplano anche l’abbattimento di barriere architettoniche, l’adeguamento dei locali interni e dei servizi igienici, il rifacimento della copertura, ed integrano quindi interventi di restauro e risanamento conservativo, di esclusiva competenza dell’architetto allorquando incidono su beni di interesse storico ed artistico.
È intervenuto in giudizio, a supporto della posizione del ricorrente, anche l’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Messina, che ha inteso tutelare le prerogative professionali della categoria rappresentata.
Con
ordinanza 05.12.2014 n. 932 questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare formulata dal ricorrente, ritenendo fondato il gravame.
All’udienza del 24.09.2015 la causa è passata in decisione.
Confermando la valutazione resa in fase cautelare, il Collegio ritiene di dover accogliere il ricorso valorizzando il dato fattuale della prevalentemente tecnica dei lavori previsti per la Scuola media Mazzini di Messina.
In particolare, tali lavori –come già visto- sono in prevalenza rivolti all’adeguamento impiantistico della struttura, oltre che a modificare parzialmente alcune parti strutturali, al fine di rimuovere le cosiddette barriere architettoniche e di realizzare le vie di fuga, e non sembrano quindi intaccare l’aspetto estetico dell’immobile. Ne consegue che non appaiono toccati, né tantomeno compromessi, gli interessi di natura culturale ed artistica che la Soprintendenza è deputata per legge a tutelare.
Pertanto, alla stregua del richiamato art. 52, co. 2, del R.D. 2537/1925, non si può ritenere sussistente nel caso in esame la asserita riserva di attività progettuale in favore degli architetti, dal momento che la citata norma, inserita nel “Regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto”, nell’individuare oggetto e limiti delle professioni in esame, stabilisce che “le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto;” precisando però subito dopo che “(…) la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Ed, infatti, anche la giurisprudenza citata dalla resistente Soprintendenza (C.d.S., VI, 21/2014), pronunciando sulla (diversa) questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale, ha precisato –in linea con la tesi qui sostenuta dal ricorrente– che tale riserva è comunque solo “parziale” in quanto “Ai sensi dell'art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925 non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell'architetto, ma solo le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell'ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico, restando invece nella competenza dell'ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l'edilizia civile vera e propria” (in questo senso anche C.d.S., VI, 5239/2006).
E’ il caso di precisare che la sentenza del Consiglio di Stato appena esaminata ha dichiarato legittime le determinazioni amministrative che avevano escluso gli ingegneri dall'affidamento di un servizio diverso da quello oggi in esame: la direzione dei lavori ed il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e di recuperi funzionale di un immobile di interesse storico e artistico.
Il servizio oggetto del presente contenzioso, invece, come già segnalato, attiene principalmente alla revisione impiantistica ed alla messa in sicurezza dell’immobile; ossia, per usare le stesse parole del Consiglio di Stato, a “(…) lavorazioni strutturali ed impiantistiche rientranti nell’edilizia civile propriamente intesa”.
Ed è condivisibile sul punto la giurisprudenza che ritiene che “La nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi dell'art. 52 r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l'intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell'edificazione” (Tar Lecce 708/2012).
In definitiva, sulla base di quanto argomentato, il ricorso va accolto col conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 29.10.2015 n. 2519 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla competenza progettuale dell'ingegnere relativamente ai lavori di adeguamento alle norme di sicurezza di una scuola media quale "bene monumentale”.
Nella progettazione esecutiva dei lavori appaiono prevalenti le opere di impiantistica rispetto alle opere civili vere e proprie, e queste ultime sembrano afferire più propriamente ad attività riguardante l’edilizia civile in senso stretto, che non l’edilizia di rilevante carattere artistico, per la quale soltanto opera la riserva di professione (architetto) contemplata dall’art. 52 del r.d. n. 2537/1925.
Pertanto, gli interventi previsti sembrano rientrare tutti nella sfera di competenze propria della figura professionale dell’ingegnere.
Inoltre, la Soprintendenza si era già pronunciata in senso favorevole alla realizzazione delle opere in argomento in sede di parere sul progetto definitivo redatto dal solo ingegnere, valutando le soluzioni progettuali previste per l’esecuzione dei lavori come idonee e compatibili con la rilevanza architettonica dell’immobile. Di talché la Soprintendenza avrebbe dovuto motivare puntualmente in ordine alle ragioni poste a fondamento del diverso apprezzamento espresso oggi sulla compatibilità dell’intervento con l’interesse affidato alla sue cure, e non limitarsi a rilevare genericamente la mancata applicazione del predetto art. 52.

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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
- del provvedimento della Soprintendenza di Messina prot. n. 4595/6 del 22.07.2014, con il quale non è stato reso il parere di competenza sul progetto esecutivo relativo ai lavori di adeguamento alle norme di sicurezza della Scuola media Giuseppe Mazzini di Messina, “in quanto il progetto è stato redatto esclusivamente dalla figura professionale dell’ingegnere su bene monumentale”;
- ove occorra, della nota della stessa Soprintendenza prot. n. 7202 dell'11.12.2013;
- della nota del Comune di Messina, prot. n. 216824 del 19.09.2014, con cui è stato dichiarato concluso l'incarico di progettazione del ricorrente;
...
- Ritenuto che nella progettazione esecutiva dei lavori appaiono prevalenti le opere di impiantistica rispetto alle opere civili vere e proprie, e che queste ultime sembrano afferire più propriamente ad attività riguardante l’edilizia civile in senso stretto, che non l’edilizia di rilevante carattere artistico, per la quale soltanto opera la riserva di professione contemplata dall’art. 52 del r.d. n. 2537/1925;
- Ritenuto, pertanto, che gli interventi previsti sembrano rientrare tutti nella sfera di competenze propria della figura professionale dell’ingegnere;
- Rilevato, inoltre, che la Soprintendenza si era già pronunciata in senso favorevole alla realizzazione delle opere in argomento in sede di parere sul progetto definitivo redatto dal solo ingegnere, valutando le soluzioni progettuali previste per l’esecuzione dei lavori come idonee e compatibili con la rilevanza architettonica dell’immobile (nota 23.11.2005, in atti);
- Ritenuto, conseguentemente, che la Soprintendenza avrebbe dovuto motivare puntualmente in ordine alle ragioni poste a fondamento del diverso apprezzamento espresso oggi sulla compatibilità dell’intervento con l’interesse affidato alla sue cure, e non limitarsi a rilevare genericamente la mancata applicazione del predetto art. 52;
- Ritenuto che sussiste, pertanto, il necessario “fumus” di fondatezza e che, in presenza altresì del danno grave ed irreparabile, occorre ordinare alla Soprintendenza di riesaminare la fattispecie in controversia, alla luce delle censure in ricorso e di quanto statuito con la presente ordinanza, entro il termine di giorni quindici dalla comunicazione o notifica, se anteriore, della presente ordinanza.
- Considerato che le spese della presente fase cautelare possono essere compensate atteso il carattere propulsivo del presente provvedimento cautelare;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Prima) accoglie l’istanza di misure cautelari, nei termini di cui in parte motiva (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, ordinanza 05.12.2014 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: LINEE DI INDIRIZZO PER IL MIGLIORAMENTO DELL’EFFICIENZA ENERGETICA NEL PATRIMONIO CULTURALE (MIBACT, 28.10.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Cumulabilità del congedo parentale fruito in modalità oraria con altri riposi o permessi. Chiarimenti (INPS, messaggio 03.11.2015 n. 6704 - link a www.inps.it).

SICUREZZA LAVOROOggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta a due quesiti di applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro in tema di sorveglianza sanitaria e di svolgimento del ruolo del medico competente (Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali, interpello 02.11.2015 n. 8/2015).

SICUREZZA LAVOROOggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta al quesito sull'istituto della delega di funzioni di cui all'art. 16 del d.lgs. n. 81/2008 (Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali, interpello 02.11.2015 n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.M. 19.03.2015 in materia di strutture sanitarie - Indirizzi applicativi (Ministero dell'Interno, nota 28.10.2015 n. 12580 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGOOggetto: rimborso tassa di iscrizione all'albo degli avvocati (Ministero dell'Economie e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, nota 19.10.2015 n. 79309 di prot.).

SEGRETARI COMUNALI: Oggetto: quesito in materia di trattamento economico del segretario comunale nel caso di convenzione per l'ufficio di segreteria (Ministero dell'Economie e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, nota 05.08.2015 n. 62711 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2015, "Referendum consultivo per la fusione per incorporazione di Comuni, ai sensi degli articoli n. 7, commi 3.1 e 4-bis e n. 9-bis, comma 3 della l.r. 29/2006 - Modulistica e modalità per l’effettuazione della consultazione della popolazione interessata" (decreto D.S. 30.10.2015 n. 9071).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2015, "Manutenzione e riqualificazione dei sentieri della montagna lombarda attraverso le comunità montane – approvazione dei criteri per l’attuazione degli interventi" (deliberazione G.R. 30.10.2015 n. 4251).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 03.11.2015, "Riordino dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei canoni di polizia idraulica" (deliberazione G.R. 23.10.2015 n. 4229).

APPALTI: G.U.U.E. 30.10.2015 n. L 286 "REGOLAMENTO (UE, EURATOM) 2015/1929 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 28.10.2015 che modifica il regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012 che stabilisce le regole finanziarie applicabili al bilancio generale dell'Unione".
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Appalti pubblici, dal 01.01.2016 si applicano le modifiche al Regolamento UE n. 966/2012
In vigore il nuovo Regolamento Ue 2015/1929 che assicura l'allineamento della terminologia del regolamento del 2012 a quella delle direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE.

È entrato in vigore il 31.10.2015 il Regolamento (UE, Euratom) 2015/1929 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28.10.2015 che modifica il regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012.
Il regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012, che ha stabilito le norme relative alla formazione e all'esecuzione del bilancio generale dell'Unione europea, contiene anche disposizioni in materia di appalti pubblici. Poiché le direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE sono state adottate il 26.02.2014, si è reso necessario modificare il regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012 per tenerne conto in riferimento ai contratti aggiudicati dalle istituzioni dell'Unione per proprio conto.
Pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 30.10.2015, il nuovo Regolamento (UE, Euratom) 2015/1929 (IN ALLEGATO) aggiunge alcune definizioni e apporta taluni chiarimenti tecnici per assicurare che la terminologia del regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012 sia allineata a quella delle direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE.
MODIFICHE E INTEGRAZIONI. Il nuovo Regolamento, che si applica a decorrere dal 01.01.2016, sostituisce l'intestazione del titolo V “Appalti pubblici e concessioni”, sostituendo gli articoli in materia di: definizioni (art. 101); misure di pubblicità (103); procedure di appalto (104); preparazione di una procedura di appalto (105); criteri di esclusione e sanzioni amministrative (106); rigetto di una procedura di appalto (107); sistema di individuazione precoce e di esclusione (108); aggiudicazione dei contratti (110); presentazione, comunicazione elettronica e valutazione (111); contatti durante la procedura di appalto (112); decisione di aggiudicazione e informazione dei candidati o offerenti (113); annullamento della procedura di appalto (114); garanzie (115); errori sostanziali, irregolarità e frodi (116); l'amministrazione aggiudicatrice (117); soglie applicabili e periodo di status quo (118); norme in materia di accesso agli appalti (119); norme dell'Organizzazione mondiale del commercio in materia di appalti (120); misure di follow-up (166); norme in materia di accesso agli appalti (191).
Inoltre, il nuovo Regolamento sopprime l'art. 109 e aggiunge i seguenti articoli su: appalto interistituzionale e appalto congiunto (104-bis); tutela degli interessi finanziari dell'Unione attraverso l'individuazione dei rischi e l'imposizione di sanzioni amministrative (105-bis); esecuzione e modifiche del contratto (114-bis) (commento tratto da www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2015:
Determinazioni in merito ai tempi ed alle modalità di presentazione e/o aggiornamento, per l’anno 2016, della comunicazione per l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e degli altri fertilizzanti azotati prevista dalle d.g.r. n. 2208/2011 allegato I (zone vulnerabili) e n. 5868/2007 – allegato 2 (zone non vulnerabili) (deliberazione G.R. 27.10.2015 n. 8920);
Individuazione dei periodi di divieto di spandimento degli effluenti di allevamento e dei fertilizzanti azotati di cui al d.m. 07.04.2006 per la stagione autunno vernina 2015/2016 (deliberazione G.R. 27.10.2015 n. 8921).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2015, "Art. 22-quater della l.r. 86/1983: direttori dei parchi regionali - Individuazione dei requisiti professionali e delle competenze per il conferimento dell’incarico di direttore del parco da parte della Giunta regionale" (deliberazione G.R. 23.10.2015 n. 4226).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 44 del 30.10.2015, "Disciplina della gestione del demanio lacuale e idroviario e dei relativi canoni di concessione (articoli 50 e 52, l.r. 6/2012)" (Regolamento Regionale 27.10.2015 n. 9).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 30.10.2015 n. 253 "Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio delle metropolitane" (Ministero dell'Interno, decreto 21.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2015,  "Ottavo aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 26.10.2015 n. 8850).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 27.10.2015 n. 250 "Attuazione della direttiva 2013/39/UE, che modifica le direttive 2000/60/CE per quanto riguarda le sostanze prioritarie nel settore della politica delle acque" (D.Lgs. 13.10.2015 n. 172).

URBANISTICA: G.U. 26.10.2015 n. 249 "Interventi per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate" (D.P.C.M. 15.10.2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: G. Buscema, Appalti pubblici: costo del lavoro, deroga “al ribasso” eccezionale (02.11.2015 - tratto da www.ispoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Veronese, LA NUOVA SCIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE (23.10.2015 - tratto da www.italiaius.it).
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SOMMARIO: § 1. La Legge n. 124/2015 tra disposizioni immediatamente operative, disposizioni di delegificazione e disposizioni di delega; § 2. La nuova SCIA: cosa cambia; § 3. La SCIA, la tutela del terzo ed il mendacio; § 4. Conclusioni: la ratio legis di tutela del segnalante e la posizione dei Comuni.

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Quesito: realizzazione di ascensore interno in edificio residenziale comportante la riduzione della scala comune mediante taglio rampe fino alla misura di cm. 80 - fattibilità (12.10.2015 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Gare, no all'esclusione automatica senza il Passoe.
La mancata inclusione del Passoe nell'offerta non comporta l'esclusione automatica dalla gara.

È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il parere di precontenzioso n. 165 del 07/10/2015 - rif. PREC 32/15/L  con riguardo al cosiddetto «Passoe», ossia al codice «Pass operatore economico» da rilasciare da parte del sistema Avcpass, oggi gestito dall'Autorità nazionale anticorruzione, ma che in futuro dovrebbe rientrare nelle competenze del ministero delle infrastrutture, secondo quanto prevede il testo attuale del disegno di legge delega sugli appalti all'esame dell'aula della camera.
Nella fattispecie oggetto del parere una stazione appaltante aveva bandito una gara senza specificare nel bando di gara l'obbligo per i concorrenti di inserimento, tra la documentazione da presentare a corredo dell'offerta, del documento Passoe. Si trattava quindi di decidere se fosse conforme alla normativa di settore l'ammissione alla procedura di tutti i concorrenti che non avevano prodotto il documento Passoe.
Il sistema di verifica dei requisiti (Avcpass) prevede, ai sensi di quanto stabilito dalla deliberazione dell'Autorita n. 111 del 20.12.2012 (poi modificata l'08.05. e il 05.06.2013) che ogni concorrente, tramite il sistema informativo, sia in possesso di un «Passoe» da inserire nella busta contenente la documentazione amministrativa.
L'Anac ha chiarito che la mancata inclusione del documento Passoe nella busta contenente la documentazione amministrativa, non può costituire causa di esclusione e quindi ha nella sostanza affermato che se una stazione non richiede la produzione del Passoe la gara è valida e i concorrenti non possono essere esclusi. Da ciò si deduce quindi che è consentito alla stazione appaltante verificare i requisiti autodichiarati dai concorrenti attraverso la successiva produzione materiale dei documenti a comprova dei requisiti stessi.
Il punto della questione è infatti che il sistema Avcpass non sembra funzionare a dovere al punto che la stessa Anac ha dovuto chiarire che, per quanto riguarda il Durc (per comprova del requisito della regolarità contributiva) va chiesto direttamente all'Inps, implicitamente considerando l'Avcpass un sistema di verifica non esclusivo.
D'altro canto la stessa giurisprudenza amministrativa aveva legittimato l'annullamento di una gara per malfunzionamento del sistema Avcpass (articolo ItaliaOggi del 31.10.2015).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La staffetta generazionale - Abbandonata prima di vedere la luce (CGIL-FP di Bergamo, nota 03.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/ E’ possibile che ad un dipendente in reperibilità sia riconosciuto il rimborso chilometrico nel caso che venga chiamato per intervento nella struttura?
Attualmente, nella vigente disciplina dell’istituto (art. 23 del CCNL del 14.09.2000) non esiste alcuna regola espressa su tale particolare profilo.
Infatti, un unico e generico riferimento è contenuto solo nell’art. 23, comma 2, del CCNL del 14.09.2000, secondo il quale: “In caso di chiamata l’interessato dovrà raggiungere il posto di lavoro assegnato nell’arco di trenta minuti”.
Ad avviso della scrivente Agenzia, pertanto, sulla base della disciplina contrattuale, spetta al singolo ente la definizione delle regole di dettaglio per la gestione dell’istituto.
A tal fine, ciascun ente può predisporre un proprio specifico regolamento o piano “aziendale” (strumenti di stampo privatistico e sicuramente più flessibili del Regolamento degli Uffici e dei Servi o altri , nel quale sono definite le modalità, organizzative ed operative, per la corretta ed efficace applicazione dell’istituto, in coerenza con le finalità dello stesso).
Sotto il profilo più squisitamente gestionale, nel medesimo regolamento, possono essere definite alcune e specifiche misure organizzative, come ad esempio:
a) i criteri per l'individuazione, in relazione a ciascun area di pronto intervento, del soggetto responsabile abilitato a decidere, in relazione alla situazione determinatasi, se attivare o meno l'intervento del soggetto in reperibilità;
b) i criteri per la predisposizione, in relazione alle diverse aree di intervento, degli elenchi dei lavoratori in reperibilità da porre a disposizione delle diverse strutture organizzative e, comunque, di chiunque può avere necessità del loro intervento (servizi di sicurezza, dirigenti delle diverse strutture, direttore generale, ecc.), nonché dei mezzi per rintracciarli;
c) le modalità di messa a disposizione del lavoratore dei mezzi o delle apparecchiature perché lo stesso sia effettivamente reperibile (ad esempio, al fine di garantire la continuità della reperibilità, la dotazione per tutta la durata della stessa, di uno specifico telefono cellulare di proprietà dell’ente) oppure la definizione concordata con il lavoratore delle modalità di utilizzo di mezzi o apparecchiature di sua proprietà;
d) le condizioni per rendere efficace l’intervento a seguito della chiamata, anche attraverso l’approntamento e la messa a disposizioni delle strumentazioni (meccaniche, tecnologiche, informatiche, ecc.) a tal fine eventualmente necessarie;
e) le modalità per la messa a disposizione del lavoratore dei mezzi di trasporto per effettuare l'intervento richiesto, ove necessari, o la definizione concordata con il lavoratore dell’uso di mezzi di trasporto di sua proprietà o anche solo di mezzi di trasporto pubblici, ove questi siano compatibili con i tempi richiesti dall'intervento.
Si coglie l’occasione per ricordare che, comunque, il rimborso delle spese di viaggio sostenute e l’autorizzazione al dipendente ad avvalersi del mezzo proprio, con connesso rimborso chilometrico, anche con riferimento al trattamento di trasferta (art. 41 del CCNL del 14.09.2000), sono state sottoposte a rigorose limitazioni con l’art. 6, comma 12, della legge n. 122/2010.
Infatti, con tale norma, il legislatore ha disposto, sia pure con alcune eccezioni, il venire meno delle disposizioni, anche contrattuali, che prevedevano il rimborso delle spese sostenute dal dipendente autorizzato a servirsi, per la trasferta, del mezzo proprio.
Per alcune indicazioni per la corretta applicazione dell’art. 6, comma 12, della legge n. 122/2010, si rinvia alla circolare n. 36 del 22.10.2010 ed alla nota prot. n. 100169/2012 del Ministero dell’Economia e delle Finanze nonché alla delibera n. 8/CONTR/11 del 2011 delle Sezioni Riunite in sede di controllo della Corte dei Conti (parere 07.10.2015 n. RAL-1791 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie e festività/Ferie/ Quanti giorni di ferie all’anno spettano al personale assunto per la prima volta a tempo determinato e a tempo parziale a 26 ore settimanali nel caso del tempo parziale orizzontale, verticale o misto? I 3 giorni di permesso per motivi personali dell’art.19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995 spettano proporzionati all’orario di lavoro?
Dalla sintetica formulazione dei quesiti prospettati, sembra doversi ritenere che vengano in considerazione due distinte problematiche:
a) la determinazione del numero dei giorni di ferie spettanti ad un lavoratore assunto con contratto a temine e a tempo parziale (a 26 ore settimanali) nei casi, rispettivamente, di tempo parziale orizzontale, verticale e misto;
b) definizione del numero dei giorni di permesso per motivi personali, di cui all’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, spettanti al lavoratore titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale, rispettivamente, di tipo orizzontale, verticale e misto.
Se tale interpretazione è corretta, sulle suddette problematiche si ritiene utile precisare quanto segue:
a) Ferie
In materia, si deve preliminarmente ricordare che, nel caso di rapporto di lavoro a tempo determinato, in materia di ferie, trova applicazione la disciplina dell’art. 7, comma 10, lett. a), del CCNL del 14.09.2000, secondo il quale al personale assunto a termine competono solo i giorni di ferie maturati in relazione alla durata del servizio prestato.
Fatta questa indispensabile premessa, per quanto riguarda il calcolo delle ferie in relazione alle tre diverse tipologie di tempo parziale contrattualmente previste, si evidenzia che:
1. tempo parziale orizzontale
Il dipendente titolare di tale tipologia di rapporto ha diritto al medesimo numero di giorni di ferie (come di festività soppresse) spettanti nell’ambito del rapporto di lavoro a tempo pieno. Come previsto dall'art. 6, comma 8 del CCNL del 14.09.2000, il trattamento economico di ciascuna giornata di ferie è comunque commisurato alla durata della prestazione giornaliera. Pertanto, il numero di giorni ferie, come determinato ai sensi del richiamato art. dell’art. 7, comma 10, lett. a,) del CCNL del 14.09.2000, per un lavoratore a tempo determinato e a tempo pieno sarà riconosciuto anche al lavoratore, sempre a tempo determinato, ma con rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale.
2. tempo parziale verticale
Al dipendente titolare di questa diversa tipologia di rapporto spetta un numero di giorni di ferie (e festività soppresse) proporzionato alle giornate di lavoro prestate nell’anno, confrontate con le ordinarie giornate d’obbligo previste nel rapporto a tempo pieno (art. 6, comma 8, del CCNL del 14.09.2000). Pertanto, il numero di giorni di ferie, calcolato ai sensi dell’art. 7, comma 10, lett. a) del CCNL del 14.09.2000, dovrà essere riproporzionato in relazione alle giornate di lavoro previste nell’ambito del rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale. Sulle modalità applicative della regola del riproporzionamento, di cui si è detto, alcune indicazioni generali sono già state fornite con l’orientamento applicativo RAL-340.
3. tempo parziale misto
Nel caso di rapporto a tempo parziale di tipo misto, trovano applicazione entrambe le forme di riproporzionamento previste, sia quella per il tempo parziale verticale che quella per il tipo orizzontale. Ai fini della quantificazione dei giorni di ferie spettanti, pertanto, in considerazione dell’articolazione dell’orario solo su alcuni giorni della settimana rispetto a quelli previsti per il tempo pieno, troverà applicazione la medesima regola prevista per il tempo parziale verticale. Per ciò che attiene al trattamento economico delle stesse, invece, troverà applicazione il riproporzionamento previsto per il tempo parziale orizzontale, nel senso che esso sarà commisurato alla durata della prestazione giornaliera.
b) Permessi per motivi personali
Le medesime regole sopra richiamate trovano applicazione anche per i tre giorni di permesso retribuito di cui all’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
Pertanto, al lavoratore a tempo parziale di tipo orizzontale i tre giorni di permesso dell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995 sono riconosciuti per intero.
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale e misto, troveranno applicazione le regole del riproporzionamento, come sopra illustrate relativamente al diverso istituto delle ferie.
Al fine di evitare ogni possibile equivoco interpretativo, si deve ricordare anche che al lavoratore a termine non possono essere riconosciuti i permessi retribuiti di cui si tratta, come già evidenziato nell’orientamento applicativo RAL-386 (parere 07.10.2015 n. RAL-1787 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Orario di lavoro/Attività prestata in giorno festivo - riposo compensativo/ Un titolare di posizione organizzativa, con orario di lavoro articolato su sei giorni settimanali, ha diritto, nel caso di lavoro prestato in giorno festivo infrasettimanale (ad es. 25 aprile, 15 agosto, ecc.), ad una giornata di riposo compensativo, così come disciplinato in generale dal CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali?
In relazione a tale problematica, la scrivente Agenzia non può che confermare il precedente, consolidato orientamento secondo cui il titolare di posizione organizzativa non ha diritto a compensi aggiuntivi o a riposi compensativi neppure nel caso di prestazione resa in giornata festiva infrasettimanale.
In tal senso, si richiamano le indicazioni ricavabili dall’orientamento applicativo RAL-614, che, come si evince chiaramente dalla sua formulazione testuale, ammette solo la possibilità di recuperare il lavoro eventualmente prestato del titolare di posizione organizzativa nel giorno del riposo settimanale e, sempre, in modo proporzionale alla durata dell’attività lavorativa effettivamente svolta (parere 14.07.2015 n. RAL-1779 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie e festività/Ferie/ Un dipendente di un ente, in distacco sindacale dal 1993, al rientro in servizio attivo per cessazione dello stesso, ha chiesto di fruire delle ferie maturate e non godute prima del distacco. E’ possibile concederle?
Nel merito del quesito formulato, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che, nella particolare situazione prospettata, al lavoratore rientrato in servizio, a seguito della cessazione del distacco sindacale, debba essere riconosciuta la possibilità di fruire del residuo di ferie maturate e non godute nella fase del rapporto di lavoro antecedente al distacco stesso.
Infatti, si tratta di ferie che, come si legge nel testo del quesito, il lavoratore aveva effettivamente già maturato e che lo stesso si è trovato nell’impossibilità oggettiva di fruire per effetto del collocamento in distacco sindacale.
In proposito, si ritiene utile richiamare i seguenti principi già espressi nei vari orientamenti applicativi pubblicati sul sito istituzionale dell’Agenzia:
a) le ferie sono un diritto irrinunciabile;
b) le ferie non fruite nel periodo previsto dal CCNL, possono sempre essere fruite anche in periodi successivi;
c) l’art. 5, comma 8, della legge n. 135/2012 ha disposto il divieto di monetizzazione delle ferie non godute dei pubblici dipendenti (art. 5, comma 8, della legge n. 135/2012), salvo i limitati casi in cui questa possa ritenersi ancora possibile sulla base delle citate previsioni legislative e delle indicazioni fornite dal Dipartimento della Funzione Pubblica con le note n. 32937 del 06.08.2012 e n. 40033 dell’08.10.2012 (parere 10.07.2015 n. RAL-1775 - link a www.arangenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Discipline particolari/Unioni di Comuni e servizi in convenzione/Servizi in convenzione/ E’ possibile stipulare una convenzione, ai sensi dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004, per l’utilizzo di un lavoratore dipendente a tempo pieno da altro comune, prevedendo un orario massimo di lavoro di 48 ore settimanali, di cui 30 da eseguirsi presso il comune di appartenenza e le restanti 18 ore presso quello utilizzatore?
Il dipendente in questione, già titolare di posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza sarà incaricato di altra posizione organizzativa presso l’ente utilizzatore, per le 18 ore svolte presso lo stesso.
Può ciascun ente liquidare con busta paga le spettanze di propria competenza?

Relativamente a tale problematica, preliminarmente, si ritiene utile ricostruire la effettiva portata dell’istituto:
a) la disciplina dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004 trova applicazione nel caso di personale utilizzato a tempo parziale da ente diverso da quello di appartenenza;
b) a tal fine è previsto, infatti, che gli enti locali possono utilizzare, per soddisfare le proprie esigenze organizzative, personale assegnato da altri enti del comparto per periodi determinati e per una parte dell’orario ordinario d’obbligo, con il consenso dei lavoratori interessati e secondo le regole definite preventivamente mediante una convenzione da concordarsi tra gli enti interessati;
c) la convenzione, in particolare, deve disciplinare: la durata del periodo di utilizzazione, il tempo di lavoro e la relativa articolazione tra i due enti, la ripartizione degli oneri e i conseguenti adempimenti reciproci, ogni altro aspetto ritenuto utile per una corretta gestione del rapporto di lavoro;
d) in considerazione della circostanza che la disciplina contrattuale faccia riferimento al “rispetto del vincolo dell’orario d’obbligo”, si deve ritenere che la utilizzazione da parte di un ente diverso da quello di appartenenza possa avvenire solo per una parte dell’ordinario orario di lavoro settimanale che, contrattualmente, è dovuto dal dipendente interessato presso l’ente di appartenenza;
e) quindi, la clausola contrattuale consente a due enti di utilizzare lo stesso lavoratore ma solo nell’ambito dell’orario complessivo (normalmente 36 ore settimanali) cui è tenuto, sulla base del proprio contratto individuale, il dipendente presso l’ente di appartenenza, attraverso una distribuzione dello stesso secondo le previsioni della convenzione di utilizzazione.
Conseguentemente, si deve escludere ogni soluzione che porti ad un ampliamento dell’orario ordinario di lavoro del dipendente di cui si tratta, neppure ove questo si determini solo in relazione al servizio presso l’ente utilizzatore; infatti, occorre ricordare, per espressa previsione dell’art. 14 sopra richiamata, il rapporto di lavoro continua a far capo esclusivamente all’ente di appartenenza, sulla base dei contenuti del contratto individuale a suo tempo sottoscritto, escludendosi ogni possibilità di modifica anche e soprattutto sul punto dell’orario di lavoro. Pertanto, la ripartizione delle prestazioni del dipendente tra l’ente di appartenenza e quello utilizzatore non può portare ad un risultato implicante un mutamento del suo orario di obbligo di 36 ore settimanali.
Indicazioni in ordine alla particolare ipotesi del dipendente utilizzato a tempo parziale, cui sia stato conferito l’incarico di posizione organizzativa sia presso l’ente di appartenenza sia presso il diverso ente utilizzatore, sono ricavabili dagli orientamenti applicativi già formulati in materia e consultabili nella specifica sezione di questo sito.
Infine, si evidenzia che le modalità di erogazione al dipendente dei trattamenti economici di competenza di ciascuno degli enti interessati sono liberamente determinate dagli stessi in sede di predisposizione e stipulazione della convenzione di cui all’art. 14, comma 1, del CCNL del 22.01.2004.
Al fine di evitare ogni possibile equivoco applicativo, poi, si ritiene opportuno anche ricordare che la disciplina dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2204 è completamente diversa, nei contenuti e nelle modalità applicative, da quella dell’art. 1, comma 557, della legge n. 311/2004.
Conseguentemente, deve escludersi ogni possibilità di sovrapposizione, anche solo parziale, delle stesse (parere 11.06.2015 n. RAL-1769 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/ Un dipendente, che lavora dalle 8,00 alle 14,00 dal martedì al venerdì, può essere messo continuativamente in reperibilità dalle 14,00 del martedì fino alle 8,00 del mercoledì, dalle 14,00 del mercoledì fino 8,00 del giovedì, dalle 14,00 del giovedì alle 8,00 del venerdì, considerando ciascun periodo dalle 14,00 alle 8,00 del giorno seguente come “unica volta”?
L’art. 23 del CCNL del 14.09.2000 (e successive modifiche ed integrazioni) si limita a prevedere come vincolo per l’utilizzazione dell’istituto, la possibilità di inserire un dipendente in fasce di reperibilità per non più di sei volte nell’arco del mese.
Non è prevista una specifica indicazione della durata massima del singolo periodo di reperibilità.
Le dodici ore richiamate all’art. 23, comma 1, del CCNL del 14.09.2000, infatti, rappresentano esclusivamente il parametro per la misura del compenso da corrispondere al dipendente in reperibilità e non possono essere intese come un limite massimo di durata del turno di reperibilità.
Pertanto, nell’ambito delle 24 ore della giornata lavorativa, il periodo di reperibilità può avere una durata diversificata fino ad un massimo di 24 ore.
Occorre poi ricordare che il servizio di pronta reperibilità non è attivabile nei casi nei quali vengano in considerazione attività da svolgere nell’ambito dell’orario di servizio adottato, dato che queste possono essere evidentemente svolte dal personale che deve rendere la ordinaria prestazione lavorativa.
Nello stesso senso, si richiama l’art. 23, comma 4, del CCNL del 14.09.2000, secondo il quale l’indennità di reperibilità “…. non compete durante il l’orario di servizio a qualsiasi titolo prestato…..”.
Alla luce di quanto sopra detto, si ritiene che nella fattispecie prospettata, ciascuna fascia oraria di reperibilità prevista dalle ore 14.00 di un giorno alle ore 8.00 di quello seguente, dovrà essere considerata un distinto ed autonomo periodo di reperibilità (per un totale, ai fini del rispetto del numero massimo mensile, di tre periodi di reperibilità) (parere 11.06.2015 n. RAL-1768 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie e festività/Ferie/ Un dipendente, che ha presentato le proprie dimissioni nel rispetto del periodo di preavviso quantificato nel rispetto della vigente disciplina contrattuale in materia, può fruire delle ferie durante il suddetto periodo di preavviso?
In proposito, si deve ricordare che l’art. 12, comma 6, del CCNL del 09.05.2006 (che ha sostituito l’art. 39, comma 6, del CCNL 06.07.1995, così come modificato dal CCNL del 13.05.1996), nel disporre che le ferie non possono essere assegnate e quindi fruite dal dipendente, durante il preavviso, sostanzialmente ribadisce quanto già disposto dall’art. 2109, comma 4, del codice civile.
Nell’ambito del divieto di fruizione durante il periodo di preavviso, rientrano sia le ferie maturate e non fruite prima dello stesso, sia quelle che si vanno a maturare nel corso del medesimo periodo di preavviso.
Ove eccezionalmente, in difformità dalla previsione contrattuale, sia comunque avvenuta la fruizione delle ferie durante il preavviso, si ritiene che esso sia prorogato in misura corrispondente, salva la possibilità di rinuncia al preavviso stesso da parte del soggetto che riceve la comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro per un periodo corrispondente alle ferie fruite.
Si applica, cioè, in via analogica il principio privatistico per cui le diverse ipotesi di assenza dal lavoro (malattia ecc.) sospendono il decorso del preavviso. E ciò trova la sua spiegazione nella circostanza che fino alla scadenza del periodo di preavviso il rapporto è ancora giuridicamente attivo e quindi trovano applicazione ancora tutti gli istituti ad esso attinenti.
La possibilità di rinunciare al preavviso, anche nel corso dello stesso, è prevista espressamente dall’art. 12, comma 5, del CCNL del 09.05.2006 (parere 04.06.2015 n. RAL-1762 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie e festività/Ferie/ Il personale interessato alla reperibilità può essere in ferie e contemporaneamente coprire il servizio di reperibilità?
Relativamente alla possibilità di collocare in reperibilità un dipendente durante il periodo di godimento delle ferie, occorre tenere conto della più forte tutela riconosciuta al diritto alle ferie derivante dalle disposizioni del D.Lgs. n. 66/2003.
Infatti, è indubbio che la reperibilità, anche se non equivale alla esecuzione della prestazione lavorativa, incide ugualmente sul riposo e sulla piena possibilità di svago che le ferie devono garantire (ad esempio il dipendente non potrebbe allontanarsi per una crociera).
Ciò non toglie, tuttavia, che, durante le ferie, il dipendente debba essere disponibile al rientro per urgenti necessità, come ipotizzato dall’art. 18, comma 11, del CCNL del 06.07.1995.
Tale previsione, però, non si presta a consentire anche la pianificazione della reperibilità con appositi turni, secondo le caratteristiche tipiche dell’istituto (parere 04.06.2015 n. RAL-1761 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/ Il personale interessato alla reperibilità può essere in ferie e contemporaneamente coprire il servizio di reperibilità?
Relativamente alla possibilità di collocare in reperibilità un dipendente durante il periodo di godimento delle ferie, occorre tenere conto della più forte tutela riconosciuta al diritto alle ferie derivante dalle disposizioni del D.Lgs. n. 66/2003.
Infatti, è indubbio che la reperibilità, anche se non equivale alla esecuzione della prestazione lavorativa, incide ugualmente sul riposo e sulla piena possibilità di svago che le ferie devono garantire (ad esempio il dipendente non potrebbe allontanarsi per una crociera).
Ciò non toglie, tuttavia, che, durante le ferie, il dipendente debba essere disponibile al rientro per urgenti necessità, come ipotizzato dall’art. 18, comma 11, del CCNL del 06.07.1995.
Tale previsione, però, non si presta a consentire anche la pianificazione della reperibilità con appositi turni, secondo le caratteristiche tipiche dell’istituto (parere 04.06.2015 n. RAL-1760 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/ Un lavoratore può essere reperibile dalle 14,00 del venerdì alle 8,00 del lunedì, considerando quest’ultimo intervallo di reperibilità non come una “unica volta” di 66 ore, ma considerandolo in reperibilità per “tre volte” consecutive (un periodo di 18 ore e 2 periodi di 24 ore)?
Nel caso prospettata del lavoratore collocato in reperibilità dalle 14 del venerdì alle 8,00 del lunedì, ai fini del rispetto del vincolo derivante dall'art. 23, comma 3, del CCNL del 14.09.2000 dalla suddetta clausola contrattuale, si dovrà fare riferimento a tre periodi distinti di reperibilità, anche di diversa durata:
il primo dalle 14 del venerdì alle 14 del sabato, di 24 ore;
il secondo dalle 14 del sabato alle 14 della domenica, di 24 ore;
il terzo dalle 14 della domenica alle 8,00 del lunedì, di 18 ore.
Per le ore del servizio di reperibilità prestate dalle 00,01 alle 24,00 della domenica sarà corrisposta l’indennità raddoppiata prevista dall’art. 23, comma 1, del citato CCNL del 14.09.2000 per i casi di reperibilità cadente in giornata festiva, anche infrasettimanale, o di riposo settimanale (parere 04.06.2015 n. RAL-1759 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie e festività/Ferie/ Un dipendente chiede di fruire di un giorno di ferie in data 10 aprile. Il giorno 9 si assenta per malattia, presentando un certificato medico con una prognosi di due giorni (i giorni 9 e 10). In questa ipotesi, la domanda di ferie deve considerarsi implicitamente annullata oppure il giorno di ferie deve essere computato ugualmente?
L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che l’insorgere della malattia prima del godimento di un giorno di ferie, regolarmente richiesto ed autorizzato dal datore di lavoro pubblico, prevale comunque sull’altra tipologia di assenza.
Per effetto della malattia, quindi, a partire dal giorno indicato sul certificato medico e per la durata ivi indicata, il lavoratore si deve considerare solo in malattia.
L’imputazione della assenza a malattia determina, conseguentemente, la mancata fruizione del giorno di ferie, che potrà essere goduto successivamente, sempre previa formulazione di una nuova richiesta all’ente (parere 04.06.2015 n. RAL-1757 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/ Può essere collocato in reperibilità, con il riconoscimento della relativa indennità, il personale assegnato agli uffici durante l’apertura al pubblico degli stessi?
Conformemente allo spirito dell'istituto (comportante l'obbligo del dipendente di restare a disposizione del datore di lavoro ed eventualmente di fornire la propria prestazione lavorativa, ove necessario), qualunque dipendente può essere collocato in reperibilità, purché al di fuori dell'orario di lavoro (in tal senso l'art. 23, comma 4, del CCNL del 14.09.2000, espressamente dispone: "l'indennità di reperibilità ... non compete durante l'orario di servizio a qualsiasi titolo prestato").
Infatti, se il lavoratore fosse già in servizio, non avrebbe senso, anche e soprattutto sotto il profilo dei costi, collocarlo in reperibilità, in quanto il datore di lavoro nell'esercizio del suo potere direttivo, già potrebbe avvalersi in via diretta delle sue prestazioni, anche sotto forma di lavoro straordinario (parere 27.04.2015 n. RAL-1749 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/ Spetta il raddoppio dell’indennità di reperibilità nel caso di un lavoratore, con articolazione dell’orario di lavoro su cinque giorni (lunedì–venerdì), che sia collocato in reperibilità nella giornata del sabato?
Relativamente a tale problematica, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) la reperibilità festiva è esclusivamente quella ricadente nel giorno del riposo settimanale o in altra giornata da considerarsi festiva per il dipendente, ivi comprese quelle infrasettimanali; solo per questa specifica e limitata ipotesi scatta il meccanismo del raddoppio dell’importo dell’indennità di reperibilità, ai sensi dell’art. 23, comma 1, del CCNL del 14.09.2000;
b) diversa dall’ipotesi della festività è quella della giornata in cui, comunque, il lavoratore non è tenuto a rendere la sua prestazione lavorativa in considerazione della particolare articolazione dell’orario di lavoro settimanale, in virtù del quale le 36 ore di obbligo sono ripartite su un ridotto numero di giorni rispetto a quelli che compongono la settimana (la cosiddetta settimana corta che, come è noto, prevede, normalmente, cinque giorni lavorativi a settimana); in questa ipotesi, il giorno in cui non è dovuta la prestazione lavorativa resta pur sempre lavorativo a tutti gli effetti ma a zero ore (in quanto le ore di prestazione sono state già rese negli altri giorni della settimana) e, conseguentemente, l’eventuale periodo di reperibilità viene remunerato con l’ammontare ordinario dell’indennità, senza farsi luogo al raddoppio della stessa, proprio perché non si tratta di giorno festivo (parere 27.04.2015 n. RAL-1743 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie e festività/Ferie/ Un dipendente con contratto di lavoro a tempo indeterminato, inquadrato nella categoria D, in un profilo con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3, al quale è stato conferito presso lo stesso ente di appartenenza un incarico dirigenziale, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000, può fruire delle ferie maturate e non godute dallo stesso nel corso del precedente rapporto di lavoro non dirigenziale nell’ambito del successivo rapporto di lavoro a termine quale dirigente presso lo stesso datore di lavoro pubblico?
L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che il dipendente potrà fruire delle ferie residue maturate e non fruite nell’ambito del rapporto di lavoro non dirigenziale solo al momento della cessazione di questo rapporto, successivamente alla scadenza dell’incarico dirigenziale allo stesso conferito ai sensi dell’art. 110, comma 1, del DLlgs. n. 267/2000.
La fruizione, nel corso dell’incarico dirigenziale, delle ferie maturate nell’ambito del rapporto non dirigenziale non può ammettersi, dato che questo è di natura completamente diversa e distinta dal primo, anche se intercorrente con lo stesso datore di lavoro (parere 23.04.2015 n. RAL-1739 - link a www.arangenzia.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa richiesta di parere formulato inerente la possibilità o meno di riconoscere “il pagamento delle spettanze relative ai costi sostenuti per l’iscrizione all’Albo degli Architetti e per l’Assicurazione personalmente contratta da parte di un ex dipendente del Comune, Architetto, inquadrato nella Cat. C” è inammissibile dal punto di vista oggettivo, in quanto il quesito posto all’attenzione si risolve in una valutazione circa la legittimità di atti e comportamenti che rientrano nell’autonomia decisionale spettante all’amministrazione richiedente, non presentando, pertanto, i necessari presupposti di astrattezza e generalità ed implicando perciò considerazioni afferenti l’attività concreta dell’ente.
Inoltre,
la materia non rientra nel concetto di contabilità, inteso quale complesso di disposizioni che regolano il sistema del bilancio ed i relativi equilibri, quali: acquisizione e gestione dei mezzi finanziari e patrimonio pubblico e, quindi, in particolare, disciplina dei bilanci, acquisizione delle entrate, organizzazione finanziaria e contabile, disciplina del patrimonio, gestione delle spese, indebitamento, rendicontazione e relativi controlli.

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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione –con nota prot. n. 17443/1.13.9 del 16.07.2015– una richiesta di parere, formulata dal Sindaco del Comune di Campo nell’Elba (LI), inerente la possibilità o meno di riconoscere “il pagamento delle spettanze relative ai costi sostenuti per l’iscrizione all’Albo degli Architetti e per l’Assicurazione personalmente contratta da parte di un ex dipendente del Comune, Architetto, inquadrato nella Cat. C.
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Nel caso de quo,
la Sezione ritiene che la richiesta sia inammissibile dal punto di vista oggettivo, in quanto il quesito posto all’attenzione si risolve in una valutazione circa la legittimità di atti e comportamenti che rientrano nell’autonomia decisionale spettante all’amministrazione richiedente, non presentando, pertanto, i necessari presupposti di astrattezza e generalità ed implicando perciò considerazioni afferenti l’attività concreta dell’ente.
Inoltre,
la materia non rientra nel concetto di contabilità, inteso quale complesso di disposizioni che regolano il sistema del bilancio ed i relativi equilibri, quali: acquisizione e gestione dei mezzi finanziari e patrimonio pubblico e, quindi, in particolare, disciplina dei bilanci, acquisizione delle entrate, organizzazione finanziaria e contabile, disciplina del patrimonio, gestione delle spese, indebitamento, rendicontazione e relativi controlli (cfr. SS.RR. deliberazione n. 54/2010; si veda anche, in terminis, la deliberazione n. 158 del 17.11.2010 di questa Sezione).
Occorre, pertanto, ribadire il principio in virtù del quale
le richieste di parere debbono presentare il connotato della rilevanza generale e non possono essere funzionali all’adozione di specifici atti gestionali che rientrano nell’autonomo potere discrezionale dell’ente, volto all’adozione dei provvedimenti inerenti la gestione finanziaria ed amministrativa (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 28.10.2015 n. 494).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIl d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, preclude espressamente, per il futuro, la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione (…)”.
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Al fine di individuare l’annualità alla quale riferirsi per la verifica del limite massimo per l’erogazione degli incentivi al singolo dipendente che è pari al 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo, deve farsi riferimento al momento della corresponsione degli stessi e, quindi, alla fase del pagamento, in quanto l’art. 93, c. 7-ter, del Codice degli appalti prevede
(“Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno”) che si debba avere riguardo al momento dell’erogazione del riconoscimento incentivante.
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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione –con nota prot. n. 8751/1.13.9 del 14.04.2015– una richiesta di parere, formulata dal Sindaco metropolitano di Firenze, in cui si chiede se, alla luce delle modifiche introdotte, in materia di incentivi alla progettazione, ad opera degli artt. 13 e 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114, sia previsto o meno l’obbligo di esclusione dell’incentivo per le attività manutentive, sia ordinarie che straordinarie, nonché, al fine di individuare l’annualità alla quale riferirsi per la verifica del limite massimo per la corresponsione degli incentivi che è pari al 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo, se si debba far riferimento al momento della liquidazione oppure alla fase del pagamento dei medesimi.
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Nel merito, questa Sezione ha avuto già modo di affrontare la questione interpretativa concernente la spettanza dell’incentivo di progettazione con parere, assunto con parere 12.11.2014 n. 237, reso nei confronti della Regione Toscana, ove si è rappresentato che “Posto che l’incentivo in questione dà luogo ad una ipotesi derogatoria del principio di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione, e non si presta pertanto a interpretazione analogica, le numerose pronunce delle Sezioni regionali di controllo intervenute nella materia (si vedano, fra le altre: Sez. controllo Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72 e parere 28.05.2014 n. 188; Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 24; Sez. controllo Piemonte, parere 28.02.2014 n. 39 e parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana, parere 13.11.2012 n. 293 e parere 19.03.2013 n. 15) fanno emergere alcuni orientamenti consolidati:
la possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi manutentivi; in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva); si devono escludere dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in economia).
In base a tali orientamenti, appare evidente che
le ipotesi di riconoscibilità dell’incentivo ad attività di manutenzione ordinaria, anche laddove riconosciute astrattamente possibili, presenterebbero in concreto margini molto limitati, spettando comunque all’ente di valutare quale sia la soglia minima di complessità tecnica e progettuale che ne giustifichi la corresponsione (così Sez. controllo Puglia, parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114).
Va peraltro sottolineato che in passato la Sezione Toscana ha adottato l’interpretazione più restrittiva, ritenendo che
“l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e traendone la conclusione che, a priori, i lavori di manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le attività retribuibili con l’incentivo in questione (Sez. controllo Toscana, parere 19.03.2013 n. 15, alle cui considerazioni si fa qui rinvio; conforme anche Sez. Liguria, parere 10.05.2013 n. 24).
Sul punto è ormai intervenuto il d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114 che, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5,
preclude espressamente, per il futuro, la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione (…)
”.
In riferimento al secondo quesito proposto, questo Collegio ritiene che,
al fine di individuare l’annualità alla quale riferirsi per la verifica del limite massimo per l’erogazione degli incentivi al singolo dipendente che è pari al 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo, debba farsi riferimento al momento della corresponsione degli stessi e, quindi, alla fase del pagamento, in quanto l’art. 93, c. 7-ter, del Codice degli appalti prevede (“Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno”) che si debba avere riguardo al momento dell’erogazione del riconoscimento incentivante (in terminis, si veda anche Sez. autonomie deliberazione 24.03.2015 n. 11) (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 28.10.2015 n. 490).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Sicché,
anche le attività di manutenzione straordinaria consentano l’erogazione dell’incentivo l’incentivo alla progettazione come attualmente normato, ma solo laddove richiedenti un’attività di progettazione.

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Il parere (formulato dal Presidente della Provincia di Mantova) concerne la corretta interpretazione della nuova disciplina in materia di incentivo alla progettazione interna di opere pubbliche, in passato regolata dal previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 12.04.2006, n. 163 - codice dei contratti pubblici (abrogato dall’art. 13 del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con l. 11.08.2014, n. 114) e ora dall’art. 13-bis della l. 114/2014, che ha inserito, nell’art. 93 d.lgs. 163/2006, quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies).
In particolare la richiesta verte sulla disposizione che esclude "le attività manutentive" dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione (comma 7-ter, secondo periodo, dell'art. 93 del d.lgs. n. 163/2006).
Si chiede, nello specifico, se (in base alla lettera della norma) tra le attività escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione rientrino, oltre ai lavori di manutenzione ordinaria, anche quelli di manutenzione straordinaria.
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La Sezione ha avuto modo di evidenziare che,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
Nel parere 08.10.2012 n. 425 e parere 24.10.2012 n. 453 della Sezione, dopo averne richiamato il tenore letterale, è stato sottolineato come la normativa in materia di c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previsti dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, codificato anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie) in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale interno occorre far riferimento, ai fini della loro remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e seguenti).
L’incentivo in commento costituisce, infatti, uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione. In quanto tale costituisce un’eccezione di stretta interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile, cfr. altresì Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara).
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150 dell’Autorità di vigilanza);
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale “
le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 (riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92, comma 5) dispone che “la corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia invece negativo, scatta la medesima regola della devoluzione in economia esaminata in precedenza (cfr. in tal senso, sia pure nel previgente contesto normativo, la deliberazione 22.06.2005 n. 69 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici).
In estrema sintesi, quindi,
la novella normativa ha lasciato intatto il potere dell’amministrazione di riconoscere, sia pure con le diverse forme e entro i nuovi limiti indicati, incentivi per l’attività di progettazione e per l’attività di supporto alla progettazione esterna, intaccando per contro (sez. Toscana, parere 05.03.2015 n. 12) la diversa fattispecie (art. 92, comma 6, del codice dei contratti) concernente la redazione di atti pianificatori pur sempre connessi all’espletamento di un’opera pubblica.
Con riguardo al quesito specificamente posto dal Comune, occorre rilevare che l’art. 3, comma 1, lett. b), d.p.r. 06.06.2001, n. 380, definisce gli “interventi di manutenzione straordinaria" come “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso. Nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso”.
La Sezione regionale di controllo delle Marche, con parere 17.12.2014 n. 141, ha ritenuto conseguentemente che "
Il nuovo testo dell'art. 92 cit. così come risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 90/2014 ha espressamente/previsto che i criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano le attività manutentive. L'interpretazione formatasi sulla precedente formulazione dell'art. 92 cit. aveva già escluso dalle attività remunerabili con l'incentivo in questione gli interventi di manutenzione ordinaria, facendo salve le sole manutenzioni straordinarie (cfr. Sezione controllo Toscana parere 19.03.2013 n. 15).
Infatti, secondo il riferito indirizzo giurisprudenziale le manutenzioni straordinarie sarebbero riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione di opere pubbliche al compimento delle quali la norma subordina l'erogazione dell'incentivo.
Il Collegio non ha motivi per discostarsi dal predetto orientamento interpretativo ritenendo che la modifica al testo dell'art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi relativi agli interventi di manutenzione straordinaria. Infatti, premesso che nel sistema delineato dall'art. 92 cit. l'erogazione dell'incentivo è collegato alla realizzazione di un'opera pubblica, si evidenzia che l'art. 3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 equipara espressamente gli interventi di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli come spese d'investimento per le quali, peraltro, è consentito il ricorso all'indebitamento. (b) la costruzione, la demolizione, la ristrutturazione, il recupero e la manutenzione straordinaria di opere e impianti
”.
Occorre rilevare, inoltre, che secondo la disciplina del codice dei contratti pubblici (art. 3, commi 7 e 8), gli “appalti pubblici di lavori” sono “appalti pubblici aventi per oggetto l'esecuzione o, congiuntamente, la progettazione esecutiva e l'esecuzione, ovvero, previa acquisizione in sede di offerta del progetto definitivo, la progettazione esecutiva e l’esecuzione, relativamente a lavori o opere” (…); tra essi rientrano “le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione, di opere”.
Le riferite indicazioni normative (dettate ad altri fini) devono comunque essere coordinate con la littera e la ratio legis, atteso che deve essere ribadito quanto in precedenza affermato dalla Sezione in precedente relativo il previgente incentivo alla progettazione (parere 06.03.2013 n. 72), secondo cui
l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro” ma “solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione”.
In conclusione, l’avviso della Sezione è nel senso che
anche le attività di manutenzione straordinaria consentano l’erogazione dell’incentivo l’incentivo alla progettazione come attualmente normato, ma solo laddove richiedenti un’attività di progettazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.10.2015 n. 351).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa legge n. 190/2014 (Legge finanziaria statale per il 2015) all’art. 1, comma 424, ha previsto che gli Enti Locali, per gli anni 2015 e 2016, destinino le risorse disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Al riguardo è stato chiarito, tra l’altro, che:
-
le risorse da destinare alle finalità di cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni intervenute nel 2014 e nel 2015;
-
la predetta capacità assunzionale deve essere destinata in via prioritaria all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate al 01.01.2015;
-
le risorse rimanenti devono essere destinate ai processi di mobilità del personale soprannumerario degli enti di area vasta.
Tanto premesso,
rimangono consentite le assunzioni a valere sui budget degli anni precedenti.
Sicché,
qualora le cessazioni siano intervenute nel 2013, come nella specie, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014, valendo la sola disciplina illustrata al punto 2.2. della presente deliberazione –se del caso– anche per effettuare assunzioni dall’esterno di figure professionali non rintracciabili negli enti di area vasta.

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Il Sindaco del Comune di Quattro Castella (RE) ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere del seguente tenore:
«Siamo un comune soggetto al Patto di stabilità che negli anni 2010-2011-2012 ha avuto cessazioni di personale e che nel 2013 utilizzando parte delle quote assunzionali consentite dalle norme susseguitesi negli anni di riferimento ha provveduto all’assunzione di un’unità di personale part-time.
Al 31.12.2013, pertanto, il Comune aveva una capacità assunzionale residua di euro 17.000,00 ca., con la quale riteneva di potere effettuare nuove assunzioni nell’ambito della propria programmazione di fabbisogno di personale.
Alla luce dell’art. 1, commi da 418 a 430, della legge n. 190 del 2014 e della circolare n. 1 del 2015 del Ministero per la semplificazione della pubblica amministrazione e del Ministero affari regionali e le autonomie, e, in particolare, facendo riferimento a quest’ultima, alla voce “divieti ed effetti derivanti dai commi 424 e 425 per le Amministrazioni pubbliche”, della quale si riporta testualmente: “rimangono consentite le assunzioni a valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle previste da norme speciali”, si chiede:
- a quali anni si deve fare riferimento nella dicitura “budget degli anni precedenti?;
- se nella capacità assunzionale residuale relativa alle cessazioni degli anni 2010-2011-2012 ancora a disposizione dell’Amministrazione comunale possa essere utilizzata per assunzioni non rientranti in quelle disciplinate dai commi 424 e 425, a titolo di esempio per effettuate assunzioni dall’esterno di figure professionali non rintracciabili degli enti di area vasta, quali: educatori, insegnanti, farmacisti, necroforo, ecc.?
»
...
2.1. Il Collegio ritiene opportuno, preliminarmente, illustrare sinteticamente gli attuali limiti alla capacità assunzionale degli Enti Locali soggetti al patto di stabilità interno.
A tale proposito –nel richiamare il parere reso su questione analoga da parte della Sezione di controllo della Corte dei conti per la Regione Sardegna n. 32/2015– occorre ricordare che
la vigente disciplina vincolistica impone, da un lato, di contenere la spesa per il personale entro un certo tetto e, dall’altro, di limitare le nuove assunzioni alla parziale reintegrazione dei cessati (turn-over).
2.2. In particolare, l’art. 3, comma 5-bis, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha introdotto, all’art. 1, della L. n. 296/2006, il comma 557-quater che
ha previsto quale limite di spesa per il personale il “valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione” ovvero la media di quanto speso per il personale negli anni 2011, 2012 e 2013 (si veda sul punto la la
deliberazione 06.10.2014 n. 25).
Per potere assumere, però, non basta rispettare tale parametro. Infatti, sono previsti specifici vincoli di turn-over che si basano sul principio della parziale reintegrazione dei cessati.
In particolare,
per gli enti soggetti al patto di stabilità interno, l’art. 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha previsto la possibilità di assumere negli anni 2014 e 2015 un contingente di personale a tempo indeterminato nei limiti di una spesa pari al 60% di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente. Tale percentuale, ai sensi dell’art. 3, comma 5-quater, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, è destinata ad aumentare se l’incidenza della spesa per il personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25%. Così, nel 2014 si potrà assumere nei limiti dell’80% e dal 2015 nella misura del 100% della spesa sostenuta per il personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente.
Si deve, inoltre, ricordare che il citato art. 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha anche previsto che “
a decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile”.
Ciò significa che
qualora la cessazione sia intervenuta nel 2013, l’Ente Locale soggetto al patto di stabilità avrà nel 2014 una capacità assunzionale pari al 60% della spesa sostenuta per il personale cessato nel 2013 ed eventualmente dell’80% di tale spesa se il rapporto tra spesa per il personale e spesa corrente è pari o inferiore al 25%.
Se l’assunzione non viene effettuata nel 2014 ma programmata per il 2015, si potrà cumulare la capacità assunzionale del 2014 (60% o 80% della spesa per il personale cessato nel 2013) con quella del 2015 (60% o 100% della spesa per il personale cessato nel 2014), sempre che nel 2014 siano intervenute nuove cessazioni in quanto la capacità assunzionale di ogni anno si calcola sulle cessazioni intervenute nell’anno precedente
(si veda sul punto la deliberazione 21.11.2014 n. 27).
2.3. Su tale assetto normativo è intervenuta la L. n. 190/2014 (Legge finanziaria statale per il 2015) che all’art. 1, comma 424, ha previsto che
gli Enti Locali, per gli anni 2015 e 2016, destinino le risorse disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Per fare chiarezza sulla portata applicativa di tale norma sono intervenuti il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e il Ministro per gli affari regionali che, con la circolare 30.01.2015 n. 1/2015 citata nella richiesta di parere, hanno chiarito, tra l’altro, che:
-
le risorse da destinare alle finalità di cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni intervenute nel 2014 e nel 2015;
-
la predetta capacità assunzionale deve essere destinata in via prioritaria all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate al 01.01.2015;
-
le risorse rimanenti devono essere destinate ai processi di mobilità del personale soprannumerario degli enti di area vasta.
2.4. Tanto premesso,
rimangono consentite le assunzioni a valere sui budget degli anni precedenti.
Sicché,
qualora le cessazioni siano intervenute nel 2013, come nella specie, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014, valendo la sola disciplina illustrata al punto 2.2. della presente deliberazione –se del caso– anche per effettuare assunzioni dall’esterno di figure professionali non rintracciabili negli enti di area vasta (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 27.10.2015 n. 140).

INCENTIVO PROGETTAZIONEAlla luce dei principi recentemente affermati dalla Sezione delle Autonomie, la Sezione ritiene sia possibile in via generale riconoscere incentivi per la progettazione a tecnici interni per attività espletate per un’opera che risulti conclusa prima dell’entrata in vigore della legge n. 114 del 2014, ai sensi dell’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. 163/2006.
La Sezione sottolinea, tuttavia, che,
alla luce della giurisprudenza della Corte dei conti, antecedente alle modifiche normative introdotte dalla legge n. 114 del 2014, l’incentivo alla progettazione non poteva venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi fosse una necessaria attività di progettazione, in quanto dall’ambito applicativo della normativa in oggetto esulavano tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non fosse necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163 del 2006.
La Sezione ritiene, pertanto, che, anche nell’ipotesi in cui l’opera risulti conclusa prima dell’entrata in vigore della legge n. 114 del 2014, nessun incentivo per la progettazione possa essere riconosciuto in caso di lavori di manutenzione, che non siano supportati da una reale significativa attività progettuale.

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Con nota del 23.07.2015 il Consiglio delle Autonomie Locali della Sardegna ha trasmesso alla Sezione regionale di controllo la deliberazione n. 25 del 10.07.2015 con la quale rimette alla Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, la richiesta di parere dell’Amministratore Straordinario della Provincia del Medio Campidano in merito alla possibilità di riconoscere incentivi per la progettazione, ai sensi dell’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. 163/2006 oggi abrogati, a tecnici interni cui siano stati affidati lavori di manutenzione per un’opera che risulta conclusa prima dell’entrata in vigore della legge n. 114 dell’11.08.2014.
...
3. La questione oggetto della richiesta di parere è stata esaustivamente affrontata dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti con
deliberazione 24.03.2015 n. 11, in sede di questione di massima, sollevata a seguito di contrasto interpretativo tra più Sezioni, che ha chiarito quanto segue: "La disciplina in materia di riparto del fondo per l’incentivazione per la progettazione interna è stata riformulata ad opera degli artt. 13 e 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114.
La prima delle due disposizioni ha abrogato i commi 5 e 6 dell’art. 92 del codice dei contratti, concernenti rispettivamente la disciplina degli incentivi alla progettazione di opere o lavori e la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato. Il successivo art. 13-bis, inserito in fase di conversione in legge, ha introdotto nel testo dell’art. 93, dopo il comma 7, i commi dal 7-bis al 7-quinquies.
In particolare, il comma 7-ter è intervenuto ad individuare i criteri in base ai quali il fondo deve essere ripartito, stabilendo, fra l’altro, che gli incentivi, complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, anche da amministrazioni diverse, non possano superare l’importo del 50 per cento del trattamento complessivo annuo lordo.
La Sezione delle Autonomie afferma, in adesione alla tesi sostenuta da numerose Sezioni di controllo, ... l’irretroattività della legge ed, in particolare, delle disposizioni recate dall’art. 93, comma 7-ter, come introdotto dall’art. 13-bis della legge di conversione del d.l. n. 90/2014, che non possono essere considerate disposizioni di interpretazione autentica e pertanto non sono applicabili retroattivamente. Infatti, come precisato dalla giurisprudenza costituzionale, pur riconoscendosi l’importanza dell’intervento del legislatore, attuato attraverso leggi di interpretazione autentica, da considerarsi quale modalità per sopperire a lacune o errori nella formazione delle leggi, tuttavia, una legge, per essere riconosciuta quale norma interpretativa, deve limitarsi ad assegnare alle disposizioni interpretate un significato in esse già contenuto, individuabile come una delle possibili letture del testo originario. ...
Nel caso di specie le norme in esame, oltre ad avere carattere innovativo, verrebbero, ove interpretate in modo retroattivo, ad incidere su posizioni giuridiche in atto, senza che tale retroattività trovi giustificazione ragionevole, ponendosi, anzi, in contrasto con il principio generale di eguaglianza e con l’affidamento legittimamente sorto negli interessati. Le stesse, pertanto, devono, nella fattispecie, essere applicate alla luce del principio di irretroattività della norma. ... La Sezione delle Autonomie, in adesione alla soluzione prospettata dalla Sezione Basilicata, ... individua nel momento dell’approvazione dell’opera il riferimento temporale per la scelta della disciplina da applicare al caso di specie, prescindendo dal momento in cui le prestazioni incentivate siano state in concreto poste in essere. ...
Conclusivamente si ritiene che la questione di diritto intertemporale, ... possa essere risolta, ... facendo ricorso all’anzidetto principio di irretroattività della norma, da cui discende, alla luce della giurisprudenza costituzionale, la considerazione che la disposizione retroattiva, specie quando determini effetti pregiudizievoli rispetto ai diritti soggettivi “perfetti” che trovino la loro base in rapporti di durata di natura contrattuale convenzionale -pubbliche o private che siano le parti contraenti– deve, comunque, essere assistita da una causa normativa adeguata, intendendosi per tale una funzione della norma che renda accettabilmente penalizzata la posizione del titolare del diritto compromesso, attraverso contropartite intrinseche allo stesso disegno normativo e che valgano a bilanciare le posizioni delle parti (Corte Cost. sentenza n. 92/2013)
".
4. Alla luce dei principi recentemente affermati dalla Sezione delle Autonomie,
la Sezione ritiene sia possibile in via generale riconoscere incentivi per la progettazione a tecnici interni per attività espletate per un’opera che risulti conclusa prima dell’entrata in vigore della legge n. 114 del 2014, ai sensi dell’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. 163/2006.
La Sezione sottolinea, tuttavia, che,
alla luce della giurisprudenza della Corte dei conti, antecedente alle modifiche normative introdotte dalla legge n. 114 del 2014, l’incentivo alla progettazione non poteva venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi fosse una necessaria attività di progettazione, in quanto dall’ambito applicativo della normativa in oggetto esulavano tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non fosse necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 (cfr. Sez. Controllo Piemonte
parere 17.03.2014 n. 44; Sez. Controllo Liguria parere 24.10.2014 n. 60; Sez. Controllo Lombardia parere 06.03.2013 n. 72; cfr. anche Sez. Controllo Sardegna parere 20.10.2009 n. 73 e parere 30.01.2015 n. 11).
5.
La Sezione ritiene, pertanto, che, anche nell’ipotesi in cui l’opera risulti conclusa prima dell’entrata in vigore della legge n. 114 del 2014, nessun incentivo per la progettazione possa essere riconosciuto in caso di lavori di manutenzione, che non siano supportati da una reale significativa attività progettuale (Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna, parere 23.10.2015 n. 67).

PUBBLICO IMPIEGO: In ordine alla modalità di recupero, se al lordo o al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assicurative, di somme indebitamente erogate al personale comunale.
Trattandosi di ripetizione di somme indebitamente corrisposte a dipendenti pubblici, occorre ricordare che il ricupero delle stesse costituisce un comportamento doveroso che discende direttamente dalla previsione dell’articolo 2033 del codice civile
(“Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”).
Invero, ”
il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti a pubblici dipendenti costituisce per la P.A. l’esercizio di un vero e proprio diritto oggettivo a contenuto patrimoniale, ex art. 2033 Cod. Civ., avente di regola carattere di doverosità e privo di valenza provvedimentale, la cui azionabilità non è impedita né dall’eventuale percezione in buona fede delle somme non dovute né dall’eventuale destinazione delle stesse a bisogni primari della vita, che possono incidere esclusivamente sull’apprezzamento discrezionale in ordine ad un’eventuale gradualità del modo di recupero attraverso la concessione di rateizzazioni e/o dilazioni di pagamento”.
Ed ancora, “
la ripetizione dell’indebito nei confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le somme da quest’ultimo “percepite” in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente”.
Con la precisazione che “
l’Amministrazione non può invece pretendere di ripetere somme al lordo delle ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), allorché le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente” e che “quanto, poi, alle ritenute e versamenti fiscali erroneamente disposti dall’Amministrazione quale sostituto d’imposta, l’Amministrazione può provvedere alla richiesta di rimborso direttamente nei confronti del fisco, allorché sussistano le condizioni”.
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Con nota n. 17812 del 09.07.2015, il Sindaco del Comune di Marsciano (PG), per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria (nota 15.07.2015), ha chiesto, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, di conoscere l’avviso di questa Sezione in ordine alla modalità di recupero, se al lordo o al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assicurative, di somme indebitamente erogate al personale comunale.
Precisa il Sindaco che il Ministero dell’economia e delle finanze, che aveva rilevato l’erogazione di emolumenti dovuti, ha specificato che il recupero debba avvenire al lordo
...
Nel merito si premette che,
trattandosi di ripetizione di somme indebitamente corrisposte a dipendenti pubblici, occorre ricordare che il ricupero delle stesse costituisce un comportamento doveroso che discende direttamente dalla previsione dell’articolo 2033 del codice civile (“Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”).
In proposito il Consiglio di Stato, Sezione VI, con sentenza n. 2203 del 20.04.2004 ha sottolineato che ”
il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti a pubblici dipendenti costituisce per la P.A. l’esercizio di un vero e proprio diritto oggettivo a contenuto patrimoniale, ex art. 2033 Cod. Civ., avente di regola carattere di doverosità e privo di valenza provvedimentale (cfr., per tutte, C.G.A., 15.01.2002, n. 8; Cons. St., VI Sez., 20.02.2002, n. 1045), la cui azionabilità non è impedita né dall’eventuale percezione in buona fede delle somme non dovute né dall’eventuale destinazione delle stesse a bisogni primari della vita, che possono incidere esclusivamente sull’apprezzamento discrezionale in ordine ad un’eventuale gradualità del modo di recupero attraverso la concessione di rateizzazioni e/o dilazioni di pagamento”.
Lo stesso Consiglio di Stato, Sezione VI, con sentenza n. 1164 del 02.03.2009, chiamato a valutare se l’Amministrazione, nel procedere al recupero di somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, debba effettuare detto recupero al lordo o al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali, ha affermato che “
la ripetizione dell’indebito nei confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le somme da quest’ultimo “percepite” in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente”.
Con la precisazione che “
l’Amministrazione non può invece pretendere di ripetere somme al lordo delle ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), allorché le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente” (in termini Cassazione, Sez. lavoro, n. 1464 del 02.02.2012). Aggiungendo, infine, che “quanto, poi, alle ritenute e versamenti fiscali erroneamente disposti dall’Amministrazione quale sostituto d’imposta, l’Amministrazione può provvedere alla richiesta di rimborso direttamente nei confronti del fisco, allorché sussistano le condizioni”.
La Sezione ritiene di aderire a tale soluzione che si basa su un principio elementare il quale attiene alla regola civilistica dell’indebito arricchimento che non potrebbe estendersi alle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali le quali costituiscono somme che non sono pervenute nella disponibilità patrimoniale del dipendente.
In questi termini si era espressa anche la Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la deliberazione n. 65/2010/PAR del 26.01.2010 e più di recente la Sezione regionale di controllo per il Lazio con parere 15.06.2015 n. 125 (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 24.09.2015 n. 120).

ENTI LOCALI: Spese di rappresentanza - E' illegittimo, e fonte di danno erariale, assegnare un riconoscimento ai dipendenti comunali collocati in quiescenza, al fine di valorizzare con un atto preciso quanti hanno prestato per molti anni la loro opera al servizio del Comune e soprattutto a servizio della cittadinanza.
Non sono riconducibili tra le spese che possono essere legittimamente sostenute dall’Ente quelle in analisi relative all’acquisto di regali per il personale collocato in quiescenza.
Allo stesso tempo, ferma questa considerazione sul piano generale, la possibile sussumibilità nella species spese di rappresentanza risulta, comunque, preclusa per l’assenza del presupposto della sua destinazione “all’esterno” dell’Ente.
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Le spese di rappresentanza devono essere caratterizzate da un legame con il fine istituzionale dell’ente, oltre alla necessità effettiva per il medesimo di ottenere una proiezione esterna dell’amministrazione o di intrattenere relazioni pubbliche con soggetti estranei nell’ambito dei normali rapporti istituzionali.

Tali spese sono pertanto finalizzate ad apportare vantaggi che l’ente trae dall’essere conosciuto, quindi, non possono risolversi in mera liberalità. Sono prive della qualificazione di spese di rappresentanza quelle erogate in occasione e nell’ambito di normali rapporti istituzionali a favore di soggetti che non sono rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all’Ente che le dispone.
Devono inoltre essere rigorosamente giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in riferimento ai valori economici di mercato.

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Il Comune di Lissone (MB) ha trasmesso, con nota prot. CC n. 7869 del 01/07/2015, alla Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia, ai sensi dell’art. 16, comma 26, del D.L. n. 138/2011, conv. nella legge n. 148/2011, il prospetto delle spese di rappresentanza sostenute nell’esercizio finanziario 2014.
Con nota prot. CC n. 8531 del 23/07/2015, il Magistrato Istruttore chiedeva all’ente di fornire maggiori dettagli in relazione alla spesa di € 2.324,10 sostenuta per conferire un riconoscimento ai dipendenti comunali collocati in quiescenza.
Con nota prot. n. 2015 del 05/08/2015, l’Ente ha specificato che “è consuetudine dell’Amministrazione comunale assegnare un riconoscimento ai dipendenti comunali collocati in quiescenza, al fine di valorizzare con un atto preciso quanti hanno prestato per molti anni la loro opera al servizio del Comune e soprattutto a servizio della cittadinanza.
Con una deliberazione di consiglio comunale del 1986 erano state individuate le modalità di assegnazione e i tipi di riconoscimenti ai dipendenti comunali collocati in quiescenza (medaglia d’oro e diploma per dipendenti con più di 25 anni di servizio, medaglia d’argento per i dipendenti con più di 15 anni, ecc…).
Con nota del Settore Risorse Umane in data 07.10.2010 veniva comunicato al servizio acquisti/economato che, nel corso del 2014, venivano collocati in quiescenza cinque dipendenti con oltre 25 anni di servizio ai quali doveva essere riconosciuta la medaglia d’oro.
Il Settore Finanze, con determinazione n. 909 del 22.10.2014 (vedi allegato n. 4), provvedeva ad indire, tramite Sintel, procedura in economia mediante cottimo fiduciario per la fornitura delle cinque medaglie.
In relazione alle linee guida contenute nella deliberazione n. 151 del 26.04.2012 della Sezione di Controllo della Corte dei Conti della Lombardia, si fa presente che:
- tali spese sono state previste in apposito stanziamento del bilancio di previsione nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica;
- la finalità essenziale di tali spese è la valorizzazione dell’attività dell’ente a favore della collettività in quanto il riconoscimento ha un valore simbolico e non rappresenta esclusivamente un beneficio diretto a favore del dipendente;
- la spesa sostenuta si ritiene congrua rispetto ai valori di mercato essendo ricorsi, per la fornitura, ad un soggetto aggregatore quale la piattaforma Sintel di Regione Lombardia.
Per le motivazioni sopra esposta si ritiene che tale spesa sia rispondente ai principi di inerenza, ufficialità e congruità
”.
Conclusa l’istruttoria ed essendosi formato il contraddittorio con l’Ente, il Magistrato Istruttore, nota n. 49410248 del 26/08/2015, chiedeva al Presidente della Sezione il deferimento all’esame collegiale nella camera di consiglio convocata per il giorno 10/09/2015.
...
Giova preliminarmente ricordare, per quanto riguarda le spese prese in considerazione dall’istruttoria e dalla presente deliberazione, che sul punto è consolidato l’orientamento di questa Sezione secondo cui
le spese di rappresentanza devono essere caratterizzate da un legame con il fine istituzionale dell’ente, oltre alla necessità effettiva per il medesimo di ottenere una proiezione esterna dell’amministrazione o di intrattenere relazioni pubbliche con soggetti estranei nell’ambito dei normali rapporti istituzionali.
Tali spese sono pertanto finalizzate ad apportare vantaggi che l’ente trae dall’essere conosciuto, quindi, non possono risolversi in mera liberalità. Sono prive della qualificazione di spese di rappresentanza quelle erogate in occasione e nell’ambito di normali rapporti istituzionali a favore di soggetti che non sono rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all’Ente che le dispone (Corte dei Conti - Sez. Giurisdizionale Regione Veneto, 22.11.1996 n. 456 e Sez. Giurisdizionale Emilia Romagna, 05.06.1997 n. 326). Devono inoltre essere rigorosamente giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in riferimento ai valori economici di mercato (“non è comunque congruo mostrare prodigalità attraverso celebrazioni e rinfreschi, e semmai è richiesto il contrario, ossia l’evidenza di una gestione accorta che rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato espletamento delle funzioni sue proprie” – Sez. Giurisdizionale Abruzzo n. 394/2008).
Pur considerato il non rilevante importo assoluto della spesa considerata, la Sezione non può esimersi dal rilevare come l’elargizione posta in essere dall’Ente in favore dei propri dipendenti collocati in quiescenza presenti evidenti profili di criticità.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire (ex multis sentenza 27.09.2011, n. 417 - Sezione I giurisdizionale centrale d’Appello; Sez. controllo Emilia Romagna n. 271/2013) che
tale tipologia di spesa, non solo non è satisfattiva di alcun interesse pubblico, ma non corrisponde alla causa attributiva del relativo potere, con la conseguenza che non possa che esserne affermata l’illegittimità, anche in caso di importi modesti della stessa. Tali principi non possono che trovare diretta applicazione anche nel caso in esame, considerato anche il valore unitario della singola medaglia d’oro conferita ai cinque dipendenti con oltre 25 anni di servizio collocati in quiescenza (€ 381,00 + IVA cadauna).
Né a diverse conclusioni può condurre la circostanza che, come rappresentato dall’Ente, tale spesa sia stata sostenuta sulla base di “una deliberazione di consiglio comunale del 1986”, che individuava “le modalità di assegnazione e i tipi di riconoscimenti ai dipendenti comunali collocati in quiescenza (medaglia d’oro e diploma per dipendenti con più di 25 anni di servizio, medaglia d’argento per i dipendenti con più di 15 anni, ecc…)”. Al riguardo deve rilevarsi come il quadro normativo di riferimento risulti profondamente mutato.
Basti in questa sede il richiamo, in via esemplificativa, al disposto dell’art. 4 del D.P.R. n. 62/2013, che così statuisce: “1. Il dipendente non chiede, né sollecita, per sé o per altri, regali o altre utilità.
2. Il dipendente non accetta, per sé o per altri, regali o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore effettuati occasionalmente nell'ambito delle normali relazioni di cortesia e nell’ambito delle consuetudini internazionali. In ogni caso, indipendentemente dalla circostanza che il fatto costituisca reato, il dipendente non chiede, per sé o per altri, regali o altre utilità, neanche di modico valore a titolo di corrispettivo per compiere o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell’ufficio ricoperto.
3. Il dipendente non accetta, per sé o per altri, da un proprio subordinato, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore. Il dipendente non offre, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità a un proprio sovraordinato, salvo quelli d’uso di modico valore.
4. I regali e le altre utilità comunque ricevuti fuori dai casi consentiti dal presente articolo, a cura dello stesso dipendente cui siano pervenuti, sono immediatamente messi a disposizione dell’Amministrazione per la restituzione o per essere devoluti a fini istituzionali.
5. Ai fini del presente articolo, per regali o altre utilità di modico valore si intendono quelle di valore non superiore, in via orientativa, a 150 euro, anche sotto forma di sconto. I codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni possono prevedere limiti inferiori, anche fino all’esclusione della possibilità di riceverli, in relazione alle caratteristiche dell’ente e alla tipologia delle mansioni.
6. Il dipendente non accetta incarichi di collaborazione da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all’ufficio di appartenenza.
7. Al fine di preservare il prestigio e l’imparzialità dell’amministrazione, il responsabile dell’ufficio vigila sulla corretta applicazione del presente articolo
”.
Tale disposizione contenuta nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici -a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, come novellato dall’articolo 1, comma 44, della legge 06.11.2012, n. 190– contiene un principio che a fortiori non può che valere per riconoscimenti conferiti dalla stessa Amministrazione presso la quale il soggetto beneficiato ha prestato servizio, considerato che la relativa spesa non può che configurarsi come ulteriore rispetto a quella consentita dalla disciplina del rapporto di lavoro.
Ne consegue che
appaiono a monte non riconducibili tra le spese che possono essere legittimamente sostenute dall’Ente quelle in analisi relative all’acquisto di regali per il personale collocato in quiescenza. Allo stesso tempo, ferma questa considerazione sul piano generale, la possibile sussumibilità nella species spese di rappresentanza risulta, comunque, preclusa per l’assenza del presupposto della sua destinazione “all’esterno” dell’Ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 23.09.2015 n. 306).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Pressioni illecite: quando si concretizza la corruzione?
IL CASO: Nel caso in cui un consigliere comunale, accetta di votare a favore di una variante al piano urbanistico a fronte della promessa del terzo di garantirgli una progressione di carriera nell'azienda di appartenenza, quale reato è configurabile?
Ricorre la nuova fattispecie di traffico da influenze illecite o quello di corruzione?

(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario richiamare la norma che definisce il reato di traffico di influenze illecite, ovvero l'art. 346-bis c.p..
La norma così dispone: "Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.".
Il delitto di traffico di influenze (introdotto dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75), è fattispecie che punisce un comportamento propedeutico alla commissione di una eventuale corruzione e non è quindi, ipotizzabile quando sia già stato accertato un rapporto -come sembra ricorrere nel caso di specie- paritario tra il pubblico ufficiale ed il soggetto privato.
Di tanto è espressiva la clausola di esclusione posta dal comma 1 della norma citata, che definisce il rapporto della fattispecie con quelle corruttive di cui agli artt. 319 e 319-bis c.p., ponendo la condotta dei due soggetti attivi del traffico di influenze illecite -il "mediatore" ed il "compratore di influenze"- prima ed al di fuori del patto corruttivo, assumendo tale condotta un autonomo rilievo penale in ragione di una soglia anticipata di tutela voluta dal legislatore.
Dal punto di vista strutturale, elemento differenziale tra la fattispecie corruttiva e quella del traffico di influenze è rappresentato dal "prezzo", destinato -nel traffico di influenze- a retribuire l'opera di mediazione, e non potendo detto prezzo, neppure in parte, essere destinato all'agente pubblico, altrimenti realizzandosi un concorso nella corruzione attiva.
Sulla scorta di tal breve inquadramento giuridico, nel caso di specie pare non vi siano dubbi sul fatto che ricorre la fattispecie della corruzione e non del traffico di influenze illecite.
Ciò in quanto la promessa dell'intervento del legale rappresentante della ditta Alfa presso l'azienda municipalizzata presso cui lavorava il consigliere comunale, costituiva la controprestazione nei confronti del pubblico ufficiale (consigliere comunale) che aveva fatto mercimonio del proprio voto.
Nel caso di specie, in sostanza, ricorrono tutti gli elementi costitutivi del reato di corruzione per atti contrari ai propri doveri d'ufficio (art. 319.c.p.).
Come più volte chiarito dalla giurisprudenza (es. Sez. 6, Sentenza n. 2841 del 03/06/1987) rientrano nello schema concettuale degli elementi costitutivi, materiale e psicologico, del reato di all'art. 319 c.p., comma 1, la dazione e la promessa di denaro e altre utilità effettuate nei confronti di consiglieri comunali affinché costoro, compiendo un atto contrario al loro dovere di votare nel consiglio comunale in piena libertà, secondo scienza e coscienza, esprimano un voto già determinato e precostituito.
Ancora, in tema di corruzione propria, le dimissioni da una carica politica elettiva possono rappresentare un atto contrario ai doveri di ufficio, quando violano il dovere di imparzialità, ossia risultano poste in essere non già per una scelta discrezionale legittima, di natura squisitamente politica, ma a fronte del compenso promesso o ricevuto, con lo scopo di assicurare ad un soggetto privato il maggior beneficio, configurando quindi una "totale svendita" delle funzioni pubbliche (Sez. 6, Sentenza n. 36780 del 02/07/2003).
Infine, per concludere il breve richiamo giurisprudenziale, in relazione all'esercizio della pubblica funzione legislativa, è stato affermato che può ipotizzarsi il mercanteggiamento della funzione, qualora venga concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta vantazione degli interessi collettività, ma da quello prevalente di un privato corruttore (Sez. 6, Sentenza n. 21117 del 30/11/2005).
Alla luce di quanto sopra esposto, pertanto, non può dubitarsi che nel caso di specie debba ravvisarsi il reato di corruzione propria di cui risponderanno sia il consigliere (corrotto) che il legale rappresentante della ditta Alfa (corruttore) (tratto dalla newsletter 02.11.2015 n. 125 di http://asmecomm.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Dieci consiglieri bastano. Quorum necessario per validare la seduta. La prima convocazione in un comune con oltre 10 mila abitanti.
Quesito
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale?
Risposta
L'art. 38, c. 2, del Tuoel n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nella fattispecie in esame, il regolamento per il funzionamento del consiglio dispone che: «Il consiglio comunale in prima convocazione non può deliberare se non interviene almeno la metà dei consiglieri assegnati al comune senza computare il sindaco».
Considerato che il consiglio del comune, rinnovato a seguito delle elezioni amministrative in conformità con la normativa al tempo vigente, risulta composto, avendo una popolazione superiore ai 10 mila abitanti, dal sindaco e da venti consiglieri, ai sensi della citata norma regolamentare, il numero di componenti l'organo, necessario al fine della validità della seduta in prima convocazione, è di dieci consiglieri (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Presa visione dell'ODG.
Quesito
Quali sono i limiti temporali entro cui depositare la documentazione correlata agli argomenti all'ordine del giorno del consiglio comunale perché la stessa possa essere visionata dai partecipanti all'adunanza?
Risposta
In linea generale, le disposizioni regolamentari che, in sede locale, disciplinano tale materia attengono al diritto di accesso dei consiglieri comunali che viene esercitato nell'ambito del più ampio diritto all'informazione e alla trasparenza.
Infatti, «occorre... ricordare che la disponibilità dei documenti relativi agli argomenti da discutere in consiglio comunale, costituendo una formalità d'adempiere d'ufficio, da parte dell'apparato municipale, non coincide con lo speciale diritto d'accesso previsto da ultimo dall'articolo 43, secondo comma, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, che ha contenuto più ampio, comprendendo «tutte le notizie e le informazioni in... possesso» degli uffici, utili all'espletamento del proprio mandato, ottenibili a seguito di un atto d'iniziativa del singolo consigliere comunale» (cfr. Tar Puglia, sent. n. 351 del 18.02.2009).
Nel caso di specie, la prassi invalsa presso il comune di depositare la documentazione, in assenza di specifico regolamento, a partire dalla mattina precedente la seduta del consiglio sembra ispirarsi «al previgente articolo 292 del testo unico delle leggi comunali e provinciali approvato dal regio decreto 04.02.1915, n. 148, per il quale nessuna proposta può, nelle tornate periodiche ordinarie, essere sottoposta a deliberazione definitiva se non viene 24 ore prima depositata nella sala delle adunanze con tutti i documenti necessari per poter essere esaminata» (cfr. la già citata sentenza Tar Puglia).
In merito, fermo restando che il termine temporale di cui al soppresso art. 292 del T.U. n. 148/1915 non potrebbe essere più ritenuto quale parametro adeguato per la corretta informazione dei consiglieri, appare comunque necessaria l'adozione di specifica normativa regolamentare ai sensi dell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, che scandisca puntualmente i tempi di deposito della documentazione correlata alla discussione e all'approvazione delle questioni sottoposte al consiglio comunale.
Tale normativa, così come rilevato dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con sentenza n. 326/2012 «assolve a quel fondamentale diritto di adeguata e tempestiva informazione sugli argomenti da discutere che connota il funzionamento di tutti gli organi collegiali privati (es.: art. 2366 cod. civ. inerente le formalità di convocazione delle assemblee societarie) e pubblici».
Pertanto, in carenza di specifica disposizioni regolamentari e nelle more della loro adozione, il deposito della documentazione per la presa visione dei consiglieri, deve avvenire contestualmente alla notifica dell'avviso di convocazione (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Sono previste delle attenuanti speciali per i reati contro la P.A.?
IL CASO: se un funzionario, indagato per il reato di induzione a dare o promettere utilità, collabora con gli inquirenti per indicare altri soggetti coinvolti nella commissione del delitto, può ottenere delle attenuanti specifiche?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario ricordare che la Legge 27.05.2015 n. 69 (in vigore dal 14.06.2015), con l'art. 1, comma 1, lett. i), n. 1, ha introdotto una nuova attenuante da aggiungere al primo comma dell'art. 323-bis (induzione a dare o promettere utilità) del seguente tenore: "per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo a due terzi.".
La nuova circostanza attenuante limitata per i soli reati di corruzione e induzione indebita (balza agli occhi come non sia applicabile al reato di concussione, per la quale, tuttavia, il privato è parte offesa e non teme di indicare i responsabili) ha l'obiettivo, non celato, di abbattere il muro di silenzio e omertà che avvolge tali reati.
Le fattispecie criminose della corruzione e dell'induzione indebita, infatti, risultano difficili da intercettare soprattutto in considerazione del fatto che anche in entrambe le ipotesi (corruzione e induzione indebita) tutti i soggetti coinvolti, (privato e pubblico ufficiale) sono coinvolti come correi nel reato seppure con diverse responsabilità penali. Questo induce sia gli uni che gli altri a rafforzare i sodalizio omettendo informazioni preziose per ridurre i danni di tale reato o coinvolgere tutti i colpevoli.
L'attenuante per introdotta, in sostanza ottenere una collaborazione cosiddetta processuale, e dalla sua ragion d'essere nella ridotta capacità a delinquere del colpevole che, dopo la commissione del reato "si sia efficacemente adoperato", per conseguire uno dei seguenti risultati:
a) evitare che l'attività delittuosa sia portata conseguenze ulteriori
b) collaborare con gli inquirenti per l'individuazione di altri soggetti responsabili
c) favorire la raccolta la conservazione delle prove dei reati o il sequestro delle somme o altra utilità trasferite (chiaramente al fine della confisca).
Presupposto per l'applicazione dell'attenuante, è che gli inquirenti non siano già autonomamente pervenuti al raggiungimento dei risultati sopraindicati.
La legge, infatti, non indica alcuna modalità per ritenere l'apporto dell'indagato utile per ottenere lo sconto di pena.
Tuttavia, l'indicazione con l'espressione "per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori" il legislatore richiede, ai fini dell'attenuante, l'effettivo impedimento delle conseguenze ulteriori, bensì l'idoneità oggettiva del contributo al raggiungimento dello scopo. Il collaborante, quindi, meriterà ugualmente la concessione dell'attenuante nel caso in cui il suo contributo e la sua collaborazione, pur concretamente idoneo ai risultati descritti nella novella legislativa, non venga in realtà valorizzata dall'autorità di polizia o da quella giudiziaria che indaga.
La stessa considerazione può essere svolta anche in relazione alla attenuante che consegue alla collaborazione con gli inquirenti di altri soggetti coinvolti nel reato.
Da un punto di vista pratico, poi, la valutazione dell'efficacia della collaborazione processuale, spetta esclusivamente al Giudice del merito, senza che tale valutazione possa essere sindacata se non per un palese errore logico o per l'assenza di motivazione.
Nel caso di specie, quindi, qualora il funzionario, nel corso delle indagini collabori con la polizia giudiziaria o con gli inquirenti per l'individuazione di un altro soggetto che, all'interno dell'ente, è stato complice nella condotta di induzione indebita del privato a dare o promettere utilità, potrà ottenere, ferma la positiva valutazione del Giudice in tal senso, della attenuante con la riduzione della pena da un terzo a due terzi. In tali situazioni, peraltro, l'imputato sceglie normalmente i riti alternativi del patteggiamento o del rito abbreviato, per cui all'attenuante di cui sopra si aggiungerebbe anche la riduzione di un terzo della pena per effetto della scelta del rito.
Ecco, pertanto, che in tali casi la celta di collaborare (indipendentemente da un effettivo pentimento) risulta vantaggiosa per il reo ai fini del contenimento della pena (tratto dalla newsletter 26.10.2015 n. 124 di http://asmecomm.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nel DUP è necessario inserire anche un programma anticorruzione e trasparenza?
IL CASO: Non essendovi una previa indicazione al riguardo nelle linee politiche di mandato dell'amministrazione è comunque obbligatorio inserire l'anticorruzione e la trasparenza nel DUP, in scadenza il prossimo 31 ottobre?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
L'obiettivo strategico della prevenzione della corruzione e dell'illegalità e della trasparenza, da collegare al controllo successivo di regolarità amministrativa, va sempre inserito nel Documento Unico di Programmazione.
Infatti, bisogna tener conto che, quand'anche tali obiettivi non risultino inclusi nelle Linee di mandato dell'amministrazione, tuttavia è lo stesso quadro normativo attualmente vigente ad imporre di inserire necessariamente all'interno del DUP la programmazione della prevenzione del rischio di corruzione e di illegalità nonché la trasparenza quali connotati indiferribili della "NUOVA P.A.".
Si tratta di obiettivi che vanno collegati, in un contesto unitario, al controllo di regolarità amministrativa il quale può restituire, nei suoi esiti finali, importanti elementi informativi per elaborare misure e azioni di prevenzione.
Peraltro, si tratta di una scelta che, a partire dal 2014, vari Enti Locali hanno già effettuato, inserendo, correttamente, i predetti obiettivi strategici nella Missione 01 "Servizi istituzionali, generali e di gestione", Programma 02 "Segreteria generale".
La descritta collocazione sistematica, all'interno del DUP, della programmazione relativa all'anticorruzione e alla trasparenza in collegamento con il controllo di regolarità amministrativa è corretta e costituisce un elemento di grande valenza della programmazione strategica.
In particolare, l'adeguatezza della scelta della missione 01 risulta evidente alla luce della circostanza che questa missione ricomprende, tra le altre, anche le spese relative a "amministrazione e funzionamento dei servizi generali, dei servizi statistici e informativi, delle attività per lo sviluppo dell'ente in una ottica di governance e partenariato e per la comunicazione istituzionale".
A sua volta, il programma "Segreteria Generale", comprendente l'amministrazione, il funzionamento e supporto, tecnico, operativo e gestionale alle attività deliberative degli organi istituzionali e per il coordinamento generale amministrativo risulta pertinente alla programmazione della prevenzione della corruzione, dell'illegalità e della trasparenza in quanto comprende, tra le altre, le spese relative allo svolgimento delle attività affidate al Segretario Generale e al Direttore Generale (ove esistente) o che non rientrano nella specifica competenza di altri settori, quali sono le attività affidate al Segretario Generale nella sua qualità di Autorità locale anticorruzione (RPC).
Nel declinare, all'interno del DUP, i contenuti degli obiettivi strategici in esame, occorre avere riguardo non tanto alle Linee di mandato politico del Sindaco, che potrebbero anche mancare su questo specifico punto, quanto piuttosto alle disposizioni contenute nella Legge 06.11.2012, n. 190 e nei relativi decreti legislativi di attuazione, nonché nel Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) e, soprattutto, nel Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione (PTPC) e nel Programma per la trasparenza (PTT) in dotazione al singolo Comune.
In sintesi, le azioni da correlare all'attuazione degli obiettivi vanno desunte, in parte, direttamente dal quadro normativo e, in parte, dal PTPC, dal PTT e, soprattutto, dagli esiti dei controlli di regolarità amministrativa nonché dalle direttive di conformazione conseguenti a tali controlli (tratto dalla newsletter 19.10.2015 n. 123 di http://asmecomm.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Richiesta di informazioni, da parte di una società, concernente la residenza di soggetti proprietari di terreni interessati dalla costruzione di una linea elettrica.
Sul presupposto dell'istituzione dell'anagrafe nazionale della popolazione residente, la nuova normativa in tema di rilascio di certificati anagrafici di cui all'art. 33, d.P.R. 30.05.1989, n. 223, come sostituito dal d.P.R. 17.07.2015, n. 126, impone all'ufficiale di anagrafe l'obbligo di rilasciare i certificati anagrafici non solo quando concernono persone residenti nel territorio dell'ente locale, ma anche quando le richieste di certificato si riferiscono a individui non residenti nel Comune cui il soggetto richiedente l'attestazione si è rivolto.
Un ente locale (nello specifico, il Servizio finanziario del medesimo) segnala di aver ricevuto, da una società, una richiesta di informazioni concernenti la residenza di alcuni soggetti proprietari di terreni insistenti nel relativo territorio e, quindi, tenuti al pagamento dei tributi locali dovuti in relazione ai diritti dominicali di cui sono titolari: il privato ha necessità di contattare le persone i cui fondi risultano interessati dalla realizzazione di una linea elettrica.
Il Servizio finanziario dell'ente territoriale svolge attività di riscossione delle entrate tributarie e dispone, pertanto, di informazioni concernenti i contribuenti; l'ufficio non ritiene, tuttavia, possibile utilizzare tali dati per scopi che non riguardano la fiscalità dell'ente locale, sottolineando, al riguardo, che i soggetti competenti in materia di pubblicità dei diritti immobiliari sono l'Agenzia del Territorio e l'Ufficio Tavolare.
Si evidenzia che il quesito è stato formulato dall'ente un paio di mesi prima rispetto ad un importante intervento normativo in tema di disciplina anagrafica.
Dopo la presentazione del quesito allo scrivente, è stato, invero, emanato il decreto del Presidente della Repubblica 17.07.2015, n. 126, 'Regolamento recante adeguamento del regolamento anagrafico della popolazione residente, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30.05.1989, n. 223, alla disciplina istitutiva dell'anagrafe nazionale della popolazione residente'.
Orbene, proprio la summenzionata normativa, entrata in vigore il 17.08.2015
[1], ha sostituito il testo dell'articolo 33 del regolamento anagrafico della popolazione residente di cui al decreto del Presidente della Repubblica 223/1989, con una nuova disciplina che prevede: '1. Fatti salvi i divieti di comunicazione di dati, stabiliti da speciali disposizioni di legge e quanto previsto dall'articolo 35, l'ufficiale di anagrafe rilascia a chiunque ne faccia richiesta, previa identificazione, i certificati concernenti la residenza, lo stato di famiglia degli iscritti nell'anagrafe nazionale della popolazione residente, nonché ogni altra informazione ivi contenuta. 2. Al rilascio di cui al comma 1 provvedono anche gli ufficiali di anagrafe di comuni diversi da quello in cui risiede la persona cui i certificati si riferiscono.'
È di immediata evidenza che, sul presupposto dell'istituzione dell'anagrafe nazionale della popolazione residente, la nuova normativa in tema di rilascio di certificati anagrafici ha cambiato totalmente il contesto di riferimento in cui è stato formulato il quesito da parte dell'ente locale e, quindi, la risposta al medesimo da parte dello scrivente
[2].
Il nuovo articolo 33 impone, oggi, all'ufficiale di anagrafe, l'obbligo di rilasciare i certificati anagrafici non solo quando concernono persone residenti nel territorio dell'ente locale ma anche quando le richieste di certificato si riferiscono a individui non residenti nel Comune cui il soggetto richiedente l'attestazione si è rivolto.
Nello specifico del quesito indirizzato allo scrivente, si evidenzia, allora, che la società che ha chiesto le informazioni non ha più bisogno di rivolgersi all'ufficio tributi per venire a conoscenza di dati concernenti soggetti che non siano residenti nel Comune, proprio perché, come già rimarcato, l'ufficiale di anagrafe, ai sensi del nuovo articolo 33, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica 223/1989, è tenuto a rilasciare il certificato anche in relazione a persone fisiche non residenti nel Comune ove egli esercita le sue funzioni.
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[1] Il decreto del Presidente della Repubblica 126/2015 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 14.08.2015, serie generale n. 188.
[2] Risposta che, in assenza delle sopra descritte modificazioni normative, sarebbe stata fondata principalmente sulla disciplina della comunicazione di dati personali da parte di un ente pubblico ad un soggetto privato di cui all'articolo 19, comma 3, del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196
(Codice della Privacy) (08.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Acquisizione da parte del comune di immobili pericolanti.
Lo strumento utilizzabile dal Comune per l'acquisizione della proprietà di immobili pericolanti è l'espropriazione, qualora ne sussistano i presupposti.
Si tratta di un istituto finalizzato esclusivamente all'esecuzione di opere pubbliche o, comunque, di pubblica utilità che, in ossequio al principio di legalità dell'azione amministrativa, può essere disposto nei soli casi previsti dalla legge. 

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di acquisire la proprietà di due immobili potenzialmente pericolosi per la pubblica incolumità. In particolare, la questione afferisce due differenti situazioni:
- la prima riguarda un edificio pericolante prospiciente la pubblica via, in relazione al quale l'amministrazione comunale è dovuta intervenire urgentemente per garantire la pubblica incolumità e per il quale sono richiesti ulteriori interventi di messa in sicurezza. Tale immobile risulta di proprietà di persone ora defunte e gli eredi sono irreperibili. Di qui la richiesta di sapere se il Comune possa acquisire la proprietà di tale fabbricato;
- la seconda afferisce un fabbricato di proprietà di una società cooperativa latteria sociale, sciolta 'per atto dell'autorità' regionale.
[1] Gli ex soci sono irreperibili o defunti. Di qui la richiesta dell'Ente circa la possibilità di acquisire la proprietà di tale immobile ed, eventualmente, con quale procedura.
Con riferimento ad entrambe le fattispecie prospettate si ritiene che lo strumento potenzialmente utilizzabile, che consentirebbe l'acquisto della proprietà immobiliare in capo al Comune, sia l'espropriazione, qualora ne sussistano i presupposti. A tal fine si rammenta che tale istituto è finalizzato esclusivamente all'esecuzione di opere pubbliche o all'esecuzione di opere, comunque di pubblica utilità e che, in ossequio al principio di legalità dell'azione amministrativa, l'espropriazione dei beni immobili può essere disposta nei soli casi previsti dalla legge.
[2]
In particolare, per quel che potrebbe rilevare in questa sede, si osserva che l'istituto dell'espropriazione potrebbe essere utilizzato, valutando la ricorrenza di tutte le condizioni indicate dalla legge, anche ricorrendo ai Piani di recupero di cui alla legge regionale 29.04.1986, n. 18
[3] recante 'Norme regionali per agevolare gli interventi di recupero urbanistico ed edilizio. Modificazioni ed integrazioni alla legge regionale 01.09.1982, n. 75'. [4]
Mette conto, al riguardo, richiamare la sentenza del giudice amministrativo
[5] con la quale viene identificato come finalità del piano di recupero di iniziativa pubblica ex articoli 27 e 28 della legge 457/1978, il recupero del patrimonio edilizio degradato, mediante interventi volti a conservare, risanare, ricostruire e utilizzare il patrimonio stesso, con la conseguenza che a detto piano non può essere assoggettata in modo generico ed indiscriminato una vasta area del territorio comunale, ma soltanto immobili, complessi edilizi isolati ed aree bene individuate per le caratteristiche di degrado da recuperare. [6]
In particolare, si segnala l'articolo 9 della legge regionale 18/1986, rubricato 'Attuazione dei piani di recupero', il quale indica la procedura che i Comuni devono adottare nel caso in cui intendano procedere all'attuazione diretta di tali piani.
Quanto, poi, alla prima fattispecie prospettata in ordine alla quale il Comune riferisce di avere già sostenuto delle spese per la provvisoria messa in sicurezza dell'immobile si rappresenta che, qualora, come nel caso in esame, l'Ente non sia stato rimborsato dell'importo sostenuto a tal fine potrebbe attivare la procedura esecutiva volta al recupero della somma anticipata.
A tale proposito, si rammenta che l'articolo 505 del codice di procedura civile prevede che, nei limiti e secondo le regole contenute nel codice stesso, il creditore pignorante possa chiedere l'assegnazione dei beni pignorati. L'assegnazione dei beni pignorati costituisce uno dei possibili momenti conclusivi del processo di esecuzione e consiste nell'attribuzione diretta del bene pignorato al creditore procedente al fine di soddisfare le proprie ragioni creditorie. Più in particolare, necessita distinguere tra assegnazione satisfattiva (che comporta il trasferimento a tacitazione del credito) e assegnazione mista (cioè accoppiata al pagamento di un conguaglio versato dall'assegnatario).
Si può avere assegnazione satisfattiva se il bene assegnato ha un valore pari al credito del procedente ed alle spese sostenute, e non vi sono altri creditori da soddisfare; si avrà, invece, assegnazione con conguaglio quando il valore del bene è superiore al credito ed alle spese, ovvero agli altri crediti fatti valere nell'espropriazione: qui il creditore deve pagare una somma almeno pari alle spese ed al valore dei crediti precedenti quello dell'assegnatario. In tal caso si parla di 'assegnazione vendita'.
Da ultimo, e sempre con riferimento alla prima fattispecie rappresentata dal Comune, si osserva che, appartenendo l'immobile in riferimento a persone defunte, bisognerebbe accertarsi se siano o meno scaduti i termini per accettare l'eredità.
[7] Nel caso in cui non siano decorsi dieci anni dalla morte dell'originario proprietario il codice civile prevede la possibilità di nomina di un curatore dell'eredità giacente. [8] Nell'ambito dell'attività di amministrazione del compendio ereditario da parte della curatela, particolare rilevanza riveste l'eventuale alienazione dei beni che ne fanno parte.
A tale riguardo, l'articolo 783, secondo comma, c.p.c. contempla la semplice possibilità che la vendita sia autorizzata dal Tribunale con decreto in Camera di consiglio in tutti i casi in cui essa si palesi necessaria o di evidente utilità. Al riguardo la dottrina
[9] ha annoverato tra dette ipotesi quella relativa 'alla gestione di un fabbricato fatiscente' in relazione alla quale si renderebbe opportuno procedere alla vendita.
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[1] L'articolo 2544 c.c., nella versione in vigore prima della novella al codice civile introdotta dal D.Lgs. 17.01.2003, n. 6, rubricato 'Scioglimento per atto dell'autorità', recitava: 'Le società cooperative, che a giudizio dell'autorità governativa non sono in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono state costituite, o che per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio annuale, o non hanno compiuto atti di gestione, possono essere sciolte con provvedimento dell'autorità governativa, da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e da iscriversi nel registro delle imprese. [...].
Se vi è luogo a liquidazione, con lo stesso provvedimento sono nominati uno o più commissari liquidatori'.
Attualmente, la norma di riferimento, analogamente rubricata 'Scioglimento per atto dell'autorità' è l'articolo 2545-septiesdecies, del codice civile.
[2] Articolo 1, comma 1 e articolo 2, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.
[3] A livello statale la legge recante: 'Norme generali per il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente' è la n. 457 del 05.08.1978.
[4] Si rammenta che, ai sensi dell'articolo 25 della legge regionale 23.02.2007, n. 5 (Riforma dell'urbanistica e disciplina dell'attività edilizia e del paesaggio) il Comune potrebbe adottare, con le modalità indicate dalla legge, un piano attuativo comunale (PAC). In particolare, il comma 3 dell'indicato articolo prevede che: 'Le procedure di adozione e approvazione del PAC sostituiscono quelle degli strumenti urbanistici attuativi delle previsioni di pianificazione comunale e sovracomunale e in particolare: [...] d) i piani di recupero [...]'.
[5] TAR Umbria, Perugia, sentenza del 26.10.1989, n. 726.
[6] Le considerazioni espresse dal giudice amministrativo si trovano riportate nel parere dell'ANCI del 16.02.2011.
[7] Si ricorda che, decorsi i termini per l'accettazione senza che questa sia effettuata da alcuno dei chiamati all'eredità questa è devoluta allo Stato. In tal senso depone l'articolo 586 c.c. che, al primo comma recita: 'In mancanza di altri successibili, l'eredità è devoluta allo stato. L'acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia'.
[8] Si rammenta che secondo un orientamento dottrinale l'instaurarsi del periodo di giacenza si avrebbe oltre che nel caso in cui il chiamato non abbia ancora accettato l'eredità, anche nell'ipotesi in cui non si sappia se la persona del chiamato sia mai esistita.
[9] D. Minussi, 'Vendita di beni ereditari (curatore dell'eredità giacente)', in WikiJus, il Wiki di Diritto Civile, articolo del 23.02.2015
(08.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Gli incarichi vietati.
DOMANDA:
In virtù della disposizione di cui all'art. 53, comma 16-ter, D.Lgs. 165/2001 (in materia di pantouflage-revolving doors, così come introdotto dalla legge 190/2012) si chiede se siano soggetti all'applicazione dei limiti e dei divieti previsti nella norma (divieto triennale per l'ex dipendente di prestare attività lavorativa presso soggetti destinatari, nel triennio antecedente alla cessazione, di potere autoritativo e/o negoziale del dipendente stesso) i soli dipendenti cessati a far data dall'entrata in vigore della suddetta normativa (06.11.2012) o anche i dipendenti già cessati in tal data.
RISPOSTA:
L'art. 1, comma 43, della legge 190/2012 prevede che: "Le disposizioni di cui all'articolo 53, comma 16-ter, secondo periodo, del decreto legislativo 30.03.2001, n.165, introdotto dal comma 42, lettera l), non si applicano ai contratti già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge".
Ciò significa che i contratti conclusi e gli incarichi conferiti ai dipendenti cessati, precedentemente all'entrata in vigore della legge (28.11.2012), non sono nulli -sebbene conferiti in violazione di quanto previsto dalla norma- né vige per il soggetto privato l'obbligo di restituzione dei compensi percepiti e accertati ad essi riferiti.
Poiché la legge ha espressamente regolato il problema dell'efficacia nel tempo della norma, limitandone l'ambito di applicazione ai contratti e agli incarichi conferiti successivamente alla sua entrata in vigore, si ritiene che, per quanto non espressamente previsto, non soccorrano deroghe.
In altri termini, se il contratto (o l'incarico) con il dipendente cessato è stato stipulato prima del 28.11.2012, la legge non si applica.
Se è stato stipulato dopo, la legge si applica e il contratto/incarico è nullo, a prescindere dal fatto che il dipendente fosse cessato precedentemente o successivamente all'entrata in vigore della suddetta normativa (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo del telefono di servizio e ipotesi di peculato.
IL CASO: se un amministratore utilizza il cellulare fornitogli dal Comune per ragioni di servizio, attivando servizi aggiuntivi estranei alle funzioni del suo ufficio commette reato? Quali sono i limiti entro cui l'uso privato non è penalmente rilevante?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Nel caso prospettato, la condotta può essere sussunta nella fattispecie penale disciplinata dall'art. 314 c.p., ovvero il peculato. La norma così dispone: "il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita
".
La norma è distinta in due commi, di cui il secondo disciplina il cosiddetto peculato d'uso, ipotesi meno grave del peculato proprio di cui al comma 1.
Sull'uso del telefono aziendale vi sono state numerose pronunce, proprio perché spesso si sono presentate situazioni di abuso nell'uso di tale mezzo che dovrebbe, invece, servire per ragioni di servizio.
In relazione alla situazione prospettata nel quesito, secondo un recente orientamento della Corte di Cassazione in tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d'ufficio per fini personali al di fuori dei casi d'urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d'uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell'ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative.
Quindi deve aversi riguardo al concreto uso del telefono aziendale, nel senso che se le telefonate che non hanno carattere di servizio sono occasionali e non comportano una disfunzione del servizio o un apprezzabile danno patrimoniale, non può parlarsi di reato.
Per aversi reato, quindi, deve configurarsi una certa continuità nell'uso non autorizzato del telefono (es. più telefonate ogni giorno per un costante periodo di tempo).
Parimenti viene considerato peculato d'uso la condotta dell'amministratore o del funzionario che, non autorizzato, installi sul telefono un servizio internet o altre funzioni che determinino un costo rilevante per l'amministrazione.
Per fare un esempio concreto, la Cassazione ha ritenuto non punibile la condotta di un dipendente pubblico che in un periodo di quaranta giorni aveva effettuato sei telefonate, utilizzando l'apparecchio dell'ufficio, in situazioni eccezionali d'urgenza, per di più per comunicazioni private che avevano il fine di evitare pregiudizievoli e talora protratte assenze dal posto di lavoro (tratto dalla newsletter 05.10.2015 n. 121 di http://asmecomm.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Programmare le manutenzioni: una buona prassi Anticorruzione.
IL QUESITO: In che modo il RUP può preservare la sua azione dal rischio di pressioni e ingerenze in particolare nei micro-appalti sottosoglia?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
A fronte della "ipertrofia" normativa che ha caratterizzato il sistema dei contratti pubblici negli ultimi anni si sta ora riscoprendo e valorizzando l'"antica" via di normazione, consistente nel ricorso all'ausilio delle buone prassi, da introdurre e consolidare all'interno dell'amministrazione, e da affiancare alla legge e ai regolamenti quale fonte di disciplina ulteriore.
Questa nuova fase di riscoperta di un livello di regolamentazione incentrato sulle Buone Prassi, quale strumento utile per le amministrazioni, è attestata anche dalla normativa anticorruzione (L. 190/2012) che, non a caso, rinvia molti aspetti della regolamentazione sulla prevenzione della corruzione e della illegalità a apposite Linee Guida, rappresentate dal Piano Nazionale Anticorruzione (PNA).
A loro volta, le Linee Guida del PNA, con riferimento alle attività amministrative a maggiore rischio di corruzione e di illegalità, ivi comprese le procedure di affidamento dei contratti pubblici, rinviano alla peculiare valenza di Buone Pratiche sulla gestione degli appalti.
Una delle buone pratiche da sviluppare negli Enti locali, soprattutto al fine di evitare il rischio di responsabilità amministrativa dei Rup, è certamente quella di inserire nella programmazione dei lavori pubblici, e nell'elenco annuale, anche le manutenzioni di strade e marciapiedi e di procedere all'affidamento tenendo conto dell'importo complessivo annuo.
L'attività di manutenzione, infatti, va considerata unitariamente con riferimento all'anno di riferimento, e non va gestita "a spot", di volta in volta, magari facendo anche un ricorso improprio alla somma urgenza.
Posto che la somma urgenza va limitata al solo ripristino dello stato dei luoghi, attraverso la messa in sicurezza, e non può estendersi alla esecuzione di opere ulteriori rispetto alla sicurezza, va tenuto in considerazione la circostanza che plurimi interventi manutentivi di strade e marciapiedi nel corso dell'anno, individualmente di importo inferiore a € 40.000, eseguiti attraverso il metodo dell'affidamento diretto e magari attraverso il richiamo alla somma urgenza dell'intervento, sono censurabili sotto il profilo della illecita e non consentita suddivisione degli importi, attuata al fine di eludere le norme, di natura imperativa, sulla evidenza pubblica.
Numerose, al riguardo, sono sia le deliberazioni dell'ANAC che le sentenze della Corte dei conti, entrambe concordi nella condannare la suddivisione artificiosa delle manutenzioni.
Al fine di formalizzare la buona pratica relativa alle manutenzioni si suggerisce porsi l'obiettivo, nel medio periodo, di adottare e di pubblicare, sul sito web dell'ente, un vero proprio documento di "PROCEDURE OPERATIVE o MANUALE OPERATIVO DELLE MANUTENZIONI" al cui interno inserire, in maniera integrata, le regole procedurali che il Rup deve seguire, all'interno del comune, non solo per l'affidare le manutenzioni senza rischi di responsabilità amministrativa, ma anche le regole relative al monitoraggio del costo e della qualità delle manutenzioni, al flusso informativo specifico verso il RPC e il RT, nonché agli obblighi di pubblicazione e di trasparenza che debbono assistere l'esecuzione delle manutenzioni.
Il Rup, seguendo il protocollo indicato nella PROCEDURA/MANUALE, è al riparo da rischi di errore e, ancor più, al riparo da eventuali "richieste/sollecitazioni" da parte di amministratori o di soggetti esterni volti ad ottenere, illecitamente, l'affidamento di singole manutenzioni. In presenza di tali richieste/sollecitazioni, il Rup può motivatamente fondare il proprio diniego richiamandosi alla prassi in uso nel Comune, così come incarnata e documentata dalle sopra citate PROCEDURE OPERATIVE o MANUALE OPERATIVO DELLE MANUTENZIONI. Al che l'illecita richiesta/sollecitazione dovrebbe cadere nel vuoto (tratto dalla newsletter 28.09.2015 n. 120 di http://asmecomm.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'operatore risponde del reato corruttivo?
IL CASO: se il dirigente dà incarico ad un sottoposto di inserire on-line gli esiti dei procedimenti di esame delle pratiche edilizie ed emerga che l'esame è stato viziato da condotte corruttive, come va inquadrato il coinvolgimento dell'operatore? Risponde anch'egli del reato come incaricato di pubblico servizio?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario richiamare la norma che definisce la nozione di incaricato di pubblico servizio, ovvero l'art. 358 del Codice Penale.
La norma così dispone: "agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale".
La norma, in sostanza individua la nozione di incaricato di un pubblico servizio con un elemento positivo (attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione) e di un elemento negativo (la mancanza di quei poteri deliberativi, autoritativi, certificativi che, al contrario, costituiscono i connotati caratterizzanti la pubblica funzione).
La norma chiarisce e puntualizza, inoltre, che non può costituire servizio pubblico lo svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale, ad esempio custodi, portantini eccetera.
Tale limitazione è stata determinata dalla volontà di rendere inapplicabile la legge penale alle prestazioni prive di contenuto intellettuale, sul presupposto che esse sarebbero inoffensive rispetto al bene giuridico protetto dalle fattispecie posta a presidio della pubblica amministrazione.
L'elemento di discrimine tra mansioni di concetto, inerenti la qualità d'incaricato di pubblico servizio e mansioni puramente applicative o esecutive, incompatibili con la stessa, è infatti rappresentato dal mantenimento in capo al dipendente pubblico di una certa autonomia e discrezionalità tipiche delle prime.
In tal senso, ad es. la giurisprudenza (Cass. Sez. 6, sent. n. 37102 del 07/05/2004) si è espressa nel senso della ritenuta qualifica di incaricato di un pubblico servizio nel caso di impiegato delle Poste Italiane addetto alla regolarizzazione, mediante affrancatura, dei bollettini mod. 267 dei pacchi da
restituire al mittente e alla tenuta di apposito registro nel quale annotare i dati identificativi di ciascuna operazione. O ancora (Sez. 6 sent. n. 8933 del 11/02/2008) in caso di addetto al magazzino centrale di Rete Ferroviaria Italiana e come tale gestore della presa in carico, della vendita e della consegna di materiali "fuori uso". Si veda anche Sez. 6 sent. n. 27981 del 12/05/2011, in caso di portalettere ed in riferimento ai relativi compiti di certificazione della consegna e della ricezione di alcune specifiche tipologie di corrispondenza.
Nel senso della denegata sussistenza della qualifica (Sez. 6 sent. n. 46245 del 20/11/2012 e Sez. 6 sent. n. 5064 del 19/11/2013), la giurisprudenza si è invece espressa nel caso di un dipendente di Poste Italiane addetto ad attività di mero smistamento della corrispondenza.
Calando tali coordinate ermeneutiche al caso concreto, l'attività di inserimento nel sito internet del Comune le pratiche edilizie esaminate dal Dirigente e dal Responsabile del procedimento con i relativi pareri e la loro successiva trasmissione all'Ufficio Risorse Umane non possono essere ricondotte all'ambito di applicazione dell'art. 358 c.p., trattandosi, all'evidenza, di mansioni meramente esecutive, dove ai fini della concreta loro individuazione deve necessariamente considerarsi l'odierna e generale diffusione degli strumenti telematici di conservazione e trasferimento dei dati ed il cui utilizzo, limitato appunto alle predette funzioni, non richiede il possesso di specifiche competenze informatiche, ma una normale attitudine al relativo impiego, di talché non è richiesta una certa autonomia e discrezionalità tipiche delle prime (tratto dalla newsletter 21.09.2015 n. 119 di http://asmecomm.it).

NEWS

SICUREZZA LAVORO: Delega di funzioni, il lavoratore può dire di no. Sicurezza. Chiarimento ministeriale.
Non esiste alcun obbligo di accettazione della delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro da parte del soggetto delegato individuato dal datore di lavoro: il lavoratore interessato, infatti, può rifiutare tale delega.
Il chiarimento è stato fornito dalla Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro, istituita presso il Ministero del Lavoro, con l’interpello 02.11.2015 n. 7/2015.
La questione è stata sempre dibattuta a causa delle varie soluzioni sinora fornite al quesito sia nel settore pubblico, sia in quello privato, influenzate da problematiche di ordine burocratico o gerarchico, ossia se la delega di funzioni rientrasse nella discrezionalità del datore di lavoro o del dirigente (nel settore pubblico), di definire l’assetto dell’organizzazione del lavoro fino ad individuare inderogabilmente il soggetto a cui conferire la delega stessa.
L’interpello riporta all’articolo 16 del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), nel cui comma 1 viene stabilito che la delega delle funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa a condizione che risulti da atto scritto con data certa; il delegato sia in possesso di tutti i requisiti professionali e d’esperienza richiesti dalla natura delle funzioni delegate; con essa vengano attribuiti al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; con essa venga attribuita al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento della funzione oggetto di delega; la delega sia accettata dal delegato.
Perché dunque la delega sia efficace occorre che si verifichino tutte le caratteristiche di cui si è fatto cenno, preordinate all’accettazione, in forma scritta, da parte del delegato. Del resto, spesso la non accettazione è motivata dal riconoscimento da parte del soggetto individuato dal datore di lavoro o dirigente di non possedere i requisiti professionali per il corretto e completo svolgimento della funzione, la quale è quasi sempre accompagnata da provvedimenti sanzionatori penali in caso di inosservanze, ovvero di non riconoscere sufficientemente l’organizzazione del lavoro a cui è preposto, oppure, il più delle volte, dalla mancanza delle risorse economiche per far fronte alle varie e mutevoli esigenze che caratterizzano la funzione.
Va osservato, infatti, che fatta salva l’esclusione della nomina del responsabile del servizio di prevenzione protezione, la valutazione dei rischi e la redazione del documento della sicurezza, tutte le altre funzioni elencate nell’articolo 18 del Testo unico sono delegabili e tutte richiedono professionalità specifica, potere di organizzazione e di spesa che se non coperte o previste possono costituire un valido motivo di non accettazione del soggetto individuato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La stretta sul personale minaccia i mini enti.
Pericolo stretta sulla spesa di personale dei mini-enti. Dal 2016, infatti, i comuni sotto i 1.000 abitanti rischiano di essere attratti dal regime più rigido finora applicato solo a quelli più grandi.

È uno dei possibili effetti collaterali dell'addio al Patto sancito dal disegno di legge di stabilità 2016 e che rischia di presentare un conto salato alle amministrazioni di minori dimensioni.
In base al ddl, dal prossimo anno, il Patto verrà disapplicato e sostituito dall'obbligo del pareggio di bilancio. Nel nuovo regime, tuttavia, viene meno l'esclusione dai vincoli finora sempre riconosciuta favore dei comuni (circa 2000 in tutta Italia) che non raggiungono il migliaio di residenti (si veda ItaliaOggi del 20/10/2015). Ma non si tratta dell'unica controindicazione.
Il nuovo regime, infatti, rischia di assoggettare i piccoli comuni alla più rigorosa normativa sul personale prevista per quelli medi e grandi. Finora, infatti, la disciplina della materia è sempre stata differenziata, rispettivamente, per gli enti soggetti e per quelli non soggetti al Patto. Ai primi, si applica il comma 557, mentre ai secondi il successivo comma 562 della l 296/2006. Il comma 557 prevede che ogni ente soggetto al Patto debba ridurre la spesa di personale rispetto alla media del triennio 2011-2013, fissando un tetto più severo di quello previsto dal comma 562, che impone agli enti di fuori Patto di non superare il più generoso limite rappresentato dalla spesa 2008.
Inoltre, dove si applica il Patto il turn-over è sempre stato più ridotto, in quanto quantificato in percentuale rispetto alla spesa dei dipendenti cessati dal servizio nell'anno precedente, mentre negli altri casi vale la regola «per teste» (una nuova assunzione per ogni cessazione).
Infine, il comma 557, come recentemente interpretato dalla Sezione autonomie della Corte dei conti (deliberazione n. 27/2014) impone agli enti soggetti al Patto anche di ridurre il rapporto spesa di personale/spesa corrente, mentre il comma 562 non prevede tale obbligo. Cosa accadrà ora?
Al riguardo, sono possibili due letture. Da un lato, la disapplicazione del Patto dovrebbe portare ad applicare a tutti gli enti le stesse regole, che ovviamente non potrebbero che essere quelle più restrittive finora riservate agli enti soggetti al Patto (in caso contrario, si avrebbe un intesso incremento della spesa di personale).
Ma ciò rischia di complicare ulteriormente la vita alle amministrazioni più piccole, spesso già alle prese con organici risicati e con la conseguente difficoltà di sostituire i cessati. In alternativa, si potrebbe sostenere che nulla cambi rispetto al personale, malgrado l'assoggettamento anche dei mini enti all'obbligo del pareggio.
Tale tesi emerge anche dalla relazione al ddl, che continua a richiamare la distinzione fra enti soggetti e non al Patto in merito alla disposizione (art. 18) che riduce al 25% il turn-over per gli anni 2016-2018 e che viene collegata solo ai primi (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015).

SICUREZZA LAVOROSicurezza, la delega deve essere accettata. INTERPELLO/1 - Possibile il rifiuto del destinatario.
La delega di funzioni sulla sicurezza del lavoro deve essere accettata dal delegato, altrimenti non è valida. A differenza del conferimento d'incarico che implica l'impossibilità del rifiuto, infatti, la delega presuppone la possibilità della non accettazione da parte del destinatario.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 02.11.2015 n. 7/2015.
La questione. La precisazione arriva a risposta di un quesito formulato dall'unione sindacale di base vigili del fuoco, in merito all'istituto della «delega di funzioni» disciplinato dall'art. 16 del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Tale articolo, in particolare, prevede che la delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni:
a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
In relazione all'ultimo requisito, l'unione sindacale ha chiesto di sapere «se esiste l'obbligo di accettazione della delega da parte del soggetto delegato individuato dal datore di lavoro e se il soggetto delegato può rifiutare tale delegata».
Ammesso il rifiuto di delega. Il ministero spiega, innanzitutto, che la disposizione (citato art. 16 del T.u. sicurezza) prevede, per il datore di lavoro, la possibilità di delegare i propri obblighi a eccezione della valutazione dei rischi e relativo documento e la designazione del responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp) ad altro soggetto dotato dei requisiti di professionalità ed esperienze che sono richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate.
Poi spiega che, affinché la delega sia efficace, è necessario che abbia «tutte» le caratteristiche previste dalla norma (art. 16), quali la forma scritta, la certezza della data, il possesso da parte del delegato di tutti gli elementi di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura specifica delle funzioni delegate e, infine, la possibilità da parte dello stesso delegato di disporre di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni a lui delegate. In conclusione, a risposta del quesito, precisa che la delega deve essere accettata dal delegato per iscritto.
Infatti, aggiunge, «tra le caratteristiche indicate nell'art. 16, comma 1, il legislatore ha espressamente previsto, alla lettera e) del decreto, che la delega «sia accettata dal delegato per iscritto», elemento che la distingue dal conferimento di incarico, il che implica la possibilità di una non accettazione della stessa» (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVORO: Controlli sanitari previsti per tutti. INTERPELLO/2 - Medico competente.
Tutti i lavoratori hanno diritto a richiedere la visita presso il medico competente (se nominato in azienda).

Lo precisa, tra l'altro, la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 02.11.2015 n. 8/2015 a risposta dei quesiti della Cisl.
Due, in particolare, le richieste formulate dal sindacato:
a) se la visita medica possa essere richiesta esclusivamente dai lavoratori soggetti a sorveglianza sanitaria ovvero da tutti i lavoratori;
b) se il medico competente, nel visitare gli ambienti di lavoro almeno una volta all'anno, sia tenuto a recarsi in ogni ambiente di lavoro nel quale si svolge l'attività o se debba limitarsi a fare i sopralluoghi soltanto nelle postazioni dove sono occupati i lavoratori soggetti a sorveglianza sanitaria.
A risposta del primo quesito, la commissione precisa che «la richiesta di essere sottoposto a visita media da parte del medico competenze, ove nominato, può essere avanzata da qualsiasi lavoratore, indipendentemente dal fatto che lo stesso sia o meno già sottoposto a sorveglianza sanitaria, con l'unico limite che il medico competente la ritenga accoglibile in quanto correlata a rischi lavorativi».
In merito al secondo quesito, relativo all'obbligo per il medico competente di visitare i luoghi di lavoro, la commissione, considerato che l'obbligo è strettamente correlato alla valutazione dei rischi, ritiene che la visita agli ambienti di lavoro debba essere estesa a tutti quei luoghi che possano avere rilevanza per la prevista collaborazione con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione «alla valutazione dei rischi anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione dell'attuazione delle misure per la tutela della salute e dell'integrità psico-fisica dei lavoratori, all'attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e all'organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro» (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo a ore, cumulo ridotto. Permessi incompatibili con i riposi per allattamento. L'Inps chiarisce il regime introdotto dal dlgs 80/2015: decide la contrattazione collettiva.
Chi fruisce del congedo parentale a ore non può fruire, nella stessa giornata, di altri permessi per maternità neanche se riferiti ad altri figli. Deroghe a tale principio possono essere previste dalla contrattazione collettiva.

Lo precisa l'Inps nel messaggio 03.11.2015 n. 6704 emesso ieri, integrando le prime istruzioni della circolare n. 152/2015. L'Inps aggiunge, inoltre, che il congedo a ore è invece compatibile con eventuali permessi per assistenza a disabili (ex legge n. 104/1992).
Congedo parentale a ore. La possibilità di fruire a ore il congedo parentale è operativa dal 25 giugno in seguito al dlgs n. 80/2015. La facoltà, in via di principio, è subordinata alla preventiva previsione da parte della contrattazione collettiva di settore di tale modalità di fruizione, compresi i criteri di calcolo. In caso di mancata regolamentazione, la fruizione oraria è consentita a ciascun genitore per la metà dell'orario medio giornaliero di lavoro.
L'incumulabilità. Nel fornire le prime indicazioni operative (circolare n. 152/2015 su ItaliaOggi del 19 agosto), l'Inps spiegava che il congedo era incumulabile con altri permessi o riposi disciplinati dal T.u. maternità/paternità (dlgs n. 151/2001). Tale incumulabilità, spiega adesso l'Inps, risponde all'esigenza di conciliare al meglio i tempi di vita e di lavoro utilizzando il congedo in modalità oraria essenzialmente nei casi in cui il lavoratore intenda assicurare, nella medesima giornata, una (parziale) prestazione lavorativa.
Alla luce di questo principio, integrando le precedenti istruzioni, l'Inps spiega che il genitore lavoratore dipendente che si astiene dal lavoro per congedo parentale a ore «non può usufruire nella medesima giornata né di congedo parentale a ore per altro figlio, né dei riposi orari per allattamento (ex artt. 39 e 40 del T.u.), anche se richiesti per bambini differenti».
Allo stesso modo, aggiunge l'istituto di previdenza, il congedo parentale fruito in modalità oraria «non è cumulabile con i riposi orari giornalieri di cui al combinato disposto degli artt. 33, comma 2, e 42, comma 1, del T.u., previsti per i figli disabili gravi in alternativa al prolungamento del congedo parentale (art. 33 c. 1, T.u. maternità), anche se richiesti per bambini differenti».
La cumulabilità. Diversamente invece, risulta compatibile la fruizione del congedo parentale su base oraria con permessi o riposi disciplinati da disposizioni normative diverse dal T.u. maternità/paternità, quali ad esempio i permessi per assistenza a disabili (di cui all'art. 33, commi 3 e 6, della legge n. 104/1992), quando fruiti in modalità oraria.
Parola alla contrattazione. Infine, l'Inps precisa che le predette ipotesi di incumulabilità trovano applicazione nei casi di mancata regolamentazione, da parte della contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria.
Di conseguenza, pertanto, la contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, nel definire le modalità di fruizione del congedo parentale, può prevedere criteri di cumulabilità differenti rispetto a quelli illustrati dall'Inps che fanno riferimento, pertanto, al caso in cui la fruizione oraria sia concesso su base normativa (per il 50% dell'orario di lavoro) (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici storici, termotecnici da Belle arti.
La diagnosi energetica è uno dei processi fondamentali della riqualificazione energetica degli edifici storici. Ne deriva che il progettista termotecnico che si trovi a dover intervenire su un edificio storico, soprattutto se vincolato secondo il dlgs n. 42/2004, è spesso tenuto ad acquisire la documentazione necessaria alla conoscenza del fabbricato non solo per gli aspetti tecnici di sua competenza, ma anche per quelli relativi al ruolo che quell'edifico svolge nella storia dell'uomo e all'interno del contesto urbano e paesaggistico in cui è inserito.

Questo è quanto si legge nelle linee guida (28.10.2015) sull'efficienza energetica degli edifici storici redatte dal Ministero dei beni culturali .
Per quanto riguarda specificatamente gli edifici storici, il miglioramento della prestazione energetica richiede talvolta modifiche dell'organismo architettonico che, se non accuratamente progettate sulla base di una corretta diagnosi energetica, possono comportare problemi che vanno dal pregiudicare il valore monumentale e/o documentale del manufatto al mettere in discussione la sicurezza statica dell'edificio.
Lo scopo principale della diagnosi energetica è la valutazione dei consumi energetici dell'edificio al fine di ridurli, nel rispetto delle condizioni di qualità dell'ambiente interno che sono descritte in precedenza. Per far ciò è necessario identificare innanzitutto le funzioni che i sistemi architettonici e tecnologici devono soddisfare, che possono andare dalla semplice climatizzazione se l'edificio è destinato a usi residenziali o terziari al controllo del microclima se nell'edificio sono ospitate collezioni, al controllo dell'umidità da risalita in presenza di falde acquifere o acque disperse nel sottosuolo.
Poi devono essere identificati i vettori energetici utilizzati da ogni servizio e i flussi di energia associati a ciascun vettore. A questo punto è possibile valutare l'efficienza energetica di ogni servizio e identificare le opportunità di risparmio energetico ed economico che possono essere proposte per l'edificio in esame (articolo ItaliaOggi del 03.11.2015).

INCARICHI PROFESSIONALIRicorso bocciato, sì al taglio dell’onorario del legale d’ufficio. Difesa in giudizio. Il carattere pubblico dell’importo lascia ampia discrezionalità al magistrato.
Il compenso del difensore d’ufficio, nominato al fine di fornire assistenza tecnica a un contribuente ammesso ai benefici del patrocinio gratuito, può essere legittimamente ridotto dal giudice tributario. La liquidazione degli onorari costituisce, infatti, espressione di un potere discrezionale.
È quanto emerge dalla sentenza 23.09.2015 n. 7543/1/15 della Ctp di Milano (giudice Paolo Roggero), con la quale è stato rigettato il ricorso presentato dal difensore d’ufficio del contribuente contro il provvedimento con il quale altro collegio giudicante, con precedente sentenza, aveva liquidato compensi inferiori a quelli da lui richiesti.
Il legale rappresentante di una Srl aveva ottenuto dalla commissione per l’assistenza tecnica a spese dello Stato l’ammissione ai benefici del patrocinio gratuito in quanto, seppur priva di mezzi, aveva la necessità di difendersi in giudizio dagli avvisi di accertamento emessi dall’ufficio per anni dal 2005 al 2008.
Il patrocinio veniva assunto da un avvocato che redigeva il ricorso, dichiarato poi inammissibile dai giudici di primo grado in quanto tardivo.
Il difensore d’ufficio della ricorrente presentava, così, la nota spese con la quale chiedeva, a titolo di compenso per la prestazione svolta, la liquidazione dell’importo complessivo di 5.124,6 euro, oltre agli oneri accessori. Il collegio adito, con provvedimento del 06.02.2015, liquidava al difensore 1.800 euro.
Il difensore presentava ricorso contro il decreto di pagamento (in base agli articoli 84 e 170, legge 115/2002), eccependo che la sua nota spesa rispettava i parametri ministeriali, già abbattuti del 50% ai sensi dell’articolo 130 del Testo unico sulle spese di giustizia. Lamentava altresì il fatto che il collegio avesse provveduto a ridimensionare fortemente il proprio compenso, senza tuttavia motivare al riguardo e violando, in ogni caso, la tariffa regolamentata dalla vigente normativa.
Il ministero dell’Economia e delle finanze si costituiva in giudizio, resistendo al ricorso. In conclusione, la Ctp di Milano respingeva l’atto impugnato dal difensore d’ufficio.
Pur rilevando come lo stesso legale avesse depositato una nota spese rispettosa dei parametri ministeriali (abbattuti del 50%), la liquidazione poteva dar luogo a un importo inferiore, tenuto conto del caso concreto e non dovendosi comunque fare esclusivo riferimento alla media delle tariffe. Infatti, il carattere pubblico del compenso e il fatto che l’importo gravasse, di fatto, sull’intera collettività, consentivano un’ampia discrezionalità al giudice. L’obiettivo è assicurare che l’onorario sia effettivamente commisurato all’importanza e alla qualità della prestazione professionale svolta, nonché ai risultati ottenuti.
Sulla base di tali principi, la Ctp ha ritenuto corretta la liquidazione effettuata dal collegio giudicante di primo grado, in quanto basata su ragioni valide quali l’operato del difensore e sul fatto che il ricorso fosse stato dichiarato inammissibile
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

VARIAll’acquirente l’onere di provare la vendita a prezzo «inferiore». Imposte indirette. La regolare contabilità e la natura del compratore giustificano la valutazione.
Spetta al contribuente dimostrare che il prezzo al quale ha venduto un immobile è inferiore a quello definito dall’acquirente ai fini dell’imposta di registro. La lieve differenza tra i due valori, la particolare natura giuridica del soggetto acquirente e la regolare tenuta della contabilità soddisfano tale onere.
Ad affermarlo è la sentenza 09.07.2015 n. 804/1/2015 della Ctr Liguria (presidente Soave, relatore Venturini).
La vicenda scaturisce dagli avvisi di accertamento emessi dall’agenzia delle Entrate nei confronti di una società di persone e dei relativi soci. A seguito della cessione di due immobili, l’ufficio ha rideterminato, ai fini del reddito di impresa, la plusvalenza realizzata considerando come prezzo di cessione il maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro dall’acquirente. L’ufficio per la prima vendita considera un prezzo di cessione di 252mila euro anziché 240mila; per la seconda 126mila euro anziché 120mila. I soci e la società ricorrono in Ctp.
I contribuenti evidenziano che, ai fini delle imposte dirette, rileva il prezzo di cessione indicato nell’atto di compravendita e non quello definito ai fini del registro. Inoltre, la definizione del valore ai fini del registro era stata effettuata per sola volontà della parte acquirente, che non aveva interesse a impostare un contenzioso considerata la modesta differenza tra i due valori. Difficilmente, infine, le cessioni potevano prestarsi a importi non dichiarati considerato che l’acquirente degli immobili era un istituto di credito.
I giudici di primo gado respingono il ricorso. I contribuenti, allora, propongono appello alla Ctr della Liguria che lo accoglie. Innanzitutto la commissione osserva che, ai sensi dell’articolo 86 del Dpr 917/1986, la plusvalenza da assoggettare a tassazione va calcolata in relazione al corrispettivo effettivamente percepito e non in base al prezzo teorico del bene determinato ai fini dell’imposta di registro. Tuttavia, puntualizza il collegio, secondo l’orientamento della Cassazione, l’ufficio è legittimato a procedere in via induttiva all’accertamento della plusvalenza sulla base del valore definito ai fini dell’imposta di registro. Spetta, poi, al contribuente superare tale presunzione dimostrando di avere, in concreto, venduto a un prezzo inferiore.
Nel caso specifico, rileva il collegio:
l’istituto di credito acquirente aveva deciso di accettare ai fini del registro la definizione di un prezzo leggermente superiore rispetto a quello dichiarato nell’atto di compravendita;
la contabilità aziendale non è stata contestata dall’ufficio;
il fatto che fosse un istituto di credito va valutato come elemento indiziario della circostanza (difficilmente, per un tale soggetto, è possibile accedere ad acquisti parzialmente in nero);
appare difficile credere in un’operazione fraudolenta per una differenza di valori di così bassa entità.
In base a questi elementi risulta attendibile che il prezzo reale di vendita sia stato inferiore a quello determinato ai fini dell’imposta di registro, alla luce anche dell’attuale stagnazione del mercato immobiliare
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmianto, tre strade per la bonifica. Il materiale può essere incapsulato, confinato o rimosso da ditte iscritte all’Albo gestori.
Sicurezza. Obbligatorio comunicare alla Asl il piano di lavoro, che si intende approvato dopo 30 giorni con il silenzio-assenso.

Nelle abitazioni sono diversi i casi in cui ci si può imbattere nell'amianto: pannelli, pavimenti, rivestimenti di camini, tubazioni, lastre di copertura, canne fumarie, serbatoi idrici, guarnizioni stufe, intonaco.
Come afferma l’allegato sulla valutazione del rischio al Dm 06.09.1994, la presenza di materiali che contengono amianto in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti: «Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto». Lo stesso allegato indica norme e metodologie tecniche di applicazione della legge 257/1992 che ha messo al bando questo materiale.
Le indicazioni del decreto si applicano a tutte le strutture edilizie: ad uso civile, commerciale o industriale.
Il proprietario dell’immobile -l’amministratore di condominio per le parti comuni, o il gestore dell’attività- deve sempre designare una figura responsabile del rischio amianto, con compiti di controllo e coordinamento dell’attività manutentiva, da cui passa la valutazione dell'eventuale bonifica. Il proprietario deve anche tenere i documenti relativi all’ubicazione dell’amianto, predisporre la segnaletica e le misure di sicurezza, fornire una corretta informazione agli occupanti dell’edificio sui rischi potenziali e i comportamenti da adottare.
A seconda del tipo di matrice, si predispone quindi un controllo visivo e strumentale periodico. «Il responsabile deve individuare la ditta qualificata e abilitata ad eseguire i lavori: cioè un’impresa iscritta all’Albo nazionale gestori ambientali, in categoria 10, con coordinatore e operai specificamente formati», aggiunge Erminio Barbati, vicepresidente Aibam (Associazione imprese bonificatori amianto).
La ditta deve redigere un “piano di lavoro” da presentare all'Asl competente per territorio -tranne casi di urgenza- almeno 30 giorni prima dell’inizio dei lavori. Dopo 30 giorni scatta il silenzio-assenso.
A seconda delle caratteristiche di installazione e dello stato di conservazione, la bonifica può esser fatta tramite incapsulamento (trattare con vernice che ricostruisce la superficie e impedisce la fuga del materiale), confinamento (“chiusura” dietro murature) o rimozione del materiale. Non sempre è possibile rimuovere il materiale, a causa di impedimenti strutturali dell’edificio. In ogni caso, una volta accertata la presenza dell’amianto, è necessario stilare almeno un programma di controllo e manutenzione, per prevenire il rilascio e la dispersione di fibre, e nel caso intervenire per rimuovere o mettere in sicurezza.
«Il rischio è rappresentato dalla friabilità dei materiali e dalla loro esposizione. L’amianto in matrice compatta, comunemente conosciuto come cemento-amianto (fibrocemento, o eternit, dal nome del più diffuso prodotto commerciale), è meno pericoloso di quello in matrice friabile, che ha fibre libere o debolmente legate. Ma va sottoposto alla valutazione periodica dell’indice di degrado», spiega Nicola Giovanni Grillo, presidente di Aibam. In ogni caso, i lavori non si effettuano mai in presenza di abitanti.
«Quanto alle autorizzazioni edilizie -aggiunge Grillo- dipendono dal tipo di intervento collegato: se rimuovo soltanto una parte, non necessito di alcun particolare documento; se tolgo il cemento-amianto e rimetto un’altra copertura, coibentata, dovrò fare una comunicazione di inizio lavori».
Una volta completata l’opera, il materiale rimosso va portato in un centro di stoccaggio o direttamente in discarica. «A farlo può essere la stessa ditta che ha eseguito i lavori, ma per il trasporto deve esser comunque iscritta all’Albo in categoria 5: tutto è indicato nel piano di lavoro inviato all’Asl, anche il tragitto compiuto per lo smaltimento», dice il presidente di Assoamianto, Sergio Clarelli.
«Al proprietario deve poi tornare entro 90 giorni una copia del Fir (formulario di identificazione rifiuti), che attesta il conferimento presso una discarica autorizzata. Questo documento si aggiunge al certificato di fine lavori, e all’eventuale copia del campionamento dell’aria successivo all’intervento».
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PERMESSI E NULLA OSTA
Il piano di lavoro predisposto dalla ditta abilitata alla bonifica va inviato alla Asl del proprio territorio 30 giorni prima dell’inizio delle opere. Se entro 30 giorni l’Asl non richiede integrazioni o modifiche, né dà prescrizioni, la ditta può eseguire le opere.
Le autorizzazioni edilizie dipendono dal tipo di intervento e dalle norme regionali o locali. In generale, in caso di sola rimozione di una parte di amianto, non serve alcun titolo abilitativo; se, ad esempio, si sostituisce una copertura in eternit con un altro manto coibentato, ci sarà bisogno di una Cila.
L’IMPRESA
L’impresa che effettua i lavori deve essere iscritta all'Albo nazionale gestori ambientali, in categoria 10: categoria 10A e/o 10B, a seconda che sia abilitata al trattamento dei soli materiali compatti (di solito cemento-amianto, eternit) o a tutti i tipi di bonifica.
La ditta deve avere dipendenti provvisti di patentino di abilitazione per coordinatore e operatori addetti alla bonifica. L’impresa che trasporta i materiali alla discarica –può essere anche la stessa che ha eseguito la rimozione– deve essere iscritta all’Albo in categoria 5.
AGEVOLAZIONI PER PERSONE FISICHE
Anche per le spese di rimozione dell’amianto su abitazioni e pertinenze (box, cantina, soffitta) si applica la detrazione Ipref del 50%, entro il limite di 96mila euro (articolo 16-bis del Dpr 917/1986). Per accedere ai benefici basta pagare le fatture con bonifico bancario o postale.
Se la rimozione dell’amianto è intervento di carattere condominiale sarà l’amministratore a provvedere al pagamento con bonifico in cui oltre alla partiva Iva dell’impresa esecutrice dei lavori indicherà anche il codice fiscale del condominio.
AGEVOLAZIONI PER LE SOCIETÀ
La detrazione del 50% non è applicabile per gli immobili posseduti da imprese e società nell’esercizio dell’attività commerciale. Ma le spese di rimozione amianto rientrano tra quelle detraibili quando si effettuano contestualmente gli interventi di risparmio energetico cui si applica la detrazione del 65 per cento.
Oltre agli edifici abitativi anche tutti gli edifici non residenziali e quelli a destinazione produttiva fruiscono di questa detrazione, se dotati di impianto di riscaldamento preesistente.
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Bonus del 50% anche per il 2016.
Persone fisiche. La detrazione confermata per gli immobili abitativi con il disegno di legge di Stabilità - In arrivo un credito di imposta per beni e strutture produttive.

Anche la leva fiscale può essere utilizzata per la rimozione di amianto/eternit presente nel patrimonio edilizio esistente in modo da ridurre significativamente i costi di questa operazione.
Gli sconti fiscali applicabili attualmente per le persone fisiche consentono la detrazione del 50% e, in taluni casi, del 65% per i contestuali interventi di risparmio energetico (si veda articolo in basso).
Si tratta di un’ottima opportunità di risparmio per chi vuole smaltire l’amianto. Ma come funziona l’incentivo? L’articolo 16-bis, comma 1, lettera l) del Dpr 917/1986, prevede espressamente, per gli interventi eseguiti su immobili abitativi e relative pertinenze (box, cantina, soffitta), la detraibilità dall’Irpef del 50% delle spese sostenute, entro il limite massimo di 96mila euro per gli interventi di bonifica dall’amianto.
La formulazione testuale della norma lascerebbe pensare che i benefici fiscali si possano applicare anche agli interventi eseguiti su immobili non abitativi, anche non pertinenziali, sempreché posseduti da persone fisiche, tenuto conto del carattere oggettivo della normativa che non limita espressamente alle abitazioni questa tipologia specifica di intervento. In pratica, se posseduto da una persona fisica l’edificio non residenziale (ufficio, negozio, capannone, ma anche tettoie, pollai e ricoveri di materiali), fruirebbe del bonus del 50% previsto per le abitazioni. Ma sul punto non sono mai arrivate conferme ufficiali.
Sino al 31.12.2015 (per ora ma la proroga al dicembre 2016 è contenuta nella legge di stabilità) l’importo della detrazione è pari al 50% delle spese sostenute sino a un ammontare massimo di 96mila euro, cioè 48mila euro da ripartirsi in dieci rate annuali fino a 4.800 euro ciascuna da recuperare con la presentazione della dichiarazione dei redditi. Perciò, chi spende 20mila euro per la bonifica dall’amianto potrà recuperare 10 mila euro in 10 quote annuali da mille euro.
A regime, invece, la detrazione sarà pari al 36% delle spese sostenute fino a un ammontare massimo di 48mila euro, cioè 17.280 euro da ripartirsi in dieci quote.
Per accedere ai benefici basta pagare le fatture con bonifico bancario o postale.
Nella maggior parte dei casi la rimozione dell’amianto è un intervento che interessa i condomini: in questo caso sarà l’amministratore a provvedere al pagamento con bonifico, in cui oltre alla partiva Iva dell’impresa esecutrice dei lavori indicherà anche il codice fiscale del condominio. Lo stesso amministratore poi rilascerà ai singoli condomini un’attestazione degli importi da ciascuno dei condomini detraibili sulla base della tabella millesimale.
Da ultimo nel Ddl «Collegato ambientale« (atto Senato 1676), è stato approvato un emendamento presentato dal Governo che prevede un credito di imposta del 50% delle spese sostenute nel 2016 per interventi di bonifica dell’amianto anche su beni e strutture produttive (con fondi pari a 5,6 milioni di euro per il triennio 2017-2019).
Il credito di imposta -quando entrerà in vigore- non si applicherà per investimenti di importo unitario inferiore a 20mila euro.
L’importo del credito sarà ripartito in tre quote di pari importo da recuperare in sede di dichiarazione dei redditi. Il credito non concorre alla determinazione del reddito né dell’imponibile Irap. Modalità e termini di applicazione del beneficio saranno rimesse a uno specifico decreto del Mef.
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Per le società abbinamento con il risparmio energetico
Persone giuridiche. Recuperabili al 65% i lavori connessi all’isolamento termico.

Per gli immobili posseduti da imprese e società nell’esercizio dell’attività commerciale la detrazione Irpef del 50% non è applicabile. Tuttavia, le spese di rimozione dell’amianto rientrano tra quelle detraibili quando si effettuano contestualmente gli interventi di risparmio energetico cui si applica la detrazione Irpef/Ires del 65% (prorogata al 2016 secondo il Ddl di stabilità).
In sostanza se l’intervento di rimozione dell’eternit è collegato a interventi sui serramenti, all’implementazione di un cappotto termico, all’installazione di pannelli solari termici, o caldaie a condensazione, all’aggiunta di un camino solare, o pompe di calore, allora la detrazione è pari al 65% della spesa sostenuta sino a un importo massimo di detrazione pari a 100mila euro per gli interventi di riqualificazione globale, ovvero 60mila per gli interventi sulle strutture opache orizzontali o verticali (cappotto, finestre o solai) o 30mila per gli interventi di sostituzione degli impianti termici.
Il perimetro
In pratica, mentre la detrazione del 65% non si applica di per sé alla sola rimozione dell’amianto, le spese complessive di riqualificazione energetica con contestuale rimozione dell’amianto, se non separatamente fatturate (altrimenti si perde il diritto al beneficio), fruiscono anche di questa maggiore detrazione.
Trattandosi di intervento di risparmio energetico non sussistono i limiti oggettivi previsti per la detrazione del 50%: quindi l’agevolazione vale sia per le abitazioni sia per tutti gli edifici non residenziali e quelli a destinazione produttiva. L’importante è che gli stessi siano accatastati prima dell’inizio dell’intervento e siano dotati di impianto di riscaldamento preesistente.
Anche sotto il profilo soggettivo, la detrazione del 65% non subisce i limiti previsto per il bonus fiscale per le ristrutturazioni edilizie e, quindi, si applica oltre che ai soggetti Irpef anche a imprese e società (soggetti Ires). In entrambi i casi, trattandosi di una detrazione è necessario che il soggetto che sostiene le spese abbia capienza di imposta, cioè Irpef o Ires da versare nell’anno di imposta da cui poter scomputare l’importo detraibile.
Facciamo un esempio: una società vuole rimuovere l’amianto e, contestualmente, coibentare il tetto per migliorare l’isolamento termico dell’edificio. Nell’ipotesi in cui al termine dei lavori di rifacimento del tetto si conseguano i prescritti valori di trasmittanza termica, tutte le spese sostenute, anche per la rimozione dell’amianto nel tetto, fruiscono dei benefici fiscali.
Se si tratta di intervento di risparmio energetico eseguito su immobile strumentale, la detrazione si applica senza problemi a prescindere dal fatto che le spese sostenute sono già elemento di costo nella determinazione del reddito di impresa o arti e professione (es. maggiore ammortamento per capitalizzazione dell’investimento ovvero abbattimento dal reddito imponibile). In sostanza, la spesa sostenuta rileva, sia nella determinazione del reddito che come detrazione dalle imposte sul reddito dovute sull’utile (Irpef o Ires). Fanno eccezione gli immobili non abitativi locati per i quali l’agenzia delle Entrate ha posto dei limiti all’applicazione del 65 per cento.
Per i titolari di reddito d’impresa (ditte individuali, società di persone o di capitali), infatti, la detrazione del 65% spetta solo se gli interventi di riqualificazione energetica sono eseguiti su fabbricati strumentali (per natura o destinazione) utilizzati nell’esercizio dell’attività imprenditoriale. Sono pertanto esclusi gli immobili locati a terzi (risoluzione n. 340/E/2008) e gli altri immobili posseduti dalle imprese o società. Tuttavia, i più recenti orientamenti giurisprudenziali di merito non riconoscono legittima questa interpretazione (si veda Il Sole 24 Ore del 29 giugno scorso).
La procedura
Il contribuente deve, in primo luogo, acquisire l’asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi il rispetto dei requisiti di trasmittanza termica. È necessario acquisire anche l’attestato di prestazione energetica dell’edificio e la scheda informativa dei lavori secondo lo schema contenuto nel Dm 19.02.2007.
Una volta ottenuta l’asseverazione, l’Ape e la scheda informativa, il contribuente deve inviarli all’Enea (tramite il programma informatico disponibile sul sito internet www.acs.enea.it) entro i 90 giorni successivi alla fine dell’intervento
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, turn-over ancora vincolato agli ex provinciali. Personale/1. La mobilità «copre» tutti gli spazi.
La disposizione contenuta nel disegno di legge di Stabilità 2016, che impone la riduzione del turn-over al 25%, non modifica il fatto che gli spazi assunzionali restano integralmente vincolati al riassorbimento dei dipendenti soprannumerari, mentre il 2017 e il 2018 sembrano essere orizzonti temporalmente troppo lontani per essere preoccupati ora per allora, considerata la “velocità” delle modifiche legislative.
L’ultimo intervento normativo in materia è rappresentato dall’articolo 3, comma 5, del Dl 90/2014, il quale stabilisce che gli enti locali possono assumere nel 2015 nel limite del 60% della spesa relativa alle cessazioni dell’anno precedente, nel 2016 e nel 2017 l’aliquota è fissata all’80% per salire al 100% dal 2018. Su questo impianto legislativo interviene il comma 424 della legge di stabilità di quest’anno, che impone di destinare le facoltà 2015 e 2016 all’assunzione dei vincitori di concorso relativi a graduatorie in vigore e approvate al 01.01.2015 e alla ricollocazione dei dipendenti in esubero degli enti di area vasta.
Considerato che, negli enti locali, è poca diffusa la situazione nella quale si hanno graduatorie approvate in assenza della nomina dei vincitori ovvero i pochi casi presenti si esauriranno con le facoltà 2015, nella sostanza tutto il budget 2016 a disposizione delle assunzioni vanno a favore dei soprannumerari degli enti di area vasta. Ma la disposizione prima richiamata impone agli enti locali di destinare anche la restante percentuale per arrivare al turn-over pieno alla sola ricollocazione del personale soprannumerario.
Riassumendo, per il 2016, l’80% delle cessazioni verificatesi nel 2015 è destinato ai vincitori di concorso, che, nei Comuni, saranno, presumibilmente, pari a zero, e agli ex provinciali, mentre il restante 20% è riservato ai soli soprannumerari. In pratica, quindi, tutta la spesa 2016 pari alle cessazioni 2015 è da destinare al riassorbimento del personale degli enti di area vasta in esubero.
In questo contesto, a cosa serve ridurre le facoltà assunzionali dall’80% al 25%? In costanza della previsione normativa attuale, l’80% delle cessazioni 2015 va a favore dei vincitori di concorso (che saranno assenti) e agli esuberi e il restante 20% ai soli soprannumerari. Con la nuova previsione contenuta nel disegno di legge di Stabilità per il 2016 si dovrebbe riservare il 25% alla prima fattispecie e l’ulteriore 75% alla seconda ipotesi. Ma in entrambi i casi, il totale (100%) sono destinati agli ex provinciali. E, quindi, quale è l’utilità o l’obiettivo della nuova disposizione? Le risposte sono del tutto ignote.
E se questo non fosse sufficiente, la legge di Stabilità 2016 aggiunge che «al solo fine di definire il processo di mobilità del personale degli enti di area vasta destinato a funzioni non fondamentali…. restano ferme le percentuali stabilite dall’articolo 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90….».
Quindi, con riferimento al 2016, resta ferma la percentuale dell’80% al solo fine dei riassorbire i provinciali. Se non si comprende quale sia la portata del primo periodo del comma in questione, ancora più perplessi lascia questa seconda parte. A cosa serve specificare che il turn-over resta all’80%? E quale destinazione possono avere queste facoltà assunzionali se non a favore degli ex provinciali?
La previsione della legge di stabilità 2016 potrebbe acquisire un significato solo nel caso in cui il percorso di riassorbimento dei dipendenti soprannumerari degli enti di area vasta si concludesse secondo le previsioni contenute nel decreto del ministero per la Semplificazione e per la pubblica amministrazione 14.09.2015, vale a dire entro la fine del marzo 2016, con la completa ricollocazione di tutti gli esuberi.
Ipotesi alla quale sembra non credere nemmeno il legislatore tanto che prevede, nella stessa legge di Stabilità, il commissariamento delle Regioni che, alla data del 30.01.2016, risultino ancora inadempienti rispetto alla scadenza, oggi fissata al 31.10.2015
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl rinnovo dei contratti dribbla i tetti di spesa. Personale/2. I costi sono a carico dei bilanci locali ma non entrano negli indicatori.
Sono passati più di sei anni dall’ultimo contratto nazionale. Talmente tanto che gli enti locali si trovano quasi disorientati di fronte alle percentuali e agli importi che circolano in questi giorni sui futuri incrementi stipendiali.
C’è bisogno di ripercorrere le regole vigenti, anche se, il mutato contesto normativo, potrebbe portare anche a soluzioni interpretative diverse.
Il tutto prende il via dall’articolo 48 del Dlgs 165/2001 che prevede che per le Regioni e gli enti locali le risorse per gli incrementi retributivi per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali sono definite dal Governo, nel rispetto dei vincoli di bilancio, del patto di stabilità e di analoghi strumenti di contenimento della spesa, previa consultazione con le rispettive rappresentanze istituzionali del sistema delle autonomie.
Lo stesso articolo, afferma, inequivocabilmente, che gli oneri di tale contrattazione sono determinati a carico dei rispettivi bilanci. Ciascun ente, quindi, dovrà prevedere in sede di bilancio, le somme per l’erogazione dei benefici a favore dei propri dipendenti.
Il contratto nazionale, poi, spalmerà gli importi a disposizione sulle varie categorie e posizioni economiche del comparto, prevedendo le somme da inserire in busta paga.
Ai fini del calcolo della spesa di personale, le somme riferite ai rinnovi contrattuali vanno escluse dalla base di calcolo. Infatti, ai sensi dell’articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 (finanziaria 2007) tali costi sono da neutralizzare per il monitoraggio nel tempo dell’obbligo di contenimento della spesa di personale, che, ai sensi del comma 557-quater della medesima disposizione, dovrà avvenire rispetto alla media del triennio 2011/2013. Per gli enti non soggetti a patto di stabilità, il riferimento, invece, è la spesa di competenza dell’anno 2008.
Su tale aspetto non debbono esserci dubbi. Oltre al chiaro disposto letterale della norma, la Corte dei conti, sezione autonomie, con la deliberazione 27/2011 ne ha individuato la ratio: da un lato operando il confronto tra esercizi escludendo in entrambi gli effetti dei rinnovi contrattuali si eliminano turbative all’andamento della serie, dall’altro i contratti nazionali hanno copertura predeterminata e comportano decisioni di spesa assunte aliunde e non di dominio immediato dell’ente.
I magistrati, però, ricordano che tali esclusioni non si possono applicare agli incrementi delle somme a favore della contrattazione integrativa decentrata.
La deliberazione, prende in esame, però, anche un’altra questione, ovvero quali voci siano da includere o da escludere al momento del calcolo del rapporto tra spese di personale e spese correnti, che, come stabilito dalla deliberazione 27/2015 della medesima sezione autonomie, riveste carattere cogente.
Al fine di verificare il rispetto dei parametri d’incidenza tra le spese di personale e la spesa corrente, l’aggregato spese di personale può essere direttamente riferito a quello già impiegato per l’applicazione del comma 557, ma è necessario operare un correttivo, per ristabilire l’equilibrio del confronto con l’insieme della spesa corrente. In tale prospettiva vanno, quindi, incluse nell’aggregato “spesa del personale” le voci escluse ai fini dell’applicazione del comma 557.
Al numeratore, quindi, va sempre indicata una spesa di personale “lorda
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

APPALTI: Enti pubblici al test riciclaggio. Sotto la lente appalti, sanità, rifiuti, energie rinnovabili. Riorganizzazione delle amministrazioni richiesta dagli adempimenti di segnalazione.
Appalti, sanità, produzione di energie rinnovabili, raccolta e smaltimento dei rifiuti sono le attività che presentano i maggiori rischi di riciclaggio, nonché i settori economici interessati dall'erogazione di fondi pubblici, anche di fonte comunitaria.

Sono questi, quindi, gli ambiti che devono essere monitorati con particolare attenzione dagli operatori di enti locali, istituti, scuole, aziende sanitarie e amministrazioni della p.a., secondo il
decreto 25.09.2015 del Ministero dell'interno, ai fini della segnalazione delle operazioni sospette di riciclaggio e finanziamento del terrorismo.
Ciò comporta una sostanziale opera di riorganizzazione degli uffici pubblici che dovranno concretamente attrezzarsi per verificare la sussistenza delle fattispecie previste negli indicatori previsti dal decreto, per scovare il possibile coinvolgimento dell'imprenditore, che entri in contatto con l'amministrazione, in situazioni di riciclaggio o finanziamento del terrorismo.
La collaborazione attiva delle pubbliche amministrazioni. Non più solo i professionisti e gli intermediari finanziari devono preoccuparsi, da un punto di vista operativo, di provvedere alle segnalazioni di operazioni sospette e agli obblighi antiriciclaggio.
Con il decreto del 25/09/2015, infatti, anche tutta la pubblica amministrazione deve concretamente attivarsi al fine di agevolare l'individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo (si veda ItaliaOggi del 09/10/2015). In effetti, ricordiamo che gli uffici della pubblica amministrazione rientrano fra i destinatari della normativa antiriciclaggio fin dalla legge 197/1991. Il dlgs 231/2007 conferma tale scelta all'art. 10, comma 2, prevedendo per detti uffici esclusivamente il rispetto degli obblighi di segnalazione di operazioni sospette.
Nonostante il dato normativo, tuttavia, afferma l'Uif nel suo rapporto annuale per il 2014: «Finora la pubblica amministrazione non ha dimostrato di avere, in generale, consapevolezza del proprio ruolo nell'ambito della collaborazione attiva». In proposito, il National Risk Assessment rileva che si tratta di una «vulnerabilità non di poco conto se si pensa alla rilevanza del fenomeno della corruzione ovvero alla presenza di ambiti fortemente appetibili per la criminalità come il settore degli appalti pubblici o dei finanziamenti comunitari».
Proprio al fine di sensibilizzare la p.a. sugli obblighi di collaborazione attiva, la Uif, unitamente al ministero dell'interno, ha provveduto a definire gli specifici indicatori di anomalia in commento che, in accordo al principio di proporzionalità e secondo un approccio basato sul rischio, tengono conto dei settori pubblici maggiormente esposti al rischio di riciclaggio. In proposito, gli ambiti di attività più colpiti risultano quelli interessati dalla movimentazione di elevati flussi finanziari, anche di natura pubblica, quali il settore fiscale, gli appalti e i finanziamenti pubblici.
Sul tema, comunque si tiene a precisare che la via intrapresa dall'Italia, non trova corrispondenza con la normativa europea in quanto la Direttiva 2005/60/Ce (c.d. III Direttiva), così come la Direttiva 2015/849 del 20.05.2015 (c.d. IV Direttiva), pubblicata in Guue del 05.06.2015 e da recepire negli ordinamenti nazionali entro la data del 26.06.2017 (si veda ItaliaOggi Sette del 05/10/2015), non contengono riferimenti a obblighi di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo a carico della p.a..
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Massima allerta sui comportamenti sotto la lente.
Non basta la verifica formale della documentazione fornita dalle imprese che chiedono di partecipare agli appalti o di ricevere dei fondi pubblici, piuttosto serve un controllo sostanziale dei comportamenti attuati dai richiedenti per individuare possibili fattispecie tipizzate negli indicatori previsti dal decreto con conseguente responsabilità sui responsabili dei procedimenti e sui dirigenti delle strutture pubbliche.
Si tratta di controlli di non semplice realizzazione pratica anche considerando che il decreto tiene a precisare la non esaustività dell'elencazione delle anomalie e inoltre che l'impossibilità di ricondurre operazioni o comportamenti a uno o più degli indicatori previsti nell'allegato del decreto non è sufficiente a escludere che l'operazione sia sospetta.
Gli operatori devono, pertanto, valutare con la massima attenzione ulteriori comportamenti e caratteristiche dell'operazione che, sebbene non descritti negli indicatori, siano egualmente sintomatici di profili di sospetto. Per quanto riguarda, poi, il sospetto di operazioni riconducibili al finanziamento del terrorismo, il decreto puntualizza che lo stesso può essere desunto anche dal riscontro di un nominativo e dei relativi dati anagrafici nelle liste pubbliche consultabili sul sito della Uif.
A riguardo, si chiarisce comunque che, ai fini della segnalazione, non è sufficiente la mera omonimia, qualora il segnalante possa escludere, sulla base di tutti gli elementi disponibili, che uno o più dei dati identificativi siano effettivamente gli stessi indicati nelle liste, intendendo per dati identificativi le cariche, le qualifiche e ogni altro dato riferito nelle liste che risulti incompatibile con il profilo economico-finanziario e con le caratteristiche oggettive e soggettive del nominativo.
Nell'ottica operativa, infine, il decreto richiede che gli operatori della p.a. adottino in base alla propria autonomia organizzativa, procedure interne di valutazione che culminano con la trasmissione delle informazioni relative all'operazione sospetta a un soggetto denominato «gestore».
Quest'ultimo può coincidere con il responsabile della prevenzione della corruzione previsto dall'art. 1, comma 7, legge 190/2012. Negli enti locali con popolazione inferiore a 15 mila abitanti può essere individuato un gestore comune ai fini dell'adempimento dell'obbligo di segnalazione delle operazioni sospette (articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestioni associate verso lo stop. Nei correttivi incentivi reali e la cancellazione delle rigidità del meccanismo.
L’assemblea dell’Anci. Comuni fino a 5mila abitanti: il Governo apre alla sospensione degli obblighi previsti dal 01.01.2016.

Dal governo arriva, all’assemblea dell’Anci, un sostanziale via libera alla sospensione degli obblighi di gestione associata per i quasi 6mila piccoli Comuni, che dovrebbe partire dal 1° gennaio senza che però siano stati affrontati i problemi alla base della pioggia di proroghe di questi anni.
«Avviamo subito il confronto con i sindaci sulla via da imboccare -apre il sottosegretario di Palazzo Chigi, Claudio De Vincenti, che segue i dossier della manovra sugli enti locali- tenendo fisso l’obiettivo di una crescita dimensionale delle amministrazioni per aumentare la capacità di garantire servizi». L’obiettivo, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, è condiviso, ma finora gli obblighi di gestione associata hanno prodotto più rinvii che riorganizzazioni amministrative per gestire insieme servizi sociali, sicurezza, asili nido, protezione civile e così via.
La storia di questi obblighi data infatti dal 2010, e prevedeva un calendario progressivo con l’associazione di tre funzioni fondamentali all’anno: il fallimento di queste tappe ha portato al termine unico del 1° gennaio prossimo, ma le indagini avviate nelle scorse settimane dal Viminale hanno certificato che la situazione è ferma. Di qui l’idea della nuova sospensione, che potrebbe arrivare con gli emendamenti alla manovra o in un altro provvedimento se sarà considerata misura troppo “ordinamentale” per finire nella legge di stabilità.
Gli ostacoli lamentati dai Comuni sono due: l’assenza di incentivi reali alle associazioni e soprattutto l’eccessiva rigidità del meccanismo, che impone a tutti i Comuni sotto i 5mila abitanti (3mila in montagna) di costruire associazioni che amministrino almeno 10mila abitanti.
Densità demografiche e articolazioni dei servizi cambiano però da territorio a territorio, e lo stesso target di 10mila abitanti può rivelarsi facilissimo da raggiungere in alcune aree e praticamente impossibile in altre. Le Regioni avrebbero potuto ritoccare questi parametri, ma poche l’hanno fatto a conferma di una scarsa attenzione collettiva sulla traduzione degli obblighi in realtà.
Una nuova sospensione non basterebbe ovviamente a risolvere i problemi, ma l’idea è di utilizzare il nuovo tempo supplementare per ripensare integralmente le regole. «Bisogna cancellare il criterio legato al numero di abitanti -rilancia Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente Anci- e cominciare a ragionare per bacini omogenei di aggregazione, dentro cui sviluppare unioni decise dagli stessi Comuni. In sei mesi si può fare».
Nell’agenda dei piccoli Comuni c’è però anche un’altra scadenza, ancora più ravvicinata e intricata nella gestione. Dal 1° novembre i sindaci fino a 10mila abitanti non potranno più ottenere il via libera per nessun acquisto che non passi dalle centrali uniche, mentre la manovra ridisegna tutto il sistema dal 1° gennaio prossimo, estendendo ai piccoli Comuni la deroga per i mini-acquisti (fino a 40mila euro) già prevista per gli altri.
Senza un intervento, si rischia un blocco bimestrale degli appalti provocato da una norma che di fatto è stata accantonata dallo stesso governo: per rimediare, però, è indispensabile un correttivo da far entrare in vigore subito. La sede potrebbe essere il decreto con il salva-Regioni che nel prossimo Consiglio dei ministri fisserà le regole per consentire il ripiano in 30 anni dei disavanzi creati dall’errata gestione delle anticipazioni di liquidità prodotte dai provvedimenti del 2013 che hanno sbloccato i pagamenti alle imprese.
In discussione, in vista di quel provvedimento, c’è anche l’ipotesi di sanatoria per le delibere con gli aumenti fiscali approvate dai Comuni dopo il termine per i bilanci preventivi scaduto il 30 luglio scorso (il problema non riguarda la Sicilia, dov’era arrivata la proroga fino al 30 settembre).
Il problema riguarda circa mille Comuni, molto spesso per la revisione dei parametri della Tari (la tariffa rifiuti era stata oggetto di sanatoria ex post anche nel 2014), la pressione per un intervento è forte ma si scontra con la contrarietà di Palazzo Chigi (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), perché permettere di applicare le aliquote approvate fino al 30 settembre significherebbe nei fatti annullare l’effetto più importante del «no» a nuove proroghe dei preventivi imposto a luglio dal Governo. Non solo: l’annuncio dell’addio alla Tasi sull’abitazione principale è stato dato dal premier Matteo Renzi il 18 luglio, e c’è il timore di possibili aumenti “strumentali” con il solo obiettivo di far crescere i rimborsi per il mancato gettito dei prossimi anni (come accaduto sulla mini-Imu due anni fa).
Intanto l’Economia, che nelle settimane scorse aveva invitato i sindaci ad annullare le delibere in autotutela, ha avviato i ricorsi contro i Comuni che stanno provando ad applicarle comunque, chiedendo al Tar la sospensione per evitare problemi nel saldo di dicembre
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Associazionismo forzoso flop. Meglio forme di aggregazione spontanee e omogenee. ASSEMBLEA ANCI/ La tesi dei comuni piace al governo. L'obbligo verso il rinvio.
L'associazionismo comunale forzoso è fallito. L'obbligo per i piccoli comuni di mettere insieme le funzioni su base demografica, imposto dal decreto legge n. 78/2010, va messo definitivamente da parte, per ripartire invece da forme di aggregazione spontanea, dal basso, sulla base di bacini omogenei per territorio.
Ecco perché l'appuntamento con l'obbligo di gestione associata delle funzioni, previsto per il 01.01.2016, va nuovamente spostato in avanti. Ma questa volta non dovrà trattarsi di una semplice proroga, bensì di un ripensamento globale di un modello che «ha fallito» (come certificato anche dal ministero dell'interno e dalla Corte dei conti, si veda ItaliaOggi del 04/09/2015).

Lo chiedono i comuni e lo pensa anche il governo che su questo punto ha promesso «non il solito emendamento di proroga per risolvere una situazione emergenziale, ma un intervento di ampio respiro per realizzare processi aggregativi senza forzature».
Il sottosegretario al ministero dell'interno, Gianpiero Bocci, intervenendo a Torino all'assemblea dell'Anci, ha risposto così alle sollecitazioni dei sindaci dei piccoli comuni, i primi interessati a uscire da una situazione di stallo che sta penalizzando anche le unioni. «
L'obbligatorietà delle funzioni sta creando un clima di sfiducia», ha osservato Dimitri Tasso, coordinatore della Conferenza nazionale Unioni di comuni e associazionismo dell'Anci, «perché la normativa non chiarisce bene quali siano le funzioni da mettere insieme, mentre invece associare i servizi non crea alcun problema. Ecco perché occorre una sospensiva, per riscrivere velocemente le regole. Sei mesi potrebbero bastare per individuare i bacini omogenei».
Parole che suonano come musica per le orecchie di chi come Franca Biglio, presidente dell'Anpci, l'associazione nazionale dei piccoli comuni, si è sempre pervicacemente opposto all'associazionismo calato dall'alto, propugnando invece un modello di aggregazione basato sulla condivisione dei servizi. «Finalmente l'Anci ha capito quello che noi diciamo da sempre: l'associazionismo forzoso avrebbe distrutto i piccoli comuni e il paese». «Ora però», ha messo in guardia il sindaco di Marsaglia (Cn), «non vorremmo che si cadesse dalla padella alla brace. I bacini ottimali devono essere decisi dal basso, ma non dalle province, come invece sostiene l'Anci (lo ha ribadito ieri in assemblea il sindaco di Pesaro Matteo Ricci ndr) perché questo significherebbe far prevalere nuovamente le decisioni dei grandi comuni favoriti dal meccanismo del voto ponderato».
I piccoli comuni saranno dunque al centro delle interlocuzione tra sindaci e governo nei prossimi mesi. E per questo la platea dell'Anci ha accolto con favore l'annuncio del ministro dell'interno, Angelino Alfano, di dedicare una delle prossime riunioni della Conferenza stato-città esclusivamente alle problematiche dei mini enti che spesso lamentano di essere dimenticati dal governo nonostante costituiscano il 70% dei municipi italiani e il 54% del territorio.
«I piccoli comuni rappresentano solo l'1% della spesa pubblica ma in questi anni sono stati colpiti da politiche restrittive che ne hanno solo incrementato la crisi e lo spopolamento», precisa Massimo Castelli, sindaco di Cerignale (Pc) e coordinatore nazionale Anci piccoli comuni, «bisogna quanto prima invertire la rotta favorendone il ripopolamento con incentivi e semplificazioni».
La legge di stabilità, tuttavia, nella parte in cui riduce il turnover al 25%, rendendo di fatto impossibile rimpiazzare il personale cessato nei mini enti, sembra andare in direzione opposta.
Il tema delle riforme si lega, infatti, a doppio filo al cantiere della manovra che in linea di massima piace all'Anci.
I sindaci apprezzano il superamento del patto di stabilità, sostituito con il pareggio di bilancio light (entrate finali e spese finali di competenza), lo sblocco degli avanzi di amministrazione per realizzare gli investimenti (anche se sul punto, a causa anche della scarsa chiarezza del ddl, permangono forti dubbi, come ha osservato Pier Sandro Scano, sindaco di Villamar (Vs) e presidente di Anci Sardegna), la maggiore spinta su fabbisogni standard e capacità fiscale per l'attribuzione delle risorse e la compensazione integrale del gettito Imu-Tasi mancante dopo l'abolizione delle tasse sulla prima casa. Ma ci sono ancora alcuni importanti nodi da sciogliere. In primis i 500 milioni di tagli alle province che renderebbero impossibile agli enti di area vasta la gestione delle funzioni fondamentali.
Sul punto, però, è arrivata un'apertura dal sottosegretario alla presidenza del consiglio, Claudio De Vincenti che ha promesso alle province l'impegno del governo a «garantire le risorse necessarie a svolgere la loro missione istituzionale in attesa che si compia il processo di riforma». Un impegno apprezzato dal presidente dell'Upi e sindaco di Vicenza, Achille Variati.
«È un segnale positivo che va nella direzione giusta, per arrivare a modificare il taglio agli enti di area vasta, partendo da dati certi», ha commentato. De Vincenti, infine, ha difeso il contestato tetto del turnover, precisando come non sia in contraddizione col decreto Madia del 2014, ma vada invece inquadrato proprio nell'ottica della riforma della p.a. recentemente approvata dal parlamento (legge n. 124/2015). Il tetto in ogni caso non impatterà negativamente sul ricollocamento del personale provinciale (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGOIl trattamento accessorio ancorato ai soldi del 2015.
Dal 2016, l'ammontare delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale pubblico non potrà superare l'importo del 2015 e dovrà essere progressivamente ridotto in proporzione alle cessazioni dal servizio.

Il ddl di stabilità 2016 torna all'antico e, dopo la breve pausa del 2015, rimette la sordina alla contrattazione decentrata.
È solo da quest'anno, infatti, che è venuto meno il tetto previsto dall'art. 9, c. 2-bis, del dl 78/2010, che fino al 2014 prevedeva un meccanismo analogo di contenimento, calibrato però sul 2010 come anno di riferimento. La nuova norma, peraltro, presenta una formulazione leggermente diversa da quella contenuta nelle prime bozze. Da un lato, il limite viene esplicitamente previsto solo «nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17» della Legge Madia.
Dall'altro lato, fermo restando che il tetto al fondo è rappresentato, come detto, dall'importo del 2015, non si prevede più che esso debba essere «determinato ( ) ai sensi dell'art. 9, c. 2-bis, secondo periodo» del dl 78/2010. Tale inciso sembrava implicare che eventuali incrementi, pur possibili nel 2015, dovessero essere recuperati dal 2016. Inoltre, a differenza di quanto accadeva in passato, è stato inserito un nuovo riferimento al «personale assumibile» per calcolare l'entità del taglio.
Restano comunque possibili le progressioni economiche orizzontali. Ovviamente, come evidenzia la relazione al testo, a essere cambiato è soprattutto il contesto generale, in quanto si è riattivato il meccanismo degli scatti stipendiali. In questo contesto, è chiaro che gli enti hanno ora convenienza ad aumentare il più possibile il fondo 2015, sia per ripararsi dai futuri tagli, sia per incrementare il proprio monte salari in vista di un eventuale ulteriore incremento del contratto collettivo nazionale.
Di regola, infatti, la quota di incremento del Ccnl legato alla produttività, e dunque attribuito al fondo, è espresso come una percentuale del monte salari di ciascun ente. Sui contratti, c'è da notare che i 300 milioni valgono lo 0,3% dato dall'inflazione prevista nel 2015. Non si parla più dell'indice Ipca che in base alla riforma Brunetta doveva sostituire il vecchio sistema proprio da questa tornata contrattuale e che è molto superiore: 1,5 nel 2015 (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).

TRIBUTI: Online il nuovo portale della giustizia tributaria.
Dal calcolo del contributo unificato dovuto sul ricorso alla prenotazione degli appuntamenti con la commissione tributaria, dalla modulistica per richiedere copia delle sentenze o il certificato di pendenza all'elenco dei soggetti autorizzati alla difesa del contribuente presso Ctp e Ctr.

È online il nuovo portale della giustizia tributaria, realizzato dal Dipartimento delle finanze del Mef. Il sito, i cui contenuti e l'erogazione dei servizi sono curati dalla Direzione giustizia tributaria, svolgerà anche la funzione di punto unico di accesso al processo tributario telematico, in partenza dal prossimo 1° dicembre in via sperimentale nelle commissioni della Toscana e dell'Umbria.
Attraverso l'indirizzo web http://giustiziatributaria.gov.it contribuenti ed enti impositori potranno effettuare online il deposito dei ricorsi e degli atti processuali, come pure accedere al fascicolo informatico del processo e consultare tutti gli atti e i provvedimenti emanati dal giudice. Strumenti necessari per poter fruire dei servizi del processo tributario telematico sono il possesso di una casella di posta elettronica certificata e di una firma digitale valida.
Il sito contiene anche una sezione specifica dedicata alla rassegna di giurisprudenza tributaria. Ed è proprio su questo tema che, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, a poche ore dal «lancio» del portale alcuni giudici hanno sollevato qualche perplessità, relativa ai criteri di selezione delle sentenze da parte del Mef.
Come spiegato dalla Direzione giustizia tributaria sul sito, tuttavia, la panoramica sulle massime «si propone di offrire risalto ad alcune delle più interessanti pronunce segnalate dalle commissioni tributarie», senza quindi privilegiare né quelle pro-fisco né quelle pro-contribuente e in maniera più tempestiva che in passato (l'aggiornamento avverrà ogni 15 giorni).
Il portale sarà utilizzabile anche dai magistrati tributari, che potranno fruire di diversi servizi personalizzati accessibili dalla «scrivania del giudice», tra cui la ricerca delle sentenze delle commissioni tributarie e la consultazione del fascicolo processuale telematico (articolo ItaliaOggi del 29.10.2015).

APPALTIComuni, gli appalti a rischio. Il sistema non è pronto: Cantone sollecita una soluzione al Governo.
Spending review. Dal primo novembre scatta l’obbligo di aggregare le gare per le città non capoluogo.

Appalti dei Comuni a rischio blocco dal primo novembre. Dopo sei proroghe consecutive entra in vigore la norma che impone a tutte le città non capoluogo di aggregare le gare, attraverso consorzi e unioni di comuni oppure passando dagli uffici di una provincia o da un soggetto aggregatore.
Dalla prossima settimana solo i grandi comuni potranno continuare a bandire le gare in autonomia. Per tutti gli enti non capoluogo scatta invece la tagliola prevista dalla spending review inaugurata dal Governo Monti nel 2012: per risparmiare e permettere di controllare meglio la spesa le gare vanno aggregate. Un principio che vale per beni e servizi, ma anche per i lavori pubblici.
A meno di proroghe dell’ultim’ora non c’è possibilità di aggirare i vincoli. Chi non si adegua non potrà neppure avviare l’iter di gara. La norma del codice appalti che impone l’aggregazione, e che finora è rimasta congelata a suon di proroghe (articolo 33, comma 3-bis), vieta infatti all’Autorità Anticorruzione di rilasciare il codice che identifica la procedura (il cosiddetto codice Cig) la cui richiesta è propedeutica alla pubblicazione dei bandi di gara.
Uno spauracchio che non è bastato. Nel Paese degli 8mila campanili finora poco o nulla si è mosso sul fronte della centralizzazione degli appalti. Anche il sistema dei 35 soggetti aggregatori è in via di formazione. Qualche Regione è pronta a partire, altre sono indietro. In alcune aree del paese i sindaci non saprebbero a chi rivolgersi per bandire le loro gare. Dunque è più che concreto il pericolo di mandare in stallo gli appalti dei comuni: il principale tra i motori che in questi ultimi mesi hanno tenuto faticosamente a galla i lavori pubblici.
Se ne rende conto anche l’Anac di Raffaele Cantone. Che non a caso in queste ore sta lavorando a un documento da inviare a Governo e Parlamento per segnalare l’urgenza di una soluzione. Il problema si era già posto, negli stessi termini, a luglio 2014, alla scadenza di una delle tante proroghe concesse ai Comuni in ritardo sugli obblighi di aggregazione degli acquisti. Allora l'impasse fu superata con l'inserimento di una nuova proroga nel Dl 90/2014 e la decisione di Cantone di sbloccare il rilascio dei codici di gara (Cig) in anticipo sulla conversione del decreto. Uno scenario che potrebbe replicarsi anche ora.
Ad aggravare la situazione e c'è il fatto che l'entrata in vigore dal primo novembre porterebbe due mesi di caos totale per i Comuni più piccoli. Con le regole in vigore, infatti, quelli sotto i 10mila abitanti non possono bandire gare in autonomia, neppure sotto la soglia di 40mila euro. Dal primo gennaio, però, in base alla legge di Stabilità potranno farlo. C'è da scommettere che in questi 60 giorni la maggioranza dei sindaci tirerà i remi in barca, aspettando il 2016 per ricominciare a gestire gli appalti in maniera ordinata.
Per questo è allo studio un emendamento al Dl sulla finanza locale (promosso dai Comuni, ma non ancora presentato), per collegare l’entrata in vigore dei vincoli di aggregazione alla partenza del nuovo Codice appalti. Una riforma che peraltro continua a slittare in Parlamento.
L’esame della delega al governo per riscrivere il sistema dei contratti pubblici, calendarizzato per ieri, è stato rinviato alla prossima settimana su richiesta del Governo. Motivazione ufficiale: la necessità di riesaminare il testo varato dalla Commissione Lavori pubblici guidata da Ermete Realacci per blindarlo rispetto a ipotesi di ulteriori modifiche al Senato. Ma forse pesa anche l’assenza del premier Matteo Renzi , impegnato nel viaggio istituzionale in Sud America, alla vigilia dell’approvazione di una riforma decisiva per il settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2015).

VARIPrestito vitalizio ipotecario, pronto lo schema di offerta. Accesso al credito. Parere favorevole del Consiglio di Stato al regolamento.
Il prestito vitalizio ipotecario è quasi pronto per il debutto, in conseguenza del parere favorevole espresso dal Consiglio di Stato (parere 16.10.2015 n. 2791) sullo schema di regolamento attuativo, previsto dall'articolo 1, legge 02.04.2015, numero 44 (che ha sostituito il comma 12 dell'articolo 11-quaterdecies del decreto legge 203/2005): la nuova norma ha rivisitato, un istituto finora assai poco diffuso, finalizzato a consentire l'accesso al credito al proprietario di età superiore a 60 anni di un immobile
In poche parole, si consente alla persona avanti con gli anni di acquisire liquidità senza dover vendere la piena o la nuda proprietà dell'immobile; e ciò mediante la stipula di un mutuo a garanzia del quale viene iscritta un'ipoteca sull'immobile di sua titolarità.
In caso di decesso del mutuatario, i suoi eredi hanno l'alternativa di “recuperare” l'immobile libero da ipoteche, corrispondendo alla banca quanto le è dovuto, oppure di vendere il bene e soddisfare il credito della banca, in tutto o in parte, con quanto ricavato dalla cessione; infine, qualora entro dodici mesi dall'apertura della successione il credito della banca non risulti soddisfatto, la banca potrà vendere l'immobile in base al valore del bene determinato in una perizia predisposta da un perito indipendente (con la facoltà di trattenere la parte del prezzo occorrente per soddisfare il suo credito e riversando il resto agli eredi).
La nuova normativa dunque imponeva al ministro dello Sviluppo economico (Mise) di emanare, entro tre mesi dalla sua data di entrata in vigore (06.05.2015), una disciplina regolamentare sentite l'associazione bancaria italiana (Abi) e le associazioni dei consumatori: nel regolamento il Mise avrebbe dovuto fissare le regole cui il soggetto finanziatore si deve attenere nell'offerta al pubblico e nella diffusione sul mercato del prestito vitalizio ipotecario, nell'ottica di garantire trasparenza e certezza in merito all'importo oggetto del finanziamento, ai termini di pagamento, alla corresponsione degli interessi e a ogni altro costo dovuto dal cliente.
Dallo schema di decreto si evince che, a tutela del soggetto finanziato, il soggetto finanziatore dovrà sottoporre al richiedente due prospetti informativi, esemplificativi del piano di ammortamento, al fine di palesare il possibile andamento del debito nel tempo; e pure dovrà produrre la relativa documentazione precontrattuale e le informazioni minime circa l'operazione. È disposto inoltre che il soggetto finanziato potrà stipulare la polizza assicurativa inerente l'immobile concesso in garanzia anche presso un soggetto differente da quello finanziatore; e che egli avrà, in ogni caso, il diritto di ricevere un resoconto della propria posizione debitoria.
Viene anche previsto che, qualora il soggetto finanziato non intenda addivenire alla stipula del prestito vitalizio ipotecario, pur avendo egli attivato la fase pre-contrattuale, sarà vietato all'istituto finanziatore di esigere il pagamento delle spese sostenute dal finanziatore.
Il Consiglio di Stato, pur avendo espresso il proprio parere favorevole allo schema di decreto di regolamento, ha tuttavia invitato il Mise ad apportarvi taluni emendamenti al fine di fornire maggiori tutela e informazione al soggetto finanziato.
In particolare sono state richieste modifiche alle modalità di revoca integrale del finanziamento qualora l'immobile concesso in garanzia subisca procedimenti conservativi o esecutivi di importo pari o superiore a una data percentuale del valore del finanziamento o del valore dell'immobile concesso in garanzia, nonché, agli effetti dell'eventuale anticipata estinzione del finanziamento nei confronti degli eredi
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti elettrici più facili da smaltire.
Semplificato lo svolgimento delle attività di ritiro gratuito da parte dei distributori di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di piccolissime dimensioni. Tale semplificazione si applica ai distributori obbligati a effettuare il ritiro secondo il criterio dell'uno contro zero, ma anche a quei distributori che, pur non essendo obbligati a farlo (perché la loro superficie di vendita è inferiore a 400 mq o perché effettuano solo vendite a distanza) decidano spontaneamente di adottare tale criterio di ritiro gratuito.

Il consiglio di stato con il parere 06.10.2015 n. 2750 ha dato l'ok allo schema di decreto ministeriale recante «Modalità semplificate per lo svolgimento delle attività di ritiro gratuito da parte dei distributori di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di piccolissime dimensioni, nonché requisiti tecnici per lo svolgimento del deposito preliminare alla raccolta».
Viene ribadito, inoltre, che il ritiro secondo il criterio dell'uno contro zero ha a oggetto soltanto Raee di piccolissime dimensioni provenienti dai nuclei domestici, conformemente a quanto previsto dall'articolo 11 del dlgs n. 49 del 2014.
L'art. 4 del dm prevede due principi fondamentali in materia di ritiro secondo il criterio dell'uno contro zero: la gratuità e l'informazione all'utilizzatore finale. I distributori devono garantire il rispetto di tali principi, e in particolare, con riferimento al secondo, hanno l'obbligo di informare gli utilizzatori finali della gratuità del ritiro, e promuovere campagne informative al fine di incentivarlo.
Vengono definite le procedure per il conferimento dei Raee di piccolissime dimensioni da parte degli utilizzatori finali e disciplina i requisiti tecnici per allestire il luogo di ritiro all'interno dei locali del punto vendita del distributore o in prossimità immediata di essi, determinandone in maniera precisa le caratteristiche.
Si tratta di uno o più contenitori che il distributore mette a disposizione dell'utilizzatore finale, e che sono facilmente accessibili e individuabili, riparati da agenti atmosferici, tali da tutelare la salute e la sicurezza di colui che conferisce i Raee e impedire che soggetti terzi possano asportare quanto conferito.
Conformemente a quanto previsto dall'articolo 11, comma 3, dlgs n. 49 del 2014 (che aveva riguardo solo al regime transitorio) si prevede una raccolta separata dei Raee d'illuminazione e di quelli pericolosi dagli altri Raee conferiti (articolo ItaliaOggi del 28.10.2015).

CONDOMINIOLe «varie ed eventuali» non ammettono delibere. Prevale l’obbligo di preventiva informazione.
Assemblee. Vademecum sull’uso dello spazio aperto nell’ordine del giorno.

A fine assemblea, l’ultimo punto dell’ordine del giorno presenta invariabilmente la dicitura “varie ed eventuali”. Ma cosa può concretamente significare? E cosa si può decidere davvero?
I giuristi che hanno indagato la formula sono concordi nel ritenere che la voce in esame sia volta a individuare:
1) comunicazioni rese dall’amministratore o dai condomini senza l’impegno di spesa, salvo il caso di minimi esborsi;
2) suggerimenti e raccomandazioni rivolte dai condomini alla persona dell’amministratore;
3) richieste di chiarimenti allo stesso amministratore al fine di ottenere indicazioni operative in ordine a particolari condotte o prassi applicative;
4) richieste di inserimento di una determinata questione o argomento all’ordine del giorno di una prossima assemblea;
5) relazioni di aggiornamento su questioni già oggetto di precedente discussione all’esito di mandati esplorativi o di attività di scrutinio e selezione di preventivi di spesa;
6) argomenti di secondaria importanza e di minimo rilievo pratico e comunque tali da non richiedere una specifica menzione nell’ordine del giorno e di essere oggetto di una deliberazione assembleare.
Ma quali criticità può sollevare l’eventuale inserimento di questa voce, apparentemente innocente, nell’ordine del giorno?
La questione principale è data dalle conseguenze che possono determinarsi a fronte di una eventuale discussione e deliberazione da parte dell’organo assembleare. Infatti, le delibere assunte sotto la voce in esame, potendo violare l’obbligo di preventiva informazione dei condomini convocati in assemblea, si prestano a essere impugnate al fine di farne accertare la loro invalidità.
Tale voce, infatti «non può tradursi in un contenitore eterogeneo, da cui far scaturire argomenti a sorpresa per gli ignari condomini» (così afferma il Tribunale di Roma, sentenza del 19.06.2012, n. 12684). Ciò ha condotto parte della dottrina e della giurisprudenza a orientarsi per una tesi decisamente restrittiva, la quale ritiene che, pur consentendo tale voce la discussione in sede assembleare di qualsiasi argomento, ancorché lo stesso non figuri espressamente nell’ordine del giorno, nessuna deliberazione, a pena di annullabilità, può invece essere assunta all’esito della discussione medesima.
Ne consegue che se, a seguito dell’informazione e della relativa discussione sul punto, emerga la necessità di adottare una decisione in merito a qualche argomento ritenuto particolarmente rilevante e bisognoso di una più approfondita valutazione, la delibera dovrà necessariamente essere rimandata a una successiva riunione, nella quale sarà inserito tale argomento nell’ordine del giorno con una voce specifica.
La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha segnato i limiti di impiego della formula di stile offrendo un ventaglio di fattispecie concrete senza dubbio idonee a orientare la condotta dell’amministratore e della stessa assemblea dei condòmini.
In particolare, tra le deliberazioni assunte dall’assemblea che risultano non idonee a essere inserite sotto la dizione “varie ed eventuali” si segnalano:
1) l’esecuzione di lavori di rifacimento della facciata dell’edificio condominiale, precisandosi, al riguardo, che il relativo argomento debba al contrario essere specificamente inserito nell’avviso di convocazione dell’assemblea, in quanto attinente alla materia dell’amministrazione straordinaria del bene comune;
2) la diffida assembleare alla rimozione di piante posizionate sul balcone di un condomino;
3) la costituzione di un fondo speciale finalizzato a fronteggiare spese condominiali urgenti;
4) il pagamento del compenso a un professionista il quale abbia prestato la propria opera a vantaggio del condominio, laddove tale spesa non sia contemplata nell’ordine del giorno e ove non sia raggiunta la prova circa il conferimento dell’incarico stesso;
5) la decisione di abbattimento di un albero proposta dal condomino quale utilizzatore esclusivo di un giardinetto condominiale;
6) la decisione di stipulare un contratto di assicurazione contro gli incendi;
7) l’autorizzazione concessa a un condomino per la realizzazione di una pensilina;
8) la decisione di diniego all’installazione da parte di un condomino di una canna fumaria sul muro perimetrale dello stabile condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALibertà di parabola, limiti all’installazione. Tlc. Sul tetto solo se non c’è spazio nei locali privati.
L’installazione di una parabola o antenna sul terrazzo condominiale può essere effettuata dal condòmino non arbitrariamente, ma tenendo conto del libero uso della proprietà comune da parte degli altri condòmini, nel rispetto del decoro architettonico e se non c’è la possibilità di utilizzare spazi propri.
L’applicazione di tali regole, fissate dall’articolo 1122-bis del Codice civile, sono state ribadite dal TRIBUNALE di Roma con la sentenza n. 9279/2015.
A fronteggiarsi sono un condominio e una società conduttrice di un ampio locale commerciale all’interno del fabbricato. La società chiede all’amministratore una copia delle chiavi di accesso al terrazzo condominiale, per poter installare un’antenna parabolica per la ricezione del segnale satellitare, utile per lo svolgimento della propria attività lavorativa, comprendente gestione di attività di front e back office, recapito corrispondenza e sorveglianza non armata. L’amministratore si rifiuta di consegnare le chiavi, negando il diritto all’uso del bene comune.
La disputa, dopo l’esito negativo della procedura di mediazione, arriva in Tribunale dove la società ribadisce il suo diritto all’installazione della parabola, che le avrebbe fatto risparmiare anche 84 euro al mese rispetto all’abbonamento Adsl che aveva in essere. Il condominio, dal canto suo, sostiene che il diritto vantato dalla società non sia assoluto, ma che deve invece «considerarsi subordinato alla condizione della impossibilità di utilizzare spazi propri»: condizione che nel caso non sussisteva, potendo la società «installare l’antenna sulle mura del fabbricato da essa condotto in locazione».
Il Tribunale ha rigettato la richiesta della società, alla luce del costante indirizzo giurisprudenziale che riconosce l’esistenza del diritto a installare parabole e antenne sul terrazzo condominiale, prevedendo però alcuni limiti: l’impianto non deve impedire il libero uso della proprietà comune da parte degli altri condomini; non deve recar danno alla proprietà comune, specie sotto il profilo del decoro architettonico; e deve risultare l’impossibilità per il condomino di utilizzare spazi propri.
E in riferimento a tale ultimo limite, la non adeguatezza degli spazi propri deve essere provata. Nel caso di specie, la società non solo non ha fornito la prova della impossibilità di installare l’impianto sull’immobile da essa condotto in locazione, ma la parabola, come affermato dalla Ctu, avrebbe potuto effettivamente essere installata sulla porzione di fabbricato della stessa società
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Ingegneri, niente albo se lavorano per la p.a..
Non è automatico il diritto al rimborso della tassa di iscrizione all'albo per gli ingegneri dipendenti per cui è previsto il solo obbligo di abilitazione professionale. Gli ingegneri dipendenti pubblici e appartenenti agli uffici tecnici delle stazioni appaltanti possono espletare attività di progettazione per conto della p.a. con il requisito della (mera) abilitazione, senza necessità di iscrizione all'albo.
Perciò in questo caso, a differenza degli avvocati, non si può affermare che l'iscrizione all'albo è presupposto indispensabile per svolgere l'attività a favore dell'ente di appartenenza.

Questa è quanto si legge nella circolare 21.10.2015 n. 615 del Consiglio nazionale ingegneri in merito alla sentenza n. 7776 del 2015 con cui la Corte di cassazione (in una vertenza tra l'Inps ed un avvocato dipendente pubblico) ha stabilito che il rimborso della tassa annuale di iscrizione all'albo degli avvocati dovesse essere corrisposto dall'ente pubblico datore di lavoro.
Ne deriva che viene meno la condizione per esigere il rimborso della quota di iscrizione eventualmente pagata dall'interessato. Inoltre, a parere del Consiglio nazionale degli ingegneri, «qualora la normativa preveda l'obbligatorietà dell'iscrizione all'albo per il dipendente ingegnere, il pagamento della relativa tassa annuale di iscrizione (facendo applicazione dei principi fissati dalla giurisprudenza del Consiglio di stato e della Corte di cassazione) sarà a carico dell'ente datore di lavoro e, se il versamento è stato anticipato dal dipendente, deve essergli rimborsato».
Concludendo il Consiglio nazionale sottolinea «il carattere eccezionale della previsione dettata dalla normativa sugli appalti pubblici, ovvero la sussistenza di una disposizione espressa che richiede la sola abilitazione per svolgere attività professionale. Tale disposizione va intesa come eccezione alla regola generale della necessaria iscrizione all'albo e non può quindi trovare applicazione al di fuori dei casi legislativamente previsti (articolo 90, dlgs n. 163/2006, e articolo 9, dpr n. 207/2010), nemmeno per effetto di una interpretazione estensiva o analogica» (articolo ItaliaOggi del 27.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARILunga vita alle detrazioni casa. Agevolazioni de 65 e 50% prorogate per il 2016. LEGGE DI STABILITÀ/Incentivi per ristrutturazioni e riqualificazioni energetiche.
Ecobonus, ristrutturazioni edilizie e bonus mobili confermati anche per l'anno prossimo. In base a quanto previsto dalla legge di Stabilità 2016, la proroga delle detrazioni fiscali del 65% per il risparmio energetico e del 50% per le ristrutturazioni abitative semplici si allunga così di un anno. Mantenuta in vita per un altro anno anche la detrazione del 65% per gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche su costruzioni che si trovano in zone ad alta pericolosità, se adibite ad abitazione principale o ad attività produttive.

Tra le novità del testo della manovra, il bonus mobili allargato alle coppie under 35 e l'ecobonus esteso agli immobili ex Iacp.
Detrazioni fiscale ristrutturazione. La proroga al 2016 riguarda la detrazione del 50% per gli interventi edilizi. Confermato anche il limite massimo di spesa di 96 mila euro per unità immobiliare.
Danno diritto alla detrazione gli interventi di:
- manutenzione ordinaria, effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale;
- manutenzione straordinaria effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale e su singole unità immobiliari residenziali;
- restauro e di risanamento conservativo, effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale e su singole unità immobiliari residenziali;
- ristrutturazione edilizia, effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale e su singole unità immobiliari residenziali;
- ricostruzione o ripristino dell'immobile danneggiato a seguito di eventi calamitosi, anche se non rientranti nelle categorie elencati nei punti precedenti, sempreché sia stato dichiarato lo stato di emergenza;
- restauro, risanamento conservativo, e ristrutturazione edilizia, riguardanti interi fabbricati, eseguiti da imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare e da cooperative edilizie, che provvedano entro 18 mesi dal termine dei lavori alla successiva alienazione o assegnazione dell'immobile.
Nel bonus ristrutturazioni rientrano non solo gli interventi effettuati sulle unità immobiliari di tipo abitativo, ma eventualmente anche quelli riguardanti le relative pertinenze. In particolare, si ha diritto alla detrazione per la realizzazione o l'acquisto di autorimesse e posti auto pertinenziali, pure se a proprietà comune.
Detrazione per riqualificazione energetica. Anche per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici è stata prorogata fino al 31.12.2016 la misura maggiorata al 65%. A usufruire del bonus sono tutti i contribuenti, anche i titolari di reddito d'impresa, possessori dell'immobile. Per il 2016, la legge di Stabilità ha esteso gli incentivi agli immobili ex Iacp (istituti autonomi case popolari).
Sono ammesse alla detrazione del 65% le spese sostenute su edifici di qualsiasi categoria catastale per:
- interventi di riqualificazione energetica di interi edifici per l'abbattimento dell'indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale (detrazione massima 100 mila euro);
- interventi sugli involucri di edifici per la riduzione della trasmittanza termica delle pareti opache orizzontali o verticali, compresa la sostituzione di vetri e/o infissi (detrazione massima 60 mila euro);
- installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda (detrazione massima 60 mila euro);
- sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale (detrazione massima 30 mila euro);
- acquisto e posa in opera di schermature solari con le caratteristiche previste dall'allegato M al dlgs 311/2006: tende esterne da sole con marchiatura obbligatoria Ce e certificate UNI EN 13561; chiusure oscuranti con marchiatura obbligatoria CE e certificate UNI EN 13659; i dispositivi di protezione solare, anche in combinazione con vetrate, di cui alle norme armonizzate europee UNI EN 14501, 13363.01, 13363.02 (detrazione massima 60 mila euro);
- acquisto e posa in opera di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori di calore alimentati da biomasse (detrazione massima 30 mila euro).
Si può usufruire dell'ecobonus sia per gli interventi di riqualificazione dei singoli appartamenti che delle parti comuni dei condomini. La detrazione non è cumulabile a quella per il bonus ristrutturazioni.
Bonus lavori adeguamento antisismico. È stata ugualmente confermata a tutto il 2016 la detrazione del 65% per lavori di adeguamento antisismico per la messa in sicurezza degli edifici esistenti.
La detrazione deve essere calcolata su un importo massimo di 96 mila euro per unità immobiliare (da ripartire in dieci quote annuali di pari importo) e beneficiari sono i soggetti passivi Irpef e Ires (quindi sia persone fisiche che imprese) a condizione che le spese siano rimaste a loro carico e che possiedano o detengano l'immobile in base a un titolo idoneo (diritto di proprietà o altro diritto reale, contratto di locazione, o altro diritto personale di godimento).
Il bonus antisismico può essere richiesto se l'intervento è effettuato su costruzioni adibite ad abitazione principale o anche ad attività produttive (unità immobiliari in cui si svolgono attività agricole, professionali, produttive di beni e servizi, commerciali o non commerciali) e sempre l'immobile si trova in zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2), i cui criteri di identificazione sono stati fissati con l'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n. 3274 del 20.03.2003 (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARaee, semplificazioni allargate. Corsia preferenziale per imprese già abilitate al trasporto. Dall'Albo gestori i criteri per estendere l'attività al ritiro alleggerito dei tecno-rifiuti.
Accesso agevolato per le imprese già autorizzate dall'Albo gestori ambientali a raccolta e trasporto professionale di rifiuti alle analoghe attività di gestione semplificata dei Raee provenienti da circuiti di vendita e riparazione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. Aee).

La novità arriva con la deliberazione 16.09.2015 n. 2 di prot. del Comitato nazionale dell'Albo (integrata con deliberazione 15.10.2015 n. 3 di prot.) che detta i criteri operativi per estendere, tramite richiesta alla Sezione regionale o provinciale di competenza, le proprie autorizzazioni ex categoria 4 (raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi) e 5 (speciali pericolosi) del dm 120/2014 a quella ex 3-bis (Raee ritirati da distributori di nuove Aee, installatori, e centri di assistenza), la quale consente una tenuta semplificata dei documenti di tracciamento dei rifiuti.
Le novità dall'Albo gestori ambientali. Alla base della nuova deliberazione del Comitato nazionale dell'Albo due disposizioni, ossia: l'articolo 212, comma 7, del dlgs 152/2006 per il quale enti e imprese già autorizzate a raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi sono esonerate (a condizione di immutata classe di appartenenza) dall'obbligo di iscrizione per le analoghe attività sui non pericolosi; l'articolo 8, comma 2, del dm Ambiente 120/2014 (il nuovo regolamento dell'Albo), per il quale le iscrizioni nelle citate categorie 4 e 5 consentono (sempre a immutate condizioni) sia l'esercizio delle attività di cui alla categoria 2-bis (auto-trasporto dei propri rifiuti) sia quelle ex 3-bis.
A chiarimento della prima disposizione e in attuazione della seconda intervengono le nuove regole dell'Albo. Due le novità di rilevo: l'iscrizione alla categoria 4 (rifiuti non pericolosi) che consente, tra le altre (previa compatibilità tecnica e richiesta di estensione alla 2-bis), il trasporto anche dei rifiuti pericolosi di propria produzione iniziale in quantità non eccedenti 30 chilogrammi o 30 litri al giorno (ex art. 212, comma 8, dlgs 152/2006); l'iscrizione a una delle due categorie 4 e 5 che consente (previa richiesta di estensione alla categoria 3-bis) anche il trasporto in regime semplificato dei Raee (pericolosi e non pericolosi) ritirati dal circuito Aee nel rispetto delle regole (e dei limiti) stabiliti dal dm 65/2010.
L'allargamento dell'autorizzazione alla gestione semplificata Raee, precisa la nuova delibera dell'Albo, è consentita nei seguenti termini: le imprese abilitate al trasporto rifiuti per conto terzi possono svolgere le analoghe attività in nome e per conto dei distributori di Aee; le imprese munite di soli veicoli per uso proprio possono invece essere abilitate al trasporto semplificato dei Raee di cui esse stesse risultino essere detentrici in quanto distributori, installatori o gestori di centri di assistenza Aee.
Alle imprese già iscritte nelle citate categorie 4 e 5 in linea con i parametri richiesti dall'Albo è consentito fin da subito richiedere l'allargamento (sia alla 2-bis che alla 3-bis) utilizzando il modello «b» allegato alla nuova delibera.
Il regime semplificato per i Raee. Il dm 65/2010 richiamato dalla delibera 2/2015 prevede (in attuazione del dlgs 151/2005) per distributori, installatori, gestori di centri di assistenza Aee (e trasportatori terzi dei rifiuti, di cui i primi eventualmente si avvalgono) di utilizzare, nel rispetto di determinate condizioni tecniche, un regime burocratico light per condurre le (rispettive) attività di raccolta e trasporto Raee (sia domestici che professionali) di cui hanno la detenzione in ragione della propria attività.
Regime che consiste in: iscrizione semplificata all'Albo gestori (tramite mera comunicazione e senza obbligo di presentare garanzie finanziarie); tenuta di uno «schedario di carico e scarico» e di un «documento di trasporto» (in luogo dei più onerosi registri e formulario ex dlgs 152/2006). Successivamente al dm 65/2010, è bene ricordarlo, è intervenuto il dlgs 49/2014 di riformulazione della speciale disciplina sulla gestione dei Raee.
Nel sostituire pressoché integralmente il dlgs 151/2005, il dlgs 49/2014 ha da un lato confermato alcune disposizioni dell'uscente regime (come l'obbligo per i distributori di ritiro gratuito «uno contro uno» delle Aee conferite dai consumatori all'acquisto di equivalenti beni e la possibilità di gestione semplificata ex dm 65/2010) e dall'altro introdotto rilevanti novità che incidono sugli adempimenti cui sono chiamati gli stessi operatori del settore.
In base al riformulato quadro normativo, sono infatti inquadrati come «distributori» (con i sottesi e citati obblighi): tutti coloro che rendono disponibili sul mercato e per qualsiasi uso delle Aee (dunque, anche gli installatori e gestori di centri di assistenza che nell'ambito della propria attività forniscono tali beni, per esempio come ricambi); tutti i soggetti che forniscono Aee utilizzando tecniche di vendita a distanza tramite internet (c.d. «e-commerce»).
Appare da ultimo utile ricordare come i distributori di Aee che importano o immettono comunque dall'estero nuovi beni sul mercato nazionale rientrano, ai sensi del citato dlgs 49/2014, nella più gravosa categoria di «produttori», con i conseguenti e più ampi oneri (previsti dallo stesso provvedimento) di istituzione e finanziamento del sistema di gestione dei relativi Raee.
Alla luce di tale rinnovato orizzonte, i criteri dell'Albo che consentono di allargare la portata dei titoli autorizzativi alle attività di gestione semplificata dei Raee appaiono dunque essere di rilevante interesse sia per le imprese di trasporto rifiuti sia per gli stessi distributori di nuove Aee, laddove per i primi potrebbero prospettarsi nuovi mercati, per i secondi un incremento (con i benefici economici dati dalla concorrenza) del novero di aziende cui rivolgersi per la gestione dei Raee.
Ritiro Raee nell'e-commerce. In relazione ai distributori di Aee, alcune criticità sono tuttavia state rilevate in relazione agli operatori del settore «e-commerce», come risulta da un'indagine presentata lo scorso 14.10.2015 da Remedia (fra i principali sistemi collettivi italiani non profit per la gestione ecosostenibile anche dei tecno-rifiuti) e Netcomm (il consorzio del commercio elettronico italiano).
 Oltre a evidenziare una carenza sotto il profilo dell'obbligo di informativa all'utenza del sistema di ritiro «one on one» (si veda ItaliaOggi Sette del 19/10/2015), lo studio mette in luce alcuni nodi della filiera (rappresentante il 13% del mercato online nazionale di Aee) proprio nel ritiro e trasporto dei Raee. Per adempiere agli obblighi del «one on one» i distributori online di Aee possono ricorrere sia a un sistema auto-organizzato (c.d. «make», gestendo a tutto tondo ritiro, raggruppamento e successivo trasporto dei Raee a centri di trattamento), sia affidarsi (totalmente o parzialmente) a soggetti esterni.
In tale contesto, le prime problematiche riguardano le modalità di ritiro dei Raee presso l'utenza, laddove nell'opzione di consegna a domicilio delle nuove Aee occorre necessariamente prevedere la presa in carico di quelle usate da parte trasportatori autorizzati nei termini più sopra citati (condizione che spesso può rendere necessario l'intervento successivo e differito di un soggetto diverso dall'ordinario corriere che ha effettuato la consegna del nuovo bene).
Criticità possono altresì presentare le differenti modalità di consegna del nuovo e ritiro del vecchio presso luoghi presidiati, come uffici postali e negozi convenzionati, in vista del successivo e necessario trasporto (autorizzato) verso gli impianti di trattamento; in tale ambito le soluzioni preferibili appaino essere quelle di ricorrere a punti «pick and pay» gestiti direttamente dagli stessi distributori (in regola con i sottesi e citati adempimenti) o ricorrere alla convenzione con supermercati, nella maggior parte dei casi già forniti di un proprio sistema di prima gestione Raee (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

TRIBUTI: Baratto amministrativo soltanto con l'inerenza.
Deliberazioni di riduzione o di esenzione di tributi «inerenti il tipo di attività posta in essere». In cambio di lavori fatti in tali ambiti di attività.

Con nota di approfondimento del 16.10.2015 (si veda ItaliaOggi del 20 ottobre scorso), l'Ifel fornisce chiarimenti per il corretto inquadramento del baratto amministrativo e per la sua applicazione ai tributi locali. Beneficiari del baratto amministrativo potranno essere individuati in cittadini singoli o associati. Si privilegeranno le «Comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute».
L'Istituto per la finanza e l'economia locale ritiene che la riduzione o l'esenzione potrà essere concessa con riguardo alle obbligazioni tributarie di cui è soggetto passivo l'associazione stessa. Altro aspetto delicato afferisce il perimetro d'intervento.
A parere dell'Ifel, l'intervento dei cittadini dovrà riguardare un territorio da qualificare ed essere alternativo e sostitutivo rispetto a quello del comune. A fronte dell'intervento dei cittadini, il comune potrà disporre deliberazioni di riduzione o esenzione di tributi «inerenti al tipo di attività posta in essere».
La ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera di agevolazione al tributo di riferimento anche se in apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività posta in essere. Il concetto di «inerenza» del tributo per cui si prevede l'agevolazione all'attività svolta dai cittadini (singoli o associati), dovrà essere valutato in sede di predisposizione della delibera di agevolazione ed ispirato a criteri di ragionevolezza e corrispondenza tra beneficio reso ed agevolazione concessa.
L'Ifel ritiene opportuno basare la quantificazione economica dell'agevolazione secondo politiche ispirate a responsabilità e ragionevolezza del trattamento agevolativo, specificando che il riconoscimento dell'agevolazione non deve essere solo «legittimo» ma anche «controllabile».
Da ultimo, l'Istituto tiene a precisare che non appare coerente con la ratio della norma la possibilità di prevedere riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali debiti tributari del contribuente. La ragione è da ritrovare nei principi di indisponibilità ed irrinunciabilità al credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate tributarie comunali (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

VARI: Box occupato, l'invalido sosta gratis.
Il titolare del contrassegno invalidi che trova il box riservato occupato può parcheggiare nelle zone a pagamento gratuitamente. Purché l'ente locale abbia deciso di ammettere questa facoltà dandone informazione agli utenti.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 04.09.2015 n. 4341 di prot..
Il riformulato articolo 381 del regolamento stradale specifica che il comune ora può potenziare il numero dei parcheggi riservati agli invalidi anche nelle zone a pagamento. Ma l'ente locale può anche prevedere la sosta gratuita agli invalidi sulle strisce blu quando i box riservati ai titolari dei contrassegni risultino già occupati o indisponibili.
A parere della Cassazione però senza il nulla osta del comune non è automatico poter parcheggiare gratuitamente i veicoli muniti di contrassegno invalidi nelle zone a pagamento.
Specifica infatti il parere centrale che con la sentenza n. 21271 del 05.10.2009 la II sezione civile della Corte di cassazione ha bocciato il via libera generico alla gratuità della sosta degli invalidi in zone blu, confermando le recenti indicazioni normative che richiedono una determinazione comunale in tal senso (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

GIURISPRUDENZA

SICUREZZA LAVORO: Infortuni. Il concorso di colpa non scagiona l’impresa.
L’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio che sia conseguenza dell’inosservanza delle norme infortunistiche. La violazione dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando il concorso di colpa del lavoratore, atteso che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza.

È tale la massima a cui si attiene la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con la sentenza 03.11.2015 n. 22413 riguardante l’infortunio mortale causato ad un lavoratore che, pur operando su una scarpata, non aveva fatto uso della fune di trattenuta contro la caduta dall’alto.
Nel dispositivo la Suprema corte la quale ha ribadito il principio secondo cui in materia di tutela dell’integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità solo quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri di abnormità, imprevedibilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute.
Pertanto, l’omissione di cautele da parte del lavoratore non è di per sé idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta del datore di lavoro che non abbia provveduto all’adozione di tutte le misure di prevenzione o non abbia adeguatamente vigilato, anche tramite i suoi preposti, sul rispetto della loro osservanza, non essendo né imprevedibile, né anomala una dimenticanza del lavoratore nell'adozione di tutte le cautele necessarie
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015).
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MASSIMA
Osserva la Corte che è opportuno esaminare con priorità logico-giuridica l'ultimo motivo del ricorso, col quale si contesta la decisione sulla ritenuta insussistenza di una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. della datrice di lavoro, atteso che la verifica della correttezza della motivazione che ha escluso la ricorrenza del nesso eziologico tra l'evento occorso al lavoratore e la condotta della parte datoriale si rivela dirimente.
A tal riguardo la Corte territoriale ha dato rilievo alla indiscutibile preponderanza causale dell'omissione colpevole del lavoratore deceduto, costituita dal fatto di non avere il medesimo utilizzato la fune di trattenuta, disponibile alla sommità della scarpata, assicurata ad un idoneo ancoraggio. La stessa Corte è pervenuta al convincimento che l'univocità di tale fatto comportava che il responso tecnico e le dichiarazioni testimoniali assumevano mero significato di riscontro e, per tale motivo, apparivano scarsamente pertinenti le doglianze difensive in ordine alle dotazioni tecniche ed alle modalità alternative di esecuzione dell'opera.
Infine, secondo la Corte di merito, l'obbligo incombente sul datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. di vigilare sull'osservanza, da parte dei lavoratori, delle misure di sicurezza non si estendeva fino al punto di comprendere l'obbligo di impedire comportamenti anomali ed imprevedibili posti in essere in violazione delle norme di sicurezza, come quello posto in essere da Zi.Gi..
Rileva la Corte che tale ragionamento dei giudici di secondo grado non è condivisibile per le seguenti ragioni: si è già statuito (Cass. Sez. Lav. n. 27127 del 4/12/2013) che "
in materia di tutela dell'integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell'abnormità, dell'imprevedibilità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano detti caratteri della condotta del lavoratore, l'imprenditore è integralmente responsabile dell'infortunio che sia conseguenza dell'inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell'obbligo di sicurezza integra l'unico fattore causale dell'evento, non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l'incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza."
Pertanto,
l'omissione di cautele da parte dei lavoratori, come quella ravvisata nella fattispecie dai giudici di merito, non è idonea di per sé ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del datore di lavoro che non abbia provveduto, pur avendone la possibilità, all'adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro o non abbia adeguatamente vigilato, anche tramite suoi preposti, sul rispetto della loro osservanza, non essendo né imprevedibile né anomala una dimenticanza dei lavoratori nell'adozione di tutte le cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi, del cd. rischio elettivo, idoneo ad interrompere il nesso causale ma ravvisabile solo quando l'attività non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso (in tal senso v. anche Cass. Sez. 3, n. 21694 del 20/10/2011).
Infatti, si è affermato (Cass. Sez. Lav. n. 19494 del 10/9/2009) che
le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (in senso conf. v. Cass. Sez. Lav. n. 22818 del 28/10/2009 e Cass. Sez. Lav. n. 4656 del 25/02/2011).
In definitiva, si può affermare che nella fattispecie la mancata adozione, da parte del lavoratore, della specifica misura di sicurezza rappresentata dall'ancoraggio alla fune di sostegno non rappresentava affatto un evento imprevedibile atto a scagionare l'imprenditore dal dovere di vigilanza finalizzato al rispetto delle misure di prevenzione e, pertanto, quest'ultimo avrebbe dovuto offrire la prova di aver preteso il rispetto di tale fondamentale accorgimento, per cui il comportamento semplicemente omissivo del lavoratore non spezzava il nesso eziologico tra l'evento occorsogli e l'omissione della datrice di lavoro.

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Il tempo non rilevante salva dall’uso personale della mail. Cassazione/2. Esclusa la gravità del comportamento del dipendente.
È illegittimo il licenziamento di un dipendente accusato di utilizzo personale della casella di posta elettronica e della navigazione in internet se non ha sottratto al lavoro una quantità di tempo rilevante.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con la sentenza 02.11.2015 n. 22353.
La decisione ha confermato i giudizi espressi in precedenza prima dal Tribunale di Lanciano e poi dalla Corte d’appello dell’Aquila. La Cassazione ha sostanzialmente ribadito quanto emerso nel giudizio di secondo grado e cioè che oltre a non aver comportato sottrazione di tempo significativa all’attività lavorativa l’uso personale della posta elettronica e di internet, con la sua condotta il lavoratore in questione non aveva realizzato un «blocco del lavoro, con un conseguente grave danno per l’attività produttiva».
La Corte d’appello aveva però anche rigettato il risarcimento del danno proposto dal lavoratore che si era appellato a un «preteso danno alla professionalità, alla vita di relazione e alla natura ingiuriosa del licenziamento». La Corte riconosceva semplicemente a titolo di indennità risarcitoria, si legge nella sentenza, «la retribuzione globale di fatto maturata dall’illegittimo licenziamento fino all’esercizio dell’opzione, detratte le somme percepite in altra occupazione, oltre all’indennità forfettaria di 15 mensilità, con rivalutazione e interessi».
La Cassazione ha confermato tali orientamenti. La sentenza, infatti, ha definito prive di fondatezza le motivazioni presentate dall’azienda a difesa della sua decisione di allontanare il dipendente e in opposizione alla sentenza di secondo grado. Tra queste la contestazione che la Corte d’appello avesse ignorato nel suo giudizio, «la lettera di contestazione di addebito, che richiamava altresì l’elusione delle informative e dei molteplici preavvisi effettuati dall’azienda datrice di lavoro», quali in particolare, una circolare e diverse e-mail con le quali l’azienda richiamava «i dipendenti ad un uso più attento della strumentazione aziendale».
Secondo i ricorrenti «la condotta avrebbe quindi integrato anche la violazione del dovere di obbedienza previsto dall’articolo 2104 del Codice civile». L’azienda aveva anche contestato l’installazione sul personal computer di programmi coperti da copyright e di software non forniti dall’azienda che «non comportavano solo un utilizzo improprio dello strumento aziendale, ma un utilizzo illegittimo, perché attuato in violazione dell’articolo 64 della Legge n. 633 del 1941, con il rischio di responsabilità quantomeno civile del datore di lavoro».
Inoltre, la reiterazione della condotta avrebbe reso «l'ipotesi contestata quantomeno aggravata rispetto all’infrazione disciplinare descritta dal contratto collettivo». Respinta la fondatezza di tali argomentazioni la Corte di cassazione ha esaminato le risultanze della Ctu, argomentando che l'utilizzo personale della posta elettronica e la navigazione in Internet erano, «in entrambi i casi di difficile quantificazione temporale».
La Ctu aveva confermato la presenza di file di natura multimediale non legati all’attività lavorativa e l’istallazione di alcuni programmi coperti da copyright, di cui non era stata accertata, però, l’utilizzazione oltre il periodo concesso come dimostrativo. La Cassazione ha quindi escluso a questo proposito la particolare gravità del comportamento addebitato sotto il profilo della sussistenza della giusta causa
 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Nell'adozione degli atti di macro organizzazione dell'ente, la controversia circa la mancata riconferma di Responsabile del Servizio (incarico direttivo) spetta alla giurisdizione del giudice ordinario.
La indicazione/nomina di persona per l'incarico direttivo costituisce attività gestionale di diritto privato del datore di lavoro a fronte della quale il ricorrente è titolare di una posizione di diritto soggettivo azionabile davanti al giudice ordinario il quale, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti, può sempre disapplicarli.
Nell'impiego pubblico il conferimento di posizioni organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali di cui all'art. 63, comma 4, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in quanto la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico, trattandosi di una funzione ad tempus la cui definizione -nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario.

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- Visto il ricorso con il quale il ricorrente impugna gli atti di macro organizzazione posti in essere dal Commissario dell’Enea nella parte in cui hanno accorpato i servizi del Centro di Frascati Gare, Contratti e Approvvigionamento e Amministrazione, precedentemente retti da due diversi Responsabili, tra cui il ricorrente, e nominato Responsabile del Servizio Amministrazione, il sig. Pi., così rimuovendo il ricorrente dall’incarico direttivo;
- Vista l’eccezione di difetto di giurisdizione articolata dalla difesa erariale;
- Vista la disposizione Commissariale n. 317/2015 del 25.06.2015 con la quale vengono nominati i responsabili delle strutture organizzative ed atteso che la pretesa azionata dal ricorrente attiene alla mancata individuazione della propria persona per l’incarico direttivo (posizione organizzativa);
- Considerato che tale indicazione/nomina costituisce attività gestionale di diritto privato del datore di lavoro a fronte della quale il ricorrente è titolare di una posizione di diritto soggettivo azionabile davanti al giudice ordinario il quale, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti, può sempre disapplicarli (ex multis Cassazione civile sez. un. 27/12/2011, n. 28806, ma vedi anche Tar Lazio III-ter 1171/2013);
- Atteso infatti, che “nell'impiego pubblico il conferimento di posizioni organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali di cui all'art. 63, comma 4, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in quanto la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico”, trattandosi di una funzione ad tempus la cui definizione -nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario (così TAR Pescara (Abruzzo) sez. I , 28/05/2015, n. 229);
- Considerato, infine, che il ricorrente non risulta leso dall’atto di macro organizzazione in se considerato, laddove ha accorpato due distinti servizi ponendo come responsabile degli stessi il controinteressato, quanto piuttosto dalla mancata conferma della posizione organizzativa di Responsabile in capo al medesimo, ovvero dall’atto di micro organizzazione con il quale è stata effettuata la scelta del Responsabile del Servizio;
- Ritenuta, pertanto, la giurisdizione del giudice ordinario presso il quale il ricorso potrà essere riassunto (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 02.11.2015 n. 12302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il sindaco non può riallacciare l’acqua all’utente moroso. Tar Latina. Cinque sentenze analoghe.
I sindaci non possono ordinare a chi gestisce il servizio idrico il ripristino immediato della fornitura di acqua a chi non paga la bolletta poiché il Comune è estraneo al rapporto contrattuale utente-gestore.
L’ha ribadito il TAR Lazio-Latina, Sez. I, in cinque sentenze analoghe depositate il 2 novembre (sentenza 02.11.2015 n. 711), accogliendo le tesi di Acea SpA, gestore del servizio idrico integrato dell’Ato 5 Lazio Meridionale-Frosinone, contro le ordinanze emesse dai sindaci di Torrice, Cassino e Alatri -tre degli 85 Comuni serviti- a difesa di alcuni cittadini-utenti con rubinetti chiusi per gravi morosità (da 3mila fino a 20mila euro).
Secondo Acea, gli atti violavano le norme sulle «competenze del sindaco e del presidente della provincia» fissate dal Testo unico degli enti locali (comma 5, articolo 50, Dlgs n. 267/2000) poiché non esistevano o non indicavano pericoli per l’igiene e la salute pubblica, tutelavano «esclusivamente gli interessi dell’utente privato», e si basavano su irrilevanti «aspetti di natura socio-assistenziale».
Per i Comuni, invece, il gestore non poteva procedere al distacco completo del servizio, ma soltanto alla riduzione del flusso col cosiddetto «minimo vitale».
I giudici, annullando le ordinanze e confermando la recente giurisprudenza (Tar Cagliari, sentenza n. 855/2015), hanno spiegato che «il Sindaco non può intervenire con l’ordinanza prevista dall’articolo 50, comma 5, Tuel a vietare al gestore del servizio idrico l’interruzione della fornitura nei confronti di singoli utenti morosi, poiché in questo caso si realizza uno sviamento di potere, che vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestore–utente, impedire al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola con il pagamento della prevista tariffa, e ciò a prescindere dall’imputabilità di siffatto inadempimento a ragioni di ordine sociale».
Ciò, si è precisato, poiché «all’Autorità comunale non può essere riconosciuto un ruolo nello svolgersi del rapporto di utenza tra il soggetto gestore del Sii ed il destinatario della fornitura idrica, ed in ordine al suo sviluppo contrattuale».
In ogni caso se si ipotizzasse «(...) una sorta di “dinamica di rapporti” tra Autorità comunale e gestore del servizio, lo strumento amministrativo utilizzabile non potrebbe legittimamente rinvenirsi nell’ordinanza ex articolo 50 citato, che, in carenza dei presupposti di contingibilità (...) e di urgenza, risulta essere del tutto sproporzionato rispetto all’obiettivo da raggiungere (...)».
L’ordinanza è stata invece ammessa (Tar Catanzaro n. 358/2012) quando a non pagare era lo stesso Comune-utente e lo “stop” non riguardava solo singole utenze
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015).
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MASSIMA
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Considerato, in proposito, che è fondata e da accogliere la censura, dedotta con il primo motivo, di difetto dei presupposti per l’esercizio del potere sindacale di ordinanza previsto dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L.;
- Rilevato, infatti, che secondo la giurisprudenza occupatasi della questione (TAR Sardegna, Sez. I, 12.06.2015, n. 855; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 13.05.2015, n. 1000; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 01.02.2013, n. 290),
il Sindaco non può intervenire con l’ordinanza prevista dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L. a vietare al gestore del servizio idrico l’interruzione della fornitura nei confronti di singoli utenti morosi, poiché in questo caso si realizza uno sviamento di potere, che vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestore–utente, impedire al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola con il pagamento della prevista tariffa, e ciò a prescindere dall’imputabilità di siffatto inadempimento a ragioni di ordine sociale;
- Considerato che, ad avviso del Collegio, va senz’altro condivisa l’affermazione per cui
all’Autorità comunale non può essere riconosciuto un ruolo nello svolgersi del rapporto di utenza tra il soggetto gestore del S.I.I. ed il destinatario della fornitura idrica, ed in ordine al suo sviluppo contrattuale (v. TAR Sardegna, Sez. I, n. 855/2015, cit.). Ove, comunque, si voglia ipotizzare sul punto una sorta di “dinamica di rapporti” tra Autorità comunale e gestore del servizio, lo strumento amministrativo utilizzabile non potrebbe legittimamente rinvenirsi nell’ordinanza ex art. 50 cit., che, in carenza dei presupposti di contingibilità (sul quale cfr. C.d.S., Sez. V, 12.06.2009, n. 3765; id., Sez. IV, 13.12.1999, n. 1844) e di urgenza, risulta essere del tutto sproporzionato rispetto all’obiettivo da raggiungere (TAR Sicilia Palermo, Sez. I, n. 290/2013, cit.);
- Osservato che in senso contrario non è invocabile una recente pronuncia recante rigetto del ricorso proposto contro l’ordinanza sindacale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 10.04.2012, n. 358), trattandosi di precedente che atteneva alla ben diversa fattispecie del contratto di somministrazione concluso tra il gestore del servizio idrico ed un Comune, sicché: a) il Comune era, esso stesso, parte del rapporto contrattuale, nonché debitore inadempiente all’obbligo di pagamento; b) l’interruzione della fornitura di acqua da parte del gestore non riguardava solo singole utenze;
- Considerato che la fondatezza della censura di difetto dei presupposti, dedotta con il primo motivo, attesa la sua portata logicamente (e giuridicamente) assorbente, esime il Collegio dall’analizzare le ulteriori censure formulate dalla ricorrente;
- Osservato in particolare, al riguardo, che se non vi è spazio nella fattispecie in esame per l’esercizio del potere ex art. 50, comma 5, cit., diventa irrilevante verificare se la condotta della ricorrente sia o no stata improntata a legittimità, altri essendo i rimedi offerti dall’ordinamento per l’ipotesi in cui si ravvisassero scorrettezze o illegittimità contrattuali;
- Osservato, inoltre, che per la medesima ragione fuoriesce dal presente contenzioso anche la verifica circa la sussistenza di perdite occulte del contatore, tali da giustificare le contestazioni mosse dalla controinteressata ai pagamenti che le sono stati richiesti, con il corollario che appaiono inconferenti le eccezioni formulate sul punto dalla difesa del Comune di Cassino nelle varie memorie depositate in giudizio;
- Ritenuto, in conclusione, che il ricorso sia fondato e da accogliere, in ragione della fondatezza della doglianza di difetto dei presupposti, dedotta con il primo motivo, e con assorbimento delle ulteriori censure.

APPALTIa) l’indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta non è obbligatoria, neanche nell’ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all’art. 107, comma 2, d.P.R. cit.;
b) non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015
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2.- Occorre, quindi, procedere all’analisi delle questioni devolute all’Adunanza Plenaria, principiando da quella formulata per prima (e meglio di seguito descritta).
2.1- Come già rilevato in fatto, la Quarta Sezione, registrando un contrasto giurisprudenziale sulla decisiva questione dell’obbligatorietà (o meno) dell’indicazione del subappaltatore già nella fase dell’offerta da parte dell’impresa concorrente sprovvista della qualificazione in una o più categorie scorporabili (e, quindi, a fronte di un c.d. subappalto necessario) e, quindi, sulla doverosità della sua esclusione, nell’ipotesi di inosservanza del predetto obbligo (ove giudicato tale), ne ha devoluto la risoluzione all’Adunanza Plenaria.
Al predetto problema, infatti, sono state offerte due diverse soluzioni.
Secondo una prima tesi, infatti, la necessità della dimostrazione, ai fini della partecipazione alla procedura, della qualificazione per tutte le lavorazioni per le quali la normativa di riferimento la esige implica, quale indefettibile corollario, la necessità dell’indicazione del nominativo del subappaltatore già nella fase dell’offerta, di guisa da permettere alla stazione appaltante il controllo circa il possesso, da parte della concorrente, di tutti i requisiti di capacità richiesti per l’esecuzione dell’appalto (Cons. St., sez. V, 25.02.2015, n. 944; sez. V, 10.02.2015, n. 676; sez. V, 28.08.2014, n. 4405; sez. IV, 26.08.2014, n. 4299; sez. IV, 26.05.2014, n. 2675; sez. IV, 13.03.2014, n. 1224; sez. III 05.12.2013, n. 5781); secondo una diversa, e minoritaria, lettura dell’istituto, viceversa, una corretta esegesi delle regole che presidiano i requisiti di qualificazione, e che escludono che, ai fini della partecipazione alla gara, sia necessario il possesso della qualificazione anche per le opere relative alle categorie scorporabili (esigendo il ricorso al subappalto solo per quelle a qualificazione necessaria e nella sola fase dell’esecuzione dell’appalto), impone la diversa soluzione dell’affermazione del solo obbligo di indicazione delle lavorazioni che il concorrente intende affidare in subappalto, ma non anche del nome dell’impresa subappaltatrice (Cons. St., sez. IV, 04.05.2015, n. 2223; sez. V, 07.07.2014, n. 3449; sez. V, 19.06.2012, n. 3563).
Si tratta, come si vede, di ricostruzioni (entrambe) plausibili e ragionevoli, oltre che fondate sull’esigenza di tutelare l’interesse pubblico all’amministrazione imparziale e corretta delle procedure di affidamento dei contratti pubblici.
2.2- La scelta dell’opzione ricostruttiva più coerente con la normativa di riferimento esige una preliminare disamina del sistema di regole alla stregua del quale dev’essere affermata la sussistenza (o meno) dell’obbligo dell’indicazione nominativa del subappaltatore ai fini della partecipazione alla gara.
L’art. 92, commi 1 e 3, del d.P.R. 05.10.2010, n. 207, che disciplina i requisiti di partecipazione alla gara, stabilisce, innanzitutto, che, ai predetti fini, è sufficiente il possesso della qualificazione nella categoria prevalente (quando il concorrente, singolo o associato, non la possieda anche per le categorie scorporabili), purché per l’importo totale dei lavori.
Il combinato disposto degli artt. 92, comma 7 e 109, comma 2, d.P.R. cit. e 37, comma 11, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 chiarisce, poi, che il concorrente che non possiede la qualificazione per le opere scorporabili indicate all’art. 107, comma 2 (c.d. opere a qualificazione necessaria) non può eseguire direttamente le relative lavorazioni ma le deve subappaltare a un’impresa provvista della relativa, indispensabile qualificazione.
L’art. 118 d.lgs. cit. (collocato sistematicamente entro la Sezione V del codice, rubricata “principi relativi all’esecuzione del contratto”) si occupa, invece, di definire le modalità e le condizioni per il valido affidamento delle lavorazioni in subappalto e prevede, per quanto qui rileva, che all’atto dell’offerta siano indicati (solo) i lavori che il concorrente intende subappaltare e che l’affidatario depositi, poi, il contratto di subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima della data di inizio delle relative lavorazioni (unitamente a tutte le attestazioni e dichiarazioni prescritte).
2.3- Dall’analisi delle regole appena citate si ricavano, quindi, i seguenti principi:
a) per la partecipazione alla gara è sufficiente il possesso della qualificazione nella categoria prevalente per l’importo totale dei lavori e non è, quindi, necessaria anche la qualificazione nelle categorie scorporabili (neanche in quelle indicate all’art. 107, comma 2, d.P.R. cit.);
b) le lavorazioni relative alle opere scorporabili nelle categorie individuate all’art. 107, comma 2, d.P.R. cit. non possono essere eseguite direttamente dall’affidatario, se sprovvisto della relativa qualificazione (trattandosi, appunto, di opere a qualificazione necessaria);
c) nell’ipotesi sub b) il concorrente deve subappaltare l’esecuzione delle relative lavorazioni ad imprese provviste della pertinente qualificazione;
d) la validità e l’efficacia del subappalto postula, quali condizioni indefettibili, che il concorrente abbia indicato nella fase dell’offerta le lavorazioni che intende subappaltare e che abbia, poi, trasmesso alla stazione appaltante il contratto di subappalto almeno venti giorni prima dell’inizio dei lavori subappaltati;
e) il subappalto è un istituto che attiene alla fase di esecuzione dell’appalto (e che rileva nella gara solo negli stretti limiti della necessaria indicazione delle lavorazioni che ne formeranno oggetto), di talché il suo mancato funzionamento (per qualsivoglia ragione) dev’essere trattato alla stregua di un inadempimento contrattuale, con tutte le conseguenze che ad esso ricollega il codice (tra le quali, ad esempio, l’incameramento della cauzione).
Si tratta come si vede di un apparato regolativo compiuto, coerente, logico e, soprattutto, privo di aporie, antinomie o lacune.
2.4- Ora, a fronte di un sistema di regole chiaro e univoco, quale quello appena esaminato, restano precluse opzioni ermeneutiche additive, analogiche, sistematiche o estensive, che si risolverebbero, a ben vedere, nell’enucleazione di una regola non scritta (la necessità dell’indicazione del nome del subappaltatore già nella fase dell’offerta) che (quella sì) configgerebbe con il dato testuale della disposizione legislativa dedicata alla definizione delle condizioni di validità del subappalto (art. 118, comma 2, d.lgs. cit.) e che, nella catalogazione (esauriente e tassativa) delle stesse, non la contempla.
2.5- Secondo il canone interpretativo sintetizzato nel brocardo in claris non fit interpretatio (e codificato all’art. 12 delle Preleggi), infatti, la prima regola di una corretta esegesi è quella che si fonda sul significato delle parole e che, quindi, là dove questo risulta chiaro ed univoco, quale deve intendersi il dato testuale della predetta disposizione, non è ammessa alcuna interpretazione che corregga la sua portata precettiva (per come desunta dal lessico ivi utilizzato, ove risulti privo di ambiguità semantiche).
2.6- Ma anche in ossequio al canone interpretativo espresso nel brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit si perviene alle medesime conclusioni.
Là dove, infatti, l’art. 118, secondo comma, d.lgs. cit., ha catalogato (articolandoli in quattro lettere) i requisiti di validità del subappalto, ha evidentemente inteso circoscrivere, in maniera tassativa ed esaustiva, a quei presupposti (e solo a quelli) le condizioni di efficacia del subappalto, sicché ogni opzione ermeneutica che si risolvesse nell’aggiunta di un diverso ed ulteriore adempimento (rispetto a quelli ivi classificati) dev’essere rifiutata in quanto finirebbe per far dire alla legge una cosa che la legge non dice (e che, si presume, secondo il suddetto canone interpretativo, non voleva dire).
2.7- Dall’esame della vigente normativa di riferimento può, in definitiva, identificarsi il paradigma (riferito all’azione amministrativa, ma anche al giudizio della sua legittimità) secondo cui l’indicazione del nome del subappaltatore non è obbligatoria all’atto dell’offerta, neanche nei casi in cui, ai fini dell’esecuzione delle lavorazioni relative a categorie scorporabili a qualificazione necessaria, risulta indispensabile il loro subappalto a un’impresa provvista delle relative qualificazioni (nella fattispecie che viene comunemente, e, per certi versi, impropriamente definita come “subappalto necessario”).
2.8- La correttezza della soluzione appena enunciata (e che risponde al primo quesito nel senso di negare la doverosità dell’indicazione nominativa del subappaltatore) risulta, peraltro, avvalorata e corroborata dai convergenti argomenti di seguito (sinteticamente) dettagliati.
2.9- L’esegesi ut supra preferita risulta, innanzitutto, riscontrata dall’esame diacronico della legislazione in materia, che consegna all’Adunanza la preziosa informazione dell’originaria previsione (nella legge 11.02.1994, n. 109, c.d. Legge Merloni) dell’obbligo dell’indicazione, già nella fase dell’offerta, di una rosa di imprese subappaltatrici (fino al numero di sei) entro le quali avrebbe poi dovuto essere scelta quella affidataria delle lavorazioni subappaltate, e della successiva abrogazione di tale previsione (già nella legge 18.11.1998, n. 415, c.d. Legge Merloni-ter e poi, definitivamente, con il codice dei contratti pubblici), che costituisce il più valido indice della consapevole ed univoca volontà del legislatore del 2006 di escludere, tra le condizioni di validità del subappalto, l’obbligo dell’indicazione nominativa in discussione.
Non solo, ma anche nel disegno di legge di delega al Governo per il recepimento delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE (all’esame della Camera dei Deputati, in seconda lettura, al momento della redazione della presente decisione) può ricavarsi un ulteriore prezioso riscontro alla tesi scelta dall’Adunanza Plenaria, là dove si ripristina, ivi, l’obbligo dell’indicazione di una terna di subappaltatori, ad ulteriore conferma che il silenzio serbato sul punto dal codice dei contratti pubblici in vigore non può essere trattato alla stregua di una lacuna colmabile in esito ad una complessa ed incerta operazione ermeneutica, ma costituisce una scelta chiara e cosciente (tanto che la legislazione precedente e, forse, quella successiva hanno operato e, probabilmente, opereranno una scelta diversa).
2.10- La correttezza della scelta interpretativa sopra enunciata risulta, peraltro, avvalorata anche dalle determinazioni dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (l’AVCP, prima, e l’ANAC, poi) che hanno ripetutamente affermato il principio dell’obbligatorietà della sola indicazione delle lavorazioni che si intendono affidare in subappalto e contestualmente escluso l’obbligatorietà dell’indicazione nominativa del subappaltatore (si vedano la determinazione ANAC nr. 1 dell’08.01.2015; il parere ANAC nr. 11 del 30.01.2014 e la determinazione AVCP nr. 4 del 10.10.2012), approvando, in coerenza con tali enunciazioni, gli schemi dei bandi, con il valore vincolante ad essi assegnati dall’art. 64, comma 4-bis, d.lgs. cit. (e previo parere conforme del Ministero delle infrastrutture).
Come si vede, dunque, le autorità istituzionalmente provviste di competenza in ordine alla vigilanza sulla corretta amministrazione delle procedure di affidamento degli appalti pubblici hanno costantemente espresso l’avviso della doverosità della sola indicazione delle lavorazioni da subappaltare (e non anche del nome dell’impresa subappaltatrice), validando gli schemi dei bandi confezionati in coerenza a tale regola ed ingenerando, perciò, un significativo affidamento circa la legittimità del relativo modus procedendi.
2.11- Lo scrutinio delle direttive europee non conduce ad esiti differenti, confermando, anzi, la correttezza dei principi prima affermati.
Le direttive in materia di appalti pubblici hanno, infatti, rimesso alla discrezionale scelta degli Stati membri o, comunque, delle stazioni appaltanti l’opzione regolatoria attinente alla doverosità dell’indicazione del nome del subappaltatore, ai fini della partecipazione alla gara, astenendosi, quindi, dall’imporre una qualsivoglia soluzione alla pertinente questione.
Orbene, in difetto di un vincolo europeo all’introduzione (in via legislativa o amministrativa) dell’obbligo in discussione, la sua positiva affermazione esige una chiara, univoca ed esplicita sua previsione (con una specifica disposizione di legge), in mancanza della quale resta precluso all’interprete (che eserciterebbe inammissibilmente, in tal modo, in luogo del legislatore o della stazione appaltante, la potestà discrezionale assegnata allo Stato membro dalle direttive) il suo riconoscimento (in esito, peraltro, a un percorso ermeneutico di dubbio fondamento positivo).
2.12- Non solo, ma la tesi contraria dev’essere rifiutata anche perché produrrebbe effetti distorsivi (rispetto al sistema) o, comunque, inutili (rispetto agli interessi che con la stessa si intendono tutelare).
2.13- In primo luogo, l’affermazione dell’obbligo di indicare il nominativo del subappaltatore all’atto dell’offerta si risolverebbe in una eterointegrazione del bando (che non lo prevedeva), mediante l’inammissibile inserzione automatica nella lex specialis di un obbligo non previsto da alcuna disposizione normativa cogente pretermessa nell’avviso (da valersi quale unica condizione legittimante della sua eterointegrazione).
Mentre, infatti, l’eterointegrazione della lex specialis postula logicamente l’omessa ripetizione, in essa, di un adempimento viceversa sancito chiaramente da una disposizione normativa imperativa (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 11.03.2015, n. 1250), nella fattispecie in esame verrebbe, al contrario, automaticamente inserita nel bando una clausola non rinvenibile nel diritto positivo e di mera creazione giurisprudenziale.
2.14- La statuizione dell’adempimento in questione finirebbe, inoltre, per costituire una clausola espulsiva atipica, in palese spregio del principio di tassatività delle cause di esclusione (codificato all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. cit.).
Se è vero, infatti, che la latitudine applicativa della predetta disposizione è stata decifrata come comprensiva anche dell’inosservanza di adempimenti doverosi prescritti dal codice, ancorché non assistiti dalla sanzione espulsiva (cfr. Ad. Plen. n. 9 e n. 16 del 2014), è anche vero che l’applicazione di tale principio esige, in ogni caso, l’esistenza di una prescrizione legislativa espressa, chiara e cogente (nella fattispecie non rintracciabile nel codice dei contratti pubblici).
2.15- La tesi favorevole all’affermazione dell’obbligo in questione comporterebbe, peraltro, una confusione tra avvalimento e subappalto, nella misura in cui attrae il rapporto con l’impresa subappaltatrice nella fase della gara, anziché in quella dell’esecuzione dell’appalto, con ciò assimilando due istituti che presentano presupposti, finalità e regolazioni diverse, ma senza creare il medesimo vincolo dell’avvalimento e senza assicurare, quindi, alla stazione appaltante le stesse garanzie contrattuali da esso offerte.
Non solo, ma il relativo assunto si rivela distorsivo del mercato dei lavori pubblici, nella misura in cui costringe le imprese concorrenti a scegliere una (sola) impresa subappaltatrice, già nella fase della partecipazione alla gara, mediante l’imposizione di un onere partecipativo del tutto sproporzionato e gravoso.
2.16- La prospettazione qui disattesa finirebbe, infine, per introdurrebbe un requisito di qualificazione diverso ed ulteriore rispetto a quelli stabiliti, con disciplina completa ed autosufficiente, dall’art. 92 d.P.R. cit. (che, come si è già rilevato, esclude l’obbligo del possesso delle attestazioni nelle categorie scorporabili, ancorché a qualificazione necessaria, ai fini della partecipazione alla gara), implicando, di conseguenza, la sua inammissibile disapplicazione, che, tuttavia, postula l’indefettibile presupposto, nella specie inconfigurabile, dell’illegittimità della norma secondaria in quanto confliggente con la disposizione legislativa primaria (come chiarito, ex multis, da Cons. St., sez. VI, 14.07.2014, n.3623).
Se, infatti, il fondamento logico e sistematico della tesi ricostruttiva che afferma l’obbligatorietà dell’indicazione del nominativo del subappaltatore all’atto dell’offerta dev’essere rinvenuto nell’esigenza di garantire alla stazione appaltante il controllo del possesso da parte del concorrente di tutti i requisiti di qualificazione necessari, la sua condivisione postula l’affermazione della necessità, ai fini della partecipazione alla procedura, della dimostrazione della titolarità delle attestazioni riferite anche alle opere scorporabili (ciò che, invece, risulta chiaramente escluso dalla citata disposizione regolamentare dedicata alla disciplina delle qualificazioni e che andrebbe, quindi, logicamente disapplicata, ma in difetto della indispensabile condizione, sopra ricordata, della sua illegittimità).
3.- La soluzione del primo quesito implica la decadenza del secondo, in quanto fondato sull’unico presupposto dell’affermazione della necessità dell’indicazione nominativa del subappaltatore (viceversa negata con la risposta al primo quesito).
4.- Con il terzo quesito si chiede all’Adunanza Plenaria di chiarire la legittimità (rectius: la doverosità) dell’uso dei poteri di soccorso istruttorio nei casi in cui la fase procedurale di presentazione delle offerte si sia perfezionata prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria 20.03.2015 n. 3 (con la quale è stato chiarito che l’obbligo, codificato all’art. 87, comma 4, d.lgs. cit., di indicazione degli oneri di sicurezza aziendale si applica anche agli appalti di lavori).
A tale problema occorre offrire una risposta negativa, in quanto con la medesima decisione dell’Adunanza Plenaria è stata espressamente esclusa la sanabilità con il soccorso istruttorio dell’omissione dell’indicazione degli oneri di sicurezza aziendale, che si risolverebbe in un’inammissibile integrazione postuma di un elemento essenziale dell’offerta (cfr. Ad. Plen. n. 3 del 2015, punto 2.10).
Non si ravvisano, peraltro, ragioni per rimeditare tale (condivisibile e recente) avviso, nella misura in cui si rivela coerente con la lettura della funzione e dei limiti di operatività dell’istituto del soccorso istruttorio, per come enunciati da questa stessa Adunanza Plenaria (Ad. Plen. n.9 del 2014).
A questo proposito non può accedersi alla tesi propugnata dalla difesa delle appellanti secondo cui, in applicazione del principio di cui alla A.P. n. 21 del 2012, dovrebbe affermarsi che la esclusione dalla gara per non avere indicato gli oneri di sicurezza aziendale potrebbe essere comminata solo per le procedure bandite successivamente alla pubblicazione della decisione della A.P. n. 3 del 2015.
L’Adunanza al riguardo approfondendo la questione, ritiene di dover riaffermare il tradizionale insegnamento in tema di esegesi giurisprudenziale, anche monofilattica, che attribuisce ad essa valore esclusivamente dichiarativo.
La diversa opinione finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione.
In proposito è stato perspicuamente osservato: “Ad una diversa conclusione potrebbe invero giungersi solo ove si ritenga che la precedente interpretazione, ancorché poi corretta, costituisca il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con essa (ut lex temporis acti). Ma con ciò, all’evidenza, si trasformerebbe una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice; soluzione non certo coniugabile con il precetto costituzionale dell’art. 101 Cost.” (Cassazione SS.UU. n. 15144 del 2011).
E’ significativo che anche le recenti aperture del giudice di legittimità in tema di prospective overruling siano rimaste confinate in ambito strettamente delimitato.
A far tempo dalla già citata pronuncia delle Sezioni unite n. 15144 del 2011 si è costantemente affermato che per attribuire carattere innovativo all’intervento nomofilattico occorre la concomitanza di tre precisi presupposti e cioè che l’esegesi incida su una regola del processo; che si tratti di esegesi inprevedibile susseguente ad altra consolidata nel tempo e quindi tale da indurre un ragionevole affidamento, e che infine -presupposto decisivo– comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa (v. anche Cass. 28967/2011; 12704/2012 e, da ultimo, 19700/2015; 20007/2015).
Nel caso di specie nessuno degli anzidetti presupposti può ritenersi sussistente non trattandosi di norma attinente ad un procedimento di carattere giurisdizionale, non preesistendo un indirizzo lungamente consolidato nel tempo e non risultando precluso il diritto di azione o di difesa per alcuna delle parti in causa.
In conclusione, se da un lato non sembra possibile elevare la precedente esegesi al rango di legge per il periodo antecedente al suo mutamento, dall’altro non possono essere sottotaciute le aspirazioni del cittadino alla sempre maggiore certezza del diritto ed alla stabilità della nomofiliachia, ma trattasi di esigenze che, ancorché comprensibili e condivisibili de jure condendo, nell’attuale assetto costituzionale possono essere affrontate e risolte esclusivamente dal legislatore.
5.- Alla stregua delle considerazioni che precedono, si devono, quindi, affermare i principi di diritto che seguono:
a) l’indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta non è obbligatoria, neanche nell’ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all’art. 107, comma 2, d.P.R. cit.;
b) non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015
(Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 02.11.2015 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOneri di urbanizzazione: quando sono dovuti gli oneri da impatto acustico?
Per il Consiglio di Stato gli oneri da impatto acustico sono dovuti solo qualora l’intervento assentito non sia compatibile con la regolamentazione predisposta in materia.

Mentre con riferimento agli oneri di urbanizzazione “è pacifica la relazione con l’aggravio del carico urbanistico e con la necessità di predisporre i servizi utili all’effettivo utilizzo di un determinato immobile da edificare”, gli oneri aggiuntivi da impatto acustico “sono dovuti soltanto nel caso in cui l’intervento assentito non sia compatibile con la regolamentazione predisposta in materia”.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, IV Sez., con la sentenza 29.10.2015 n. 4950.
IL CASO. Nel caso esaminato dal Collegio, all’esito del procedimento istruttorio inerente alla realizzazione del nuovo edificio, l’Amministrazione ha chiesto il pagamento dell’importo di 26.620 euro a compensazione delle spese da sostenere per gli interventi di mitigazione acustica resi necessari dalla nuova edificazione.
A ben vedere –osserva Palazzo Spada- non c’è correlazione con la destinazione finale del fabbricato e, cioè, con l’aggravio o meno del relativo carico urbanistico: ciò che interessa è che la titolare del titolo edilizio corrisponda il quantum necessario al Comune per intervenire sull’infrastruttura stradale in modo da consentire il rispetto dei vincoli acustici imposti dalle normative di settore”.
La corresponsione degli oneri da impatto acustico costituisce la modalità di reperimento delle risorse necessarie all’Amministrazione per poter procedere all’intervento sulla rete viaria (commento tratto da www.casaeclima.com).

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MASSIMA
... per la riforma della sentenza del TAR Piemonte-Torino: Sezione II n. 2033/2014, resa tra le parti, concernente accertamento della non debenza degli oneri di urbanizzazione
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4. Con il terzo motivo di appello, il Comune di Torino ritiene erronea la sentenza del TAR nella parte in cui ha equiparato gli oneri di urbanizzazione agli oneri aggiuntivi da impatto acustico, affermandone la non debenza da parte della sig.ra Cu..
Nello specifico, parte appellante non considera sussistente, diversamente da quanto affermato dal giudice di primo grado, il nesso fra l’aggravio del carico urbanistico e gli oneri relativi all’impatto acustico dell’intervento: questi ultimi esulerebbero dalla preesistenza o meno di edifici in un determinato ambito interessato da un intervento edilizio e, quindi, un maggiore o minore carico urbanistico non dovrebbe determinare il versamento o meno degli oneri in questione.
Inoltre, in seguito al confronto avvenuto con la proprietaria dell’immobile in sede istruttoria, il Comune aveva evidenziato che l’unica modalità di riduzione dell’impatto acustico, al di sotto dei limiti consentiti dalla regolazione, avrebbe imposto all’Amministrazione di intervenire sulla rete viaria: dunque, gli oneri aggiuntivi di cui trattasi avrebbero una differente ratio rispetto agli oneri di urbanizzazione.
4.1 Il motivo è fondato e va accolto.
Il Collegio ritiene di condividere le prospettazioni di parte appellante relative al versamento degli oneri da impatto acustico, in quanto, la loro corresponsione costituisce la modalità di reperimento delle risorse necessarie all’Amministrazione per poter procedere all’intervento sulla rete viaria.
Il giudice di primo grado, in effetti, equiparando gli oneri di urbanizzazione agli oneri aggiuntivi da impatto acustico, ha ritenuto che la loro giustificazione si potesse riscontrare nell’incremento del carico urbanistico.
In realtà,
mentre, con riferimento ai primi, è pacifica la relazione con l’aggravio del carico urbanistico e con la necessità di predisporre i servizi utili all’effettivo utilizzo di un determinato immobile da edificare, i secondi sono dovuti soltanto nel caso in cui l’intervento assentito non sia compatibile con la regolamentazione predisposta in materia.
Nel caso di specie, infatti, all’esito del procedimento istruttorio inerente alla realizzazione del nuovo edificio, l’Amministrazione, in conformità alle disposizioni contenute nella l.reg. n. 52 del 2000 e nel regolamento comunale n. 318 del 2006, ha chiesto il pagamento dell’importo di euro 26.620,00 a compensazione delle spese da sostenere per gli interventi di mitigazione acustica resi necessari dalla nuova edificazione.
A ben vedere, dunque, non c’è correlazione con la destinazione finale del fabbricato e, cioè, con l’aggravio o meno del relativo carico urbanistico:
ciò che interessa è che la titolare del titolo edilizio corrisponda il quantum necessario al Comune per intervenire sull’infrastruttura stradale in modo da consentire il rispetto dei vincoli acustici imposti dalle normative di settore.
5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, l’appello, parzialmente fondato, va accolto in parte e, conseguentemente, la sentenza impugnata va riformata nei sensi e nei limiti di cui in motivazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.10.2015 n. 4950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie sulla debenza o meno del contributo per il rilascio di una concessione edilizia e sul suo ammontare, devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 16 l. 28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi, non sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione”.
La giurisdizione esclusiva è stata confermata anche in seguito all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f), devolve al Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia”.
La qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in termini di diritto soggettivo, derivano dalla circostanza secondo cui, in caso di contestazione circa la quantificazione o la debenza degli oneri connessi al permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura del contributo imposto, non l’esercizio del potere al rilascio del titolo edilizio.
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Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae
”.
In effetti,
gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche.
In sostanza,
gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “
in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione di parte appellante circa il mancato versamento degli oneri di urbanizzazione al momento dell’originaria costruzione dell’edificio di proprietà della sig.ra Cu.. In effetti,
l’indagine relativa all’incremento del carico urbanistico di un determinato insediamento non può coinvolgere anche il regime contributivo riferibile all’edificio originario.

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... per la riforma della sentenza del TAR Piemonte-Torino: Sezione II n. 2033/2014, resa tra le parti, concernente accertamento della non debenza degli oneri di urbanizzazione
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1. L’oggetto del presente giudizio afferisce alla verifica circa la sussistenza dell’obbligo di versamento degli oneri di urbanizzazione, da parte del privato, in presenza di un intervento di sostituzione edilizia che non determini un incremento del carico urbanistico preesistente.
2. Preliminarmente va esaminata l’eccezione, respinta in primo grado e riproposta in sede di impugnazione, con cui l’Amministrazione appellante afferma l’inammissibilità del ricorso di primo grado: secondo il Comune, infatti, l’intervento assentito rientrerebbe nell’ambito della disciplina prevista dall’art. 3 D.P.R. n. 380/2001 per le nuove costruzioni e, di conseguenza, sarebbe soggetto alla normativa sul contributo di urbanizzazione.
Tale premessa avrebbe dovuto condurre all’individuazione del nesso sussistente fra la normativa regionale in tema di oneri di urbanizzazione (D.C.R. n. 179 C.R. 4170 in data 26.05.1977) ed il permesso di costruire rilasciato in favore della sig.ra Cu., al fine di affermare la necessità di previa impugnazione, entro i termini, del permesso di costruire, in presenza di contestazioni relative all’ammontare degli oneri di urbanizzazione.
Per altro verso, con riferimento all’ammontare degli oneri aggiuntivi per l’impatto acustico, parte appellante afferma che è mancata, in primo grado, la pregiudiziale impugnazione del provvedimento di compatibilità acustica nel quale sono stati quantificati i relativi oneri.
2.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto, il Collegio ritiene di condividere le argomentazioni proposte dal giudice di prime cure, che evidenzia l’illogicità dell’iter processuale ipotizzato dall’Amministrazione appellante: in effetti non pare ragionevole sostenere “che parte ricorrente avrebbe dovuto impugnare provvedimenti a sé favorevoli [...] solo perché essi hanno costituito la necessaria occasione per la determinazione degli oneri”. In effetti il contenzioso introdotto con il ricorso della sig.ra Cu. inerisce all’an ed al quantum debeatur a titolo di oneri di urbanizzazione ed oneri aggiuntivi, non, invece, all’ammissibilità del progetto proposto dall’odierna appellata.
Sul punto, inoltre, la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di precisare che “
le controversie sulla debenza o meno del contributo per il rilascio di una concessione edilizia e sul suo ammontare, devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 16 l. 28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi, non sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 06.12.1999 n. 2056; id. 15.02.2001, n. 790).
La giurisdizione esclusiva è stata confermata anche in seguito all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f), devolve al Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia”. La qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in termini di diritto soggettivo, derivano dalla circostanza secondo cui, in caso di contestazione circa la quantificazione o la debenza degli oneri connessi al permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura del contributo imposto, non l’esercizio del potere al rilascio del titolo edilizio.
Non può affermarsi, dunque, con riferimento al presente giudizio, il suo carattere impugnatorio e, correlativamente, non troveranno ingresso le disposizioni processuali inerenti ai termini di decadenza, poiché la domanda giudiziale è soggetta al solo termine di prescrizione.
3. Con il secondo motivo di appello l’Amministrazione comunale afferma l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui sostiene l’inammissibilità di oneri di urbanizzazione in presenza di un intervento edilizio che diminuisca il carico urbanistico.
In particolare, nel caso di specie, nonostante l’intervento assentito non determini un incremento di S.L.P. complessiva e non modifichi la destinazione d’uso preesistente, si sarebbe in presenza di una creazione di un organismo edilizio del tutto nuovo per sagoma, numero di piani, distribuzione interna, posizionamento e realizzazione di piani interrati.
Inoltre, l’assoggettamento dell’intervento al rilascio del permesso di costruire e la sua ascrivibilità nel novero delle “nuove costruzioni”, condurrebbero ad assoggettare l’immobile agli oneri di urbanizzazione. Per altro verso, tali oneri non potrebbero dirsi nemmeno già scontati da quelli sopportati all’origine, stante la vetustà del fabbricato che esclude ex se l’avvenuto versamento degli oneri concessori, la cui disciplina risale alla l. n. 10 del 1977.
3.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere integralmente le argomentazioni fornite dal giudice di prime cure, secondo cui “
il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae”.
In effetti,
gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche.
In sostanza,
gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “
in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione di parte appellante circa il mancato versamento degli oneri di urbanizzazione al momento dell’originaria costruzione dell’edificio di proprietà della sig.ra Cu.. In effetti,
l’indagine relativa all’incremento del carico urbanistico di un determinato insediamento non può coinvolgere anche il regime contributivo riferibile all’edificio originario.
Gli elementi suindicati consentono, in definitiva, di condividere gli argomenti del giudice di prime cure e rigettare le censure sollevate sul punto dall’Amministrazione appellante (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.10.2015 n. 4950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’obbligo nel caso di raggruppamenti temporanei di impresa di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione non impone anche l’ulteriore parallelismo fra quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di esecuzione e per altro verso che la disposizione contenuta nel comma 13 dell’art. 37 del D.Lgs, n. 163 del 2006 (secondo cui i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento) è stata prima limitata ai soli appalti di lavori [ex art. 1, co. 2-bis, lett. a), del D.L. 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla L. 07.08.2012, n. 135, norma in vigore al momento di pubblicazione del bando di gara] e poi successivamente abrogata dall’art. 12, comma 8, del D.Lgs. 28.03.2014, n. 47, convertito con modificazioni dalla L. 23.05.2014, n. 80.
Per completezza deve osservarsi, per un verso, che, come chiarito dalla giurisprudenza, l’obbligo nel caso di raggruppamenti temporanei di impresa di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione non impone anche l’ulteriore parallelismo fra quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di esecuzione (Cons. Stato, A.P. 30.01.2014, n. 7) e per altro verso che la disposizione contenuta nel comma 13 dell’art. 37 del D.Lgs, n. 163 del 2006 (secondo cui i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento) è stata prima limitata ai soli appalti di lavori [ex art. 1, co. 2-bis, lett. a), del D.L. 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla L. 07.08.2012, n. 135, norma in vigore al momento di pubblicazione del bando di gara] e poi successivamente abrogata dall’art. 12, comma 8, del D.Lgs. 28.03.2014, n. 47, convertito con modificazioni dalla L. 23.05.2014, n. 80
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.10.2015 n. 4942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le valutazioni delle offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione di discrezionalità tecnica e come tali sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti ovvero ancora salvo che non vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione, non essendo sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte.
6.2.2.1. Innanzitutto deve ribadirsi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, le valutazioni delle offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione di discrezionalità tecnica e come tali sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (ex multis, Cons. St., sez. V, 30.04.2015, n. 2198; 23.02.2015, n. 882; 26.03.2014, n. 1468; sez. III, 13.03.2012, n. 1409) ovvero ancora salvo che non vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione (Cons. St., sez. III, 24.09.2013, n. 4711), non essendo sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte (Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2615).
Nel caso di specie nella contestata valutazione della commissione di gara non si rinvengono macroscopici elementi di illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza o travisamento di fatto, le contrarie argomentazioni delle appellanti essendo fondate su opinioni soggettive e risolvendosi in definitiva in un mero dissenso rispetto alle motivate conclusioni della predetta commissione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.10.2015 n. 4942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Deve essere riformata l’ordinanza cautelare di reiezione della domanda cautelare presentata in primo grado, concernente l’esclusione dell’appellante dall’affidamento di un dato servizio allorché, come nel caso di specie, risulti che l’esistenza dell’utile si sarebbe potuto anche ricavare e dimostrare (pur in presenza di una percentuale di aggio pari a zero) da altre componenti dell’offerta presentata, che avrebbero, pertanto, dovuto essere valutate prima di esprimere il giudizio di inattendibilità economica dell’offerta dell’appellante, tenuto conto, altresì, che rispetto alla percentuale di aggio la differenza tra l’offerta dell’appellante e quella della controinteressata era minimale e certamente tale da non giustificare il diverso trattamento riservato alle due offerte.
Conseguentemente, nella fattispecie, in riforma dell’ordinanza impugnata, veniva accolta l’istanza cautelare in primo grado.

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... per la riforma dell'ordinanza cautelare del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE I n. 1593/2015, resa tra le parti, concernente esclusione dall'affidamento del servizio di "selezione e fornitura di personale da impiegare con contratto di lavoro a tempo determinato presso adisu per due anni";
...
- Ritenuto che in astratto l’esistenza dell’utile potrebbe anche essere ricavata e dimostrata (pur in presenza di una percentuale di aggio pari a zero) da altre componenti dell’offerta presentata, che avrebbero, pertanto, dovuto essere valutate prima di esprimere il giudizio di inattendibilità economica dell’offerta di G. Gr. s.p.a.;
- Ritenuto, peraltro, che rispetto alla percentuale di aggio la differenza tra l’offerta dell’appellante e quella della controinteressata è minimale e certamente tale da non giustificare il diverso trattamento riservato alle due offerte;
- Ritenuto che sussistono i presupposti per compensare le spese della presente fase cautelare possono essere compensate
P.Q.M.
- Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8182/2015) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, accoglie l'istanza cautelare in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 28.10.2015 n. 4900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIn materia disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell'art. 55, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001, nel testo in vigore anteriormente alla novella di cui al d.lgs. n. 150/2009, ove la sanzione da irrogare sia quella del rimprovero verbale o della censura, il capo della struttura in cui il dipendente lavora è competente non solo ad applicare la sanzione medesima, ma anche a curare il relativo procedimento disciplinare.
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1- Con unico motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 55 d.lgs. n. 165/2001 nel testo vigente all'epoca dei fatti (12.07.2002), per avere la sentenza impugnata ritenuta nulla la sanzione in quanto irrogata dal capo della struttura in cui il dipendente opera anziché dall'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, che -contrariamente a quanto suppone la Corte territoriale- è, in realtà, competente per le sanzioni diverse dal rimprovero verbale e dalla censura, per le quali è invece competente il capo della struttura.
2- Il ricorso è fondato.
Dispone l'art. 55, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001 (nel testo vigente all'epoca dei fatti, ossia il 12.07.2002, prima della novella di cui al d.lgs. n. 150/2009): "
Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari. Tale ufficio, su segnalazione del capo della struttura in cui il dipendente lavora, contesta l'addebito al dipendente medesimo, istruisce il procedimento disciplinare e applica la sanzione. Quando le sanzioni da applicare siano rimprovero verbale e censura, il capo della struttura in cui il dipendente lavora provvede direttamente.".
Il contenuto di tale disposizione viene ripreso dalla giurisprudenza di questa S.C. nel momento in cui statuisce che, ai sensi del cit. art. 55 d.lgs. n. 165/2001, la violazione delle norme sulla competenza interna dell'ufficio per i procedimenti disciplinari implica nullità della sanzione applicata da altro soggetto, ad eccezione del rimprovero verbale e della censura (cfr. Cass. n. 14628/2010; Cass. n. 20981/2009; Cass. n. 2168/2004).
Tuttavia, a ben vedere, tale giurisprudenza non chiarisce esattamente (anche perché in quelle occasioni la sanzione impugnata era più grave) se, in ipotesi di rimprovero verbale o di censura, resti ferma la competenza interna dell'ufficio per i procedimenti disciplinari in ordine a tutta l'istruttoria del procedimento e soltanto l'irrogazione di tali sanzioni sia affidata al capo della struttura (come statuito dalla Corte territoriale),
oppure se questi possa provvedere da sé a tutto l'iter disciplinare, compreso l'atto terminale di applicazione del rimprovero verbale o della censura (come sostiene l'odierno ricorrente).
Ritiene la Corte di condividere quest'ultima opzione interpretativa, conforme ad un'interpretazione teleologica e sistematica della norma in commento.

Sotto il primo profilo, si consideri che sarebbe contraddittorio, rispetto alla finalità della disposizione, il prevedere una più articolata e garantita procedura (con un doppio passaggio, dapprima presso l'ufficio per i procedimenti disciplinari, poi innanzi al capo struttura) per le sanzioni in assoluto di minor gravità (vale a dire il rimprovero verbale e la censura) e, invece, una procedura meno garantita (cioè solo innanzi all'ufficio per i procedimenti disciplinari) per le sanzioni più gravi.
Ancor più tale contraddittorietà si rivela in tutta la propria evidenza se solo si pensa, in particolare, alla sanzione del rimprovero verbale (che nel citato art. 55, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001 è accomunato alla censura), rimprovero verbale che per sua stessa natura presuppone un'immediatezza e una compresenza degli interlocutori (capo struttura e suo subordinato) incompatibili con un così articolato procedimento, per di più da svolgersi in forma scritta e davanti a due differenti uffici della stessa amministrazione.
Sotto il profilo sistematico l'opzione ermeneutica accolta dalla gravata pronuncia collide con l'omologo istituto del procedimento disciplinare di cui all'art. 7 legge n. 300/1970 (le cui garanzie si estendono, ex art. 51, co. 2° d.Lgs. n. 165/2001, anche al pubblico impiego contrattualizzato: cfr. Cass. n. 8642/10), procedimento che non si applica a sanzioni come il rimprovero verbale.
Dunque,
se per il rimprovero verbale ogni competenza disciplinare necessariamente appartiene al capo della struttura in cui il dipendente lavora, alla medesima conclusione deve pervenirsi riguardo alla censura, che l'art. 55-bis, co. 4 cit., ultimo periodo, testualmente accomuna, quanto a competenza, alla prima -meno grave- sanzione.
Da ultimo, è appena il caso di segnalare l'irrilevanza nella presente sede delle difese svolte dal controricorrente sul merito dell'addebito, ritenuto assorbito dalla gravata pronuncia, che si era arrestata all'aspetto procedurale erroneamente ravvisando la nullità della sanzione per difetto di titolarità del potere disciplinare da parte del capo della struttura in cui il dipendente lavora.
3- In conclusione il ricorso è da accogliersi, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Messina, che dovrà attenersi al seguente principio di diritto "
In materia disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell'art. 55, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001, nel testo in vigore anteriormente alla novella di cui al d.lgs. n. 150/2009, ove la sanzione da irrogare sia quella del rimprovero verbale o della censura, il capo della struttura in cui il dipendente lavora è competente non solo ad applicare la sanzione medesima, ma anche a curare il relativo procedimento disciplinare" (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 23.10.2015 n. 21646).

APPALTI: La p.a. deve pagare dopo l'ottemperanza. Lo hanno ribadito i giudici del Tar del Lazio.
La condanna dell'amministrazione pubblica al pagamento, a causa del ritardo, di una somma di danaro in favore del creditore, è giustificata in ragione della violazione, inosservanza ovvero, e ritardo successivi alla pronunzia del giudice dell'ottemperanza, attesa la funzione deterrente, general-preventiva e dissuasiva dello strumento in parola che può realizzarsi solo per comportamenti successivi alla comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento formulato dal giudice che ne dispone il pagamento.

A ribadirlo sono stati i giudici della Sez. I-quater del TAR Lazio-Roma con la sentenza 23.10.2015 n. 12174.
Nella sentenza in commento, inoltre, i giudici amministrativi capitolini hanno osservato che circa la domanda di condanna dell'amministrazione pubblica al pagamento di una somma a titolo di risarcimento per il ritardo nell'esecuzione del giudicato, si rimanda direttamente alla previsione di cui all'art. 114, comma 4, lett. e) del c.p.a. («il giudice, in caso di accoglimento del ricorso, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo»; istituto della cosiddetta astreinte), tenendo anche nella dovuta considerazione che la pretesa sostanziale azionata abbia a oggetto proprio l'interesse al conseguimento di un ristoro patrimoniale per il danno connesso al ritardo nell'esecuzione del giudicato espressamente menzionato nella disposizione normativa sopra citata.
Per quanto riguarda, poi, la quantificazione di tale somma, essa può essere effettuata prendendo a fondamento il parametro, individuato dalla Cedu con riferimento alla commisurazione degli interessi moratori dovuti dall'amministrazione per il ritardo nel pagamento delle somme liquidate, dell'«interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali»; e ai sensi dell'art. 1227, comma 2, c.c., non sarà ininfluente nella considerazione della misura del risarcimento la tempestiva attivazione da parte del creditore del rimedio dell'ottemperanza (articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015).
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MASSIMA
In relazione alla domanda di condanna dell’Amministrazione al pagamento di una somma a titolo di risarcimento per il ritardo nell’esecuzione del giudicato, il Collegio ritiene che detto capo di domanda rimandi direttamente alla previsione di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del c.p.a. (“il giudice, in caso di accoglimento del ricorso, … salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”; istituto della c.d. astreinte), considerato che la pretesa sostanziale azionata attiene proprio all’interesse al conseguimento di un ristoro patrimoniale per il danno connesso al ritardo nell’esecuzione del giudicato espressamente menzionato nella citata disposizione normativa.
Per tale ragione il Collegio, tenuto conto che detta norma si applica anche nel caso in cui l'obbligo di cui si chiede l'adempimento consista in un'obbligazione pecuniaria (cfr., in particolare, Cons. Stato, V, 14.05.2012 n. 2744), precisa che,
in adesione al recentissimo orientamento assunto dal giudice di appello in merito alla decorrenza della astreinte, la condanna dell’Amministrazione al pagamento, a cagione del ritardo, di una somma di danaro in favore del creditore, è giustificata in ragione della violazione, inosservanza ovvero, ritardo successivi alla pronunzia del giudice dell’ottemperanza, attesa la funzione deterrente, general-preventiva e dissuasiva dello strumento in parola che può realizzarsi solo per comportamenti successivi alla comunicazione o notificazione dell’ordine di pagamento formulato dal giudice che ne dispone il pagamento (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, n. 4571 del 30.09.2015).
La quantificazione di tale somma può essere effettuata prendendo a fondamento il parametro, individuato dalla CEDU con riferimento alla commisurazione degli interessi moratori dovuti dall’Amministrazione per il ritardo nel pagamento delle somme liquidate, dell’“interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali”; ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., non è ininfluente nella considerazione della misura del risarcimento la tempestiva attivazione da parte del creditore del rimedio dell’ottemperanza; detta misura –e, quindi, il tasso sopra individuato, da applicare sulla sorte capitale dovuta a titolo di equa riparazione– dovrà essere quindi corrisposta, a carico dell’Amministrazione, a far tempo dalla notificazione o comunicazione della presente decisione.

EDILIZIA PRIVATAL’apprezzamento dell’organismo territoriale del Mibact, in quanto avente contenuto tecnico–discrezionale, è assoggettato esclusivamente a un sindacato giurisdizionale esterno, svolto nei limiti della verifica della corretta percezione da parte dell’organo pubblico dei presupposti di fatto del provvedere, della completezza dell’istruttoria; della ragionevolezza della scelta compiuta in relazione alla fattispecie concreta, della adeguata esternazione delle ragioni della decisione; e che questo giudice d’appello non può sostituire la propria valutazione a quella rientrante nei poteri dell’Amministrazione.
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In tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento è vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il giocoforza diverso impatto sul paesaggio di due progetti, quand’anche simili tra loro.

Tuttavia, non appare inutile soggiungere che:
- sulla contestazione, in sede giudiziale, del parere della Soprintendenza, in modo condivisibile la sentenza ha evidenziato come l’interessata avesse inteso contrapporre, inammissibilmente, una diversa valutazione di merito a quella della Soprintendenza, puntualmente motivata con riferimento al pregiudizio arrecato dalle dimensioni dell’abuso edilizio al contesto panoramico tra la linea di costa già edificata e l’antistante sistema naturalistico dunale.
Apprezzamento di merito sindacabile in giustizia amministrativa solamente per manifesta erroneità o illogicità, che nella fattispecie non si ravvisano (ex multis, Cons. Stato, VI, 17.09.2012, n. 4759; 08.05.015, n. 2675, dove si precisa che l’apprezzamento dell’organismo territoriale del Mibact, in quanto avente contenuto tecnico–discrezionale, è assoggettato esclusivamente a un sindacato giurisdizionale esterno, svolto nei limiti della verifica della corretta percezione da parte dell’organo pubblico dei presupposti di fatto del provvedere, della completezza dell’istruttoria; della ragionevolezza della scelta compiuta in relazione alla fattispecie concreta, della adeguata esternazione delle ragioni della decisione; e che questo giudice d’appello non può sostituire la propria valutazione a quella rientrante nei poteri dell’Amministrazione);
- la disparità di trattamento denunciata (v. sopra, p. 4.1.) non può avere ingresso. Per consolidata giurisprudenza, in tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento è vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il giocoforza diverso impatto sul paesaggio di due progetti, quand’anche simili tra loro (Cons. Stato, VI, 13.02.1984, n. 81; 08.08.2000, n. 4345; 24.10.2008, n. 5267; 11.09.2013, n. 4497; 05.03.2014, n. 1059; 01.04.2014, n. 1559; 10.02.2015, n. 718) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015 n. 4875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Manca protocollo legalità, esclusione non automatica. Corte di giustizia europea sulla legge Severino nelle gare d'appalto.
L'esclusione da un appalto per il mancato rispetto dei protocolli di legalità della legge Severino è legittima, ma non può essere automatica.

È quanto ha affermato la Corte di giustizia europea, X Sez., con la sentenza 22.10.2015 - C-425/14 rispetto alla compatibilità con il diritto dell'Unione europea di una disposizione nazionale che consente l'esclusione delle imprese partecipanti a una gara nell'ipotesi di mancato deposito della dichiarazione degli impegni contenuti nei cosiddetti protocolli di legalità.
La questione si era posta in rapporto all'articolo 1, comma 17, della legge del 06.11.2012, n.190, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione (la cosiddetta legge Severino) che prevede che «le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara».
Nel caso specifico, due imprese partecipanti alla gara non avevano depositato, unitamente alla loro offerta, la dichiarazione di accettazione delle clausole contenute nel protocollo di legalità. Il Tar della regione Sicilia aveva rinviato la questione pregiudiziale al giudice europeo sul presupposto che l'articolo 45 della direttiva 2004/18, nell'elencare tassativamente le cause di esclusione, non contiene disposizioni analoghe. Pur prendendo atto che l'appalto era di importo inferiore alla soglia di applicazione delle norme europee, il Tar fa presente che la norma della legge Severino prevedrebbe una deroga alla tassatività delle cause di esclusione per esigenze imperative di interesse generale, quali quelle connesse con l'ordine pubblico e con la prevenzione del crimine, che sarebbe comunque ammissibile.
La sentenza europea, dopo avere rilevato l'inapplicabilità della direttive 18/2004 e dopo avere precisato che comunque agli appalti sotto soglia si applicano le norme fondamentali e i principi generali del Trattato Fue «purché tali appalti presentino un interesse transfrontaliero certo» (provato dal fatto che le ricorrenti sono straniere), ritiene compatibile con il diritto comunitario la norma italiana.
Per i giudici infatti la previsione della legge Severino non risulta in contrasto con le norme fondamentali e i principi generali del Trattato, (principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché con l'obbligo di trasparenza ad essi connesso), tuttavia, nei limiti in cui il protocollo preveda dichiarazioni secondo le quali il candidato o l'offerente non si trovi in situazioni di controllo o di collegamento con altri candidati o offerenti, non si sia accordato e non si accorderà con altri partecipanti alla gara e non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti alla medesima procedura, l'assenza di siffatte dichiarazioni non può comportare l'esclusione automatica del candidato o dell'offerente da detta procedura.
L'esclusione automatica, infatti, esclude la possibilità per tali candidati o offerenti di dimostrare l'indipendenza delle loro offerte ed è quindi in contrasto con l'interesse dell'Unione europea a che sia garantita la partecipazione più ampia possibile di offerenti a una gara d'appalto (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Dopo l'offerta, rien ne va plus. Limiti delle commissioni giudicatrici.
In una gara di appalto pubblico la commissione giudicatrice può soltanto chiarire o specificare criteri fissati dal bando di gara, ma mai scomporre il punteggio in ulteriori parametri valutativi.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 21.10.2015 n. 4812 rispetto a una gara in cui prima il responsabile unico del procedimento aveva fornito dei chiarimenti e, dopo, la commissione giudicatrice aveva introdotto nuovi parametri di valutazione scaduto il termine per presentare offerta.
La sentenza precisa innanzitutto il quadro delle prerogative della stazione appaltante e della commissione che rispondono all'esigenza di limitare la discrezionalità: compete alla stazione appaltante fissare nel bando i criteri e sottocriteri di valutazione qualitativa delle offerte; spetta invece alla commissione di fissare, prima dell'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche, «i criteri motivazionali» cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e subcriterio di valutazione il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando. Anche il regolamento attuativo del codice chiarisce (art. 283) che è la stazione appaltante e non la commissione a dovere scegliere una delle metodologie indicate, peraltro non tassativamente, dall'allegato P; mentre la giurisprudenza non esclude la possibilità per le commissioni di fissare mere specificazioni o chiarimenti dei criteri già fissati dal bando.
Nel caso specifico esaminato dai giudici, però, la commissione giudicatrice ha posto in essere una integrazione sostanziale del bando e non una mera specificazione motivazionali: avendo rilevato che il disciplinare di gara non prevedeva alcuna metodologia per l'attribuzione del punteggio e non essendo sufficiente il mero rinvio all'art. 83 del codice dei contratti pubblici, in assenza di una specifica scelta sul metodo concretamente applicabile tra quelli previsti a titolo esemplificativo nel regolamento di esecuzione al codice dei contratti pubblici (art. 283, allegato P del dpr 207/2010), la commissione ha scomposto il punteggio indicato per ogni sub criterio in due sottoparametri valutativi, relativi agli aspetti qualitativi definendo così il metodo di calcolo per l'attribuzione del corrispondente punteggio numerico.
E questo non poteva essere fatto; dice la sentenza: «È evidente che la commissione ha operato una scelta metodologica che competeva, invece, alla stazione appaltante» (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).
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MASSIMA
2.1. - Il Collegio non condivide le censure.
Nelle gare affidate col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi del citato art. 83 del codice dei contratti pubblici, è rimesso alla stazione appaltante di fissare nel bando i criteri e sottocriteri di valutazione qualitativa delle offerte.
L’art. 1, comma 1, lett. u) del D.Lgs 152/2008, nel modificare l’art. 86, comma 4, del codice, a seguito, peraltro, dell’apertura di infrazione (n. 2007/2309) nei confronti dell’Italia ad opera della Commissione CE, ha escluso che la Commissione possa fissare, prima dell’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche, “i criteri motivazionali” cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e subcriterio di valutazione il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando, come era invece consentito prima della riforma del correttivo al codice dei contratti.
E ciò allo scopo di limitare al massimo la discrezionalità delle Commissioni (fino al punto di renderne quasi vincolate le valutazioni), a garanzia dell’imparzialità e della trasparenza nelle operazioni di valutazione qualitativa delle offerte.

Secondo la giurisprudenza comunitaria, infatti,
l'Amministrazione deve individuare criteri specifici di selezione che siano collegati all'oggetto dell'appalto ed oggettivamente quantificabili, rispettosi dei principi di parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità e trasparenza, e pubblicizzarli nel bando o nei documenti di gara affinché siano noti a tutti i concorrenti (cfr. Corte Giust. CE, 17.09.2002, C-513/99, Concordia Bus Finland).
A conferma di tale volontà legislativa, come ricorda il primo giudice, il comma 5 dell’art. 83 del codice dei contratti pubblici stabilisce che per attuare la ponderazione o, comunque, attribuire il punteggio a ciascun elemento dell'offerta, le stazioni appaltanti utilizzano metodologie, stabilite dal regolamento di attuazione del codice, tali da consentire di individuare con un unico parametro numerico finale l'offerta più vantaggiosa. A sua volta, l’art. 283 del regolamento (DPR n. 107/2010) rimette alla stazione appaltante e non alla Commissione di scegliere una delle metodologie indicate, non tassativamente, dall’Allegato P.
In giurisprudenza, tuttavia, fermo il divieto di fissare nuovi criteri o sub criteri di valutazione dell'offerta dopo la sua presentazione, non si esclude la possibilità per le Commissioni di fissare mere specificazioni o chiarimenti dei criteri già fissati dal bando (Consiglio di Stato, sez. V, 18/08/2010, n. 5844).
E’ connaturale al giudizio di merito della Commissione la presenza di un margine di discrezionalità che non può essere assorbito in un contesto di criteri e sub-criteri tale da rendere totalmente vincolato un giudizio di valutazione ( C.d.S.; III Sez., 23/02/2015, n. 907).
Nella fattispecie, tuttavia, si è trattato di una integrazione sostanziale del bando e non di una mera specificazione motivazionale.
Dal verbale n. 34 del 12.06.2014 si evince che la Commissione, avendo rilevato espressamente che il disciplinare di gara non prevedeva alcuna metodologia per l’attribuzione del punteggio e non essendo sufficiente il mero rinvio all’art. 83 del D.Lgs. 163/2006, in assenza di una specifica scelta sul metodo concretamente applicabile tra quelli previsti a titolo esemplificativo nel regolamento di esecuzione al codice dei contratti pubblici (art. 283, allegato P del DPR 207/2010), ha ritenuto di scomporre il punteggio indicato per ogni sub criterio in due sottoparametri valutativi, relativi agli aspetti qualitativi –per i quali veniva utilizzata la tabella Giudizio/Peso dove, in base al giudizio, viene assegnato un punteggio che va da 0 a 1- e agli aspetti quantitativi -per i quali si attribuiva il punteggio massimo al miglior valore rilevato ed alle altre un valore linearmente decrescente-, definendo così il metodo di calcolo per l’attribuzione del corrispondente punteggio numerico.
E’ evidente che la Commissione ha operato una scelta metodologica che competeva, invece, alla stazione appaltante.
Inoltre, tale scelta è stata compiuta dopo l’apertura delle offerte tecniche (verbale n. 5 del 15.10.2013) e la valutazione delle offerte sia dell’appellata (verbale n. 6 del 31.10.2013) che dell’appellante (verbale n. 12 del 12.12.2013).
Tali rilievi sono sufficienti ad inficiare la validità e correttezza del procedimento, per violazione dell’art. 83, commi 4 e 5, del codice dei contratti pubblici, a prescindere dalla prova che l’applicazione di quei criteri sia stata determinante nell’attribuzione dei punteggi.
Può considerarsi meritevole di tutela giudiziaria anche il solo interesse strumentale alla riedizione della procedura comparativa, se sussiste una ragionevole chance per il concorrente di conseguire l’aggiudicazione nell’ipotesi di rinnovazione della gara e sempre che vi sia un interesse connesso ad un indice di lesività specifico e concreto (Consiglio di Stato, sez. III, 01/09/2014, n. 4449; Consiglio di Stato ad. plen. 03/02/2014, n. 8).
3. - Infondato è anche il secondo motivo di appello, con cui in via subordinata, si deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto di annullare l’intera procedura concorsuale.
In virtù del principio di conservazione dell’effetto utile degli atti giuridici sarebbe preferibile, secondo le appellanti, l’annullamento del solo segmento procedimentale relativo alla valutazione delle offerte tecniche.
Il Collegio ritiene che il principio per cui,
nelle procedure di gara, imparzialità e correttezza delle operazioni selettive sono garantite dalla fissazione dei criteri di valutazione discrezionale delle offerte anteriormente alla conoscenza del contenuto delle medesime, impone l’annullamento dell’intera procedura e della stessa lex di gara in parte qua (C.d.S., VI, 04/09/2014, n. 4514).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALILa giurisprudenza amministrativa si è orientata in un senso estremamente rigoroso e restrittivo nella delimitazione della detta categoria degli “atti politici”, non nascondendosi come la previsione legislativa della loro non impugnabilità si ponga quanto meno come eccezionale e derogatoria rispetto ai fondamentali principi in materia di diritto di azione e giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost..
In particolare, al di là di ogni analisi della casistica delle situazioni nelle quali sono state ritenute applicabili le suindicate previsioni eccezionali, l’indirizzo dominante àncora la qualificazione di un atto come “atto politico” alla compresenza di due requisiti:
- il primo a carattere soggettivo, consistente nel promanare l’atto da un organo di vertice della pubblica amministrazione, individuato fra quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica;
- il secondo, a carattere oggettivo, consistente nell’essere l’atto concernente la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.
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G
li atti di c.d. ‘alta amministrazione’, seppur caratterizzati da un'amplissima discrezionalità, in quanto considerati come anello di collegamento tra indirizzo politico e attività amministrativa in senso stretto, sono soggetti al sindacato giurisdizionale.
La differenza sostanziale tra l'atto politico e l'atto di alta amministrazione sussiste nel fatto che, mentre l'atto politico è libero nella scelta del fine da realizzare, l'atto d'alta amministrazione è sempre rivolto alla realizzazione di un fine già individuato.

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In via prioritaria, dunque, il Collegio si chiede se l’atto consiliare sia riconducibile alla categoria degli “atti politici”, per i quali l’art. 7, co. 1, ultimo periodo, c.p.a. esclude la sindacabilità da parte del giudice amministrativo.
Al riguardo, è opportuno preliminarmente rammentare come la giurisprudenza amministrativa si sia orientata in un senso estremamente rigoroso e restrittivo nella delimitazione della detta categoria degli “atti politici”, non nascondendosi come la previsione legislativa della loro non impugnabilità si ponga quanto meno come eccezionale e derogatoria rispetto ai fondamentali principi in materia di diritto di azione e giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost..
In particolare, al di là di ogni analisi della casistica delle situazioni nelle quali sono state ritenute applicabili le suindicate previsioni eccezionali, l’indirizzo dominante àncora la qualificazione di un atto come “atto politico” alla compresenza di due requisiti: il primo a carattere soggettivo, consistente nel promanare l’atto da un organo di vertice della pubblica amministrazione, individuato fra quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica; il secondo, a carattere oggettivo, consistente nell’essere l’atto concernente la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23.01.2007, n. 209; Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2001, n. 1397; id., 29.02.1996, n. 217).
Ciò detto, appare evidente che nella specie, la deliberazione in esame appare carente del carattere oggettivo suddetto.
Ed allora, non rimane che ricondurre il predetto atto all’alveo degli atti di c.d. ‘alta amministrazione’, che seppur caratterizzati da un'amplissima discrezionalità, in quanto considerati come anello di collegamento tra indirizzo politico e attività amministrativa in senso stretto, sono soggetti al sindacato giurisdizionale. In tal senso depone la stessa lettera dell’atto, come di seguito si riporterà.
La differenza sostanziale tra l'atto politico e l'atto di alta amministrazione sussiste nel fatto che, mentre l'atto politico è libero nella scelta del fine da realizzare, l'atto d'alta amministrazione è sempre rivolto alla realizzazione di un fine già individuato.
Nella specie l’interesse ad agire da parte dei ricorrenti risulta verificato dall’emanazione del conseguente provvedimento attuativo di revoca degli atti inerenti alla procedura d'appalto relativa all'affidamento in concessione del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani della Valle d'Aosta, di cui la parte ricorrente era risultata aggiudicataria provvisoria (TAR Valle d'Aosta, sentenza 21.10.2015 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto;
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento;
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime;
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati.
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Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che, non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in ragione della natura vincolata della relativa attività repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.

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Le prime due censure con le quali è dedotta la violazione degli artt. 7, 10 e ss., L. n. 241 del 1990 e succ. modif. e int., la violazione del giusto procedimento, di correttezza e di buon andamento dell’azione amministrativo, oltre all’eccesso di potere per difetto di istruttoria, sì come afferenti ad un unico iter logico-argomentativo, possono trattarsi congiuntamente e sono entrambe infondate.
Al riguardo parti ricorrenti lamentano di essere stati impediti nella effettiva esplicazione del diritto di partecipazione procedimentale ed, in particolare della possibilità di prendere visione degli atti del procedimento e di presentare memorie scritte e documenti, ai sensi dell’art. 10, L. n. 241/1990, per essere stata la comunicazione di avvio del procedimento loro notificata il 27.04.2008 mentre l’ordinanza di demolizione sarebbe stata emanata già il giorno seguente, senza neppure il rispetto del termine, comunque incongruo (per la giurisprudenza non potendo essere inferiore a dieci giorni), di giorni 7, fissato nello stesso avviso dell’Autorità procedente.
La censura è infondata.
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente e condivisa dal Collegio rileva che: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che, non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in ragione della natura vincolata della relativa attività repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 20.10.2015 n. 4904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nella situazione di parziale difformità delle opere realizzate rispetto ai permessi di costruire in precedenza rilasciati e quindi da considerare non presidiate dal corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi originariamente per la disporre una preventiva irrogazione di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere applicata, in alternativa alla riduzione in pristino unicamente allorquando, in sede di esecuzione della demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente possibile eliminare le parti difformi della struttura senza compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del fabbricato.
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In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”;
In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare;
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.
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A prescindere che nessuna norma prevede che il provvedimento di riduzione al pristino lo stato dei luoghi debba contenere l’indicazione della data di realizzazione degli abusi, la natura “permanente” dell’illecito urbanistico rende irrilevante l’epoca della realizzazione degli stessi attesa la sussistenza dell’interesse pubblico in re ipsa alla reintegrazione dell’ordine urbanistico violato nel momento in cui le violazioni vengono accertate dall’Autorità urbanistica.
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Con la quarta censura è dedotta la violazione di legge e l’eccesso di potere (per manifesta ingiustizia, contraddittorietà, illogicità), in quanto l’Amministrazione procedente, nel considerare le opere parzialmente difformi dai titoli abilitativi, non avrebbe tenuto conto di tutti gli aspetti funzionali, pregiudizievoli per la restante struttura (comunque ritenuta regolare e legittima), che potrebbero scaturire dalla demolizione come sanzione principale rispetto alla subordinata sanzione pecuniaria.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Invero, nella situazione di parziale difformità delle opere realizzate rispetto ai permessi di costruire in precedenza rilasciati e quindi da considerare non presidiate dal corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi originariamente per la disporre una preventiva irrogazione di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere applicata, in alternativa alla riduzione in pristino -come peraltro implicitamente ammesso anche dai ricorrenti- unicamente allorquando, in sede di esecuzione della demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente possibile eliminare le parti difformi della struttura senza compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del fabbricato.
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Con la sesta censura si deduce la violazione di legge e l’eccesso di potere per carenza di motivazione e di istruttoria, atteso che, nell’emanazione dell’atto impugnato l’Amministrazione procedente non avrebbe effettuato un’adeguata comparazione tra sacrifici imposti ai privati incisi e finalità di interesse pubblico perseguito dalla medesima, non valutando l’esistenza di un pubblico interesse concreto alla demolizione delle opere edilizie abusive, non bastando il mero accertamento dell’abusività della costruzione.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Secondo quanto in precedenza statuito da questa Sezione: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”>> (TAR Campania, sez. III, 03.02.2015, n. 634) ed una siffatta impostazione consegue a pacifica giurisprudenza, per la quale: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235); infine: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
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Con l’ottava censura si deduce la violazione di legge, l’eccesso di potere, il difetto di istruttoria e di motivazione, non contenendo l’impugnata ordinanza di demolizione l’indicazione circa l’epoca di costruzione degli abusi riscontrati.
Tale censura non ha miglior sorte delle precedenti in quanto, a prescindere che nessuna norma prevede che il provvedimento di riduzione al pristino lo stato dei luoghi debba contenere l’indicazione della data di realizzazione degli abusi, la natura “permanente” dell’illecito urbanistico rende irrilevante l’epoca della realizzazione degli stessi attesa la sussistenza dell’interesse pubblico in re ipsa alla reintegrazione dell’ordine urbanistico violato nel momento in cui le violazioni vengono accertate dall’Autorità urbanistica; nella fattispecie deve altresì rilevarsi che le opere sono state ingiunte di demolizione non in quanto prive di permesso di costruire, ma in quanto realizzate in maniera (parzialmente) difforme rispetto ai pregressi titoli abilitativi, per modo che la datazione degli abusi è, in ogni caso, necessariamente da collocare in epoca successiva al rilascio dei permessi di costruire (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 20.10.2015 n. 4904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Attestato di sopralluogo ed ATI.
Questa Sezione, nel caso di offerta presentata da raggruppamento di imprese, ha già avuto modo di precisare che:
- “l’obbligo di eseguire il sopralluogo posto a carico dei soggetti partecipanti, non può che riferirsi al concorrente singolo ovvero a ciascun concorrente che costituisce o costituirà il raggruppamento di impresa”;
- pertanto “l’attestato di sopralluogo, la cui mancata allegazione determina l’esclusione, deve riferirsi a tutte le imprese partecipanti, e non solo alla mandataria”.

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1.4- Fondato è invece il motivo d’appello che avversa il rigetto della censura che sostiene la necessità di un sopralluogo congiunto ed effettivo da parte di entrambe le imprese costituenti il raggruppamento.
Nella fattispecie questa tesi si contrappone a quanto ritenuto dal TAR e cioè:
- “La lex specialis si limitava a sanzionare con l’esclusione unicamente la mancata presentazione dell’attestato di presa visione dei luoghi (pag. 3 del bando e punto 10 delle norme di gara), senza alcuna previsione in ordine alla necessità che il sopralluogo venisse effettuato da parte di tutti i componenti del raggruppamento”;
- in via subordinata, non sussiste la violazione da parte della lex specialis dell’art. 106, comma 2, del d.p.r. 05.10.2010, n. 207, in quanto, da tale norma “non si evince la obbligatorietà del sopralluogo da parte di tutte le imprese facenti parti del raggruppamento (costituito o costituendo)", quanto la necessità della “dichiarazione con la quale i concorrenti attestano di essersi recati sul luogo di esecuzione dei lavori”.
L’appellata La. supporta questa tesi evidenziando che comunque l’adempimento in questione non era dal Bando sanzionato con l’esclusione, e che questa non è prevista dall’art. 106 del regolamento sui contratti.
Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento espresso dall’appellante.
In primo luogo va confermato che il bando di gara faceva in effetti obbligo ai “soggetti partecipanti” di effettuare il sopralluogo e di inserire la conseguente attestazione nella busta “A” a pena di esclusione. Inoltre, questa Sezione, nel caso di offerta presentata da raggruppamento di imprese, ha già avuto modo di precisare (Cons. di Stato, sez. IV, n. 744/2014) che:
- “l’obbligo di eseguire il sopralluogo posto a carico dei soggetti partecipanti, non poteva che riferirsi al concorrente singolo ovvero a ciascun concorrente che costituisce o costituirà il raggruppamento di impresa”;
- pertanto “l’attestato di sopralluogo, la cui mancata allegazione determina l’esclusione, deve riferirsi a tutte le imprese partecipanti, e non solo alla mandataria”.
Si tratta, in altri termini, di osservare un obbligo di esibizione documentale, ma che ha anche una valenza sostanziale, dovendosi attestare l’effettuazione del sopralluogo diretto da parte dei soggetti offerenti.
D’altra parte va sottolineato come questo orientamento appare in piena consonanza col fatto che nel contratto di appalto integrato dalla progettazione l’offerta attiene anche a quest’ultima, sicché appare logico che lo strumento del sopralluogo diretto sia obbligatorio, perseguendo il fine di far conseguire agli offerenti, nel pubblico interesse al miglior esito della procedura, le informazioni sul bene che lo riguarda e tramite queste predisporre un’offerta più aderente alle necessità dell’appalto.
1.5.- Conclusivamente, in relazione a quanto testé osservato, l’appello è meritevole di accoglimento, con conseguente annullamento dell’aggiudicazione al raggruppamento Lattanzi.
2.- Le questioni testé vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione relativamente alla domanda di annullamento dell’aggiudicazione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (Cons. di Stato, Sez. IV, sentenza 19.10.2015 n. 4778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Si è affermato:
- che in materia di immissioni, mentre è illecito il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell'interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli stessi non può fare considerare senz'altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi in concreto alla stregua dei principi di cui all'art. 844 c.c.;
- che alla materia delle immissioni sonore o da vibrazioni o scuotimenti atte a turbare il bene della tranquillità nel godimento degli immobili adibiti ad abitazione non è applicabile la L. 26.10.1995, n. 447, sull'inquinamento acustico, poiché tale normativa, come quella contenuta nei regolamenti locali, persegue interessi pubblicistici disciplinando, in via generale ed assoluta, e nei rapporti c.d. verticali fra privati e la p.a., i livelli di accettabilità delle immissioni sonore al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete;
- che la disciplina delle immissioni moleste in alieno nei rapporti fra privati va sempre rinvenuta nell'art. 844 c.c., sulla cui base, quand'anche dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento del giudice, che tenga conto di tutte le peculiarità della situazione concreta: analogamente è a dire per la normativa secondaria e regolamentare di attuazione la quale, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose, non può per sua natura che perseguire finalità meramente esecutive di carattere pubblicistico, così incidendo sui soli rapporti fra i privati e la p.a.; sicché i limiti tecnici in essa contenuti non escludono l'applicabilità dell'art. 844 c.c., nei rapporti tra i proprietari di fondi vicini.
Va inoltre ribadito che la valutazione imposta al giudice ex art. 844 c.c., risponde -nel contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà- alla tutela di preminenti diritti di rilievo costituzionale, come quello alla salute ed alla qualità della vita.
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In sede di risarcibilità del pregiudizio per immissioni che superino la soglia di tollerabilità, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini sono pregiudizi che, pur non risultando integrato un danno biologico, risultano comunque apprezzabili in termini di danno non patrimoniale.
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La ricorrente ritiene di aver subito una ingiustificata condanna, che l'ha condotta alla cessazione di una attività regolarmente autorizzata dalle autorità amministrative comportandole un cospicuo danno, a seguito della errata interpretazione ed applicazione, da parte del giudice di merito, della normativa sull'inquinamento acustico e pur avendo mantenuto le immissioni di rumore che provenivano dagli impianti di amplificazione della società (che somministrava intrattenimento notturno in luoghi aperti) all'interno della soglia dei 40 decibel, e comunque ad un livello inidoneo a ledere la salute di alcuno.
Sviluppa le sue lagnanze in cinque motivi, che appaiono complessivamente inidonei ad indurre ad una cassazione della sentenza impugnata.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ovvero sull'appartenenza alla classe VI di zonizzazione acustica del terreno su cui sorge l'immobile in cui la Flex era stata autorizzata a svolgere la propria attività; denuncia anche la violazione di legge in riferimento alla legge n. 447 del 1995, al D.P.C.M. 14.11.1997, nonché all'art. 844 commi 1 e 2 c.c..
Quanto al denunciato vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che la corte d'appello non abbia tenuto in alcun conto il fatto che, con una sentenza del TAR del 2008 provocata da un ricorso della stessa Flex, l'area dove esiste la struttura gestita dalla ricorrente sia stata considerata come "facente parte dell'area industriale ed inseribile pertanto in classe VI", ovvero nella zona a vocazione esclusivamente industriale, anziché area prevalentemente industriale (classe V), come era stata classificata erroneamente in precedenza dal Comune con provvedimento annullato dal tribunale amministrativo.
I controricorrenti sul punto precisano che effettivamente la delibera comunale che adottava il piano di zonizzazione acustica è stata annullata, con la sentenza del TAR Lombardia n. 5234 del 2008 citata dalla ricorrente. Pertanto, evidenziano che allo stato non esiste più alcun piano di zonizzazione e si applicano le norme ordinarie per individuare se sia avvenuto o meno il superamento della tollerabilità delle immissioni.
Il motivo è infondato.
La censura non è mossa adeguatamente, senza riportare né indicare i passi della sentenza in cui la motivazione sia inficiata dalla omessa considerazione della pronuncia del TAR. A ciò si aggiunga che, in base a quanto riportato dalla stessa ricorrente, la pronuncia del giudice amministrativo ha annullato in quanto illegittimo il piano di classificazione acustica adottato nel 2003 dal Comune intimato, laddove qualificava il territorio ove veniva svolta l'attività di intrattenimento musicale della ricorrente come riconducibile alla zona n. V, a prevalente (e non esclusiva) vocazione industriale, ma non ha provveduto neppure nominando a ciò un commissario ad acta, ad un diverso classamento che abbia effettivamente attribuito all'area vocazione esclusivamente industriale. Il fatto decisivo, consistente nella riconducibilità del luogo ove sorge l'attività ad una diversa zona, non è neppure provato quindi nella sua esistenza storica.
Quanto alla denunciata violazione di legge, essa non sussiste.
La sentenza impugnata appare aver fatto corretta applicazione della normativa vigente in materia di immissioni acustiche, laddove ha ricordato che
sussistono due livelli di tutela di fronte all'immissione rumorosa, da una parte il regime amministrativo deputato alla P.A. (disciplinato dalla legge n. 447 del 1995 e dal D.P.C.M. del 1997) e dall'altro vigono i principi civilistici che regolano i rapporti tra privati riconducibili nell'ambito del codice agli artt. 844 e 2043 c.c., dotati di fondamento costituzionale e comunitario.
Correttamente la corte d'appello, ha ritenuto che
l'eventuale rispetto da parte della ricorrente della normativa pubblicistica contenuta nel DPCM 14.11.1997 non faccia venir meno la possibilità che essa possa esser ritenuta responsabile sotto il profilo civilistico, in caso di violazione dei sopra ricordati artt. 844 e 2043 c.c. laddove sia riscontrato, come accertato dal consulente tecnico, che vi siano state ripetute immissioni sonore in orario dedicato al riposo notturno che superavano i tre dB(A) Leq di rumore di fondo, soglia fissata da un consolidato orientamento giurisprudenziale come tetto massimo di tollerabilità in orario notturno.
Questa Corte ha avuto infatti più volte modo di affermare, con affermazioni rispetto alle quali non vi è ragione di discostarsi, che
nell'ambito, non già della tutela della quiete pubblica ovvero del rapporto tra privati e PA, bensì dei rapporti tra privati, l'osservanza delle normative tecniche speciali, quali quelle qui invocate, non è dirimente nell'escludere l'intollerabilità delle immissioni (v. da ultimo Cass. n. 8474 del 2015); che la fattispecie deve essere vagliata secondo l'ordinario criterio di cui alla disposizione generale dell'art. 844 cit., nel senso che il superamento della soglia codicistica di tollerabilità delle immissioni ben può essere riscontrata pur nell'accertato rispetto dei limiti di cui alla normativa tecnica.
Si è in proposito affermato (Cass. n. 1151 del 2003; Cass. n. 1418 del 2006; Cass. n. 939 de12011; Cass. n. 17051 del 2011 e, più recentemente, in materia di rumorosità da sorvolo aereo: Cass. n. 15233 del 2014) che:
- in materia di immissioni, mentre è illecito il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell'interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli stessi non può fare considerare senz'altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi in concreto alla stregua dei principi di cui all'art. 844 c.c.;
- che alla materia delle immissioni sonore o da vibrazioni o scuotimenti atte a turbare il bene della tranquillità nel godimento degli immobili adibiti ad abitazione non è applicabile la L. 26.10.1995, n. 447, sull'inquinamento acustico, poiché tale normativa, come quella contenuta nei regolamenti locali, persegue interessi pubblicistici disciplinando, in via generale ed assoluta, e nei rapporti c.d. verticali fra privati e la p.a., i livelli di accettabilità delle immissioni sonore al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete;
- che la disciplina delle immissioni moleste in alieno nei rapporti fra privati va sempre rinvenuta nell'art. 844 c.c., sulla cui base, quand'anche dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento del giudice, che tenga conto di tutte le peculiarità della situazione concreta: analogamente è a dire per la normativa secondaria e regolamentare di attuazione la quale, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose, non può per sua natura che perseguire finalità meramente esecutive di carattere pubblicistico, così incidendo sui soli rapporti fra i privati e la p.a.; sicché i limiti tecnici in essa contenuti non escludono l'applicabilità dell'art. 844 c.c., nei rapporti tra i proprietari di fondi vicini.
Va inoltre ribadito che
la valutazione imposta al giudice ex art. 844 c.c., risponde -nel contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà- alla tutela di preminenti diritti di rilievo costituzionale, come quello alla salute ed alla qualità della vita.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 6-ter inserito dalla legge di conversione 27.2.2009, n. 13 nel testo del d.l. 30.12.2008 n. 208, che così recita: Art. 6-ter. - (Normale tollerabilità delle immissioni acustiche). 1. Nell'accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi dell'articolo 844 del codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la prioritari di un determinato uso.
La ricorrente sostiene che con questo articolo, in materia di immissioni ed emissioni acustiche, il legislatore ha superato tutto il dibattito dottrinario e giurisprudenziale e i criteri elaborati dalla giurisprudenza a tutela del privato a fronte delle immissioni, chiarendo definitivamente che i valori limite da rispettare sono semplicemente ed unicamente, senza alcuna differenziazione tra tutela privatistica ed amministrativa, quelli indicati dal D.P.C.M. 19.11.1997. Ritiene che, trattandosi di norma di interpretazione autentica, essa sia immediatamente applicabile al caso di specie.
Il motivo è infondato.
La normativa in questione, diversamente da quanto opinato dalla Corte d'appello (e quindi intervenendo a correggere sul punto la motivazione) potrebbe anche essere ritenuta immediatamente applicabile in quanto, benché costituisca ius superveniens, sembra esprimere un portato di interpretazione autentica, argomentabile dal riferimento alle disposizioni di legge e ai regolamenti vigenti.
Tuttavia, come già osservato da Cass. n. 8474 del 2015, valorizzando anche le affermazioni della Corte costituzionale che si è già espressa sulla conformità della disciplina stessa ai principi costituzionali, alla norma deve necessariamente data una interpretazione costituzionalmente orientata, e non necessariamente derogatoria del principio di accertamento in concreto della normale tollerabilità da parte del giudice, tenuto anche conto del principio generale per cui "
il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente, rispetto alle esigenze della produzione, il soddisfacimento ad una normale qualità della vita" (Cass. n. 5564 dell'08.03.2010).
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 103 del 2011 con la quale ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale su di essa dedotta, ha affermato proprio che dal solo dettato dell'art. 6-ter cit. non può aprioristicamente evincersi una portata derogatoria e limitativa dell'art. 844 c.c., senza prima tentare di sperimentare diverse interpretazioni idonee a preservare la norma stessa dai sollevati profili di denunciata incostituzionalità.
Aggiunge che alla assai generica locuzione "sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso", contenuta nella norma in esame, non debba necessariamente riconoscersi una portata derogatoria rispetto alla disciplina codicistica in tema di immissioni.
Nell'identificare il significato della norma e nel vagliare l'eventuale influenza di tale clausola di salvezza rispetto ai criteri civilistici di accertamento del limite della normale tollerabilità delle immissioni acustiche il giudice delle leggi segnala che
non si possa prescindere dal criterio guida della protezione del diritto alla salute (al quale si aggiunge, come meglio si vedrà in riferimento al motivo n. 5 del presente ricorso, la necessità di tutelare il diritto al rispetto della vita privata e familiare, imposto dall'art. 8 Cedu); sulla base, però, non già del mero rispetto di un limite tabellare assoluto, bensì della concreta incidenza (id est: tollerabilità) delle immissioni nello specifico e mutevole contesto della loro manifestazione, così come imposto dall'ormai consolidata interpretazione, giurisprudenziale dell'art. 844 c.c., disposizione che lo stesso art. 6-ter prevede che continui ad essere applicata.
Pertanto,
anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6-ter, mantiene la sua attualità l'ormai pacifico orientamento di legittimità che differenzia -quanto ad oggetto, finalità e  fera di applicazione- la disciplina contenuta nel codice civile dalla normativa di diritto pubblico.
...
Infine, con il quinto ed ultimo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 2059, 1223 e 1226 c.c. in punto di mancanza di nesso causale tra le immissioni ed il danno lamentato dagli attori e ad essi liquidato, nonché la presenza del vizio motivazionale sotto ogni sua possibile prospettazione in ordine alla risarcibilità del danno esistenziale (domanda formulata in via subordinata rispetto alla domanda principale di risarcimento del danno biologico).
Sostiene che, avendo la corte d'appello escluso in concreto un danno alla salute a carico di tutti gli attori (tranne che nei confronti di Da.Re., nei riguardi della quale ha confermato il riconoscimento di un modesto danno biologico, quantificato in 1500 euro per l'accertamento dell'esistenza di emicranie ricorrenti), non avrebbe dovuto essere liquidato il danno esistenziale.
La sentenza impugnata, laddove ha liquidato una modesta cifra in favore di ciascun attore per un preteso danno esistenziale pur avendo escluso la configurabilità di un pregiudizio alla salute di essi, si porrebbe in contrasto con il recente quanto consolidato orientamento giurisprudenziale, che ha trovato la sua prima ed incisiva espressione nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008, che ha posto un limite alla duplicazione delle voci di danno risarcibile ed alla risarcibilità dei danni bagatellari.
Il motivo è infondato.
E' ben vero che la Corte ha inteso in questi ultimi anni ridisegnare l'area del danno non patrimoniale risarcibile espungendone i pregiudizi inconsistenti che avevano trovato occasionalmente tutela nei giudizi di merito pur non potendo assurgere a lesioni meritevoli di tutela e le duplicazioni ingiustificate delle voci di danno.
Da ciò non si può far discendere però, quale automatica conseguenza, la conclusione per cui il danno non patrimoniale sarebbe risarcibile soltanto qualora ad esso si associ una lesione del diritto alla salute ovvero un vero e proprio danno biologico.

La stessa sentenza n. 26972 del 2008 ha chiarito che
il danno alla qualità dell'esistenza trova tutela soltanto quando esso si verifichi in conseguenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito (escludendo in tal modo i danni bagatellari) con ciò non precludendo però la strada alla possibilità di porre a fondamento della risarcibilità del danno non patrimoniale un diritto fondamentale diverso rispetto al diritto alla salute (e alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, quali l'inviolabilità del domicilio e la tutela della famiglia fa riferimento la sentenza impugnata).
Proprio in tema di risarcibilità del pregiudizio per immissioni che superino la soglia di tollerabilità, questa Corte ha più volte affermato già in passato che
pur quando non risulti integrato un danno biologico, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria casa di abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane sono pregiudizi apprezzabili in termini di danno non patrimoniale (v. Cass. n.7875 del 2009).
Cass. n. 26899 del 2014 ha affermato che
l'accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza (nella specie, le immissioni sonore -costituite da musica ad alto volume e altri schiamazzi "clamorosamente eccedenti la normale tollerabilità" in orario serale e notturno- avevano determinato una lesione, non futile, al diritto al riposo notturno per un periodo di almeno tre anni).
A ciò deve aggiungersi che
il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare è uno dei diritti protetti dalla Convenzione europea dei diritti umani (art. 8). La Corte di Strasburgo ha fatto più volte applicazione di tale principio anche a fondamento della tutela alla vivibilità dell'abitazione e alla qualità della vita all'interno di essa, riconoscendo alle parti assoggettate ad immissioni intollerabili un consistente risarcimento del danno morale, e tanto pur non sussistendo alcuno stato di malattia.
La Corte ha più volte condannato, per violazione dell'art. 8, gli Stati che,
in presenza di livelli di rumore significantemente superiori al livello massimo consentito dalla legge, non avessero adottato misure idonee a garantire una tutela effettiva del diritto al rispetto della vita privata e familiare (sentenza Deés v. Ungheria del 9.11.2010; sentenze Uluic' v. Cronia, n. 61260 del 2008, (§§ da 48 a 66) e Moreno Gómez v. Spagna, n. 4143/02 ( §§ da 57 a 63).
A seguito della c.d. "comunitarizzazione" della Cedu, conseguente all'approvazione del trattato di Lisbona,
il giudice interno che abbia a trattare casi di immissioni non può non conformarsi anche ai criteri elaborati in seno al sistema giuridico della Convenzione. In ragione di tale nuova prospettiva giuridica di riferimento esce rafforzata dal fondamento normativo costituito dall'art. 8 Cedu la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite anche a prescindere dalla sussistenza di un danno biologico documentato.
Il ricorso va pertanto rigettato (
Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 16.10.2015, n. 20927).

LAVORI PUBBLICI: Per l'ipotesi di mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori, gli interessi di cui all'art. 35 del D.P.R. n. 1063 del 1962, competono, secondo la disciplina riassunta a seguire, a decorrere dalla data in cui la contabilizzazione stessa avrebbe dovuto aver luogo non già secondo uno schema astratto, come pretende la ricorrente (che invoca, a tal fine, il criterio della media ponderale), ma in relazione al concreto atteggiarsi dell'appalto stesso, quale risultante dalle attestazioni contenute nei registri di contabilità.
Invero,
il dPR n. 1063 del 1962, al tempo vigente, prevede, al capo III, intitolato "pagamenti all'appaltatore" all'art. 33, comma 1, che, nel corso dell'esecuzione dei lavori, competono all'appaltatore, sulla base dei dati risultanti dai documenti contabili, pagamenti in acconto "nei termini o nelle rate stabilite nel capitolato speciale ed a misura dell'avanzamento dei lavori regolarmente eseguiti".
Il comma 2 del menzionato art. 33 dispone che i certificati di pagamento devono essere emessi "non appena sia scaduto il termine ... o appena raggiunto l'importo prescritto per ciascuna rata, e in ogni caso non oltre 45 giorni dal verificarsi delle circostanze previste nel comma precedente".
Il successivo art. 35 prevede, al comma 1, che, in caso in cui il certificato di pagamento non sia emesso "per mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori o per qualsiasi altro motivo attribuibile all'amministrazione entro i termini di cui al secondo comma del precedente art. 33", l'appaltatore ha diritto agli interessi ivi previsti, ed al comma 2 disciplina gli interessi dovuti per il ritardo nell'emissione del titolo di spesa in riferimento all'emissione del certificato di acconto.

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 1. Col primo motivo, la ricorrente lamenta che l'impugnata sentenza ha ritenuto insussistente il suo diritto agli interessi moratori in violazione degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 4, co. 1, della L n. 741 del 1981; 54, 57 e 58 del RD n. 350 del 1895; 165, 168 e 169 del dPR n. 554 del 1999; 1219 co. 2 n. 3, 1224 e 1227 cc; 270 RD n. 827 del 1924.
La ricorrente afferma che, in base alle disposizioni del Capitolato Generale del 1962, applicabile ratione temporis, nell'ipotesi in cui "il certificato di pagamento ed il mandato di pagamento siano ritardati in conseguenza di mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori rispetto alla data di maturazione della rata, spettano all'appaltatore gli interessi legali e di mora di cui agli artt. 35 e 36 del Capitolato Generale. Detti interessi devono esser computati con riguardo alle date nelle quali il certificato di pagamento e il mandato di pagamento avrebbero dovuto essere emanati avendo riguardo non alla data dell'effettiva contabilizzazione dei lavori da parte del DL, ma alla data in cui questi avrebbe dovuto provvedervi in relazione alla maturazione della rata, a misura dell'avanzamento dei lavori eseguiti, secondo le convenzioni di contratto o di capitolato speciale. Il credito dell'appaltatore agli interessi conseguiti da ritardata contabilizzazione dei lavori .... non è condizionato alla messa in mora della DL da parte dello stesso appaltatore, per la contabilizzazione dei lavori relativi alla rata maturata né all'onere della iscrizione, sempre da parte dell'appaltatore, di riserva nel registro di contabilità".
2. Col secondo motivo, si deduce, sotto altro profilo, la violazione degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 4, co. 1, della L. n. 741 del 1981, nonché degli artt. 1218, 1219, 1277 e 1655 cc, per avere la Corte d'Appello ritenuto che il debito dell'Amministrazione per il ritardo nella liquidazione, contrattualmente obbligatoria, costituisca un debito di valore, in quanto tale, produttivo di interessi moratori a seguito dell'applicazione dei principi generali in tema d'inadempimento.
La ricorrente afferma, per contro, che il debito per il corrispettivo dell'appalto costituisce per sua natura un debito di valuta, e che, ad ogni modo, nel sistema del Capitolato generale il debito è produttivo d'interessi senza necessità di costituzione in mora, né quanto alla contabilizzazione dei lavori, e cioè alla liquidazione, né quanto al pagamento.
3. Con il terzo mezzo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 4, co. 1, della L. n. 741 del 1981; 57 e 58 del RD n. 350 del 1895, oggi 168 e 169 del dPR n. 554 del 1999, 1218 cc, oltre che dei principi generali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni.
La necessità d'indagare sulla sussistenza o meno della responsabilità della Stazione appaltante nel ritardo della contabilizzazione dei lavori, non tiene conto del fatto che nella disciplina di Capitolato, art. 35, tale responsabilità è presunta, de iure, a carico dell'Amministrazione, sicché l'appaltatore, per conseguire gli interessi, non è tenuto a dare la prova che il ritardo sia ad essa imputabile, essendo piuttosto la committente onerata di fornire la prova che l'inadempimento è dipeso da fatto non a lei non imputabile.
4. Col quarto motivo, si deduce la violazione degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 3, 13, 14, 38 e segg. del RD n. 350 del 1895, oggi 123, 124, 128, 152 e segg. del dPR n. 554 del 1999, 1218 cc, per avere la Corte addossato ad essa impresa l'onere, inesistente, di sollecitare la redazione del SAL, attività che costituisce, invece, l'oggetto di preciso dovere del DL, non appena raggiunto l'importo prescritto.
5. Con il quinto mezzo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 4, co. 1, della L. n. 741 del 1981; 57 e 58 del RD n. 350 del 1895, oggi 168 e 169 del dPR n. 554 del 1999, 1 della L n. 463 del 1964, per avere la Corte territoriale ritenuto erroneo il riferimento al criterio medio ponderale operato nella ricostruzione dei tempi d'avanzamento dei lavori, senza considerare che il predetto metodo era proprio quello utilizzato dal Comune committente per il calcolo della revisione prezzi, che avrebbe, perciò, potuto essere applicato in via analogica.
6. Disattesa l'eccezione d'inammissibilità del ricorso, che contiene tutti gli elementi idonei a far comprendere alla Corte i necessari dati di fatto, i motivi, da valutarsi congiuntamente per la loro connessione, sono infondati, anche se va in parte corretta la motivazione.
7.
Il dPR n. 1063 del 1962 di cui nessuna delle parti ha contestato l'applicabilità ai vari contratti d'appalto cui si riferiscono gli interessi richiesti ed era, al tempo, vigente, prevede, al capo III, intitolato "pagamenti all'appaltatore" all'art. 33, comma 1, che, nel corso dell'esecuzione dei lavori, competono all'appaltatore, sulla base dei dati risultanti dai documenti contabili, pagamenti in acconto "nei termini o nelle rate stabilite nel capitolato speciale ed a misura dell'avanzamento dei lavori regolarmente eseguiti".
Il comma 2 del menzionato art. 33 dispone che i certificati di pagamento devono essere emessi "non appena sia scaduto il termine ... o appena raggiunto l'importo prescritto per ciascuna rata, e in ogni caso non oltre 45 giorni dal verificarsi delle circostanze previste nel comma precedente".
Il successivo art. 35 prevede, al comma 1, che, in caso in cui il certificato di pagamento non sia emesso "per mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori o per qualsiasi altro motivo attribuibile all'amministrazione entro i termini di cui al secondo comma del precedente art. 33", l'appaltatore ha diritto agli interessi ivi previsti, ed al comma 2 disciplina gli interessi dovuti per il ritardo nell'emissione del titolo di spesa in riferimento all'emissione del certificato di acconto.

8. Il pagamento in conto, finalizzato ad evitare lunghe anticipazioni finanziarie a carico dell'appaltatore non è, dunque, connesso al semplice trascorrere del tempo stabilito nelle condizioni contrattuali ma è, piuttosto, volto, in parziale correttivo del principio della postnumerazione del corrispettivo dell'appalto, a ricompensare l'esecuzione della pattuita entità di prestazione dell'appaltatore, quale certificata dal DL in seno allo stato d'avanzamento lavori.
9. Da tanto, consegue che
la mancata contabilizzazione dei lavori non può tout court addebitarsi alla stazione appaltante, ma intanto rileva come inadempimento della stessa, e, dunque, ai fini della spettanza degli interessi moratori ex art. 35 del Capitolato OOPP, in quanto il SAL non sia stato effettuato per inerzia o per altra ragione addebitabile al DL -la cui attività è a quella imputabile- pur sussistendone i presupposti, id est che l'appaltatore abbia, in concreto, esattamente adempiuto la pattuita parte della prestazione, in riferimento alla quale il pagamento dell'acconto costituisce, appunto, la controprestazione.
Ne consegue, ancora, che l
a mancata redazione del SAL esula, di per sé, dal disposto di cui all'art. 35 del dPR n. 1063 del 1962, che, con disposizione di stretta interpretazione (cfr. in tema di anticipazione, Cass. n. 11297 del 2010), disciplina il diritto agli speciali interessi moratori per il, diverso, caso del ritardo nel pagamento di ciascuna rata di acconto (contemplando separatamente l'ipotesi del ritardo nella emissione del certificato di pagamento della rata di acconto e quella del ritardo nella emissione del titolo di spesa).
10. Resta da aggiungere che
tale conclusione non limita in alcun modo il diritto dell'appaltatore al conseguimento degli interessi moratori -in costanza, beninteso, del menzionato presupposto- potendo egli far constare la colpevole omissione del DL nella contabilizzazione dei lavori mediante l'iscrizione di apposita riserva nel registro di contabilità, istituto che, ai sensi dell'art. 54 del R.D. n. 350 del 1895, risponde, proprio, all'esigenza di assicurare la tempestiva e costante evidenza di tutti i fattori incidenti sull'andamento dell'appalto e sui suoi costi, così da consentire all'Amministrazione di procedere senza ritardo alle verifiche necessarie per accertare la fondatezza delle pretese dell'appaltatore (in tesi, l'effettiva -e regolare- esecuzione della dovuta misura dei lavori) e, al tempo stesso, da assicurare la continua evidenza della spesa complessiva (cfr. Cass., Sez. I, 03.03.2006, n. 4702; 21.07.2004, n. 13500; 01.12.1999, n. 13399).
11. Deve in conclusione affermarsi che,
per l'ipotesi di mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori, gli interessi di cui all'art. 35 del D.P.R. n. 1063 del 1962, competono, secondo la disciplina riassunta al punto 7., a decorrere dalla data in cui la contabilizzazione stessa avrebbe dovuto aver luogo non già secondo uno schema astratto, come pretende la ricorrente (che invoca, a tal fine, il criterio della media ponderale), ma in relazione al concreto atteggiarsi dell'appalto stesso, quale risultante dalle attestazioni contenute nei registri di contabilità (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 15.10.2015 n. 20873).

EDILIZIA PRIVATALa collocazione su un'area di una «casa mobile» con stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso di costruire, configura il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, rilevando esclusivamente, ai fini dell'esclusione contenuta nell'ultima parte dell'art. 3, comma 1, lett. e5), del d.P.R. 380/2001, la contestuale sussistenza dei requisiti indicati e, segnatamente, la collocazione all'interno di una struttura ricettiva all'aperto, il temporaneo ancoraggio al suolo, l'autorizzazione alla conduzione dell'esercizio da effettuarsi in conformità della normativa regionale di settore e la destinazione alla sosta ed al soggiorno, necessariamente occasionali e limitati nel tempo, di turisti.
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1. Il ricorso è infondato.
Va rilevato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che dei rapporti tra la disciplina regionale della Sicilia e la normativa statale contenuta nel d.P.R. 380/2001 si è ripetutamente occupata la giurisprudenza di questa Corte.
Si è così avuto modo di chiarire che,
in ogni caso, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali fissati dalla legislazione nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi (Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 2017 del 25/10/2007 (dep. 2008), Giangrasso, Rv. 238555; Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, P.M. in proc. Moltisanti, Rv. 234935. Conf., ma con riferimento ad altre disposizioni normative della Regione siciliana, Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 4861 del 09/12/2004 (dep. 2005), Garufí, Rv. 230914; Sez. 3, n. 6814 del 11/01/2002, Castiglia V, Rv. 221427).
Le richiamate pronunce riguardano, nello specifico, proprio la concreta applicazione dell'art. 44 d.P.R. 380/2001 e sono ritenute pienamente condivisibili dal Collegio, che intende pertanto ribadire la sussistenza dei rilevati limiti alla potestà legislativa regionale.
2. Fatta tale premessa, occorre osservare che l'articolo 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 individuava, nella sua originaria formulazione, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, gli interventi di nuova costruzione, la cui descrizione è fornita dall'articolo 3 dello stesso T.U., ove viene tra l'altro specificato che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione, tra l'altro, anche «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee».
Con l'art. 41, comma 4, del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98, al testo suddetto è stata aggiunta la frase «ancorché siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti».
Successivamente, con l'art. 10-ter, comma 1 del d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito con modificazioni dalla L. 23.05.2014, n. 80, la parola «ancorché» è stata sostituita con le parole «e salvo che». Infine, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 189 del 24.07.2015, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del già citato art. 41, comma 4, d.l. 21.06.2013, n. 69.
La Corte ha infatti rilevato che
la norma individua «(...) specifiche tipologie di interventi edilizi, realizzati nell'ambito delle strutture turistico-ricettive all'aperto, molto peculiari, che peraltro contraddicono i criteri generali (della trasformazione permanente del territorio e della precarietà strutturale e funzionale degli interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale, ai fini dell'identificazione della necessità o meno del titolo abilitativo. In tal modo, la norma impugnata sottrae al legislatore regionale ogni spazio di intervento, determinando la compressione della sua competenza concorrente in materia di governo del territorio, nonché la lesione della competenza residuale del medesimo in materia di turismo, strettamente connessa, nel caso di specie, alla prima».
3. L'art. 3, comma 1, lett. e5), del d.P.R. 380/2001 si riferisce dunque, attualmente, alla «installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti».
L'esplicita menzione di detta tipologia di interventi nel Testo Unico ha, di fatto,
codificato la figura giuridica di «costruzione» elaborata dalla giurisprudenza prima dell'entrata in vigore del T.U. e nella quale rientravano tutti quei manufatti che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, modificavano lo stato dei luoghi in quanto, difettando obiettivamente del carattere di assoluta precarietà, erano destinati almeno potenzialmente a perdurare nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a riguardo la distinzione tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo tecnico con cui fosse assicurata la stabilità del manufatto al suolo (o al muro perimetrale di quello esistente), in quanto la stabilità non va confusa con l'irrevocabilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell'oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare un bisogno non temporaneo (così Sez. 3, n. 9138 del 7/7/2000, P.M. in proc. Migliorini T ed altro, Rv. 217217 ed altre prec. conf.).
Si è successivamente avuto modo di precisare che, ai fini della individuazione della nozione di costruzione urbanistica, non è determinante l'incorporazione nel suolo indispensabile per identificare, a norma dell'art. 812 c.c., il bene immobile, essendo sufficiente la destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la conseguenza che l'elencazione contenuta nel menzionato articolo 3, lettera e), non può considerarsi esaustiva, giacché i parametri indicati possono essere analogicamente applicati ad opere simili (Sez. 3, n. 37766 del 7/7/2005, Terrin, non massimata).
In seguito,
si è ritenuto configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva in ogni ipotesi di installazione su un terreno, senza permesso di costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze abitative (Sez. 3, n. 25015 del 23/03/2011, Di Rocco, Rv. 250601. V. anche Sez. 3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, Rv. 257734; Sez. 3, n. 37572 del 14/05/2013, RM. in proc. Doppiu e altro, Rv. 256511. Sulla nozione di installazione v. Sez. 3, n. 7047 del 04/12/2014 (dep. 2015), Gaiotto, non massimata sul punto).
4. I richiamati principi, formulati prima degli interventi modificativi di cui si è dato conto in precedenza, devono ritenersi ancora attuali, atteso che l'evidente eccezione introdotta, riferita alle sole «strutture ricettive all'aperto», trova la sua ragion d'essere, come si ricava anche dalla menzionata sentenza della Corte costituzionale (e da quella, in essa richiamata, n. 278/2010), nel fatto che la collocazione dei manufatti indicati al loro interno, in ragione della destinazione, non determina una permanente trasformazione del territorio tale da richiedere il permesso di costruire.
5. Pare tuttavia opportuno precisare che
le modifiche apportate alla disposizione in esame non ne hanno in alcun modo ampliato l'ambito di operatività, limitandosi a fornire un contributo esplicativo perfettamente coerente con i principi generali fissati dalla disciplina urbanistica e, sostanzialmente, fondato sul fatto che interventi del tipo di quelli descritti non comportano una stabile trasformazione rilevante sotto il profilo urbanistico.
È dunque in quest'ottica che la disposizione deve essere interpretata, avendo specifico riguardo alla precarietà oggettiva e funzionale dell'intervento, cui fa riferimento anche la Corte Costituzionale nella sentenza 278/2010.
Andrà quindi tenuto conto del fatto che la disposizione in esame richiede alcuni specifici requisiti:
- il temporaneo ancoraggio la suolo, cosicché ogni collocazione di tali manufatti che abbia natura permanente, desumibile non soltanto dal dato temporale ma anche da ogni altro elemento significativo, quale, ad esempio, la presenza di parti accessorie fisse o di stabili allacciamenti alle reti elettriche, idrica o fognaria;
- i manufatti devono trovarsi all'interno di strutture ricettive all'aperto e l'uso della specifica locuzione induce a ritenere che il riferimento riguardi esclusivamente quelle individuate dall'art. 13 del d.lgs. 23.05.2011, n. 79 (c.d. Codice del turismo) e, segnatamente, i villaggi turistici i campeggi, i campeggi nell'ambito delle attività agrituristiche ed i parchi di vacanza;
- tali strutture dovranno essere debitamente autorizzate e condotte in conformità alla normativa regionale di settore;
- la destinazione dei manufatti è quella della sosta ed il soggiorno di turisti.
A tale ultimo proposito deve osservarsi che, anche in altra occasione (Sez. 3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, Rv. 257734) si è affermato, con riferimento ai campeggi, che il riferimento alla «sosta» ed al «soggiorno», i quali presuppongono una permanenza temporanea, porta ad escludere ogni forma di stabile residenza, così come il riferimento alla figura del «turista», il quale è individuabile, secondo il significato della parola stessa, come un soggetto che viaggia e soggiorna in località diverse dalla sua residenza abituale per un periodo di tempo limitato per piacere, affari o altri scopi, ricordando come tale definizione coincida sostanzialmente con quella data dalla Organizzazione Mondiale del Turismo, agenzia delle Nazioni Unite (WTO, Ottawa Conference on Travel and Tourism Statistics, 1991).
Rileva dunque, in particolare, la natura meramente occasionale e, comunque, limitata nel tempo, del soggiorno.
Pare superfluo rilevare, poi, che la formulazione della disposizione è inequivoca nel richiedere la compresenza di tutte le condizioni in precedenza indicate.
6. Va conseguentemente affermato il principio secondo il quale
la collocazione su un'area di una «casa mobile» con stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso di costruire, configura il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, rilevando esclusivamente, ai fini dell'esclusione contenuta nell'ultima parte dell'art. 3, comma 1, lett. e5), del d.P.R. 380/2001, la contestuale sussistenza dei requisiti indicati e, segnatamente, la collocazione all'interno di una struttura ricettiva all'aperto, il temporaneo ancoraggio al suolo, l'autorizzazione alla conduzione dell'esercizio da effettuarsi in conformità della normativa regionale di settore e la destinazione alla sosta ed al soggiorno, necessariamente occasionali e limitati nel tempo, di turisti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.10.2015 n. 41067).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico opere consistenti in sbancamento del terreno, realizzazione di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso», di un riporto di terra e materiali di risulta e di muro di contenimento in pietra abbisognano del permesso di costruire, trattandosi di opere che, considerate nel loro complesso, obiettivamente comportano una trasformazione del territorio, quanto meno per ciò che riguarda quelle non accessorie, quali i singoli edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, è necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
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La giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale subordinata alla demolizione, che appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare
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Analoghi principi sono stati affermati con riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi, in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze dannose o pericolose e che la sanzione specifica della rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso.
Si è ulteriormente specificato che la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato.
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I principi appena richiamati, tuttavia, riguardano il proprietario o comunque colui che materialmente dispone delle opere e che, pertanto, può provvedere all'adempimento della condizione apposta alla concessione del beneficio, mentre per altri soggetti coinvolti, quali il direttore dei lavori o gli esecutori materiali, la possibilità di adempiere sarebbe necessariamente subordinata alla volontà del proprietario.

Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha infatti chiarito come
il giudice, nel disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione.

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RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 21/11/2014 ha confermato la decisione con la quale, in data 27/11/2012, il Tribunale di Grosseto - Sezione Distaccata di Orbetello aveva affermato la responsabilità penale di Em.FA. e Do.TU. in ordine ai reati di cui agli artt. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, perché, quali esecutori materiali, realizzavano (unitamente al proprietario del terreno), in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed in assenza del permesso di costruire e dell'autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del vincolo, opere consistenti in sbancamento del terreno, realizzazione di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso», di un riporto di terra e materiali di risulta e di muro di contenimento in pietra (Monte Argentario 11/10/2010).
Avverso tale pronuncia i predetti propongono congiuntamente ricorso per cassazione tramite il loro difensore di fiducia.
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CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è solo in parte fondato.
Va rilevato, con riferimento al primo ed al secondo motivo dì ricorso, che la sentenza impugnata è immune da censure per ciò che riguarda la natura delle opere, la necessità dei titoli abilitativi, che si è accertato non essere stati richiesti e la datazione degli interventi.
La mera descrizione degli interventi contenuta nel capo di imputazione ne evidenzia la assoggettabilità al permesso di costruire, trattandosi di opere che, considerate nel loro complesso, obiettivamente comportano una trasformazione del territorio, quanto meno per ciò che riguarda quelle non accessorie, quali i singoli edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, era necessaria l'autorizzazione paesaggistica.

Per ciò che concerne la loro datazione, la Corte del merito ha rilevato che, all'atto dell'accertamento, le opere erano in corso di esecuzione e che i due manufatti in muratura non risultano preesistenti non essendo neppure censiti in catasto, osservando anche che tale tesi difensiva era stata prospettata solo nel giudizio di appello e non anche nel corso del giudizio abbreviato.
A fronte di tali affermazioni, che non presentano cedimenti logici o manifeste contraddizioni, i ricorrenti oppongono generiche censure prive di ogni correlazione con la decisione, cosicché i motivi di ricorso devono ritenersi inammissibili per difetto di specificità.
2. A conclusioni diverse deve pervenirsi per ciò che concerne il terzo motivo di ricorso.
Il Tribunale ha infatti subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena, nei confronti di tutti gli imputati, alla riduzione in pristino dei luoghi entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, disponendo la restituzione delle opere in sequestro agli aventi diritto al fine di consentire lo spontaneo adempimento a quanto disposto.
La Corte territoriale ha confermato la statuizione sul punto, respingendo le censure degli appellanti, rilevando che la destinazione ad abitazione dei manufatti non assumeva rilievo ai fini della riduzione in pristino, osservando anche come il proprietario, sebbene destinatario di un ordine di demolizione emesso dal Comune di Porto Santo Stefano (n. 57/2010), non vi avesse comunque adempiuto e che tale evenienza rafforzava l'esigenza di subordinare la concessione del beneficio della sospensione condizionale alla rimessione in pristino.
3. Ciò posto, occorre preliminarmente ricordare che
la giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale subordinata alla demolizione, che appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep .2014), Russo, Rv. 258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Farina Rv. 255466; Sez. 3, n. 38071 del 19/9/2007, Terminiello, Rv. 237825; Sez. 3, n. 18304 del 17/01/2003, Guido, Rv. 22471; Sez. 3, n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 2000), Pagano, Rv. 216444).
Analoghi principi sono stati affermati con riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi, in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze dannose o pericolose e che la sanzione specifica della rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso (Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca, Rv. 261164; Sez. 3, n. 38739 del 28/05/2004, Brignone, Rv. 229612; Sez. 3, n. 29667 del 14/06/2002, Arrostuto S, Rv. 222115; Sez. 3, n. 23766 del 23/03/2001, Capraro A, Rv. 219930).
Si è ulteriormente specificato che la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato (cfr. Sez. 3, n. 4444 del 12/01/2012, Seoni, Rv. 251972. V. anche Sez. 3, n. 26149 del 9/6/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito e altro, Rv. 226321).
4.
I principi appena richiamati, tuttavia, riguardano il proprietario o comunque colui che materialmente dispone delle opere e che, pertanto, può provvedere all'adempimento della condizione apposta alla concessione del beneficio, mentre per altri soggetti coinvolti, quali il direttore dei lavori o gli esecutori materiali, la possibilità di adempiere sarebbe necessariamente subordinata alla volontà del proprietario.
Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha infatti chiarito come
il giudice, nel disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione (Sez. 3, n. 17991 del 21/01/2014, Ciccone e altri, Rv. 261497).
A tale principio, pienamente condiviso dal Collegio, deve essere dunque data continuità, rilevando come, nel caso in esame, la subordinazione della condizionale alla rimessione in pristino sia stata erroneamente disposta nei confronti dei ricorrenti.
Invero sebbene la decisione del giudice del merito risulti corretta per ciò che concerne il proprietario del terreno -il quale potrà comunque provvedervi, per quanto si è detto in precedenza, anche a seguito dell'acquisizione ope legis della proprietà dell'abuso e dell'area di sedime all'amministrazione comunale in conseguenza dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione (cfr. ex pl. Sez. 3, n. 22237 del 22/4/2010, Gotti, Rv. 247653)- ma non anche per soggetti diversi che, come nel caso di ricorrenti, meri esecutori materiali, non dispongono liberamente dell'area e dei manufatti abusivi (Corte di Cassazione, Sez. III, penale, sentenza 13.10.2015 n. 41051).

APPALTI: Appalti con limite al ribasso del costo del personale. Consiglio di Stato. Rischio di alterazione del sistema.
Anche se conveniente per la pubblica amministrazione, è «un’evidente anomalia del sistema» l’offerta con costi del personale più bassi di quelli stabiliti dal ministero del Lavoro se calcolati su contratti collettivi nazionali firmati da sindacati non «comparativamente più rappresentativi» a differenza di quanto richiesto dal codice appalti (Dlgs 163/2006).
L’ha chiarito il Consiglio di Stato -III Sez.,
sentenza 13.10.2015 n. 4699- accogliendo il ricorso di una multiservizi contro l’affidamento della gestione del front office (prenotazioni, accettazioni, cassa) disposto da un’azienda ospedaliera a una concorrente con l’offerta economicamente più vantaggiosa (articolo 83 del codice) e contro il giudizio di non anomalia sul ribasso (quasi il 30% su base d’asta di 14 milioni). Affidamento che ha superato il giudizio del Tar di Brescia (sentenza 1470/2014).
Per la ricorrente -e sul principio anche per la Cgil- l’aggiudicataria andava esclusa per aver offerto un costo orario più basso di oltre il 15% rispetto alle tabelle ministeriali di settore, poiché calcolato sui valori del Ccnl terziario e servizi siglato nel 2012 dal Cnai (Coordinamento nazionale associazione imprenditori), con un livello di rappresentatività «scarsissimo» e tale da rendere l’offerta non «congrua» secondo i criteri di individuazione delle offerte anormalmente basse del codice (comma 3-bis, articolo 86).
Per il ministero, «le organizzazioni sindacali sottoscrittrici del contratto Cnai non sono ascrivibili tra quelle comparativamente più rappresentative» e il contratto ha valori medi (costo orario e ore annue lavorate) più bassi di quasi il 7% rispetto a quelli sui servizi integrati –incluso il Ccnl 2011 tra Confindustria, Cgil, Cisl, Uil, Confapi e altri– considerati dall’ultima tabella (Dm 10.06.2013).
Palazzo Spada, ribadita la derogabilità dei paletti ministeriali senza «scostamenti eccessivi» e nel rispetto dei salari dei Ccnl (Consiglio di Stato 1743/2015), ha affermato che «una determinazione complessiva dei costi basata su un costo del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore può costituire…indice di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da erogare».
Secondo la sentenza «se si ammettono senza riserve offerte che sono formulate facendo applicazione di costi del lavoro molto più contenuti, oggetto di contratti collettivi di lavoro sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi, si determinano pratiche di dumping sociale perché solo alcune imprese possono beneficiare di disposizioni che giustificano un costo del lavoro inferiore», mentre le altre «per essere competitive e non essere estromesse dal mercato, soprattutto in gare cd. labour intensive nelle quali è decisivo il costo del lavoro, sarebbero costrette poi ad utilizzare quegli stessi contratti collettivi che…offrono trattamenti retributivi inferiori, con una evidente alterazione del sistema»
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: L'arsenico oltre misura fa fuori le rocce da scavo.
La presenza di arsenico in misura superiore ai limiti consentiti esclude il riutilizzo come sottoprodotti delle rocce e terre da scavo. L'esclusione dall'applicazione della disciplina sui rifiuti per le terre e rocce da scavo è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile.
Mentre compete al pubblico ministero fornire la prova della circostanza d'esclusione della deroga, ovvero dell'esistenza di una concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti.

Questo è quanto si legge nella sentenza 07.10.2015 n. 40252 emessa dalla III Sez. penale della Corte di Cassazione.
Come già ampiamente spiegato dai giudici della fase di merito, all'epoca del fatto il riutilizzo, quali sottoprodotti, delle terre e rocce da scavo doveva avvenire esclusivamente in base alle condizioni e secondo le procedure descritte dal dlgs. n. 152 del 2006, articolo 186, in assenza delle quali esse erano (e ancor oggi sono, ancorché in base a diversa disciplina) senz'altro sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti.
Fermo restando che la presenza di arsenico in misura superiore ai limiti consentiti esclude il riutilizzo come sottoprodotti delle rocce e terre da scavo va in ogni caso ribadito che, secondo quanto costantemente insegnato da questa Corte suprema, l'esclusione dall'applicazione della disciplina sui rifiuti per le terre e rocce da scavo è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile, mentre compete al pubblico ministero fornire la prova della circostanza d'esclusione della deroga, ovvero dell'esistenza di una concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti.
Non è perciò sufficiente la generica deduzione difensiva della destinazione delle rocce alla realizzazione di un'opera privata (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).

INCARICHI PROFESSIONALIEsclusioni da motivare. Nella parcella la maggiorazione è blindata. AVVOCATI/ Corte di cassazione sulla liquidazione dei compensi.
In tema di liquidazione dei compensi agli avvocati, una eventuale esclusione della maggiorazione dovrà essere motivata pertinentemente.

Lo hanno affermato i giudici della I Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 07.10.2015 n. 20113.
Nella medesima sentenza i giudici di piazza Cavour hanno, altresì, ribadito come l'art. 5 dm 08.04.2004, n. 123 dispone, al quarto comma, che «Qualora in una causa l'avvocato assista e difenda più persone aventi la stessa posizione processuale l'onorario unico può essere aumentato per ogni parte oltre la prima del 20% fino a un massimo di 10 e, ove le parti siano in numero superiore, del 5% per ciascuna parte oltre le prime 10 e fino a un massimo di 20. La stessa disposizione trova applicazione, ove più cause vengano riunite, dal momento dell'avvenuta riunione e nel caso in cui l'avvocato assista e difenda una parte contro più parti quando la prestazione comporti l'esame di particolari situazioni di fatto o di diritto».
E pertanto, a parere dei supremi giudici, da tale assunto consegue il principio per il quale, nell'ipotesi di più cause, successivamente riunite, deve essere liquidato un distinto onorario per ciascuna di esse, con riguardo alle attività compiute prima della riunione
È stato, inoltre, sottolineato che la disposizione dell'art. 5, comma 4, della tariffa professionale approvata con dm 08.04.2004, n. 123, che consente al giudice, nell'ipotesi di assistenza e difesa di una parte avverso più controparti di liquidare un compenso unico maggiorato per ciascuna parte del 20% e sempre che la prestazione comporti l'esame di particolari situazioni di fatto o di diritto va a contemplare semplicemente una facoltà rientrante nel potere discrezionale del giudice, il cui mancato esercizio non è denunciabile in sede di legittimità, se motivato.
Il caso sul quale gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi aveva ad oggetto un provvedimento di rigetto del reclamo proposto, ex art. 26 l. fall., avverso il decreto con cui il giudice delegato al fallimento aveva liquidato il compenso a un avvocato che aveva assistito la curatela nel procedimento di sequestro ex art. 146 l. fall., nonché nella fase di conferma del medesimo sequestro.
Ma il legale, in sede di reclamo, si doleva del fatto che il magistrato non avesse tenuto conto delle maggiorazioni di cui all'art. 5, comma 4, della tariffa forense pro tempore vigente (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

APPALTI SERVIZIGestione gas naturale, niente diritti soggettivi. Tar Lombardia.
Nessuna posizione giuridica di diritto soggettivo è stata ritagliata dal legislatore a favore del gestore di gas naturale uscente dalla fornitura alla p.a., semmai, costui è obbligato a proseguire la gestione fino alla data di decorrenza del nuovo affidamento, nell'interesse della comunità locale, impersonato dall'ente territoriale.

Lo hanno affermato i giudici della IV Sez. del TAR Lombardia-Milano con la sentenza 06.10.2015 n. 2105.
Per una maggiore chiarezza espositiva, si riporta anche quanto previsto al riguardo dall'art. 14 del decreto legislativo n. 164/2000, che ha dato attuazione alla direttiva 98/30/Ce, recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale. Dopo l'affermazione iniziale, al primo comma, per cui: «L'attività di distribuzione di gas naturale è attività di servizio pubblico. Il servizio è affidato esclusivamente mediante gara per periodi non superiori a 12 anni», la norma prosegue, al comma settimo, stabilendo che: «Gli enti locali avviano la procedura di gara non oltre un anno prima della scadenza dell'affidamento, in modo da evitare soluzioni di continuità nella gestione del servizio. Il gestore uscente resta comunque obbligato a proseguire la gestione del servizio, limitatamente all'ordinaria amministrazione, fino alla data di decorrenza del nuovo affidamento. Ove l'ente locale non provveda entro il termine indicato, la regione, anche attraverso la nomina di un commissario ad acta, avvia la procedura di gara».
A parere dei giudici amministrativi milanesi l'unica posizione giuridica attiva ipotizzabile sarà quella che si correla all'obbligo del gestore uscente e che va ascritta a favore dell'ente locale, soggetto al contempo onerato di attivare la procedura di gara, nei termini prescritti ex lege, in modo da evitare una soluzione di continuità nella gestione del servizio (si veda anche Tar Abruzzo, I, sent. 12/09/2012 n. 577, per cui: «(al contrario di quanto sostenuto dalla società di vendita di gas) che non trattasi di un diritto soggettivo a ottenere tale proroga da parte del concessionario uscente, bensì di un obbligo in capo a quest'ultimo di assicurare il servizio in via transitoria, se e nei limiti in cui l'ente pubblico ritenga di non ricorrere ad altre formule organizzatorie consentite dall'ordinamento, (formule che devono intendersi non precluse dall'art. 14, comma 7 u.p., secondo cui «il gestore uscente resta comunque obbligato a proseguire la gestione del servizio, limitatamente all'ordinaria amministrazione, fino alla data di decorrenza del nuovo affidamento»); va peraltro precisato che tale previsione –individuando proprio in quell'obbligo la soluzione tendenziale e normalizzata, per assicurare medio tempore la continuità del servizio, finisce nel contempo per conferire allo stesso soggetto obbligato un qualificato interesse legittimo alla proroga in questione, oltre che– in relazione al caso di specie, anche un qualificato interesse processuale alla stessa proposizione del gravame)» (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: L'infisso non è una veduta. Sentenza cds.
Via libera alla sopraelevazione al di sotto della distanza minima se il vicino ha lucernari sul tetto: gli infissi tipo velux, infatti, non possono essere considerati vere e proprie vedute, perché non consentono di affacciarsi, ma servono solo a far entrare in casa l'aria e i raggi del sole.
Insomma: costituiscono una mera luce e non fanno scattare il divieto di costruzione di cui all'articolo 9 del dm 1444/1968 che vale solo per le vere e proprie «pareti finestrate».

È quanto emerge dalla sentenza 05.10.2015 n. 4628, pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di stato.
Prospectio e Inspectio
Niente da fare per i vicini di una casa di riposo. Le suore possono ristrutturare l'immobile grazie alla concessione edilizia ottenuta dal comune. E ciò benché il tetto dei confinanti sia praticamente trasparente perché caratterizzato da ben sette finestre modello velux, che servono a illuminare i locali dal primo piano.
Il punto è che il divieto di costruire sotto la distanza minima vale solo in presenza di vere e proprie vedute, che in base all'articolo 900 cc sono soltanto quella che consentono di affacciarsi sul fondo del vicino e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (prospectio e inspectio).
Inutile per i titolari dell'immobile invocare le norme tecniche di attuazione del piano regolatore del Comune: nel nostro caso la sopraelevazione riguarda un fabbricato costruito in aderenza all'edificio degli appellanti ed è situata sul confine con il fondo. Spese di giudizio compensate per la peculiarità della controversia (articolo ItaliaOggi del 29.10.2015).
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MASSIMA
 1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti deducono l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che “l’invocato articolo 9 del D.M. n. 1444/1968 vincola le amministrazioni locali solo in sede di predisposizione della normativa urbanistica e comunque lo stesso non potrebbe trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è precluso di disporre convenzionalmente una distanza inferiore rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M. 02/04/1968 o dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto riguardo alla ratio della norma in questione, la stessa dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui la parete antistante sia in realtà un tetto dotato di aperture lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968,
non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi,
la stessa fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci (cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092; 30.04.2012 n. 6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013; 12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo piano.
Sennonché
i velux in questione non possono di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al riguardo, come già sopra segnalato, che
l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12 del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto irrilevanti ai fini odiernamente considerati.

EDILIZIA PRIVATAQuando vi è l’alterazione dello stato dei luoghi di una strada (pubblica o privata) adibita al pubblico transito, il Comune deve senza alcuna esitazione emanare il provvedimento di autotutela iuris pubblici, e conseguentemente darvi esecuzione.
La necessità che sia senza indugio ripristinato il pubblico transito non tollera alcuna perdita di tempo e nella specie ha giustificato la circostanza che il provvedimento comunale, adottato il 12.08.2004 (a seguito di accertamenti della polizia municipale e della relazione resa il 12.08.2004 dall'ufficio tecnico comunale), abbia ordinato di ripristinare la situazione quo ante, in assenza della comunicazione di avvio del procedimento: l'amministrazione deve senza indugio porre fine ad una situazione che pregiudica l’interesse pubblico, con un atto avente natura vincolata (il che rileva anche al fine della applicazione dell'art. 21-octies, comma II, della legge n. 241/1990).
Quanto al fondamento normativo del provvedimento comunale, osserva la Sezione che per la risalente e pacifica giurisprudenza non importa che il provvedimento amministrativo menzioni la specifica disposizione di legge sulla quale esso si basi: tale principio a maggior ragione va ribadito quando si tratti di un atto da emanare senza indugio per il carattere urgente, e che risulti espressione di un potere desumibile da un principio generale del diritto pubblico, del quale hanno un carattere ricognitivo le disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446.
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La sussistenza di un diritto pubblico di transito su di una via è provata quanto meno dalla circostanza che la manutenzione della strada è da tempo effettuata dal Comune e che nella strada si trova interrata la condotta dell'acquedotto comunale.
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E' principio consolidato che va ricondotta alla nozione di strada vicinale di uso pubblico la via che:
a) consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all'accesso;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è (eventualmente) connotata da un uso pubblico protratto da tempo;
d) è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico.
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Anche le proteste pervenute in Comune, subito dopo l'apposizione delle catene e la chiusura del passaggio, possono ritenersi, infine, ulteriori elementi presuntivi, aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza rilevanti ai sensi dell'art. 2729 c.c., della effettiva sussistenza della servitù di uso pubblico della strada: anche la prossimità temporale delle proteste rispetto all'apposizione delle catene rende non plausibile l'affermazione dell’appellante secondo cui il passaggio pubblico -nella via de qua- non sarebbe stato mai consentito.
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L'appello è infondato e va respinto.
2.- Con il primo motivo di censura, l'appellante lamenta la violazione di legge in relazione agli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990.
L'appellante sostiene che, solo in presenza di un'accertata situazione di urgenza, l'amministrazione può omettere la comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 della legge n. 241/1990, mentre i giudici di prime cure hanno ritenuto che tale comunicazione non fosse necessaria in ragione delle esigenze di particolare celerità volte a ripristinare il pubblico transito su una strada vicinale.
2b.- Al riguardo, sulla base della documentazione prodotta dall'amministrazione comunale, deve osservarsi che via Tarì, pur non essendo una strada principale, non è utilizzata dai soli proprietari dei fondi limitrofi ad essa e ciò è confermato dallo stesso appellante, quando evidenzia che l'ostacolo al transito è stato apposto in un mese (agosto) in cui la circolazione veicolare è molto ridotta.
Proprio tale considerazione, infatti, è probante del fatto che la circolazione di veicoli su tale strada sussiste, anche se con diversa incidenza temporale nei vari periodi dell’anno.
Il genere di abuso attuato, in quanto impeditivo della circolazione nel tratto di strada, non può che giustificare la necessità, avvertita dal Comune, di rimuovere con urgenza gli ostacoli apposti dal privato.
Infatti, quando vi è l’alterazione dello stato dei luoghi di una strada (pubblica o privata) adibita al pubblico transito, il Comune deve senza alcuna esitazione emanare il provvedimento di autotutela iuris pubblici, e conseguentemente darvi esecuzione.
La necessità che sia senza indugio ripristinato il pubblico transito non tollera alcuna perdita di tempo e nella specie ha giustificato la circostanza che il provvedimento comunale, adottato il 12.08.2004 (a seguito di accertamenti della polizia municipale e della relazione resa il 12.08.2004 dall'ufficio tecnico comunale), abbia ordinato di ripristinare la situazione quo ante, in assenza della comunicazione di avvio del procedimento: l'amministrazione deve senza indugio porre fine ad una situazione che pregiudica l’interesse pubblico, con un atto avente natura vincolata (il che rileva anche al fine della applicazione dell'art. 21-octies, comma II, della legge n. 241/1990).
3.- Con il secondo motivo di censura l'appellante lamenta la violazione degli articoli 1 e 14 del D.lgs.l.gt. n. 1446/1918.
L'appellante sostiene che il TAR avrebbe errato nel ritenere via Tarì una strada privata ad uso pubblico, in quanto sarebbero assenti i presupposti elaborati dalla giurisprudenza per poter ritenere tale tratto stradale come «strada vicinale».
Il sig. Te. assume, in particolare, che mancherebbe la «consapevolezza» della collettività che la strada sia soggetta a pubblico transito e non sarebbe presente il requisito dell'idoneità a soddisfare esigenze di interesse generale e l'uso "immemorabile della strada".
3b.- Tale censura non è condivisibile.
Come evidenziato dal TAR, infatti, la sussistenza di un diritto pubblico di transito su via Tarì è provata quanto meno dalla circostanza che la manutenzione della strada è da tempo effettuata dal Comune e che nella strada si trova interrata la condotta dell'acquedotto comunale.
Per di più la medesima strada è di collegamento con una via comunale (via Bracchio) e con un'altra strada vicinale (via delle Groppole).
La funzione di collegamento della strada è evidenziata non solo nella nota del responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Mergozzo del 12.08.2004, ma anche dai cittadini firmatari dell'esposto presentato per censurarne la chiusura abusiva.
L’esposto –oltre ad essere circostanziato– è stato corroborato sul piano istruttorio dagli ulteriori accertamenti effettuati in loco dagli organi comunali ed è idoneo a dimostrare come –prima dell’attività posta in essere dall’appellante– la strada era utilizzata dalla collettività locale.
Orbene, è principio consolidato che va ricondotta alla nozione di strada vicinale di uso pubblico la via che:
a) consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae da parte di una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all'accesso;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è (eventualmente) connotata da un uso pubblico protratto da tempo;
d) è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche, fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 08.06.2011, n. 3509).
Come documentato dal Comune, e come emerge dalla relazione dell'ufficio tecnico comunale in data 12.08.2004, «la via Tarì è inclusa nello Stradario agli atti del servizio di toponomastica… e essa risulta tra le aree di circolazione», essendo ubicata «tra via Bracchio e l'abitazione Maruzzi, con numerazione civica dal n. 1 al n. 9 e il sig. Te. risiede al civico n. 5, a metà del percorso stradale».
L'estratto di P.R.G.C., allegato alla relazione dell'U.T.C., inoltre, individua la via Tarì come strada pubblica, con previsione di allargamento a mt. 7,00, costituendo il collegamento tra la via comunale Bracchio e la via vicinale "delle Groppole", anch'essa gravata da servitù di pubblico transito e in via di diventare strada comunale.
Quanto al fondamento normativo del provvedimento comunale, osserva la Sezione che per la risalente e pacifica giurisprudenza non importa che il provvedimento amministrativo menzioni la specifica disposizione di legge sulla quale esso si basi: tale principio a maggior ragione va ribadito quando si tratti di un atto da emanare senza indugio per il carattere urgente, e che risulti espressione di un potere desumibile da un principio generale del diritto pubblico, del quale hanno un carattere ricognitivo le disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446.
3c.- Come sopra si è rilevato, anche le proteste pervenute in Comune, subito dopo l'apposizione delle catene e la chiusura del passaggio, possono ritenersi, infine, ulteriori elementi presuntivi, aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza rilevanti ai sensi dell'art. 2729 c.c., della effettiva sussistenza della servitù di uso pubblico della strada: anche la prossimità temporale delle proteste rispetto all'apposizione delle catene rende non plausibile l'affermazione dell’appellante secondo cui il passaggio pubblico -nella via de qua- non sarebbe stato mai consentito.
4.- Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto, perché manifestamente infondato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.09.2015 n. 4450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità esterna prioritaria. Tar Basilicata.
Le amministrazioni, prima di procedere all'indizione di pubblici concorsi finalizzati alla copertura di posti vacanti, devono attivare le procedure di mobilità esterna del personale di altre Amministrazioni.

È quanto hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR per la Basilicata con la sentenza 23.09.2015 n. 607.
Secondo i giudici amministrativi lucani è, quindi, possibile desumere agevolmente la preferenza del Legislatore per le procedure di mobilità esterna rispetto alle selezioni concorsuali e perciò anche rispetto allo scorrimento delle graduatorie concorsuali già pubblicate (tale scelta prioritaria è stata affermata dal Legislatore anche nell'ambito della normativa di blocco delle assunzioni: cfr. art. 19, comma 1, L. n. 488/2001; art. 34, comma 11, L. 289/2002; art. 3, comma 60, L. n. 350/2003; art. 1, comma 47, L. n. 311/2004).
Pertanto, in ossequi a quanto sottolineato dal tribunale amministrativo nella sentenza in commenti, la prevalenza della mobilità rispetto al concorso ed allo scorrimento della graduatoria non risulterà illogica, poiché risponde ad esigenze di efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa preferire l'utilizzazione di personale con esperienza acquista nell'esercizio dei compiti propri del posto da ricoprire, per aver già svolto la specifica funzione per un rilevante lasso di tempo continuativo, e perché si tratta di un lavoratore già stabilmente inserito nell'organizzazione della pubblica amministrazione (si vedano: Cds Sez. V Sent. n. 5830 del 18.08.2010; Tar Lecce Sez. II Sentenze n. 1419 del 31.07.2012 e n. 2169 del 26.03.2004).
E ciò è anche confermato dall'art. 39, comma 3, L. n. 449/1997 che statuisce che le assunzioni di nuovi pubblici dipendenti sono «subordinate all'indisponibilità di personale da trasferire secondo le vigenti procedure di mobilità».
I giudici amministrativi, nella medesima sentenza, hanno, poi, disatteso anche i motivi di impugnazione, con i quali veniva dedotta la carenza di motivazione in ordine alla maggiore economicità della contestata scelta di indizione del procedimento di mobilità al posto dello scorrimento di una graduatoria ancora valida (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).
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MASSIMA
Con il primo motivo si lamenta che l’amministrazione non abbia dato priorità allo scorrimento delle graduatorie dei concorsi ancora valide ed efficaci.
La censura va disattesa (sul punto cfr. TAR Basilicata n. 743 del 24.10.2014, n. 559 del 26.08.2014, n. 368 del 07.06.2014 e n. 107 del 23.02.2014), posto che dal contenuto dell’art. 30, comma 2-bis, D.Lg.vo n. 165/2001, secondo cui le Amministrazioni, prima di procedere all’indizione di pubblici concorsi finalizzati alla copertura di posti vacanti, devono attivare le procedure di mobilità esterna del personale di altre Amministrazioni, si desume agevolmente la preferenza del Legislatore per le procedure di mobilità esterna rispetto alle selezioni concorsuali e perciò anche rispetto allo scorrimento delle graduatorie concorsuali già pubblicate (tale scelta prioritaria è stata affermata dal Legislatore anche nell’ambito della normativa di blocco delle assunzioni: cfr. art. 19 comma 1, L. n. 488/2001; art. 34, comma 11, L. 289/2002; art. 3, comma 60, L. n. 350/2003; art. 1, comma 47, L. n. 311/2004).
La prevalenza della mobilità rispetto al concorso ed allo scorrimento della graduatoria non risulta illogica, dal momento che risponde ad esigenze di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa preferire l’utilizzazione di personale con esperienza acquista nell’esercizio dei compiti propri del posto da ricoprire, per aver già svolto la specifica funzione per un rilevante lasso di tempo continuativo, e perché si tratta di un lavoratore già stabilmente inserito nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione (cfr. C.d.S. Sez. V Sent. n. 5830 del 18.08.2010; TAR Lecce Sez. II Sentenze n. 1419 del 31.07.2012 e n. 2169 del 26.03.2004).
A conferma di ciò, va rilevato che l’art. 39, comma 3, L. n. 449/1997 statuisce che le assunzioni di nuovi pubblici dipendenti sono “subordinate all’indisponibilità di personale da trasferire secondo le vigenti procedure di mobilità”.
Conseguentemente, vanno disattesi anche i restanti motivi di impugnazione, con i quali è stata dedotta la carenza di motivazione in ordine alla maggiore economicità della contestata scelta di indizione del procedimento di mobilità al posto dello scorrimento di una graduatoria ancora valida, in quanto, come sopra già detto, per l’assunzione a tempo indeterminato di nuovi pubblici dipendenti le Amministrazioni devono prima attivare i procedimenti di mobilità e poi effettuare lo scorrimento delle graduatorie concorsuali o l’indizione di nuovi concorsi. A ciò non osta l’accordo attuativo dell’art. 30, comma 2, L.R. n. 33/2010 (come modificato dall’art. 13 L.R. n. 17/2011), sottoscritto il 05.11.2012 dalla stessa ASP, dall’ASM, dal CROB (il quale lo ha approvato con Del. n. 7 del 09.01.2013) e dall’A.O. San Carlo, ai sensi del quale gli Enti firmatari hanno concordato sulla mera possibilità (e non sull’obbligo) di “utilizzare reciprocamente le rispettive graduatorie di concorsi pubblici in corso di validità per assunzioni di personale a tempo indeterminato”.
A quanto sopra consegue la reiezione del ricorso in esame.
Conseguentemente, risulta infondata la connessa domanda di risarcimento danni, atteso che, ai fini dell’ammissibilità del risarcimento dell’interesse legittimo, risulta necessario e vincolante il previo e/o contestuale accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato.

AMBIENTE-ECOLOGIAImpianti industriali, non imponibili limiti di rumorosità propri delle zone residenziali.
Consiglio di Stato: il problema della vicinanza di una zona residenziale di nuovo insediamento va affrontato prescrivendo l'adozione delle tecnologie di isolamento acustico.

Con la sentenza 21.09.2015 n. 4405, il Consiglio di Stato chiarisce che un impianto industriale per il trattamento, la depurazione e la distribuzione dell’acqua non è assoggettabile alla classe acustica III (zona mista) prevista per le zone residenziali.

IL CASO.
Nel caso affrontato dai giudici della quarta sezione di Palazzo Spada, un impianto di trattamento, depurazione e distribuzione dell’acqua, già di proprietà comunale e attualmente gestito da una società, è stato ampliato nel 1985 sino ad occupare una superficie di circa 20.000 mq. con presenza di numerose vasche, depositi, magazzini, impianti di pompaggio, di depurazione, autorimesse e strutture di servizio, in area urbanisticamente classificata F2.
In epoca successiva, l’amministrazione ha autorizzato la riconversione di edifici a destinazione produttiva in zona limitrofa (a distanza di poche decine di metri), consentendone l’uso residenziale. Si è quindi innescato un inevitabile conflitto fra la funzione produttiva e quella residenziale, per risolvere il quale l’amministrazione non solo ha imposto misure di contenimento dell’inquinamento acustico (ottemperate dal gestore) ma ha classificato parte del compendio produttivo, più vicino alle residenze, in classe acustica III (zona mista) che ai sensi del DPCM 14/11/1997 si caratterizza quale “area urbana con media densità di popolazione, con attività commerciali e con limitate attività artigianali con assenza di attività industriali”.
PALAZZO SPADA: NON SI POSSONO IMPORRE A UNA ATTIVITÀ INDUSTRIALE LIMITI DI RUMOROSITÀ PROPRI DELLE ZONE RESIDENZIALI. In proposito, il Consiglio di Stato ritiene che l’impianto di trattamento dell’acqua “deve considerarsi ai fini della zonizzazione acustica un’attività industriale, operando a ciclo ininterrotto per assicurare la continuità dei servizi, grazie all’ausilio di potenti macchinari inevitabilmente rumorosi. Essa non è dunque compatibile con la classe III, che invece è propria di un territorio mediamente urbanizzato in cui non esistono o non dovrebbero esistere attività industriali”.
ISOLAMENTO ACUSTICO. Pertanto, “il nodo problematico della vicinanza di una zona residenziale di nuovo insediamento, probabilmente effetto di una non lungimirante programmazione urbanistica locale, non può essere affrontato a livello acustico imponendo all’attività industriale già esistente limiti di rumorosità propri delle zone residenziali, tali da determinarne la sostanziale impossibilità di esercizio, ma attraverso prescrizioni puntuali finalizzate all’adozione delle migliori tecnologie di isolamento acustico” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
L’appello è fondato.
Dalla ricostruzione fattuale offerta dagli appellanti, e non contestata dagli appellati i quali pur edotti del giudizio hanno liberamente scelto di non costituirsi, emerge che: l’impianto di trattamento, depurazione e distribuzione dell’acqua, già di proprietà comunale ed attualmente gestito dall’appellante è stato edificato in epoca risalente, ed ampliato nel 1985 sino ad occupare una superficie di circa 20.000 mq. con presenza di numerose vasche, depositi, magazzini, impianti di pompaggio, di depurazione, autorimesse e strutture di servizio, in area urbanisticamente classificata F2.
In epoca successiva, l’amministrazione ha autorizzato la riconversione di edifici a destinazione produttiva in zona limitrofa (addirittura a distanza di poche decine di metri), consentendone l’uso residenziale, sicché si è innescato un inevitabile conflitto fra la funzione produttiva e quella residenziale, per risolvere il quale, l’amministrazione non solo ha imposto misure di contenimento dell’inquinamento acustico (ottemperate dal gestore) ma ha classificato parte del compendio produttivo, più vicino alle residenze, in classe acustica III (zona mista) caratterizzantesi, secondo il DPCM 14/11/1997 quale “area urbana con media densità di popolazione, con attività commerciali e con limitate attività artigianali con assenza di attività industriali”.
La classificazione appare ictu oculi non corretta.
L’impianto di trattamento dell’acqua deve considerarsi ai fini della zonizzazione acustica un’attività industriale, operando a ciclo ininterrotto per assicurare la continuità dei servizi, grazie all’ausilio di potenti macchinari inevitabilmente rumorosi. Essa non è dunque compatibile con la classe III, che invece è propria di un territorio mediamente urbanizzato in cui non esistono o non dovrebbero esistere attività industriali.
Il nodo problematico della vicinanza di una zona residenziale di nuovo insediamento, probabilmente effetto di una non lungimirante programmazione urbanistica locale, non può pertanto essere affrontato a livello acustico imponendo all’attività industriale già esistente limiti di rumorosità propri delle zone residenziali, tali da determinarne la sostanziale impossibilità di esercizio, ma attraverso prescrizioni puntuali finalizzate all’adozione delle migliori tecnologie di isolamento acustico.
Prescrizioni, del resto che, per quanto risulta in atti, sono state già imposte dal Comune ed ottemperate dal gestore (ottemperanza che ha poi determinato l’improcedibilità dell’impugnativa inizialmente proposta).

In riforma della sentenza di prime cure, la deliberazione c.c. n. 3 del 26/01/2004 deve quindi essere annullata nella parte in cui inserisce parte dell’area dell’impianto di trattamento e depurazione, in classe acustica III (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.09.2015 n. 4405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla mobilità palla ai giudici ordinari.
Spetta al giudice ordinario la giurisdizione in tema di mobilità per passaggio diretto tra amministrazioni e spetta sempre al giudice ordinario la giurisdizione per le procedure di mobilità interna orizzontale, le quali implicano una mera modifica del profilo professionale del dipendente all'interno della medesima amministrazione, rimanendo inalterate categoria e posizioni economica.

È quanto hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Puglia-Bari con la sentenza 07.09.2015 n. 1233.
Si osserva che la mobilità per passaggio diretto tra amministrazioni integra una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto; la mobilità interna orizzontale, è stato altresì osservato dai giudici amministrativi baresi, esula dal novero dei concorsi pubblici, latamente intesi, nonché da quelle procedure di mobilità verticale comportanti un passaggio tra aree, e quindi un mutamento di categoria e posizione economica del soggetto interessato, per le quali la giurisprudenza ha ormai unanimemente riconosciuto la giurisdizione amministrativa.
Non si può quindi parlare per la mobilità interna orizzontale di giurisdizione amministrativa neppure nel caso in cui si adduca che i provvedimenti impugnati col ricorso originario, aventi a oggetto il piano assunzionale e la programmazione del fabbisogno, nonché il regolamento sulle procedure di mobilità interna, siano espressione di scelte discrezionali, tali da configurare una situazione di interesse legittimo in capo al soggetto interessato e radicare la giurisdizione in capo al giudice amministrativo.
Poiché tali atti, secondo i giudici pugliesi, sono invero atti presupposti della procedura in questione, che, «anche a volerne riconoscere la natura amministrativa quali atti di macro organizzazione, sono comunque sindacabili dal giudice ordinario ai sensi dell'art. 63, comma 1, dlgs n. 165, in ossequio ai principi di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale, di rilevanza costituzionale».
Perciò in questi casi va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario, innanzi al quale il giudizio va riproposto ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 11 c.p.a. (articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015).
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MASSIMA
Preliminarmente,
il Collegio ritiene che tutta la questione, oggetto del presente giudizio rientri nella cognizione del giudice ordinario.
A tale conclusione si è giunti tanto in considerazione del fatto che la pretesa azionata è quella allo scorrimento della graduatoria con il conseguente incardinamento nella qualifica di Avvocato, quanto e soprattutto, in considerazione della natura della procedura in questione.
Trattasi infatti di mobilità interna orizzontale, che esula dal novero dei concorsi pubblici, latamente intesi, nonché da quelle procedure di mobilità verticale comportanti un passaggio tra aree, e quindi un mutamento di categoria e posizione economica del soggetto interessato, per le quali la giurisprudenza ha ormai unanimemente riconosciuto la giurisdizione amministrativa.

Nella specie, la ricorrente è già dipendente dell’Amministrazione provinciale e aspira, tramite lo scorrimento della graduatoria, a ricoprire il posto di Avvocato, ora attribuito all’odierna controinteressata, mantenendo inalterata tanto la categoria professionale, D, quanto la posizione economica, D3.
Mancano evidentemente l’elemento novativo e quello costitutivo, necessari e sufficienti a determinare l’assimilazione della procedura in questione a quelle concorsuali, ricadenti nella residuale area di giurisdizione del giudice amministrativo di cui al quarto comma dell'art. 63 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165.
L’istituto in questione, infatti, attiene alla gestione del rapporto lavorativo e non presuppone in senso stretto l’esercizio di un potere amministrativo, che giustifichi all’indomani della privatizzazione dell’impiego alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, la giurisdizione del G.A..
Se la giurisprudenza amministrativa, riprendendo l’orientamento espresso dalle SS.UU. della Cassazione, ha già riconosciuto la giurisdizione ordinaria in tema di mobilità per passaggio diretto tra Amministrazioni -integrando siffatta procedura una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto– a maggior ragione non può che affermarsi la giurisdizione ordinaria per le procedure di mobilità interna orizzontale, le quali implicano, come visto, una mera modifica del profilo professionale del dipendente all’interno della medesima Amministrazione, rimanendo inalterate categoria e posizioni economica.
Né vale obiettare, a sostegno della giurisdizione di questo TAR, che i provvedimenti impugnati col ricorso originario, aventi ad oggetto il piano assunzionale e la programmazione del fabbisogno, nonché il regolamento sulle procedure di mobilità interna, siano espressione di scelte discrezionali, tali da configurare una situazione di interesse legittimo in capo al soggetto interessato e radicare la giurisdizione in capo al giudice amministrativo.
Tali atti sono invero atti presupposti della procedura in questione, che, anche a volerne riconoscere la natura amministrativa quali atti di macro-organizzazione, sono comunque sindacabili dal giudice ordinario ai sensi dell’art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 165, in ossequio ai principi di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale, di rilevanza costituzionale.
Alla luce delle considerazioni su esposte,
va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione di questo giudice amministrativo in favore del giudice ordinario, innanzi al quale il giudizio va riproposto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a..

CONDOMINIO: Cortile, spese sempre comuni. L’usura è addebitabile a chi «sfrutta» il selciato che funge da soffitto.
Ripartizione. I singoli proprietari sottostanti non devono partecipare agli oneri di manutenzione.

Nell'intricata materia condominiale vi sono delle fattispecie che, più di altre, incarnano la complessità: è il caso del cosiddetto cortile-lastrico, cioè quella superficie o area comune che svolge la duplice funzione di cortile in senso proprio (destinato ad un uso promiscuo, spesso comprendente l’accesso e il ricovero di autoveicoli) e, contemporaneamente, di copertura di locali sottostanti (anche in questo caso, spesso destinati a parcheggio sotterraneo), e le cui problematiche di ripartizione delle spese di conservazione hanno ripetutamente occupato le aule di giustizia.
In questo solco, si colloca anche una recente pronuncia del Tribunale di Roma (sentenza 02.01.2015 n. 1) che ha affermato il principio per cui «ove si debba procedere alla riparazione del cortile o del viale di accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condòmino, ai fini della ripartizione delle spese non si ricorrere ai criteri previsti dall’articolo 1126 del Codice civile ma, in via analogica, all’articolo 1125 che prevede l’accollo per intero delle spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa, identificantesi con il pavimento del piano superiore, a chi con l’uso esclusivo della stessa determina la necessità della inerente manutenzione e verificandosi in tal caso un’applicazione particolare del principio generale dettato dall’art. 1123, comma 2, del codice civile».
Va detto, innanzitutto, che la soluzione concreta adottata nella sentenza presuppone che la proprietà di tale tipologia di cortile sia diversa rispetto a quella dei locali comuni sottostanti che usufruiscono della relativa funzione di copertura, perché in caso contrario (proprietà condominiale di entrambe le strutture) il problema, ovviamente, non si pone (dovendosi ripartire ogni costo in ragione dei millesimi di proprietà attribuiti ai partecipanti).
Da tale distinta titolarità deriva la necessità di dare una risposta al problema della ripartizione delle spese di manutenzione, che il Tribunale risolve affermando l’applicazione “analogica” dell’articolo 1125 del Codice civile destinato (in via principale) a regolare la ripartizione del solaio, ipotesi nella quale esistono, appunto, due proprietà contrapposte, che danno luogo a una triplice distinzione (titolarità delle parti “superiori”, comproprietà della struttura mediana, e un’ulteriore e distinta titolarità delle parti “inferiori”).
Utilizzando tale norma, i costi del rifacimento della superficie del cortile devono essere attribuiti interamente al proprietario (o ai proprietari) “sovrastanti”, cioè a coloro che utilizzano il cortile per gli scopi consueti nell’edificio (compreso il passaggio e il ricovero delle auto), con totale esenzione di quelli “sottostanti”, il tutto in riferimento al criterio generale del comma 2 dell’articolo 1123 che prevede la ripartizione “in base all’uso”.
La pronuncia romana si collega a una giurisprudenza, non proprio uniforme, della Cassazione, che in casi analoghi ha affermato, in un primo tempo, l’applicabilità dell’articolo 1126 del Codice civile (quindi, con spese 1/3 ai proprietari sovrastanti, e i rimanenti 2/3 ai sottostanti, sentenza 11283/1998), per poi adottare l’interpretazione favorevole all’articolo 1125 (sentenza 18194/2005).
L’aspetto rilevante della nuova interpretazione risiede nell’evidenziazione (in funzione della ripartizione delle spese) dell’usura della struttura di copertura sovrastante. Questo perché le spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa identificantesi con il pavimento del piano superiore vanno accollate per intero a chi con l’uso esclusivo determina la necessità della manutenzione (Cassazione, sentenza 10858/2010).
È innegabile, infatti, che detto “uso esclusivo”, specie nel caso di transito di autoveicoli, è certamente l’unica causa del deterioramento del pavimento/superficie del cortile
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di superficie coperta deve essere inteso in senso tecnico costruttivo, quale superficie direttamente impegnata anche tenendo conto dello spazio volumetrico occupato, atteso che detto spazio viene di fatto  sottratto ad ogni altra utilizzazione.
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L'aumento di cubatura realizzato è correttamente fatto rientrare nella nozione di difformità totale dell'opera dal progetto assentito laddove si è riscontrato:
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per il lotto A un'altezza all'intradosso trave di circa ml 5,90 rispetto ai ml 4,85 da progetto ed un'altezza al colmo di circa 6,70 rispetto ai ml 5,65 da progetto;
- per il lotto B un'altezza all'intradosso trave di circa ml 5,90 rispetto ai ml 5,65 da progetto ed un'altezza al colmo di circa 6,70 rispetto ai ml 5,60 da progetto;
- per il lotto C un'altezza all'intradosso trave di circa 5,60 rispetto ai ml 4,85 da progetto ed un'altezza al colmo di circa 6,40 rispetto ai ml 5,65 da progetto.

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Ritenuto in fatto
Ve.Ro., titolare della ditta individuale Terra del Sud, veniva indagato del reato di cui all'art. 44, lett. B, DPR 380/2001, atteso che nel corso di un sopralluogo eseguito in data 28.05.2013 in relazione ad un atto autorizzativo rilasciato dal Comune di Melissano, veniva rilevato "un aumento di volumetria dovuta alla maggiore altezza riscontrata, in specie: per il lotto A un'altezza all'intradosso trave di circa ml 5,90 rispetto ai ml 4,85 da progetto ed un'altezza al colmo di circa 6,70 rispetto ai ml 5,65 da progetto; per il lotto B un'altezza all'intradosso trave di circa ml 5,90 rispetto ai ml 5,65 da progetto ed un'altezza al colmo di circa 6,70 rispetto ai ml 5,60 da progetto; per il lotto C un'altezza all'intradosso trave di circa 5,60 rispetto ai ml 4,85 da progetto ed un'altezza al colmo di circa 6,40 rispetto ai ml 5,65 da progetto".
Veniva pertanto disposto il sequestro delle tre serre agricole realizzate in Melissano, che veniva convalidato dal PM in data 29.05.2013.
Avverso detto decreto il difensore dell'indagato proponeva richiesta di riesame, che veniva rigettata dal Tribunale del riesame di Lecce con provvedimento emesso in data 24.07.2013.
In particolare, a giudizio del Collegio, ai fini della determinazione di superficie occupata dalle tre serre per come  realizzate, doveva tenersi conto pure della dimensione volumetrica occupata sulla superficie sulla quale esse insistevano. Siffatto aumento della cubatura, valutato in relazione al progetto approvato, appariva tale da integrare la nozione di totale difformità dell'opera, configurando il contestato reato.
Avverso l'ordinanza del tribunale del riesame l'odierno indagato, a mezzo del proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione, deducendo i seguenti motivi.
1) Violazione di legge per erronea applicazione di norme giuridiche.
Lamenta la difesa che l'interpretazione della normativa regionale fornita dal Tribunale non appare corretta: se la norma avesse inteso finalizzare la previsione dell'altezza massima alla irrealizzabilità di un maggior volume e non limitarsi alla previsione in termini di sola superficie realizzabile avrebbe previsto un indice volumetrico massimo assentibile e non si sarebbe limitata ad individuare solo le superfici massime.
Pertanto il riferimento all'altezza, che pure costituisce un limite in caso di violazione può costituire una parziale difformità di limitatissimo carico urbanistico, ma non può concretizzare una totale difformità per un aumento volumetriche non viene considerato nella disposizione normativa.
Inoltre, altro aspetto da tenere in debita considerazione è costituito proprio dalla normativa regionale richiamata, che prevede espressamente le ipotesi in cui il volume rileva e, precisamente, al comma 2 dell'art. 4 della legge regionale pugliese 19/1986 dove si prevede che: "le superfici utilizzate dalle serre possono essere computate ai fini della volumetria assentibile soltanto per fabbricati funzionalmente connessi alla conduzione agraria del fondo, ivi comprese le abitazioni rurali".
La difesa infine rileva che al comma 3 dell'art. 59 della legge regionale della Puglia n. 1 del 2005, rubricato modifiche alla legge regionale 11.09.1986 n. 19, è ora previsto che alla realizzazione delle serre e loro annessi si potrà procedere purché l'altezza misurata al colmo delle coperture non superi i 10 metri.
2) Contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla maturata prescrizione.
Lamenta la difesa che è stata prodotta documentazione(ortofoto) allegata anche al presente ricorso attestante l'esistenza e la piena ultimazione e funzionalità delle tre serre già nell'anno 2006, nonché certificazioni di agibilità riferite a strutture che si trovano all'interno delle stesse e che risalirebbero addirittura al 2004.
La decisione gravata appare pertanto illogica e contraddittoria, avendo la difesa offerto prova documentale alla quale il Tribunale ha ritenuto di non riconoscere alcuna valenza probatoria. A tal riguardo il ricorrente rappresenta che la giurisprudenza di legittimità ha escluso che sia possibile disporre un sequestro allorché la prescrizione del reato sia intervenuta ancora prima dell'esercizio dell'azione penale.
3) Contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla richiesta subordinata di utilizzazione delle strutture.
La difesa fa presente che all'interno delle serre sono ubicate le strutture ed i macchinari indispensabili per l'esercizio dell'attività.
Il riesame ha motivato il rigetto asserendo che "potendo apparire necessario appurare, attraverso idonea consulenza tecnica, l'esatta consistenza planivolumetrica delle difformità riscontrate, il che allo stato non consente di accedere nemmeno alla subordinata richiesta avanzata nell'ambito della propria attività imprenditoriale, e ciò allo scopo di garantire una più efficace immodificabilità delle opere".
Ritenuto in diritto
Il ricorso è infondato e deve pertanto essere rigettato.
Quanto al primo motivo di ricorso, infatti, le deduzioni svolte dalla difesa sono state correttamente analizzate e ritenute infondate dai giudici di merito, i quali con ampia, logica e congrua motivazione hanno fornito la corretta interpretazione della legge regionale violata dall'odierno ricorrente e, quindi, hanno ritenuto la sussistenza del fumus commiss delicti del reato al medesimo addebitato.
Questa Corte, invero, condivide quanto asserito dal Tribunale del Riesame con riguardo alla confutazione di quanto dedotto dalla difesa secondo la quale la superficie delle serre attinte dal vincolo era da ritenersi conforme al progetto in quanto doveva farsi riferimento esclusivamente alla superficie e non al volume, visto che dalla legge della Regione Puglia n. 19/1986, e segnatamente dall'art. 4 della stessa, emergerebbe come la valutazione edilizio-urbanistica nulla dice in ordine alla volumetria, stabilendo una percentuale massima realizzabile solo in termini di superficie (75% dell'area disponibile ove la stessa non risulti inferiore a mq 4000).
Correttamente tuttavia il Collegio di merito, richiamando la stessa normativa invocata dalla difesa dell'indagato, asseriva che
il concetto di superficie coperta, per come stabilito dall'art. 1, comma 1, n. 1, della l.r. 19/1986, già in forza del dato testuale del successivo n. 2 della stessa disposizione, per il quale è necessario che l'altezza misurata al colmo delle coperture non superi i metri 6, deve essere inteso in senso tecnico costruttivo, quale superficie direttamente impegnata anche tenendo conto dello spazio volumetrico occupato, atteso che detto spazio viene di fatto  sottratto ad ogni altra utilizzazione.
L'aumento di cubatura realizzato veniva quindi correttamente fatto rientrare nella nozione di difformità totale dell'opera dal progetto. Il riferimento operato dalla difesa alla legge regionale 1/2005 è da ritenersi ininfluente, in quanto quello che rileva è la difformità in termini di cubature e di altezze rispetto al progetto presentato.
Quanto ai restanti due motivi dedotti dalla difesa censuranti la illogicità e contraddittorietà della motivazione, questa Corte, innanzitutto rileva che, come noto, "in tema di riesame delle misure cautelari, il ricorso per cassazione per violazione di legge, a norma dell'art. 325, comma primo, cod. proc. pen., può essere proposto solo per mancanza fisica della motivazione o per la presenza di motivazione apparente, ma non per mero vizio logico della stessa" (Cfr. sentenza Cass. Sez. V n. 35532 del 25.06.2010).
Ad ogni buon conto, il Tribunale del Riesame, con congrua motivazione, nell'ambito della propria indagine di merito non reiterabile nella presente sede, ha, in primo luogo, esaminato la documentazione prodotta dalla difesa e giustificato la mancata maturazione della prescrizione, osservando che la suddetta documentazione fotografica non si palesava idonea a dimostrare che le strutture ivi raffigurate fossero proprio quelle in contestazione e tantomeno poteva desumersi dalla loro diretta visione la prova di una loro integrale ultimazione sin dal 2006; inoltre il Collegio di merito ha ugualmente ben motivato in ordine alla persistenza del periculum in mora, ritenendo che vi fosse la necessità di garantire la immodificabilità delle opere, connessa peraltro ad ulteriori accertamenti planovolumetrici da disporsi a cura del Pubblico Ministero.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2014 n. 1734 - udienza).

EDILIZIA PRIVATA: Sussiste la totale difformità dell'opera laddove risulta che nel progetto allegato al permesso di costruire "la veranda viene indicata come chiusa solo sul lato lungo, mentre le due aperture laterali dovevano rimanere aperte e suscettibili di chiusura solo con le preesistenti  saracinesche metalliche".
In realtà, "a seguito della chiusura della veranda su tutti i lati, con infissi in alluminio, la ricorrente ha potuto procedere alla rimozione degli infissi posti a chiusura dei varchi di accesso al chiosco originari" e "...in tal modo l'area chiusa è stata apprezzabilmente ampliata di circa 50 mq (come accertato dal P.M.) realizzando una sala in precedenza non esistente né assentita nel permesso a costruire n. 89/1984".
A tale stregua, del tutto giustificata risulta la conclusione dei giudici di appello quando affermano che "l'opera realizzata ha modificato sostanzialmente l'originario chiosco creando una nuova struttura chiusa, di molto più estesa rispetto a quella preesistente".
Né vale l'ulteriore rilievo difensivo secondo cui le aperture laterali della veranda erano comunque chiuse da saracinesche perché —e la considerazione è del tutto logica plausibile— se è vero che le saracinesche consentivano ugualmente la chiusura della veranda è anche vero che, "al contempo, ne impedivano la fruizione da parte dei clienti del bar ben diversa è la possibilità di utilizzo della veranda che è derivata dalla apposizione degli infissi in allumini, posto che questi consentono la fruizione della veranda anche nelle giornate di cattivo tempo, garantendo l'integrale chiusura della veranda e lasciando intatta la sua destinazione funzionale".
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1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso - Con la sentenza qui impugnata, la Corte d'appello ha confermato la condanna per violazione degli artt. 44/c D.P.R. 380/2001 e 181 DLgs 42/2004 pronunciata nei confronti dell'odierna ricorrente accusata di avere "in totale difformità rispetto a quanto assentito, chiuso completamente una veranda coperta tamponandola lateralmente mediante l'installazione di infissi in alluminio e vetro, in area demaniale posta a meno di 300 metri dalla battigia, senza essere in possesso dell'autorizzazione prescritta".
Avverso tale decisione, l'imputata ha proposto ricorso, tramite il difensore deducendo:
1) violazione e falsa applicazione della legge penale da ravvisare nel fatto di avere ritenuto sussistente l'infrazione dell'art. 44/c e, segnatamente, la "totale difformità" dell'opera laddove il quadro normativo e giurisprudenziale impedisce di ritenere violata tale disposizione in presenza della mera predisposizione di una porta a vetri, in luogo di saracinesca preesistente.
In particolare, si richiama l'attenzione sul fatto che la totale difformità ricorre solo quando si è al cospetto di un organismo edilizio totalmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche e di utilizzazione.
Ricorda, quindi, la ricorrente che la fattispecie in esame concerne la chiusura con infissi dei lati dì una veranda coperta a servizio di uno stabilimento balneare e che il muro sul lato fronte mare munito degli infissi incriminati era già assentito come pure esisteva già il diritto di chiudere quello spazio con una serranda (alias saracinesca metallica).
Errano, pertanto, i giudici quando assumono che la chiusura con la porta con ante "a libro" di cui si discute fosse finalizzata a destinare lo spazio a luogo di ristorazione con tavolini perché questa vocazione dei luoghi era già sussistente ed avrebbe potuto essere realizzata anche con la serranda. Quindi, una volta installate le porte vetrate, peraltro lasciate quasi sempre aperte, non si è verificata alcuna utilizzazione diversa degli spazi ma si è verificata solo un modo più pratico e decoroso di utilizzazione dello spazio (contrariamente a quanto affermatosi a f. 4 della sentenza di primo grado che accenna ad una "maggiore utilità" che avrebbe determinato "trasformazioni tipologiche e planovolumetriche da tale entità da costituire uno stravolgimento complessivo dell'originario progetto").
Si ricordano, a tal fine, decisioni di questa stessa sezione (05.07.2005, n. 34142) ove è stato affermato che "
il concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza nonché le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza e non siano suscettibili di utilizzazione autonoma" e si richiama l'attenzione sul tenore dell'art. 32 D.P.R. 380/2001 a proposito della definizione di variazione essenziale che ricorre in presenza di una o più delle seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal DM 02.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica non attinente e fatti procedurali.
Pertanto, la creazione delle porte a vetro e la rimozione di quelle del chiosco-bar (peraltro tenute sempre aperte in precedenza) non può rientrare né nella nozione di "difformità totale" né in quella di "variazione essenziale" perché non comportano quello stravolgimento dell'opera assentita;
2) violazione di legge penale e processuale da ravvisare nel fatto di avere sostenuto la violazione dell'art. 44/c D.P.R. 380/2001 per carenza del titolo abilitativi e violazione dell'art. 192 C.P.P. per avere erroneamente valutato le risultanze istruttorie come la deposizione dell'ing. Ba., progettista e direttore dei lavori di ampliamento dello stabilimento balneare il quale ha dichiarato chiaramente che, nel progetto, la parte tratteggiata in corrispondenza dei lati corti della veranda ben si poteva "intendere come chiusura";
3) violazione di legge penale con riferimento all'elemento soggettivo in quanto, per la mancata enunciazione, da parte del Comune di Francavilla, di prescrizioni l'imputata, si era incolpevolmente convinta della liceità della installazione delle porte. Si sarebbe, quindi, dovuto assolvere la Er., quantomeno, ex art. 530, co. 2, sotto il profilo psicologico.
La ricorrente conclude invocando l'annullamento della sentenza impugnata.
2. Motivi della decisione - Il ricorso è infondato.
Ancorché tutti i motivi siano stati svolti con l'intento di sostenere che i giudici di merito erano incorsi in una erronea applicazione della legge, l'analisi degli argomenti sviluppati dalla ricorrente testimonia come, nella sostanza, ella cerchi di coinvolgere questa S.C. in una rivalutazione dei dati fattuali. Detto, in altri termini, ciò che viene introdotto come violazione delle norme è semplicemente un tentativo di rivalutazione delle emergenze processuali per trarne conclusioni differenti e più favorevoli alla ricorrente.
Deve, però, rammentarsi che rientra sicuramente nelle competenze di questa S.C. verificare se un fatto affermato come esistente sia invece inesistente ovvero se le argomentazioni della motivazione siano sostenute da elementi di fatto acquisiti in atti e se, in sostanza, il giudice del merito abbia "fotografato" correttamente la realtà sulla scorta di quanto accertato nel provvedimento gravato; tale verifica, però, non può risolversi in una valutazione della prova al punto da optare per la soluzione che si ritiene più adeguata alla ricostruzione dei fatti, valutando, ad esempio, l'attendibilità dei testi, le conclusioni di periti o consulenti tecnici o esaminando fotogrammi o planimetrie (sez. IV, 17.09.2004 n., Cricchi, Rv. 229690).
Tutto ciò è di esclusiva competenza del giudice del merito e, nel momento in cui questi abbia fornito una spiegazione plausibile della propria analisi probatoria, l'esame dei dati processuali si esaurisce nella fase dinanzi ad esso essendo preclusa, in sede di legittimità (sez. II 11.01.2007, Messina, Rv. 235716), "la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova".
Tanto premesso, quanto al primo motivo, (sostanzialmente il principale) si deve osservare che
la totale difformità dell'opera è stata bene evidenziata nella prima e nella seconda sentenza di merito ove si sottolinea che, nel progetto allegato al permesso di costruire, "la veranda viene indicata come chiusa solo sul lato lungo, mentre le due aperture laterali dovevano rimanere aperte e suscettibili di chiusura solo con le preesistenti  saracinesche metalliche (così come descritte nella concessione demaniale n. 416/2002)".
Ulteriore riscontro obiettivo dell'assunto i giudici lo rinvengono nel dato fattuale che "
nel progetto assentito non si indicava graficamente la presenza di infissi sui due lati corti, mentre questi erano indicati (sia graficamente che con annotazione scritta) sul lato lungo".
Come ricordano i giudici, tale ultima circostanza è stata confermata anche dal teste Ba. che, a proposito della linea tratteggiata, ha riferito trattarsi di una "separazione funzionale".
La querelle sul punto della ricorrente (richiamata anche nel secondo motivo) è più adeguatamente confutata dal giudice di merito con la considerazione logica che "
lo stesso progettista lì dove ha voluto indicare l'apposizione di infissi li ha analiticamente disegnati, mentre sui lati corti si é limitato ad un semplice tratteggio che —come egli stesso riferisce— indicano una separazione funzionale tra spazi coperti e scoperti, ma non consentono affatto di desumere la volontà di chiudere con infissi anche ai lati corti della veranda".
L'argomentare del giudice di merito di primo grado viene inglobato a pieno dalla Corte che sottolinea la "
portata dirimente delle acute osservazioni del Tribunale" e che viene riassunta osservando che "se fosse stata prevista la chiusura anche dei lati corti della veranda con infissi in alluminio, risulterebbe del tutto incomprensibile a mancata indicazione degli stessi nel disegno della porzione laterale dell'immobile oggetto dei lavori (laddove nella medesima tavola progettuale erano ben evidenziati gli infissi posti a chiusura degli accessi al chiosco preesistente) salvo ad ammettere, come unica ipotesi plausibile sul piano progettuale, che la veranda di nuova realizzazione, dovendo rimanere aperta sui due lati corti giocoforza imponeva il mantenimento delle porte- finestre originariamente esistenti a chiusura del chiosco bar".
Tanto brevemente richiamato, in punto di fatto, a proposito delle principali obiezioni che i giudici di merito hanno mosso a quelle difensive, si ha ancora maggior contezza del fatto —anticipato inizialmente- che
la ricorrente, con le proprie argomentazioni odierne, attraverso dotte evocazioni di indirizzi giurisprudenziali in tema di "difformità" (totale o parziale) e di differenze con la nozione di "variazione essenziale", tenta esclusivamente di distogliere l'attenzione dallo sforzo che essa compie di ottenere da questa S.C. una nuova lettura dei medesimi dati processuali già così attentamente e logicamente analizzati dal Tribunale e dalla Corte.
E se ciò vale con riguardo alla disamina operata da questi ultimi circa il progetto e le dichiarazioni del progettista, a fortiori, il rilievo è giusto quando si passa a valutare la correttezza delle considerazioni svolte dai giudici di merito in punto di "maggiore utilitas" che la ricorrente ha tratto dalle opere della cui illiceità si sta trattando.

Nuovamente, la Corte afferma che "
colgono nel segno le convincenti considerazioni della sentenza gravata, mutuate dalla forza dimostrativa dei rilievi grafici eseguiti dalla P.G. (v. foto allegate alla relazione n. 44 della Polizia Municipale in data 26.06.2006)".
In effetti risulta molto chiaro ciò che il Tribunale afferma in merito quando osserva che "
a seguito della chiusura della veranda su tutti i lati, con infissi in alluminio, la Er. ha potuto procedere alla rimozione degli infissi posti a chiusura dei varchi di accesso al chiosco originari" e "...in tal modo l'area chiusa è stata apprezzabilmente ampliata di circa 50 mq (come accertato dal P.M.) realizzando una sala in precedenza non esistente né assentita nel permesso a costruire n. 89/1984".
A tale stregua, del tutto giustificata risulta la conclusione dei giudici di appello quando affermano che "l'opera realizzata ha modificato sostanzialmente l'originario chiosco creando una nuova struttura chiusa, di molto più estesa rispetto a quella preesistente".
Né vale l'ulteriore rilievo difensivo —qui reiterato— secondo cui le aperture laterali della veranda erano comunque chiuse da saracinesche perché —e la considerazione è del tutto logica plausibile— se è vero che le saracinesche consentivano ugualmente la chiusura della veranda è anche vero che, "al contempo, ne impedivano la fruizione da parte dei clienti del bar ben diversa è la possibilità di utilizzo della veranda che è derivata dalla apposizione degli infissi in allumini, posto che questi consentono la fruizione della veranda anche nelle giornate di cattivo tempo, garantendo l'integrale chiusura della veranda e lasciando intatta la sua destinazione funzionale".
A fronte di tali obiettive, argomentate e del tutto logiche considerazioni, di nessun pregio sono le obiezioni —di carattere fattuale— che la ricorrente svolge quando richiama l'attenzione sul fatto che le porte del chiosco bar rimosse erano sempre tenute aperte in precedenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.05.2011 n. 29509 - udienza).

PATRIMONIO: Il gestore risponde dell’imprudenza dell’utente. Segnaletica. La giurisprudenza dà sempre più obblighi al proprietario della strada.
Apporre e manutenere la segnaletica stradale non è solo un preciso obbligo dell’ente proprietario della strada: occorre anche che nel farlo si consideri la possibilità che un utente commetta errori o imprudenze. Dunque, per ridurre i rischi, la segnaletica nel suo complesso va particolarmente curata, anche a costo di ridondanze: l’occhio del professionista che progetta un piano di segnalamento deve saper vedere e guardare con gli occhi dell’utente. Ciò perché negli ultimi anni si è evoluta la giurisprudenza della Cassazione, aumentando le responsabilità dei gestori.
L’obbligo di curare le condizioni della strada è imposto dall’articolo 14 del Codice della strada e più volte il ministero delle Infrastrutture ha richiamato l’attenzione sulla segnaletica (si veda la direttiva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 301/2000). Oltre a un’evidente responsabilità amministrativa, ne possono sorgere di civili e penali in caso di incidenti addebitabili anche ai segnali. In quali condizioni può esserci responsabilità specifica?
Una giurisprudenza ormai datata richiedeva che il difetto di manutenzione o il pericolo generato da assenza di segnaletica fosse occulto, in modo da costituire insidia o trabocchetto. Ora invece la Cassazione ha riportato la responsabilità dell’ente proprietario, nella persona dei suoi funzionari, nell’alveo degli ordinari criteri di imputazione della colpa.
Ad esempio, la sentenza n. 32211/2011, ha stabilito che «è senz’altro vero che l’utente della strada debba attenersi alle regole sulla circolazione stradale, ma è altrettanto certo che, laddove esiste una situazione di oggettiva pericolosità, l’ente gestore della strada deve anche prevedere la possibilità di manovre imprudenti degli automobilisti e prevenire le relative conseguenze dannose adottando le opportune misure». Ciò amplia molto l’obbligo di attenzione dei preposti a posizionare la segnaletica stradale, che deve prendere in considerazione i probabili comportamenti non rispettosi del Codice.
Ancor più incisiva è la sentenza 05.05.2011 n. 22190 (udienza), della IV Sez. penale, dove si legge che «la responsabilità dell’addetto alla manutenzione può essere esclusa soltanto quando la condotta dell’utente della strada si configuri come evento eccezionale o abnorme, non altrimenti prevedibile, né evitabile».
L’evoluzione giurisprudenziale pare chiara: chiede sempre più attenzione e professionalità
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2015).
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MASSIMA
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, (cfr., tra le altre, Cass., Sez. 4, Sent. n. 36760 del 04.06.2004, Rv. 230270; Cass., Sez. 4, Sent. n. 21040 dell'01.04.2008, Rv. 240218)
integra il reato di lesioni colpose la condotta omissiva del responsabile dell'ufficio tecnico comunale nella attività di manutenzione di una strada sulla quale, per tale causa, si è verificato un incidente.
Pertanto, nel caso in cui un incidente si sia verificato per l'insufficiente od omessa manutenzione della sede viaria da parte dell'ente pubblico a ciò preposto, il soggetto incaricato del relativo servizio risponde penalmente delle lesioni colpose conseguite al sinistro secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa e non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto.

Sul punto questa Corte ha precisato che
la responsabilità dell'addetto alla manutenzione può essere esclusa soltanto quando la condotta dell'utente della strada si configuri come evento eccezionale o abnorme, non altrimenti prevedibile, né evitabile.
Tanto premesso si osserva che la sentenza impugnata ha riconosciuto che le lesioni subite dalla persona offesa sono legate da nesso causale con le buche presenti sull'asfalto della strada comunale, ove si verificò l'evento e che se l'ente comunale, e per esso gli organi preposti, avesse adoperato i necessari controlli diretti a garantire la manutenzione di quella sede stradale, l'incidente non si sarebbe verificato.
Peraltro la sentenza impugnata ha ritenuto di escludere la responsabilità del Sa. in ordine al reato di lesioni colpose perché, secondo il riparto delle competenze, egli aveva la responsabilità della manutenzione, ma tale responsabilità dipendeva dalla segnalazione di eventuali dissesti da parte della Polizia Municipale, che aveva effettuato tale segnalazione solo a seguito del sinistro.
Tale ragionamento effettuato dai giudici di appello non è condivisibile, poiché non tiene conto né della disposizione dell'art. 107, comma 1 del d.lgs. 267/2000, che dispone che: "la gestione, amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo", né della disposizione di cui al comma 6 dell'art. 107 sopra indicato secondo cui: "I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione".
Tale disposizione infatti attribuisce compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo.
Una generale norma di diligenza pertanto impone agli organi di amministrazione comunale, rappresentativi o tecnici che siano, di vigilare, nell'ambito delle rispettive competenze, per evitare ai cittadini situazioni di pericolo derivanti dalla non adeguata manutenzione e dal non adeguato controllo dello stato delle strade comunali (Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 05.05.2011 n. 22190 - udienza).

URBANISTICA: Il richiamo alla valenza pubblicistica degli accordi ex art. 11 l. 241/1990, quale categoria comprendente le varie ipotesi della c.d. amministrazione consensuale (che, nello specifico settore che qui occupa, si estrinseca nella c.d. urbanistica consensuale), consente di affermare che nelle ipotesi di accordo previste dalla legislazione speciale (come le convenzioni di lottizzazione in materia urbanistica), permane intatto l’attributo –pubblicistico– dell’esercizio del potere amministrativo e della natura pubblica degli interessi portati dall’amministrazione, con conseguente riconoscimento della legittimità costituzionale della relativa previsione di giurisdizione esclusiva (art. 11, comma 5, l. 241/1990).
Del resto in dottrina si è autorevolmente osservato che le convenzioni di lottizzazione, indipendentemente dalla possibile qualificazione privatistica della fattispecie, lasciano comunque sempre integra la potestà pubblicistica del Comune in materia di disciplina del territorio alla stregua di sopravvenute esigenze urbanistiche (e segnatamente per il necessario adeguamento a modifiche successive: in questo senso Consiglio di Stato, sez. IV, 02.03.2004 n. 957), giacché perché la natura di accordo sostitutivo del provvedimento che approva la convenzione di lottizzazione facoltizza comunque l’amministrazione, ai sensi dell’art. 11, comma 4, della L. 07.08.1990, n. 241 a sciogliersi dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, nonché a regolare unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della convenzione.
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Preliminarmente va osservato che il credito vantato dal Comune di Mazzarino ha riguardo all’inadempimento di un obbligo della società opponente nascente da una convenzione di lottizzazione.
L’art. 33 del d.lgs. 80/1998, invocato dalla parte opponente, relativo alla (diversa) materia dei servizi pubblici, oltre a non avere diretta rilevanza nella fattispecie in esame, è stato comunque fatto oggetto di (parziale) declaratoria di illegittimità costituzionale, da parte della citata sentenza n. 204/2004, che ha però comunque circoscritto -facendone salva la legittimità costituzionale- l’ambito della giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi alle fattispecie caratterizzate dall’esercizio di poteri amministrativi, escludendo invece quelle in cui la semplice presenza della pubblica amministrazione come parte del rapporto in nulla differenzia il rapporto medesimo da una vicenda tra privati.
Si badi però che la Corte costituzionale, nella sentenza in esame, non ha ricondotto la linea discretiva del sistema ad un attributo formale (provvedimento o negozio), ma ha chiarito che il ricorso, da parte dell’amministrazione, a strumenti privatistici non elimina l ’attributo pubblicistico-funzionale della fattispecie, laddove lo strumento negoziale operi in sostituzione dell’atto di esercizio del potere, la cui sostanziale connotazione pubblicistica continua, evidentemente, a permeare la fattispecie: “La materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l'esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990)”.
Proprio il richiamo alla valenza pubblicistica degli accordi ex art. 11 l. 241/1990, quale categoria comprendente le varie ipotesi della c.d. amministrazione consensuale (che, nello specifico settore che qui occupa, si estrinseca nella c.d. urbanistica consensuale), consente di affermare che nelle ipotesi di accordo previste dalla legislazione speciale (come le convenzioni di lottizzazione in materia urbanistica), permane intatto l’attributo –pubblicistico– dell’esercizio del potere amministrativo e della natura pubblica degli interessi portati dall’amministrazione, con conseguente riconoscimento della legittimità costituzionale della relativa previsione di giurisdizione esclusiva (art. 11, comma 5, l. 241/1990).
Del resto in dottrina si è autorevolmente osservato che le convenzioni di lottizzazione, indipendentemente dalla possibile qualificazione privatistica della fattispecie, lasciano comunque sempre integra la potestà pubblicistica del Comune in materia di disciplina del territorio alla stregua di sopravvenute esigenze urbanistiche (e segnatamente per il necessario adeguamento a modifiche successive: in questo senso Consiglio di Stato, sez. IV, 02.03.2004 n. 957), giacché perché la natura di accordo sostitutivo del provvedimento che approva la convenzione di lottizzazione facoltizza comunque l’amministrazione, ai sensi dell’art. 11, comma 4, della L. 07.08.1990, n. 241 a sciogliersi dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, nonché a regolare unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della convenzione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 25.05.2007 n. 1465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune può sempre modificare l’assetto territoriale configurato dal piano di attuazione di iniziativa privata (Piano di lottizzazione o Piano particolareggiato di Iniziative Privata), in relazione a nuove, sopravvenute esigenze, che possono essere della più svariata natura, ma, allorquando un procedimento lottizzatorio si sia concluso con la sottoscrizione e la trascrizione della relativa convenzione, nel dare un diverso assetto al territorio, ha il dovere di specificare le ragioni di pubblico interesse che hanno portato a modificare le valutazioni urbanistiche sul presupposto delle quali era stato, a suo tempo, approvato il piano esecutivo di iniziativa privata.
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Come risulta dall’esame del ricorso n. 81 del 2001, effettivamente nessuna delle censure dedotte è riferibile alle predette concessioni edilizie e, poiché con la sentenza il primo giudice ha annullato “tutti gli atti impugnati”, è da presumere che l’annullamento delle citate concessioni sia stato pronunciato dal TAR per illegittimità derivata, anche se, come correttamente rileva la difesa del comune, un tale tipo di illegittimità non era stato sollevato dagli originari ricorrenti.
A diversa conclusione non induce la tesi, svolta dalla difesa degli originari ricorrenti con la memoria del 02.02.2005, secondo cui il motivo di doglianza sarebbe contenuto nell’atto di motivi aggiunti.
A parte che il motivo di censura in questione risulta strutturato, al pari di tutti quelli sollevati con il ricorso, come rivolto contro il P.P.I.P. e non anche contro le due concessioni edilizie, è agevole osservare che il medesimo è, altresì, infondato, per la decisiva considerazione che la disciplina del nuovo P.R.G. del 1998, relativa al diverso e più contenuto indice di utilizzazione territoriale, non può applicarsi al Piano particolareggiato a suo tempo approvato dal Comune ed in corso di realizzazione.
E’ noto, infatti, che, secondo pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune può sempre modificare l’assetto territoriale configurato dal piano di attuazione di iniziativa privata (Piano di lottizzazione o Piano particolareggiato di Iniziative Privata), in relazione a nuove, sopravvenute esigenze, che possono essere della più svariata natura, ma, allorquando un procedimento lottizzatorio si sia concluso con la sottoscrizione e la trascrizione della relativa convenzione, nel dare un diverso assetto al territorio, ha il dovere di specificare le ragioni di pubblico interesse che hanno portato a modificare le valutazioni urbanistiche sul presupposto delle quali era stato, a suo tempo, approvato il piano esecutivo di iniziativa privata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.07.2005 n. 4018 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICACome insegnato da un condiviso indirizzo giurisprudenziale, la convenzione di lottizzazione (alla quale va equiparata quella in questione, ancorché conclusa prima dell’entrata in vigore della legge urbanistica), può essere unilateralmente ed autoritativamente modificata dal Comune, mediante una diversa regolamentazione dell’assetto di interessi consacrato nell’accordo.
L’intervenuta introduzione di un regime urbanistico ed edilizio della zona che ammette la sua edificazione implica, infatti, l’abolizione tacita (per l’evidente incompatibilità delle due confliggenti disposizioni) della previsione della convenzione che impediva qualsiasi intervento costruttivo nelle aree dalla stessa destinate a passaggio privato.
A fronte, in particolare, di una diversa regolamentazione dell’attività edilizia nella zona compresa nella convenzione urbanistica del 1939, con contestuale ampliamento delle sue possibilità edificatorie, non pare più invocabile, quale paradigma di assentibilità di un nuovo intervento edilizio, una clausola del predetto accordo pattuita nell’esclusivo interesse del Comune (poi dallo stesso diversamente amministrato) più di sessanta anni prima, sulla base di una disciplina urbanistica generale completamente diversa.
Né l’ammissibilità di una diversa regolamentazione unilaterale del contenuto della convenzione può essere negata sulla base della possibile obiezione della sua natura consensuale e bilaterale.
Anche prescindendo, infatti, dal rilievo che la possibilità della modifica delle previsioni di una convenzione urbanistica per effetto di un pi ano regolatore successivo è stata già riconosciuta in giurisprudenza, osserva, comunque, il Collegio che può giungersi alle medesime conclusioni tenuto conto che la sua natura di accordo sostitutivo del provvedimento autorizza l’amministrazione, nell’esercizio della facoltà accordatale dall’art. 11, comma 4, legge 07.08.1990, n. 241, a sciogliersi dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse (quali, nella fattispecie, diverse esigenze pianificatorie) ed a regolare unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della convenzione.
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2.- Come già rilevato, le parti controvertono sulla legittimità del permesso di costruire n. 828 del 2003 rilasciato dal Comune di Torino alla Novalesa (in seguito alla voltura dell’istanza inizialmente presentata dalla ISIM) ed avente ad oggetto la realizzazione di due fabbricati destinati a civile abitazione.
2.1- Il Tribunale di prima istanza ha riscontrato l’illegittimità del predetto titolo, in quanto contrastante sia con la convenzione urbanistica sottoscritta dagli originari proprietari dell’area (nella parte in cui si assumevano ivi diversi vincoli di inedificabilità), sia con la vigente disciplina urbanistica ed edilizia del Comune di Torino (e segnatamente con la disposizione delle NTA che limita le possibilità edificatorie nell’area in questione al 10% -nella specie superato- della superficie disponibile).
2.2- Tutti gli appellanti principali (così come la ricorrente incidentale ISIM), seppur con prospettazioni parzialmente diverse, negano, innanzitutto, la persistente vigenza dei vincoli assunti con la sottoscrizione, nel 1939, della convenzione urbanistica e contestano, comunque, ogni profilo di difformità del progetto assentito dalla vigente regolamentazione edilizia dell’area.
2.3- Il Condominio appellato difende, invece, il convincimento espresso dai primi giudici circa la sussistenza delle violazioni riscontrate, contesta la fondatezza delle ragioni assunte dagli appellanti a sostegno dei rispettivi ricorsi e ripropone le censure assorbite in prima istanza, concludendo per la conferma, se del caso con diversa motivazione, della decisione appellata.
3.- Essendo controverso, innanzitutto, il parametro cui riferire lo scrutinio di legittimità del titolo edilizio, occorre procedere alla preliminare individuazione del paradigma di legalità dell’attività edilizia nella zona interessata dal progetto controverso.
3.1- Deve, in proposito, escludersi l’assunzione della convenzione urbanistica del 1939 a parametro dell’assentibilità dell’intervento per un duplice ordine di considerazioni.
E’ stato, innanzitutto, dimostrato, con dovizia di allegazioni documentali e senza contestazioni da parte del Condominio appellato, che i vincoli di inedificabilità, valorizzati dal TAR per negare la legittimità del permesso di costruire, si riferiscono ad un’area (e segnatamente alla strada ed alla piazza destinate al passaggio) diversa da quella (contigua, ma laterale rispetto a quelle) direttamente interessata dall’intervento (come si ricava dal confronto del testo della convenzione con le planimetrie allegate al ricorso della Vema e della Novalesa).
Ma, anche prescindendo dal rilievo (peraltro decisivo) dell’estraneità dell’area in questione a quella interessata dagli impegni assunti con la convenzione urbanistica, deve parimenti negarsi al contenuto vincolante di quest’ultima ogni efficacia preclusiva dell’assenso in discussione.
Come, infatti, insegnato da un condiviso indirizzo giurisprudenziale, la convenzione di lottizzazione (alla quale va equiparata quella in questione, ancorché conclusa prima dell’entrata in vigore della legge urbanistica), può essere unilateralmente ed autoritativamente modificata dal Comune, mediante una diversa regolamentazione dell’assetto di interessi consacrato nell’accordo (Cons. St., Sez. V, 06.10.2003, n. 5870).
L’intervenuta introduzione di un regime urbanistico ed edilizio della zona che ammette la sua edificazione implica, infatti, l’abolizione tacita (per l’evidente incompatibilità delle due confliggenti disposizioni) della previsione della convenzione che impediva qualsiasi intervento costruttivo nelle aree dalla stessa destinate a passaggio privato.
A fronte, in particolare, di una diversa regolamentazione dell’attività edilizia nella zona compresa nella convenzione urbanistica del 1939, con contestuale ampliamento delle sue possibilità edificatorie, non pare più invocabile, quale paradigma di assentibilità di un nuovo intervento edilizio, una clausola del predetto accordo pattuita nell’esclusivo interesse del Comune (poi dallo stesso diversamente amministrato) più di sessanta anni prima, sulla base di una disciplina urbanistica generale completamente diversa.
Né l’ammissibilità di una diversa regolamentazione unilaterale del contenuto della convenzione può essere negata sulla base della possibile obiezione della sua natura consensuale e bilaterale.
Anche prescindendo, infatti, dal rilievo che la possibilità della modifica delle previsioni di una convenzione urbanistica per effetto di un pi ano regolatore successivo è stata già riconosciuta in giurisprudenza (Con. St., Sez. V, 24.11.1984, n. 836), osserva, comunque, il Collegio che può giungersi alle medesime conclusioni tenuto conto che la sua natura di accordo sostitutivo del provvedimento (Cass. Civ., SS. UU. 15.12.2000, n. 1262) autorizza l’amministrazione, nell’esercizio della facoltà accordatale dall’art. 11, comma 4, legge 07.08.1990, n. 241, a sciogliersi dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse (quali, nella fattispecie, diverse esigenze pianificatorie) ed a regolare unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della convenzione.
3.2- Ne consegue, in definitiva, che non è corretto assumere, quale parametro per l’assenso dell’attività edilizia in contestazione e, conseguentemente, per il giudizio di legittimità del permesso rilasciato, la prescrizione di una convenzione divenuta ormai inefficace, e che la verifica dell’assentibilità del progetto presentato dalla ISIM dev’essere, invece, compiuta con esclusivo riferimento alla diversa disciplina urbanistica ed edilizia dell’area in questione nel frattempo introdotta.
Va, quindi, individuato il paradigma della legalità dell’attività costruttiva controversa nel regime edilizio delle aree classificate come R3 (quale quella in questione), come dettagliato ed articolato nell’art. 8.12, 13 e 14 delle NTA del P.R.G. di Torino (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.01.2005 n. 222 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASe è vero, in termini generali, che in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, tuttavia un onere di motivazione si impone quando ricorrano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
Tra le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali la giurisprudenza ha incluso l’ipotesi dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
Laddove uno strumento urbanistico si renda necessario per adeguare la pianificazione urbanistica a sopravvenute norme di rango primario, la valutazione dell’affidamento ingenerato da precedenti convenzioni di lottizzazione va effettuata con minor rigore, in quanto i nuovi strumenti urbanistici non sono frutto di scelte discrezionali, ma hanno carattere necessitato.
In siffatta evenienza, nel comparare l’affidamento ingenerato da una convenzione di lottizzazione e la necessità di introdurre nuovi strumenti urbanistici, occorre motivare essenzialmente sulla impossibilità o estrema difficoltà di dare attuazione alle nuove norme urbanistiche con scelte alternative che non sacrifichino la preesistente convenzione di lottizzazione.
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4.1. In termini generali, si deve premettere quale deve essere l’ambito della motivazione di sopravvenuti strumenti urbanistici che vanifichino, come nella specie, il contenuto di preesistenti convenzioni di lottizzazione.
Secondo l’insegnamento di C. Stato, ad. plen., 22.12.1999, n. 24, se è vero, in termini generali, che in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso (C. Stato, sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; sez. IV, 19.01.2000, n. 245; sez. IV, 24.12.1999, n. 1943; sez. IV, 02.11.1995, n. 887, sez. IV, 25.02.1988, n. 99), essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, tuttavia un onere di motivazione si impone quando ricorrano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (C. Stato, sez. IV, 21.05.2004, n. 3314; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; sez. IV, 08.02.1999, n. 121).
Tra le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali la giurisprudenza ha incluso l’ipotesi dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
Sempre in diritto si deve osservare che laddove uno strumento urbanistico si renda necessario per adeguare la pianificazione urbanistica a sopravvenute norme di rango primario, la valutazione dell’affidamento ingenerato da precedenti convenzioni di lottizzazione va effettuata con minor rigore, in quanto i nuovi strumenti urbanistici non sono frutto di scelte discrezionali, ma hanno carattere necessitato.
In siffatta evenienza, nel comparare l’affidamento ingenerato da una convenzione di lottizzazione e la necessità di introdurre nuovi strumenti urbanistici, occorre motivare essenzialmente sulla impossibilità o estrema difficoltà di dare attuazione alle nuove norme urbanistiche con scelte alternative che non sacrifichino la preesistente convenzione di lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.12.2004 n. 8032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl piano di lottizzazione, nel sistema urbanistico vigente (cfr. in particolare l'art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765), assume innanzitutto la valenza di piano urbanistico di attuazione, ossia di pianificazione di dettaglio, con finalità di riservare essenzialmente le aree ed i tracciati per la viabilità e per le opere di interesse pubblico del nuovo insediamento non individuate già nello strumento generale.
In tale prospettiva, lo stesso non può porsi in contrasto col piano urbanistico di primo livello, al pari delle concessioni edilizie rilasciate in sua esecuzione.
Esso, inoltre, svolgendo una funzione di armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, è subordinato alle scelte discrezionali del programma pluriennale di attuazione, quale mezzo di graduazione nel tempo della trasformazione del territorio.
Inoltre, esso è piano esecutivo di urbanizzazione, costituente cioè, mediante il convenzionamento, un programma di realizzazione concreta delle relative opere per mezzo del pagamento di contributi o dell'esecuzione diretta delle opere stesse, ed altresì mediante la cessione delle aree in tutto o in parte necessarie all'urbanizzazione.
Infine, detto piano ha natura di preconcessione edilizia, in quanto nei piani di lottizzazione vengono, di norma, ad essere individuati elementi di maggiore dettaglio di quelli previsti dalla legge.
Alla stregua di quanto sopra evidenziato, i soggetti che predispongono un piano di lottizzazione, i titolari di concessione edilizia, i committenti e i costruttori hanno l'obbligo di controllare la conformità dell'intera lottizzazione e/o delle singole opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di pianificazione, perché l'interesse protetto dalla legge n. 47 del 1985 non è soltanto quello di assicurare che la modifica del territorio avvenga sotto il controllo della p.a., ma è altresì quello di garantire che tale sviluppo si verifichi in piena aderenza al programmato assetto urbanistico ed il rilascio della concessione edilizia è subordinato all'indagine di conformità alla normativa urbanistica in genere ed ai piani regolatori.
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Si è visto come il piano di lottizzazione abbia, anzitutto, in ossequio alla sua funzione di piano urbanistico esecutivo, un contenuto simile a quello dello strumento urbanistico generale, seppure in relazione alla specifica destinazione della zona.
Esso deve dunque contenere anche il tracciato, sia delle aree destinate a strade e ad altre opere di urbanizzazione, che dei lotti edificabili e risulta pertanto costituito essenzialmente da due documenti: la planimetria, contenente la rappresentazione grafica dei contenuti e delle destinazioni; la convenzione, che codifica gli impegni assunti dal lottizzatore sia in ordine alla esecuzione delle opere di urbanizzazione che alle cessioni di aree e al versamento di contributi, che eventualmente alle modalità della futura edificazione.
In sede di verifica della necessità del piano di lottizzazione e della porzione territoriale in cui si colloca l'intervento, occorre tener conto del fatto che le opere di urbanizzazione primaria (viabilità, parcheggi, fognature ecc.), pur venendo in rilievo ai fini del rilascio della concessione in una funzione servente rispetto all'edificio da realizzare, nella prospettiva pianificatoria non si esauriscono in strutture interne al lotto, mentre le opere di urbanizzazione secondaria (asili, scuole, mercati ecc.) sono per loro natura strutture a servizio di una parte del territorio e quindi vanno distribuite al suo interno.
L'esigenza della redazione di un piano di lottizzazione per la realizzazione di un insediamento edilizio lascia integra la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica (cfr. Cons. St., sez. IV, 14.04.1998, n. 609; nello stesso senso, cfr. Cass., sez. I, 08.06.1995, n. 6482, secondo cui le convenzioni di lottizzazione costituiscono contratti di natura peculiare, che lasciano integra, nonostante eventuali patti contrari, la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica, alla stregua di esigenze sopravvenute ed a maggior ragione per l'obbligatorio adeguamento alle modifiche normative).
A fortiori viene poi in risalto la discrezionalità esercitabile dal comune quando un piano regolatore manchi (ma ciò non si verifica nel caso di specie).
L'approvazione del piano di lottizzazione non è atto dovuto, pur se conforme al piano regolatore generale (come preteso nel caso di specie dall’odierna appellata con riguardo al piano regolatore vigente), o al programma di fabbricazione, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell'autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a valutare l'opportunità di dare attuazione -in un certo momento del tempo ed in certe condizioni- alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza, di modo che l'attuazione dello strumento generale può, per evidenti motivi di opportunità, essere articolata per tempi, o per modalità, in relazione alle esigenze dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza dello strumento generale.
Valga infine sottolineare che la posizione del proprietario di un fondo che proponga domanda di approvazione di un progetto di piano di lottizzazione del fondo stesso ha natura e consistenza di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, perché il rilascio dell'approvazione costituisce espressione dei poteri autoritativi e discrezionali, che la amministrazione pubblica esercita per la regolamentazione degli insediamenti abitativi e dell'assetto del territorio comunale.
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Va rimessa al Consiglio Comunale la valutazione di qualsiasi richiesta presentata da privati in ordine alla lottizzazione di una parte del territorio, attesa la funzione di strumento particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni di P.R.G., che il Piano di lottizzazione presentato da privati, al pari del resto dei piani di iniziativa pubblica, riveste per la migliore utilizzazione a fini urbanistici del territorio comunale.
La giurisprudenza ha poi chiarito che il provvedimento negativo dovrà essere congruamente istruito e motivato (il che è in linea generale controverso nella presente fattispecie), quanto ai singoli profili considerati ed all'iter logico-giuridico seguito, con una valutazione comparata degli interessi pubblici coinvolti, in modo da consentire al richiedente di rendersi conto degli ostacoli, che si frappongono alla estrinsecazione del suo ius aedificandi.
Naturalmente, la motivazione non potrà essere generica e non potrà far riferimento ad esigenze che esulino dalle evidenze urbanistiche ed edilizie, tradendo intenti di natura politica, ma dovrà tener conto esclusivamente del contrasto del progetto con le prescrizioni di legge, di regolamento o degli strumenti urbanistici vigenti, o anche della intervenuta modifica della disciplina delle aree interessate al Piano ad opera di un nuovo P.R.G. o sue varianti, adottato e non ancora approvato.
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3.1 - Il piano di lottizzazione, nel sistema urbanistico vigente (cfr. in particolare l'art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765), assume innanzitutto la valenza di piano urbanistico di attuazione (cfr. Cons. St., sez. IV: 02.12.1999, n. 1769 e 16.03.1999, n. 286), ossia di pianificazione di dettaglio, con finalità di riservare essenzialmente le aree ed i tracciati per la viabilità e per le opere di interesse pubblico del nuovo insediamento non individuate già nello strumento generale (cfr. in termini, ex plurimis e da ultimo, Cons. St.: sez. IV, 03.11.1998, n. 1412; sez. II, 05.03.1997, n. 1463/1996).
In tale prospettiva, lo stesso non può porsi in contrasto col piano urbanistico di primo livello, al pari delle concessioni edilizie rilasciate in sua esecuzione (cfr. sez. IV, n. 1769 del 1999, cit.).
Esso, inoltre, svolgendo una funzione di armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, è subordinato alle scelte discrezionali del programma pluriennale di attuazione, quale mezzo di graduazione nel tempo della trasformazione del territorio (cfr. Cons. St., sez. IV, 19.11.1997, n. 1297).
Inoltre, esso è piano esecutivo di urbanizzazione, costituente cioè, mediante il convenzionamento, un programma di realizzazione concreta delle relative opere per mezzo del pagamento di contributi o dell'esecuzione diretta delle opere stesse, ed altresì mediante la cessione delle aree in tutto o in parte necessarie all'urbanizzazione (cfr. sez. IV, n. 286 del 1999, cit.).
Infine, detto piano ha natura di preconcessione edilizia, in quanto nei piani di lottizzazione vengono, di norma, ad essere individuati elementi di maggiore dettaglio di quelli previsti dalla legge (cfr. sez. IV, n. 286 del 1999, cit.).
Alla stregua di quanto sopra evidenziato, i soggetti che predispongono un piano di lottizzazione, i titolari di concessione edilizia, i committenti e i costruttori hanno l'obbligo di controllare la conformità dell'intera lottizzazione e/o delle singole opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di pianificazione, perché l'interesse protetto dalla legge n. 47 del 1985 non è soltanto quello di assicurare che la modifica del territorio avvenga sotto il controllo della p.a., ma è altresì quello di garantire che tale sviluppo si verifichi in piena aderenza al programmato assetto urbanistico ed il rilascio della concessione edilizia è subordinato all'indagine di conformità alla normativa urbanistica in genere ed ai piani regolatori (Cassazione penale, sez. III, 29.01.2001).
3.2 - Si è visto come il piano di lottizzazione abbia, anzitutto, in ossequio alla sua funzione di piano urbanistico esecutivo, un contenuto simile a quello dello strumento urbanistico generale, seppure in relazione alla specifica destinazione della zona.
Esso deve dunque contenere anche il tracciato, sia delle aree destinate a strade e ad altre opere di urbanizzazione, che dei lotti edificabili e risulta pertanto costituito essenzialmente da due documenti: la planimetria, contenente la rappresentazione grafica dei contenuti e delle destinazioni; la convenzione, che codifica gli impegni assunti dal lottizzatore sia in ordine alla esecuzione delle opere di urbanizzazione che alle cessioni di aree e al versamento di contributi, che eventualmente alle modalità della futura edificazione (cfr. sez. IV, n. 286 del 1999, cit.).
Sotto tale angolazione, va precisato che, in sede di verifica della necessità del piano di lottizzazione e della porzione territoriale in cui si colloca l'intervento, occorre tener conto del fatto che le opere di urbanizzazione primaria (viabilità, parcheggi, fognature ecc.), pur venendo in rilievo ai fini del rilascio della concessione in una funzione servente rispetto all'edificio da realizzare, nella prospettiva pianificatoria non si esauriscono in strutture interne al lotto, mentre le opere di urbanizzazione secondaria (asili, scuole, mercati ecc.) sono per loro natura strutture a servizio di una parte del territorio e quindi vanno distribuite al suo interno (cfr. Cons. St., sez. IV, 01.02.1995, n. 162).
L'esigenza della redazione di un piano di lottizzazione per la realizzazione di un insediamento edilizio lascia integra la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica (cfr. Cons. St., sez. IV, 14.04.1998, n. 609; nello stesso senso, cfr. Cass., sez. I, 08.06.1995, n. 6482, secondo cui le convenzioni di lottizzazione costituiscono contratti di natura peculiare, che lasciano integra, nonostante eventuali patti contrari, la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica, alla stregua di esigenze sopravvenute ed a maggior ragione per l'obbligatorio adeguamento alle modifiche normative).
A fortiori viene poi in risalto la discrezionalità esercitabile dal comune quando un piano regolatore manchi (ma ciò non si verifica nel caso di specie): v. Cons. St., sez. IV, 02.03.2001, n. 1181.
L'approvazione del piano di lottizzazione non è atto dovuto, pur se conforme al piano regolatore generale (come preteso nel caso di specie dall’odierna appellata con riguardo al piano regolatore vigente), o al programma di fabbricazione, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell'autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a valutare l'opportunità di dare attuazione -in un certo momento del tempo ed in certe condizioni- alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza, di modo che l'attuazione dello strumento generale può, per evidenti motivi di opportunità, essere articolata per tempi, o per modalità, in relazione alle esigenze dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza dello strumento generale (cfr. Cons. St., sez. IV, 24.10.1997, n. 1223).
Quanto al suo procedimento di formazione, nella Regione Puglia, “per l'adozione e l'approvazione del Piano di lottizzazione si applica la disciplina di cui all'art. 21 della presente legge” (comma 3 dell’art. 27 della L.R. 31.05.1980, n. 56 “Tutela ed uso del territorio”) e dunque, in particolare, esso è adottato “previo parere obbligatorio del dirigente dell'Ufficio tecnico comunale corredato della scheda di controllo di cui al successivo art. 35 della presente legge, nonché previo parere obbligatorio delle Commissioni urbanistica e/o edilizia comunale” (comma 1 dell’art. 21, cit.).
Valga infine sottolineare che la posizione del proprietario di un fondo che proponga domanda di approvazione di un progetto di piano di lottizzazione del fondo stesso ha natura e consistenza di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, perché il rilascio dell'approvazione costituisce espressione dei poteri autoritativi e discrezionali, che la amministrazione pubblica esercita per la regolamentazione degli insediamenti abitativi e dell'assetto del territorio comunale (Cassazione civile, sez. un., 07.08.1998, n. 7751).
3.3 - È alla luce dei suesposti principi che deve essere allora scrutinato il potere di diniego di autorizzazione alla formazione del piano.
Anzitutto, l’art. 42 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) stabilisce, al secondo comma, lett. b), che rientrano nella esclusiva competenza del Consiglio Comunale, tra l’altro, “… piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”.
Pertanto è a tale organo che va rimessa la valutazione di qualsiasi richiesta presentata da privati in ordine alla lottizzazione di una parte del territorio, attesa la funzione di strumento particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni di P.R.G., che il Piano di lottizzazione presentato da privati, al pari del resto dei piani di iniziativa pubblica, riveste per la migliore utilizzazione a fini urbanistici del territorio comunale.
La giurisprudenza ha poi chiarito che il provvedimento negativo dovrà essere congruamente istruito e motivato (il che è in linea generale controverso nella presente fattispecie), quanto ai singoli profili considerati ed all'iter logico-giuridico seguito (cfr. Cons. St., sez. IV: 07.03.1997, n. 202 e 18.04.1989, n. 259), con una valutazione comparata degli interessi pubblici coinvolti, in modo da consentire al richiedente di rendersi conto degli ostacoli, che si frappongono alla estrinsecazione del suo ius aedificandi.
Naturalmente, la motivazione non potrà essere generica e non potrà far riferimento ad esigenze che esulino dalle evidenze urbanistiche ed edilizie, tradendo intenti di natura politica (cfr. Cons. St.: sez. II, 06.11.1996, n. 938; sez. IV, 01.12.1981, n. 946; peraltro tale evenienza non ricorre nel caso di specie), ma dovrà tener conto esclusivamente del contrasto del progetto con le prescrizioni di legge, di regolamento o degli strumenti urbanistici vigenti, o anche, nella Regione Puglia, della intervenuta modifica della disciplina delle aree interessate al Piano ad opera di un nuovo P.R.G. o sue varianti, adottato e non ancora approvato (ultimo comma dell’art. 21 della L.R. 31.05.1980, n. 56 “Tutela ed uso del territorio”) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2004 n. 957 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Questa S.C. ha avuto più volte occasione di affermare che le convenzioni edilizie non privano il Comune del potere di imprimere una diversa destinazione alle aree dalle stesse interessate.
Tale orientamento si è manifestato con riferimento ad ipotesi in cui il Comune aveva impresso una diversa destinazione alle aree con riferimento alle quali, nelle convenzioni urbanistiche, era stata prevista la possibilità di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di non estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la cessione al Comune da parte del privato in previsione della realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione.
In senso contrario a tale orientamento non potrebbe invocarsi la sent. 16.02.1984 n. 1158, la quale ha affermato che, con riguardo alla cessione di un'area in favore del Comune, prevista da una convenzione di lottizzazione successivamente divenuta irrealizzabile per contrasto con nuovi strumenti urbanistici, deve escludersi che il privato, a tutela del proprio preteso diritto alla retrocessione dell'immobile, possa chiedere ed ottenere dal giudice ordinario il sequestro dell'immobile medesimo, in quanto tale provvedimento verrebbe ad incidere, indebitamente su atti amministrativi.
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Va, in primo luogo, osservato che il ricorrente ipotizza una nullità del negozio per difetto sopravvenuto della causa, la cui ammissibilità nel nostro ordinamento è da dimostrare.
Sempre su un piano generale non si può, poi, non rilevare la singolarità dell'atteggiamento del ricorrente, il quale pretende che venga dichiarata la nullità della sola clausola della convenzione urbanistica, contratto, con la quale, sostanzialmente in corrispettivo del rilascio della concessione edilizia, era stata prevista la cessione di un zona di terreno di sua proprietà, senza mettere in discussione anche la controprestazione del Comune (il rilascio della concessione edilizia).
Va, infine, rilevato che questa S.C. ha avuto più volte occasione di affermare che le convenzioni edilizie non privano il Comune del potere di imprimere una diversa destinazione alle aree dalle stesse interessate (sent. 09.03.1990 n. 1917; 25.07.1980 n. 4833).
Tale orientamento si è manifestato con riferimento ad ipotesi in cui il Comune aveva impresso una diversa destinazione alle aree con riferimento alle quali, nelle convenzioni urbanistiche, era stata prevista la possibilità di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di non estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la cessione al Comune da parte del privato in previsione della realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione.
In senso contrario a tale orientamento non potrebbe invocarsi la sent. 16.02.1984 n. 1158, la quale ha affermato che, con riguardo alla cessione di un'area in favore del Comune, prevista da una convenzione di lottizzazione successivamente divenuta irrealizzabile per contrasto con nuovi strumenti urbanistici, deve escludersi che il privato, a tutela del proprio preteso diritto alla retrocessione dell'immobile, possa chiedere ed ottenere dal giudice ordinario il sequestro dell'immobile medesimo, in quanto tale provvedimento verrebbe ad incidere, indebitamente su atti amministrativi.
La S.C., nella specie, infatti, era chiamata a pronunciarsi su una questione di giurisdizione ed ha affermato che il "preteso" diritto alla retrocessione non avrebbe comunque giustificato la possibilità di chiedere un provvedimento di sequestro (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 28.08.2000 n. 11208).

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