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AGGIORNAMENTO AL 06.11.2015 |
ã |
Ancora sulla quota annuale di iscrizione
all'ordine/albo professionale da parte dei tecnici
pubblici dipendenti: |
la Ragioneria Generale
dello Stato dice la propria in risposta ad un
quesito di un comune. Di seguito il sunto
giornalistico e la nota ministeriale: |
PUBBLICO IMPIEGO: Il legale non paga per l’Albo.
Dipendenti pubblici. Due le condizioni: elenco speciale e
rapporto subordinato.
La Ragioneria
generale dello Stato ha emesso un parere sulla competenza a
pagare l'iscrizione dei dipendenti pubblici agli albi
professionali.
Dopo la sentenza della Corte di Cassazione
7776/2015, e dopo che alcune sezioni regionali della Corte dei
conti hanno ritenuto di non entrare nel merito, con la
nota
19.10.2015 n. 79309 di prot. in risposta a una specifica
richiesta di un comune, vengono forniti i chiarimenti
operativi per gli enti locali.
Affinché i costi della tassa
di iscrizione all'albo degli avvocati possano gravare
sull'ente pubblico (e quindi essere rimborsati costituendo
peraltro spese di personale), sono necessarie due
contemporanee condizioni. Innanzitutto deve esistere
carattere obbligatorio dell'iscrizione nell'elenco speciale
annesso all'albo ai fini dell'espletamento dell'attività del
professionista.
In secondo luogo vi deve essere il carattere esclusivo
dell'esercizio dell'attività professionale in regime di
subordinazione, in cui l'ente locale è l'unico soggetto
beneficiario dei risultati di detta attività.
Il parere si occupa anche di altre categorie di dipendenti:
ingegneri, architetti, geometri, assistenti sociali. In
questi casi l'iscrizione al relativo albo professionale non
assume, in via generale, carattere obbligatorio ai fini
dell'espletamento delle attività cui soni preposti i
lavoratori, né sussistono, elenchi speciali sul modello
dell'albo degli avvocati. Quindi, viene a mancare la prima
condizione sopra elencata e l'ente locale non può rimborsare
la tassa di iscrizione all'albo professionale.
La Rgs,
spiega, altresì che per i responsabili degli uffici tecnici
non è richiesta l'iscrizione all'albo per la redazione di
progetti a favore dell'amministrazione da cui dipendono e
questo in virtù dell'articolo 90, comma 1, lett. a), del
decreto legislativo 163/2006, in quanto è sufficiente il
rapporto di servizio esistente e la conseguente
incardinazione nella struttura dell'ente
(articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
Ebbene, nel confermare la nostra tesi siccome
argomentata -da ultimo- nell'AGGIORNAMENTO
AL 26.10.2015, tuttavia dobbiamo
evidenziare che la risposta fornita non risolve il dilemma in materia edilizio-urbanistica. E bene ha fatto la R.G.S. a
scrivere per conoscenza al Dipartimento della
Funzione Pubblica, evidentemente più titolato in
materia per
porre la parola "fine" alla questione.
Non ci resta che attendere -allora- che si pronunzi,
debitamente interrogato in termini -da parte di un
comune- di recente.
06.11.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
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IN EVIDENZA |
Tecnici comunali, okkio all'abuso di atti
d'ufficio!! |
Due
le fattispecie ex art. 328 c.p.:
1^- Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto
del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di
sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene
e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è
punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
2^- Fuori dei casi previsti dal primo comma, il
pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico
servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di
chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo
ufficio e non risponde per esporre le ragioni del
ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno
o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta
deve essere redatta in forma scritta ed il termine
di trenta giorni decorre dalla ricezione della
richiesta stessa.
Circa la 1^ fattispecie, un responsabile dell'UTC ha
compiuto una inazione a fronte di una richiesta di
compimento di un atto di ufficio dettato da urgenti
ragioni di giustizia, proveniente da un organo di
polizia giudiziaria e connesso ad un bene di valore
primario tutelato dall'ordinamento (repressione dei
reati in materia edilizia).
Circa la 2^ fattispecie, sempre un responsabile dell'UTC è
stato condannato poiché la fattispecie di cui
all'art. 328, comma 2, c.p., incrimina non tanto
l'omissione dell'atto richiesto, quanto la mancata
indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta
giorni dall'istanza di chi vi abbia interesse.
L'omissione dell'atto, in sostanza, non comporta ex
se la punibilità dell'agente, poiché questa scatta
soltanto se il pubblico ufficiale (o l'incaricato di
pubblico servizio), oltre a non avere compiuto
l'atto, non risponde per esporre le ragioni del
ritardo: viene punita, in tal modo, non già la
mancata adozione dell'atto, che potrebbe rientrare
nel potere discrezionale della pubblica
amministrazione, bensì l'inerzia del funzionario, la
quale finisce per rendere poco trasparente
l'attività amministrativa. |
C'è sempre da imparare ... e, soprattutto, affinare
"la
preparazione, l'efficienza, la prudenza e lo zelo"
nello svolgimento quotidiano dei propri incombenti
d'istituto!! |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Rifiuto
di atti d'ufficio: quando il silenzio del
Responsabile dell'Ufficio tecnico integra reato.
La contestazione in esame
riguarda la autonoma fattispecie di cui al primo
comma dell'art. 328 cod. pen. nella quale il
pubblico ufficiale indebitamente (senza cioè che ne
sia rinvenuta una giustificazione nella legge)
rifiuta un atto del suo ufficio incidente su beni di
interesse primario (giustizia, sicurezza pubblica,
ordine pubblico, igiene e sanità), che deve essere
compiuto senza ritardo.
La norma ora richiamata
richiede, quindi, che l'atto rifiutato sia
"qualificato" e "indifferibile".
L'espressione "per ragioni di....", che figura nella
norma incriminatrice, denota la causa dell'atto,
espressamente richiamata dalle norme che ne regolano
il compimento o desumibile da queste. L'urgenza di
compiere l'atto, proprio perché questo va ad
incidere su settori essenziali del vivere civile
(particolari ragioni alle quali si è accennato), è
imposta dal semplice verificarsi di una situazione
corrispondente a quella, astrattamente prevista, in
funzione della quale il pubblico ufficiale (o
l'incaricato di un pubblico servizio) deve
immediatamente attivarsi, per non pregiudicare il
fine alla cui realizzazione l'atto è preordinato;
l'indifferibilità dell'atto si valuta in base
all'entità del danno, di tipo naturalistico o
giuridico, che il ritardo potrebbe provocare.
All'imputato si è contestato il rifiuto di atti del
suo ufficio, che, per ragioni di giustizia, avrebbe
dovuto compiere senza ritardo.
Ed invero, per provvedimento dato
per ragione di giustizia deve intendersi qualunque
provvedimento od ordine autorizzato da una norma
giuridica per l'attuazione del diritto obiettivo e
diretto a rendere possibile o più agevole l'attività
del giudice, del Pubblico Ministero o degli
ufficiali di polizia giudiziaria: sono infatti da
comprendere tra le ragioni di giustizia non solo
quelle inerenti all'attività giurisdizionale vera e
propria, ma anche quelle che attengono all'attività
d'indagine del P.M. o all'attività di polizia
rivolta all'accertamento del reato o all'attuazione
del diritto obiettivo, nel pubblico interesse.
Nella specie, si evince che siamo
in presenza di una inazione dell'imputato a fronte
di una richiesta di compimento di un atto di ufficio
dettato da urgenti ragioni di giustizia, proveniente
da un organo di polizia giudiziaria e connesso ad un
bene di valore primario tutelato dall'ordinamento
(repressione dei reati in materia edilizia).
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RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, il Giudice
dell'udienza preliminare del Tribunale di Palmi
dichiarava non luogo a procedere nei confronti di
Gi.Ge. per il reato di cui all'art. 328, comma
primo, cod. pen., con la formula "perché il fatto
non è previsto dalla legge come reato".
Al Ge. era stato contestato di
essersi rifiutato, quale responsabile dell'Ufficio
tecnico del Comune di Palmi, di riferire, a seguito
di richiesta della polizia giudiziaria della polizia
municipale di Palmi, se un'opera edilizia realizzata
in detto Comune fosse penalmente rilevante.
Da quanto risulta dalla sentenza impugnata, a
seguito di un sopralluogo effettuato dal personale
del Comando della Polizia municipale di Palmi,
unitamente all'imputato, veniva accertata che era in
corso di realizzazione da parte di un privato
un'opera muraria in cemento armato, senza alcuna
autorizzazione. Il giorno seguente, la Polizia
municipale inoltrava, senza ricevere alcuna
risposta, richiesta all'imputato di riferire con
sollecitudine se tale opera fosse penalmente
rilevante.
Il Giudice dell'udienza preliminare, riportandosi ad
un precedente giurisprudenziale del giudice di
legittimità, riteneva che il fatto ascritto
all'imputato non fosse previsto dalla legge come
reato, in quanto la fattispecie legale prevista
dall'art. 328 cod. pen. doveva ritenersi applicabile
esclusivamente ai rapporti tra la pubblica
amministrazione ed i privati.
2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per
cassazione il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Palmi, chiedendone l'annullamento per
violazione della legge penale e mancanza, manifesta
illogicità e contraddittorietà della motivazione
(art. 606, comma 1, lett. b ed e cod. proc. pen.).
Lamenta il ricorrente che il giudice avrebbe
erroneamente applicato un precedente
giurisprudenziale riferito alla diversa fattispecie
di cui al secondo comma dell'art. 328 cod. pen. e
comunque smentito da altre pronunce di segno
contrario.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
2. Gli argomenti posti a fondamento della decisione
non sono corretti sotto il profilo giuridico.
Il precedente di legittimità richiamato dalla
sentenza impugnata (Sez. 6, n. 2351 del 06/02/1998 -
dep. 23/02/1998, Schillizzi A, Rv. 209978) si
riferiva infatti a ben diversa situazione fattuale,
essendosi pronunciata la Cassazione in merito
all'applicabilità del secondo comma dell'art. 328
c.p. ai rapporti tra pubbliche amministrazioni.
Il caso sottoposto alla Suprema Corte riguardava
invero una fattispecie di indebito rifiuto di un
atto dell'ufficio che investiva il rapporto tra
uffici amministrativi, fondato sul mero interesse
dell'ufficio richiedente a promuovere il
procedimento previsto dalla norma penale (richiesta,
provvedimento o obbligo di risposta), sprovvisto di
interesse qualificato all'adozione del richiesto
atto amministrativo.
La contestazione in esame riguarda
invece la autonoma fattispecie di cui al primo comma
dell'art. 328 cod. pen. nella quale il pubblico
ufficiale indebitamente (senza cioè che ne sia
rinvenuta una giustificazione nella legge) rifiuta
un atto del suo ufficio incidente su beni di
interesse primario (giustizia, sicurezza pubblica,
ordine pubblico, igiene e sanità), che deve essere
compiuto senza ritardo.
La norma ora richiamata richiede,
quindi, che l'atto rifiutato sia "qualificato"
e "indifferibile". L'espressione "per
ragioni di....", che figura nella norma
incriminatrice, denota la causa dell'atto,
espressamente richiamata dalle norme che ne regolano
il compimento o desumibile da queste. L'urgenza di
compiere l'atto, proprio perché questo va ad
incidere su settori essenziali del vivere civile
(particolari ragioni alle quali si è accennato), è
imposta dal semplice verificarsi di una situazione
corrispondente a quella, astrattamente prevista, in
funzione della quale il pubblico ufficiale (o
l'incaricato di un pubblico servizio) deve
immediatamente attivarsi, per non pregiudicare il
fine alla cui realizzazione l'atto è preordinato;
l'indifferibilità dell'atto si valuta in base
all'entità del danno, di tipo naturalistico o
giuridico, che il ritardo potrebbe provocare.
All'imputato Ge. si è contestato il rifiuto di atti
del suo ufficio, che, per ragioni di giustizia,
avrebbe dovuto compiere senza ritardo.
Ed invero, per provvedimento dato
per ragione di giustizia deve intendersi qualunque
provvedimento od ordine autorizzato da una norma
giuridica per l'attuazione del diritto obiettivo e
diretto a rendere possibile o più agevole l'attività
del giudice, del Pubblico Ministero o degli
ufficiali di polizia giudiziaria: sono infatti da
comprendere tra le ragioni di giustizia non solo
quelle inerenti all'attività giurisdizionale vera e
propria, ma anche quelle che attengono all'attività
d'indagine del P.M. o all'attività di polizia
rivolta all'accertamento del reato o all'attuazione
del diritto obiettivo, nel pubblico interesse.
Nella specie, dagli elementi fattuali desunti dalla
sentenza impugnata, si evince che
siamo in presenza di una inazione dell'imputato a
fronte di una richiesta di compimento di un atto di
ufficio dettato da urgenti ragioni di giustizia,
proveniente da un organo di polizia giudiziaria e
connesso ad un bene di valore primario tutelato
dall'ordinamento (repressione dei reati in materia
edilizia).
Alla luce di quanto premesso, la sentenza impugnata
deve essere annullata, con rinvio al Tribunale di
Palmi affinché, nel rispetto dell'art. 623, comma 1,
lett. d), cod. proc. pen. provveda a un nuovo
giudizio, attenendosi ai principi di diritto
enunciati
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 22.10.2015 n. 44127 - udienza).
---------------
Art. 328 c.p. - Rifiuto di atti d'ufficio.
Omissione
1. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto
del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di
sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene
e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è
punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
2. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio, che entro
trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia
interesse non compie l'atto del suo ufficio e non
risponde per esporre le ragioni del ritardo, è
punito con la reclusione fino ad un anno o con la
multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere
redatta in forma scritta ed il termine di trenta
giorni decorre dalla ricezione della richiesta
stessa. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sul
fatto che il pubblico dipendente non risponde, ad
istanza, nei successivi 30 gg..
In tema di delitto di omissione di atti
d'ufficio, il formarsi del silenzio-rifiuto alla
scadenza del termine di trenta giorni dalla
richiesta del privato costituisce un inadempimento
integrante la condotta omissiva richiesta per la
configurazione della fattispecie incriminatrice
(art. 328, comma
2, c.p.).
La fattispecie di cui
all'art. 328, comma 2, c.p., incrimina non tanto
l'omissione dell'atto richiesto, quanto la mancata
indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta
giorni dall'istanza di chi vi abbia interesse.
L'omissione dell'atto, in sostanza, non comporta ex
se la punibilità dell'agente, poiché questa scatta
soltanto se il pubblico ufficiale (o l'incaricato di
pubblico servizio), oltre a non avere compiuto
l'atto, non risponde per esporre le ragioni del
ritardo: viene punita, in tal modo, non già la
mancata adozione dell'atto, che potrebbe rientrare
nel potere discrezionale della pubblica
amministrazione, bensì l'inerzia del funzionario, la
quale finisce per rendere poco trasparente
l'attività amministrativa.
In tal senso, la stessa formulazione della norma,
che utilizza la congiunzione "e", delinea una
equiparazione ex lege dell'omessa risposta che
illustra le ragioni del ritardo alla mancata
adozione dell'atto richiesto.
Ne discende, conclusivamente, che
la richiesta scritta di cui all'art. 328,
comma secondo, cod. pen., assume la natura e la
funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo
la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento
dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo
impediscono, con il logico corollario che il reato
si "consuma" quando, in presenza di tale
presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni
senza che l'atto richiesto sia stato compiuto, o
senza che il mancato compimento sia stato
giustificato.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 27.10.2014 la Corte
d'appello di Messina, in riforma della sentenza
assolutoria emessa dal Tribunale di Barcellona P.G.
in data 25.02.2010, ha dichiarato Ci.Do., nella sua
qualità di responsabile dell'Ufficio tecnico del
Comune di Santa Lucia del Mela, colpevole del
delitto di cui all'art. 328, comma 2, c.p., per
avere omesso di comunicare a Me.Se. l'esito di
analisi chimiche effettuate sulla natura inquinante
delle acque di scolo che attraversavano un fondo di
sua proprietà, malgrado la richiesta del 27.12.2007
e la successiva diffida del 21.04.2008,
condannandolo alla pena di euro 400,00 di multa.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è in parte fondato e va pertanto
accolto nei limiti e per gli effetti di seguito
esposti e precisati.
2. Il primo, il terzo ed il quarto motivo di
doglianza sono inammissibili per manifesta
infondatezza, poiché le relative censure sono state
prospettate sulla base del richiamo ad un isolato
precedente del 1998, rimasto del tutto superato
dalla successiva evoluzione della giurisprudenza di
legittimità.
Al riguardo, invero, deve ribadirsi la pacifica
linea interpretativa tracciata da questa Suprema
Corte, che ha ormai da tempo stabilito il principio
secondo cui, in tema di delitto di
omissione di atti d'ufficio, il formarsi del
silenzio-rifiuto alla scadenza del termine di trenta
giorni dalla richiesta del privato costituisce un
inadempimento integrante la condotta omissiva
richiesta per la configurazione della fattispecie
incriminatrice
(Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, dep. 13/11/2013,
Rv. 257706; Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep.
2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n. 5691 del
06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
Rispetto a tale indirizzo dominante, l'unico
precedente giurisprudenziale contrario, cui ha fatto
riferimento il ricorrente, non può essere sotto
alcun profilo condiviso in quanto, come più volte
evidenziato in questa Sede, sovrappone la questione
del rimedio apprestato dall'ordinamento contro
l'inerzia della pubblica amministrazione
-consentendo con la finzione del silenzio-rifiuto
che il cittadino possa procedere ad impugnazione-
con i diversi aspetti problematici inerenti la
responsabilità penale del pubblico funzionario.
Senza dire che, con l'esperibilità dei rimedi
giurisdizionali avverso il silenzio-rifiuto, non
soddisfano neppure interamente le esigenze di tutela
nei confronti della pubblica amministrazione (basti
pensare al vizio di merito dell'atto
amministrativo).
La fattispecie di cui all'art. 328,
comma 2, c.p., incrimina non tanto l'omissione
dell'atto richiesto, quanto la mancata indicazione
delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni
dall'istanza di chi vi abbia interesse. L'omissione
dell'atto, in sostanza, non comporta ex se la
punibilità dell'agente, poiché questa scatta
soltanto se il pubblico ufficiale (o l'incaricato di
pubblico servizio), oltre a non avere compiuto
l'atto, non risponde per esporre le ragioni del
ritardo: viene punita, in tal modo, non già la
mancata adozione dell'atto, che potrebbe rientrare
nel potere discrezionale della pubblica
amministrazione, bensì l'inerzia del funzionario, la
quale finisce per rendere poco trasparente
l'attività amministrativa.
In tal senso, la stessa formulazione della norma,
che utilizza la congiunzione "e", delinea una
equiparazione ex lege dell'omessa risposta
che illustra le ragioni del ritardo alla mancata
adozione dell'atto richiesto
(v., in motivazione, Sez. 6, 22.06.2011, n. 43647).
Ne discende, conclusivamente, che
la richiesta scritta di cui all'art. 328, comma
secondo, cod. pen., assume la natura e la funzione
tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa
essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto
o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono,
con il logico corollario che il reato si "consuma"
quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso
il termine di trenta giorni senza che l'atto
richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato
compimento sia stato giustificato
(Sez. 6, 15.01.2014-20.01.2014, n. 2331).
Con riferimento ai su indicati motivi di doglianza,
pertanto, la decisione impugnata ha fatto buon
governo delle regole stabilite da questa Suprema
Corte, ritenendo la condotta in contestazione idonea
ad integrare gli estremi del reato omissivo sul
pacifico rilievo, in punto di fatto, che la lettera
di diffida e messa in mora del 21.04.2008,
nonostante fosse direttamente rivolta al Sindaco,
era stata da questi inoltrata, il successivo
30.04.2008, al responsabile del Servizio urbanistico
tecnico, con l'esplicito "invito a darne
immediato riscontro e relativa comunicazione al
sottoscritto", così ponendolo in condizione di
conoscere l'oggetto dell'incarico da adempiere, a
lui affidato nella rispettiva qualità
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 06.10.2015 n. 42610 - udienza).
---------------
Art. 328 c.p. - Rifiuto di atti d'ufficio.
Omissione
1. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio,
che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio
che, per ragioni di giustizia o di sicurezza
pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità,
deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la
reclusione da sei mesi a due anni.
2. Fuori dei casi previsti dal primo comma,
il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico
servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di
chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo
ufficio e non risponde per esporre le ragioni del
ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno
o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta
deve essere redatta in forma scritta ed il termine
di trenta giorni decorre dalla ricezione della
richiesta stessa. |
06.11.2015
- LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla
competenza progettuale dell'ingegnere relativamente ai
lavori di adeguamento alle norme di sicurezza di una scuola
media quale "bene monumentale”.
I lavori realizzati sulla scuola
media quale "bene monumentale" sono in prevalenza rivolti
all’adeguamento impiantistico della struttura, oltre che a
modificare parzialmente alcune parti strutturali, al fine di
rimuovere le cosiddette barriere architettoniche e di
realizzare le vie di fuga, e non sembrano quindi intaccare
l’aspetto estetico dell’immobile. Ne consegue che non
appaiono toccati, né tantomeno compromessi, gli interessi di
natura culturale ed artistica che la Soprintendenza è
deputata per legge a tutelare.
Pertanto, alla stregua del richiamato art. 52, co. 2, del
R.D. 2537/1925, non si può ritenere sussistente nel caso in
esame la asserita riserva di attività progettuale in favore
degli architetti, dal momento che la citata norma, inserita
nel “Regolamento per le professioni d'ingegnere e di
architetto”, nell’individuare oggetto e limiti delle
professioni in esame, stabilisce che “le opere di edilizia
civile che presentano rilevante carattere artistico ed il
restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L.
20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di
spettanza della professione di architetto;” precisando però
subito dopo che “(…) la parte tecnica ne può essere compiuta
tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Ed, infatti, anche la giurisprudenza citata dalla resistente
Soprintendenza (C.d.S., VI, 21/2014), pronunciando sulla
(diversa) questione della compatibilità comunitaria della
disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti
le prestazioni principali sugli immobili di interesse
culturale, ha precisato –in linea con la tesi qui sostenuta
dal ricorrente– che tale riserva è comunque solo “parziale”
in quanto “Ai sensi dell'art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925
non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di
interesse storico e artistico deve essere affidata alla
specifica professionalità dell'architetto, ma solo le parti
di intervento di edilizia civile che riguardino scelte
culturali connesse alla maggiore preparazione accademica
conseguita dagli architetti nell'ambito del restauro e
risanamento degli immobili di interesse storico e artistico,
restando invece nella competenza dell'ingegnere civile la
cd. parte tecnica, ossia le attività progettuali e di
direzione dei lavori che riguardano l'edilizia civile vera e
propria”.
E’ il caso di precisare che la sentenza del Consiglio di
Stato appena esaminata ha dichiarato legittime le
determinazioni amministrative che avevano escluso gli
ingegneri dall'affidamento di un servizio diverso da quello
oggi in esame: la direzione dei lavori ed il coordinamento
della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro
e di recuperi funzionale di un immobile di interesse storico
e artistico.
Il servizio oggetto del presente contenzioso, invece, come
già segnalato, attiene principalmente alla revisione
impiantistica ed alla messa in sicurezza dell’immobile;
ossia, per usare le stesse parole del Consiglio di Stato, a
“(…) lavorazioni strutturali ed impiantistiche rientranti
nell’edilizia civile propriamente intesa”.
Ed è condivisibile sul punto la giurisprudenza che ritiene
che “La nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi
dell'art. 52 r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della
professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si
estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali,
fino a ricomprendere l'intero complesso degli impianti
tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli
impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi
nell'edificazione”.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento della Soprintendenza ai BB.CC.AA. di
Messina del 22.07.2014 con il quale è stata denegato il
rilascio del parere di competenza sul progetto esecutivo
relativo ai lavori di adeguamento alle norme di sicurezza
della Scuola media Giuseppe Mazzini di Messina, perché
redatto solo da un ingegnere; ed ove occorra, della nota
prot. 7202 dell’11.12.2013;
- della nota del Comune di Messina prot. 216824 del
19.09.2014 con la quale è stato dichiarato concluso
l’incarico di progettazione del ricorrente; ed ove occorra
della nota comunale prot. 124539 del 19.05.2014;
...
L’Ing. Em.Pa. espone di essere un libero professionista,
iscritto all’albo degli ingegneri, incaricato negli anni
2000 e 2001 dal Comune di Messina di redigere la
progettazione di massima ed esecutiva dei “lavori di
adeguamento alle norme di sicurezza della Scuola media
Mazzini”.
Dopo aver presentato il progetto di massima nel mese di
dicembre 2001, l’Ing. Pa. ha presentato nel mese di giugno
2005 quello esecutivo, che è stato sottoposto ad
approvazione delle amministrazioni interessate -tra le
quali, la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Messina– nel corso
della conferenza dei servizi ch ha avuto luogo nel mese di
novembre 2005.
Successivamente, aderendo alle richieste di modifica
avanzate dai Vigili del fuoco con riguardo alle vie di fuga
della struttura, l’Ing. Pa. ha rettificato il progetto
esecutivo, depositandolo nel mese di Marzo 2011; ulteriori
modifiche a quest’ultima versione sono state poi effettuate
dallo stesso professionista in adesione ai rilievi formulati
dall’ente locale interessato; sicché, la stesura finale del
progetto esecutivo è stata presentata nel mese di Novembre
2013.
Per la definitiva approvazione dell’impianto progettuale è
stata allora riconvocata la conferenza dei servizi nel mese
di Dicembre 2013. In tale contesto, la Soprintendenza ai
BB.CC.AA. di Messina ha rilevato che l’intervento interessa
un vasto edificio vincolato con D.D.S. n. 2076 del
13/09/2012, e che i lavori progettati sono riconducibili al
restauro, manutenzione straordinaria ed adeguamento
tecnologico; conseguentemente, ha denegato il parere di
propria competenza, ritenendo che il progetto avrebbe dovuto
essere sottoscritto da un architetto ai sensi dell’articolo
52 del R.D. 2537/1925.
L’amministrazione comunale, adeguandosi al parere della
Soprintendenza, ha comunicato all’Ing. Pa. la risoluzione
dell’incarico professionale conferitogli.
È seguita una richiesta di revisione in autotutela delle
predette determinazioni, formulata dall’Ing. Pa. agli enti
interessati. Ma quest’istanza è stata respinta con i
provvedimenti indicati in epigrafe, che hanno
definitivamente confermato il precedente assetto.
Avverso tali atti, l’Ing. Pa. ha proposto il ricorso in
epigrafe, con il quale denuncia i seguenti vizi:
1.- Violazione falsa ed erronea applicazione degli articoli
51 e 52 del R.D. 2537/1925 - eccesso di potere per difetto
dei presupposti, contraddittorietà, difetto di motivazione
ed illogicità manifesta;
Le invocate disposizioni –si osserva- operano una
distinzione tra le due categorie professionali di architetti
ed ingegneri ai fini della possibilità di eseguire
prestazioni sugli immobili, riservando ai soli architetti le
prestazioni principali sugli immobili di rilevante carattere
artistico o sui beni di interesse storico e culturale;
tuttavia, le stesse norme ammettono che in tali specifici
settori la progettazione tecnica possa essere compiuta anche
dall’ingegnere.
Nel caso di specie, la Soprintendenza -richiamando in
motivazione una recente sentenza del Consiglio di Stato (n.
21/2014)- ha ritenuto che gli interventi progettati,
riguardanti un immobile di interesse storico/culturale,
richiedessero la specifica professionalità dell’architetto,
acquisita attraverso la preparazione accademica specifica
nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di
interesse storico ed artistico.
In direzione contraria alla tesi dell’amministrazione, il
ricorrente deduce invece che gli interventi avrebbero ben
potuto essere progettati anche da un ingegnere, dal momento
che (i) afferiscono esclusivamente alla cd. parte tecnica
(impiantistica e messa in sicurezza dell’immobile: impianti
elettrico ed idrico; di riscaldamento; di trasmissione dati,
telefonico e TV; impianto rete antincendio, porte
antincendio, nuove vie di fuga prescritte dai VV.FF.; nuova
scala antincendio esterna al primo piano), e (ii) non
interferiscono con i valori architettonici, artistici e
culturali tutelati dalla Soprintendenza.
In aggiunta, il ricorrente sottolinea come la Soprintendenza
avesse -già nel corso della conferenza di servizi tenutasi
nel 2005- approvato il progetto redatto dall’ingegnere,
sebbene il complesso risultasse già a quel tempo sottoposto
a tutela ope legis.
Costituitasi in giudizio per resistere al ricorso la
Soprintendenza ha rilevato, per un verso, che l’approvazione
del progetto effettuata nell’anno 2005 è da ascrivere ad una
mera svista; per altro verso, che i lavori programmati,
oltre alla installazione di vari impianti, contemplano anche
l’abbattimento di barriere architettoniche, l’adeguamento
dei locali interni e dei servizi igienici, il rifacimento
della copertura, ed integrano quindi interventi di restauro
e risanamento conservativo, di esclusiva competenza
dell’architetto allorquando incidono su beni di interesse
storico ed artistico.
È intervenuto in giudizio, a supporto della posizione del
ricorrente, anche l’Ordine degli Ingegneri della Provincia
di Messina, che ha inteso tutelare le prerogative
professionali della categoria rappresentata.
Con
ordinanza 05.12.2014 n. 932
questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare formulata dal
ricorrente, ritenendo fondato il gravame.
All’udienza del 24.09.2015 la causa è passata in decisione.
Confermando la valutazione resa in fase cautelare, il
Collegio ritiene di dover accogliere il ricorso valorizzando
il dato fattuale della prevalentemente tecnica dei lavori
previsti per la Scuola media Mazzini di Messina.
In particolare, tali lavori –come già visto- sono in
prevalenza rivolti all’adeguamento impiantistico della
struttura, oltre che a modificare parzialmente alcune parti
strutturali, al fine di rimuovere le cosiddette barriere
architettoniche e di realizzare le vie di fuga, e non
sembrano quindi intaccare l’aspetto estetico dell’immobile.
Ne consegue che non appaiono toccati, né tantomeno
compromessi, gli interessi di natura culturale ed artistica
che la Soprintendenza è deputata per legge a tutelare.
Pertanto, alla stregua del richiamato art. 52, co. 2, del
R.D. 2537/1925, non si può ritenere sussistente nel caso in
esame la asserita riserva di attività progettuale in favore
degli architetti, dal momento che la citata norma, inserita
nel “Regolamento per le professioni d'ingegnere e di
architetto”, nell’individuare oggetto e limiti delle
professioni in esame, stabilisce che “le opere di
edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico
ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati
dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle
arti, sono di spettanza della professione di architetto;”
precisando però subito dopo che “(…) la parte tecnica ne
può essere compiuta tanto dall'architetto quanto
dall'ingegnere”.
Ed, infatti, anche la giurisprudenza citata dalla resistente
Soprintendenza (C.d.S., VI, 21/2014), pronunciando sulla
(diversa) questione della compatibilità comunitaria della
disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti
le prestazioni principali sugli immobili di interesse
culturale, ha precisato –in linea con la tesi qui sostenuta
dal ricorrente– che tale riserva è comunque solo “parziale”
in quanto “Ai sensi dell'art. 52 del R.D. n. 2537 del
1925 non la totalità degli interventi concernenti gli
immobili di interesse storico e artistico deve essere
affidata alla specifica professionalità dell'architetto, ma
solo le parti di intervento di edilizia civile che
riguardino scelte culturali connesse alla maggiore
preparazione accademica conseguita dagli architetti
nell'ambito del restauro e risanamento degli immobili di
interesse storico e artistico, restando invece nella
competenza dell'ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia
le attività progettuali e di direzione dei lavori che
riguardano l'edilizia civile vera e propria” (in questo
senso anche C.d.S., VI, 5239/2006).
E’ il caso di precisare che la sentenza del Consiglio di
Stato appena esaminata ha dichiarato legittime le
determinazioni amministrative che avevano escluso gli
ingegneri dall'affidamento di un servizio diverso da quello
oggi in esame: la direzione dei lavori ed il coordinamento
della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro
e di recuperi funzionale di un immobile di interesse storico
e artistico.
Il servizio oggetto del presente contenzioso, invece, come
già segnalato, attiene principalmente alla revisione
impiantistica ed alla messa in sicurezza dell’immobile;
ossia, per usare le stesse parole del Consiglio di Stato, a
“(…) lavorazioni strutturali ed impiantistiche rientranti
nell’edilizia civile propriamente intesa”.
Ed è condivisibile sul punto la giurisprudenza che ritiene
che “La nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi
dell'art. 52 r.d. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della
professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si
estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali,
fino a ricomprendere l'intero complesso degli impianti
tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli
impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi
nell'edificazione” (Tar Lecce 708/2012).
In definitiva, sulla base di quanto argomentato, il ricorso
va accolto col conseguente annullamento degli atti impugnati
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.10.2015 n. 2519 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla
competenza progettuale dell'ingegnere relativamente ai
lavori di adeguamento alle norme di sicurezza di una scuola
media quale "bene monumentale”.
Nella progettazione esecutiva dei lavori
appaiono prevalenti le opere di impiantistica rispetto alle
opere civili vere e proprie, e queste ultime sembrano
afferire più propriamente ad attività riguardante l’edilizia
civile in senso stretto, che non l’edilizia di rilevante
carattere artistico, per la quale soltanto opera la riserva
di professione (architetto) contemplata dall’art. 52 del
r.d. n. 2537/1925.
Pertanto, gli interventi previsti sembrano rientrare tutti
nella sfera di competenze propria della figura professionale
dell’ingegnere.
Inoltre, la Soprintendenza si era già pronunciata in senso
favorevole alla realizzazione delle opere in argomento in
sede di parere sul progetto definitivo redatto dal solo
ingegnere, valutando le soluzioni progettuali previste per
l’esecuzione dei lavori come idonee e compatibili con la
rilevanza architettonica dell’immobile. Di talché la
Soprintendenza avrebbe dovuto motivare puntualmente in
ordine alle ragioni poste a fondamento del diverso
apprezzamento espresso oggi sulla compatibilità
dell’intervento con l’interesse affidato alla sue cure, e
non limitarsi a rilevare genericamente la mancata
applicazione del predetto art. 52.
----------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
- del provvedimento della Soprintendenza di Messina prot. n.
4595/6 del 22.07.2014, con il quale non è stato reso il
parere di competenza sul progetto esecutivo relativo ai
lavori di adeguamento alle norme di sicurezza della Scuola
media Giuseppe Mazzini di Messina, “in quanto il progetto
è stato redatto esclusivamente dalla figura professionale
dell’ingegnere su bene monumentale”;
- ove occorra, della nota della stessa Soprintendenza prot.
n. 7202 dell'11.12.2013;
- della nota del Comune di Messina, prot. n. 216824 del
19.09.2014, con cui è stato dichiarato concluso l'incarico
di progettazione del ricorrente;
...
- Ritenuto che nella progettazione esecutiva dei lavori
appaiono prevalenti le opere di impiantistica rispetto alle
opere civili vere e proprie, e che queste ultime sembrano
afferire più propriamente ad attività riguardante l’edilizia
civile in senso stretto, che non l’edilizia di rilevante
carattere artistico, per la quale soltanto opera la riserva
di professione contemplata dall’art. 52 del r.d. n.
2537/1925;
- Ritenuto, pertanto, che gli interventi previsti sembrano
rientrare tutti nella sfera di competenze propria della
figura professionale dell’ingegnere;
- Rilevato, inoltre, che la Soprintendenza si era già
pronunciata in senso favorevole alla realizzazione delle
opere in argomento in sede di parere sul progetto definitivo
redatto dal solo ingegnere, valutando le soluzioni
progettuali previste per l’esecuzione dei lavori come idonee
e compatibili con la rilevanza architettonica dell’immobile
(nota 23.11.2005, in atti);
- Ritenuto, conseguentemente, che la Soprintendenza avrebbe
dovuto motivare puntualmente in ordine alle ragioni poste a
fondamento del diverso apprezzamento espresso oggi sulla
compatibilità dell’intervento con l’interesse affidato alla
sue cure, e non limitarsi a rilevare genericamente la
mancata applicazione del predetto art. 52;
- Ritenuto che sussiste, pertanto, il necessario “fumus”
di fondatezza e che, in presenza altresì del danno grave ed
irreparabile, occorre ordinare alla Soprintendenza di
riesaminare la fattispecie in controversia, alla luce delle
censure in ricorso e di quanto statuito con la presente
ordinanza, entro il termine di giorni quindici dalla
comunicazione o notifica, se anteriore, della presente
ordinanza.
- Considerato che le spese della presente fase cautelare
possono essere compensate atteso il carattere propulsivo del
presente provvedimento cautelare;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione
staccata di Catania (Sezione Prima) accoglie l’istanza di
misure cautelari, nei termini di cui in parte motiva
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
ordinanza 05.12.2014 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
LINEE DI INDIRIZZO PER IL MIGLIORAMENTO DELL’EFFICIENZA
ENERGETICA NEL PATRIMONIO CULTURALE
(MIBACT, 28.10.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Cumulabilità del congedo parentale fruito in
modalità oraria con altri riposi o permessi. Chiarimenti
(INPS,
messaggio 03.11.2015 n. 6704 - link a
www.inps.it). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e
integrazioni - risposta a due quesiti di applicazione della
normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro in
tema di sorveglianza sanitaria e di svolgimento del ruolo
del medico competente
(Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali,
interpello 02.11.2015 n. 8/2015). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e
integrazioni - risposta al quesito sull'istituto della
delega di funzioni di cui all'art. 16 del d.lgs. n. 81/2008
(Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali,
interpello 02.11.2015 n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.M. 19.03.2015 in materia di strutture sanitarie -
Indirizzi applicativi
(Ministero dell'Interno,
nota 28.10.2015 n. 12580 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
rimborso tassa di iscrizione all'albo degli avvocati (Ministero
dell'Economie e delle Finanze, Ragioneria Generale dello
Stato,
nota
19.10.2015 n. 79309 di prot.). |
SEGRETARI COMUNALI:
Oggetto: quesito in materia di trattamento economico del
segretario comunale nel caso di convenzione per l'ufficio di
segreteria (Ministero dell'Economie e delle Finanze,
Ragioneria Generale dello Stato,
nota
05.08.2015 n. 62711 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2015,
"Referendum consultivo per la fusione per incorporazione
di Comuni, ai sensi degli articoli n. 7, commi 3.1 e 4-bis e
n. 9-bis, comma 3 della l.r. 29/2006 - Modulistica e
modalità per l’effettuazione della consultazione della
popolazione interessata" (decreto
D.S. 30.10.2015 n. 9071). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2015, "Manutenzione
e riqualificazione dei sentieri della montagna lombarda
attraverso le comunità montane – approvazione dei criteri
per l’attuazione degli interventi" (deliberazione
G.R. 30.10.2015 n. 4251). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 03.11.2015, "Riordino
dei reticoli idrici di Regione Lombardia e revisione dei
canoni di polizia idraulica" (deliberazione
G.R. 23.10.2015 n. 4229). |
APPALTI:
G.U.U.E. 30.10.2015 n. L 286 "REGOLAMENTO
(UE, EURATOM) 2015/1929 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL
CONSIGLIO del 28.10.2015 che modifica il
regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012 che stabilisce le
regole finanziarie applicabili al bilancio generale
dell'Unione".
---------------
Appalti pubblici, dal 01.01.2016 si
applicano le modifiche al Regolamento UE n. 966/2012
In vigore il nuovo Regolamento Ue 2015/1929 che assicura
l'allineamento della terminologia del regolamento del 2012 a
quella delle direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE.
È entrato in vigore il 31.10.2015 il Regolamento (UE,
Euratom) 2015/1929 del Parlamento europeo e del Consiglio
del 28.10.2015 che modifica il regolamento (UE, Euratom) n.
966/2012.
Il regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012, che ha stabilito
le norme relative alla formazione e all'esecuzione del
bilancio generale dell'Unione europea, contiene anche
disposizioni in materia di appalti pubblici. Poiché le
direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE sono state adottate il
26.02.2014, si è reso necessario modificare il regolamento
(UE, Euratom) n. 966/2012 per tenerne conto in riferimento
ai contratti aggiudicati dalle istituzioni dell'Unione per
proprio conto.
Pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del
30.10.2015, il nuovo Regolamento (UE, Euratom) 2015/1929 (IN
ALLEGATO) aggiunge alcune definizioni e apporta taluni
chiarimenti tecnici per assicurare che la terminologia del
regolamento (UE, Euratom) n. 966/2012 sia allineata a quella
delle direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE.
MODIFICHE E INTEGRAZIONI.
Il nuovo Regolamento, che si applica a decorrere dal
01.01.2016, sostituisce l'intestazione del titolo V “Appalti
pubblici e concessioni”, sostituendo gli articoli in
materia di: definizioni (art. 101); misure di pubblicità
(103); procedure di appalto (104); preparazione di una
procedura di appalto (105); criteri di esclusione e sanzioni
amministrative (106); rigetto di una procedura di appalto
(107); sistema di individuazione precoce e di esclusione
(108); aggiudicazione dei contratti (110); presentazione,
comunicazione elettronica e valutazione (111); contatti
durante la procedura di appalto (112); decisione di
aggiudicazione e informazione dei candidati o offerenti
(113); annullamento della procedura di appalto (114);
garanzie (115); errori sostanziali, irregolarità e frodi
(116); l'amministrazione aggiudicatrice (117); soglie
applicabili e periodo di status quo (118); norme in materia
di accesso agli appalti (119); norme dell'Organizzazione
mondiale del commercio in materia di appalti (120); misure
di follow-up (166); norme in materia di accesso agli appalti
(191).
Inoltre, il nuovo Regolamento sopprime l'art. 109 e aggiunge
i seguenti articoli su: appalto interistituzionale e appalto
congiunto (104-bis); tutela degli interessi finanziari
dell'Unione attraverso l'individuazione dei rischi e
l'imposizione di sanzioni amministrative (105-bis);
esecuzione e modifiche del contratto (114-bis) (commento
tratto da www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2015:
►
Determinazioni in merito ai tempi ed alle modalità di
presentazione e/o aggiornamento, per l’anno 2016, della
comunicazione per l’utilizzazione agronomica degli effluenti
di allevamento e degli altri fertilizzanti azotati prevista
dalle d.g.r. n. 2208/2011 allegato I (zone vulnerabili) e n.
5868/2007 – allegato 2 (zone non vulnerabili) (deliberazione
G.R. 27.10.2015 n. 8920);
►
Individuazione dei periodi di divieto di spandimento
degli effluenti di allevamento e dei fertilizzanti azotati
di cui al d.m. 07.04.2006 per la stagione autunno vernina
2015/2016 (deliberazione
G.R. 27.10.2015 n. 8921). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 30.10.2015, "Art.
22-quater della l.r. 86/1983: direttori dei parchi regionali
- Individuazione dei requisiti professionali e delle
competenze per il conferimento dell’incarico di direttore
del parco da parte della Giunta regionale" (deliberazione
G.R. 23.10.2015 n. 4226). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 44 del 30.10.2015, "Disciplina
della gestione del demanio lacuale e idroviario e dei
relativi canoni di concessione (articoli 50 e 52, l.r.
6/2012)" (Regolamento
Regionale 27.10.2015 n. 9). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
30.10.2015 n. 253 "Approvazione della regola tecnica di
prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed
esercizio delle metropolitane" (Ministero
dell'Interno,
decreto 21.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2015,
"Ottavo aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali
idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r.
12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 26.10.2015 n. 8850). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
27.10.2015 n. 250 "Attuazione della direttiva 2013/39/UE,
che modifica le direttive 2000/60/CE per quanto riguarda le
sostanze prioritarie nel settore della politica delle acque" (D.Lgs.
13.10.2015 n. 172). |
URBANISTICA: G.U.
26.10.2015 n. 249 "Interventi per la riqualificazione
sociale e culturale delle aree urbane degradate" (D.P.C.M.
15.10.2015). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
G. Buscema,
Appalti pubblici: costo del lavoro, deroga “al ribasso”
eccezionale (02.11.2015 - tratto da
www.ispoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Veronese,
LA NUOVA SCIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE
(23.10.2015 - tratto da www.italiaius.it).
---------------
SOMMARIO: § 1. La Legge n. 124/2015 tra
disposizioni immediatamente operative, disposizioni di
delegificazione e disposizioni di delega; § 2. La nuova
SCIA: cosa cambia; § 3. La SCIA, la tutela del terzo ed il
mendacio; § 4. Conclusioni: la ratio legis di tutela del
segnalante e la posizione dei Comuni. |
EDILIZIA PRIVATA: P.
Palazzi,
Quesito: realizzazione di ascensore interno in edificio
residenziale comportante la riduzione della scala comune
mediante taglio rampe fino alla misura di cm. 80 -
fattibilità
(12.10.2015 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Gare, no all'esclusione automatica senza il
Passoe.
La mancata inclusione del Passoe nell'offerta non comporta
l'esclusione automatica dalla gara.
È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il
parere di precontenzioso n. 165 del 07/10/2015 - rif. PREC
32/15/L con
riguardo al cosiddetto «Passoe», ossia al codice «Pass
operatore economico» da rilasciare da parte del sistema Avcpass, oggi gestito dall'Autorità nazionale
anticorruzione, ma che in futuro dovrebbe rientrare nelle
competenze del ministero delle infrastrutture, secondo
quanto prevede il testo attuale del disegno di legge delega
sugli appalti all'esame dell'aula della camera.
Nella fattispecie oggetto del parere una stazione appaltante
aveva bandito una gara senza specificare nel bando di gara
l'obbligo per i concorrenti di inserimento, tra la
documentazione da presentare a corredo dell'offerta, del
documento Passoe. Si trattava quindi di decidere se fosse
conforme alla normativa di settore l'ammissione alla
procedura di tutti i concorrenti che non avevano prodotto il
documento Passoe.
Il sistema di verifica dei requisiti (Avcpass)
prevede, ai sensi di quanto stabilito dalla deliberazione
dell'Autorita n. 111 del 20.12.2012 (poi modificata
l'08.05. e il 05.06.2013) che ogni concorrente, tramite
il sistema informativo, sia in possesso di un «Passoe» da
inserire nella busta contenente la documentazione
amministrativa.
L'Anac ha chiarito che la mancata inclusione
del documento Passoe nella busta contenente la
documentazione amministrativa, non può costituire causa di
esclusione e quindi ha nella sostanza affermato che se una
stazione non richiede la produzione del Passoe la gara è
valida e i concorrenti non possono essere esclusi. Da ciò si
deduce quindi che è consentito alla stazione appaltante
verificare i requisiti autodichiarati dai concorrenti
attraverso la successiva produzione materiale dei documenti
a comprova dei requisiti stessi.
Il punto della questione è
infatti che il sistema Avcpass non sembra funzionare a
dovere al punto che la stessa Anac ha dovuto chiarire che,
per quanto riguarda il Durc (per comprova del requisito
della regolarità contributiva) va chiesto direttamente
all'Inps, implicitamente considerando l'Avcpass un sistema
di verifica non esclusivo.
D'altro canto la stessa
giurisprudenza amministrativa aveva legittimato
l'annullamento di una gara per malfunzionamento del sistema Avcpass
(articolo ItaliaOggi del
31.10.2015). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La staffetta generazionale - Abbandonata prima di
vedere la luce
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 03.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/
E’ possibile che ad un dipendente in reperibilità sia
riconosciuto il rimborso chilometrico nel caso che venga
chiamato per intervento nella struttura?
Attualmente, nella vigente disciplina dell’istituto (art. 23
del CCNL del 14.09.2000) non esiste alcuna regola espressa
su tale particolare profilo.
Infatti, un unico e generico riferimento è contenuto solo
nell’art. 23, comma 2, del CCNL del 14.09.2000, secondo il
quale: “In caso di chiamata l’interessato dovrà
raggiungere il posto di lavoro assegnato nell’arco di trenta
minuti”.
Ad avviso della scrivente Agenzia, pertanto, sulla base
della disciplina contrattuale, spetta al singolo ente la
definizione delle regole di dettaglio per la gestione
dell’istituto.
A tal fine, ciascun ente può predisporre un proprio
specifico regolamento o piano “aziendale” (strumenti
di stampo privatistico e sicuramente più flessibili del
Regolamento degli Uffici e dei Servi o altri , nel quale
sono definite le modalità, organizzative ed operative, per
la corretta ed efficace applicazione dell’istituto, in
coerenza con le finalità dello stesso).
Sotto il profilo più squisitamente gestionale, nel medesimo
regolamento, possono essere definite alcune e specifiche
misure organizzative, come ad esempio:
a) i criteri per l'individuazione, in relazione a ciascun
area di pronto intervento, del soggetto responsabile
abilitato a decidere, in relazione alla situazione
determinatasi, se attivare o meno l'intervento del soggetto
in reperibilità;
b) i criteri per la predisposizione, in relazione alle
diverse aree di intervento, degli elenchi dei lavoratori in
reperibilità da porre a disposizione delle diverse strutture
organizzative e, comunque, di chiunque può avere necessità
del loro intervento (servizi di sicurezza, dirigenti delle
diverse strutture, direttore generale, ecc.), nonché dei
mezzi per rintracciarli;
c) le modalità di messa a disposizione del lavoratore dei
mezzi o delle apparecchiature perché lo stesso sia
effettivamente reperibile (ad esempio, al fine di garantire
la continuità della reperibilità, la dotazione per tutta la
durata della stessa, di uno specifico telefono cellulare di
proprietà dell’ente) oppure la definizione concordata con il
lavoratore delle modalità di utilizzo di mezzi o
apparecchiature di sua proprietà;
d) le condizioni per rendere efficace l’intervento a seguito
della chiamata, anche attraverso l’approntamento e la messa
a disposizioni delle strumentazioni (meccaniche,
tecnologiche, informatiche, ecc.) a tal fine eventualmente
necessarie;
e) le modalità per la messa a disposizione del lavoratore
dei mezzi di trasporto per effettuare l'intervento
richiesto, ove necessari, o la definizione concordata con il
lavoratore dell’uso di mezzi di trasporto di sua proprietà o
anche solo di mezzi di trasporto pubblici, ove questi siano
compatibili con i tempi richiesti dall'intervento.
Si coglie l’occasione per ricordare che, comunque, il
rimborso delle spese di viaggio sostenute e l’autorizzazione
al dipendente ad avvalersi del mezzo proprio, con connesso
rimborso chilometrico, anche con riferimento al trattamento
di trasferta (art. 41 del CCNL del 14.09.2000), sono state
sottoposte a rigorose limitazioni con l’art. 6, comma 12,
della legge n. 122/2010.
Infatti, con tale norma, il legislatore ha disposto, sia
pure con alcune eccezioni, il venire meno delle
disposizioni, anche contrattuali, che prevedevano il
rimborso delle spese sostenute dal dipendente autorizzato a
servirsi, per la trasferta, del mezzo proprio.
Per alcune indicazioni per la corretta applicazione
dell’art. 6, comma 12, della legge n. 122/2010, si rinvia
alla circolare n. 36 del 22.10.2010 ed alla nota prot. n.
100169/2012 del Ministero dell’Economia e delle Finanze
nonché alla delibera n. 8/CONTR/11 del 2011 delle Sezioni
Riunite in sede di controllo della Corte dei Conti (parere
07.10.2015 n. RAL-1791 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie e festività/Ferie/ Quanti
giorni di ferie all’anno spettano al personale assunto per
la prima volta a tempo determinato e a tempo parziale a 26
ore settimanali nel caso del tempo parziale orizzontale,
verticale o misto? I 3 giorni di permesso per motivi
personali dell’art.19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995
spettano proporzionati all’orario di lavoro?
Dalla sintetica formulazione dei quesiti prospettati, sembra
doversi ritenere che vengano in considerazione due distinte
problematiche:
a) la determinazione del numero dei giorni di ferie
spettanti ad un lavoratore assunto con contratto a temine e
a tempo parziale (a 26 ore settimanali) nei casi,
rispettivamente, di tempo parziale orizzontale, verticale e
misto;
b) definizione del numero dei giorni di permesso per motivi
personali, di cui all’art. 19, comma 2, del CCNL del
06.07.1995, spettanti al lavoratore titolare di un rapporto
di lavoro a tempo parziale, rispettivamente, di tipo
orizzontale, verticale e misto.
Se tale interpretazione è corretta, sulle suddette
problematiche si ritiene utile precisare quanto segue:
a) Ferie
In materia, si deve preliminarmente ricordare che, nel caso
di rapporto di lavoro a tempo determinato, in materia di
ferie, trova applicazione la disciplina dell’art. 7, comma
10, lett. a), del CCNL del 14.09.2000, secondo il quale al
personale assunto a termine competono solo i giorni di ferie
maturati in relazione alla durata del servizio prestato.
Fatta questa indispensabile premessa, per quanto riguarda il
calcolo delle ferie in relazione alle tre diverse tipologie
di tempo parziale contrattualmente previste, si evidenzia
che:
1. tempo parziale orizzontale
Il dipendente titolare di tale tipologia di rapporto ha
diritto al medesimo numero di giorni di ferie (come di
festività soppresse) spettanti nell’ambito del rapporto di
lavoro a tempo pieno. Come previsto dall'art. 6, comma 8 del
CCNL del 14.09.2000, il trattamento economico di ciascuna
giornata di ferie è comunque commisurato alla durata della
prestazione giornaliera. Pertanto, il numero di giorni
ferie, come determinato ai sensi del richiamato art.
dell’art. 7, comma 10, lett. a,) del CCNL del 14.09.2000,
per un lavoratore a tempo determinato e a tempo pieno sarà
riconosciuto anche al lavoratore, sempre a tempo
determinato, ma con rapporto di lavoro a tempo parziale di
tipo orizzontale.
2. tempo parziale verticale
Al dipendente titolare di questa diversa tipologia di
rapporto spetta un numero di giorni di ferie (e festività
soppresse) proporzionato alle giornate di lavoro prestate
nell’anno, confrontate con le ordinarie giornate d’obbligo
previste nel rapporto a tempo pieno (art. 6, comma 8, del
CCNL del 14.09.2000). Pertanto, il numero di giorni di
ferie, calcolato ai sensi dell’art. 7, comma 10, lett. a)
del CCNL del 14.09.2000, dovrà essere riproporzionato in
relazione alle giornate di lavoro previste nell’ambito del
rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale. Sulle
modalità applicative della regola del riproporzionamento, di
cui si è detto, alcune indicazioni generali sono già state
fornite con l’orientamento applicativo RAL-340.
3. tempo parziale misto
Nel caso di rapporto a tempo parziale di tipo misto, trovano
applicazione entrambe le forme di riproporzionamento
previste, sia quella per il tempo parziale verticale che
quella per il tipo orizzontale. Ai fini della
quantificazione dei giorni di ferie spettanti, pertanto, in
considerazione dell’articolazione dell’orario solo su alcuni
giorni della settimana rispetto a quelli previsti per il
tempo pieno, troverà applicazione la medesima regola
prevista per il tempo parziale verticale. Per ciò che
attiene al trattamento economico delle stesse, invece,
troverà applicazione il riproporzionamento previsto per il
tempo parziale orizzontale, nel senso che esso sarà
commisurato alla durata della prestazione giornaliera.
b) Permessi per motivi personali
Le medesime regole sopra richiamate trovano applicazione
anche per i tre giorni di permesso retribuito di cui
all’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
Pertanto, al lavoratore a tempo parziale di tipo orizzontale
i tre giorni di permesso dell’art. 19, comma 2, del CCNL del
06.07.1995 sono riconosciuti per intero.
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo
verticale e misto, troveranno applicazione le regole del
riproporzionamento, come sopra illustrate relativamente al
diverso istituto delle ferie.
Al fine di evitare ogni possibile equivoco interpretativo,
si deve ricordare anche che al lavoratore a termine non
possono essere riconosciuti i permessi retribuiti di cui si
tratta, come già evidenziato nell’orientamento applicativo
RAL-386 (parere
07.10.2015 n. RAL-1787 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Orario di lavoro/Attività prestata in giorno festivo -
riposo compensativo/ Un titolare di
posizione organizzativa, con orario di lavoro articolato su
sei giorni settimanali, ha diritto, nel caso di lavoro
prestato in giorno festivo infrasettimanale (ad es. 25
aprile, 15 agosto, ecc.), ad una giornata di riposo
compensativo, così come disciplinato in generale dal CCNL
del Comparto Regioni-Autonomie Locali?
In relazione a tale problematica, la scrivente Agenzia non
può che confermare il precedente, consolidato orientamento
secondo cui il titolare di posizione organizzativa non ha
diritto a compensi aggiuntivi o a riposi compensativi
neppure nel caso di prestazione resa in giornata festiva
infrasettimanale.
In tal senso, si richiamano le indicazioni ricavabili
dall’orientamento applicativo RAL-614, che, come si evince
chiaramente dalla sua formulazione testuale, ammette solo la
possibilità di recuperare il lavoro eventualmente prestato
del titolare di posizione organizzativa nel giorno del
riposo settimanale e, sempre, in modo proporzionale alla
durata dell’attività lavorativa effettivamente svolta (parere
14.07.2015 n. RAL-1779 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie e festività/Ferie/ Un
dipendente di un ente, in distacco sindacale dal 1993, al
rientro in servizio attivo per cessazione dello stesso, ha
chiesto di fruire delle ferie maturate e non godute prima
del distacco. E’ possibile concederle?
Nel merito del quesito formulato, l’avviso della scrivente
Agenzia è nel senso che, nella particolare situazione
prospettata, al lavoratore rientrato in servizio, a seguito
della cessazione del distacco sindacale, debba essere
riconosciuta la possibilità di fruire del residuo di ferie
maturate e non godute nella fase del rapporto di lavoro
antecedente al distacco stesso.
Infatti, si tratta di ferie che, come si legge nel testo del
quesito, il lavoratore aveva effettivamente già maturato e
che lo stesso si è trovato nell’impossibilità oggettiva di
fruire per effetto del collocamento in distacco sindacale.
In proposito, si ritiene utile richiamare i seguenti
principi già espressi nei vari orientamenti applicativi
pubblicati sul sito istituzionale dell’Agenzia:
a) le ferie sono un diritto irrinunciabile;
b) le ferie non fruite nel periodo previsto dal CCNL,
possono sempre essere fruite anche in periodi successivi;
c) l’art. 5, comma 8, della legge n. 135/2012 ha disposto il
divieto di monetizzazione delle ferie non godute dei
pubblici dipendenti (art. 5, comma 8, della legge n.
135/2012), salvo i limitati casi in cui questa possa
ritenersi ancora possibile sulla base delle citate
previsioni legislative e delle indicazioni fornite dal
Dipartimento della Funzione Pubblica con le note n. 32937
del 06.08.2012 e n. 40033 dell’08.10.2012 (parere
10.07.2015 n. RAL-1775 - link a
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ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Discipline particolari/Unioni di Comuni e servizi in
convenzione/Servizi in convenzione/
E’ possibile stipulare una convenzione, ai sensi dell’art.
14 del CCNL del 22.01.2004, per l’utilizzo di un lavoratore
dipendente a tempo pieno da altro comune, prevedendo un
orario massimo di lavoro di 48 ore settimanali, di cui 30 da
eseguirsi presso il comune di appartenenza e le restanti 18
ore presso quello utilizzatore?
Il dipendente in questione, già titolare di posizione
organizzativa presso l’ente di appartenenza sarà incaricato
di altra posizione organizzativa presso l’ente utilizzatore,
per le 18 ore svolte presso lo stesso.
Può ciascun ente liquidare con busta paga le spettanze di
propria competenza?
Relativamente a tale problematica, preliminarmente, si
ritiene utile ricostruire la effettiva portata
dell’istituto:
a) la disciplina dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2004 trova
applicazione nel caso di personale utilizzato a tempo
parziale da ente diverso da quello di appartenenza;
b) a tal fine è previsto, infatti, che gli enti locali
possono utilizzare, per soddisfare le proprie esigenze
organizzative, personale assegnato da altri enti del
comparto per periodi determinati e per una parte dell’orario
ordinario d’obbligo, con il consenso dei lavoratori
interessati e secondo le regole definite preventivamente
mediante una convenzione da concordarsi tra gli enti
interessati;
c) la convenzione, in particolare, deve disciplinare: la
durata del periodo di utilizzazione, il tempo di lavoro e la
relativa articolazione tra i due enti, la ripartizione degli
oneri e i conseguenti adempimenti reciproci, ogni altro
aspetto ritenuto utile per una corretta gestione del
rapporto di lavoro;
d) in considerazione della circostanza che la disciplina
contrattuale faccia riferimento al “rispetto del vincolo
dell’orario d’obbligo”, si deve ritenere che la
utilizzazione da parte di un ente diverso da quello di
appartenenza possa avvenire solo per una parte
dell’ordinario orario di lavoro settimanale che,
contrattualmente, è dovuto dal dipendente interessato presso
l’ente di appartenenza;
e) quindi, la clausola contrattuale consente a due enti di
utilizzare lo stesso lavoratore ma solo nell’ambito
dell’orario complessivo (normalmente 36 ore settimanali) cui
è tenuto, sulla base del proprio contratto individuale, il
dipendente presso l’ente di appartenenza, attraverso una
distribuzione dello stesso secondo le previsioni della
convenzione di utilizzazione.
Conseguentemente, si deve escludere ogni soluzione che porti
ad un ampliamento dell’orario ordinario di lavoro del
dipendente di cui si tratta, neppure ove questo si determini
solo in relazione al servizio presso l’ente utilizzatore;
infatti, occorre ricordare, per espressa previsione
dell’art. 14 sopra richiamata, il rapporto di lavoro
continua a far capo esclusivamente all’ente di appartenenza,
sulla base dei contenuti del contratto individuale a suo
tempo sottoscritto, escludendosi ogni possibilità di
modifica anche e soprattutto sul punto dell’orario di
lavoro. Pertanto, la ripartizione delle prestazioni del
dipendente tra l’ente di appartenenza e quello utilizzatore
non può portare ad un risultato implicante un mutamento del
suo orario di obbligo di 36 ore settimanali.
Indicazioni in ordine alla particolare ipotesi del
dipendente utilizzato a tempo parziale, cui sia stato
conferito l’incarico di posizione organizzativa sia presso
l’ente di appartenenza sia presso il diverso ente
utilizzatore, sono ricavabili dagli orientamenti applicativi
già formulati in materia e consultabili nella specifica
sezione di questo sito.
Infine, si evidenzia che le modalità di erogazione al
dipendente dei trattamenti economici di competenza di
ciascuno degli enti interessati sono liberamente determinate
dagli stessi in sede di predisposizione e stipulazione della
convenzione di cui all’art. 14, comma 1, del CCNL del
22.01.2004.
Al fine di evitare ogni possibile equivoco applicativo, poi,
si ritiene opportuno anche ricordare che la disciplina
dell’art. 14 del CCNL del 22.01.2204 è completamente
diversa, nei contenuti e nelle modalità applicative, da
quella dell’art. 1, comma 557, della legge n. 311/2004.
Conseguentemente, deve escludersi ogni possibilità di
sovrapposizione, anche solo parziale, delle stesse
(parere
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PUBBLICO IMPIEGO:
ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/
Un dipendente, che lavora dalle 8,00 alle 14,00 dal martedì
al venerdì, può essere messo continuativamente in
reperibilità dalle 14,00 del martedì fino alle 8,00 del
mercoledì, dalle 14,00 del mercoledì fino 8,00 del giovedì,
dalle 14,00 del giovedì alle 8,00 del venerdì, considerando
ciascun periodo dalle 14,00 alle 8,00 del giorno seguente
come “unica volta”?
L’art. 23 del CCNL del 14.09.2000 (e successive modifiche ed
integrazioni) si limita a prevedere come vincolo per
l’utilizzazione dell’istituto, la possibilità di inserire un
dipendente in fasce di reperibilità per non più di sei volte
nell’arco del mese.
Non è prevista una specifica indicazione della durata
massima del singolo periodo di reperibilità.
Le dodici ore richiamate all’art. 23, comma 1, del CCNL del
14.09.2000, infatti, rappresentano esclusivamente il
parametro per la misura del compenso da corrispondere al
dipendente in reperibilità e non possono essere intese come
un limite massimo di durata del turno di reperibilità.
Pertanto, nell’ambito delle 24 ore della giornata
lavorativa, il periodo di reperibilità può avere una durata
diversificata fino ad un massimo di 24 ore.
Occorre poi ricordare che il servizio di pronta reperibilità
non è attivabile nei casi nei quali vengano in
considerazione attività da svolgere nell’ambito dell’orario
di servizio adottato, dato che queste possono essere
evidentemente svolte dal personale che deve rendere la
ordinaria prestazione lavorativa.
Nello stesso senso, si richiama l’art. 23, comma 4, del CCNL
del 14.09.2000, secondo il quale l’indennità di reperibilità
“…. non compete durante il l’orario di servizio a
qualsiasi titolo prestato…..”.
Alla luce di quanto sopra detto, si ritiene che nella
fattispecie prospettata, ciascuna fascia oraria di
reperibilità prevista dalle ore 14.00 di un giorno alle ore
8.00 di quello seguente, dovrà essere considerata un
distinto ed autonomo periodo di reperibilità (per un totale,
ai fini del rispetto del numero massimo mensile, di tre
periodi di reperibilità) (parere
11.06.2015 n. RAL-1768 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie e festività/Ferie/ Un
dipendente, che ha presentato le proprie dimissioni nel
rispetto del periodo di preavviso quantificato nel rispetto
della vigente disciplina contrattuale in materia, può fruire
delle ferie durante il suddetto periodo di preavviso?
In proposito, si deve ricordare che l’art. 12, comma 6, del
CCNL del 09.05.2006 (che ha sostituito l’art. 39, comma 6,
del CCNL 06.07.1995, così come modificato dal CCNL del
13.05.1996), nel disporre che le ferie non possono essere
assegnate e quindi fruite dal dipendente, durante il
preavviso, sostanzialmente ribadisce quanto già disposto
dall’art. 2109, comma 4, del codice civile.
Nell’ambito del divieto di fruizione durante il periodo di
preavviso, rientrano sia le ferie maturate e non fruite
prima dello stesso, sia quelle che si vanno a maturare nel
corso del medesimo periodo di preavviso.
Ove eccezionalmente, in difformità dalla previsione
contrattuale, sia comunque avvenuta la fruizione delle ferie
durante il preavviso, si ritiene che esso sia prorogato in
misura corrispondente, salva la possibilità di rinuncia al
preavviso stesso da parte del soggetto che riceve la
comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro per un
periodo corrispondente alle ferie fruite.
Si applica, cioè, in via analogica il principio privatistico
per cui le diverse ipotesi di assenza dal lavoro (malattia
ecc.) sospendono il decorso del preavviso. E ciò trova la
sua spiegazione nella circostanza che fino alla scadenza del
periodo di preavviso il rapporto è ancora giuridicamente
attivo e quindi trovano applicazione ancora tutti gli
istituti ad esso attinenti.
La possibilità di rinunciare al preavviso, anche nel corso
dello stesso, è prevista espressamente dall’art. 12, comma
5, del CCNL del 09.05.2006 (parere
04.06.2015 n. RAL-1762 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie e festività/Ferie/ Il
personale interessato alla reperibilità può essere in ferie
e contemporaneamente coprire il servizio di reperibilità?
Relativamente
alla possibilità di collocare in reperibilità un dipendente
durante il periodo di godimento delle ferie, occorre tenere
conto della più forte tutela riconosciuta al diritto alle
ferie derivante dalle disposizioni del D.Lgs. n. 66/2003.
Infatti, è indubbio che la reperibilità, anche se non
equivale alla esecuzione della prestazione lavorativa,
incide ugualmente sul riposo e sulla piena possibilità di
svago che le ferie devono garantire (ad esempio il
dipendente non potrebbe allontanarsi per una crociera).
Ciò non toglie, tuttavia, che, durante le ferie, il
dipendente debba essere disponibile al rientro per urgenti
necessità, come ipotizzato dall’art. 18, comma 11, del CCNL
del 06.07.1995.
Tale previsione, però, non si presta a consentire anche la
pianificazione della reperibilità con appositi turni,
secondo le caratteristiche tipiche dell’istituto (parere
04.06.2015 n. RAL-1761 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/
Il personale interessato alla reperibilità può essere in
ferie e contemporaneamente coprire il servizio di
reperibilità?
Relativamente alla
possibilità di collocare in reperibilità un dipendente
durante il periodo di godimento delle ferie, occorre tenere
conto della più forte tutela riconosciuta al diritto alle
ferie derivante dalle disposizioni del D.Lgs. n. 66/2003.
Infatti, è indubbio che la reperibilità, anche se non
equivale alla esecuzione della prestazione lavorativa,
incide ugualmente sul riposo e sulla piena possibilità di
svago che le ferie devono garantire (ad esempio il
dipendente non potrebbe allontanarsi per una crociera).
Ciò non toglie, tuttavia, che, durante le ferie, il
dipendente debba essere disponibile al rientro per urgenti
necessità, come ipotizzato dall’art. 18, comma 11, del CCNL
del 06.07.1995.
Tale previsione, però, non si presta a consentire anche la
pianificazione della reperibilità con appositi turni,
secondo le caratteristiche tipiche dell’istituto (parere
04.06.2015 n. RAL-1760 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/
Un lavoratore può essere reperibile dalle 14,00 del venerdì
alle 8,00 del lunedì, considerando quest’ultimo intervallo
di reperibilità non come una “unica volta” di 66 ore, ma
considerandolo in reperibilità per “tre volte” consecutive
(un periodo di 18 ore e 2 periodi di 24 ore)?
Nel caso prospettata del lavoratore collocato in
reperibilità dalle 14 del venerdì alle 8,00 del lunedì, ai
fini del rispetto del vincolo derivante dall'art. 23, comma
3, del CCNL del 14.09.2000 dalla suddetta clausola
contrattuale, si dovrà fare riferimento a tre periodi
distinti di reperibilità, anche di diversa durata:
il primo dalle 14 del venerdì alle 14 del sabato, di 24 ore;
il secondo dalle 14 del sabato alle 14 della domenica, di 24
ore;
il terzo dalle 14 della domenica alle 8,00 del lunedì, di 18
ore.
Per le ore del servizio di reperibilità prestate dalle 00,01
alle 24,00 della domenica sarà corrisposta l’indennità
raddoppiata prevista dall’art. 23, comma 1, del citato CCNL
del 14.09.2000 per i casi di reperibilità cadente in
giornata festiva, anche infrasettimanale, o di riposo
settimanale (parere
04.06.2015 n. RAL-1759 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie e festività/Ferie/ Un
dipendente chiede di fruire di un giorno di ferie in data 10
aprile. Il giorno 9 si assenta per malattia, presentando un
certificato medico con una prognosi di due giorni (i giorni
9 e 10). In questa ipotesi, la domanda di ferie deve
considerarsi implicitamente annullata oppure il giorno di
ferie deve essere computato ugualmente?
L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che l’insorgere
della malattia prima del godimento di un giorno di ferie,
regolarmente richiesto ed autorizzato dal datore di lavoro
pubblico, prevale comunque sull’altra tipologia di assenza.
Per effetto della malattia, quindi, a partire dal giorno
indicato sul certificato medico e per la durata ivi
indicata, il lavoratore si deve considerare solo in
malattia.
L’imputazione della assenza a malattia determina,
conseguentemente, la mancata fruizione del giorno di ferie,
che potrà essere goduto successivamente, sempre previa
formulazione di una nuova richiesta all’ente (parere
04.06.2015 n. RAL-1757 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/
Può essere collocato in reperibilità, con il riconoscimento
della relativa indennità, il personale assegnato agli uffici
durante l’apertura al pubblico degli stessi?
Conformemente allo spirito dell'istituto (comportante
l'obbligo del dipendente di restare a disposizione del
datore di lavoro ed eventualmente di fornire la propria
prestazione lavorativa, ove necessario), qualunque
dipendente può essere collocato in reperibilità, purché al
di fuori dell'orario di lavoro (in tal senso l'art. 23,
comma 4, del CCNL del 14.09.2000, espressamente dispone: "l'indennità
di reperibilità ... non compete durante l'orario di servizio
a qualsiasi titolo prestato").
Infatti, se il lavoratore fosse già in servizio, non avrebbe
senso, anche e soprattutto sotto il profilo dei costi,
collocarlo in reperibilità, in quanto il datore di lavoro
nell'esercizio del suo potere direttivo, già potrebbe
avvalersi in via diretta delle sue prestazioni, anche sotto
forma di lavoro straordinario (parere
27.04.2015 n. RAL-1749 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
ORARIO DI LAVORO/REPERIBILITA'/
Spetta il raddoppio dell’indennità di reperibilità nel caso
di un lavoratore, con articolazione dell’orario di lavoro su
cinque giorni (lunedì–venerdì), che sia collocato in
reperibilità nella giornata del sabato?
Relativamente a tale problematica, si ritiene utile
precisare quanto segue:
a) la reperibilità festiva è esclusivamente quella ricadente
nel giorno del riposo settimanale o in altra giornata da
considerarsi festiva per il dipendente, ivi comprese quelle
infrasettimanali; solo per questa specifica e limitata
ipotesi scatta il meccanismo del raddoppio dell’importo
dell’indennità di reperibilità, ai sensi dell’art. 23, comma
1, del CCNL del 14.09.2000;
b) diversa dall’ipotesi della festività è quella della
giornata in cui, comunque, il lavoratore non è tenuto a
rendere la sua prestazione lavorativa in considerazione
della particolare articolazione dell’orario di lavoro
settimanale, in virtù del quale le 36 ore di obbligo sono
ripartite su un ridotto numero di giorni rispetto a quelli
che compongono la settimana (la cosiddetta settimana corta
che, come è noto, prevede, normalmente, cinque giorni
lavorativi a settimana); in questa ipotesi, il giorno in cui
non è dovuta la prestazione lavorativa resta pur sempre
lavorativo a tutti gli effetti ma a zero ore (in quanto le
ore di prestazione sono state già rese negli altri giorni
della settimana) e, conseguentemente, l’eventuale periodo di
reperibilità viene remunerato con l’ammontare ordinario
dell’indennità, senza farsi luogo al raddoppio della stessa,
proprio perché non si tratta di giorno festivo (parere
27.04.2015 n. RAL-1743 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie e
festività/Ferie/
Un dipendente con contratto di lavoro a tempo indeterminato,
inquadrato nella categoria D, in un profilo con trattamento
stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica
D3, al quale è stato conferito presso lo stesso ente di
appartenenza un incarico dirigenziale, ai sensi dell’art.
110, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000, può fruire delle ferie
maturate e non godute dallo stesso nel corso del precedente
rapporto di lavoro non dirigenziale nell’ambito del
successivo rapporto di lavoro a termine quale dirigente
presso lo stesso datore di lavoro pubblico?
L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che il
dipendente potrà fruire delle ferie residue maturate e non
fruite nell’ambito del rapporto di lavoro non dirigenziale
solo al momento della cessazione di questo rapporto,
successivamente alla scadenza dell’incarico dirigenziale
allo stesso conferito ai sensi dell’art. 110, comma 1, del
DLlgs. n. 267/2000.
La fruizione, nel corso dell’incarico dirigenziale, delle
ferie maturate nell’ambito del rapporto non dirigenziale non
può ammettersi, dato che questo è di natura completamente
diversa e distinta dal primo, anche se intercorrente con lo
stesso datore di lavoro (parere
23.04.2015 n. RAL-1739 - link a
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CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
richiesta di parere formulato inerente la possibilità o meno
di riconoscere “il pagamento delle spettanze relative ai
costi sostenuti per l’iscrizione all’Albo degli Architetti e
per l’Assicurazione personalmente contratta da parte di un
ex dipendente del Comune, Architetto, inquadrato nella Cat.
C” è
inammissibile dal punto di vista oggettivo, in
quanto il quesito posto all’attenzione si risolve in una
valutazione circa la legittimità di atti e comportamenti che
rientrano nell’autonomia decisionale spettante
all’amministrazione richiedente, non presentando, pertanto,
i necessari presupposti di astrattezza e generalità ed
implicando perciò considerazioni afferenti l’attività
concreta dell’ente.
Inoltre, la materia non rientra nel
concetto di contabilità, inteso quale complesso di
disposizioni che regolano il sistema del bilancio ed i
relativi equilibri, quali: acquisizione e gestione dei mezzi
finanziari e patrimonio pubblico e, quindi, in particolare,
disciplina dei bilanci, acquisizione delle entrate,
organizzazione finanziaria e contabile, disciplina del
patrimonio, gestione delle spese, indebitamento,
rendicontazione e relativi controlli.
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione –con nota prot. n. 17443/1.13.9 del 16.07.2015– una
richiesta di parere, formulata dal Sindaco del Comune di
Campo nell’Elba (LI), inerente la possibilità o meno di
riconoscere “il pagamento delle spettanze relative ai
costi sostenuti per l’iscrizione all’Albo degli Architetti e
per l’Assicurazione personalmente contratta da parte di un
ex dipendente del Comune, Architetto, inquadrato nella Cat.
C”.
...
Nel caso de quo, la Sezione ritiene
che la richiesta sia inammissibile dal punto di vista
oggettivo, in quanto il quesito posto all’attenzione si
risolve in una valutazione circa la legittimità di atti e
comportamenti che rientrano nell’autonomia decisionale
spettante all’amministrazione richiedente, non presentando,
pertanto, i necessari presupposti di astrattezza e
generalità ed implicando perciò considerazioni afferenti
l’attività concreta dell’ente.
Inoltre, la materia non rientra nel
concetto di contabilità, inteso quale complesso di
disposizioni che regolano il sistema del bilancio ed i
relativi equilibri, quali: acquisizione e gestione dei mezzi
finanziari e patrimonio pubblico e, quindi, in particolare,
disciplina dei bilanci, acquisizione delle entrate,
organizzazione finanziaria e contabile, disciplina del
patrimonio, gestione delle spese, indebitamento,
rendicontazione e relativi controlli
(cfr. SS.RR. deliberazione n. 54/2010; si veda anche, in
terminis, la deliberazione n. 158 del 17.11.2010 di
questa Sezione).
Occorre, pertanto, ribadire il principio in virtù del quale
le richieste di parere debbono presentare il
connotato della rilevanza generale e non possono essere
funzionali all’adozione di specifici atti gestionali che
rientrano nell’autonomo potere discrezionale dell’ente,
volto all’adozione dei provvedimenti inerenti la gestione
finanziaria ed amministrativa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 28.10.2015 n. 494). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il
d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n.
114, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5,
preclude espressamente, per il futuro, la
riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero di attività
qualificabili come manutentive, sia straordinarie che
ordinarie, a prescindere dalla presenza o meno di una
preventiva attività di progettazione (…)”.
---------------
Al fine di individuare l’annualità alla
quale riferirsi per la verifica del limite massimo per
l’erogazione degli incentivi al singolo dipendente che è
pari al 50% del trattamento economico complessivo annuo
lordo, deve farsi riferimento al momento della
corresponsione degli stessi e, quindi, alla fase del
pagamento, in quanto l’art. 93, c. 7-ter, del Codice degli
appalti prevede
(“Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso
dell’anno”) che si debba avere
riguardo al momento dell’erogazione del riconoscimento
incentivante.
--------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione –con nota prot. n. 8751/1.13.9 del 14.04.2015– una
richiesta di parere, formulata dal Sindaco metropolitano
di Firenze, in cui si chiede se, alla luce delle
modifiche introdotte, in materia di incentivi alla
progettazione, ad opera degli artt. 13 e 13-bis del d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114,
sia previsto o meno l’obbligo di esclusione
dell’incentivo per le attività manutentive, sia ordinarie
che straordinarie, nonché, al fine di individuare
l’annualità alla quale riferirsi per la verifica del limite
massimo per la corresponsione degli incentivi che è pari al
50% del trattamento economico complessivo annuo lordo, se si
debba far riferimento al momento della liquidazione oppure
alla fase del pagamento dei medesimi.
...
Nel merito, questa Sezione ha avuto già modo di affrontare
la questione interpretativa concernente la spettanza
dell’incentivo di progettazione con parere, assunto con
parere 12.11.2014 n. 237, reso nei confronti
della Regione Toscana, ove si è rappresentato che “Posto
che l’incentivo in questione dà luogo ad una ipotesi
derogatoria del principio di onnicomprensività e
determinazione contrattuale della retribuzione, e non si
presta pertanto a interpretazione analogica, le numerose
pronunce delle Sezioni regionali di controllo intervenute
nella materia (si vedano, fra le altre: Sez. controllo
Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 28.05.2014 n. 188; Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24; Sez. controllo Piemonte,
parere 28.02.2014 n. 39 e
parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana,
parere 13.11.2012 n. 293 e
parere 19.03.2013 n. 15) fanno emergere alcuni
orientamenti consolidati: la
possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata all’area
degli appalti pubblici di lavori, e non si estende agli
appalti di servizi manutentivi; in ragione della natura
eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi
per qualunque intervento di manutenzione
straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla
realizzazione di un’opera pubblica, e sempre che alla base
sussista una necessaria attività progettuale
(ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le
fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed
esecutiva); si devono escludere dall’ambito
di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di
manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante
svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di
manutenzione eseguiti in economia).
In base a tali orientamenti, appare evidente che
le ipotesi di riconoscibilità dell’incentivo ad
attività di manutenzione ordinaria, anche laddove
riconosciute astrattamente possibili, presenterebbero in
concreto margini molto limitati, spettando comunque all’ente
di valutare quale sia la soglia minima di complessità
tecnica e progettuale che ne giustifichi la corresponsione
(così Sez. controllo Puglia,
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114).
Va peraltro sottolineato che in passato la Sezione Toscana
ha adottato l’interpretazione più restrittiva, ritenendo che
“l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione,
nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla
costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e
traendone la conclusione che, a priori, i lavori di
manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le
attività retribuibili con l’incentivo in questione
(Sez. controllo Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15, alle cui considerazioni
si fa qui rinvio; conforme anche Sez. Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24).
Sul punto è ormai intervenuto il d.l. 24.06.2014, n. 90,
convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114 che, nell’abrogare il
citato art. 92, comma 5, preclude
espressamente, per il futuro, la riconoscibilità
dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili
come manutentive, sia straordinarie che ordinarie,
a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva
attività di progettazione (…)”.
In riferimento al secondo quesito proposto, questo
Collegio ritiene che, al fine di
individuare l’annualità alla quale riferirsi per la verifica
del limite massimo per l’erogazione degli incentivi al
singolo dipendente che è pari al 50% del trattamento
economico complessivo annuo lordo, debba farsi riferimento
al momento della corresponsione degli stessi e, quindi, alla
fase del pagamento, in quanto l’art. 93, c. 7-ter, del
Codice degli appalti prevede
(“Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso
dell’anno”) che si debba avere riguardo
al momento dell’erogazione del riconoscimento incentivante
(in terminis, si veda anche Sez. autonomie
deliberazione 24.03.2015 n. 11) (Corte dei Conti,
Sez. controllo Toscana,
parere 28.10.2015 n. 490). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’incentivo alla progettazione non può venire
riconosciuto per qualunque lavoro ma solo per lavori di
realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una
necessaria attività di progettazione.
Sicché, anche le attività di manutenzione
straordinaria consentano l’erogazione dell’incentivo
l’incentivo alla progettazione come attualmente normato, ma
solo laddove richiedenti un’attività di progettazione.
---------------
Il parere (formulato dal Presidente della Provincia di
Mantova) concerne la corretta interpretazione della nuova
disciplina in materia di incentivo alla progettazione
interna di opere pubbliche, in passato regolata dal
previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 12.04.2006, n.
163 - codice dei contratti pubblici (abrogato dall’art. 13
del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con l. 11.08.2014, n.
114) e ora dall’art. 13-bis della l. 114/2014, che ha
inserito, nell’art. 93 d.lgs. 163/2006, quattro nuovi commi
(7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies).
In particolare la richiesta verte sulla disposizione che
esclude "le attività manutentive" dalla ripartizione
delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione
(comma 7-ter, secondo periodo, dell'art. 93 del d.lgs. n.
163/2006).
Si chiede, nello specifico, se (in base alla
lettera della norma) tra le attività escluse dalla
ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e
l'innovazione rientrino, oltre ai lavori di manutenzione
ordinaria, anche quelli di manutenzione straordinaria.
...
La Sezione ha avuto modo di evidenziare che,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n.
114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come
tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare
riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale
interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del
procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera
pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente
necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che
stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi
(comma 7-bis) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da
recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di
ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle
novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i
soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con
qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
Nel
parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453 della Sezione, dopo
averne richiamato il tenore letterale, è stato sottolineato
come la normativa in materia di c.d. “incentivo alla
progettazione” (la cui denominazione risale all’art. 18
dell’abrogata legge n. 109/1994) vada letta nel complessivo
contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi
tecnico professionali, previsti dalla legislazione in
materia di contratti pubblici. Quest’ultima (cfr. artt. 10,
84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da
un principio generale, codificato anche dall’art. 7, comma
6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i predetti
incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al
plesso amministrativo solo se non si disponga di
professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza
non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di
gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a
preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il
personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi (che la legge considera ordinarie)
in cui gli incarichi tecnici siano espletati da personale
interno occorre far riferimento, ai fini della loro
remunerazione, alle regole generali previste per il pubblico
impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due
principi cardine, quello di definizione contrattuale delle
componenti economiche e quello di onnicomprensività della
retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n.
165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale
per la Puglia,
sentenza 20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza 02.08.2010 n. 487).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Tuttavia, la fonte legislativa, oltre a disciplinare la
struttura ed i livelli di contrattazione nel pubblico
impiego (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 d.lgs. 165/2001) può, in
omaggio al generale sistema delle fonti previsto dalla
Costituzione, disciplinare in modo diretto l’ammontare del
trattamento economico (si rimanda, per esempio, ai precetti
posti dall’art. 9 del d.l. n. 78/2010, convertito nella
legge n. 122/2010), nonché attribuire ulteriori specifici
compensi (come nel caso dell’art. 92, comma 5, del Codice
dei contratti pubblici, oggi art. 93, commi 7-bis e
seguenti).
L’incentivo in commento costituisce, infatti, uno di quei
casi nei quali il legislatore, derogando al principio per
cui il trattamento economico è fissato dai contratti
collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale,
rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice
ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità
di ripartizione. In quanto tale costituisce un’eccezione di
stretta interpretazione con divieto di analogia (art. 12
delle diposizioni preliminari al codice civile, cfr. altresì
Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata (in virtù della novella legislativa del 2014,
risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a
mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del
fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a
base di gara).
I punti fermi che il regolamento interno
deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione)
sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di
servizi).
La norma non richiede, ai fini della
legittima erogazione, il necessario espletamento interno di
una o più attività (per esempio, la progettazione), purché
il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme
alle responsabilità attribuite e devolva in economia la
quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti
esterni;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei
lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione
(si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18
e
deliberazione 02.05.2001 n. 150 dell’Autorità di
vigilanza);
- devoluzione in economia delle quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte
da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione
dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti
(novità
discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli
incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di
conversione n. 114/2014).
Altri principi applicabili alla fattispecie (rilevanti ai
fini del parere di cui si discute) si ricavano dalla
normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare,
dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in base al
quale “le amministrazioni pubbliche non
possono erogare trattamenti economici accessori che non
corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
La regola è fatta espressamente propria dal legislatore
anche nella materia degli incentivi di cui si discute, posto
che il nuovo art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006
(riprendendo analoga formulazione del precedente art. 92,
comma 5) dispone che “la corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti”. Nel caso in cui tale accertamento sia
invece negativo, scatta la medesima regola della devoluzione
in economia esaminata in precedenza (cfr. in tal senso, sia
pure nel previgente contesto normativo, la
deliberazione 22.06.2005 n. 69 dell’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici).
In estrema sintesi, quindi, la novella
normativa ha lasciato intatto il potere dell’amministrazione
di riconoscere, sia pure con le diverse forme e entro i
nuovi limiti indicati, incentivi per l’attività di
progettazione e per l’attività di supporto alla
progettazione esterna, intaccando per contro
(sez. Toscana,
parere 05.03.2015 n. 12) la
diversa fattispecie
(art. 92, comma 6, del codice dei contratti)
concernente la redazione di atti pianificatori pur
sempre connessi all’espletamento di un’opera pubblica.
Con riguardo al quesito specificamente posto dal Comune,
occorre rilevare che l’art. 3, comma 1, lett. b), d.p.r.
06.06.2001, n. 380, definisce gli “interventi di
manutenzione straordinaria" come “le opere e le
modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e
non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria
sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o
accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere
anche se comportanti la variazione delle superfici delle
singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico
purché non sia modificata la volumetria complessiva degli
edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso”.
La Sezione regionale di controllo delle Marche, con
parere 17.12.2014 n. 141, ha ritenuto
conseguentemente che "Il nuovo testo
dell'art. 92 cit. così come risultante dalle modifiche
introdotte dal D.L. 90/2014 ha espressamente/previsto che i
criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che
ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano le
attività manutentive. L'interpretazione formatasi sulla
precedente formulazione dell'art. 92 cit. aveva già escluso
dalle attività remunerabili con l'incentivo in questione gli
interventi di manutenzione ordinaria, facendo salve le sole
manutenzioni straordinarie
(cfr. Sezione controllo Toscana
parere 19.03.2013 n. 15).
Infatti, secondo il riferito indirizzo
giurisprudenziale le manutenzioni straordinarie sarebbero
riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione
di opere pubbliche al compimento delle quali la norma
subordina l'erogazione dell'incentivo.
Il Collegio non ha motivi per discostarsi dal predetto
orientamento interpretativo ritenendo che la modifica al
testo dell'art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non
abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi
relativi agli interventi di manutenzione straordinaria.
Infatti, premesso che nel sistema delineato dall'art. 92
cit. l'erogazione dell'incentivo è collegato alla
realizzazione di un'opera pubblica, si evidenzia che l'art.
3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350
equipara espressamente gli interventi di manutenzione
straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli
come spese d'investimento per le quali, peraltro, è
consentito il ricorso all'indebitamento. (b) la costruzione,
la demolizione, la ristrutturazione, il recupero e la
manutenzione straordinaria di opere e impianti”.
Occorre rilevare, inoltre, che secondo la disciplina del
codice dei contratti pubblici (art. 3, commi 7 e 8), gli “appalti
pubblici di lavori” sono “appalti pubblici aventi per
oggetto l'esecuzione o, congiuntamente, la progettazione
esecutiva e l'esecuzione, ovvero, previa acquisizione in
sede di offerta del progetto definitivo, la progettazione
esecutiva e l’esecuzione, relativamente a lavori o opere”
(…); tra essi rientrano “le attività di costruzione,
demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro,
manutenzione, di opere”.
Le riferite indicazioni normative (dettate ad altri fini)
devono comunque essere coordinate con la littera e la
ratio legis, atteso che deve essere ribadito quanto
in precedenza affermato dalla Sezione in precedente relativo
il previgente incentivo alla progettazione (parere
06.03.2013 n. 72), secondo cui “l’incentivo
alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque
lavoro” ma “solo per lavori di realizzazione di
un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria
attività di progettazione”.
In conclusione, l’avviso della Sezione è nel senso che
anche le attività di manutenzione
straordinaria consentano l’erogazione dell’incentivo
l’incentivo alla progettazione come attualmente normato, ma
solo laddove richiedenti un’attività di progettazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 28.10.2015 n. 351). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
legge n. 190/2014 (Legge finanziaria statale per il 2015)
all’art. 1, comma 424, ha previsto che gli
Enti Locali, per gli anni 2015 e 2016, destinino le risorse
disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato
all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico
collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla
data di entrata in vigore della presente legge e alla
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità.
Al riguardo è stato chiarito, tra l’altro, che:
- le risorse da destinare alle finalità di
cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli
anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni
intervenute nel 2014 e nel 2015;
- la predetta capacità assunzionale deve
essere destinata in via prioritaria all’immissione nei ruoli
dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie
graduatorie vigenti o approvate al 01.01.2015;
- le risorse rimanenti devono essere
destinate ai processi di mobilità del personale
soprannumerario degli enti di area vasta.
Tanto premesso, rimangono consentite le
assunzioni a valere sui budget degli anni precedenti.
Sicché, qualora le cessazioni siano
intervenute nel 2013, come nella specie, la capacità
assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non
soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n.
190/2014, valendo la sola disciplina illustrata al punto
2.2. della presente deliberazione –se del caso– anche per
effettuare assunzioni dall’esterno di figure professionali
non rintracciabili negli enti di area vasta.
---------------
Il Sindaco del Comune di Quattro Castella (RE) ha
inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere del
seguente tenore:
«Siamo
un comune soggetto al Patto di stabilità che negli anni
2010-2011-2012 ha avuto cessazioni di personale e che nel
2013 utilizzando parte delle quote assunzionali consentite
dalle norme susseguitesi negli anni di riferimento ha
provveduto all’assunzione di un’unità di personale
part-time.
Al 31.12.2013, pertanto, il Comune aveva una capacità
assunzionale residua di euro 17.000,00 ca., con la quale
riteneva di potere effettuare nuove assunzioni nell’ambito
della propria programmazione di fabbisogno di personale.
Alla luce dell’art. 1, commi da 418 a 430, della legge n.
190 del 2014 e della circolare n. 1 del 2015 del Ministero
per la semplificazione della pubblica amministrazione e del
Ministero affari regionali e le autonomie, e, in
particolare, facendo riferimento a quest’ultima, alla voce “divieti
ed effetti derivanti dai commi 424 e 425 per le
Amministrazioni pubbliche”, della quale si riporta
testualmente: “rimangono consentite le assunzioni a
valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle
previste da norme speciali”, si chiede:
- a quali anni si deve fare riferimento nella dicitura “budget
degli anni precedenti”?;
- se nella capacità assunzionale residuale relativa alle
cessazioni degli anni 2010-2011-2012 ancora a disposizione
dell’Amministrazione comunale possa essere utilizzata per
assunzioni non rientranti in quelle disciplinate dai commi
424 e 425, a titolo di esempio per effettuate assunzioni
dall’esterno di figure professionali non rintracciabili
degli enti di area vasta, quali: educatori, insegnanti,
farmacisti, necroforo, ecc.?»
...
2.1. Il Collegio ritiene opportuno, preliminarmente,
illustrare sinteticamente gli attuali limiti alla capacità
assunzionale degli Enti Locali soggetti al patto di
stabilità interno.
A tale proposito –nel richiamare il parere reso su questione
analoga da parte della Sezione di controllo della Corte dei
conti per la Regione Sardegna n. 32/2015– occorre ricordare
che
la vigente disciplina vincolistica impone, da un
lato, di contenere la spesa per il personale entro un
certo tetto e, dall’altro, di limitare le nuove
assunzioni alla parziale reintegrazione dei cessati
(turn-over).
2.2. In particolare, l’art. 3, comma 5-bis, del D.L. n.
90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha introdotto,
all’art. 1, della L. n. 296/2006, il comma 557-quater che
ha previsto quale limite di spesa per il personale
il “valore medio del triennio precedente alla data di
entrata in vigore della presente disposizione” ovvero la
media di quanto speso per il personale negli anni 2011, 2012
e 2013 (si veda
sul punto la la
deliberazione 06.10.2014 n. 25).
Per potere assumere, però, non basta rispettare tale
parametro. Infatti, sono previsti specifici vincoli di
turn-over che si basano sul principio della parziale
reintegrazione dei cessati.
In particolare, per gli enti soggetti al
patto di stabilità interno, l’art. 3, comma 5, del D.L. n.
90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha previsto la
possibilità di assumere negli anni 2014 e 2015 un
contingente di personale a tempo indeterminato nei limiti di
una spesa pari al 60% di quella relativa al personale di
ruolo cessato nell’anno precedente. Tale percentuale, ai
sensi dell’art. 3, comma 5-quater, del D.L. n. 90/2014,
convertito con la L. n. 114/2014, è destinata ad aumentare
se l’incidenza della spesa per il personale sulla spesa
corrente è pari o inferiore al 25%. Così, nel 2014 si potrà
assumere nei limiti dell’80% e dal 2015 nella misura del
100% della spesa sostenuta per il personale di ruolo cessato
dal servizio nell’anno precedente.
Si deve, inoltre, ricordare che il citato art. 3, comma 5,
del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha
anche previsto che “a decorrere
dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse
destinate alle assunzioni per un arco temporale non
superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del
fabbisogno e di quella finanziaria e contabile”.
Ciò significa che qualora la cessazione sia
intervenuta nel 2013, l’Ente Locale soggetto al patto di
stabilità avrà nel 2014 una capacità assunzionale pari al
60% della spesa sostenuta per il personale cessato nel 2013
ed eventualmente dell’80% di tale spesa se il rapporto tra
spesa per il personale e spesa corrente è pari o inferiore
al 25%.
Se l’assunzione non viene effettuata nel 2014 ma programmata
per il 2015, si potrà cumulare la capacità assunzionale del
2014 (60% o 80% della spesa per il personale cessato nel
2013) con quella del 2015 (60% o 100% della spesa per il
personale cessato nel 2014), sempre che nel 2014 siano
intervenute nuove cessazioni in quanto la capacità
assunzionale di ogni anno si calcola sulle cessazioni
intervenute nell’anno precedente
(si veda sul punto la
deliberazione 21.11.2014 n. 27).
2.3. Su tale assetto normativo è intervenuta la L. n.
190/2014 (Legge finanziaria statale per il 2015) che
all’art. 1, comma 424, ha previsto che gli
Enti Locali, per gli anni 2015 e 2016, destinino le risorse
disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato
all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico
collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla
data di entrata in vigore della presente legge e alla
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità.
Per fare chiarezza sulla portata applicativa di tale norma
sono intervenuti il Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione e il Ministro per gli affari
regionali che, con la
circolare 30.01.2015 n. 1/2015 citata nella
richiesta di parere, hanno chiarito, tra l’altro, che:
- le risorse da destinare alle finalità di
cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli
anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni
intervenute nel 2014 e nel 2015;
- la predetta capacità assunzionale deve
essere destinata in via prioritaria all’immissione nei ruoli
dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie
graduatorie vigenti o approvate al 01.01.2015;
- le risorse rimanenti devono essere
destinate ai processi di mobilità del personale
soprannumerario degli enti di area vasta.
2.4. Tanto premesso, rimangono consentite
le assunzioni a valere sui budget degli anni precedenti.
Sicché, qualora le cessazioni siano
intervenute nel 2013, come nella specie, la capacità
assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non
soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n.
190/2014, valendo la sola disciplina illustrata al punto
2.2. della presente deliberazione –se del caso– anche per
effettuare assunzioni dall’esterno di figure professionali
non rintracciabili negli enti di area vasta
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 27.10.2015 n. 140). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Alla
luce dei principi recentemente affermati dalla Sezione delle
Autonomie, la Sezione ritiene sia possibile
in via generale riconoscere incentivi per la progettazione a
tecnici interni per attività espletate per un’opera che
risulti conclusa prima dell’entrata in vigore della legge n.
114 del 2014, ai sensi dell’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs.
163/2006.
La Sezione sottolinea, tuttavia, che, alla
luce della giurisprudenza della Corte dei conti, antecedente
alle modifiche normative introdotte dalla legge n. 114 del
2014, l’incentivo alla progettazione non poteva venire
riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione
ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo
per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui
base vi fosse una necessaria attività di progettazione, in
quanto dall’ambito applicativo della normativa in oggetto
esulavano tutti quei lavori manutentivi per la cui
realizzazione non fosse necessaria l’attività progettuale
richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163 del
2006.
La Sezione ritiene, pertanto, che, anche
nell’ipotesi in cui l’opera risulti conclusa prima
dell’entrata in vigore della legge n. 114 del 2014, nessun
incentivo per la progettazione possa essere riconosciuto in
caso di lavori di manutenzione, che non siano supportati da
una reale significativa attività progettuale.
---------------
Con nota del 23.07.2015 il Consiglio delle Autonomie Locali
della Sardegna ha trasmesso alla Sezione regionale di
controllo la deliberazione n. 25 del 10.07.2015 con la quale
rimette alla Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge n. 131 del 2003, la richiesta di parere
dell’Amministratore Straordinario della Provincia del Medio
Campidano in merito alla possibilità di riconoscere
incentivi per la progettazione, ai sensi dell’art. 92, commi
5 e 6, del d.lgs. 163/2006 oggi abrogati, a tecnici interni
cui siano stati affidati lavori di manutenzione per un’opera
che risulta conclusa prima dell’entrata in vigore della
legge n. 114 dell’11.08.2014.
...
3. La questione oggetto della richiesta di parere è stata
esaustivamente affrontata dalla Sezione delle Autonomie
della Corte dei conti con
deliberazione 24.03.2015 n. 11,
in sede di questione di massima, sollevata a seguito di
contrasto interpretativo tra più Sezioni, che ha chiarito
quanto segue: "La disciplina in materia di riparto del
fondo per l’incentivazione per la progettazione interna è
stata riformulata ad opera degli artt. 13 e 13-bis del d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014, n.
114.
La prima delle due disposizioni ha abrogato i commi 5 e 6
dell’art. 92 del codice dei contratti, concernenti
rispettivamente la disciplina degli incentivi alla
progettazione di opere o lavori e la redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato. Il successivo art.
13-bis, inserito in fase di conversione in legge, ha
introdotto nel testo dell’art. 93, dopo il comma 7, i commi
dal 7-bis al 7-quinquies.
In particolare, il comma 7-ter è intervenuto ad individuare
i criteri in base ai quali il fondo deve essere ripartito,
stabilendo, fra l’altro, che gli incentivi, complessivamente
corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, anche
da amministrazioni diverse, non possano superare l’importo
del 50 per cento del trattamento complessivo annuo lordo.
La Sezione delle Autonomie afferma, in adesione alla tesi
sostenuta da numerose Sezioni di controllo, ...
l’irretroattività della legge ed, in particolare, delle
disposizioni recate dall’art. 93, comma 7-ter, come
introdotto dall’art. 13-bis della legge di conversione del
d.l. n. 90/2014, che non possono essere considerate
disposizioni di interpretazione autentica e pertanto non
sono applicabili retroattivamente. Infatti, come precisato
dalla giurisprudenza costituzionale, pur riconoscendosi
l’importanza dell’intervento del legislatore, attuato
attraverso leggi di interpretazione autentica, da
considerarsi quale modalità per sopperire a lacune o errori
nella formazione delle leggi, tuttavia, una legge, per
essere riconosciuta quale norma interpretativa, deve
limitarsi ad assegnare alle disposizioni interpretate un
significato in esse già contenuto, individuabile come una
delle possibili letture del testo originario. ...
Nel caso di specie le norme in esame, oltre ad avere
carattere innovativo, verrebbero, ove interpretate in modo
retroattivo, ad incidere su posizioni giuridiche in atto,
senza che tale retroattività trovi giustificazione
ragionevole, ponendosi, anzi, in contrasto con il principio
generale di eguaglianza e con l’affidamento legittimamente
sorto negli interessati. Le stesse, pertanto, devono, nella
fattispecie, essere applicate alla luce del principio di
irretroattività della norma. ... La Sezione delle Autonomie,
in adesione alla soluzione prospettata dalla Sezione
Basilicata, ... individua nel momento dell’approvazione
dell’opera il riferimento temporale per la scelta della
disciplina da applicare al caso di specie, prescindendo dal
momento in cui le prestazioni incentivate siano state in
concreto poste in essere. ...
Conclusivamente si ritiene che la questione di diritto
intertemporale, ... possa essere risolta, ... facendo
ricorso all’anzidetto principio di irretroattività della
norma, da cui discende, alla luce della giurisprudenza
costituzionale, la considerazione che la disposizione
retroattiva, specie quando determini effetti pregiudizievoli
rispetto ai diritti soggettivi “perfetti” che trovino la
loro base in rapporti di durata di natura contrattuale
convenzionale -pubbliche o private che siano le parti
contraenti– deve, comunque, essere assistita da una causa
normativa adeguata, intendendosi per tale una funzione della
norma che renda accettabilmente penalizzata la posizione del
titolare del diritto compromesso, attraverso contropartite
intrinseche allo stesso disegno normativo e che valgano a
bilanciare le posizioni delle parti (Corte Cost. sentenza n.
92/2013)".
4. Alla luce dei principi recentemente affermati dalla
Sezione delle Autonomie, la Sezione ritiene
sia possibile in via generale riconoscere incentivi per la
progettazione a tecnici interni per attività espletate per
un’opera che risulti conclusa prima dell’entrata in vigore
della legge n. 114 del 2014, ai sensi dell’art. 92, commi 5
e 6, del d.lgs. 163/2006.
La Sezione sottolinea, tuttavia, che, alla
luce della giurisprudenza della Corte dei conti, antecedente
alle modifiche normative introdotte dalla legge n. 114 del
2014, l’incentivo alla progettazione non poteva venire
riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione
ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo
per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui
base vi fosse una necessaria attività di progettazione, in
quanto dall’ambito applicativo della normativa in oggetto
esulavano tutti quei lavori manutentivi per la cui
realizzazione non fosse necessaria l’attività progettuale
richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163 del
2006 (cfr. Sez.
Controllo Piemonte
parere 17.03.2014 n. 44;
Sez. Controllo Liguria
parere 24.10.2014 n. 60; Sez. Controllo Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72; cfr. anche Sez.
Controllo Sardegna
parere 20.10.2009 n. 73 e
parere 30.01.2015 n. 11).
5. La Sezione ritiene, pertanto, che, anche
nell’ipotesi in cui l’opera risulti conclusa prima
dell’entrata in vigore della legge n. 114 del 2014, nessun
incentivo per la progettazione possa essere riconosciuto in
caso di lavori di manutenzione, che non siano supportati da
una reale significativa attività progettuale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna,
parere 23.10.2015 n. 67). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In ordine alla modalità di recupero, se al lordo o al netto
delle ritenute fiscali, previdenziali e assicurative, di
somme indebitamente erogate al personale comunale.
Trattandosi di ripetizione di
somme indebitamente corrisposte a dipendenti pubblici,
occorre ricordare che il ricupero delle stesse costituisce
un comportamento doveroso che discende direttamente dalla
previsione dell’articolo 2033 del codice civile (“Chi ha
eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò
che ha pagato”).
Invero, ”il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti a
pubblici dipendenti costituisce per la P.A. l’esercizio di
un vero e proprio diritto oggettivo a contenuto
patrimoniale, ex art. 2033 Cod. Civ., avente di regola
carattere di doverosità e privo di valenza provvedimentale,
la cui azionabilità non
è impedita né dall’eventuale percezione in buona fede delle
somme non dovute né dall’eventuale destinazione delle stesse
a bisogni primari della vita, che possono incidere
esclusivamente sull’apprezzamento discrezionale in ordine ad
un’eventuale gradualità del modo di recupero attraverso la
concessione di rateizzazioni e/o dilazioni di pagamento”.
Ed ancora, “la
ripetizione dell’indebito nei confronti del dipendente non
può non avere ad oggetto le somme da quest’ultimo
“percepite” in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto
effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del
dipendente”.
Con la precisazione che “l’Amministrazione non
può invece pretendere di ripetere somme al lordo delle
ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), allorché
le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del
dipendente”
e che “quanto, poi,
alle ritenute e versamenti fiscali erroneamente disposti
dall’Amministrazione quale sostituto d’imposta,
l’Amministrazione può provvedere alla richiesta di rimborso
direttamente nei confronti del fisco, allorché sussistano le
condizioni”.
---------------
Con nota n. 17812 del 09.07.2015, il Sindaco del Comune
di Marsciano (PG), per il tramite del Consiglio delle
Autonomie Locali dell’Umbria (nota 15.07.2015), ha
chiesto, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge
05.06.2003, n. 131, di conoscere l’avviso di questa Sezione
in ordine alla modalità di recupero, se al lordo o al netto
delle ritenute fiscali, previdenziali e assicurative, di
somme indebitamente erogate al personale comunale.
Precisa il Sindaco che il Ministero dell’economia e delle
finanze, che aveva rilevato l’erogazione di emolumenti
dovuti, ha specificato che il recupero debba avvenire al
lordo
...
Nel merito si premette che, trattandosi di ripetizione di
somme indebitamente corrisposte a dipendenti pubblici,
occorre ricordare che il ricupero delle stesse costituisce
un comportamento doveroso che discende direttamente dalla
previsione dell’articolo 2033 del codice civile (“Chi ha
eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò
che ha pagato”).
In proposito il Consiglio di Stato, Sezione VI, con sentenza n. 2203 del 20.04.2004 ha sottolineato
che ”il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti a
pubblici dipendenti costituisce per la P.A. l’esercizio di
un vero e proprio diritto oggettivo a contenuto
patrimoniale, ex art. 2033 Cod. Civ., avente di regola
carattere di doverosità e privo di valenza provvedimentale
(cfr., per tutte, C.G.A., 15.01.2002, n. 8; Cons. St., VI Sez., 20.02.2002, n. 1045),
la cui azionabilità non
è impedita né dall’eventuale percezione in buona fede delle
somme non dovute né dall’eventuale destinazione delle stesse
a bisogni primari della vita, che possono incidere
esclusivamente sull’apprezzamento discrezionale in ordine ad
un’eventuale gradualità del modo di recupero attraverso la
concessione di rateizzazioni e/o dilazioni di pagamento”.
Lo stesso Consiglio di Stato, Sezione VI, con sentenza n.
1164 del 02.03.2009, chiamato a valutare se
l’Amministrazione, nel procedere al recupero di somme
indebitamente erogate ai propri dipendenti, debba effettuare
detto recupero al lordo o al netto delle ritenute fiscali,
previdenziali e assistenziali, ha affermato che “la
ripetizione dell’indebito nei confronti del dipendente non
può non avere ad oggetto le somme da quest’ultimo
“percepite” in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto
effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del
dipendente”.
Con la precisazione che “l’Amministrazione non
può invece pretendere di ripetere somme al lordo delle
ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), allorché
le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del
dipendente” (in termini Cassazione, Sez. lavoro, n. 1464 del
02.02.2012). Aggiungendo, infine, che “quanto, poi,
alle ritenute e versamenti fiscali erroneamente disposti
dall’Amministrazione quale sostituto d’imposta,
l’Amministrazione può provvedere alla richiesta di rimborso
direttamente nei confronti del fisco, allorché sussistano le
condizioni”.
La Sezione ritiene di aderire a tale soluzione che si basa
su un principio elementare il quale attiene alla regola
civilistica dell’indebito arricchimento che non potrebbe
estendersi alle ritenute fiscali, previdenziali e
assistenziali le quali costituiscono somme che non sono
pervenute nella disponibilità patrimoniale del dipendente.
In questi termini si era espressa anche la Sezione regionale
di controllo per la Lombardia con la deliberazione n.
65/2010/PAR del 26.01.2010 e più di recente la Sezione
regionale di controllo per il Lazio con
parere 15.06.2015 n. 125
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 24.09.2015 n. 120). |
ENTI LOCALI: Spese
di rappresentanza - E' illegittimo, e fonte di danno
erariale, assegnare un riconoscimento ai dipendenti comunali
collocati in quiescenza, al fine di valorizzare con un atto
preciso quanti hanno prestato per molti anni la loro opera
al servizio del Comune e soprattutto a servizio della
cittadinanza.
Non sono riconducibili tra le spese che
possono essere legittimamente sostenute dall’Ente quelle in
analisi relative all’acquisto di regali per il personale
collocato in quiescenza.
Allo stesso tempo, ferma questa considerazione sul piano
generale, la possibile sussumibilità nella species spese di
rappresentanza risulta, comunque, preclusa per l’assenza del
presupposto della sua destinazione “all’esterno” dell’Ente.
---------------
Le spese di rappresentanza devono essere caratterizzate da
un legame con il fine istituzionale dell’ente, oltre alla
necessità effettiva per il medesimo di ottenere una
proiezione esterna dell’amministrazione o di intrattenere
relazioni pubbliche con soggetti estranei nell’ambito dei
normali rapporti istituzionali.
Tali spese sono pertanto finalizzate ad
apportare vantaggi che l’ente trae dall’essere conosciuto,
quindi, non possono risolversi in mera liberalità. Sono
prive della qualificazione di spese di rappresentanza quelle
erogate in occasione e nell’ambito di normali rapporti
istituzionali a favore di soggetti che non sono
rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché
estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni
rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a
beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti
all’Ente che le dispone.
Devono inoltre essere rigorosamente
giustificate con l’esposizione dell’interesse istituzionale
perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l’attività
dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del
soggetto destinatario e dell’occasione della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità
della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in
riferimento ai valori economici di mercato.
----------------
Il Comune di Lissone (MB) ha trasmesso, con nota prot. CC n.
7869 del 01/07/2015, alla Sezione Regionale di Controllo per
la Lombardia, ai sensi dell’art. 16, comma 26, del D.L. n.
138/2011, conv. nella legge n. 148/2011, il prospetto
delle spese di rappresentanza sostenute nell’esercizio
finanziario 2014.
Con nota prot. CC n. 8531 del 23/07/2015, il Magistrato
Istruttore chiedeva all’ente di fornire maggiori dettagli in
relazione alla spesa di € 2.324,10 sostenuta per conferire
un riconoscimento ai dipendenti comunali collocati in
quiescenza.
Con nota prot. n. 2015 del 05/08/2015, l’Ente ha specificato
che “è consuetudine dell’Amministrazione comunale
assegnare un riconoscimento ai dipendenti comunali collocati
in quiescenza, al fine di valorizzare con un atto preciso
quanti hanno prestato per molti anni la loro opera al
servizio del Comune e soprattutto a servizio della
cittadinanza.
Con una deliberazione di consiglio comunale del 1986 erano
state individuate le modalità di assegnazione e i tipi di
riconoscimenti ai dipendenti comunali collocati in
quiescenza (medaglia d’oro e diploma per dipendenti con più
di 25 anni di servizio, medaglia d’argento per i dipendenti
con più di 15 anni, ecc…).
Con nota del Settore Risorse Umane in data 07.10.2010 veniva
comunicato al servizio acquisti/economato che, nel corso del
2014, venivano collocati in quiescenza cinque dipendenti con
oltre 25 anni di servizio ai quali doveva essere
riconosciuta la medaglia d’oro.
Il Settore Finanze, con determinazione n. 909 del 22.10.2014
(vedi allegato n. 4), provvedeva ad indire, tramite Sintel,
procedura in economia mediante cottimo fiduciario per la
fornitura delle cinque medaglie.
In relazione alle linee guida contenute nella deliberazione
n. 151 del 26.04.2012 della Sezione di Controllo della Corte
dei Conti della Lombardia, si fa presente che:
- tali spese sono state previste in apposito stanziamento
del bilancio di previsione nel rispetto dei vincoli di
finanza pubblica;
- la finalità essenziale di tali spese è la valorizzazione
dell’attività dell’ente a favore della collettività in
quanto il riconoscimento ha un valore simbolico e non
rappresenta esclusivamente un beneficio diretto a favore del
dipendente;
- la spesa sostenuta si ritiene congrua rispetto ai valori
di mercato essendo ricorsi, per la fornitura, ad un soggetto
aggregatore quale la piattaforma Sintel di Regione
Lombardia.
Per le motivazioni sopra esposta si ritiene che tale spesa
sia rispondente ai principi di inerenza, ufficialità e
congruità”.
Conclusa l’istruttoria ed essendosi formato il
contraddittorio con l’Ente, il Magistrato Istruttore, nota
n. 49410248 del 26/08/2015, chiedeva al Presidente della
Sezione il deferimento all’esame collegiale nella camera di
consiglio convocata per il giorno 10/09/2015.
...
Giova preliminarmente ricordare, per quanto riguarda le
spese prese in considerazione dall’istruttoria e dalla
presente deliberazione, che sul punto è consolidato
l’orientamento di questa Sezione secondo cui
le spese di rappresentanza devono essere
caratterizzate da un legame con il fine istituzionale
dell’ente, oltre alla necessità effettiva per il medesimo di
ottenere una proiezione esterna dell’amministrazione o di
intrattenere relazioni pubbliche con soggetti estranei
nell’ambito dei normali rapporti istituzionali.
Tali spese sono pertanto finalizzate ad
apportare vantaggi che l’ente trae dall’essere conosciuto,
quindi, non possono risolversi in mera liberalità. Sono
prive della qualificazione di spese di rappresentanza quelle
erogate in occasione e nell’ambito di normali rapporti
istituzionali a favore di soggetti che non sono
rappresentativi degli organi di appartenenza, ancorché
estranei all’Ente, e in generale quelle prive di funzioni
rappresentative verso l’esterno, quali quelle destinate a
beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti
all’Ente che le dispone
(Corte dei Conti - Sez. Giurisdizionale Regione Veneto,
22.11.1996 n. 456 e Sez. Giurisdizionale Emilia Romagna,
05.06.1997 n. 326). Devono inoltre essere
rigorosamente giustificate con l’esposizione dell’interesse
istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto
tra l’attività dell’ente e la spesa erogata, della
qualificazione del soggetto destinatario e dell’occasione
della spesa.
Resta ferma la necessità di una congruità
della spesa sostenuta che va misurata senz’altro in
riferimento ai valori economici di mercato
(“non è comunque congruo mostrare prodigalità attraverso
celebrazioni e rinfreschi, e semmai è richiesto il
contrario, ossia l’evidenza di una gestione accorta che
rifugga gli sprechi e si concentri sull’adeguato
espletamento delle funzioni sue proprie” – Sez.
Giurisdizionale Abruzzo n. 394/2008).
Pur considerato il non rilevante importo assoluto della
spesa considerata, la Sezione non può esimersi dal rilevare
come l’elargizione posta in essere dall’Ente in favore dei
propri dipendenti collocati in quiescenza presenti evidenti
profili di criticità.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire (ex multis
sentenza 27.09.2011, n. 417 - Sezione I giurisdizionale
centrale d’Appello; Sez. controllo Emilia Romagna n.
271/2013) che tale tipologia di spesa, non
solo non è satisfattiva di alcun interesse pubblico, ma non
corrisponde alla causa attributiva del relativo potere, con
la conseguenza che non possa che esserne affermata
l’illegittimità, anche in caso di importi modesti della
stessa. Tali principi non possono che trovare diretta
applicazione anche nel caso in esame, considerato anche il
valore unitario della singola medaglia d’oro conferita ai
cinque dipendenti con oltre 25 anni di servizio collocati in
quiescenza (€
381,00 + IVA cadauna).
Né a diverse conclusioni può condurre la circostanza che,
come rappresentato dall’Ente, tale spesa sia stata sostenuta
sulla base di “una deliberazione di consiglio comunale
del 1986”, che individuava “le modalità di
assegnazione e i tipi di riconoscimenti ai dipendenti
comunali collocati in quiescenza (medaglia d’oro e diploma
per dipendenti con più di 25 anni di servizio, medaglia
d’argento per i dipendenti con più di 15 anni, ecc…)”.
Al riguardo deve rilevarsi come il quadro normativo di
riferimento risulti profondamente mutato.
Basti in questa sede il richiamo, in via esemplificativa, al
disposto dell’art. 4 del D.P.R. n. 62/2013, che così
statuisce: “1. Il dipendente non chiede, né sollecita,
per sé o per altri, regali o altre utilità.
2. Il dipendente non accetta, per sé o per altri, regali o
altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore
effettuati occasionalmente nell'ambito delle normali
relazioni di cortesia e nell’ambito delle consuetudini
internazionali. In ogni caso, indipendentemente dalla
circostanza che il fatto costituisca reato, il dipendente
non chiede, per sé o per altri, regali o altre utilità,
neanche di modico valore a titolo di corrispettivo per
compiere o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da
soggetti che possano trarre benefici da decisioni o
attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui
confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a
esercitare attività o potestà proprie dell’ufficio
ricoperto.
3. Il dipendente non accetta, per sé o per altri, da un
proprio subordinato, direttamente o indirettamente, regali o
altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore. Il
dipendente non offre, direttamente o indirettamente, regali
o altre utilità a un proprio sovraordinato, salvo quelli
d’uso di modico valore.
4. I regali e le altre utilità comunque ricevuti fuori dai
casi consentiti dal presente articolo, a cura dello stesso
dipendente cui siano pervenuti, sono immediatamente messi a
disposizione dell’Amministrazione per la restituzione o per
essere devoluti a fini istituzionali.
5. Ai fini del presente articolo, per regali o altre
utilità di modico valore si intendono quelle di valore non
superiore, in via orientativa, a 150 euro, anche sotto forma
di sconto. I codici di comportamento adottati dalle singole
amministrazioni possono prevedere limiti inferiori, anche
fino all’esclusione della possibilità di riceverli, in
relazione alle caratteristiche dell’ente e alla tipologia
delle mansioni.
6. Il dipendente non accetta incarichi di collaborazione da
soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio
precedente, un interesse economico significativo in
decisioni o attività inerenti all’ufficio di appartenenza.
7. Al fine di preservare il prestigio e l’imparzialità
dell’amministrazione, il responsabile dell’ufficio vigila
sulla corretta applicazione del presente articolo”.
Tale disposizione contenuta nel Codice di comportamento dei
dipendenti pubblici -a norma dell’articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, come novellato dall’articolo
1, comma 44, della legge 06.11.2012, n. 190– contiene un
principio che a fortiori non può che valere per
riconoscimenti conferiti dalla stessa Amministrazione presso
la quale il soggetto beneficiato ha prestato servizio,
considerato che la relativa spesa non può che configurarsi
come ulteriore rispetto a quella consentita dalla disciplina
del rapporto di lavoro.
Ne consegue che appaiono a monte non
riconducibili tra le spese che possono essere legittimamente
sostenute dall’Ente quelle in analisi relative all’acquisto
di regali per il personale collocato in quiescenza. Allo
stesso tempo, ferma questa considerazione sul piano
generale, la possibile sussumibilità nella species
spese di rappresentanza risulta, comunque, preclusa per
l’assenza del presupposto della sua destinazione “all’esterno”
dell’Ente (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.09.2015 n. 306). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Pressioni illecite: quando si concretizza la corruzione?
IL CASO: Nel caso in cui un consigliere comunale, accetta di
votare a favore di una variante al piano urbanistico a
fronte della promessa del terzo di garantirgli una
progressione di carriera nell'azienda di appartenenza, quale
reato è configurabile?
Ricorre la nuova fattispecie di traffico da influenze
illecite o quello di corruzione?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario richiamare la norma che
definisce il reato di traffico di influenze illecite, ovvero
l'art. 346-bis c.p..
La norma così dispone: "Chiunque, fuori dei casi di concorso
nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando
relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un
incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o
promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio
patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita
verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico
servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento
di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o
al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la
reclusione da uno a tre anni.".
Il delitto di traffico di influenze (introdotto dalla L. n.
190 del 2012, art. 1, comma 75), è fattispecie che punisce
un comportamento propedeutico alla commissione di una
eventuale corruzione e non è quindi, ipotizzabile quando sia
già stato accertato un rapporto -come sembra ricorrere nel
caso di specie- paritario tra il pubblico ufficiale ed il
soggetto privato.
Di tanto è espressiva la clausola di esclusione posta dal
comma 1 della norma citata, che definisce il rapporto della
fattispecie con quelle corruttive di cui agli artt. 319 e
319-bis c.p., ponendo la condotta dei due soggetti attivi del
traffico di influenze illecite -il "mediatore" ed il
"compratore di influenze"- prima ed al di fuori del patto
corruttivo, assumendo tale condotta un autonomo rilievo
penale in ragione di una soglia anticipata di tutela voluta
dal legislatore.
Dal punto di vista strutturale, elemento differenziale tra
la fattispecie corruttiva e quella del traffico di influenze
è rappresentato dal "prezzo", destinato -nel traffico di
influenze- a retribuire l'opera di mediazione, e non
potendo detto prezzo, neppure in parte, essere destinato
all'agente pubblico, altrimenti realizzandosi un concorso
nella corruzione attiva.
Sulla scorta di tal breve inquadramento giuridico, nel caso
di specie pare non vi siano dubbi sul fatto che ricorre la
fattispecie della corruzione e non del traffico di influenze
illecite.
Ciò in quanto la promessa dell'intervento del legale
rappresentante della ditta Alfa presso l'azienda
municipalizzata presso cui lavorava il consigliere comunale,
costituiva la controprestazione nei confronti del pubblico
ufficiale (consigliere comunale) che aveva fatto mercimonio
del proprio voto.
Nel caso di specie, in sostanza, ricorrono tutti gli
elementi costitutivi del reato di corruzione per atti
contrari ai propri doveri d'ufficio (art. 319.c.p.).
Come più volte chiarito dalla giurisprudenza (es. Sez. 6,
Sentenza n. 2841 del 03/06/1987) rientrano nello schema
concettuale degli elementi costitutivi, materiale e
psicologico, del reato di all'art. 319 c.p., comma 1, la
dazione e la promessa di denaro e altre utilità effettuate
nei confronti di consiglieri comunali affinché costoro,
compiendo un atto contrario al loro dovere di votare nel
consiglio comunale in piena libertà, secondo scienza e
coscienza, esprimano un voto già determinato e
precostituito.
Ancora, in tema di corruzione propria, le dimissioni da una
carica politica elettiva possono rappresentare un atto
contrario ai doveri di ufficio, quando violano il dovere di
imparzialità, ossia risultano poste in essere non già per
una scelta discrezionale legittima, di natura squisitamente
politica, ma a fronte del compenso promesso o ricevuto, con
lo scopo di assicurare ad un soggetto privato il maggior
beneficio, configurando quindi una "totale svendita" delle
funzioni pubbliche (Sez. 6, Sentenza n. 36780 del
02/07/2003).
Infine, per concludere il breve richiamo giurisprudenziale,
in relazione all'esercizio della pubblica funzione
legislativa, è stato affermato che può ipotizzarsi il
mercanteggiamento della funzione, qualora venga
concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia
stata consigliata dal raggiungimento di finalità
istituzionali e dalla corretta vantazione degli interessi
collettività, ma da quello prevalente di un privato
corruttore (Sez. 6, Sentenza n. 21117 del 30/11/2005).
Alla luce di quanto sopra esposto, pertanto, non può
dubitarsi che nel caso di specie debba ravvisarsi il reato
di corruzione propria di cui risponderanno sia il
consigliere (corrotto) che il legale rappresentante della
ditta Alfa (corruttore) (tratto dalla newsletter
02.11.2015 n. 125 di http://asmecomm.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Dieci consiglieri bastano. Quorum necessario per validare la
seduta.
La prima convocazione in un comune con oltre 10 mila
abitanti.
Quesito
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità
delle sedute del consiglio comunale?
Risposta
L'art. 38, c. 2, del Tuoel n. 267/2000 demanda al regolamento
comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto»,
la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per
la validità delle sedute», con il limite che tale numero non
può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a
tale fine il sindaco e il presidente della provincia»;
quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che,
limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il
sindaco deve essere escluso.
Nella fattispecie in esame, il regolamento per il
funzionamento del consiglio dispone che: «Il consiglio
comunale in prima convocazione non può deliberare se non
interviene almeno la metà dei consiglieri assegnati al
comune senza computare il sindaco».
Considerato che il consiglio del comune, rinnovato a seguito
delle elezioni amministrative in conformità con la normativa
al tempo vigente, risulta composto, avendo una popolazione
superiore ai 10 mila abitanti, dal sindaco e da venti
consiglieri, ai sensi della citata norma regolamentare, il
numero di componenti l'organo, necessario al fine della
validità della seduta in prima convocazione, è di dieci
consiglieri
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Presa visione dell'ODG.
Quesito
Quali sono i limiti temporali entro cui depositare la
documentazione correlata agli argomenti all'ordine del
giorno del consiglio comunale perché la stessa possa essere
visionata dai partecipanti all'adunanza?
Risposta
In linea generale, le disposizioni regolamentari che, in
sede locale, disciplinano tale materia attengono al diritto
di accesso dei consiglieri comunali che viene esercitato
nell'ambito del più ampio diritto all'informazione e alla
trasparenza.
Infatti, «occorre... ricordare che la disponibilità dei
documenti relativi agli argomenti da discutere in consiglio
comunale, costituendo una formalità d'adempiere d'ufficio,
da parte dell'apparato municipale, non coincide con lo
speciale diritto d'accesso previsto da ultimo dall'articolo
43, secondo comma, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, che ha contenuto più ampio, comprendendo «tutte le
notizie e le informazioni in... possesso» degli uffici,
utili all'espletamento del proprio mandato, ottenibili a
seguito di un atto d'iniziativa del singolo consigliere
comunale» (cfr. Tar Puglia, sent. n. 351 del 18.02.2009).
Nel caso di specie, la prassi invalsa presso il comune di
depositare la documentazione, in assenza di specifico
regolamento, a partire dalla mattina precedente la seduta
del consiglio sembra ispirarsi «al previgente articolo 292
del testo unico delle leggi comunali e provinciali approvato
dal regio decreto 04.02.1915, n. 148, per il quale
nessuna proposta può, nelle tornate periodiche ordinarie,
essere sottoposta a deliberazione definitiva se non viene 24
ore prima depositata nella sala delle adunanze con tutti i
documenti necessari per poter essere esaminata» (cfr. la già
citata sentenza Tar Puglia).
In merito, fermo restando che il termine temporale di cui al
soppresso art. 292 del T.U. n. 148/1915 non potrebbe essere
più ritenuto quale parametro adeguato per la corretta
informazione dei consiglieri, appare comunque necessaria
l'adozione di specifica normativa regolamentare ai sensi
dell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
che scandisca puntualmente i tempi di deposito della
documentazione correlata alla discussione e all'approvazione
delle questioni sottoposte al consiglio comunale.
Tale
normativa, così come rilevato dal Tribunale regionale di
giustizia amministrativa di Trento con sentenza n. 326/2012 «assolve a quel fondamentale diritto di adeguata
e tempestiva informazione sugli argomenti da discutere che
connota il funzionamento di tutti gli organi collegiali
privati (es.: art. 2366 cod. civ. inerente le formalità di
convocazione delle assemblee societarie) e pubblici».
Pertanto, in carenza di specifica disposizioni regolamentari
e nelle more della loro adozione, il deposito della
documentazione per la presa visione dei consiglieri, deve
avvenire contestualmente alla notifica dell'avviso di
convocazione
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sono previste delle attenuanti speciali
per i reati contro la P.A.?
IL CASO: se un funzionario, indagato per il reato di
induzione a dare o promettere utilità, collabora con gli
inquirenti per indicare altri soggetti coinvolti nella
commissione del delitto, può ottenere delle attenuanti
specifiche?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario ricordare che la Legge 27.05.2015 n. 69 (in vigore dal 14.06.2015), con l'art.
1, comma 1, lett. i), n. 1, ha introdotto una nuova attenuante
da aggiungere al primo comma dell'art. 323-bis (induzione a
dare o promettere utilità) del seguente tenore: "per i
delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia
efficacemente adoperato per evitare che l'attività
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per
assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli
altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o
altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo a
due terzi.".
La nuova circostanza attenuante limitata per i soli reati di
corruzione e induzione indebita (balza agli occhi come non
sia applicabile al reato di concussione, per la quale,
tuttavia, il privato è parte offesa e non teme di indicare i
responsabili) ha l'obiettivo, non celato, di abbattere il
muro di silenzio e omertà che avvolge tali reati.
Le fattispecie criminose della corruzione e dell'induzione
indebita, infatti, risultano difficili da intercettare
soprattutto in considerazione del fatto che anche in
entrambe le ipotesi (corruzione e induzione indebita) tutti
i soggetti coinvolti, (privato e pubblico ufficiale) sono
coinvolti come correi nel reato seppure con diverse
responsabilità penali. Questo induce sia gli uni che gli
altri a rafforzare i sodalizio omettendo informazioni
preziose per ridurre i danni di tale reato o coinvolgere
tutti i colpevoli.
L'attenuante per introdotta, in sostanza ottenere una
collaborazione cosiddetta processuale, e dalla sua ragion
d'essere nella ridotta capacità a delinquere del colpevole
che, dopo la commissione del reato "si sia efficacemente
adoperato", per conseguire uno dei seguenti risultati:
a) evitare che l'attività delittuosa sia portata conseguenze
ulteriori
b) collaborare con gli inquirenti per l'individuazione di
altri soggetti responsabili
c) favorire la raccolta la conservazione delle prove dei
reati o il sequestro delle somme o altra utilità trasferite
(chiaramente al fine della confisca).
Presupposto per l'applicazione dell'attenuante, è che gli
inquirenti non siano già autonomamente pervenuti al
raggiungimento dei risultati sopraindicati.
La legge, infatti, non indica alcuna modalità per ritenere
l'apporto dell'indagato utile per ottenere lo sconto di
pena.
Tuttavia, l'indicazione con l'espressione "per evitare che
l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori"
il legislatore richiede, ai fini dell'attenuante,
l'effettivo impedimento delle conseguenze ulteriori, bensì
l'idoneità oggettiva del contributo al raggiungimento dello
scopo. Il collaborante, quindi, meriterà ugualmente la
concessione dell'attenuante nel caso in cui il suo
contributo e la sua collaborazione, pur concretamente idoneo
ai risultati descritti nella novella legislativa, non venga
in realtà valorizzata dall'autorità di polizia o da quella
giudiziaria che indaga.
La stessa considerazione può essere svolta anche in
relazione alla attenuante che consegue alla collaborazione
con gli inquirenti di altri soggetti coinvolti nel reato.
Da un punto di vista pratico, poi, la valutazione
dell'efficacia della collaborazione processuale, spetta
esclusivamente al Giudice del merito, senza che tale
valutazione possa essere sindacata se non per un palese
errore logico o per l'assenza di motivazione.
Nel caso di specie, quindi, qualora il funzionario, nel
corso delle indagini collabori con la polizia giudiziaria o
con gli inquirenti per l'individuazione di un altro soggetto
che, all'interno dell'ente, è stato complice nella condotta
di induzione indebita del privato a dare o promettere
utilità, potrà ottenere, ferma la positiva valutazione del
Giudice in tal senso, della attenuante con la riduzione
della pena da un terzo a due terzi. In tali situazioni,
peraltro, l'imputato sceglie normalmente i riti alternativi
del patteggiamento o del rito abbreviato, per cui
all'attenuante di cui sopra si aggiungerebbe anche la
riduzione di un terzo della pena per effetto della scelta
del rito.
Ecco, pertanto, che in tali casi la celta di collaborare
(indipendentemente da un effettivo pentimento) risulta
vantaggiosa per il reo ai fini del contenimento della pena
(tratto dalla newsletter 26.10.2015 n. 124 di http://asmecomm.it). |
PUBBLICO IMPIEGO
- SEGRETARI COMUNALI: Nel DUP è necessario inserire anche
un programma anticorruzione e trasparenza?
IL CASO: Non essendovi una previa indicazione al riguardo
nelle linee politiche di mandato dell'amministrazione è
comunque obbligatorio inserire l'anticorruzione e la
trasparenza nel DUP, in scadenza il prossimo 31 ottobre?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
L'obiettivo strategico della prevenzione della corruzione e
dell'illegalità e della trasparenza, da collegare al
controllo successivo di regolarità amministrativa, va sempre
inserito nel Documento Unico di Programmazione.
Infatti,
bisogna tener conto che, quand'anche tali obiettivi non
risultino inclusi nelle Linee di mandato
dell'amministrazione, tuttavia è lo stesso quadro normativo
attualmente vigente ad imporre di inserire necessariamente
all'interno del DUP la programmazione della prevenzione del
rischio di corruzione e di illegalità nonché la trasparenza
quali connotati indiferribili della "NUOVA P.A.".
Si tratta
di obiettivi che vanno collegati, in un contesto unitario,
al controllo di regolarità amministrativa il quale può
restituire, nei suoi esiti finali, importanti elementi
informativi per elaborare misure e azioni di prevenzione.
Peraltro, si tratta di una scelta che, a partire dal 2014,
vari Enti Locali hanno già effettuato, inserendo,
correttamente, i predetti obiettivi strategici nella
Missione 01 "Servizi istituzionali, generali e di gestione",
Programma 02 "Segreteria generale".
La descritta collocazione sistematica, all'interno del DUP,
della programmazione relativa all'anticorruzione e alla
trasparenza in collegamento con il controllo di regolarità
amministrativa è corretta e costituisce un elemento di
grande valenza della programmazione strategica.
In particolare, l'adeguatezza della scelta della missione 01
risulta evidente alla luce della circostanza che questa
missione ricomprende, tra le altre, anche le spese relative
a "amministrazione e funzionamento dei servizi generali, dei
servizi statistici e informativi, delle attività per lo
sviluppo dell'ente in una ottica di governance e
partenariato e per la comunicazione istituzionale".
A sua volta, il programma "Segreteria Generale",
comprendente l'amministrazione, il funzionamento e supporto,
tecnico, operativo e gestionale alle attività deliberative
degli organi istituzionali e per il coordinamento generale
amministrativo risulta pertinente alla programmazione della
prevenzione della corruzione, dell'illegalità e della
trasparenza in quanto comprende, tra le altre, le spese
relative allo svolgimento delle attività affidate al
Segretario Generale e al Direttore Generale (ove esistente)
o che non rientrano nella specifica competenza di altri
settori, quali sono le attività affidate al Segretario
Generale nella sua qualità di Autorità locale anticorruzione
(RPC).
Nel declinare, all'interno del DUP, i contenuti degli
obiettivi strategici in esame, occorre avere riguardo non
tanto alle Linee di mandato politico del Sindaco, che
potrebbero anche mancare su questo specifico punto, quanto
piuttosto alle disposizioni contenute nella Legge 06.11.2012, n. 190 e nei relativi decreti legislativi di
attuazione, nonché nel Piano Nazionale Anticorruzione (PNA)
e, soprattutto, nel Piano Triennale di Prevenzione della
Corruzione (PTPC) e nel Programma per la trasparenza (PTT)
in dotazione al singolo Comune.
In sintesi, le azioni da correlare all'attuazione degli
obiettivi vanno desunte, in parte, direttamente dal quadro
normativo e, in parte, dal PTPC, dal PTT e, soprattutto,
dagli esiti dei controlli di regolarità amministrativa
nonché dalle direttive di conformazione conseguenti a tali
controlli (tratto dalla newsletter 19.10.2015 n. 123
di http://asmecomm.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Richiesta di informazioni, da parte di una società,
concernente la residenza di soggetti proprietari di terreni
interessati dalla costruzione di una linea elettrica.
Sul presupposto dell'istituzione
dell'anagrafe nazionale della popolazione residente, la
nuova normativa in tema di rilascio di certificati
anagrafici di cui all'art. 33, d.P.R. 30.05.1989, n. 223,
come sostituito dal d.P.R. 17.07.2015, n. 126, impone
all'ufficiale di anagrafe l'obbligo di rilasciare i
certificati anagrafici non solo quando concernono persone
residenti nel territorio dell'ente locale, ma anche quando
le richieste di certificato si riferiscono a individui non
residenti nel Comune cui il soggetto richiedente
l'attestazione si è rivolto.
Un ente locale (nello specifico, il Servizio finanziario del
medesimo) segnala di aver ricevuto, da una società, una
richiesta di informazioni concernenti la residenza di alcuni
soggetti proprietari di terreni insistenti nel relativo
territorio e, quindi, tenuti al pagamento dei tributi locali
dovuti in relazione ai diritti dominicali di cui sono
titolari: il privato ha necessità di contattare le persone i
cui fondi risultano interessati dalla realizzazione di una
linea elettrica.
Il Servizio finanziario dell'ente territoriale svolge
attività di riscossione delle entrate tributarie e dispone,
pertanto, di informazioni concernenti i contribuenti;
l'ufficio non ritiene, tuttavia, possibile utilizzare tali
dati per scopi che non riguardano la fiscalità dell'ente
locale, sottolineando, al riguardo, che i soggetti
competenti in materia di pubblicità dei diritti immobiliari
sono l'Agenzia del Territorio e l'Ufficio Tavolare.
Si evidenzia che il quesito è stato formulato dall'ente un
paio di mesi prima rispetto ad un importante intervento
normativo in tema di disciplina anagrafica.
Dopo la presentazione del quesito allo scrivente, è stato,
invero, emanato il decreto del Presidente della Repubblica
17.07.2015, n. 126, 'Regolamento recante adeguamento del
regolamento anagrafico della popolazione residente,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica
30.05.1989, n. 223, alla disciplina istitutiva dell'anagrafe
nazionale della popolazione residente'.
Orbene, proprio la summenzionata normativa, entrata in
vigore il 17.08.2015 [1],
ha sostituito il testo dell'articolo 33 del regolamento
anagrafico della popolazione residente di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 223/1989, con una nuova
disciplina che prevede: '1. Fatti salvi i divieti di
comunicazione di dati, stabiliti da speciali disposizioni di
legge e quanto previsto dall'articolo 35, l'ufficiale di
anagrafe rilascia a chiunque ne faccia richiesta, previa
identificazione, i certificati concernenti la residenza, lo
stato di famiglia degli iscritti nell'anagrafe nazionale
della popolazione residente, nonché ogni altra informazione
ivi contenuta. 2. Al rilascio di cui al comma 1 provvedono
anche gli ufficiali di anagrafe di comuni diversi da quello
in cui risiede la persona cui i certificati si riferiscono.'
È di immediata evidenza che, sul presupposto
dell'istituzione dell'anagrafe nazionale della popolazione
residente, la nuova normativa in tema di rilascio di
certificati anagrafici ha cambiato totalmente il contesto di
riferimento in cui è stato formulato il quesito da parte
dell'ente locale e, quindi, la risposta al medesimo da parte
dello scrivente [2].
Il nuovo articolo 33 impone, oggi, all'ufficiale di
anagrafe, l'obbligo di rilasciare i certificati anagrafici
non solo quando concernono persone residenti nel territorio
dell'ente locale ma anche quando le richieste di certificato
si riferiscono a individui non residenti nel Comune cui il
soggetto richiedente l'attestazione si è rivolto.
Nello specifico del quesito indirizzato allo scrivente, si
evidenzia, allora, che la società che ha chiesto le
informazioni non ha più bisogno di rivolgersi all'ufficio
tributi per venire a conoscenza di dati concernenti soggetti
che non siano residenti nel Comune, proprio perché, come già
rimarcato, l'ufficiale di anagrafe, ai sensi del nuovo
articolo 33, comma 2, decreto del Presidente della
Repubblica 223/1989, è tenuto a rilasciare il certificato
anche in relazione a persone fisiche non residenti nel
Comune ove egli esercita le sue funzioni.
---------------
[1] Il decreto del Presidente della Repubblica 126/2015 è
stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana del 14.08.2015, serie generale n. 188.
[2] Risposta che, in assenza delle sopra descritte
modificazioni normative, sarebbe stata fondata
principalmente sulla disciplina della comunicazione di dati
personali da parte di un ente pubblico ad un soggetto
privato di cui all'articolo 19, comma 3, del decreto
legislativo 30.06.2003, n. 196 (Codice della Privacy) (08.10.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Acquisizione da parte del comune di immobili pericolanti.
Lo strumento utilizzabile dal Comune per
l'acquisizione della proprietà di immobili pericolanti è
l'espropriazione, qualora ne sussistano i presupposti.
Si tratta di un istituto finalizzato esclusivamente
all'esecuzione di opere pubbliche o, comunque, di pubblica
utilità che, in ossequio al principio di legalità
dell'azione amministrativa, può essere disposto nei soli
casi previsti dalla legge.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
possibilità di acquisire la proprietà di due immobili
potenzialmente pericolosi per la pubblica incolumità. In
particolare, la questione afferisce due differenti
situazioni:
- la prima riguarda un edificio pericolante
prospiciente la pubblica via, in relazione al quale
l'amministrazione comunale è dovuta intervenire urgentemente
per garantire la pubblica incolumità e per il quale sono
richiesti ulteriori interventi di messa in sicurezza. Tale
immobile risulta di proprietà di persone ora defunte e gli
eredi sono irreperibili. Di qui la richiesta di sapere se il
Comune possa acquisire la proprietà di tale fabbricato;
- la seconda afferisce un fabbricato di proprietà di
una società cooperativa latteria sociale, sciolta 'per
atto dell'autorità' regionale. [1]
Gli ex soci sono irreperibili o defunti. Di qui la richiesta
dell'Ente circa la possibilità di acquisire la proprietà di
tale immobile ed, eventualmente, con quale procedura.
Con riferimento ad entrambe le fattispecie prospettate si
ritiene che lo strumento potenzialmente utilizzabile, che
consentirebbe l'acquisto della proprietà immobiliare in capo
al Comune, sia l'espropriazione, qualora ne sussistano i
presupposti. A tal fine si rammenta che tale istituto è
finalizzato esclusivamente all'esecuzione di opere pubbliche
o all'esecuzione di opere, comunque di pubblica utilità e
che, in ossequio al principio di legalità dell'azione
amministrativa, l'espropriazione dei beni immobili può
essere disposta nei soli casi previsti dalla legge.
[2]
In particolare, per quel che potrebbe rilevare in questa
sede, si osserva che l'istituto dell'espropriazione potrebbe
essere utilizzato, valutando la ricorrenza di tutte le
condizioni indicate dalla legge, anche ricorrendo ai Piani
di recupero di cui alla legge regionale 29.04.1986, n. 18
[3]
recante 'Norme regionali per agevolare gli interventi di
recupero urbanistico ed edilizio. Modificazioni ed
integrazioni alla legge regionale 01.09.1982, n. 75'.
[4]
Mette conto, al riguardo, richiamare la sentenza del giudice
amministrativo [5]
con la quale viene identificato come finalità del piano di
recupero di iniziativa pubblica ex articoli 27 e 28 della
legge 457/1978, il recupero del patrimonio edilizio
degradato, mediante interventi volti a conservare, risanare,
ricostruire e utilizzare il patrimonio stesso, con la
conseguenza che a detto piano non può essere assoggettata in
modo generico ed indiscriminato una vasta area del
territorio comunale, ma soltanto immobili, complessi edilizi
isolati ed aree bene individuate per le caratteristiche di
degrado da recuperare. [6]
In particolare, si segnala l'articolo 9 della legge
regionale 18/1986, rubricato 'Attuazione dei piani di
recupero', il quale indica la procedura che i Comuni
devono adottare nel caso in cui intendano procedere
all'attuazione diretta di tali piani.
Quanto, poi, alla prima fattispecie prospettata in ordine
alla quale il Comune riferisce di avere già sostenuto delle
spese per la provvisoria messa in sicurezza dell'immobile si
rappresenta che, qualora, come nel caso in esame, l'Ente non
sia stato rimborsato dell'importo sostenuto a tal fine
potrebbe attivare la procedura esecutiva volta al recupero
della somma anticipata.
A tale proposito, si rammenta che l'articolo 505 del codice
di procedura civile prevede che, nei limiti e secondo le
regole contenute nel codice stesso, il creditore pignorante
possa chiedere l'assegnazione dei beni pignorati.
L'assegnazione dei beni pignorati costituisce uno dei
possibili momenti conclusivi del processo di esecuzione e
consiste nell'attribuzione diretta del bene pignorato al
creditore procedente al fine di soddisfare le proprie
ragioni creditorie. Più in particolare, necessita
distinguere tra assegnazione satisfattiva (che comporta il
trasferimento a tacitazione del credito) e assegnazione
mista (cioè accoppiata al pagamento di un conguaglio versato
dall'assegnatario).
Si può avere assegnazione satisfattiva se il bene assegnato
ha un valore pari al credito del procedente ed alle spese
sostenute, e non vi sono altri creditori da soddisfare; si
avrà, invece, assegnazione con conguaglio quando il valore
del bene è superiore al credito ed alle spese, ovvero agli
altri crediti fatti valere nell'espropriazione: qui il
creditore deve pagare una somma almeno pari alle spese ed al
valore dei crediti precedenti quello dell'assegnatario. In
tal caso si parla di 'assegnazione vendita'.
Da ultimo, e sempre con riferimento alla prima fattispecie
rappresentata dal Comune, si osserva che, appartenendo
l'immobile in riferimento a persone defunte, bisognerebbe
accertarsi se siano o meno scaduti i termini per accettare
l'eredità. [7]
Nel caso in cui non siano decorsi dieci anni dalla morte
dell'originario proprietario il codice civile prevede la
possibilità di nomina di un curatore dell'eredità giacente.
[8]
Nell'ambito dell'attività di amministrazione del compendio
ereditario da parte della curatela, particolare rilevanza
riveste l'eventuale alienazione dei beni che ne fanno parte.
A tale riguardo, l'articolo 783, secondo comma, c.p.c.
contempla la semplice possibilità che la vendita sia
autorizzata dal Tribunale con decreto in Camera di consiglio
in tutti i casi in cui essa si palesi necessaria o di
evidente utilità. Al riguardo la dottrina
[9] ha annoverato
tra dette ipotesi quella relativa 'alla gestione di un
fabbricato fatiscente' in relazione alla quale si
renderebbe opportuno procedere alla vendita.
---------------
[1] L'articolo 2544 c.c., nella versione in vigore prima
della novella al codice civile introdotta dal D.Lgs.
17.01.2003, n. 6, rubricato 'Scioglimento per atto
dell'autorità', recitava: 'Le società cooperative, che a
giudizio dell'autorità governativa non sono in condizione di
raggiungere gli scopi per cui sono state costituite, o che
per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio
annuale, o non hanno compiuto atti di gestione, possono
essere sciolte con provvedimento dell'autorità governativa,
da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e
da iscriversi nel registro delle imprese. [...].
Se vi è luogo a liquidazione, con lo stesso provvedimento
sono nominati uno o più commissari liquidatori'.
Attualmente, la norma di riferimento, analogamente rubricata
'Scioglimento per atto dell'autorità' è l'articolo
2545-septiesdecies, del codice civile.
[2] Articolo 1, comma 1 e articolo 2, comma 1, del decreto
del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327.
[3] A livello statale la legge recante: 'Norme generali per
il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico
esistente' è la n. 457 del 05.08.1978.
[4] Si rammenta che, ai sensi dell'articolo 25 della legge
regionale 23.02.2007, n. 5 (Riforma dell'urbanistica e
disciplina dell'attività edilizia e del paesaggio) il Comune
potrebbe adottare, con le modalità indicate dalla legge, un
piano attuativo comunale (PAC). In particolare, il comma 3
dell'indicato articolo prevede che: 'Le procedure di
adozione e approvazione del PAC sostituiscono quelle degli
strumenti urbanistici attuativi delle previsioni di
pianificazione comunale e sovracomunale e in particolare:
[...] d) i piani di recupero [...]'.
[5] TAR Umbria, Perugia, sentenza del 26.10.1989, n. 726.
[6] Le considerazioni espresse dal giudice amministrativo si
trovano riportate nel parere dell'ANCI del 16.02.2011.
[7] Si ricorda che, decorsi i termini per l'accettazione
senza che questa sia effettuata da alcuno dei chiamati
all'eredità questa è devoluta allo Stato. In tal senso
depone l'articolo 586 c.c. che, al primo comma recita: 'In
mancanza di altri successibili, l'eredità è devoluta allo
stato. L'acquisto si opera di diritto senza bisogno di
accettazione e non può farsi luogo a rinunzia'.
[8] Si rammenta che secondo un orientamento dottrinale
l'instaurarsi del periodo di giacenza si avrebbe oltre che
nel caso in cui il chiamato non abbia ancora accettato
l'eredità, anche nell'ipotesi in cui non si sappia se la
persona del chiamato sia mai esistita.
[9] D. Minussi, 'Vendita di beni ereditari (curatore
dell'eredità giacente)', in WikiJus, il Wiki di Diritto
Civile, articolo del 23.02.2015 (08.10.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Gli incarichi vietati.
DOMANDA:
In virtù della disposizione di cui all'art. 53, comma
16-ter, D.Lgs. 165/2001 (in materia di
pantouflage-revolving doors, così come introdotto dalla
legge 190/2012) si chiede se siano soggetti all'applicazione
dei limiti e dei divieti previsti nella norma (divieto
triennale per l'ex dipendente di prestare attività
lavorativa presso soggetti destinatari, nel triennio
antecedente alla cessazione, di potere autoritativo e/o
negoziale del dipendente stesso) i soli dipendenti cessati a
far data dall'entrata in vigore della suddetta normativa
(06.11.2012) o anche i dipendenti già cessati in tal data.
RISPOSTA:
L'art. 1, comma 43, della legge 190/2012 prevede che: "Le
disposizioni di cui all'articolo 53, comma 16-ter, secondo
periodo, del decreto legislativo 30.03.2001, n.165,
introdotto dal comma 42, lettera l), non si applicano ai
contratti già sottoscritti alla data di entrata in vigore
della presente legge".
Ciò significa che i contratti conclusi e gli incarichi
conferiti ai dipendenti cessati, precedentemente all'entrata
in vigore della legge (28.11.2012), non sono nulli -sebbene
conferiti in violazione di quanto previsto dalla norma- né
vige per il soggetto privato l'obbligo di restituzione dei
compensi percepiti e accertati ad essi riferiti.
Poiché la legge ha espressamente regolato il problema
dell'efficacia nel tempo della norma, limitandone l'ambito
di applicazione ai contratti e agli incarichi conferiti
successivamente alla sua entrata in vigore, si ritiene che,
per quanto non espressamente previsto, non soccorrano
deroghe.
In altri termini, se il contratto (o l'incarico) con il
dipendente cessato è stato stipulato prima del 28.11.2012,
la legge non si applica.
Se è stato stipulato dopo, la legge si applica e il
contratto/incarico è nullo, a prescindere dal fatto che il
dipendente fosse cessato precedentemente o successivamente
all'entrata in vigore della suddetta normativa
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo del telefono di servizio
e ipotesi di peculato.
IL CASO: se un amministratore utilizza il cellulare
fornitogli dal Comune per ragioni di servizio, attivando
servizi aggiuntivi estranei alle funzioni del suo ufficio
commette reato? Quali sono i limiti entro cui l'uso privato
non è penalmente rilevante?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Nel caso prospettato, la condotta può essere sussunta nella
fattispecie penale disciplinata dall'art. 314 c.p., ovvero
il peculato. La norma così dispone: "il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico servizio, che, avendo per ragione
del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la
disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne
appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a
dieci anni e sei mesi.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni
quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso
momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è
stata immediatamente restituita".
La norma è distinta in due commi, di cui il secondo
disciplina il cosiddetto peculato d'uso, ipotesi meno grave
del peculato proprio di cui al comma 1.
Sull'uso del telefono aziendale vi sono state numerose
pronunce, proprio perché spesso si sono presentate
situazioni di abuso nell'uso di tale mezzo che dovrebbe,
invece, servire per ragioni di servizio.
In relazione alla situazione prospettata nel quesito,
secondo un recente orientamento della Corte di Cassazione in
tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il
telefono d'ufficio per fini personali al di fuori dei casi
d'urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni,
integra il reato di peculato d'uso se produce un danno
apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una
lesione concreta alla funzionalità dell'ufficio, mentre deve
ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze
economicamente e funzionalmente significative.
Quindi deve aversi riguardo al concreto uso del telefono
aziendale, nel senso che se le telefonate che non hanno
carattere di servizio sono occasionali e non comportano una
disfunzione del servizio o un apprezzabile danno
patrimoniale, non può parlarsi di reato.
Per aversi reato, quindi, deve configurarsi una certa
continuità nell'uso non autorizzato del telefono (es. più
telefonate ogni giorno per un costante periodo di tempo).
Parimenti viene considerato peculato d'uso la condotta
dell'amministratore o del funzionario che, non autorizzato,
installi sul telefono un servizio internet o altre funzioni
che determinino un costo rilevante per l'amministrazione.
Per fare un esempio concreto, la Cassazione ha ritenuto non
punibile la condotta di un dipendente pubblico che in un
periodo di quaranta giorni aveva effettuato sei telefonate,
utilizzando l'apparecchio dell'ufficio, in situazioni
eccezionali d'urgenza, per di più per comunicazioni private
che avevano il fine di evitare pregiudizievoli e talora
protratte assenze dal posto di lavoro (tratto dalla newsletter 05.10.2015 n. 121
di http://asmecomm.it). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Programmare le manutenzioni:
una buona prassi Anticorruzione.
IL QUESITO: In che modo il RUP può preservare la sua azione
dal rischio di pressioni e ingerenze in particolare nei
micro-appalti sottosoglia?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
A fronte della "ipertrofia" normativa che ha caratterizzato
il sistema dei contratti pubblici negli ultimi anni si sta
ora riscoprendo e valorizzando l'"antica" via di normazione,
consistente nel ricorso all'ausilio delle buone prassi, da
introdurre e consolidare all'interno dell'amministrazione, e
da affiancare alla legge e ai regolamenti quale fonte di
disciplina ulteriore.
Questa nuova fase di riscoperta di un livello di
regolamentazione incentrato sulle Buone Prassi, quale
strumento utile per le amministrazioni, è attestata anche
dalla normativa anticorruzione (L. 190/2012) che, non a
caso, rinvia molti aspetti della regolamentazione sulla
prevenzione della corruzione e della illegalità a apposite
Linee Guida, rappresentate dal Piano Nazionale
Anticorruzione (PNA).
A loro volta, le Linee Guida del PNA, con riferimento alle
attività amministrative a maggiore rischio di corruzione e
di illegalità, ivi comprese le procedure di affidamento dei
contratti pubblici, rinviano alla peculiare valenza di Buone
Pratiche sulla gestione degli appalti.
Una delle buone pratiche da sviluppare negli Enti locali,
soprattutto al fine di evitare il rischio di responsabilità
amministrativa dei Rup, è certamente quella di inserire
nella programmazione dei lavori pubblici, e nell'elenco
annuale, anche le manutenzioni di strade e marciapiedi e di
procedere all'affidamento tenendo conto dell'importo
complessivo annuo.
L'attività di manutenzione, infatti, va considerata
unitariamente con riferimento all'anno di riferimento, e non
va gestita "a spot", di volta in volta, magari facendo anche
un ricorso improprio alla somma urgenza.
Posto che la somma urgenza va limitata al solo ripristino
dello stato dei luoghi, attraverso la messa in sicurezza, e
non può estendersi alla esecuzione di opere ulteriori
rispetto alla sicurezza, va tenuto in considerazione la
circostanza che plurimi interventi manutentivi di strade e
marciapiedi nel corso dell'anno, individualmente di importo
inferiore a € 40.000, eseguiti attraverso il metodo
dell'affidamento diretto e magari attraverso il richiamo
alla somma urgenza dell'intervento, sono censurabili sotto
il profilo della illecita e non consentita suddivisione
degli importi, attuata al fine di eludere le norme, di
natura imperativa, sulla evidenza pubblica.
Numerose, al riguardo, sono sia le deliberazioni dell'ANAC
che le sentenze della Corte dei conti, entrambe concordi
nella condannare la suddivisione artificiosa delle
manutenzioni.
Al fine di formalizzare la buona pratica relativa alle
manutenzioni si suggerisce porsi l'obiettivo, nel medio
periodo, di adottare e di pubblicare, sul sito web
dell'ente, un vero proprio documento di "PROCEDURE OPERATIVE
o MANUALE OPERATIVO DELLE MANUTENZIONI" al cui interno
inserire, in maniera integrata, le regole procedurali che il Rup deve seguire, all'interno del comune, non solo per
l'affidare le manutenzioni senza rischi di responsabilità
amministrativa, ma anche le regole relative al monitoraggio
del costo e della qualità delle manutenzioni, al flusso
informativo specifico verso il RPC e il RT, nonché agli
obblighi di pubblicazione e di trasparenza che debbono
assistere l'esecuzione delle manutenzioni.
Il Rup, seguendo il protocollo indicato nella
PROCEDURA/MANUALE, è al riparo da rischi di errore e, ancor
più, al riparo da eventuali "richieste/sollecitazioni" da
parte di amministratori o di soggetti esterni volti ad
ottenere, illecitamente, l'affidamento di singole
manutenzioni. In presenza di tali richieste/sollecitazioni,
il Rup può motivatamente fondare il proprio diniego
richiamandosi alla prassi in uso nel Comune, così come
incarnata e documentata dalle sopra citate PROCEDURE
OPERATIVE o MANUALE OPERATIVO DELLE MANUTENZIONI. Al che
l'illecita richiesta/sollecitazione dovrebbe cadere nel
vuoto (tratto dalla newsletter 28.09.2015 n. 120
di http://asmecomm.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'operatore risponde del reato corruttivo?
IL CASO: se il dirigente dà incarico ad un sottoposto di
inserire on-line gli esiti dei procedimenti di esame delle
pratiche edilizie ed emerga che l'esame è stato viziato da
condotte corruttive, come va inquadrato il coinvolgimento
dell'operatore? Risponde anch'egli del reato come incaricato
di pubblico servizio?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario richiamare la norma che
definisce la nozione di incaricato di pubblico servizio,
ovvero l'art. 358 del Codice Penale.
La norma così dispone: "agli effetti della legge penale,
sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a
qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per
pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata
nelle stesse forme della pubblica funzione, ma
caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di
quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici
mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente
materiale".
La norma, in sostanza individua la nozione di incaricato di
un pubblico servizio con un elemento positivo (attività
disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione) e
di un elemento negativo (la mancanza di quei poteri
deliberativi, autoritativi, certificativi che, al contrario,
costituiscono i
connotati caratterizzanti la pubblica funzione).
La norma chiarisce e puntualizza, inoltre, che non può
costituire servizio pubblico lo svolgimento di semplici
mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente
materiale, ad esempio custodi, portantini eccetera.
Tale limitazione è stata determinata dalla volontà di
rendere inapplicabile la legge penale alle prestazioni prive
di contenuto intellettuale, sul presupposto che esse
sarebbero inoffensive rispetto al bene giuridico protetto
dalle fattispecie posta a presidio della pubblica
amministrazione.
L'elemento di discrimine tra mansioni di concetto, inerenti
la qualità d'incaricato di pubblico servizio e mansioni
puramente applicative o esecutive, incompatibili con la
stessa, è infatti rappresentato dal
mantenimento in capo al dipendente pubblico di una certa
autonomia e discrezionalità tipiche delle prime.
In tal senso, ad es. la giurisprudenza (Cass. Sez. 6, sent.
n. 37102 del 07/05/2004) si è espressa nel senso della
ritenuta qualifica di incaricato di un pubblico servizio nel
caso di impiegato delle Poste Italiane addetto alla
regolarizzazione, mediante affrancatura, dei bollettini mod.
267 dei pacchi da
restituire al mittente e alla tenuta di apposito registro
nel quale annotare i dati identificativi di ciascuna
operazione. O ancora (Sez. 6 sent. n. 8933 del 11/02/2008)
in caso di addetto al magazzino centrale di Rete Ferroviaria
Italiana e come tale gestore della presa in carico, della
vendita e della consegna di materiali "fuori uso". Si veda
anche Sez. 6 sent. n. 27981 del 12/05/2011, in caso di
portalettere ed in riferimento ai relativi compiti di
certificazione della consegna e della ricezione di alcune
specifiche tipologie di corrispondenza.
Nel senso della denegata sussistenza della qualifica (Sez. 6
sent. n. 46245 del 20/11/2012 e Sez. 6 sent. n. 5064 del
19/11/2013), la giurisprudenza si è invece espressa nel caso
di un dipendente di Poste Italiane addetto ad attività di
mero smistamento della corrispondenza.
Calando tali coordinate ermeneutiche al caso concreto,
l'attività di inserimento nel sito internet del Comune le
pratiche edilizie esaminate dal Dirigente e dal Responsabile
del procedimento con i relativi pareri e la loro successiva
trasmissione all'Ufficio Risorse Umane non possono essere
ricondotte all'ambito di applicazione dell'art. 358 c.p.,
trattandosi, all'evidenza, di mansioni meramente esecutive,
dove ai fini della concreta loro individuazione deve
necessariamente considerarsi l'odierna e generale diffusione
degli strumenti telematici di conservazione e trasferimento
dei dati ed il cui utilizzo, limitato appunto alle predette
funzioni, non richiede il possesso di specifiche competenze
informatiche, ma una normale attitudine al relativo impiego,
di talché non è richiesta una certa autonomia e
discrezionalità tipiche delle prime (tratto dalla newsletter 21.09.2015 n. 119
di http://asmecomm.it). |
NEWS |
SICUREZZA LAVORO:
Delega di
funzioni, il lavoratore può dire di no. Sicurezza.
Chiarimento ministeriale.
Non esiste alcun obbligo di accettazione della
delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro da
parte del soggetto delegato individuato dal datore di
lavoro: il lavoratore interessato, infatti, può rifiutare
tale delega.
Il chiarimento è
stato fornito dalla Commissione per gli interpelli in
materia di salute e sicurezza sul lavoro, istituita presso
il Ministero del Lavoro, con l’interpello
02.11.2015 n. 7/2015.
La questione è stata sempre dibattuta a causa delle varie
soluzioni sinora fornite al quesito sia nel settore
pubblico, sia in quello privato, influenzate da
problematiche di ordine burocratico o gerarchico, ossia se
la delega di funzioni rientrasse nella discrezionalità del
datore di lavoro o del dirigente (nel settore pubblico), di
definire l’assetto dell’organizzazione del lavoro fino ad
individuare inderogabilmente il soggetto a cui conferire la
delega stessa.
L’interpello riporta all’articolo 16 del Dlgs 81/2008 (Testo
unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), nel
cui comma 1 viene stabilito che la delega delle funzioni da
parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è
ammessa a condizione che risulti da atto scritto con data
certa; il delegato sia in possesso di tutti i requisiti
professionali e d’esperienza richiesti dalla natura delle
funzioni delegate; con essa vengano attribuiti al delegato
tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo
richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
con essa venga attribuita al delegato l’autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento della funzione oggetto di
delega; la delega sia accettata dal delegato.
Perché dunque la delega sia efficace occorre che si
verifichino tutte le caratteristiche di cui si è fatto
cenno, preordinate all’accettazione, in forma scritta, da
parte del delegato. Del resto, spesso la non accettazione è
motivata dal riconoscimento da parte del soggetto
individuato dal datore di lavoro o dirigente di non
possedere i requisiti professionali per il corretto e
completo svolgimento della funzione, la quale è quasi sempre
accompagnata da provvedimenti sanzionatori penali in caso di
inosservanze, ovvero di non riconoscere sufficientemente
l’organizzazione del lavoro a cui è preposto, oppure, il più
delle volte, dalla mancanza delle risorse economiche per far
fronte alle varie e mutevoli esigenze che caratterizzano la
funzione.
Va osservato, infatti, che fatta salva l’esclusione della
nomina del responsabile del servizio di prevenzione
protezione, la valutazione dei rischi e la redazione del
documento della sicurezza, tutte le altre funzioni elencate
nell’articolo 18 del Testo unico sono delegabili e tutte
richiedono professionalità specifica, potere di
organizzazione e di spesa che se non coperte o previste
possono costituire un valido motivo di non accettazione del
soggetto individuato (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La stretta sul personale minaccia i mini enti.
Pericolo stretta sulla spesa di personale dei mini-enti. Dal
2016, infatti, i comuni sotto i 1.000 abitanti rischiano di
essere attratti dal regime più rigido finora applicato solo
a quelli più grandi.
È uno dei possibili effetti collaterali dell'addio al Patto
sancito dal disegno di legge di stabilità 2016 e che rischia
di presentare un conto salato alle amministrazioni di minori
dimensioni.
In base al ddl, dal prossimo anno, il Patto verrà
disapplicato e sostituito dall'obbligo del pareggio di
bilancio. Nel nuovo regime, tuttavia, viene meno
l'esclusione dai vincoli finora sempre riconosciuta favore
dei comuni (circa 2000 in tutta Italia) che non raggiungono
il migliaio di residenti (si veda ItaliaOggi del
20/10/2015). Ma non si tratta dell'unica controindicazione.
Il nuovo regime, infatti, rischia di assoggettare i piccoli
comuni alla più rigorosa normativa sul personale prevista
per quelli medi e grandi. Finora, infatti, la disciplina
della materia è sempre stata differenziata, rispettivamente,
per gli enti soggetti e per quelli non soggetti al Patto. Ai
primi, si applica il comma 557, mentre ai secondi il
successivo comma 562 della l 296/2006. Il comma 557 prevede
che ogni ente soggetto al Patto debba ridurre la spesa di
personale rispetto alla media del triennio 2011-2013,
fissando un tetto più severo di quello previsto dal comma
562, che impone agli enti di fuori Patto di non superare il
più generoso limite rappresentato dalla spesa 2008.
Inoltre, dove si applica il Patto il turn-over è sempre
stato più ridotto, in quanto quantificato in percentuale
rispetto alla spesa dei dipendenti cessati dal servizio
nell'anno precedente, mentre negli altri casi vale la regola
«per teste» (una nuova assunzione per ogni
cessazione).
Infine, il comma 557, come recentemente interpretato dalla
Sezione autonomie della Corte dei conti (deliberazione n.
27/2014) impone agli enti soggetti al Patto anche di ridurre
il rapporto spesa di personale/spesa corrente, mentre il
comma 562 non prevede tale obbligo. Cosa accadrà ora?
Al riguardo, sono possibili due letture. Da un lato, la
disapplicazione del Patto dovrebbe portare ad applicare a
tutti gli enti le stesse regole, che ovviamente non
potrebbero che essere quelle più restrittive finora
riservate agli enti soggetti al Patto (in caso contrario, si
avrebbe un intesso incremento della spesa di personale).
Ma ciò rischia di complicare ulteriormente la vita alle
amministrazioni più piccole, spesso già alle prese con
organici risicati e con la conseguente difficoltà di
sostituire i cessati. In alternativa, si potrebbe sostenere
che nulla cambi rispetto al personale, malgrado
l'assoggettamento anche dei mini enti all'obbligo del
pareggio.
Tale tesi emerge anche dalla relazione al ddl, che continua
a richiamare la distinzione fra enti soggetti e non al Patto
in merito alla disposizione (art. 18) che riduce al 25% il
turn-over per gli anni 2016-2018 e che viene collegata solo
ai primi
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza,
la delega deve essere accettata.
INTERPELLO/1 - Possibile il rifiuto del
destinatario.
La delega di funzioni sulla sicurezza del lavoro deve essere
accettata dal delegato, altrimenti non è valida. A
differenza del conferimento d'incarico che implica
l'impossibilità del rifiuto, infatti, la delega presuppone
la possibilità della non accettazione da parte del
destinatario.
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello
02.11.2015 n. 7/2015.
La questione.
La precisazione arriva a risposta di un quesito formulato
dall'unione sindacale di base vigili del fuoco, in merito
all'istituto della «delega di funzioni» disciplinato
dall'art. 16 del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Tale articolo, in particolare, prevede che la delega di
funzioni da parte del datore di lavoro, ove non
espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e
condizioni:
a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di
professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica
natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di
organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
In relazione all'ultimo requisito, l'unione sindacale ha
chiesto di sapere «se esiste l'obbligo di accettazione
della delega da parte del soggetto delegato individuato dal
datore di lavoro e se il soggetto delegato può rifiutare
tale delegata».
Ammesso il rifiuto di delega.
Il ministero spiega, innanzitutto, che la disposizione
(citato art. 16 del T.u. sicurezza) prevede, per il datore
di lavoro, la possibilità di delegare i propri obblighi a
eccezione della valutazione dei rischi e relativo documento
e la designazione del responsabile del servizio prevenzione
e protezione (Rspp) ad altro soggetto dotato dei requisiti
di professionalità ed esperienze che sono richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate.
Poi spiega che, affinché la delega sia efficace, è
necessario che abbia «tutte» le caratteristiche
previste dalla norma (art. 16), quali la forma scritta, la
certezza della data, il possesso da parte del delegato di
tutti gli elementi di professionalità ed esperienza
richiesti dalla natura specifica delle funzioni delegate e,
infine, la possibilità da parte dello stesso delegato di
disporre di tutti i poteri di organizzazione, gestione e
controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni a
lui delegate. In conclusione, a risposta del quesito,
precisa che la delega deve essere accettata dal delegato per
iscritto.
Infatti, aggiunge, «tra le caratteristiche indicate
nell'art. 16, comma 1, il legislatore ha espressamente
previsto, alla lettera e) del decreto, che la delega «sia
accettata dal delegato per iscritto», elemento che la
distingue dal conferimento di incarico, il che implica la
possibilità di una non accettazione della stessa»
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Controlli
sanitari previsti per tutti.
INTERPELLO/2 - Medico competente.
Tutti i lavoratori hanno diritto a richiedere la visita
presso il medico competente (se nominato in azienda).
Lo precisa, tra l'altro, la commissione per gli interpelli
sulla sicurezza del lavoro nell'interpello
02.11.2015 n. 8/2015 a risposta dei quesiti della
Cisl.
Due, in particolare, le richieste formulate dal sindacato:
a) se la visita medica possa essere richiesta esclusivamente
dai lavoratori soggetti a sorveglianza sanitaria ovvero da
tutti i lavoratori;
b) se il medico competente, nel visitare gli ambienti di
lavoro almeno una volta all'anno, sia tenuto a recarsi in
ogni ambiente di lavoro nel quale si svolge l'attività o se
debba limitarsi a fare i sopralluoghi soltanto nelle
postazioni dove sono occupati i lavoratori soggetti a
sorveglianza sanitaria.
A risposta del primo quesito, la commissione precisa che «la
richiesta di essere sottoposto a visita media da parte del
medico competenze, ove nominato, può essere avanzata da
qualsiasi lavoratore, indipendentemente dal fatto che lo
stesso sia o meno già sottoposto a sorveglianza sanitaria,
con l'unico limite che il medico competente la ritenga
accoglibile in quanto correlata a rischi lavorativi».
In merito al secondo quesito, relativo all'obbligo per il
medico competente di visitare i luoghi di lavoro, la
commissione, considerato che l'obbligo è strettamente
correlato alla valutazione dei rischi, ritiene che la visita
agli ambienti di lavoro debba essere estesa a tutti quei
luoghi che possano avere rilevanza per la prevista
collaborazione con il datore di lavoro e con il servizio di
prevenzione e protezione «alla valutazione dei rischi
anche ai fini della programmazione, ove necessario, della
sorveglianza sanitaria, alla predisposizione dell'attuazione
delle misure per la tutela della salute e dell'integrità
psico-fisica dei lavoratori, all'attività di formazione e
informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di
competenza, e all'organizzazione del servizio di primo
soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed
esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro»
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo a
ore, cumulo ridotto. Permessi incompatibili con i riposi per
allattamento.
L'Inps chiarisce il regime introdotto dal dlgs
80/2015: decide la contrattazione collettiva.
Chi fruisce del congedo parentale a ore non può fruire,
nella stessa giornata, di altri permessi per maternità
neanche se riferiti ad altri figli. Deroghe a tale principio
possono essere previste dalla contrattazione collettiva.
Lo precisa l'Inps nel
messaggio 03.11.2015 n. 6704 emesso ieri,
integrando le prime istruzioni della circolare n. 152/2015.
L'Inps aggiunge, inoltre, che il congedo a ore è invece
compatibile con eventuali permessi per assistenza a disabili
(ex legge n. 104/1992).
Congedo parentale a ore.
La possibilità di fruire a ore il congedo parentale è
operativa dal 25 giugno in seguito al dlgs n. 80/2015. La
facoltà, in via di principio, è subordinata alla preventiva
previsione da parte della contrattazione collettiva di
settore di tale modalità di fruizione, compresi i criteri di
calcolo. In caso di mancata regolamentazione, la fruizione
oraria è consentita a ciascun genitore per la metà
dell'orario medio giornaliero di lavoro.
L'incumulabilità.
Nel fornire le prime indicazioni operative (circolare n.
152/2015 su ItaliaOggi del 19 agosto), l'Inps spiegava che
il congedo era incumulabile con altri permessi o riposi
disciplinati dal T.u. maternità/paternità (dlgs n.
151/2001). Tale incumulabilità, spiega adesso l'Inps,
risponde all'esigenza di conciliare al meglio i tempi di
vita e di lavoro utilizzando il congedo in modalità oraria
essenzialmente nei casi in cui il lavoratore intenda
assicurare, nella medesima giornata, una (parziale)
prestazione lavorativa.
Alla luce di questo principio, integrando le precedenti
istruzioni, l'Inps spiega che il genitore lavoratore
dipendente che si astiene dal lavoro per congedo parentale a
ore «non può usufruire nella medesima giornata né di
congedo parentale a ore per altro figlio, né dei riposi
orari per allattamento (ex artt. 39 e 40 del T.u.), anche se
richiesti per bambini differenti».
Allo stesso modo, aggiunge l'istituto di previdenza, il
congedo parentale fruito in modalità oraria «non è
cumulabile con i riposi orari giornalieri di cui al
combinato disposto degli artt. 33, comma 2, e 42, comma 1,
del T.u., previsti per i figli disabili gravi in alternativa
al prolungamento del congedo parentale (art. 33 c. 1, T.u.
maternità), anche se richiesti per bambini differenti».
La cumulabilità.
Diversamente invece, risulta compatibile la fruizione del
congedo parentale su base oraria con permessi o riposi
disciplinati da disposizioni normative diverse dal T.u.
maternità/paternità, quali ad esempio i permessi per
assistenza a disabili (di cui all'art. 33, commi 3 e 6,
della legge n. 104/1992), quando fruiti in modalità oraria.
Parola alla contrattazione.
Infine, l'Inps precisa che le predette ipotesi di
incumulabilità trovano applicazione nei casi di mancata
regolamentazione, da parte della contrattazione collettiva,
anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del
congedo parentale su base oraria.
Di conseguenza, pertanto, la contrattazione collettiva,
anche di livello aziendale, nel definire le modalità di
fruizione del congedo parentale, può prevedere criteri di
cumulabilità differenti rispetto a quelli illustrati
dall'Inps che fanno riferimento, pertanto, al caso in cui la
fruizione oraria sia concesso su base normativa (per il 50%
dell'orario di lavoro)
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici storici, termotecnici da Belle arti.
La diagnosi energetica è uno dei processi fondamentali della
riqualificazione energetica degli edifici storici. Ne deriva
che il progettista termotecnico che si trovi a dover
intervenire su un edificio storico, soprattutto se vincolato
secondo il dlgs n. 42/2004, è spesso tenuto ad acquisire la
documentazione necessaria alla conoscenza del fabbricato non
solo per gli aspetti tecnici di sua competenza, ma anche per
quelli relativi al ruolo che quell'edifico svolge nella
storia dell'uomo e all'interno del contesto urbano e
paesaggistico in cui è inserito.
Questo è quanto si legge nelle
linee guida
(28.10.2015)
sull'efficienza energetica degli edifici storici
redatte dal Ministero dei beni culturali .
Per quanto riguarda specificatamente gli edifici storici, il
miglioramento della prestazione energetica richiede talvolta
modifiche dell'organismo architettonico che, se non
accuratamente progettate sulla base di una corretta diagnosi
energetica, possono comportare problemi che vanno dal
pregiudicare il valore monumentale e/o documentale del
manufatto al mettere in discussione la sicurezza statica
dell'edificio.
Lo scopo principale della diagnosi energetica è la
valutazione dei consumi energetici dell'edificio al fine di
ridurli, nel rispetto delle condizioni di qualità
dell'ambiente interno che sono descritte in precedenza. Per
far ciò è necessario identificare innanzitutto le funzioni
che i sistemi architettonici e tecnologici devono
soddisfare, che possono andare dalla semplice
climatizzazione se l'edificio è destinato a usi residenziali
o terziari al controllo del microclima se nell'edificio sono
ospitate collezioni, al controllo dell'umidità da risalita
in presenza di falde acquifere o acque disperse nel
sottosuolo.
Poi devono essere identificati i vettori energetici
utilizzati da ogni servizio e i flussi di energia associati
a ciascun vettore. A questo punto è possibile valutare
l'efficienza energetica di ogni servizio e identificare le
opportunità di risparmio energetico ed economico che possono
essere proposte per l'edificio in esame
(articolo ItaliaOggi del 03.11.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Ricorso bocciato, sì al taglio dell’onorario del legale
d’ufficio.
Difesa in giudizio. Il carattere pubblico dell’importo
lascia ampia discrezionalità al magistrato.
Il compenso
del difensore d’ufficio, nominato al fine di fornire
assistenza tecnica a un contribuente ammesso ai benefici del
patrocinio gratuito, può essere legittimamente ridotto dal
giudice tributario. La liquidazione degli onorari
costituisce, infatti, espressione di un potere
discrezionale.
È quanto emerge dalla
sentenza 23.09.2015 n. 7543/1/15
della Ctp di Milano (giudice Paolo Roggero), con la quale è
stato rigettato il ricorso presentato dal difensore
d’ufficio del contribuente contro il provvedimento con il
quale altro collegio giudicante, con precedente sentenza,
aveva liquidato compensi inferiori a quelli da lui
richiesti.
Il legale rappresentante di una Srl aveva ottenuto dalla
commissione per l’assistenza tecnica a spese dello Stato
l’ammissione ai benefici del patrocinio gratuito in quanto,
seppur priva di mezzi, aveva la necessità di difendersi in
giudizio dagli avvisi di accertamento emessi dall’ufficio
per anni dal 2005 al 2008.
Il patrocinio veniva assunto da un avvocato che redigeva il
ricorso, dichiarato poi inammissibile dai giudici di primo
grado in quanto tardivo.
Il difensore d’ufficio della ricorrente presentava, così, la
nota spese con la quale chiedeva, a titolo di compenso per
la prestazione svolta, la liquidazione dell’importo
complessivo di 5.124,6 euro, oltre agli oneri accessori. Il
collegio adito, con provvedimento del 06.02.2015,
liquidava al difensore 1.800 euro.
Il difensore presentava ricorso contro il decreto di
pagamento (in base agli articoli 84 e 170, legge 115/2002),
eccependo che la sua nota spesa rispettava i parametri
ministeriali, già abbattuti del 50% ai sensi dell’articolo
130 del Testo unico sulle spese di giustizia. Lamentava
altresì il fatto che il collegio avesse provveduto a
ridimensionare fortemente il proprio compenso, senza
tuttavia motivare al riguardo e violando, in ogni caso, la
tariffa regolamentata dalla vigente normativa.
Il ministero dell’Economia e delle finanze si costituiva in
giudizio, resistendo al ricorso. In conclusione, la Ctp di
Milano respingeva l’atto impugnato dal difensore d’ufficio.
Pur rilevando come lo stesso legale avesse depositato una
nota spese rispettosa dei parametri ministeriali (abbattuti
del 50%), la liquidazione poteva dar luogo a un importo
inferiore, tenuto conto del caso concreto e non dovendosi
comunque fare esclusivo riferimento alla media delle
tariffe. Infatti, il carattere pubblico del compenso e il
fatto che l’importo gravasse, di fatto, sull’intera
collettività, consentivano un’ampia discrezionalità al
giudice. L’obiettivo è assicurare che l’onorario sia
effettivamente commisurato all’importanza e alla qualità
della prestazione professionale svolta, nonché ai risultati
ottenuti.
Sulla base di tali principi, la Ctp ha ritenuto corretta la
liquidazione effettuata dal collegio giudicante di primo
grado, in quanto basata su ragioni valide quali l’operato
del difensore e sul fatto che il ricorso fosse stato
dichiarato inammissibile (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
VARI: All’acquirente l’onere di provare la vendita a prezzo
«inferiore».
Imposte indirette. La regolare contabilità e la natura del
compratore giustificano la valutazione.
Spetta al
contribuente dimostrare che il prezzo al quale ha venduto un
immobile è inferiore a quello definito dall’acquirente ai
fini dell’imposta di registro. La lieve differenza tra i due
valori, la particolare natura giuridica del soggetto
acquirente e la regolare tenuta della contabilità soddisfano
tale onere.
Ad affermarlo è la
sentenza 09.07.2015 n. 804/1/2015 della Ctr
Liguria (presidente Soave, relatore Venturini).
La vicenda scaturisce dagli avvisi di accertamento emessi
dall’agenzia delle Entrate nei confronti di una società di
persone e dei relativi soci. A seguito della cessione di due
immobili, l’ufficio ha rideterminato, ai fini del reddito di
impresa, la plusvalenza realizzata considerando come prezzo
di cessione il maggior valore definito ai fini dell’imposta
di registro dall’acquirente. L’ufficio per la prima vendita
considera un prezzo di cessione di 252mila euro anziché
240mila; per la seconda 126mila euro anziché 120mila. I soci
e la società ricorrono in Ctp.
I contribuenti evidenziano che, ai fini delle imposte
dirette, rileva il prezzo di cessione indicato nell’atto di
compravendita e non quello definito ai fini del registro.
Inoltre, la definizione del valore ai fini del registro era
stata effettuata per sola volontà della parte acquirente,
che non aveva interesse a impostare un contenzioso
considerata la modesta differenza tra i due valori.
Difficilmente, infine, le cessioni potevano prestarsi a
importi non dichiarati considerato che l’acquirente degli
immobili era un istituto di credito.
I giudici di primo gado respingono il ricorso. I
contribuenti, allora, propongono appello alla Ctr della
Liguria che lo accoglie. Innanzitutto la commissione osserva
che, ai sensi dell’articolo 86 del Dpr 917/1986, la
plusvalenza da assoggettare a tassazione va calcolata in
relazione al corrispettivo effettivamente percepito e non in
base al prezzo teorico del bene determinato ai fini
dell’imposta di registro. Tuttavia, puntualizza il collegio,
secondo l’orientamento della Cassazione, l’ufficio è
legittimato a procedere in via induttiva all’accertamento
della plusvalenza sulla base del valore definito ai fini
dell’imposta di registro. Spetta, poi, al contribuente
superare tale presunzione dimostrando di avere, in concreto,
venduto a un prezzo inferiore.
Nel caso specifico, rileva il collegio:
l’istituto di credito acquirente aveva deciso di accettare
ai fini del registro la definizione di un prezzo leggermente
superiore rispetto a quello dichiarato nell’atto di
compravendita;
la contabilità aziendale non è stata contestata
dall’ufficio;
il fatto che fosse un istituto di credito va valutato come
elemento indiziario della circostanza (difficilmente, per un
tale soggetto, è possibile accedere ad acquisti parzialmente
in nero);
appare difficile credere in un’operazione fraudolenta per
una differenza di valori di così bassa entità.
In base a questi elementi risulta attendibile che il prezzo
reale di vendita sia stato inferiore a quello determinato ai
fini dell’imposta di registro, alla luce anche dell’attuale
stagnazione del mercato immobiliare (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Amianto, tre strade per la bonifica.
Il materiale può essere incapsulato, confinato o rimosso da
ditte iscritte all’Albo gestori.
Sicurezza. Obbligatorio comunicare alla Asl il piano di
lavoro, che si intende approvato dopo 30 giorni con il
silenzio-assenso.
Nelle
abitazioni sono diversi i casi in cui ci si può imbattere
nell'amianto: pannelli, pavimenti, rivestimenti di camini,
tubazioni, lastre di copertura, canne fumarie, serbatoi
idrici, guarnizioni stufe, intonaco.
Come afferma l’allegato
sulla valutazione del rischio al Dm 06.09.1994, la
presenza di materiali che contengono amianto in un edificio
non comporta di per sé un pericolo per la salute degli
occupanti: «Se il materiale è in buone condizioni e non
viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un
pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto». Lo
stesso allegato indica norme e metodologie tecniche di
applicazione della legge 257/1992 che ha messo al bando
questo materiale.
Le indicazioni del decreto si applicano a tutte le strutture
edilizie: ad uso civile, commerciale o industriale.
Il proprietario dell’immobile -l’amministratore di
condominio per le parti comuni, o il gestore dell’attività-
deve sempre designare una figura responsabile del rischio
amianto, con compiti di controllo e coordinamento
dell’attività manutentiva, da cui passa la valutazione
dell'eventuale bonifica. Il proprietario deve anche tenere i
documenti relativi all’ubicazione dell’amianto, predisporre
la segnaletica e le misure di sicurezza, fornire una
corretta informazione agli occupanti dell’edificio sui
rischi potenziali e i comportamenti da adottare.
A seconda del tipo di matrice, si predispone quindi un
controllo visivo e strumentale periodico. «Il responsabile
deve individuare la ditta qualificata e abilitata ad
eseguire i lavori: cioè un’impresa iscritta all’Albo
nazionale gestori ambientali, in categoria 10, con
coordinatore e operai specificamente formati», aggiunge
Erminio Barbati, vicepresidente Aibam (Associazione imprese
bonificatori amianto).
La ditta deve redigere un “piano di lavoro” da presentare
all'Asl competente per territorio -tranne casi di urgenza-
almeno 30 giorni prima dell’inizio dei lavori. Dopo 30
giorni scatta il silenzio-assenso.
A seconda delle caratteristiche di installazione e dello
stato di conservazione, la bonifica può esser fatta tramite
incapsulamento (trattare con vernice che ricostruisce la
superficie e impedisce la fuga del materiale), confinamento
(“chiusura” dietro murature) o rimozione del materiale. Non
sempre è possibile rimuovere il materiale, a causa di
impedimenti strutturali dell’edificio. In ogni caso, una
volta accertata la presenza dell’amianto, è necessario
stilare almeno un programma di controllo e manutenzione, per
prevenire il rilascio e la dispersione di fibre, e nel caso
intervenire per rimuovere o mettere in sicurezza.
«Il rischio è rappresentato dalla friabilità dei materiali e
dalla loro esposizione. L’amianto in matrice compatta,
comunemente conosciuto come cemento-amianto (fibrocemento, o
eternit, dal nome del più diffuso prodotto commerciale), è
meno pericoloso di quello in matrice friabile, che ha fibre
libere o debolmente legate. Ma va sottoposto alla
valutazione periodica dell’indice di degrado», spiega Nicola
Giovanni Grillo, presidente di Aibam. In ogni caso, i lavori
non si effettuano mai in presenza di abitanti.
«Quanto alle autorizzazioni edilizie -aggiunge Grillo-
dipendono dal tipo di intervento collegato: se rimuovo
soltanto una parte, non necessito di alcun particolare
documento; se tolgo il cemento-amianto e rimetto un’altra
copertura, coibentata, dovrò fare una comunicazione di
inizio lavori».
Una volta completata l’opera, il materiale rimosso va
portato in un centro di stoccaggio o direttamente in
discarica. «A farlo può essere la stessa ditta che ha
eseguito i lavori, ma per il trasporto deve esser comunque
iscritta all’Albo in categoria 5: tutto è indicato nel piano
di lavoro inviato all’Asl, anche il tragitto compiuto per lo
smaltimento», dice il presidente di Assoamianto, Sergio
Clarelli.
«Al proprietario deve poi tornare entro 90 giorni
una copia del Fir (formulario di identificazione rifiuti),
che attesta il conferimento presso una discarica
autorizzata. Questo documento si aggiunge al certificato di
fine lavori, e all’eventuale copia del campionamento
dell’aria successivo all’intervento».
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PERMESSI E NULLA OSTA
Il piano di lavoro predisposto dalla ditta abilitata alla
bonifica va inviato alla Asl del proprio territorio 30
giorni prima dell’inizio delle opere. Se entro 30 giorni
l’Asl non richiede integrazioni o modifiche, né dà
prescrizioni, la ditta può eseguire le opere.
Le autorizzazioni edilizie dipendono dal tipo di intervento
e dalle norme regionali o locali. In generale, in caso di
sola rimozione di una parte di amianto, non serve alcun
titolo abilitativo; se, ad esempio, si sostituisce una
copertura in eternit con un altro manto coibentato, ci sarà
bisogno di una Cila.
L’IMPRESA
L’impresa che effettua i lavori deve essere iscritta
all'Albo nazionale gestori ambientali, in categoria 10:
categoria 10A e/o 10B, a seconda che sia abilitata al
trattamento dei soli materiali compatti (di solito
cemento-amianto, eternit) o a tutti i tipi di bonifica.
La
ditta deve avere dipendenti provvisti di patentino di
abilitazione per coordinatore e operatori addetti alla
bonifica. L’impresa che trasporta i materiali alla discarica
–può essere anche la stessa che ha eseguito la rimozione–
deve essere iscritta all’Albo in categoria 5.
AGEVOLAZIONI PER PERSONE FISICHE
Anche per le spese di rimozione dell’amianto su abitazioni e
pertinenze (box, cantina, soffitta) si applica la detrazione
Ipref del 50%, entro il limite di 96mila euro (articolo 16-bis del Dpr 917/1986). Per accedere ai benefici basta pagare
le fatture con bonifico bancario o postale.
Se la rimozione
dell’amianto è intervento di carattere condominiale sarà
l’amministratore a provvedere
al pagamento con bonifico in cui oltre alla partiva Iva
dell’impresa esecutrice dei lavori indicherà anche il codice
fiscale del condominio.
AGEVOLAZIONI PER LE SOCIETÀ
La detrazione del 50% non è applicabile per gli immobili
posseduti da imprese e società nell’esercizio dell’attività
commerciale. Ma le spese di rimozione amianto rientrano tra
quelle detraibili quando si effettuano contestualmente gli
interventi di risparmio energetico cui si applica la
detrazione del 65 per cento.
Oltre agli edifici abitativi
anche tutti gli edifici non residenziali e quelli a
destinazione produttiva fruiscono di questa detrazione, se
dotati di impianto di riscaldamento preesistente.
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Bonus del 50% anche per il 2016.
Persone fisiche. La detrazione confermata per gli immobili
abitativi con il disegno di legge di Stabilità - In arrivo
un credito di imposta per beni e strutture produttive.
Anche la leva
fiscale può essere utilizzata per la rimozione di
amianto/eternit presente nel patrimonio edilizio esistente
in modo da ridurre significativamente i costi di questa
operazione.
Gli sconti fiscali applicabili attualmente per le persone
fisiche consentono la detrazione del 50% e, in taluni casi,
del 65% per i contestuali interventi di risparmio energetico
(si veda articolo in basso).
Si tratta di un’ottima opportunità di risparmio per chi
vuole smaltire l’amianto. Ma come funziona l’incentivo?
L’articolo 16-bis, comma 1, lettera l) del Dpr 917/1986,
prevede espressamente, per gli interventi eseguiti su
immobili abitativi e relative pertinenze (box, cantina,
soffitta), la detraibilità dall’Irpef del 50% delle spese
sostenute, entro il limite massimo di 96mila euro per gli
interventi di bonifica dall’amianto.
La formulazione testuale della norma lascerebbe pensare che
i benefici fiscali si possano applicare anche agli
interventi eseguiti su immobili non abitativi, anche non
pertinenziali, sempreché posseduti da persone fisiche,
tenuto conto del carattere oggettivo della normativa che non
limita espressamente alle abitazioni questa tipologia
specifica di intervento. In pratica, se posseduto da una
persona fisica l’edificio non residenziale (ufficio,
negozio, capannone, ma anche tettoie, pollai e ricoveri di
materiali), fruirebbe del bonus del 50% previsto per le
abitazioni. Ma sul punto non sono mai arrivate conferme
ufficiali.
Sino al 31.12.2015 (per ora ma la proroga al dicembre
2016 è contenuta nella legge di stabilità) l’importo della
detrazione è pari al 50% delle spese sostenute sino a un
ammontare massimo di 96mila euro, cioè 48mila euro da
ripartirsi in dieci rate annuali fino a 4.800 euro ciascuna
da recuperare con la presentazione della dichiarazione dei
redditi. Perciò, chi spende 20mila euro per la bonifica
dall’amianto potrà recuperare 10 mila euro in 10 quote
annuali da mille euro.
A regime, invece, la detrazione sarà pari al 36% delle spese
sostenute fino a un ammontare massimo di 48mila euro, cioè
17.280 euro da ripartirsi in dieci quote.
Per accedere ai benefici basta pagare le fatture con
bonifico bancario o postale.
Nella maggior parte dei casi la rimozione dell’amianto è un
intervento che interessa i condomini: in questo caso sarà
l’amministratore a provvedere al pagamento con bonifico, in
cui oltre alla partiva Iva dell’impresa esecutrice dei
lavori indicherà anche il codice fiscale del condominio. Lo
stesso amministratore poi rilascerà ai singoli condomini
un’attestazione degli importi da ciascuno dei condomini
detraibili sulla base della tabella millesimale.
Da ultimo nel Ddl «Collegato ambientale« (atto Senato 1676),
è stato approvato un emendamento presentato dal Governo che
prevede un credito di imposta del 50% delle spese sostenute
nel 2016 per interventi di bonifica dell’amianto anche su
beni e strutture produttive (con fondi pari a 5,6 milioni di
euro per il triennio 2017-2019).
Il credito di imposta -quando entrerà in vigore- non si
applicherà per investimenti di importo unitario inferiore a
20mila euro.
L’importo del credito sarà ripartito in tre
quote di pari importo da recuperare in sede di dichiarazione
dei redditi. Il credito non concorre alla determinazione del
reddito né dell’imponibile Irap. Modalità e termini di
applicazione del beneficio saranno rimesse a uno specifico
decreto del Mef.
---------------
Per le società abbinamento con il risparmio energetico
Persone giuridiche. Recuperabili al 65% i lavori connessi
all’isolamento termico.
Per gli
immobili posseduti da imprese e società nell’esercizio
dell’attività commerciale la detrazione Irpef del 50% non è
applicabile. Tuttavia, le spese di rimozione dell’amianto
rientrano tra quelle detraibili quando si effettuano
contestualmente gli interventi di risparmio energetico cui
si applica la detrazione Irpef/Ires del 65% (prorogata al
2016 secondo il Ddl di stabilità).
In sostanza se
l’intervento di rimozione dell’eternit è collegato a
interventi sui serramenti, all’implementazione di un
cappotto termico, all’installazione di pannelli solari
termici, o caldaie a condensazione, all’aggiunta di un
camino solare, o pompe di calore, allora la detrazione è
pari al 65% della spesa sostenuta sino a un importo massimo
di detrazione pari a 100mila euro per gli interventi di
riqualificazione globale, ovvero 60mila per gli interventi
sulle strutture opache orizzontali o verticali (cappotto,
finestre o solai) o 30mila per gli interventi di
sostituzione degli impianti termici.
Il perimetro
In pratica, mentre la detrazione del 65% non si applica di
per sé alla sola rimozione dell’amianto, le spese
complessive di riqualificazione energetica con contestuale
rimozione dell’amianto, se non separatamente fatturate
(altrimenti si perde il diritto al beneficio), fruiscono
anche di questa maggiore detrazione.
Trattandosi di intervento di risparmio energetico non
sussistono i limiti oggettivi previsti per la detrazione del
50%: quindi l’agevolazione vale sia per le abitazioni sia
per tutti gli edifici non residenziali e quelli a
destinazione produttiva. L’importante è che gli stessi siano
accatastati prima dell’inizio dell’intervento e siano dotati
di impianto di riscaldamento preesistente.
Anche sotto il
profilo soggettivo, la detrazione del 65% non subisce i
limiti previsto per il bonus fiscale per le ristrutturazioni
edilizie e, quindi, si applica oltre che ai soggetti Irpef
anche a imprese e società (soggetti Ires). In entrambi i
casi, trattandosi di una detrazione è necessario che il
soggetto che sostiene le spese abbia capienza di imposta,
cioè Irpef o Ires da versare nell’anno di imposta da cui
poter scomputare l’importo detraibile.
Facciamo un esempio: una società vuole rimuovere l’amianto
e, contestualmente, coibentare il tetto per migliorare
l’isolamento termico dell’edificio. Nell’ipotesi in cui al
termine dei lavori di rifacimento del tetto si conseguano i
prescritti valori di trasmittanza termica, tutte le spese
sostenute, anche per la rimozione dell’amianto nel tetto,
fruiscono dei benefici fiscali.
Se si tratta di intervento
di risparmio energetico eseguito su immobile strumentale, la
detrazione si applica senza problemi a prescindere dal fatto
che le spese sostenute sono già elemento di costo nella
determinazione del reddito di impresa o arti e professione
(es. maggiore ammortamento per capitalizzazione
dell’investimento ovvero abbattimento dal reddito
imponibile). In sostanza, la spesa sostenuta rileva, sia
nella determinazione del reddito che come detrazione dalle
imposte sul reddito dovute sull’utile (Irpef o Ires). Fanno
eccezione gli immobili non abitativi locati per i quali
l’agenzia delle Entrate ha posto dei limiti all’applicazione
del 65 per cento.
Per i titolari di reddito d’impresa (ditte individuali,
società di persone o di capitali), infatti, la detrazione
del 65% spetta solo se gli interventi di riqualificazione
energetica sono eseguiti su fabbricati strumentali (per
natura o destinazione) utilizzati nell’esercizio
dell’attività imprenditoriale. Sono pertanto esclusi gli
immobili locati a terzi (risoluzione n. 340/E/2008) e gli
altri immobili posseduti dalle imprese o società. Tuttavia, i
più recenti orientamenti giurisprudenziali di merito non
riconoscono legittima questa interpretazione (si veda Il
Sole 24 Ore del 29 giugno scorso).
La procedura
Il contribuente deve, in primo luogo, acquisire
l’asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi il
rispetto dei requisiti di trasmittanza termica. È necessario
acquisire anche l’attestato di prestazione energetica
dell’edificio e la scheda informativa dei lavori secondo lo
schema contenuto nel Dm 19.02.2007.
Una volta ottenuta l’asseverazione, l’Ape e la scheda
informativa, il contribuente deve inviarli all’Enea (tramite
il programma informatico disponibile sul sito internet
www.acs.enea.it) entro i 90 giorni successivi alla fine
dell’intervento (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, turn-over ancora vincolato agli ex provinciali.
Personale/1. La mobilità «copre» tutti gli spazi.
La
disposizione contenuta nel disegno di legge di Stabilità
2016, che impone la riduzione del turn-over al 25%, non
modifica il fatto che gli spazi assunzionali restano
integralmente vincolati al riassorbimento dei dipendenti
soprannumerari, mentre il 2017 e il 2018 sembrano essere
orizzonti temporalmente troppo lontani per essere
preoccupati ora per allora, considerata la “velocità” delle
modifiche legislative.
L’ultimo intervento normativo in materia è rappresentato
dall’articolo 3, comma 5, del Dl 90/2014, il quale
stabilisce che gli enti locali possono assumere nel 2015 nel
limite del 60% della spesa relativa alle cessazioni
dell’anno precedente, nel 2016 e nel 2017 l’aliquota è
fissata all’80% per salire al 100% dal 2018. Su questo
impianto legislativo interviene il comma 424 della legge di
stabilità di quest’anno, che impone di destinare le facoltà
2015 e 2016 all’assunzione dei vincitori di concorso
relativi a graduatorie in vigore e approvate al 01.01.2015 e alla ricollocazione dei dipendenti in esubero degli
enti di area vasta.
Considerato che, negli enti locali, è poca diffusa la
situazione nella quale si hanno graduatorie approvate in
assenza della nomina dei vincitori ovvero i pochi casi
presenti si esauriranno con le facoltà 2015, nella sostanza
tutto il budget 2016 a disposizione delle assunzioni vanno a
favore dei soprannumerari degli enti di area vasta. Ma la
disposizione prima richiamata impone agli enti locali di
destinare anche la restante percentuale per arrivare al turn-over pieno alla sola ricollocazione del personale
soprannumerario.
Riassumendo, per il 2016, l’80% delle cessazioni
verificatesi nel 2015 è destinato ai vincitori di concorso,
che, nei Comuni, saranno, presumibilmente, pari a zero, e
agli ex provinciali, mentre il restante 20% è riservato ai
soli soprannumerari. In pratica, quindi, tutta la spesa 2016
pari alle cessazioni 2015 è da destinare al riassorbimento
del personale degli enti di area vasta in esubero.
In questo contesto, a cosa serve ridurre le facoltà
assunzionali dall’80% al 25%? In costanza della previsione
normativa attuale, l’80% delle cessazioni 2015 va a favore
dei vincitori di concorso (che saranno assenti) e agli
esuberi e il restante 20% ai soli soprannumerari. Con la
nuova previsione contenuta nel disegno di legge di Stabilità
per il 2016 si dovrebbe riservare il 25% alla prima
fattispecie e l’ulteriore 75% alla seconda ipotesi. Ma in
entrambi i casi, il totale (100%) sono destinati agli ex
provinciali. E, quindi, quale è l’utilità o l’obiettivo
della nuova disposizione? Le risposte sono del tutto ignote.
E se questo non fosse sufficiente, la legge di Stabilità
2016 aggiunge che «al solo fine di definire il processo di
mobilità del personale degli enti di area vasta destinato a
funzioni non fondamentali…. restano ferme le percentuali
stabilite dall’articolo 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90….».
Quindi, con riferimento al 2016, resta ferma la percentuale
dell’80% al solo fine dei riassorbire i provinciali. Se non
si comprende quale sia la portata del primo periodo del
comma in questione, ancora più perplessi lascia questa
seconda parte. A cosa serve specificare che il turn-over
resta all’80%? E quale destinazione possono avere queste
facoltà assunzionali se non a favore degli ex provinciali?
La previsione della legge di stabilità 2016 potrebbe
acquisire un significato solo nel caso in cui il percorso di
riassorbimento dei dipendenti soprannumerari degli enti di
area vasta si concludesse secondo le previsioni contenute
nel decreto del ministero per la Semplificazione e per la
pubblica amministrazione 14.09.2015, vale a dire
entro la fine del marzo 2016, con la completa ricollocazione
di tutti gli esuberi.
Ipotesi alla quale sembra non credere
nemmeno il legislatore tanto che prevede, nella stessa legge
di Stabilità, il commissariamento delle Regioni che, alla
data del 30.01.2016, risultino ancora inadempienti
rispetto alla scadenza, oggi fissata al 31.10.2015 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il rinnovo dei contratti dribbla i tetti di spesa.
Personale/2. I costi sono a carico dei bilanci locali ma non
entrano negli indicatori.
Sono passati
più di sei anni dall’ultimo contratto nazionale. Talmente
tanto che gli enti locali si trovano quasi disorientati di
fronte alle percentuali e agli importi che circolano in
questi giorni sui futuri incrementi stipendiali.
C’è bisogno di ripercorrere le regole vigenti, anche se, il
mutato contesto normativo, potrebbe portare anche a
soluzioni interpretative diverse.
Il tutto prende il via dall’articolo 48 del Dlgs 165/2001
che prevede che per le Regioni e gli enti locali le risorse
per gli incrementi retributivi per il rinnovo dei contratti
collettivi nazionali sono definite dal Governo, nel rispetto
dei vincoli di bilancio, del patto di stabilità e di
analoghi strumenti di contenimento della spesa, previa
consultazione con le rispettive rappresentanze istituzionali
del sistema delle autonomie.
Lo stesso articolo, afferma, inequivocabilmente, che gli
oneri di tale contrattazione sono determinati a carico dei
rispettivi bilanci. Ciascun ente, quindi, dovrà prevedere in
sede di bilancio, le somme per l’erogazione dei benefici a
favore dei propri dipendenti.
Il contratto nazionale, poi, spalmerà gli importi a
disposizione sulle varie categorie e posizioni economiche
del comparto, prevedendo le somme da inserire in busta paga.
Ai fini del calcolo della spesa di personale, le somme
riferite ai rinnovi contrattuali vanno escluse dalla base di
calcolo. Infatti, ai sensi dell’articolo 1, comma 557, della
legge 296/2006 (finanziaria 2007) tali costi sono da
neutralizzare per il monitoraggio nel tempo dell’obbligo di
contenimento della spesa di personale, che, ai sensi del
comma 557-quater della medesima disposizione, dovrà avvenire
rispetto alla media del triennio 2011/2013. Per gli enti non
soggetti a patto di stabilità, il riferimento, invece, è la
spesa di competenza dell’anno 2008.
Su tale aspetto non debbono esserci dubbi. Oltre al chiaro
disposto letterale della norma, la Corte dei conti, sezione
autonomie, con la deliberazione 27/2011 ne ha individuato la
ratio: da un lato operando il confronto tra esercizi
escludendo in entrambi gli effetti dei rinnovi contrattuali
si eliminano turbative all’andamento della serie, dall’altro
i contratti nazionali hanno copertura predeterminata e
comportano decisioni di spesa assunte aliunde e non di
dominio immediato dell’ente.
I magistrati, però, ricordano che tali esclusioni non si
possono applicare agli incrementi delle somme a favore della
contrattazione integrativa decentrata.
La deliberazione, prende in esame, però, anche un’altra
questione, ovvero quali voci siano da includere o da
escludere al momento del calcolo del rapporto tra spese di
personale e spese correnti, che, come stabilito dalla
deliberazione 27/2015 della medesima sezione autonomie,
riveste carattere cogente.
Al fine di verificare il rispetto dei parametri d’incidenza
tra le spese di personale e la spesa corrente, l’aggregato
spese di personale può essere direttamente riferito a quello
già impiegato per l’applicazione del comma 557, ma è
necessario operare un correttivo, per ristabilire
l’equilibrio del confronto con l’insieme della spesa
corrente. In tale prospettiva vanno, quindi, incluse
nell’aggregato “spesa del personale” le voci escluse ai fini
dell’applicazione del comma 557.
Al numeratore, quindi, va sempre indicata una spesa di
personale “lorda” (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
APPALTI:
Enti
pubblici al test riciclaggio. Sotto la lente appalti,
sanità, rifiuti, energie rinnovabili.
Riorganizzazione delle amministrazioni richiesta
dagli adempimenti di segnalazione.
Appalti, sanità, produzione di energie rinnovabili, raccolta
e smaltimento dei rifiuti sono le attività che presentano i
maggiori rischi di riciclaggio, nonché i settori economici
interessati dall'erogazione di fondi pubblici, anche di
fonte comunitaria.
Sono questi, quindi, gli ambiti che devono essere monitorati
con particolare attenzione dagli operatori di enti locali,
istituti, scuole, aziende sanitarie e amministrazioni della
p.a., secondo il
decreto 25.09.2015
del Ministero dell'interno, ai fini della segnalazione delle operazioni
sospette di riciclaggio e finanziamento del terrorismo.
Ciò
comporta una sostanziale opera di riorganizzazione degli
uffici pubblici che dovranno concretamente attrezzarsi per
verificare la sussistenza delle fattispecie previste negli
indicatori previsti dal decreto, per scovare il possibile
coinvolgimento dell'imprenditore, che entri in contatto con
l'amministrazione, in situazioni di riciclaggio o
finanziamento del terrorismo.
La collaborazione attiva delle pubbliche amministrazioni.
Non più solo i professionisti e gli intermediari finanziari
devono preoccuparsi, da un punto di vista operativo, di
provvedere alle segnalazioni di operazioni sospette e agli
obblighi antiriciclaggio.
Con il decreto del 25/09/2015,
infatti, anche tutta la pubblica amministrazione deve
concretamente attivarsi al fine di agevolare
l'individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio e
di finanziamento del terrorismo (si veda ItaliaOggi del
09/10/2015). In effetti, ricordiamo che gli uffici della
pubblica amministrazione rientrano fra i destinatari della
normativa antiriciclaggio fin dalla legge 197/1991. Il dlgs
231/2007 conferma tale scelta all'art. 10, comma 2,
prevedendo per detti uffici esclusivamente il rispetto degli
obblighi di segnalazione di operazioni sospette.
Nonostante
il dato normativo, tuttavia, afferma l'Uif nel suo rapporto
annuale per il 2014: «Finora la pubblica amministrazione non
ha dimostrato di avere, in generale, consapevolezza del
proprio ruolo nell'ambito della collaborazione attiva». In
proposito, il National Risk Assessment rileva che si tratta
di una «vulnerabilità non di poco conto se si pensa alla
rilevanza del fenomeno della corruzione ovvero alla presenza
di ambiti fortemente appetibili per la criminalità come il
settore degli appalti pubblici o dei finanziamenti
comunitari».
Proprio al fine di sensibilizzare la p.a. sugli
obblighi di collaborazione attiva, la Uif, unitamente al
ministero dell'interno, ha provveduto a definire gli
specifici indicatori di anomalia in commento che, in accordo
al principio di proporzionalità e secondo un approccio
basato sul rischio, tengono conto dei settori pubblici
maggiormente esposti al rischio di riciclaggio. In
proposito, gli ambiti di attività più colpiti risultano
quelli interessati dalla movimentazione di elevati flussi
finanziari, anche di natura pubblica, quali il settore
fiscale, gli appalti e i finanziamenti pubblici.
Sul tema, comunque si tiene a precisare che la via
intrapresa dall'Italia, non trova corrispondenza con la
normativa europea in quanto la Direttiva 2005/60/Ce (c.d.
III Direttiva), così come la Direttiva 2015/849 del 20.05.2015 (c.d. IV Direttiva), pubblicata in Guue del
05.06.2015 e da recepire negli ordinamenti nazionali entro
la data del 26.06.2017 (si veda ItaliaOggi Sette del
05/10/2015), non contengono riferimenti a obblighi di
prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del
terrorismo a carico della p.a..
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Massima allerta sui comportamenti sotto
la lente.
Non basta la verifica formale della documentazione fornita
dalle imprese che chiedono di partecipare agli appalti o di
ricevere dei fondi pubblici, piuttosto serve un controllo
sostanziale dei comportamenti attuati dai richiedenti per
individuare possibili fattispecie tipizzate negli indicatori
previsti dal decreto con conseguente responsabilità sui
responsabili dei procedimenti e sui dirigenti delle
strutture pubbliche.
Si tratta di controlli di non semplice
realizzazione pratica anche considerando che il decreto
tiene a precisare la non esaustività dell'elencazione delle
anomalie e inoltre che l'impossibilità di ricondurre
operazioni o comportamenti a uno o più degli indicatori
previsti nell'allegato del decreto non è sufficiente a
escludere che l'operazione sia sospetta.
Gli operatori
devono, pertanto, valutare con la massima attenzione
ulteriori comportamenti e caratteristiche dell'operazione
che, sebbene non descritti negli indicatori, siano
egualmente sintomatici di profili di sospetto. Per quanto
riguarda, poi, il sospetto di operazioni riconducibili al
finanziamento del terrorismo, il decreto puntualizza che lo
stesso può essere desunto anche dal riscontro di un
nominativo e dei relativi dati anagrafici nelle liste
pubbliche consultabili sul sito della Uif.
A riguardo, si
chiarisce comunque che, ai fini della segnalazione, non è
sufficiente la mera omonimia, qualora il segnalante possa
escludere, sulla base di tutti gli elementi disponibili, che
uno o più dei dati identificativi siano effettivamente gli
stessi indicati nelle liste, intendendo per dati
identificativi le cariche, le qualifiche e ogni altro dato
riferito nelle liste che risulti incompatibile con il
profilo economico-finanziario e con le caratteristiche
oggettive e soggettive del nominativo.
Nell'ottica
operativa, infine, il decreto richiede che gli operatori
della p.a. adottino in base alla propria autonomia
organizzativa, procedure interne di valutazione che
culminano con la trasmissione delle informazioni relative
all'operazione sospetta a un soggetto denominato «gestore».
Quest'ultimo può coincidere con il responsabile della
prevenzione della corruzione previsto dall'art. 1, comma 7,
legge 190/2012. Negli enti locali con popolazione inferiore
a 15 mila abitanti può essere individuato un gestore comune
ai fini dell'adempimento dell'obbligo di segnalazione delle
operazioni sospette
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Gestioni
associate verso lo stop. Nei correttivi incentivi reali e la
cancellazione delle rigidità del meccanismo.
L’assemblea dell’Anci. Comuni fino a 5mila abitanti: il
Governo apre alla sospensione degli obblighi previsti dal
01.01.2016.
Dal governo
arriva, all’assemblea dell’Anci, un sostanziale via libera
alla sospensione degli obblighi di gestione associata per i
quasi 6mila piccoli Comuni, che dovrebbe partire dal 1°
gennaio senza che però siano stati affrontati i problemi
alla base della pioggia di proroghe di questi anni.
«Avviamo
subito il confronto con i sindaci sulla via da imboccare -apre il sottosegretario di Palazzo Chigi, Claudio De
Vincenti, che segue i dossier della manovra sugli enti
locali- tenendo fisso l’obiettivo di una crescita
dimensionale delle amministrazioni per aumentare la capacità
di garantire servizi». L’obiettivo, almeno nelle
dichiarazioni ufficiali, è condiviso, ma finora gli obblighi
di gestione associata hanno prodotto più rinvii che
riorganizzazioni amministrative per gestire insieme servizi
sociali, sicurezza, asili nido, protezione civile e così
via.
La storia di questi obblighi data infatti dal 2010, e
prevedeva un calendario progressivo con l’associazione di
tre funzioni fondamentali all’anno: il fallimento di queste
tappe ha portato al termine unico del 1° gennaio prossimo,
ma le indagini avviate nelle scorse settimane dal Viminale
hanno certificato che la situazione è ferma. Di qui l’idea
della nuova sospensione, che potrebbe arrivare con gli
emendamenti alla manovra o in un altro provvedimento se sarà
considerata misura troppo “ordinamentale” per finire nella
legge di stabilità.
Gli ostacoli lamentati dai Comuni sono due: l’assenza di
incentivi reali alle associazioni e soprattutto l’eccessiva
rigidità del meccanismo, che impone a tutti i Comuni sotto i
5mila abitanti (3mila in montagna) di costruire associazioni
che amministrino almeno 10mila abitanti.
Densità
demografiche e articolazioni dei servizi cambiano però da
territorio a territorio, e lo stesso target di 10mila
abitanti può rivelarsi facilissimo da raggiungere in alcune
aree e praticamente impossibile in altre. Le Regioni
avrebbero potuto ritoccare questi parametri, ma poche
l’hanno fatto a conferma di una scarsa attenzione collettiva
sulla traduzione degli obblighi in realtà.
Una nuova sospensione non basterebbe ovviamente a risolvere
i problemi, ma l’idea è di utilizzare il nuovo tempo
supplementare per ripensare integralmente le regole.
«Bisogna cancellare il criterio legato al numero di abitanti
-rilancia Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente Anci- e cominciare a ragionare per bacini omogenei di
aggregazione, dentro cui sviluppare unioni decise dagli
stessi Comuni. In sei mesi si può fare».
Nell’agenda dei piccoli Comuni c’è però anche un’altra
scadenza, ancora più ravvicinata e intricata nella gestione.
Dal 1° novembre i sindaci fino a 10mila abitanti non
potranno più ottenere il via libera per nessun acquisto che
non passi dalle centrali uniche, mentre la manovra ridisegna
tutto il sistema dal 1° gennaio prossimo, estendendo ai
piccoli Comuni la deroga per i mini-acquisti (fino a 40mila
euro) già prevista per gli altri.
Senza un intervento, si
rischia un blocco bimestrale degli appalti provocato da una
norma che di fatto è stata accantonata dallo stesso governo:
per rimediare, però, è indispensabile un correttivo da far
entrare in vigore subito. La sede potrebbe essere il decreto
con il salva-Regioni che nel prossimo Consiglio dei ministri
fisserà le regole per consentire il ripiano in 30 anni dei
disavanzi creati dall’errata gestione delle anticipazioni di
liquidità prodotte dai provvedimenti del 2013 che hanno
sbloccato i pagamenti alle imprese.
In discussione, in vista
di quel provvedimento, c’è anche l’ipotesi di sanatoria per
le delibere con gli aumenti fiscali approvate dai Comuni
dopo il termine per i bilanci preventivi scaduto il 30
luglio scorso (il problema non riguarda la Sicilia, dov’era
arrivata la proroga fino al 30 settembre).
Il problema
riguarda circa mille Comuni, molto spesso per la revisione
dei parametri della Tari (la tariffa rifiuti era stata
oggetto di sanatoria ex post anche nel 2014), la pressione
per un intervento è forte ma si scontra con la contrarietà
di Palazzo Chigi (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), perché
permettere di applicare le aliquote approvate fino al 30
settembre significherebbe nei fatti annullare l’effetto più
importante del «no» a nuove proroghe dei preventivi imposto
a luglio dal Governo. Non solo: l’annuncio dell’addio alla Tasi sull’abitazione principale è stato dato dal premier
Matteo Renzi il 18 luglio, e c’è il timore di possibili
aumenti “strumentali” con il solo obiettivo di far crescere
i rimborsi per il mancato gettito dei prossimi anni (come
accaduto sulla mini-Imu due anni fa).
Intanto l’Economia, che nelle settimane scorse aveva
invitato i sindaci ad annullare le delibere in autotutela,
ha avviato i ricorsi contro i Comuni che stanno provando ad
applicarle comunque, chiedendo al Tar la sospensione per
evitare problemi nel saldo di dicembre (articolo Il Sole 24 Ore del
30.10.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Associazionismo forzoso flop. Meglio forme di aggregazione
spontanee e omogenee.
ASSEMBLEA ANCI/ La tesi dei comuni piace al
governo. L'obbligo verso il rinvio.
L'associazionismo comunale forzoso è fallito. L'obbligo per
i piccoli comuni di mettere insieme le funzioni su base
demografica, imposto dal decreto legge n. 78/2010, va messo
definitivamente da parte, per ripartire invece da forme di
aggregazione spontanea, dal basso, sulla base di bacini
omogenei per territorio.
Ecco perché l'appuntamento con l'obbligo di gestione
associata delle funzioni, previsto per il 01.01.2016,
va nuovamente spostato in avanti. Ma questa volta non dovrà
trattarsi di una semplice proroga, bensì di un ripensamento
globale di un modello che «ha fallito» (come certificato
anche dal ministero dell'interno e dalla Corte dei conti, si
veda ItaliaOggi del 04/09/2015).
Lo chiedono i comuni e lo
pensa anche il governo che su questo punto ha promesso «non
il solito emendamento di proroga per risolvere una
situazione emergenziale, ma un intervento di ampio respiro
per realizzare processi aggregativi senza forzature».
Il sottosegretario al ministero dell'interno, Gianpiero
Bocci, intervenendo a Torino all'assemblea dell'Anci, ha
risposto così alle sollecitazioni dei sindaci dei piccoli
comuni, i primi interessati a uscire da una situazione di
stallo che sta penalizzando anche le unioni.
«L'obbligatorietà delle funzioni sta creando un clima di
sfiducia», ha osservato Dimitri Tasso, coordinatore della
Conferenza nazionale Unioni di comuni e associazionismo
dell'Anci, «perché la normativa non chiarisce bene quali
siano le funzioni da mettere insieme, mentre invece
associare i servizi non crea alcun problema.
Ecco perché occorre una sospensiva, per riscrivere
velocemente le regole. Sei mesi potrebbero bastare per
individuare i bacini omogenei».
Parole che suonano come
musica per le orecchie di chi come Franca Biglio, presidente
dell'Anpci, l'associazione nazionale dei piccoli comuni, si
è sempre pervicacemente opposto all'associazionismo calato
dall'alto, propugnando invece un modello di aggregazione
basato sulla condivisione dei servizi. «Finalmente l'Anci ha
capito quello che noi diciamo da sempre: l'associazionismo
forzoso avrebbe distrutto i piccoli comuni e il paese». «Ora
però», ha messo in guardia il sindaco di Marsaglia (Cn),
«non vorremmo che si cadesse dalla padella alla brace. I
bacini ottimali devono essere decisi dal basso, ma non dalle
province, come invece sostiene l'Anci (lo ha ribadito ieri
in assemblea il sindaco di Pesaro Matteo Ricci ndr) perché
questo significherebbe far prevalere nuovamente le decisioni
dei grandi comuni favoriti dal meccanismo del voto
ponderato».
I piccoli comuni saranno dunque al centro delle
interlocuzione tra sindaci e governo nei prossimi mesi. E
per questo la platea dell'Anci ha accolto con favore
l'annuncio del ministro dell'interno, Angelino Alfano, di
dedicare una delle prossime riunioni della Conferenza
stato-città esclusivamente alle problematiche dei mini enti
che spesso lamentano di essere dimenticati dal governo
nonostante costituiscano il 70% dei municipi italiani e il
54% del territorio.
«I piccoli comuni rappresentano solo
l'1% della spesa pubblica ma in questi anni sono stati
colpiti da politiche restrittive che ne hanno solo
incrementato la crisi e lo spopolamento», precisa Massimo
Castelli, sindaco di Cerignale (Pc) e coordinatore nazionale
Anci piccoli comuni, «bisogna quanto prima invertire la
rotta favorendone il ripopolamento con incentivi e
semplificazioni».
La legge di stabilità, tuttavia, nella parte in cui riduce
il turnover al 25%, rendendo di fatto impossibile
rimpiazzare il personale cessato nei mini enti, sembra
andare in direzione opposta.
Il tema delle riforme si lega, infatti, a doppio filo al
cantiere della manovra che in linea di massima piace all'Anci.
I sindaci apprezzano il superamento del patto di stabilità,
sostituito con il pareggio di bilancio light (entrate finali
e spese finali di competenza), lo sblocco degli avanzi di
amministrazione per realizzare gli investimenti (anche se
sul punto, a causa anche della scarsa chiarezza del ddl,
permangono forti dubbi, come ha osservato Pier Sandro Scano,
sindaco di Villamar (Vs) e presidente di Anci Sardegna), la
maggiore spinta su fabbisogni standard e capacità fiscale
per l'attribuzione delle risorse e la compensazione
integrale del gettito Imu-Tasi mancante dopo l'abolizione
delle tasse sulla prima casa. Ma ci sono ancora alcuni
importanti nodi da sciogliere. In primis i 500 milioni di
tagli alle province che renderebbero impossibile agli enti
di area vasta la gestione delle funzioni fondamentali.
Sul
punto, però, è arrivata un'apertura dal sottosegretario alla
presidenza del consiglio, Claudio De Vincenti che ha
promesso alle province l'impegno del governo a «garantire le
risorse necessarie a svolgere la loro missione istituzionale
in attesa che si compia il processo di riforma». Un impegno
apprezzato dal presidente dell'Upi e sindaco di Vicenza,
Achille Variati.
«È un segnale positivo che va nella direzione giusta, per
arrivare a modificare il taglio agli enti di area vasta,
partendo da dati certi», ha commentato. De Vincenti,
infine, ha difeso il contestato tetto del turnover,
precisando come non sia in contraddizione col decreto Madia
del 2014, ma vada invece inquadrato proprio nell'ottica
della riforma della p.a. recentemente approvata dal
parlamento (legge n. 124/2015). Il tetto in ogni caso non
impatterà negativamente sul ricollocamento del personale
provinciale
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
trattamento accessorio ancorato ai soldi del 2015.
Dal 2016, l'ammontare delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale pubblico non potrà
superare l'importo del 2015 e dovrà essere progressivamente
ridotto in proporzione alle cessazioni dal servizio.
Il ddl
di stabilità 2016 torna all'antico e, dopo la breve pausa
del 2015, rimette la sordina alla contrattazione decentrata.
È solo da quest'anno, infatti, che è venuto meno il tetto
previsto dall'art. 9, c. 2-bis, del dl 78/2010, che fino al
2014 prevedeva un meccanismo analogo di contenimento,
calibrato però sul 2010 come anno di riferimento. La nuova
norma, peraltro, presenta una formulazione leggermente
diversa da quella contenuta nelle prime bozze. Da un lato,
il limite viene esplicitamente previsto solo «nelle more
dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli
articoli 11 e 17» della Legge Madia.
Dall'altro lato, fermo
restando che il tetto al fondo è rappresentato, come detto,
dall'importo del 2015, non si prevede più che esso debba
essere «determinato ( ) ai sensi dell'art. 9, c. 2-bis,
secondo periodo» del dl 78/2010. Tale inciso sembrava
implicare che eventuali incrementi, pur possibili nel 2015,
dovessero essere recuperati dal 2016. Inoltre, a differenza
di quanto accadeva in passato, è stato inserito un nuovo
riferimento al «personale assumibile» per calcolare l'entità
del taglio.
Restano comunque possibili le progressioni
economiche orizzontali. Ovviamente, come evidenzia la
relazione al testo, a essere cambiato è soprattutto il
contesto generale, in quanto si è riattivato il meccanismo
degli scatti stipendiali. In questo contesto, è chiaro che
gli enti hanno ora convenienza ad aumentare il più possibile
il fondo 2015, sia per ripararsi dai futuri tagli, sia per
incrementare il proprio monte salari in vista di un
eventuale ulteriore incremento del contratto collettivo
nazionale.
Di regola, infatti, la quota di incremento del Ccnl legato alla produttività, e dunque attribuito al fondo,
è espresso come una percentuale del monte salari di ciascun
ente. Sui contratti, c'è da notare che i 300 milioni valgono
lo 0,3% dato dall'inflazione prevista nel 2015. Non si parla
più dell'indice Ipca che in base alla riforma Brunetta
doveva sostituire il vecchio sistema proprio da questa
tornata contrattuale e che è molto superiore: 1,5 nel 2015
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015). |
TRIBUTI:
Online il nuovo portale della giustizia
tributaria.
Dal calcolo del contributo unificato dovuto sul ricorso alla
prenotazione degli appuntamenti con la commissione
tributaria, dalla modulistica per richiedere copia delle
sentenze o il certificato di pendenza all'elenco dei
soggetti autorizzati alla difesa del contribuente presso Ctp
e Ctr.
È online il nuovo portale della giustizia tributaria,
realizzato dal Dipartimento delle finanze del Mef. Il sito,
i cui contenuti e l'erogazione dei servizi sono curati dalla
Direzione giustizia tributaria, svolgerà anche la funzione
di punto unico di accesso al processo tributario telematico,
in partenza dal prossimo 1° dicembre in via sperimentale
nelle commissioni della Toscana e dell'Umbria.
Attraverso l'indirizzo web
http://giustiziatributaria.gov.it contribuenti ed enti
impositori potranno effettuare online il deposito dei
ricorsi e degli atti processuali, come pure accedere al
fascicolo informatico del processo e consultare tutti gli
atti e i provvedimenti emanati dal giudice. Strumenti
necessari per poter fruire dei servizi del processo
tributario telematico sono il possesso di una casella di
posta elettronica certificata e di una firma digitale
valida.
Il sito contiene anche una sezione specifica dedicata alla
rassegna di giurisprudenza tributaria. Ed è proprio su
questo tema che, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, a
poche ore dal «lancio» del portale alcuni giudici hanno
sollevato qualche perplessità, relativa ai criteri di
selezione delle sentenze da parte del Mef.
Come spiegato
dalla Direzione giustizia tributaria sul sito, tuttavia, la
panoramica sulle massime «si propone di offrire risalto ad
alcune delle più interessanti pronunce segnalate dalle
commissioni tributarie», senza quindi privilegiare né quelle
pro-fisco né quelle pro-contribuente e in maniera più
tempestiva che in passato (l'aggiornamento avverrà ogni 15
giorni).
Il portale sarà utilizzabile anche dai magistrati tributari,
che potranno fruire di diversi servizi personalizzati
accessibili dalla «scrivania del giudice», tra cui la
ricerca delle sentenze delle commissioni tributarie e la
consultazione del fascicolo processuale telematico
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2015). |
APPALTI: Comuni, gli appalti a rischio.
Il sistema non è pronto: Cantone sollecita una soluzione al
Governo.
Spending review. Dal primo novembre scatta l’obbligo di
aggregare le gare per le città non capoluogo.
Appalti dei
Comuni a rischio blocco dal primo novembre. Dopo sei
proroghe consecutive entra in vigore la norma che impone a
tutte le città non capoluogo di aggregare le gare,
attraverso consorzi e unioni di comuni oppure passando dagli
uffici di una provincia o da un soggetto aggregatore.
Dalla prossima settimana solo i grandi comuni potranno
continuare a bandire le gare in autonomia. Per tutti gli
enti non capoluogo scatta invece la tagliola prevista dalla
spending review inaugurata dal Governo Monti nel 2012: per
risparmiare e permettere di controllare meglio la spesa le
gare vanno aggregate. Un principio che vale per beni e
servizi, ma anche per i lavori pubblici.
A meno di proroghe dell’ultim’ora non c’è possibilità di
aggirare i vincoli. Chi non si adegua non potrà neppure
avviare l’iter di gara. La norma del codice appalti che
impone l’aggregazione, e che finora è rimasta congelata a
suon di proroghe (articolo 33, comma 3-bis), vieta infatti
all’Autorità Anticorruzione di rilasciare il codice che
identifica la procedura (il cosiddetto codice Cig) la cui
richiesta è propedeutica alla pubblicazione dei bandi di
gara.
Uno spauracchio che non è bastato. Nel Paese degli 8mila
campanili finora poco o nulla si è mosso sul fronte della
centralizzazione degli appalti. Anche il sistema dei 35
soggetti aggregatori è in via di formazione. Qualche Regione
è pronta a partire, altre sono indietro. In alcune aree del
paese i sindaci non saprebbero a chi rivolgersi per bandire
le loro gare. Dunque è più che concreto il pericolo di
mandare in stallo gli appalti dei comuni: il principale tra
i motori che in questi ultimi mesi hanno tenuto
faticosamente a galla i lavori pubblici.
Se ne rende conto anche l’Anac di Raffaele Cantone. Che non
a caso in queste ore sta lavorando a un documento da inviare
a Governo e Parlamento per segnalare l’urgenza di una
soluzione. Il problema si era già posto, negli stessi
termini, a luglio 2014, alla scadenza di una delle tante
proroghe concesse ai Comuni in ritardo sugli obblighi di
aggregazione degli acquisti. Allora l'impasse fu superata
con l'inserimento di una nuova proroga nel Dl 90/2014 e la
decisione di Cantone di sbloccare il rilascio dei codici di
gara (Cig) in anticipo sulla conversione del decreto. Uno
scenario che potrebbe replicarsi anche ora.
Ad aggravare la situazione e c'è il fatto che l'entrata in
vigore dal primo novembre porterebbe due mesi di caos totale
per i Comuni più piccoli. Con le regole in vigore, infatti,
quelli sotto i 10mila abitanti non possono bandire gare in
autonomia, neppure sotto la soglia di 40mila euro. Dal primo
gennaio, però, in base alla legge di Stabilità potranno
farlo. C'è da scommettere che in questi 60 giorni la
maggioranza dei sindaci tirerà i remi in barca, aspettando
il 2016 per ricominciare a gestire gli appalti in maniera
ordinata.
Per questo è allo studio un emendamento al Dl sulla finanza
locale (promosso dai Comuni, ma non ancora presentato), per
collegare l’entrata in vigore dei vincoli di aggregazione
alla partenza del nuovo Codice appalti. Una riforma che
peraltro continua a slittare in Parlamento.
L’esame della
delega al governo per riscrivere il sistema dei contratti
pubblici, calendarizzato per ieri, è stato rinviato alla
prossima settimana su richiesta del Governo. Motivazione
ufficiale: la necessità di riesaminare il testo varato dalla
Commissione Lavori pubblici guidata da Ermete Realacci per
blindarlo rispetto a ipotesi di ulteriori modifiche al
Senato. Ma forse pesa anche l’assenza del premier Matteo
Renzi , impegnato nel viaggio istituzionale in Sud America,
alla vigilia dell’approvazione di una riforma decisiva per
il settore
(articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2015). |
VARI: Prestito vitalizio ipotecario, pronto lo schema di offerta.
Accesso al credito. Parere favorevole del Consiglio di Stato
al regolamento.
Il prestito
vitalizio ipotecario è quasi pronto per il debutto, in
conseguenza del parere favorevole espresso dal Consiglio di
Stato (parere
16.10.2015 n. 2791)
sullo schema di regolamento attuativo, previsto
dall'articolo 1, legge 02.04.2015, numero 44 (che ha
sostituito il comma 12 dell'articolo 11-quaterdecies del
decreto legge 203/2005): la nuova norma ha rivisitato, un
istituto finora assai poco diffuso, finalizzato a consentire
l'accesso al credito al proprietario di età superiore a 60
anni di un immobile
In poche parole, si consente alla persona avanti con gli
anni di acquisire liquidità senza dover vendere la piena o
la nuda proprietà dell'immobile; e ciò mediante la stipula
di un mutuo a garanzia del quale viene iscritta un'ipoteca
sull'immobile di sua titolarità.
In caso di decesso del mutuatario, i suoi eredi hanno
l'alternativa di “recuperare” l'immobile libero da ipoteche,
corrispondendo alla banca quanto le è dovuto, oppure di
vendere il bene e soddisfare il credito della banca, in
tutto o in parte, con quanto ricavato dalla cessione;
infine, qualora entro dodici mesi dall'apertura della
successione il credito della banca non risulti soddisfatto,
la banca potrà vendere l'immobile in base al valore del bene
determinato in una perizia predisposta da un perito
indipendente (con la facoltà di trattenere la parte del
prezzo occorrente per soddisfare il suo credito e riversando
il resto agli eredi).
La nuova normativa dunque imponeva al ministro dello
Sviluppo economico (Mise) di emanare, entro tre mesi dalla
sua data di entrata in vigore (06.05.2015), una
disciplina regolamentare sentite l'associazione bancaria
italiana (Abi) e le associazioni dei consumatori: nel
regolamento il Mise avrebbe dovuto fissare le regole cui il
soggetto finanziatore si deve attenere nell'offerta al
pubblico e nella diffusione sul mercato del prestito
vitalizio ipotecario, nell'ottica di garantire trasparenza e
certezza in merito all'importo oggetto del finanziamento, ai
termini di pagamento, alla corresponsione degli interessi e
a ogni altro costo dovuto dal cliente.
Dallo schema di decreto si evince che, a tutela del soggetto
finanziato, il soggetto finanziatore dovrà sottoporre al
richiedente due prospetti informativi, esemplificativi del
piano di ammortamento, al fine di palesare il possibile
andamento del debito nel tempo; e pure dovrà produrre la
relativa documentazione precontrattuale e le informazioni
minime circa l'operazione. È disposto inoltre che il
soggetto finanziato potrà stipulare la polizza assicurativa
inerente l'immobile concesso in garanzia anche presso un
soggetto differente da quello finanziatore; e che egli avrà,
in ogni caso, il diritto di ricevere un resoconto della
propria posizione debitoria.
Viene anche previsto che, qualora il soggetto finanziato non
intenda addivenire alla stipula del prestito vitalizio
ipotecario, pur avendo egli attivato la fase
pre-contrattuale, sarà vietato all'istituto finanziatore di
esigere il pagamento delle spese sostenute dal finanziatore.
Il Consiglio di Stato, pur avendo espresso il proprio parere
favorevole allo schema di decreto di regolamento, ha
tuttavia invitato il Mise ad apportarvi taluni emendamenti
al fine di fornire maggiori tutela e informazione al
soggetto finanziato.
In particolare sono state richieste modifiche alle modalità
di revoca integrale del finanziamento qualora l'immobile
concesso in garanzia subisca procedimenti conservativi o
esecutivi di importo pari o superiore a una data percentuale
del valore del finanziamento o del valore dell'immobile
concesso in garanzia, nonché, agli effetti dell'eventuale
anticipata estinzione del finanziamento nei confronti degli
eredi (articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti elettrici più facili da smaltire.
Semplificato lo svolgimento delle attività di ritiro
gratuito da parte dei distributori di rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di
piccolissime dimensioni. Tale semplificazione si applica ai
distributori obbligati a effettuare il ritiro secondo il
criterio dell'uno contro zero, ma anche a quei distributori
che, pur non essendo obbligati a farlo (perché la loro
superficie di vendita è inferiore a 400 mq o perché
effettuano solo vendite a distanza) decidano spontaneamente
di adottare tale criterio di ritiro gratuito.
Il consiglio di stato con il
parere 06.10.2015 n. 2750 ha dato l'ok allo
schema di decreto ministeriale recante «Modalità
semplificate per lo svolgimento delle attività di ritiro
gratuito da parte dei distributori di rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di
piccolissime dimensioni, nonché requisiti tecnici per lo
svolgimento del deposito preliminare alla raccolta».
Viene ribadito, inoltre, che il ritiro secondo il criterio
dell'uno contro zero ha a oggetto soltanto Raee di
piccolissime dimensioni provenienti dai nuclei domestici,
conformemente a quanto previsto dall'articolo 11 del dlgs n.
49 del 2014.
L'art. 4 del dm prevede due principi
fondamentali in materia di ritiro secondo il criterio
dell'uno contro zero: la gratuità e l'informazione
all'utilizzatore finale. I distributori devono garantire il
rispetto di tali principi, e in particolare, con riferimento
al secondo, hanno l'obbligo di informare gli utilizzatori
finali della gratuità del ritiro, e promuovere campagne
informative al fine di incentivarlo.
Vengono definite le
procedure per il conferimento dei Raee di piccolissime
dimensioni da parte degli utilizzatori finali e disciplina i
requisiti tecnici per allestire il luogo di ritiro
all'interno dei locali del punto vendita del distributore o
in prossimità immediata di essi, determinandone in maniera
precisa le caratteristiche.
Si tratta di uno o più
contenitori che il distributore mette a disposizione
dell'utilizzatore finale, e che sono facilmente accessibili
e individuabili, riparati da agenti atmosferici, tali da
tutelare la salute e la sicurezza di colui che conferisce i Raee e impedire che soggetti terzi possano asportare quanto
conferito.
Conformemente a quanto previsto dall'articolo 11,
comma 3, dlgs n. 49 del 2014 (che aveva riguardo solo al
regime transitorio) si prevede una raccolta separata dei
Raee d'illuminazione e di quelli pericolosi dagli altri Raee
conferiti
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2015). |
CONDOMINIO: Le «varie ed eventuali» non ammettono delibere.
Prevale l’obbligo di preventiva informazione.
Assemblee. Vademecum sull’uso dello spazio aperto
nell’ordine del giorno.
A fine
assemblea, l’ultimo punto dell’ordine del giorno presenta
invariabilmente la dicitura “varie ed eventuali”. Ma cosa
può concretamente significare? E cosa si può decidere
davvero?
I giuristi che hanno indagato la formula sono concordi nel
ritenere che la voce in esame sia volta a individuare:
1)
comunicazioni rese dall’amministratore o dai condomini senza
l’impegno di spesa, salvo il caso di minimi esborsi;
2)
suggerimenti e raccomandazioni rivolte dai condomini alla
persona dell’amministratore;
3) richieste di chiarimenti
allo stesso amministratore al fine di ottenere indicazioni
operative in ordine a particolari condotte o prassi
applicative;
4) richieste di inserimento di una determinata
questione o argomento all’ordine del giorno di una prossima
assemblea;
5) relazioni di aggiornamento su questioni già
oggetto di precedente discussione all’esito di mandati
esplorativi o di attività di scrutinio e selezione di
preventivi di spesa;
6) argomenti di secondaria importanza e
di minimo rilievo pratico e comunque tali da non richiedere
una specifica menzione nell’ordine del giorno e di essere
oggetto di una deliberazione assembleare.
Ma quali criticità può sollevare l’eventuale inserimento di
questa voce, apparentemente innocente, nell’ordine del
giorno?
La questione principale è data dalle conseguenze che possono
determinarsi a fronte di una eventuale discussione e
deliberazione da parte dell’organo assembleare. Infatti, le
delibere assunte sotto la voce in esame, potendo violare
l’obbligo di preventiva informazione dei condomini convocati
in assemblea, si prestano a essere impugnate al fine di
farne accertare la loro invalidità.
Tale voce, infatti «non può tradursi in un contenitore
eterogeneo, da cui far scaturire argomenti a sorpresa per
gli ignari condomini» (così afferma il Tribunale di Roma,
sentenza del 19.06.2012, n. 12684). Ciò ha condotto parte
della dottrina e della giurisprudenza a orientarsi per una
tesi decisamente restrittiva, la quale ritiene che, pur
consentendo tale voce la discussione in sede assembleare di
qualsiasi argomento, ancorché lo stesso non figuri
espressamente nell’ordine del giorno, nessuna deliberazione,
a pena di annullabilità, può invece essere assunta all’esito
della discussione medesima.
Ne consegue che se, a seguito dell’informazione e della
relativa discussione sul punto, emerga la necessità di
adottare una decisione in merito a qualche argomento
ritenuto particolarmente rilevante e bisognoso di una più
approfondita valutazione, la delibera dovrà necessariamente
essere rimandata a una successiva riunione, nella quale sarà
inserito tale argomento nell’ordine del giorno con una voce
specifica.
La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha segnato i
limiti di impiego della formula di stile offrendo un
ventaglio di fattispecie concrete senza dubbio idonee a
orientare la condotta dell’amministratore e della stessa
assemblea dei condòmini.
In particolare, tra le deliberazioni assunte dall’assemblea
che risultano non idonee a essere inserite sotto la dizione
“varie ed eventuali” si segnalano:
1) l’esecuzione di lavori
di rifacimento della facciata dell’edificio condominiale,
precisandosi, al riguardo, che il relativo argomento debba
al contrario essere specificamente inserito nell’avviso di
convocazione dell’assemblea, in quanto attinente alla
materia dell’amministrazione straordinaria del bene comune;
2) la diffida assembleare alla rimozione di piante
posizionate sul balcone di un condomino;
3) la costituzione
di un fondo speciale finalizzato a fronteggiare spese
condominiali urgenti;
4) il pagamento del compenso a un
professionista il quale abbia prestato la propria opera a
vantaggio del condominio, laddove tale spesa non sia
contemplata nell’ordine del giorno e ove non sia raggiunta
la prova circa il conferimento dell’incarico stesso;
5) la
decisione di abbattimento di un albero proposta dal
condomino quale utilizzatore esclusivo di un giardinetto
condominiale;
6) la decisione di stipulare un contratto di
assicurazione contro gli incendi;
7) l’autorizzazione
concessa a un condomino per la realizzazione di una
pensilina;
8) la decisione di diniego all’installazione da
parte di un condomino di una canna fumaria sul muro
perimetrale dello stabile condominiale (articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Libertà di parabola, limiti all’installazione.
Tlc. Sul tetto solo se non c’è spazio nei locali privati.
L’installazione
di una parabola o antenna sul terrazzo condominiale può
essere effettuata dal condòmino non arbitrariamente, ma
tenendo conto del libero uso della proprietà comune da parte
degli altri condòmini, nel rispetto del decoro
architettonico e se non c’è la possibilità di utilizzare
spazi propri.
L’applicazione di tali regole, fissate
dall’articolo 1122-bis del Codice civile, sono state
ribadite dal TRIBUNALE di Roma con la sentenza n. 9279/2015.
A fronteggiarsi sono un condominio e una società conduttrice
di un ampio locale commerciale all’interno del fabbricato.
La società chiede all’amministratore una copia delle chiavi
di accesso al terrazzo condominiale, per poter installare
un’antenna parabolica per la ricezione del segnale
satellitare, utile per lo svolgimento della propria attività
lavorativa, comprendente gestione di attività di front e
back office, recapito corrispondenza e sorveglianza non
armata. L’amministratore si rifiuta di consegnare le chiavi,
negando il diritto all’uso del bene comune.
La disputa, dopo l’esito negativo della procedura di
mediazione, arriva in Tribunale dove la società ribadisce il
suo diritto all’installazione della parabola, che le avrebbe
fatto risparmiare anche 84 euro al mese rispetto
all’abbonamento Adsl che aveva in essere. Il condominio, dal
canto suo, sostiene che il diritto vantato dalla società non
sia assoluto, ma che deve invece «considerarsi subordinato
alla condizione della impossibilità di utilizzare spazi
propri»: condizione che nel caso non sussisteva, potendo la
società «installare l’antenna sulle mura del fabbricato da
essa condotto in locazione».
Il Tribunale ha rigettato la richiesta della società, alla
luce del costante indirizzo giurisprudenziale che riconosce
l’esistenza del diritto a installare parabole e antenne sul
terrazzo condominiale, prevedendo però alcuni limiti:
l’impianto non deve impedire il libero uso della proprietà
comune da parte degli altri condomini; non deve recar danno
alla proprietà comune, specie sotto il profilo del decoro
architettonico; e deve risultare l’impossibilità per il
condomino di utilizzare spazi propri.
E in riferimento a
tale ultimo limite, la non adeguatezza degli spazi propri
deve essere provata. Nel caso di specie, la società non solo
non ha fornito la prova della impossibilità di installare
l’impianto sull’immobile da essa condotto in locazione, ma
la parabola, come affermato dalla Ctu, avrebbe potuto
effettivamente essere installata sulla porzione di
fabbricato della stessa società (articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ingegneri, niente albo se lavorano per la p.a..
Non è automatico il diritto al rimborso della tassa di
iscrizione all'albo per gli ingegneri dipendenti per cui è
previsto il solo obbligo di abilitazione professionale. Gli
ingegneri dipendenti pubblici e appartenenti agli uffici
tecnici delle stazioni appaltanti possono espletare attività
di progettazione per conto della p.a. con il requisito della
(mera) abilitazione, senza necessità di iscrizione all'albo.
Perciò in questo caso, a differenza degli avvocati, non si
può affermare che l'iscrizione all'albo è presupposto
indispensabile per svolgere l'attività a favore dell'ente di
appartenenza.
Questa è quanto si legge nella
circolare 21.10.2015 n. 615 del Consiglio
nazionale ingegneri in merito alla sentenza n. 7776 del 2015
con cui la Corte di cassazione (in una vertenza tra l'Inps
ed un avvocato dipendente pubblico) ha stabilito che il
rimborso della tassa annuale di iscrizione all'albo degli
avvocati dovesse essere corrisposto dall'ente pubblico
datore di lavoro.
Ne deriva che viene meno la condizione per
esigere il rimborso della quota di iscrizione eventualmente
pagata dall'interessato. Inoltre, a parere del Consiglio
nazionale degli ingegneri, «qualora la normativa preveda
l'obbligatorietà dell'iscrizione all'albo per il dipendente
ingegnere, il pagamento della relativa tassa annuale di
iscrizione (facendo applicazione dei principi fissati dalla
giurisprudenza del Consiglio di stato e della Corte di
cassazione) sarà a carico dell'ente datore di lavoro e, se
il versamento è stato anticipato dal dipendente, deve
essergli rimborsato».
Concludendo il Consiglio nazionale
sottolinea «il carattere eccezionale della previsione
dettata dalla normativa sugli appalti pubblici, ovvero la
sussistenza di una disposizione espressa che richiede la
sola abilitazione per svolgere attività professionale. Tale
disposizione va intesa come eccezione alla regola generale
della necessaria iscrizione all'albo e non può quindi
trovare applicazione al di fuori dei casi legislativamente
previsti (articolo 90, dlgs n. 163/2006, e articolo 9, dpr
n. 207/2010), nemmeno per effetto di una interpretazione
estensiva o analogica»
(articolo ItaliaOggi del
27.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Lunga vita alle detrazioni casa.
Agevolazioni de 65 e 50% prorogate per il 2016.
LEGGE DI STABILITÀ/Incentivi per ristrutturazioni e
riqualificazioni energetiche.
Ecobonus, ristrutturazioni edilizie e bonus mobili
confermati anche per l'anno prossimo. In base a quanto
previsto dalla legge di Stabilità 2016, la proroga delle
detrazioni fiscali del 65% per il risparmio energetico e del
50% per le ristrutturazioni abitative semplici si allunga
così di un anno. Mantenuta in vita per un altro anno anche
la detrazione del 65% per gli interventi relativi
all'adozione di misure antisismiche su costruzioni che si
trovano in zone ad alta pericolosità, se adibite ad
abitazione principale o ad attività produttive.
Tra le novità del testo della manovra, il bonus mobili
allargato alle coppie under 35 e l'ecobonus esteso agli
immobili ex Iacp.
Detrazioni fiscale ristrutturazione. La proroga al 2016
riguarda la detrazione del 50% per gli interventi edilizi.
Confermato anche il limite massimo di spesa di 96 mila euro
per unità immobiliare.
Danno diritto alla detrazione gli interventi di:
- manutenzione ordinaria, effettuati sulle parti comuni di
edificio residenziale;
- manutenzione straordinaria effettuati sulle parti comuni
di edificio residenziale e su singole unità immobiliari
residenziali;
- restauro e di risanamento conservativo, effettuati sulle
parti comuni di edificio residenziale e su singole unità
immobiliari residenziali;
- ristrutturazione edilizia, effettuati sulle parti comuni
di edificio residenziale e su singole unità immobiliari
residenziali;
- ricostruzione o ripristino dell'immobile danneggiato a
seguito di eventi calamitosi, anche se non rientranti nelle
categorie elencati nei punti precedenti, sempreché sia stato
dichiarato lo stato di emergenza;
- restauro, risanamento conservativo, e ristrutturazione
edilizia, riguardanti interi fabbricati, eseguiti da imprese
di costruzione o ristrutturazione immobiliare e da
cooperative edilizie, che provvedano entro 18 mesi dal
termine dei lavori alla successiva alienazione o
assegnazione dell'immobile.
Nel bonus ristrutturazioni rientrano non solo gli interventi
effettuati sulle unità immobiliari di tipo abitativo, ma
eventualmente anche quelli riguardanti le relative
pertinenze. In particolare, si ha diritto alla detrazione
per la realizzazione o l'acquisto di autorimesse e posti
auto pertinenziali, pure se a proprietà comune.
Detrazione per riqualificazione energetica. Anche per gli
interventi di riqualificazione energetica degli edifici è
stata prorogata fino al 31.12.2016 la misura
maggiorata al 65%. A usufruire del bonus sono tutti i
contribuenti, anche i titolari di reddito d'impresa,
possessori dell'immobile. Per il 2016, la legge di Stabilità
ha esteso gli incentivi agli immobili ex Iacp (istituti
autonomi case popolari).
Sono ammesse alla detrazione del 65% le spese sostenute su
edifici di qualsiasi categoria catastale per:
- interventi di riqualificazione energetica di interi
edifici per l'abbattimento dell'indice di prestazione
energetica per la climatizzazione invernale (detrazione
massima 100 mila euro);
- interventi sugli involucri di edifici per la riduzione
della trasmittanza termica delle pareti opache orizzontali o
verticali, compresa la sostituzione di vetri e/o infissi
(detrazione massima 60 mila euro);
- installazione di pannelli solari per la produzione di
acqua calda (detrazione massima 60 mila euro);
- sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale
(detrazione massima 30 mila euro);
- acquisto e posa in opera di schermature solari con le
caratteristiche previste dall'allegato M al dlgs 311/2006:
tende esterne da sole con marchiatura obbligatoria Ce e
certificate UNI EN 13561; chiusure oscuranti con marchiatura
obbligatoria CE e certificate UNI EN 13659; i dispositivi di
protezione solare, anche in combinazione con vetrate, di cui
alle norme armonizzate europee UNI EN 14501, 13363.01,
13363.02 (detrazione massima 60 mila euro);
- acquisto e posa in opera di impianti di climatizzazione
invernale con impianti dotati di generatori di calore
alimentati da biomasse (detrazione massima 30 mila euro).
Si può usufruire dell'ecobonus sia per gli interventi di
riqualificazione dei singoli appartamenti che delle parti
comuni dei condomini. La detrazione non è cumulabile a
quella per il bonus ristrutturazioni.
Bonus lavori adeguamento antisismico. È stata ugualmente
confermata a tutto il 2016 la detrazione del 65% per lavori
di adeguamento antisismico per la messa in sicurezza degli
edifici esistenti.
La detrazione deve essere calcolata su un
importo massimo di 96 mila euro per unità immobiliare (da
ripartire in dieci quote annuali di pari importo) e
beneficiari sono i soggetti passivi Irpef e Ires (quindi sia
persone fisiche che imprese) a condizione che le spese siano
rimaste a loro carico e che possiedano o detengano
l'immobile in base a un titolo idoneo (diritto di proprietà
o altro diritto reale, contratto di locazione, o altro
diritto personale di godimento).
Il bonus antisismico può
essere richiesto se l'intervento è effettuato su costruzioni
adibite ad abitazione principale o anche ad attività
produttive (unità immobiliari in cui si svolgono attività
agricole, professionali, produttive di beni e servizi,
commerciali o non commerciali) e sempre l'immobile si trova
in zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2), i cui
criteri di identificazione sono stati fissati con
l'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n.
3274 del 20.03.2003
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Raee, semplificazioni allargate.
Corsia preferenziale per imprese già abilitate al trasporto.
Dall'Albo gestori i criteri per estendere l'attività al
ritiro alleggerito dei tecno-rifiuti.
Accesso agevolato per le imprese già autorizzate dall'Albo
gestori ambientali a raccolta e trasporto professionale di
rifiuti alle analoghe attività di gestione semplificata dei
Raee provenienti da circuiti di vendita e riparazione delle
apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. Aee).
La
novità arriva con la
deliberazione 16.09.2015 n. 2
di prot.
del Comitato nazionale dell'Albo (integrata con
deliberazione 15.10.2015 n. 3 di prot.) che detta i criteri
operativi per estendere, tramite richiesta alla Sezione
regionale o provinciale di competenza, le proprie
autorizzazioni ex categoria 4 (raccolta e trasporto di
rifiuti speciali non pericolosi) e 5 (speciali pericolosi)
del dm 120/2014 a quella ex 3-bis (Raee ritirati da
distributori di nuove Aee, installatori, e centri di
assistenza), la quale consente una tenuta semplificata dei
documenti di tracciamento dei rifiuti.
Le novità dall'Albo gestori ambientali. Alla base della
nuova deliberazione del Comitato nazionale dell'Albo due
disposizioni, ossia: l'articolo 212, comma 7, del dlgs
152/2006 per il quale enti e imprese già autorizzate a
raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi sono esonerate
(a condizione di immutata classe di appartenenza)
dall'obbligo di iscrizione per le analoghe attività sui non
pericolosi; l'articolo 8, comma 2, del dm Ambiente 120/2014
(il nuovo regolamento dell'Albo), per il quale le iscrizioni
nelle citate categorie 4 e 5 consentono (sempre a immutate
condizioni) sia l'esercizio delle attività di cui alla
categoria 2-bis (auto-trasporto dei propri rifiuti) sia
quelle ex 3-bis.
A chiarimento della prima disposizione e in
attuazione della seconda intervengono le nuove regole
dell'Albo. Due le novità di rilevo: l'iscrizione alla
categoria 4 (rifiuti non pericolosi) che consente, tra le
altre (previa compatibilità tecnica e richiesta di
estensione alla 2-bis), il trasporto anche dei rifiuti
pericolosi di propria produzione iniziale in quantità non
eccedenti 30 chilogrammi o 30 litri al giorno (ex art. 212,
comma 8, dlgs 152/2006); l'iscrizione a una delle due
categorie 4 e 5 che consente (previa richiesta di estensione
alla categoria 3-bis) anche il trasporto in regime
semplificato dei Raee (pericolosi e non pericolosi) ritirati
dal circuito Aee nel rispetto delle regole (e dei limiti)
stabiliti dal dm 65/2010.
L'allargamento dell'autorizzazione
alla gestione semplificata Raee, precisa la nuova delibera
dell'Albo, è consentita nei seguenti termini: le imprese
abilitate al trasporto rifiuti per conto terzi possono
svolgere le analoghe attività in nome e per conto dei
distributori di Aee; le imprese munite di soli veicoli per
uso proprio possono invece essere abilitate al trasporto
semplificato dei Raee di cui esse stesse risultino essere
detentrici in quanto distributori, installatori o gestori di
centri di assistenza Aee.
Alle imprese già iscritte nelle
citate categorie 4 e 5 in linea con i parametri richiesti
dall'Albo è consentito fin da subito richiedere
l'allargamento (sia alla 2-bis che alla 3-bis) utilizzando
il modello «b» allegato alla nuova delibera.
Il regime semplificato per i Raee. Il dm 65/2010 richiamato
dalla delibera 2/2015 prevede (in attuazione del dlgs
151/2005) per distributori, installatori, gestori di centri
di assistenza Aee (e trasportatori terzi dei rifiuti, di cui
i primi eventualmente si avvalgono) di utilizzare, nel
rispetto di determinate condizioni tecniche, un regime
burocratico light per condurre le (rispettive) attività di
raccolta e trasporto Raee (sia domestici che professionali)
di cui hanno la detenzione in ragione della propria
attività.
Regime che consiste in: iscrizione semplificata
all'Albo gestori (tramite mera comunicazione e senza obbligo
di presentare garanzie finanziarie); tenuta di uno
«schedario di carico e scarico» e di un «documento di
trasporto» (in luogo dei più onerosi registri e formulario
ex dlgs 152/2006). Successivamente al dm 65/2010, è bene
ricordarlo, è intervenuto il dlgs 49/2014 di riformulazione
della speciale disciplina sulla gestione dei Raee.
Nel
sostituire pressoché integralmente il dlgs 151/2005, il dlgs
49/2014 ha da un lato confermato alcune disposizioni
dell'uscente regime (come l'obbligo per i distributori di
ritiro gratuito «uno contro uno» delle Aee conferite dai
consumatori all'acquisto di equivalenti beni e la
possibilità di gestione semplificata ex dm 65/2010) e
dall'altro introdotto rilevanti novità che incidono sugli
adempimenti cui sono chiamati gli stessi operatori del
settore.
In base al riformulato quadro normativo, sono
infatti inquadrati come «distributori» (con i sottesi e
citati obblighi): tutti coloro che rendono disponibili sul
mercato e per qualsiasi uso delle Aee (dunque, anche gli
installatori e gestori di centri di assistenza che
nell'ambito della propria attività forniscono tali beni, per
esempio come ricambi); tutti i soggetti che forniscono Aee
utilizzando tecniche di vendita a distanza tramite internet
(c.d. «e-commerce»).
Appare da ultimo utile ricordare come i
distributori di Aee che importano o immettono comunque
dall'estero nuovi beni sul mercato nazionale rientrano, ai
sensi del citato dlgs 49/2014, nella più gravosa categoria
di «produttori», con i conseguenti e più ampi oneri
(previsti dallo stesso provvedimento) di istituzione e
finanziamento del sistema di gestione dei relativi Raee.
Alla luce di tale rinnovato orizzonte, i criteri dell'Albo
che consentono di allargare la portata dei titoli
autorizzativi alle attività di gestione semplificata dei Raee appaiono dunque essere di rilevante interesse sia per
le imprese di trasporto rifiuti sia per gli stessi
distributori di nuove Aee, laddove per i primi potrebbero
prospettarsi nuovi mercati, per i secondi un incremento (con
i benefici economici dati dalla concorrenza) del novero di
aziende cui rivolgersi per la gestione dei Raee.
Ritiro Raee nell'e-commerce. In relazione ai distributori di Aee, alcune criticità sono tuttavia state rilevate in
relazione agli operatori del settore «e-commerce», come
risulta da un'indagine presentata lo scorso 14.10.2015
da Remedia (fra i principali sistemi collettivi italiani non
profit per la gestione ecosostenibile anche dei
tecno-rifiuti) e Netcomm (il consorzio del commercio
elettronico italiano).
Oltre a evidenziare una carenza sotto
il profilo dell'obbligo di informativa all'utenza del
sistema di ritiro «one on one» (si veda ItaliaOggi Sette del
19/10/2015), lo studio mette in luce alcuni nodi della
filiera (rappresentante il 13% del mercato online nazionale
di Aee) proprio nel ritiro e trasporto dei Raee. Per
adempiere agli obblighi del «one on one» i distributori
online di Aee possono ricorrere sia a un sistema
auto-organizzato (c.d. «make», gestendo a tutto tondo
ritiro, raggruppamento e successivo trasporto dei Raee a
centri di trattamento), sia affidarsi (totalmente o
parzialmente) a soggetti esterni.
In tale contesto, le prime
problematiche riguardano le modalità di ritiro dei Raee
presso l'utenza, laddove nell'opzione di consegna a
domicilio delle nuove Aee occorre necessariamente prevedere
la presa in carico di quelle usate da parte trasportatori
autorizzati nei termini più sopra citati (condizione che
spesso può rendere necessario l'intervento successivo e
differito di un soggetto diverso dall'ordinario corriere che
ha effettuato la consegna del nuovo bene).
Criticità possono
altresì presentare le differenti modalità di consegna del
nuovo e ritiro del vecchio presso luoghi presidiati, come
uffici postali e negozi convenzionati, in vista del
successivo e necessario trasporto (autorizzato) verso gli
impianti di trattamento; in tale ambito le soluzioni
preferibili appaino essere quelle di ricorrere a punti «pick
and pay» gestiti direttamente dagli stessi distributori (in
regola con i sottesi e citati adempimenti) o ricorrere alla
convenzione con supermercati, nella maggior parte dei casi
già forniti di un proprio sistema di prima gestione Raee
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo soltanto con l'inerenza.
Deliberazioni di riduzione o di esenzione di tributi
«inerenti il tipo di attività posta in essere». In cambio di
lavori fatti in tali ambiti di attività.
Con
nota di approfondimento del 16.10.2015 (si veda ItaliaOggi del 20 ottobre scorso), l'Ifel fornisce
chiarimenti per il corretto inquadramento del baratto
amministrativo e per la sua applicazione ai tributi locali.
Beneficiari del baratto amministrativo potranno essere
individuati in cittadini singoli o associati. Si
privilegeranno le «Comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute».
L'Istituto per la finanza e l'economia locale ritiene che la
riduzione o l'esenzione potrà essere concessa con riguardo
alle obbligazioni tributarie di cui è soggetto passivo
l'associazione stessa. Altro aspetto delicato afferisce il
perimetro d'intervento.
A parere dell'Ifel, l'intervento dei
cittadini dovrà riguardare un territorio da qualificare ed
essere alternativo e sostitutivo rispetto a quello del
comune. A fronte dell'intervento dei cittadini, il comune
potrà disporre deliberazioni di riduzione o esenzione di
tributi «inerenti al tipo di attività posta in essere».
La
ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera
di agevolazione al tributo di riferimento anche se in
apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività
posta in essere. Il concetto di «inerenza» del tributo per
cui si prevede l'agevolazione all'attività svolta dai
cittadini (singoli o associati), dovrà essere valutato in
sede di predisposizione della delibera di agevolazione ed
ispirato a criteri di ragionevolezza e corrispondenza tra
beneficio reso ed agevolazione concessa.
L'Ifel ritiene
opportuno basare la quantificazione economica
dell'agevolazione secondo politiche ispirate a
responsabilità e ragionevolezza del trattamento agevolativo,
specificando che il riconoscimento dell'agevolazione non
deve essere solo «legittimo» ma anche «controllabile».
Da
ultimo, l'Istituto tiene a precisare che non appare coerente
con la ratio della norma la possibilità di prevedere
riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali
debiti tributari del contribuente. La ragione è da ritrovare
nei principi di indisponibilità ed irrinunciabilità al
credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate
tributarie comunali
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
VARI:
Box occupato, l'invalido sosta gratis.
Il titolare del contrassegno invalidi che trova il box
riservato occupato può parcheggiare nelle zone a pagamento
gratuitamente. Purché l'ente locale abbia deciso di
ammettere questa facoltà dandone informazione agli utenti.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
04.09.2015 n.
4341 di prot..
Il riformulato articolo 381 del
regolamento stradale specifica che il comune ora può
potenziare il numero dei parcheggi riservati agli invalidi
anche nelle zone a pagamento. Ma l'ente locale può anche
prevedere la sosta gratuita agli invalidi sulle strisce blu
quando i box riservati ai titolari dei contrassegni
risultino già occupati o indisponibili.
A parere della
Cassazione però senza il nulla osta del comune non è
automatico poter parcheggiare gratuitamente i veicoli muniti
di contrassegno invalidi nelle zone a pagamento.
Specifica
infatti il parere centrale che con la sentenza n. 21271 del
05.10.2009 la II sezione civile della Corte di cassazione ha
bocciato il via libera generico alla gratuità della sosta
degli invalidi in zone blu, confermando le recenti
indicazioni normative che richiedono una determinazione
comunale in tal senso
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
GIURISPRUDENZA |
SICUREZZA LAVORO:
Infortuni. Il concorso di colpa non scagiona
l’impresa.
L’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio
che sia conseguenza dell’inosservanza delle norme
infortunistiche. La violazione dell’obbligo di sicurezza
integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando
il concorso di colpa del lavoratore, atteso che il datore di
lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua
imprudenza e negligenza.
È tale la massima a cui si attiene la Corte di Cassazione
-Sez. lavoro- con la
sentenza 03.11.2015 n. 22413 riguardante
l’infortunio mortale causato ad un lavoratore che, pur
operando su una scarpata, non aveva fatto uso della fune di
trattenuta contro la caduta dall’alto.
Nel dispositivo la Suprema corte la quale ha ribadito il
principio secondo cui in materia di tutela dell’integrità
fisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di
violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato
da responsabilità solo quando la condotta del dipendente
abbia assunto i caratteri di abnormità, imprevedibilità ed
esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle
direttive ricevute.
Pertanto, l’omissione di cautele da parte del lavoratore non
è di per sé idonea ad escludere il nesso causale rispetto
alla condotta del datore di lavoro che non abbia provveduto
all’adozione di tutte le misure di prevenzione o non abbia
adeguatamente vigilato, anche tramite i suoi preposti, sul
rispetto della loro osservanza, non essendo né
imprevedibile, né anomala una dimenticanza del lavoratore
nell'adozione di tutte le cautele necessarie (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015).
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MASSIMA
Osserva la Corte che è opportuno esaminare con priorità
logico-giuridica l'ultimo motivo del ricorso, col quale si
contesta la decisione sulla ritenuta insussistenza di una
responsabilità ex art. 2087 cod. civ. della datrice di
lavoro, atteso che la verifica della correttezza della
motivazione che ha escluso la ricorrenza del nesso
eziologico tra l'evento occorso al lavoratore e la condotta
della parte datoriale si rivela dirimente.
A tal riguardo la Corte territoriale ha dato rilievo alla
indiscutibile preponderanza causale dell'omissione colpevole
del lavoratore deceduto, costituita dal fatto di non avere
il medesimo utilizzato la fune di trattenuta, disponibile
alla sommità della scarpata, assicurata ad un idoneo
ancoraggio. La stessa Corte è pervenuta al convincimento che
l'univocità di tale fatto comportava che il responso tecnico
e le dichiarazioni testimoniali assumevano mero significato
di riscontro e, per tale motivo, apparivano scarsamente
pertinenti le doglianze difensive in ordine alle dotazioni
tecniche ed alle modalità alternative di esecuzione
dell'opera.
Infine, secondo la Corte di merito, l'obbligo incombente sul
datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. di vigilare
sull'osservanza, da parte dei lavoratori, delle misure di
sicurezza non si estendeva fino al punto di comprendere
l'obbligo di impedire comportamenti anomali ed imprevedibili
posti in essere in violazione delle norme di sicurezza, come
quello posto in essere da Zi.Gi..
Rileva la Corte che tale ragionamento dei giudici di secondo
grado non è condivisibile per le seguenti ragioni: si è già
statuito (Cass. Sez. Lav. n. 27127 del 4/12/2013) che "in
materia di tutela dell'integrità fisica del lavoratore, il
datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina
antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto
quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri
dell'abnormità, dell'imprevedibilità e dell'esorbitanza
rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive
ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano detti
caratteri della condotta del lavoratore, l'imprenditore è
integralmente responsabile dell'infortunio che sia
conseguenza dell'inosservanza delle norme
antinfortunistiche, poiché la violazione dell'obbligo di
sicurezza integra l'unico fattore causale dell'evento, non
rilevando in alcun grado il concorso di colpa del
lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a
proteggerne l'incolumità nonostante la sua imprudenza e
negligenza."
Pertanto, l'omissione di cautele da parte
dei lavoratori, come quella ravvisata nella fattispecie dai
giudici di merito, non è idonea di per sé ad escludere il
nesso causale rispetto alla condotta colposa del datore di
lavoro che non abbia provveduto, pur avendone la
possibilità, all'adozione di tutte le misure di prevenzione
rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del
lavoro o non abbia adeguatamente vigilato, anche tramite
suoi preposti, sul rispetto della loro osservanza, non
essendo né imprevedibile né anomala una dimenticanza dei
lavoratori nell'adozione di tutte le cautele necessarie, con
conseguente esclusione, in tale ipotesi, del cd. rischio
elettivo, idoneo ad interrompere il nesso causale ma
ravvisabile solo quando l'attività non sia in rapporto con
lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di
esso (in tal senso
v. anche Cass. Sez. 3, n. 21694 del 20/10/2011).
Infatti, si è affermato (Cass. Sez. Lav. n. 19494 del
10/9/2009) che le norme dettate in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire
l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a
tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti
dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad
imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la
conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile
dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di
adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti
e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso
da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun
effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso
di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare,
invece, l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni
responsabilità solo quando presenti i caratteri
dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza,
necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico"
ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa
esclusiva dell'evento
(in senso conf. v. Cass. Sez. Lav. n. 22818 del 28/10/2009 e
Cass. Sez. Lav. n. 4656 del 25/02/2011).
In definitiva, si può affermare che nella fattispecie la
mancata adozione, da parte del lavoratore, della specifica
misura di sicurezza rappresentata dall'ancoraggio alla fune
di sostegno non rappresentava affatto un evento
imprevedibile atto a scagionare l'imprenditore dal dovere di
vigilanza finalizzato al rispetto delle misure di
prevenzione e, pertanto, quest'ultimo avrebbe dovuto offrire
la prova di aver preteso il rispetto di tale fondamentale
accorgimento, per cui il comportamento semplicemente
omissivo del lavoratore non spezzava il nesso eziologico tra
l'evento occorsogli e l'omissione della datrice di lavoro. |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Il tempo
non rilevante salva dall’uso personale della mail.
Cassazione/2. Esclusa la gravità del comportamento del
dipendente.
È illegittimo il licenziamento di un dipendente
accusato di utilizzo personale della casella di posta
elettronica e della navigazione in internet se non ha
sottratto al lavoro una quantità di tempo rilevante.
Lo ha deciso la
Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con la
sentenza 02.11.2015 n. 22353.
La decisione ha confermato i giudizi espressi in precedenza
prima dal Tribunale di Lanciano e poi dalla Corte d’appello
dell’Aquila. La Cassazione ha sostanzialmente ribadito
quanto emerso nel giudizio di secondo grado e cioè che oltre
a non aver comportato sottrazione di tempo significativa
all’attività lavorativa l’uso personale della posta
elettronica e di internet, con la sua condotta il lavoratore
in questione non aveva realizzato un «blocco del lavoro,
con un conseguente grave danno per l’attività produttiva».
La Corte d’appello aveva però anche rigettato il
risarcimento del danno proposto dal lavoratore che si era
appellato a un «preteso danno alla professionalità, alla
vita di relazione e alla natura ingiuriosa del licenziamento».
La Corte riconosceva semplicemente a titolo di indennità
risarcitoria, si legge nella sentenza, «la retribuzione
globale di fatto maturata dall’illegittimo licenziamento
fino all’esercizio dell’opzione, detratte le somme percepite
in altra occupazione, oltre all’indennità forfettaria di 15
mensilità, con rivalutazione e interessi».
La Cassazione ha confermato tali orientamenti. La sentenza,
infatti, ha definito prive di fondatezza le motivazioni
presentate dall’azienda a difesa della sua decisione di
allontanare il dipendente e in opposizione alla sentenza di
secondo grado. Tra queste la contestazione che la Corte
d’appello avesse ignorato nel suo giudizio, «la lettera
di contestazione di addebito, che richiamava altresì
l’elusione delle informative e dei molteplici preavvisi
effettuati dall’azienda datrice di lavoro», quali in
particolare, una circolare e diverse e-mail con le quali
l’azienda richiamava «i dipendenti ad un uso più attento
della strumentazione aziendale».
Secondo i ricorrenti «la condotta avrebbe quindi
integrato anche la violazione del dovere di obbedienza
previsto dall’articolo 2104 del Codice civile».
L’azienda aveva anche contestato l’installazione sul
personal computer di programmi coperti da copyright e di
software non forniti dall’azienda che «non comportavano
solo un utilizzo improprio dello strumento aziendale, ma un
utilizzo illegittimo, perché attuato in violazione
dell’articolo 64 della Legge n. 633 del 1941, con il rischio
di responsabilità quantomeno civile del datore di lavoro».
Inoltre, la reiterazione della condotta avrebbe reso «l'ipotesi
contestata quantomeno aggravata rispetto all’infrazione
disciplinare descritta dal contratto collettivo».
Respinta la fondatezza di tali argomentazioni la Corte di
cassazione ha esaminato le risultanze della Ctu,
argomentando che l'utilizzo personale della posta
elettronica e la navigazione in Internet erano, «in
entrambi i casi di difficile quantificazione temporale».
La Ctu aveva confermato la presenza di file di natura
multimediale non legati all’attività lavorativa e
l’istallazione di alcuni programmi coperti da copyright, di
cui non era stata accertata, però, l’utilizzazione oltre il
periodo concesso come dimostrativo. La Cassazione ha quindi
escluso a questo proposito la particolare gravità del
comportamento addebitato sotto il profilo della sussistenza
della giusta causa (articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nell'adozione
degli
atti di macro organizzazione dell'ente, la controversia
circa la mancata riconferma di Responsabile del Servizio
(incarico direttivo) spetta alla giurisdizione del giudice
ordinario.
La indicazione/nomina di persona per
l'incarico direttivo costituisce attività gestionale di
diritto privato del datore di lavoro a fronte della quale il
ricorrente è titolare di una posizione di diritto soggettivo
azionabile davanti al giudice ordinario il quale, ancorché
vengano in questione atti amministrativi presupposti, può
sempre disapplicarli.
Nell'impiego pubblico il conferimento di posizioni
organizzative esula dall'ambito delle procedure concorsuali
di cui all'art. 63, comma 4, d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in
quanto la posizione organizzativa non determina un mutamento
di profilo professionale, che rimane invariato, né un
mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di
funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico,
trattandosi di una funzione ad tempus la cui definizione
-nell'ambito della classificazione del personale di ciascun
comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione
collettiva, con conseguente devoluzione delle relative
controversie alla giurisdizione del giudice ordinario.
---------------
- Visto il ricorso con il quale il ricorrente impugna gli
atti di macro organizzazione posti in essere dal Commissario
dell’Enea nella parte in cui hanno accorpato i servizi del
Centro di Frascati Gare, Contratti e Approvvigionamento e
Amministrazione, precedentemente retti da due diversi
Responsabili, tra cui il ricorrente, e nominato Responsabile
del Servizio Amministrazione, il sig. Pi., così rimuovendo
il ricorrente dall’incarico direttivo;
- Vista l’eccezione di difetto di giurisdizione articolata
dalla difesa erariale;
- Vista la disposizione Commissariale n. 317/2015 del
25.06.2015 con la quale vengono nominati i responsabili
delle strutture organizzative ed atteso che la pretesa
azionata dal ricorrente attiene alla mancata individuazione
della propria persona per l’incarico direttivo (posizione
organizzativa);
- Considerato che tale indicazione/nomina costituisce
attività gestionale di diritto privato del datore di lavoro
a fronte della quale il ricorrente è titolare di una
posizione di diritto soggettivo azionabile davanti al
giudice ordinario il quale, ancorché vengano in questione
atti amministrativi presupposti, può sempre disapplicarli (ex
multis Cassazione civile sez. un. 27/12/2011, n. 28806,
ma vedi anche Tar Lazio III-ter 1171/2013);
- Atteso infatti, che “nell'impiego pubblico il
conferimento di posizioni organizzative esula dall'ambito
delle procedure concorsuali di cui all'art. 63, comma 4,
d.lgs. 30.03.2001 n. 165 in quanto la posizione
organizzativa non determina un mutamento di profilo
professionale, che rimane invariato, né un mutamento di
area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le
quali cessano al cessare dell'incarico”, trattandosi di
una funzione ad tempus la cui definizione -nell'ambito
della classificazione del personale di ciascun comparto- è
demandata dalla legge alla contrattazione collettiva, con
conseguente devoluzione delle relative controversie alla
giurisdizione del giudice ordinario (così TAR Pescara
(Abruzzo) sez. I , 28/05/2015, n. 229);
- Considerato, infine, che il ricorrente non risulta leso
dall’atto di macro organizzazione in se considerato, laddove
ha accorpato due distinti servizi ponendo come responsabile
degli stessi il controinteressato, quanto piuttosto dalla
mancata conferma della posizione organizzativa di
Responsabile in capo al medesimo, ovvero dall’atto di
micro organizzazione con il quale è stata effettuata la
scelta del Responsabile del Servizio;
- Ritenuta, pertanto, la giurisdizione del giudice ordinario
presso il quale il ricorso potrà essere riassunto
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter,
sentenza 02.11.2015 n. 12302 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Il
sindaco non può riallacciare l’acqua all’utente moroso. Tar
Latina. Cinque sentenze analoghe.
I sindaci non possono ordinare a chi gestisce il
servizio idrico il ripristino immediato della fornitura di
acqua a chi non paga la bolletta poiché il Comune è estraneo
al rapporto contrattuale utente-gestore.
L’ha ribadito il TAR
Lazio-Latina, Sez. I, in cinque sentenze analoghe depositate
il 2 novembre (sentenza
02.11.2015 n. 711), accogliendo le tesi di Acea
SpA, gestore del servizio idrico integrato dell’Ato 5 Lazio
Meridionale-Frosinone, contro le ordinanze emesse dai
sindaci di Torrice, Cassino e Alatri -tre degli 85 Comuni
serviti- a difesa di alcuni cittadini-utenti con rubinetti
chiusi per gravi morosità (da 3mila fino a 20mila euro).
Secondo Acea, gli atti violavano le norme sulle «competenze
del sindaco e del presidente della provincia» fissate
dal Testo unico degli enti locali (comma 5, articolo 50,
Dlgs n. 267/2000) poiché non esistevano o non indicavano
pericoli per l’igiene e la salute pubblica, tutelavano «esclusivamente
gli interessi dell’utente privato», e si basavano su
irrilevanti «aspetti di natura socio-assistenziale».
Per i Comuni, invece, il gestore non poteva procedere al
distacco completo del servizio, ma soltanto alla riduzione
del flusso col cosiddetto «minimo vitale».
I giudici, annullando le ordinanze e confermando la recente
giurisprudenza (Tar Cagliari, sentenza n. 855/2015), hanno
spiegato che «il Sindaco non può intervenire con
l’ordinanza prevista dall’articolo 50, comma 5, Tuel a
vietare al gestore del servizio idrico l’interruzione della
fornitura nei confronti di singoli utenti morosi, poiché in
questo caso si realizza uno sviamento di potere, che vede il
Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestore–utente,
impedire al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge
tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei
confronti di utenti non in regola con il pagamento della
prevista tariffa, e ciò a prescindere dall’imputabilità di
siffatto inadempimento a ragioni di ordine sociale».
Ciò, si è precisato, poiché «all’Autorità comunale non può
essere riconosciuto un ruolo nello svolgersi del rapporto di
utenza tra il soggetto gestore del Sii ed il destinatario
della fornitura idrica, ed in ordine al suo sviluppo
contrattuale».
In ogni caso se si ipotizzasse «(...) una sorta di
“dinamica di rapporti” tra Autorità comunale e gestore del
servizio, lo strumento amministrativo utilizzabile non
potrebbe legittimamente rinvenirsi nell’ordinanza ex
articolo 50 citato, che, in carenza dei presupposti di
contingibilità (...) e di urgenza, risulta essere del tutto
sproporzionato rispetto all’obiettivo da raggiungere (...)».
L’ordinanza è stata invece ammessa (Tar Catanzaro n.
358/2012) quando a non pagare era lo stesso Comune-utente e
lo “stop” non riguardava solo singole utenze
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015).
---------------
MASSIMA
- Considerato, in proposito, che è fondata e da
accogliere la censura, dedotta con il primo motivo, di
difetto dei presupposti per l’esercizio del potere sindacale
di ordinanza previsto dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L.;
- Rilevato, infatti, che secondo la giurisprudenza
occupatasi della questione (TAR Sardegna, Sez. I,
12.06.2015, n. 855; TAR Campania, Salerno, Sez. I,
13.05.2015, n. 1000; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III,
01.02.2013, n. 290), il Sindaco non può
intervenire con l’ordinanza prevista dall’art. 50, comma 5,
T.U.E.L. a vietare al gestore del servizio idrico
l’interruzione della fornitura nei confronti di singoli
utenti morosi, poiché in questo caso si realizza uno
sviamento di potere, che vede il Comune, estraneo al
rapporto contrattuale gestore–utente, impedire al medesimo
gestore di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere
la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in
regola con il pagamento della prevista tariffa, e ciò a
prescindere dall’imputabilità di siffatto inadempimento a
ragioni di ordine sociale;
- Considerato che, ad avviso del Collegio, va senz’altro
condivisa l’affermazione per cui
all’Autorità comunale non può essere riconosciuto un ruolo
nello svolgersi del rapporto di utenza tra il soggetto
gestore del S.I.I. ed il destinatario della fornitura
idrica, ed in ordine al suo sviluppo contrattuale
(v. TAR Sardegna, Sez. I, n. 855/2015, cit.).
Ove, comunque, si voglia ipotizzare sul punto una
sorta di “dinamica di rapporti” tra Autorità comunale
e gestore del servizio, lo strumento amministrativo
utilizzabile non potrebbe legittimamente rinvenirsi
nell’ordinanza ex art. 50 cit., che, in carenza dei
presupposti di contingibilità
(sul quale cfr. C.d.S., Sez. V, 12.06.2009, n. 3765; id.,
Sez. IV, 13.12.1999, n. 1844) e di urgenza,
risulta essere del tutto sproporzionato rispetto
all’obiettivo da raggiungere
(TAR Sicilia Palermo, Sez. I, n. 290/2013, cit.);
- Osservato che in senso contrario non è invocabile una
recente pronuncia recante rigetto del ricorso proposto
contro l’ordinanza sindacale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez.
II, 10.04.2012, n. 358), trattandosi di precedente che
atteneva alla ben diversa fattispecie del contratto di
somministrazione concluso tra il gestore del servizio idrico
ed un Comune, sicché: a) il Comune era, esso stesso, parte
del rapporto contrattuale, nonché debitore inadempiente
all’obbligo di pagamento; b) l’interruzione della fornitura
di acqua da parte del gestore non riguardava solo singole
utenze;
- Considerato che la fondatezza della censura di difetto dei
presupposti, dedotta con il primo motivo, attesa la sua
portata logicamente (e giuridicamente) assorbente, esime il
Collegio dall’analizzare le ulteriori censure formulate
dalla ricorrente;
- Osservato in particolare, al riguardo, che se non vi è
spazio nella fattispecie in esame per l’esercizio del potere
ex art. 50, comma 5, cit., diventa irrilevante verificare se
la condotta della ricorrente sia o no stata improntata a
legittimità, altri essendo i rimedi offerti dall’ordinamento
per l’ipotesi in cui si ravvisassero scorrettezze o
illegittimità contrattuali;
- Osservato, inoltre, che per la medesima ragione fuoriesce
dal presente contenzioso anche la verifica circa la
sussistenza di perdite occulte del contatore, tali da
giustificare le contestazioni mosse dalla controinteressata
ai pagamenti che le sono stati richiesti, con il corollario
che appaiono inconferenti le eccezioni formulate sul punto
dalla difesa del Comune di Cassino nelle varie memorie
depositate in giudizio;
- Ritenuto, in conclusione, che il ricorso sia fondato e da
accogliere, in ragione della fondatezza della doglianza di
difetto dei presupposti, dedotta con il primo motivo, e con
assorbimento delle ulteriori censure. |
APPALTI: a)
l’indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede
di presentazione dell’offerta non è obbligatoria, neanche
nell’ipotesi in cui il concorrente non possieda la
qualificazione nelle categorie scorporabili previste
all’art. 107, comma 2, d.P.R. cit.;
b) non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti
al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione
degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure
nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è
conclusa prima della pubblicazione della decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015.
---------------
2.- Occorre, quindi, procedere all’analisi delle questioni
devolute all’Adunanza Plenaria, principiando da quella
formulata per prima (e meglio di seguito descritta).
2.1- Come già rilevato in fatto, la Quarta Sezione,
registrando un contrasto giurisprudenziale sulla decisiva
questione dell’obbligatorietà (o meno) dell’indicazione del
subappaltatore già nella fase dell’offerta da parte
dell’impresa concorrente sprovvista della qualificazione in
una o più categorie scorporabili (e, quindi, a fronte di un
c.d. subappalto necessario) e, quindi, sulla doverosità
della sua esclusione, nell’ipotesi di inosservanza del
predetto obbligo (ove giudicato tale), ne ha devoluto la
risoluzione all’Adunanza Plenaria.
Al predetto problema, infatti, sono state offerte due
diverse soluzioni.
Secondo una prima tesi, infatti, la necessità della
dimostrazione, ai fini della partecipazione alla procedura,
della qualificazione per tutte le lavorazioni per le quali
la normativa di riferimento la esige implica, quale
indefettibile corollario, la necessità dell’indicazione del
nominativo del subappaltatore già nella fase dell’offerta,
di guisa da permettere alla stazione appaltante il controllo
circa il possesso, da parte della concorrente, di tutti i
requisiti di capacità richiesti per l’esecuzione
dell’appalto (Cons. St., sez. V, 25.02.2015, n. 944; sez. V,
10.02.2015, n. 676; sez. V, 28.08.2014, n. 4405; sez. IV,
26.08.2014, n. 4299; sez. IV, 26.05.2014, n. 2675; sez. IV,
13.03.2014, n. 1224; sez. III 05.12.2013, n. 5781);
secondo una diversa, e minoritaria, lettura dell’istituto,
viceversa, una corretta esegesi delle regole che presidiano
i requisiti di qualificazione, e che escludono che, ai fini
della partecipazione alla gara, sia necessario il possesso
della qualificazione anche per le opere relative alle
categorie scorporabili (esigendo il ricorso al subappalto
solo per quelle a qualificazione necessaria e nella sola
fase dell’esecuzione dell’appalto), impone la diversa
soluzione dell’affermazione del solo obbligo di indicazione
delle lavorazioni che il concorrente intende affidare in
subappalto, ma non anche del nome dell’impresa
subappaltatrice (Cons. St., sez. IV, 04.05.2015, n. 2223;
sez. V, 07.07.2014, n. 3449; sez. V, 19.06.2012, n. 3563).
Si tratta, come si vede, di ricostruzioni (entrambe)
plausibili e ragionevoli, oltre che fondate sull’esigenza di
tutelare l’interesse pubblico all’amministrazione imparziale
e corretta delle procedure di affidamento dei contratti
pubblici.
2.2- La scelta dell’opzione ricostruttiva più coerente con
la normativa di riferimento esige una preliminare disamina
del sistema di regole alla stregua del quale dev’essere
affermata la sussistenza (o meno) dell’obbligo
dell’indicazione nominativa del subappaltatore ai fini della
partecipazione alla gara.
L’art. 92, commi 1 e 3, del d.P.R. 05.10.2010, n. 207, che
disciplina i requisiti di partecipazione alla gara,
stabilisce, innanzitutto, che, ai predetti fini, è
sufficiente il possesso della qualificazione nella categoria
prevalente (quando il concorrente, singolo o associato, non
la possieda anche per le categorie scorporabili), purché per
l’importo totale dei lavori.
Il combinato disposto degli artt. 92, comma 7 e 109, comma
2, d.P.R. cit. e 37, comma 11, d.lgs. 12.04.2006, n. 163
chiarisce, poi, che il concorrente che non possiede la
qualificazione per le opere scorporabili indicate all’art.
107, comma 2 (c.d. opere a qualificazione necessaria) non
può eseguire direttamente le relative lavorazioni ma le deve
subappaltare a un’impresa provvista della relativa,
indispensabile qualificazione.
L’art. 118 d.lgs. cit. (collocato sistematicamente entro la
Sezione V del codice, rubricata “principi relativi
all’esecuzione del contratto”) si occupa, invece, di
definire le modalità e le condizioni per il valido
affidamento delle lavorazioni in subappalto e prevede, per
quanto qui rileva, che all’atto dell’offerta siano indicati
(solo) i lavori che il concorrente intende subappaltare e
che l’affidatario depositi, poi, il contratto di subappalto
presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima
della data di inizio delle relative lavorazioni (unitamente
a tutte le attestazioni e dichiarazioni prescritte).
2.3- Dall’analisi delle regole appena citate si ricavano,
quindi, i seguenti principi:
a) per la partecipazione alla gara è sufficiente il possesso
della qualificazione nella categoria prevalente per
l’importo totale dei lavori e non è, quindi, necessaria
anche la qualificazione nelle categorie scorporabili
(neanche in quelle indicate all’art. 107, comma 2, d.P.R.
cit.);
b) le lavorazioni relative alle opere scorporabili nelle
categorie individuate all’art. 107, comma 2, d.P.R. cit. non
possono essere eseguite direttamente dall’affidatario, se
sprovvisto della relativa qualificazione (trattandosi,
appunto, di opere a qualificazione necessaria);
c) nell’ipotesi sub b) il concorrente deve subappaltare
l’esecuzione delle relative lavorazioni ad imprese provviste
della pertinente qualificazione;
d) la validità e l’efficacia del subappalto postula, quali
condizioni indefettibili, che il concorrente abbia indicato
nella fase dell’offerta le lavorazioni che intende
subappaltare e che abbia, poi, trasmesso alla stazione
appaltante il contratto di subappalto almeno venti giorni
prima dell’inizio dei lavori subappaltati;
e) il subappalto è un istituto che attiene alla fase di
esecuzione dell’appalto (e che rileva nella gara solo negli
stretti limiti della necessaria indicazione delle
lavorazioni che ne formeranno oggetto), di talché il suo
mancato funzionamento (per qualsivoglia ragione) dev’essere
trattato alla stregua di un inadempimento contrattuale, con
tutte le conseguenze che ad esso ricollega il codice (tra le
quali, ad esempio, l’incameramento della cauzione).
Si tratta come si vede di un apparato regolativo compiuto,
coerente, logico e, soprattutto, privo di aporie, antinomie
o lacune.
2.4- Ora, a fronte di un sistema di regole chiaro e univoco,
quale quello appena esaminato, restano precluse opzioni
ermeneutiche additive, analogiche, sistematiche o estensive,
che si risolverebbero, a ben vedere, nell’enucleazione di
una regola non scritta (la necessità dell’indicazione del
nome del subappaltatore già nella fase dell’offerta) che
(quella sì) configgerebbe con il dato testuale della
disposizione legislativa dedicata alla definizione delle
condizioni di validità del subappalto (art. 118, comma 2,
d.lgs. cit.) e che, nella catalogazione (esauriente e
tassativa) delle stesse, non la contempla.
2.5- Secondo il canone interpretativo sintetizzato nel
brocardo in claris non fit interpretatio (e
codificato all’art. 12 delle Preleggi), infatti, la prima
regola di una corretta esegesi è quella che si fonda sul
significato delle parole e che, quindi, là dove questo
risulta chiaro ed univoco, quale deve intendersi il dato
testuale della predetta disposizione, non è ammessa alcuna
interpretazione che corregga la sua portata precettiva (per
come desunta dal lessico ivi utilizzato, ove risulti privo
di ambiguità semantiche).
2.6- Ma anche in ossequio al canone interpretativo espresso
nel brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit
si perviene alle medesime conclusioni.
Là dove, infatti, l’art. 118, secondo comma, d.lgs. cit., ha
catalogato (articolandoli in quattro lettere) i requisiti di
validità del subappalto, ha evidentemente inteso
circoscrivere, in maniera tassativa ed esaustiva, a quei
presupposti (e solo a quelli) le condizioni di efficacia del
subappalto, sicché ogni opzione ermeneutica che si
risolvesse nell’aggiunta di un diverso ed ulteriore
adempimento (rispetto a quelli ivi classificati) dev’essere
rifiutata in quanto finirebbe per far dire alla legge una
cosa che la legge non dice (e che, si presume, secondo il
suddetto canone interpretativo, non voleva dire).
2.7- Dall’esame della vigente normativa di riferimento può,
in definitiva, identificarsi il paradigma (riferito
all’azione amministrativa, ma anche al giudizio della sua
legittimità) secondo cui l’indicazione del nome del
subappaltatore non è obbligatoria all’atto dell’offerta,
neanche nei casi in cui, ai fini dell’esecuzione delle
lavorazioni relative a categorie scorporabili a
qualificazione necessaria, risulta indispensabile il loro
subappalto a un’impresa provvista delle relative
qualificazioni (nella fattispecie che viene comunemente, e,
per certi versi, impropriamente definita come “subappalto
necessario”).
2.8- La correttezza della soluzione appena enunciata (e che
risponde al primo quesito nel senso di negare la doverosità
dell’indicazione nominativa del subappaltatore) risulta,
peraltro, avvalorata e corroborata dai convergenti argomenti
di seguito (sinteticamente) dettagliati.
2.9- L’esegesi ut supra preferita risulta,
innanzitutto, riscontrata dall’esame diacronico della
legislazione in materia, che consegna all’Adunanza la
preziosa informazione dell’originaria previsione (nella
legge 11.02.1994, n. 109, c.d. Legge Merloni) dell’obbligo
dell’indicazione, già nella fase dell’offerta, di una rosa
di imprese subappaltatrici (fino al numero di sei) entro le
quali avrebbe poi dovuto essere scelta quella affidataria
delle lavorazioni subappaltate, e della successiva
abrogazione di tale previsione (già nella legge 18.11.1998,
n. 415, c.d. Legge Merloni-ter e poi, definitivamente, con
il codice dei contratti pubblici), che costituisce il più
valido indice della consapevole ed univoca volontà del
legislatore del 2006 di escludere, tra le condizioni di
validità del subappalto, l’obbligo dell’indicazione
nominativa in discussione.
Non solo, ma anche nel disegno di legge di delega al Governo
per il recepimento delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE (all’esame della Camera dei Deputati, in seconda
lettura, al momento della redazione della presente
decisione) può ricavarsi un ulteriore prezioso riscontro
alla tesi scelta dall’Adunanza Plenaria, là dove si
ripristina, ivi, l’obbligo dell’indicazione di una terna di
subappaltatori, ad ulteriore conferma che il silenzio
serbato sul punto dal codice dei contratti pubblici in
vigore non può essere trattato alla stregua di una lacuna
colmabile in esito ad una complessa ed incerta operazione
ermeneutica, ma costituisce una scelta chiara e cosciente
(tanto che la legislazione precedente e, forse, quella
successiva hanno operato e, probabilmente, opereranno una
scelta diversa).
2.10- La correttezza della scelta interpretativa sopra
enunciata risulta, peraltro, avvalorata anche dalle
determinazioni dell’Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici (l’AVCP, prima, e l’ANAC, poi) che hanno
ripetutamente affermato il principio dell’obbligatorietà
della sola indicazione delle lavorazioni che si intendono
affidare in subappalto e contestualmente escluso
l’obbligatorietà dell’indicazione nominativa del
subappaltatore (si vedano la determinazione ANAC nr. 1
dell’08.01.2015; il parere ANAC nr. 11 del 30.01.2014 e la
determinazione AVCP nr. 4 del 10.10.2012), approvando, in
coerenza con tali enunciazioni, gli schemi dei bandi, con il
valore vincolante ad essi assegnati dall’art. 64, comma
4-bis, d.lgs. cit. (e previo parere conforme del Ministero
delle infrastrutture).
Come si vede, dunque, le autorità istituzionalmente
provviste di competenza in ordine alla vigilanza sulla
corretta amministrazione delle procedure di affidamento
degli appalti pubblici hanno costantemente espresso l’avviso
della doverosità della sola indicazione delle lavorazioni da
subappaltare (e non anche del nome dell’impresa
subappaltatrice), validando gli schemi dei bandi
confezionati in coerenza a tale regola ed ingenerando,
perciò, un significativo affidamento circa la legittimità
del relativo modus procedendi.
2.11- Lo scrutinio delle direttive europee non conduce ad
esiti differenti, confermando, anzi, la correttezza dei
principi prima affermati.
Le direttive in materia di appalti pubblici hanno, infatti,
rimesso alla discrezionale scelta degli Stati membri o,
comunque, delle stazioni appaltanti l’opzione regolatoria
attinente alla doverosità dell’indicazione del nome del
subappaltatore, ai fini della partecipazione alla gara,
astenendosi, quindi, dall’imporre una qualsivoglia soluzione
alla pertinente questione.
Orbene, in difetto di un vincolo europeo all’introduzione
(in via legislativa o amministrativa) dell’obbligo in
discussione, la sua positiva affermazione esige una chiara,
univoca ed esplicita sua previsione (con una specifica
disposizione di legge), in mancanza della quale resta
precluso all’interprete (che eserciterebbe inammissibilmente,
in tal modo, in luogo del legislatore o della stazione
appaltante, la potestà discrezionale assegnata allo Stato
membro dalle direttive) il suo riconoscimento (in esito,
peraltro, a un percorso ermeneutico di dubbio fondamento
positivo).
2.12- Non solo, ma la tesi contraria dev’essere rifiutata
anche perché produrrebbe effetti distorsivi (rispetto al
sistema) o, comunque, inutili (rispetto agli interessi che
con la stessa si intendono tutelare).
2.13- In primo luogo, l’affermazione dell’obbligo di
indicare il nominativo del subappaltatore all’atto
dell’offerta si risolverebbe in una eterointegrazione del
bando (che non lo prevedeva), mediante l’inammissibile
inserzione automatica nella lex specialis di un
obbligo non previsto da alcuna disposizione normativa
cogente pretermessa nell’avviso (da valersi quale unica
condizione legittimante della sua eterointegrazione).
Mentre, infatti, l’eterointegrazione della lex specialis
postula logicamente l’omessa ripetizione, in essa, di un
adempimento viceversa sancito chiaramente da una
disposizione normativa imperativa (cfr. ex multis
Cons. St., sez. VI, 11.03.2015, n. 1250), nella fattispecie
in esame verrebbe, al contrario, automaticamente inserita
nel bando una clausola non rinvenibile nel diritto positivo
e di mera creazione giurisprudenziale.
2.14- La statuizione dell’adempimento in questione
finirebbe, inoltre, per costituire una clausola espulsiva
atipica, in palese spregio del principio di tassatività
delle cause di esclusione (codificato all’art. 46, comma
1-bis, d.lgs. cit.).
Se è vero, infatti, che la latitudine applicativa della
predetta disposizione è stata decifrata come comprensiva
anche dell’inosservanza di adempimenti doverosi prescritti
dal codice, ancorché non assistiti dalla sanzione espulsiva
(cfr. Ad. Plen. n. 9 e n. 16 del 2014), è anche vero che
l’applicazione di tale principio esige, in ogni caso,
l’esistenza di una prescrizione legislativa espressa, chiara
e cogente (nella fattispecie non rintracciabile nel codice
dei contratti pubblici).
2.15- La tesi favorevole all’affermazione dell’obbligo in
questione comporterebbe, peraltro, una confusione tra
avvalimento e subappalto, nella misura in cui attrae il
rapporto con l’impresa subappaltatrice nella fase della
gara, anziché in quella dell’esecuzione dell’appalto, con
ciò assimilando due istituti che presentano presupposti,
finalità e regolazioni diverse, ma senza creare il medesimo
vincolo dell’avvalimento e senza assicurare, quindi, alla
stazione appaltante le stesse garanzie contrattuali da esso
offerte.
Non solo, ma il relativo assunto si rivela distorsivo del
mercato dei lavori pubblici, nella misura in cui costringe
le imprese concorrenti a scegliere una (sola) impresa
subappaltatrice, già nella fase della partecipazione alla
gara, mediante l’imposizione di un onere partecipativo del
tutto sproporzionato e gravoso.
2.16- La prospettazione qui disattesa finirebbe, infine, per
introdurrebbe un requisito di qualificazione diverso ed
ulteriore rispetto a quelli stabiliti, con disciplina
completa ed autosufficiente, dall’art. 92 d.P.R. cit. (che,
come si è già rilevato, esclude l’obbligo del possesso delle
attestazioni nelle categorie scorporabili, ancorché a
qualificazione necessaria, ai fini della partecipazione alla
gara), implicando, di conseguenza, la sua inammissibile
disapplicazione, che, tuttavia, postula l’indefettibile
presupposto, nella specie inconfigurabile,
dell’illegittimità della norma secondaria in quanto
confliggente con la disposizione legislativa primaria (come
chiarito, ex multis, da Cons. St., sez. VI,
14.07.2014, n.3623).
Se, infatti, il fondamento logico e sistematico della tesi
ricostruttiva che afferma l’obbligatorietà dell’indicazione
del nominativo del subappaltatore all’atto dell’offerta dev’essere
rinvenuto nell’esigenza di garantire alla stazione
appaltante il controllo del possesso da parte del
concorrente di tutti i requisiti di qualificazione
necessari, la sua condivisione postula l’affermazione della
necessità, ai fini della partecipazione alla procedura,
della dimostrazione della titolarità delle attestazioni
riferite anche alle opere scorporabili (ciò che, invece,
risulta chiaramente escluso dalla citata disposizione
regolamentare dedicata alla disciplina delle qualificazioni
e che andrebbe, quindi, logicamente disapplicata, ma in
difetto della indispensabile condizione, sopra ricordata,
della sua illegittimità).
3.- La soluzione del primo quesito implica la decadenza del
secondo, in quanto fondato sull’unico presupposto
dell’affermazione della necessità dell’indicazione
nominativa del subappaltatore (viceversa negata con la
risposta al primo quesito).
4.- Con il terzo quesito si chiede all’Adunanza Plenaria di
chiarire la legittimità (rectius: la doverosità)
dell’uso dei poteri di soccorso istruttorio nei casi in cui
la fase procedurale di presentazione delle offerte si sia
perfezionata prima della pubblicazione della decisione
dell’Adunanza Plenaria 20.03.2015 n. 3 (con la quale è stato
chiarito che l’obbligo, codificato all’art. 87, comma 4,
d.lgs. cit., di indicazione degli oneri di sicurezza
aziendale si applica anche agli appalti di lavori).
A tale problema occorre offrire una risposta negativa, in
quanto con la medesima decisione dell’Adunanza Plenaria è
stata espressamente esclusa la sanabilità con il soccorso
istruttorio dell’omissione dell’indicazione degli oneri di
sicurezza aziendale, che si risolverebbe in un’inammissibile
integrazione postuma di un elemento essenziale dell’offerta
(cfr. Ad. Plen. n. 3 del 2015, punto 2.10).
Non si ravvisano, peraltro, ragioni per rimeditare tale
(condivisibile e recente) avviso, nella misura in cui si
rivela coerente con la lettura della funzione e dei limiti
di operatività dell’istituto del soccorso istruttorio, per
come enunciati da questa stessa Adunanza Plenaria (Ad. Plen.
n.9 del 2014).
A questo proposito non può accedersi alla tesi propugnata
dalla difesa delle appellanti secondo cui, in applicazione
del principio di cui alla A.P. n. 21 del 2012, dovrebbe
affermarsi che la esclusione dalla gara per non avere
indicato gli oneri di sicurezza aziendale potrebbe essere
comminata solo per le procedure bandite successivamente alla
pubblicazione della decisione della A.P. n. 3 del 2015.
L’Adunanza al riguardo approfondendo la questione, ritiene
di dover riaffermare il tradizionale insegnamento in tema di
esegesi giurisprudenziale, anche monofilattica, che
attribuisce ad essa valore esclusivamente dichiarativo.
La diversa opinione finisce per attribuire alla esegesi
valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica
intrinseca della interpretazione e con il principio
costituzionale della separazione dei poteri venendosi a
porre in sostanza come una fonte di produzione.
In proposito è stato perspicuamente osservato: “Ad una
diversa conclusione potrebbe invero giungersi solo ove si
ritenga che la precedente interpretazione, ancorché poi
corretta, costituisca il parametro normativo immanente per
la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione
temporale con essa (ut lex temporis acti). Ma con ciò,
all’evidenza, si trasformerebbe una sequenza di interventi
accertativi del contenuto della norma in una operazione di
creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con
sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di
atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice;
soluzione non certo coniugabile con il precetto
costituzionale dell’art. 101 Cost.” (Cassazione SS.UU.
n. 15144 del 2011).
E’ significativo che anche le recenti aperture del giudice
di legittimità in tema di prospective overruling
siano rimaste confinate in ambito strettamente delimitato.
A far tempo dalla già citata pronuncia delle Sezioni unite
n. 15144 del 2011 si è costantemente affermato che per
attribuire carattere innovativo all’intervento nomofilattico
occorre la concomitanza di tre precisi presupposti e cioè
che l’esegesi incida su una regola del processo; che si
tratti di esegesi inprevedibile susseguente ad altra
consolidata nel tempo e quindi tale da indurre un
ragionevole affidamento, e che infine -presupposto decisivo–
comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di
difesa (v. anche Cass. 28967/2011; 12704/2012 e, da ultimo,
19700/2015; 20007/2015).
Nel caso di specie nessuno degli anzidetti presupposti può
ritenersi sussistente non trattandosi di norma attinente ad
un procedimento di carattere giurisdizionale, non
preesistendo un indirizzo lungamente consolidato nel tempo e
non risultando precluso il diritto di azione o di difesa per
alcuna delle parti in causa.
In conclusione, se da un lato non sembra possibile elevare
la precedente esegesi al rango di legge per il periodo
antecedente al suo mutamento, dall’altro non possono essere
sottotaciute le aspirazioni del cittadino alla sempre
maggiore certezza del diritto ed alla stabilità della
nomofiliachia, ma trattasi di esigenze che, ancorché
comprensibili e condivisibili de jure condendo,
nell’attuale assetto costituzionale possono essere
affrontate e risolte esclusivamente dal legislatore.
5.- Alla stregua delle considerazioni che precedono, si
devono, quindi, affermare i principi di diritto che seguono:
a) l’indicazione del nominativo del
subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta non
è obbligatoria, neanche nell’ipotesi in cui il concorrente
non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili
previste all’art. 107, comma 2, d.P.R. cit.;
b) non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti
al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione
degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure
nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è
conclusa prima della pubblicazione della decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2015
(Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 02.11.2015 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oneri
di urbanizzazione: quando sono dovuti gli oneri da impatto
acustico?
Per il Consiglio di Stato gli oneri da impatto acustico sono
dovuti solo qualora l’intervento assentito non sia
compatibile con la regolamentazione predisposta in materia.
Mentre con
riferimento agli oneri di urbanizzazione “è pacifica la
relazione con l’aggravio del carico urbanistico e con la
necessità di predisporre i servizi utili all’effettivo
utilizzo di un determinato immobile da edificare”, gli
oneri aggiuntivi da impatto acustico “sono dovuti
soltanto nel caso in cui l’intervento assentito non sia
compatibile con la regolamentazione predisposta in materia”.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, IV Sez., con la
sentenza 29.10.2015 n. 4950.
IL CASO.
Nel caso esaminato dal Collegio, all’esito del procedimento
istruttorio inerente alla realizzazione del nuovo edificio,
l’Amministrazione ha chiesto il pagamento dell’importo di
26.620 euro a compensazione delle spese da sostenere per gli
interventi di mitigazione acustica resi necessari dalla
nuova edificazione.
“A ben vedere –osserva Palazzo Spada- non c’è
correlazione con la destinazione finale del fabbricato e,
cioè, con l’aggravio o meno del relativo carico urbanistico:
ciò che interessa è che la titolare del titolo edilizio
corrisponda il quantum necessario al Comune per intervenire
sull’infrastruttura stradale in modo da consentire il
rispetto dei vincoli acustici imposti dalle normative di
settore”.
La corresponsione degli oneri da impatto acustico
costituisce la modalità di reperimento delle risorse
necessarie all’Amministrazione per poter procedere
all’intervento sulla rete viaria (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
...
per la riforma
della sentenza del TAR Piemonte-Torino: Sezione II n.
2033/2014, resa tra le parti, concernente accertamento
della non debenza degli oneri di urbanizzazione
...
4. Con il terzo motivo di appello, il Comune di Torino
ritiene erronea la sentenza del TAR nella parte in cui ha
equiparato gli oneri di urbanizzazione agli oneri aggiuntivi
da impatto acustico, affermandone la non debenza da parte
della sig.ra Cu..
Nello specifico, parte appellante non
considera sussistente, diversamente da quanto affermato dal
giudice di primo grado, il nesso fra l’aggravio del carico
urbanistico e gli oneri relativi all’impatto acustico
dell’intervento: questi ultimi esulerebbero dalla
preesistenza o meno di edifici in un determinato ambito
interessato da un intervento edilizio e, quindi, un maggiore
o minore carico urbanistico non dovrebbe determinare il
versamento o meno degli oneri in questione.
Inoltre, in
seguito al confronto avvenuto con la proprietaria
dell’immobile in sede istruttoria, il Comune aveva
evidenziato che l’unica modalità di riduzione dell’impatto
acustico, al di sotto dei limiti consentiti dalla
regolazione, avrebbe imposto all’Amministrazione di
intervenire sulla rete viaria: dunque, gli oneri aggiuntivi
di cui trattasi avrebbero una differente ratio rispetto agli
oneri di urbanizzazione.
4.1 Il motivo è fondato e va accolto.
Il Collegio ritiene di condividere le prospettazioni di
parte appellante relative al versamento degli oneri da
impatto acustico, in quanto, la loro corresponsione
costituisce la modalità di reperimento delle risorse
necessarie all’Amministrazione per poter procedere
all’intervento sulla rete viaria.
Il giudice di primo grado, in effetti, equiparando gli oneri
di urbanizzazione agli oneri aggiuntivi da impatto acustico,
ha ritenuto che la loro giustificazione si potesse
riscontrare nell’incremento del carico urbanistico.
In realtà, mentre, con riferimento ai primi, è pacifica la
relazione con l’aggravio del carico urbanistico e con la
necessità di predisporre i servizi utili all’effettivo
utilizzo di un determinato immobile da edificare, i secondi
sono dovuti soltanto nel caso in cui l’intervento assentito
non sia compatibile con la regolamentazione predisposta in
materia.
Nel caso di specie, infatti, all’esito del procedimento
istruttorio inerente alla realizzazione del nuovo edificio,
l’Amministrazione, in conformità alle disposizioni contenute
nella l.reg. n. 52 del 2000 e nel regolamento comunale n.
318 del 2006, ha chiesto il pagamento dell’importo di euro
26.620,00 a compensazione delle spese da sostenere per gli
interventi di mitigazione acustica resi necessari dalla
nuova edificazione.
A ben vedere, dunque, non c’è correlazione con la
destinazione finale del fabbricato e, cioè, con l’aggravio o
meno del relativo carico urbanistico: ciò che interessa è
che la titolare del titolo edilizio corrisponda il quantum
necessario al Comune per intervenire sull’infrastruttura
stradale in modo da consentire il rispetto dei vincoli
acustici imposti dalle normative di settore.
5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, l’appello,
parzialmente fondato, va accolto in parte e,
conseguentemente, la sentenza impugnata va riformata nei
sensi e nei limiti di cui in motivazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.10.2015 n. 4950 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie sulla debenza o meno del contributo per il rilascio di una
concessione edilizia e sul suo ammontare, devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art.
16 l. 28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi,
non sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi
impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di
prescrizione”.
La giurisdizione
esclusiva è stata confermata anche in seguito
all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f),
devolve al Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad
oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche
amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia”.
La
qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in
termini di diritto soggettivo, derivano dalla circostanza
secondo cui, in caso di contestazione circa la
quantificazione o la debenza degli oneri connessi al
permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura
del contributo imposto, non l’esercizio del potere al
rilascio del titolo edilizio.
---------------
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne
ritrae”.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in
quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della
domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione:
le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e
secondarie, si caratterizzano per essere necessarie,
rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di
relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se
rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute
le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai
cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non
implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona,
non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente
ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di
costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se
l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del
carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di
urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della
predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un
incremento di dette esigenze urbanistiche.
In sostanza, gli
oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura
compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si
fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile
un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova
destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il
pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e
adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione
edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato
un aumento del carico urbanistico”.
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione
di parte appellante circa il mancato versamento degli oneri
di urbanizzazione al momento dell’originaria costruzione
dell’edificio di proprietà della sig.ra Cu.. In effetti,
l’indagine relativa all’incremento del carico urbanistico di
un determinato insediamento non può coinvolgere anche il
regime contributivo riferibile all’edificio originario.
---------------
...
per la riforma
della sentenza del TAR Piemonte-Torino: Sezione II n.
2033/2014, resa tra le parti, concernente accertamento
della non debenza degli oneri di urbanizzazione
...
1. L’oggetto del presente giudizio afferisce alla verifica
circa la sussistenza dell’obbligo di versamento degli oneri
di urbanizzazione, da parte del privato, in presenza di un
intervento di sostituzione edilizia che non determini un
incremento del carico urbanistico preesistente.
2. Preliminarmente va esaminata l’eccezione, respinta in
primo grado e riproposta in sede di impugnazione, con cui
l’Amministrazione appellante afferma l’inammissibilità del
ricorso di primo grado: secondo il Comune, infatti,
l’intervento assentito rientrerebbe nell’ambito della
disciplina prevista dall’art. 3 D.P.R. n. 380/2001 per le
nuove costruzioni e, di conseguenza, sarebbe soggetto alla
normativa sul contributo di urbanizzazione.
Tale premessa
avrebbe dovuto condurre all’individuazione del nesso
sussistente fra la normativa regionale in tema di oneri di
urbanizzazione (D.C.R. n. 179 C.R. 4170 in data 26.05.1977) ed il permesso di costruire rilasciato in favore della
sig.ra Cu., al fine di affermare la necessità di previa
impugnazione, entro i termini, del permesso di costruire, in
presenza di contestazioni relative all’ammontare degli oneri
di urbanizzazione.
Per altro verso, con riferimento all’ammontare degli oneri
aggiuntivi per l’impatto acustico, parte appellante afferma
che è mancata, in primo grado, la pregiudiziale impugnazione
del provvedimento di compatibilità acustica nel quale sono
stati quantificati i relativi oneri.
2.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto, il Collegio ritiene di condividere le
argomentazioni proposte dal giudice di prime cure, che
evidenzia l’illogicità dell’iter processuale ipotizzato
dall’Amministrazione appellante: in effetti non pare
ragionevole sostenere “che parte ricorrente avrebbe dovuto
impugnare provvedimenti a sé favorevoli [...] solo perché
essi hanno costituito la necessaria occasione per la
determinazione degli oneri”. In effetti il contenzioso
introdotto con il ricorso della sig.ra Cu. inerisce all’an
ed al quantum debeatur a titolo di oneri di urbanizzazione
ed oneri aggiuntivi, non, invece, all’ammissibilità del
progetto proposto dall’odierna appellata.
Sul punto, inoltre, la giurisprudenza di questo Consiglio ha
già avuto modo di precisare che “le controversie sulla debenza o meno del contributo per il rilascio di una
concessione edilizia e sul suo ammontare, devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art.
16 l. 28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi,
non sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi
impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di
prescrizione” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
06.12.1999
n. 2056; id. 15.02.2001, n. 790).
La giurisdizione
esclusiva è stata confermata anche in seguito
all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f),
devolve al Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad
oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche
amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia”. La
qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in
termini di diritto soggettivo, derivano dalla circostanza
secondo cui, in caso di contestazione circa la
quantificazione o la debenza degli oneri connessi al
permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura
del contributo imposto, non l’esercizio del potere al
rilascio del titolo edilizio.
Non può affermarsi, dunque, con riferimento al presente
giudizio, il suo carattere impugnatorio e, correlativamente,
non troveranno ingresso le disposizioni processuali inerenti
ai termini di decadenza, poiché la domanda giudiziale è
soggetta al solo termine di prescrizione.
3. Con il secondo motivo di appello l’Amministrazione
comunale afferma l’erroneità della sentenza impugnata nella
parte in cui sostiene l’inammissibilità di oneri di
urbanizzazione in presenza di un intervento edilizio che
diminuisca il carico urbanistico.
In particolare, nel caso di specie, nonostante l’intervento
assentito non determini un incremento di S.L.P. complessiva
e non modifichi la destinazione d’uso preesistente, si
sarebbe in presenza di una creazione di un organismo
edilizio del tutto nuovo per sagoma, numero di piani,
distribuzione interna, posizionamento e realizzazione di
piani interrati.
Inoltre, l’assoggettamento dell’intervento
al rilascio del permesso di costruire e la sua ascrivibilità
nel novero delle “nuove costruzioni”, condurrebbero ad
assoggettare l’immobile agli oneri di urbanizzazione. Per
altro verso, tali oneri non potrebbero dirsi nemmeno già
scontati da quelli sopportati all’origine, stante la vetustà
del fabbricato che esclude ex se l’avvenuto versamento degli
oneri concessori, la cui disciplina risale alla l. n. 10 del
1977.
3.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere integralmente
le argomentazioni fornite dal giudice di prime cure, secondo
cui “il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne
ritrae”.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in
quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della
domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione:
le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e
secondarie, si caratterizzano per essere necessarie,
rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di
relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se
rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute
le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai
cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non
implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona,
non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente
ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di
costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se
l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del
carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di
urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della
predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un
incremento di dette esigenze urbanistiche.
In sostanza, gli
oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura
compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si
fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile
un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova
destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il
pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e
adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione
edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato
un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV,
29.04.2004, n. 2611).
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione
di parte appellante circa il mancato versamento degli oneri
di urbanizzazione al momento dell’originaria costruzione
dell’edificio di proprietà della sig.ra Cu.. In effetti,
l’indagine relativa all’incremento del carico urbanistico di
un determinato insediamento non può coinvolgere anche il
regime contributivo riferibile all’edificio originario.
Gli elementi suindicati consentono, in definitiva, di
condividere gli argomenti del giudice di prime cure e
rigettare le censure sollevate sul punto
dall’Amministrazione appellante
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.10.2015 n. 4950 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’obbligo
nel caso di raggruppamenti temporanei di impresa di
corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di
esecuzione non impone anche l’ulteriore parallelismo fra
quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote
di esecuzione e per altro verso che la disposizione
contenuta nel comma 13 dell’art. 37 del D.Lgs, n. 163 del
2006 (secondo cui i concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento) è stata prima limitata ai soli appalti di
lavori [ex art. 1, co. 2-bis, lett. a), del D.L. 06.07.2012,
n. 95, convertito con modificazioni dalla L. 07.08.2012, n.
135, norma in vigore al momento di pubblicazione del bando
di gara] e poi successivamente abrogata dall’art. 12, comma
8, del D.Lgs. 28.03.2014, n. 47, convertito con
modificazioni dalla L. 23.05.2014, n. 80.
Per completezza deve osservarsi, per un verso, che, come
chiarito dalla giurisprudenza, l’obbligo nel caso di
raggruppamenti temporanei di impresa di corrispondenza fra
quote di partecipazione e quote di esecuzione non impone
anche l’ulteriore parallelismo fra quote di partecipazione,
requisiti di qualificazione e quote di esecuzione (Cons.
Stato, A.P. 30.01.2014, n. 7) e per altro verso che la
disposizione contenuta nel comma 13 dell’art. 37 del D.Lgs,
n. 163 del 2006 (secondo cui i concorrenti riuniti in
raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni
nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento) è stata prima limitata ai
soli appalti di lavori [ex art. 1, co. 2-bis, lett. a), del
D.L. 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla
L. 07.08.2012, n. 135, norma in vigore al momento di
pubblicazione del bando di gara] e poi successivamente
abrogata dall’art. 12, comma 8, del D.Lgs. 28.03.2014, n.
47, convertito con modificazioni dalla L. 23.05.2014, n. 80
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.10.2015 n. 4942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le valutazioni delle offerte tecniche da parte
delle commissioni di gara sono espressione di
discrezionalità tecnica e come tali sono sottratte al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo
che non siano manifestamente illogiche, irrazionali,
irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un
altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti ovvero
ancora salvo che non vengano in rilievo specifiche censure
circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro
applicazione, non essendo sufficiente che la determinazione
assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento
seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice
amministrativo non può sostituire -in attuazione del
principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie
valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica,
quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle
modalità di valutazione delle offerte.
6.2.2.1.
Innanzitutto deve ribadirsi che, secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, le valutazioni delle offerte
tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione
di discrezionalità tecnica e come tali sono sottratte al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo
che non siano manifestamente illogiche, irrazionali,
irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un
altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (ex
multis, Cons. St., sez. V, 30.04.2015, n. 2198;
23.02.2015, n. 882; 26.03.2014, n. 1468; sez. III,
13.03.2012, n. 1409) ovvero ancora salvo che non vengano in
rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri
valutativi o la loro applicazione (Cons. St., sez. III,
24.09.2013, n. 4711), non essendo sufficiente che la
determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del
procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il
giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del
principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie
valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica,
quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle
modalità di valutazione delle offerte (Cons. Stato, sez. V,
26.05.2015, n. 2615).
Nel caso di specie nella contestata valutazione della
commissione di gara non si rinvengono macroscopici elementi
di illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza o travisamento
di fatto, le contrarie argomentazioni delle appellanti
essendo fondate su opinioni soggettive e risolvendosi in
definitiva in un mero dissenso rispetto alle motivate
conclusioni della predetta commissione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.10.2015 n. 4942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Deve essere riformata l’ordinanza cautelare di
reiezione della domanda cautelare presentata in primo grado,
concernente l’esclusione dell’appellante dall’affidamento di
un dato servizio allorché, come nel caso di specie, risulti
che l’esistenza dell’utile si sarebbe potuto anche ricavare
e dimostrare (pur in presenza di una percentuale di aggio
pari a zero) da altre componenti dell’offerta presentata,
che avrebbero, pertanto, dovuto essere valutate prima di
esprimere il giudizio di inattendibilità economica
dell’offerta dell’appellante, tenuto conto, altresì, che
rispetto alla percentuale di aggio la differenza tra
l’offerta dell’appellante e quella della controinteressata
era minimale e certamente tale da non giustificare il
diverso trattamento riservato alle due offerte.
Conseguentemente, nella fattispecie, in riforma
dell’ordinanza impugnata, veniva accolta l’istanza cautelare
in primo grado.
--------------
... per la riforma
dell'ordinanza cautelare del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE I
n. 1593/2015, resa tra le parti, concernente esclusione
dall'affidamento del servizio di "selezione e fornitura
di personale da impiegare con contratto di lavoro a tempo
determinato presso adisu per due anni";
...
- Ritenuto che in astratto l’esistenza dell’utile potrebbe
anche essere ricavata e dimostrata (pur in presenza di una
percentuale di aggio pari a zero) da altre componenti
dell’offerta presentata, che avrebbero, pertanto, dovuto
essere valutate prima di esprimere il giudizio di
inattendibilità economica dell’offerta di G. Gr. s.p.a.;
- Ritenuto, peraltro, che rispetto alla percentuale di aggio
la differenza tra l’offerta dell’appellante e quella della
controinteressata è minimale e certamente tale da non
giustificare il diverso trattamento riservato alle due
offerte;
- Ritenuto che sussistono i presupposti per compensare le
spese della presente fase cautelare possono essere
compensate
P.Q.M.
- Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8182/2015) e, per
l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, accoglie
l'istanza cautelare in primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
ordinanza 28.10.2015 n. 4900 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
materia disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato,
ai sensi dell'art. 55, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001, nel testo
in vigore anteriormente alla novella di cui al d.lgs. n.
150/2009, ove la sanzione da irrogare sia quella del
rimprovero verbale o della censura, il capo della struttura
in cui il dipendente lavora è competente non solo ad
applicare la sanzione medesima, ma anche a curare il
relativo procedimento disciplinare.
----------------
1- Con unico motivo il ricorso lamenta violazione e falsa
applicazione dell'art. 55 d.lgs. n. 165/2001 nel testo
vigente all'epoca dei fatti (12.07.2002), per avere la
sentenza impugnata ritenuta nulla la sanzione in quanto
irrogata dal capo della struttura in cui il dipendente opera
anziché dall'ufficio competente per i procedimenti
disciplinari, che -contrariamente a quanto suppone la Corte
territoriale- è, in realtà, competente per le sanzioni
diverse dal rimprovero verbale e dalla censura, per le quali
è invece competente il capo della struttura.
2- Il ricorso è fondato.
Dispone l'art. 55, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001 (nel testo
vigente all'epoca dei fatti, ossia il 12.07.2002, prima
della novella di cui al d.lgs. n. 150/2009): "Ciascuna
amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua
l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari. Tale
ufficio, su segnalazione del capo della struttura in cui il
dipendente lavora, contesta l'addebito al dipendente
medesimo, istruisce il procedimento disciplinare e applica
la sanzione. Quando le sanzioni da applicare siano
rimprovero verbale e censura, il capo della struttura in cui
il dipendente lavora provvede direttamente.".
Il contenuto di tale disposizione viene ripreso dalla
giurisprudenza di questa S.C. nel momento in cui statuisce
che, ai sensi del cit. art. 55 d.lgs. n. 165/2001, la
violazione delle norme sulla competenza interna dell'ufficio
per i procedimenti disciplinari implica nullità della
sanzione applicata da altro soggetto, ad eccezione del
rimprovero verbale e della censura (cfr. Cass. n.
14628/2010; Cass. n. 20981/2009; Cass. n. 2168/2004).
Tuttavia, a ben vedere, tale giurisprudenza non chiarisce
esattamente (anche perché in quelle occasioni la sanzione
impugnata era più grave) se, in ipotesi di rimprovero
verbale o di censura, resti ferma la competenza interna
dell'ufficio per i procedimenti disciplinari in ordine a
tutta l'istruttoria del procedimento e soltanto
l'irrogazione di tali sanzioni sia affidata al capo della
struttura (come statuito dalla Corte territoriale),
oppure se questi possa provvedere da sé a tutto
l'iter disciplinare, compreso l'atto terminale di
applicazione del rimprovero verbale o della censura (come
sostiene l'odierno ricorrente).
Ritiene la Corte di condividere quest'ultima opzione
interpretativa, conforme ad un'interpretazione teleologica e
sistematica della norma in commento.
Sotto il primo profilo, si consideri che sarebbe
contraddittorio, rispetto alla finalità della disposizione,
il prevedere una più articolata e garantita procedura (con
un doppio passaggio, dapprima presso l'ufficio per i
procedimenti disciplinari, poi innanzi al capo struttura)
per le sanzioni in assoluto di minor gravità (vale a dire il
rimprovero verbale e la censura) e, invece, una procedura
meno garantita (cioè solo innanzi all'ufficio per i
procedimenti disciplinari) per le sanzioni più gravi.
Ancor più tale contraddittorietà si rivela in tutta la
propria evidenza se solo si pensa, in particolare, alla
sanzione del rimprovero verbale (che nel citato art. 55, co.
4°, d.lgs. n. 165/2001 è accomunato alla censura),
rimprovero verbale che per sua stessa natura presuppone
un'immediatezza e una compresenza degli interlocutori (capo
struttura e suo subordinato) incompatibili con un così
articolato procedimento, per di più da svolgersi in forma
scritta e davanti a due differenti uffici della stessa
amministrazione.
Sotto il profilo sistematico l'opzione ermeneutica accolta
dalla gravata pronuncia collide con l'omologo istituto del
procedimento disciplinare di cui all'art. 7 legge n.
300/1970 (le cui garanzie si estendono, ex art. 51, co. 2°
d.Lgs. n. 165/2001, anche al pubblico impiego
contrattualizzato: cfr. Cass. n. 8642/10), procedimento che
non si applica a sanzioni come il rimprovero verbale.
Dunque, se per il rimprovero verbale ogni
competenza disciplinare necessariamente appartiene al capo
della struttura in cui il dipendente lavora, alla medesima
conclusione deve pervenirsi riguardo alla censura, che
l'art. 55-bis, co. 4 cit., ultimo periodo, testualmente
accomuna, quanto a competenza, alla prima -meno grave-
sanzione.
Da ultimo, è appena il caso di segnalare l'irrilevanza nella
presente sede delle difese svolte dal controricorrente sul
merito dell'addebito, ritenuto assorbito dalla gravata
pronuncia, che si era arrestata all'aspetto procedurale
erroneamente ravvisando la nullità della sanzione per
difetto di titolarità del potere disciplinare da parte del
capo della struttura in cui il dipendente lavora.
3- In conclusione il ricorso è da accogliersi, con
conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio,
anche per le spese, alla Corte d'appello di Messina, che
dovrà attenersi al seguente principio di diritto "In
materia disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato,
ai sensi dell'art. 55, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001, nel testo
in vigore anteriormente alla novella di cui al d.lgs. n.
150/2009, ove la sanzione da irrogare sia quella del
rimprovero verbale o della censura, il capo della struttura
in cui il dipendente lavora è competente non solo ad
applicare la sanzione medesima, ma anche a curare il
relativo procedimento disciplinare"
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 23.10.2015 n. 21646). |
APPALTI:
La p.a.
deve pagare dopo l'ottemperanza.
Lo hanno ribadito i giudici del Tar del Lazio.
La condanna dell'amministrazione pubblica al pagamento, a
causa del ritardo, di una somma di danaro in favore del
creditore, è giustificata in ragione della violazione,
inosservanza ovvero, e ritardo successivi alla pronunzia del
giudice dell'ottemperanza, attesa la funzione deterrente,
general-preventiva e dissuasiva dello strumento in parola
che può realizzarsi solo per comportamenti successivi alla
comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento
formulato dal giudice che ne dispone il pagamento.
A ribadirlo sono stati i giudici della Sez. I-quater
del TAR Lazio-Roma con la
sentenza
23.10.2015 n. 12174.
Nella sentenza in commento, inoltre, i giudici
amministrativi capitolini hanno osservato che circa la
domanda di condanna dell'amministrazione pubblica al
pagamento di una somma a titolo di risarcimento per il
ritardo nell'esecuzione del giudicato, si rimanda
direttamente alla previsione di cui all'art. 114, comma 4,
lett. e) del c.p.a. («il giudice, in caso di accoglimento
del ricorso, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se
non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta
di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni
violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni
ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione
costituisce titolo esecutivo»; istituto della cosiddetta astreinte), tenendo anche nella dovuta considerazione che la
pretesa sostanziale azionata abbia a oggetto proprio
l'interesse al conseguimento di un ristoro patrimoniale per
il danno connesso al ritardo nell'esecuzione del giudicato
espressamente menzionato nella disposizione normativa sopra
citata.
Per quanto riguarda, poi, la quantificazione di tale somma,
essa può essere effettuata prendendo a fondamento il
parametro, individuato dalla Cedu con riferimento alla
commisurazione degli interessi moratori dovuti
dall'amministrazione per il ritardo nel pagamento delle
somme liquidate, dell'«interesse semplice a un tasso
equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento
marginale della Banca centrale europea applicabile durante
tale periodo, aumentato di tre punti percentuali»; e ai
sensi dell'art. 1227, comma 2, c.c., non sarà ininfluente
nella considerazione della misura del risarcimento la
tempestiva attivazione da parte del creditore del rimedio
dell'ottemperanza
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015).
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MASSIMA
In relazione alla domanda di condanna
dell’Amministrazione al pagamento di una somma a titolo di
risarcimento per il ritardo nell’esecuzione del giudicato,
il Collegio ritiene che detto capo di domanda rimandi
direttamente alla previsione di cui all’art. 114, comma 4,
lett. e), del c.p.a.
(“il giudice, in caso di accoglimento del ricorso, …
salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono
altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la
somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o
inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo
nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce
titolo esecutivo”; istituto della c.d. astreinte),
considerato che la pretesa sostanziale azionata
attiene proprio all’interesse al conseguimento di un ristoro
patrimoniale per il danno connesso al ritardo
nell’esecuzione del giudicato espressamente menzionato nella
citata disposizione normativa.
Per tale ragione il Collegio, tenuto conto che detta norma
si applica anche nel caso in cui l'obbligo di cui si chiede
l'adempimento consista in un'obbligazione pecuniaria (cfr.,
in particolare, Cons. Stato, V, 14.05.2012 n. 2744), precisa
che, in adesione al recentissimo
orientamento assunto dal giudice di appello in merito alla
decorrenza della astreinte, la condanna dell’Amministrazione
al pagamento, a cagione del ritardo, di una somma di danaro
in favore del creditore, è giustificata in ragione della
violazione, inosservanza ovvero, ritardo successivi alla
pronunzia del giudice dell’ottemperanza, attesa la funzione
deterrente, general-preventiva e dissuasiva dello strumento
in parola che può realizzarsi solo per comportamenti
successivi alla comunicazione o notificazione dell’ordine di
pagamento formulato dal giudice che ne dispone il pagamento
(cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, n. 4571 del 30.09.2015).
La quantificazione di tale somma può essere
effettuata prendendo a fondamento il parametro, individuato
dalla CEDU con riferimento alla commisurazione degli
interessi moratori dovuti dall’Amministrazione per il
ritardo nel pagamento delle somme liquidate, dell’“interesse
semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni
di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea
applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti
percentuali”; ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.,
non è ininfluente nella considerazione della misura del
risarcimento la tempestiva attivazione da parte del
creditore del rimedio dell’ottemperanza; detta misura –e,
quindi, il tasso sopra individuato, da applicare sulla sorte
capitale dovuta a titolo di equa riparazione– dovrà essere
quindi corrisposta, a carico dell’Amministrazione, a far
tempo dalla notificazione o comunicazione della presente
decisione. |
EDILIZIA PRIVATA: L’apprezzamento
dell’organismo territoriale del Mibact, in quanto avente
contenuto tecnico–discrezionale, è assoggettato
esclusivamente a un sindacato giurisdizionale esterno,
svolto nei limiti della verifica della corretta percezione
da parte dell’organo pubblico dei presupposti di fatto del
provvedere, della completezza dell’istruttoria; della
ragionevolezza della scelta compiuta in relazione alla
fattispecie concreta, della adeguata esternazione delle
ragioni della decisione; e che questo giudice d’appello non
può sostituire la propria valutazione a quella rientrante
nei poteri dell’Amministrazione.
---------------
In tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di
trattamento è vizio assai difficilmente riscontrabile,
atteso il giocoforza diverso impatto sul paesaggio di due
progetti, quand’anche simili tra loro.
Tuttavia, non appare inutile soggiungere che:
- sulla contestazione, in sede giudiziale, del parere della
Soprintendenza, in modo condivisibile la sentenza ha
evidenziato come l’interessata avesse inteso contrapporre,
inammissibilmente, una diversa valutazione di merito a
quella della Soprintendenza, puntualmente motivata con
riferimento al pregiudizio arrecato dalle dimensioni
dell’abuso edilizio al contesto panoramico tra la linea di
costa già edificata e l’antistante sistema naturalistico
dunale.
Apprezzamento di merito sindacabile in giustizia
amministrativa solamente per manifesta erroneità o
illogicità, che nella fattispecie non si ravvisano (ex
multis, Cons. Stato, VI, 17.09.2012, n. 4759; 08.05.015,
n. 2675, dove si precisa che l’apprezzamento dell’organismo
territoriale del Mibact, in quanto avente contenuto
tecnico–discrezionale, è assoggettato esclusivamente a un
sindacato giurisdizionale esterno, svolto nei limiti della
verifica della corretta percezione da parte dell’organo
pubblico dei presupposti di fatto del provvedere, della
completezza dell’istruttoria; della ragionevolezza della
scelta compiuta in relazione alla fattispecie concreta,
della adeguata esternazione delle ragioni della decisione; e
che questo giudice d’appello non può sostituire la propria
valutazione a quella rientrante nei poteri
dell’Amministrazione);
- la disparità di trattamento denunciata (v. sopra, p. 4.1.)
non può avere ingresso. Per consolidata giurisprudenza, in
tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di
trattamento è vizio assai difficilmente riscontrabile,
atteso il giocoforza diverso impatto sul paesaggio di due
progetti, quand’anche simili tra loro (Cons. Stato, VI,
13.02.1984, n. 81; 08.08.2000, n. 4345; 24.10.2008, n. 5267;
11.09.2013, n. 4497; 05.03.2014, n. 1059; 01.04.2014, n.
1559; 10.02.2015, n. 718)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.10.2015 n. 4875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Manca
protocollo legalità, esclusione non automatica.
Corte
di giustizia europea sulla legge Severino nelle gare
d'appalto.
L'esclusione da un appalto per il mancato rispetto dei
protocolli di legalità della legge Severino è legittima, ma
non può essere automatica.
È quanto ha affermato la Corte di giustizia europea, X Sez., con la
sentenza 22.10.2015 - C-425/14
rispetto alla compatibilità con il diritto dell'Unione
europea di una disposizione nazionale che consente
l'esclusione delle imprese partecipanti a una gara
nell'ipotesi di mancato deposito della dichiarazione degli
impegni contenuti nei cosiddetti protocolli di legalità.
La
questione si era posta in rapporto all'articolo 1, comma 17,
della legge del 06.11.2012, n.190, recante disposizioni
per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione (la
cosiddetta legge Severino) che prevede che «le stazioni
appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o
lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole
contenute nei protocolli di legalità o nei patti di
integrità costituisce causa di esclusione dalla gara».
Nel caso specifico, due imprese partecipanti alla gara non
avevano depositato, unitamente alla loro offerta, la
dichiarazione di accettazione delle clausole contenute nel
protocollo di legalità. Il Tar della regione Sicilia aveva
rinviato la questione pregiudiziale al giudice europeo sul
presupposto che l'articolo 45 della direttiva 2004/18,
nell'elencare tassativamente le cause di esclusione, non
contiene disposizioni analoghe. Pur prendendo atto che
l'appalto era di importo inferiore alla soglia di
applicazione delle norme europee, il Tar fa presente che la
norma della legge Severino prevedrebbe una deroga alla
tassatività delle cause di esclusione per esigenze
imperative di interesse generale, quali quelle connesse con
l'ordine pubblico e con la prevenzione del crimine, che
sarebbe comunque ammissibile.
La sentenza europea, dopo avere rilevato l'inapplicabilità
della direttive 18/2004 e dopo avere precisato che comunque
agli appalti sotto soglia si applicano le norme fondamentali
e i principi generali del Trattato Fue «purché tali appalti
presentino un interesse transfrontaliero certo» (provato dal
fatto che le ricorrenti sono straniere), ritiene compatibile
con il diritto comunitario la norma italiana.
Per i giudici infatti la previsione della legge Severino non
risulta in contrasto con le norme fondamentali e i principi
generali del Trattato, (principi di parità di trattamento e
di non discriminazione nonché con l'obbligo di trasparenza
ad essi connesso), tuttavia, nei limiti in cui il protocollo
preveda dichiarazioni secondo le quali il candidato o
l'offerente non si trovi in situazioni di controllo o di
collegamento con altri candidati o offerenti, non si sia
accordato e non si accorderà con altri partecipanti alla
gara e non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre
imprese partecipanti alla medesima procedura, l'assenza di
siffatte dichiarazioni non può comportare l'esclusione
automatica del candidato o dell'offerente da detta
procedura.
L'esclusione automatica, infatti, esclude la possibilità per
tali candidati o offerenti di dimostrare l'indipendenza
delle loro offerte ed è quindi in contrasto con l'interesse
dell'Unione europea a che sia garantita la partecipazione
più ampia possibile di offerenti a una gara d'appalto
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Dopo
l'offerta, rien ne va plus.
Limiti delle commissioni giudicatrici.
In una gara di appalto pubblico la commissione giudicatrice
può soltanto chiarire o specificare criteri fissati dal
bando di gara, ma mai scomporre il punteggio in ulteriori
parametri valutativi.
Lo ha affermato il Consiglio di
Stato, Sez. III, nella
sentenza 21.10.2015 n. 4812 rispetto a una gara in
cui prima il responsabile unico del procedimento aveva
fornito dei chiarimenti e, dopo, la commissione giudicatrice
aveva introdotto nuovi parametri di valutazione scaduto il
termine per presentare offerta.
La sentenza precisa innanzitutto il quadro delle prerogative
della stazione appaltante e della commissione che rispondono
all'esigenza di limitare la discrezionalità: compete alla
stazione appaltante fissare nel bando i criteri e
sottocriteri di valutazione qualitativa delle offerte;
spetta invece alla commissione di fissare, prima
dell'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche, «i
criteri motivazionali» cui si atterrà per attribuire a
ciascun criterio e subcriterio di valutazione il punteggio
tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando. Anche il
regolamento attuativo del codice chiarisce (art. 283) che è
la stazione appaltante e non la commissione a dovere
scegliere una delle metodologie indicate, peraltro non
tassativamente, dall'allegato P; mentre la giurisprudenza
non esclude la possibilità per le commissioni di fissare
mere specificazioni o chiarimenti dei criteri già fissati
dal bando.
Nel caso specifico esaminato dai giudici, però, la
commissione giudicatrice ha posto in essere una integrazione
sostanziale del bando e non una mera specificazione
motivazionali: avendo rilevato che il disciplinare di gara
non prevedeva alcuna metodologia per l'attribuzione del
punteggio e non essendo sufficiente il mero rinvio all'art.
83 del codice dei contratti pubblici, in assenza di una
specifica scelta sul metodo concretamente applicabile tra
quelli previsti a titolo esemplificativo nel regolamento di
esecuzione al codice dei contratti pubblici (art. 283,
allegato P del dpr 207/2010), la commissione ha scomposto il
punteggio indicato per ogni sub criterio in due
sottoparametri valutativi, relativi agli aspetti qualitativi
definendo così il metodo di calcolo per l'attribuzione del
corrispondente punteggio numerico.
E questo non poteva essere fatto; dice la sentenza: «È
evidente che la commissione ha operato una scelta
metodologica che competeva, invece, alla stazione appaltante»
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015).
---------------
MASSIMA
2.1. - Il Collegio non condivide le censure.
Nelle gare affidate col criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi del
citato art. 83 del codice dei contratti pubblici, è rimesso
alla stazione appaltante di fissare nel bando i criteri e
sottocriteri di valutazione qualitativa delle offerte.
L’art. 1, comma 1, lett. u) del D.Lgs
152/2008, nel
modificare l’art. 86, comma 4, del codice, a seguito,
peraltro, dell’apertura di infrazione (n. 2007/2309) nei
confronti dell’Italia ad opera della Commissione CE,
ha escluso che la Commissione possa fissare, prima
dell’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche, “i
criteri motivazionali” cui si atterrà per attribuire a
ciascun criterio e subcriterio di valutazione il punteggio
tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando, come era
invece consentito prima della riforma del correttivo al
codice dei contratti.
E ciò allo scopo di limitare al massimo la discrezionalità
delle Commissioni (fino al punto di renderne quasi vincolate
le valutazioni), a garanzia dell’imparzialità e della
trasparenza nelle operazioni di valutazione qualitativa
delle offerte.
Secondo la giurisprudenza comunitaria, infatti,
l'Amministrazione deve individuare criteri specifici
di selezione che siano collegati all'oggetto dell'appalto ed
oggettivamente quantificabili, rispettosi dei principi di
parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità
e trasparenza, e pubblicizzarli nel bando o nei documenti di
gara affinché siano noti a tutti i concorrenti
(cfr. Corte Giust. CE, 17.09.2002, C-513/99, Concordia Bus
Finland).
A conferma di tale volontà legislativa, come ricorda il
primo giudice, il comma 5 dell’art. 83 del codice dei
contratti pubblici stabilisce che per attuare la
ponderazione o, comunque, attribuire il punteggio a ciascun
elemento dell'offerta, le stazioni appaltanti utilizzano
metodologie, stabilite dal regolamento di attuazione del
codice, tali da consentire di individuare con un unico
parametro numerico finale l'offerta più vantaggiosa. A sua
volta, l’art. 283 del regolamento (DPR n. 107/2010) rimette
alla stazione appaltante e non alla Commissione di scegliere
una delle metodologie indicate, non tassativamente,
dall’Allegato P.
In giurisprudenza, tuttavia, fermo il
divieto di fissare nuovi criteri o sub criteri di
valutazione dell'offerta dopo la sua presentazione, non si
esclude la possibilità per le Commissioni di fissare mere
specificazioni o chiarimenti dei criteri già fissati dal
bando (Consiglio
di Stato, sez. V, 18/08/2010, n. 5844).
E’ connaturale al giudizio di merito della
Commissione la presenza di un margine di discrezionalità che
non può essere assorbito in un contesto di criteri e
sub-criteri tale da rendere totalmente vincolato un giudizio
di valutazione (
C.d.S.; III Sez., 23/02/2015, n. 907).
Nella fattispecie, tuttavia, si è trattato di una
integrazione sostanziale del bando e non di una mera
specificazione motivazionale.
Dal verbale n. 34 del 12.06.2014 si evince che la
Commissione, avendo rilevato espressamente che il
disciplinare di gara non prevedeva alcuna metodologia per
l’attribuzione del punteggio e non essendo sufficiente il
mero rinvio all’art. 83 del D.Lgs. 163/2006, in assenza di
una specifica scelta sul metodo concretamente applicabile
tra quelli previsti a titolo esemplificativo nel regolamento
di esecuzione al codice dei contratti pubblici (art. 283,
allegato P del DPR 207/2010), ha ritenuto di scomporre il
punteggio indicato per ogni sub criterio in due
sottoparametri valutativi, relativi agli aspetti qualitativi
–per i quali veniva utilizzata la tabella Giudizio/Peso
dove, in base al giudizio, viene assegnato un punteggio che
va da 0 a 1- e agli aspetti quantitativi -per i quali si
attribuiva il punteggio massimo al miglior valore rilevato
ed alle altre un valore linearmente decrescente-, definendo
così il metodo di calcolo per l’attribuzione del
corrispondente punteggio numerico.
E’ evidente che la Commissione ha operato una scelta
metodologica che competeva, invece, alla stazione
appaltante.
Inoltre, tale scelta è stata compiuta dopo l’apertura delle
offerte tecniche (verbale n. 5 del 15.10.2013) e la
valutazione delle offerte sia dell’appellata (verbale n. 6
del 31.10.2013) che dell’appellante (verbale n. 12 del
12.12.2013).
Tali rilievi sono sufficienti ad inficiare la validità e
correttezza del procedimento, per violazione dell’art. 83,
commi 4 e 5, del codice dei contratti pubblici, a
prescindere dalla prova che l’applicazione di quei criteri
sia stata determinante nell’attribuzione dei punteggi.
Può considerarsi meritevole di tutela
giudiziaria anche il solo interesse strumentale alla
riedizione della procedura comparativa, se sussiste una
ragionevole chance per il concorrente di conseguire
l’aggiudicazione nell’ipotesi di rinnovazione della gara e
sempre che vi sia un interesse connesso ad un indice di
lesività specifico e concreto
(Consiglio di Stato, sez. III, 01/09/2014, n. 4449;
Consiglio di Stato ad. plen. 03/02/2014, n. 8).
3. - Infondato è anche il secondo motivo di appello, con cui
in via subordinata, si deduce l’erroneità della sentenza
nella parte in cui ha ritenuto di annullare l’intera
procedura concorsuale.
In virtù del principio di conservazione dell’effetto utile
degli atti giuridici sarebbe preferibile, secondo le
appellanti, l’annullamento del solo segmento procedimentale
relativo alla valutazione delle offerte tecniche.
Il Collegio ritiene che il principio per cui,
nelle procedure di gara, imparzialità e correttezza
delle operazioni selettive sono garantite dalla fissazione
dei criteri di valutazione discrezionale delle offerte
anteriormente alla conoscenza del contenuto delle medesime,
impone l’annullamento dell’intera procedura e della stessa
lex di gara in parte qua (C.d.S., VI, 04/09/2014, n.
4514). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: La
giurisprudenza amministrativa si è orientata in un senso
estremamente rigoroso e restrittivo nella delimitazione
della detta categoria degli “atti politici”, non
nascondendosi come la previsione legislativa della loro non
impugnabilità si ponga quanto meno come eccezionale e
derogatoria rispetto ai fondamentali principi in materia di
diritto di azione e giustiziabilità delle situazioni
giuridiche soggettive, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost..
In particolare, al di là di ogni analisi della casistica
delle situazioni nelle quali sono state ritenute applicabili
le suindicate previsioni eccezionali, l’indirizzo dominante
àncora la qualificazione di un atto come “atto politico”
alla compresenza di due requisiti:
- il primo a carattere soggettivo, consistente nel
promanare l’atto da un organo di vertice della pubblica
amministrazione, individuato fra quelli preposti
all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica;
- il secondo, a carattere oggettivo, consistente
nell’essere l’atto concernente la costituzione, la
salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella
loro organica struttura e nella loro coordinata
applicazione.
---------------
Gli atti di c.d. ‘alta amministrazione’,
seppur caratterizzati da un'amplissima discrezionalità, in
quanto considerati come anello di collegamento tra indirizzo
politico e attività amministrativa in senso stretto, sono
soggetti al sindacato giurisdizionale.
La differenza sostanziale tra l'atto politico e l'atto di
alta amministrazione sussiste nel fatto che, mentre l'atto
politico è libero nella scelta del fine da realizzare,
l'atto d'alta amministrazione è sempre rivolto alla
realizzazione di un fine già individuato.
---------------
In via prioritaria, dunque, il Collegio si chiede se l’atto
consiliare sia riconducibile alla categoria degli “atti
politici”, per i quali l’art. 7, co. 1, ultimo periodo,
c.p.a. esclude la sindacabilità da parte del giudice
amministrativo.
Al riguardo, è opportuno preliminarmente rammentare come la
giurisprudenza amministrativa si sia orientata in un senso
estremamente rigoroso e restrittivo nella delimitazione
della detta categoria degli “atti politici”, non
nascondendosi come la previsione legislativa della loro non
impugnabilità si ponga quanto meno come eccezionale e
derogatoria rispetto ai fondamentali principi in materia di
diritto di azione e giustiziabilità delle situazioni
giuridiche soggettive, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost..
In particolare, al di là di ogni analisi della casistica
delle situazioni nelle quali sono state ritenute applicabili
le suindicate previsioni eccezionali, l’indirizzo dominante
àncora la qualificazione di un atto come “atto politico”
alla compresenza di due requisiti: il primo a carattere
soggettivo, consistente nel promanare l’atto da un organo di
vertice della pubblica amministrazione, individuato fra
quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa
pubblica; il secondo, a carattere oggettivo, consistente
nell’essere l’atto concernente la costituzione, la
salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella
loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23.01.2007, n. 209; Cons.
Stato, Sez. IV, 12.03.2001, n. 1397; id., 29.02.1996, n. 217).
Ciò detto, appare evidente che nella specie, la
deliberazione in esame appare carente del carattere
oggettivo suddetto.
Ed allora, non rimane che ricondurre il predetto atto
all’alveo degli atti di c.d. ‘alta amministrazione’, che
seppur caratterizzati da un'amplissima discrezionalità, in
quanto considerati come anello di collegamento tra indirizzo
politico e attività amministrativa in senso stretto, sono
soggetti al sindacato giurisdizionale. In tal senso depone
la stessa lettera dell’atto, come di seguito si riporterà.
La differenza sostanziale tra l'atto politico e l'atto di
alta amministrazione sussiste nel fatto che, mentre l'atto
politico è libero nella scelta del fine da realizzare,
l'atto d'alta amministrazione è sempre rivolto alla
realizzazione di un fine già individuato.
Nella specie l’interesse ad agire da parte dei ricorrenti
risulta verificato dall’emanazione del conseguente
provvedimento attuativo di revoca degli atti inerenti alla
procedura d'appalto relativa all'affidamento in concessione
del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani della
Valle d'Aosta, di cui la parte ricorrente era risultata
aggiudicataria provvisoria
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 21.10.2015 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
●
Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
●
L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto;
●
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno
natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in
assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del
territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario e quindi non devono essere
necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del
procedimento;
●
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi
edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del
procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere
abusivo delle medesime;
●
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e
dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e
la partecipazione procedimentale degli interessati.
---------------
Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che,
non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei
procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in
ragione della natura vincolata della relativa attività
repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune
resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta
comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in
ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni
assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L.
07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto
provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto
dispositivo diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Le prime due censure con le quali è dedotta la violazione
degli artt. 7, 10 e ss., L. n. 241 del 1990 e succ. modif. e
int., la violazione del giusto procedimento, di correttezza
e di buon andamento dell’azione amministrativo, oltre
all’eccesso di potere per difetto di istruttoria, sì come
afferenti ad un unico iter logico-argomentativo, possono
trattarsi congiuntamente e sono entrambe infondate.
Al riguardo parti ricorrenti lamentano di essere stati
impediti nella effettiva esplicazione del diritto di
partecipazione procedimentale ed, in particolare della
possibilità di prendere visione degli atti del procedimento
e di presentare memorie scritte e documenti, ai sensi
dell’art. 10, L. n. 241/1990, per essere stata la
comunicazione di avvio del procedimento loro notificata il
27.04.2008 mentre l’ordinanza di demolizione sarebbe stata
emanata già il giorno seguente, senza neppure il rispetto
del termine, comunque incongruo (per la giurisprudenza non
potendo essere inferiore a dieci giorni), di giorni 7,
fissato nello stesso avviso dell’Autorità procedente.
La censura è infondata.
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente e
condivisa dal Collegio rileva che: <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto
vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII,
05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo
per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un
mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR
Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di
demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento e la
partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che,
non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei
procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in
ragione della natura vincolata della relativa attività
repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune
resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta
comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in
ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni
assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L.
07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto
provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto
dispositivo diverso da quello in concreto adottato (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 20.10.2015 n. 4904 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nella situazione di parziale difformità delle
opere realizzate rispetto ai permessi di costruire in
precedenza rilasciati e quindi da considerare non presidiate
dal corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del
D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi
originariamente per la disporre una preventiva irrogazione
di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere
applicata, in alternativa alla riduzione in pristino
unicamente allorquando, in sede di esecuzione della
demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente
possibile eliminare le parti difformi della struttura senza
compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del
fabbricato.
---------------
►
In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”;
►
In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto
vincolato il quale non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
►
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività
edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica,
ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto,
l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare;
►
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del
2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su
beni vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato.
---------------
A prescindere che nessuna norma prevede che il provvedimento
di riduzione al pristino lo stato dei luoghi debba contenere
l’indicazione della data di realizzazione degli abusi, la
natura “permanente” dell’illecito urbanistico rende
irrilevante l’epoca della realizzazione degli stessi attesa
la sussistenza dell’interesse pubblico in re ipsa alla
reintegrazione dell’ordine urbanistico violato nel momento
in cui le violazioni vengono accertate dall’Autorità
urbanistica.
---------------
Con la quarta censura è dedotta la violazione di legge e
l’eccesso di potere (per manifesta ingiustizia,
contraddittorietà, illogicità), in quanto l’Amministrazione
procedente, nel considerare le opere parzialmente difformi
dai titoli abilitativi, non avrebbe tenuto conto di tutti
gli aspetti funzionali, pregiudizievoli per la restante
struttura (comunque ritenuta regolare e legittima), che
potrebbero scaturire dalla demolizione come sanzione
principale rispetto alla subordinata sanzione pecuniaria.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Invero, nella situazione di parziale difformità delle opere
realizzate rispetto ai permessi di costruire in precedenza
rilasciati e quindi da considerare non presidiate dal
corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del
D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi
originariamente per la disporre una preventiva irrogazione
di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere
applicata, in alternativa alla riduzione in pristino -come
peraltro implicitamente ammesso anche dai ricorrenti-
unicamente allorquando, in sede di esecuzione della
demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente
possibile eliminare le parti difformi della struttura senza
compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del
fabbricato.
...
Con la sesta censura si deduce la violazione di legge e
l’eccesso di potere per carenza di motivazione e di
istruttoria, atteso che, nell’emanazione dell’atto impugnato
l’Amministrazione procedente non avrebbe effettuato
un’adeguata comparazione tra sacrifici imposti ai privati
incisi e finalità di interesse pubblico perseguito dalla
medesima, non valutando l’esistenza di un pubblico interesse
concreto alla demolizione delle opere edilizie abusive, non
bastando il mero accertamento dell’abusività della
costruzione.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Secondo quanto in precedenza statuito da questa Sezione: <<In
tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”>> (TAR
Campania, sez. III, 03.02.2015, n. 634) ed una siffatta
impostazione consegue a pacifica giurisprudenza, per la
quale: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di
demolizione è atto vincolato il quale non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che
il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR
Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR
Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione
di opere abusive, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V,
11.06.2013, n. 3235); infine: <<La norma di cui all’art.
27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla
repressione di abusi su beni vincolati, non appare
contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto
l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e
paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a
distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa
alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la
preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della
permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del
bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n.
4745).
...
Con l’ottava censura si deduce la violazione di legge,
l’eccesso di potere, il difetto di istruttoria e di
motivazione, non contenendo l’impugnata ordinanza di
demolizione l’indicazione circa l’epoca di costruzione degli
abusi riscontrati.
Tale censura non ha miglior sorte delle precedenti in
quanto, a prescindere che nessuna norma prevede che il
provvedimento di riduzione al pristino lo stato dei luoghi
debba contenere l’indicazione della data di realizzazione
degli abusi, la natura “permanente” dell’illecito
urbanistico rende irrilevante l’epoca della realizzazione
degli stessi attesa la sussistenza dell’interesse pubblico
in re ipsa alla reintegrazione dell’ordine
urbanistico violato nel momento in cui le violazioni vengono
accertate dall’Autorità urbanistica; nella fattispecie deve
altresì rilevarsi che le opere sono state ingiunte di
demolizione non in quanto prive di permesso di costruire, ma
in quanto realizzate in maniera (parzialmente) difforme
rispetto ai pregressi titoli abilitativi, per modo che la
datazione degli abusi è, in ogni caso, necessariamente da
collocare in epoca successiva al rilascio dei permessi di
costruire (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 20.10.2015 n. 4904 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Attestato di sopralluogo ed ATI.
Questa Sezione, nel caso di offerta presentata da
raggruppamento di imprese, ha già avuto modo di precisare
che:
- “l’obbligo di eseguire il sopralluogo posto a carico dei
soggetti partecipanti, non può che riferirsi al concorrente
singolo ovvero a ciascun concorrente che costituisce o
costituirà il raggruppamento di impresa”;
- pertanto “l’attestato di sopralluogo, la cui mancata
allegazione determina l’esclusione, deve riferirsi a tutte
le imprese partecipanti, e non solo alla mandataria”.
---------------
1.4- Fondato è invece il motivo d’appello che avversa il
rigetto della censura che sostiene la necessità di un
sopralluogo congiunto ed effettivo da parte di entrambe le
imprese costituenti il raggruppamento.
Nella fattispecie questa tesi si contrappone a quanto
ritenuto dal TAR e cioè:
- “La lex specialis si limitava a sanzionare con
l’esclusione unicamente la mancata presentazione
dell’attestato di presa visione dei luoghi (pag. 3 del bando
e punto 10 delle norme di gara), senza alcuna previsione in
ordine alla necessità che il sopralluogo venisse effettuato
da parte di tutti i componenti del raggruppamento”;
- in via subordinata, non sussiste la violazione da parte
della lex specialis dell’art. 106, comma 2, del
d.p.r. 05.10.2010, n. 207, in quanto, da tale norma “non
si evince la obbligatorietà del sopralluogo da parte di
tutte le imprese facenti parti del raggruppamento
(costituito o costituendo)", quanto la necessità della “dichiarazione
con la quale i concorrenti attestano di essersi recati sul
luogo di esecuzione dei lavori”.
L’appellata La. supporta questa tesi evidenziando che
comunque l’adempimento in questione non era dal Bando
sanzionato con l’esclusione, e che questa non è prevista
dall’art. 106 del regolamento sui contratti.
Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento espresso
dall’appellante.
In primo luogo va confermato che il bando di gara faceva in
effetti obbligo ai “soggetti partecipanti” di
effettuare il sopralluogo e di inserire la conseguente
attestazione nella busta “A” a pena di esclusione. Inoltre,
questa Sezione, nel caso di offerta presentata da
raggruppamento di imprese, ha già avuto modo di precisare
(Cons. di Stato, sez. IV, n. 744/2014) che:
- “l’obbligo di eseguire il sopralluogo posto a carico
dei soggetti partecipanti, non poteva che riferirsi al
concorrente singolo ovvero a ciascun concorrente che
costituisce o costituirà il raggruppamento di impresa”;
- pertanto “l’attestato di sopralluogo, la cui mancata
allegazione determina l’esclusione, deve riferirsi a tutte
le imprese partecipanti, e non solo alla mandataria”.
Si tratta, in altri termini, di osservare un obbligo di
esibizione documentale, ma che ha anche una valenza
sostanziale, dovendosi attestare l’effettuazione del
sopralluogo diretto da parte dei soggetti offerenti.
D’altra parte va sottolineato come questo orientamento
appare in piena consonanza col fatto che nel contratto di
appalto integrato dalla progettazione l’offerta attiene
anche a quest’ultima, sicché appare logico che lo strumento
del sopralluogo diretto sia obbligatorio, perseguendo il
fine di far conseguire agli offerenti, nel pubblico
interesse al miglior esito della procedura, le informazioni
sul bene che lo riguarda e tramite queste predisporre
un’offerta più aderente alle necessità dell’appalto.
1.5.- Conclusivamente, in relazione a quanto testé
osservato, l’appello è meritevole di accoglimento, con
conseguente annullamento dell’aggiudicazione al
raggruppamento Lattanzi.
2.- Le questioni testé vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione relativamente alla domanda di
annullamento dell’aggiudicazione, essendo stati toccati
tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in
aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il
chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza
costante, ex plurimis, per le affermazioni più
risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e,
per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V,
16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso (Cons. di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.10.2015 n. 4778 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Si è affermato:
- che in materia di immissioni, mentre è
illecito il superamento dei livelli di accettabilità
stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando
le attività produttive, fissano nell'interesse della
collettività le modalità di rilevamento dei rumori ed i
limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli
stessi non può fare considerare senz'altro lecite le
immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità
formularsi in concreto alla stregua dei principi di cui
all'art. 844 c.c.;
- che alla materia delle immissioni sonore
o da vibrazioni o scuotimenti atte a turbare il bene della
tranquillità nel godimento degli immobili adibiti ad
abitazione non è applicabile la L. 26.10.1995, n. 447,
sull'inquinamento acustico, poiché tale normativa, come
quella contenuta nei regolamenti locali, persegue interessi
pubblicistici disciplinando, in via generale ed assoluta, e
nei rapporti c.d. verticali fra privati e la p.a., i livelli
di accettabilità delle immissioni sonore al fine di
assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi
di quiete;
- che la disciplina delle immissioni
moleste in alieno nei rapporti fra privati va sempre
rinvenuta nell'art. 844 c.c., sulla cui base, quand'anche
dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme
di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro
tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento
del giudice, che tenga conto di tutte le peculiarità della
situazione concreta: analogamente è a dire per la normativa
secondaria e regolamentare di attuazione la quale, nel
determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i
limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose,
non può per sua natura che perseguire finalità meramente
esecutive di carattere pubblicistico, così incidendo sui
soli rapporti fra i privati e la p.a.; sicché i limiti
tecnici in essa contenuti non escludono l'applicabilità
dell'art. 844 c.c., nei rapporti tra i proprietari di fondi
vicini.
Va inoltre
ribadito che la valutazione imposta
al giudice ex art. 844 c.c., risponde -nel contemperamento
delle esigenze della produzione con le ragioni della
proprietà- alla tutela di preminenti diritti di rilievo
costituzionale, come quello alla salute ed alla qualità
della vita.
---------------
In sede di risarcibilità del pregiudizio per immissioni che
superino la soglia di tollerabilità, la lesione del diritto
al normale svolgimento della vita familiare all’interno
della propria casa di abitazione e del diritto alla libera e
piena esplicazione delle proprie abitudini sono pregiudizi
che, pur non risultando integrato un danno biologico,
risultano comunque apprezzabili in termini di danno non
patrimoniale.
---------------
La ricorrente
ritiene di aver subito una ingiustificata condanna, che l'ha
condotta alla cessazione di una attività regolarmente
autorizzata dalle autorità amministrative comportandole un
cospicuo danno, a seguito della errata interpretazione ed
applicazione, da parte del giudice di merito, della
normativa sull'inquinamento acustico e pur avendo mantenuto
le immissioni di rumore che provenivano dagli impianti di
amplificazione della società (che somministrava
intrattenimento notturno in luoghi aperti) all'interno della
soglia dei 40 decibel, e comunque ad un livello inidoneo a
ledere la salute di alcuno.
Sviluppa le sue lagnanze in cinque motivi, che appaiono
complessivamente inidonei ad indurre ad una cassazione della
sentenza impugnata.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce
l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa
un punto decisivo della controversia, ovvero
sull'appartenenza alla classe VI di zonizzazione acustica
del terreno su cui sorge l'immobile in cui la Flex era stata
autorizzata a svolgere la propria attività; denuncia anche
la violazione di legge in riferimento alla legge n. 447 del
1995, al D.P.C.M. 14.11.1997, nonché all'art. 844 commi 1 e
2 c.c..
Quanto al denunciato vizio di motivazione, la ricorrente
lamenta che la corte d'appello non abbia tenuto in alcun
conto il fatto che, con una sentenza del TAR del 2008
provocata da un ricorso della stessa Flex, l'area dove
esiste la struttura gestita dalla ricorrente sia stata
considerata come "facente parte dell'area industriale ed
inseribile pertanto in classe VI", ovvero nella zona a
vocazione esclusivamente industriale, anziché area
prevalentemente industriale (classe V), come era stata
classificata erroneamente in precedenza dal Comune con
provvedimento annullato dal tribunale amministrativo.
I controricorrenti sul punto precisano che effettivamente la
delibera comunale che adottava il piano di zonizzazione
acustica è stata annullata, con la sentenza del TAR
Lombardia n. 5234 del 2008 citata dalla ricorrente.
Pertanto, evidenziano che allo stato non esiste più alcun
piano di zonizzazione e si applicano le norme ordinarie per
individuare se sia avvenuto o meno il superamento della
tollerabilità delle immissioni.
Il motivo è infondato.
La censura non è mossa adeguatamente, senza riportare né
indicare i passi della sentenza in cui la motivazione sia
inficiata dalla omessa considerazione della pronuncia del
TAR. A ciò si aggiunga che, in base a quanto riportato dalla
stessa ricorrente, la pronuncia del giudice amministrativo
ha annullato in quanto illegittimo il piano di
classificazione acustica adottato nel 2003 dal Comune
intimato, laddove qualificava il territorio ove veniva
svolta l'attività di intrattenimento musicale della
ricorrente come riconducibile alla zona n. V, a prevalente
(e non esclusiva) vocazione industriale, ma non ha
provveduto neppure nominando a ciò un commissario ad acta,
ad un diverso classamento che abbia effettivamente
attribuito all'area vocazione esclusivamente industriale. Il
fatto decisivo, consistente nella riconducibilità del luogo
ove sorge l'attività ad una diversa zona, non è neppure
provato quindi nella sua esistenza storica.
Quanto alla denunciata violazione di legge, essa non
sussiste.
La sentenza impugnata appare aver fatto corretta
applicazione della normativa vigente in materia di
immissioni acustiche, laddove ha ricordato che
sussistono due livelli di tutela di fronte
all'immissione rumorosa, da una parte il regime
amministrativo deputato alla P.A. (disciplinato dalla legge
n. 447 del 1995 e dal D.P.C.M. del 1997) e dall'altro
vigono i principi civilistici che regolano i rapporti tra
privati riconducibili nell'ambito del codice agli artt. 844
e 2043 c.c., dotati di fondamento costituzionale e
comunitario.
Correttamente la corte d'appello, ha ritenuto che
l'eventuale rispetto da parte della ricorrente della
normativa pubblicistica contenuta nel DPCM 14.11.1997 non
faccia venir meno la possibilità che essa possa esser
ritenuta responsabile sotto il profilo civilistico, in caso
di violazione dei sopra ricordati artt. 844 e 2043 c.c.
laddove sia riscontrato, come accertato dal consulente
tecnico, che vi siano state ripetute immissioni sonore in
orario dedicato al riposo notturno che superavano i tre dB(A)
Leq di rumore di fondo, soglia fissata da un consolidato
orientamento giurisprudenziale come tetto massimo di
tollerabilità in orario notturno.
Questa Corte ha avuto infatti più volte modo di affermare,
con affermazioni rispetto alle quali non vi è ragione di
discostarsi, che nell'ambito, non già della
tutela della quiete pubblica ovvero del rapporto tra privati
e PA, bensì dei rapporti tra privati, l'osservanza delle
normative tecniche speciali, quali quelle qui invocate, non
è dirimente nell'escludere l'intollerabilità delle
immissioni (v. da
ultimo Cass. n. 8474 del 2015); che la
fattispecie deve essere vagliata secondo l'ordinario
criterio di cui alla disposizione generale dell'art. 844
cit., nel senso che il superamento della soglia codicistica
di tollerabilità delle immissioni ben può essere riscontrata
pur nell'accertato rispetto dei limiti di cui alla normativa
tecnica.
Si è in proposito affermato (Cass. n. 1151 del 2003; Cass.
n. 1418 del 2006; Cass. n. 939 de12011; Cass. n. 17051 del
2011 e, più recentemente, in materia di rumorosità da
sorvolo aereo: Cass. n. 15233 del 2014) che:
- in materia di immissioni, mentre è
illecito il superamento dei livelli di accettabilità
stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando
le attività produttive, fissano nell'interesse della
collettività le modalità di rilevamento dei rumori ed i
limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli
stessi non può fare considerare senz'altro lecite le
immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità
formularsi in concreto alla stregua dei principi di cui
all'art. 844 c.c.;
- che alla materia delle immissioni sonore
o da vibrazioni o scuotimenti atte a turbare il bene della
tranquillità nel godimento degli immobili adibiti ad
abitazione non è applicabile la L. 26.10.1995, n. 447,
sull'inquinamento acustico, poiché tale normativa, come
quella contenuta nei regolamenti locali, persegue interessi
pubblicistici disciplinando, in via generale ed assoluta, e
nei rapporti c.d. verticali fra privati e la p.a., i livelli
di accettabilità delle immissioni sonore al fine di
assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi
di quiete;
- che la disciplina delle immissioni
moleste in alieno nei rapporti fra privati va sempre
rinvenuta nell'art. 844 c.c., sulla cui base, quand'anche
dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme
di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro
tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento
del giudice, che tenga conto di tutte le peculiarità della
situazione concreta: analogamente è a dire per la normativa
secondaria e regolamentare di attuazione la quale, nel
determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i
limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose,
non può per sua natura che perseguire finalità meramente
esecutive di carattere pubblicistico, così incidendo sui
soli rapporti fra i privati e la p.a.; sicché i limiti
tecnici in essa contenuti non escludono l'applicabilità
dell'art. 844 c.c., nei rapporti tra i proprietari di fondi
vicini.
Va inoltre ribadito che la valutazione
imposta al giudice ex art. 844 c.c., risponde -nel
contemperamento delle esigenze della produzione con le
ragioni della proprietà- alla tutela di preminenti diritti
di rilievo costituzionale, come quello alla salute ed alla
qualità della vita.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la
violazione e falsa applicazione dell'art. 6-ter inserito
dalla legge di conversione 27.2.2009, n. 13 nel testo del
d.l. 30.12.2008 n. 208, che così recita: Art. 6-ter. -
(Normale tollerabilità delle immissioni acustiche). 1.
Nell'accertare la normale tollerabilità delle immissioni e
delle emissioni acustiche, ai sensi dell'articolo 844 del
codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni
di legge e di regolamento vigenti che disciplinano
specifiche sorgenti e la prioritari di un determinato uso.
La ricorrente sostiene che con questo articolo, in materia
di immissioni ed emissioni acustiche, il legislatore ha
superato tutto il dibattito dottrinario e giurisprudenziale
e i criteri elaborati dalla giurisprudenza a tutela del
privato a fronte delle immissioni, chiarendo definitivamente
che i valori limite da rispettare sono semplicemente ed
unicamente, senza alcuna differenziazione tra tutela
privatistica ed amministrativa, quelli indicati dal D.P.C.M.
19.11.1997. Ritiene che, trattandosi di norma di
interpretazione autentica, essa sia immediatamente
applicabile al caso di specie.
Il motivo è infondato.
La normativa in questione, diversamente da quanto opinato
dalla Corte d'appello (e quindi intervenendo a correggere
sul punto la motivazione) potrebbe anche essere ritenuta
immediatamente applicabile in quanto, benché costituisca
ius superveniens, sembra esprimere un portato di
interpretazione autentica, argomentabile dal riferimento
alle disposizioni di legge e ai regolamenti vigenti.
Tuttavia, come già osservato da Cass. n. 8474 del 2015,
valorizzando anche le affermazioni della Corte
costituzionale che si è già espressa sulla conformità della
disciplina stessa ai principi costituzionali, alla norma
deve necessariamente data una interpretazione
costituzionalmente orientata, e non necessariamente
derogatoria del principio di accertamento in concreto della
normale tollerabilità da parte del giudice, tenuto anche
conto del principio generale per cui "il
limite della tutela della salute è da ritenersi ormai
intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei
rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione
costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi
prevalente, rispetto alle esigenze della produzione, il
soddisfacimento ad una normale qualità della vita"
(Cass. n. 5564 dell'08.03.2010).
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 103 del 2011 con
la quale ha ritenuto inammissibile la questione di
legittimità costituzionale su di essa dedotta, ha affermato
proprio che dal solo dettato dell'art. 6-ter cit. non può
aprioristicamente evincersi una portata derogatoria e
limitativa dell'art. 844 c.c., senza prima tentare di
sperimentare diverse interpretazioni idonee a preservare la
norma stessa dai sollevati profili di denunciata
incostituzionalità.
Aggiunge che alla assai generica locuzione "sono fatte
salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento
vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità
di un determinato uso", contenuta nella norma in esame,
non debba necessariamente riconoscersi una portata
derogatoria rispetto alla disciplina codicistica in tema di
immissioni.
Nell'identificare il significato della norma e nel vagliare
l'eventuale influenza di tale clausola di salvezza rispetto
ai criteri civilistici di accertamento del limite della
normale tollerabilità delle immissioni acustiche il giudice
delle leggi segnala che non si possa
prescindere dal criterio guida della protezione del diritto
alla salute (al
quale si aggiunge, come meglio si vedrà in riferimento al
motivo n. 5 del presente ricorso, la necessità di tutelare
il diritto al rispetto della vita privata e familiare,
imposto dall'art. 8 Cedu); sulla base,
però, non già del mero rispetto di un limite tabellare
assoluto, bensì della concreta incidenza (id est:
tollerabilità) delle immissioni nello specifico e mutevole
contesto della loro manifestazione, così come imposto
dall'ormai consolidata interpretazione, giurisprudenziale
dell'art. 844 c.c., disposizione che lo stesso art. 6-ter
prevede che continui ad essere applicata.
Pertanto, anche a seguito dell'entrata in
vigore dell'art. 6-ter, mantiene la sua attualità l'ormai
pacifico orientamento di legittimità che differenzia -quanto
ad oggetto, finalità e fera di applicazione- la
disciplina contenuta nel codice civile dalla normativa di
diritto pubblico.
...
Infine, con il quinto ed ultimo motivo la ricorrente
denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt.
2056, 2059, 1223 e 1226 c.c. in punto di mancanza di nesso
causale tra le immissioni ed il danno lamentato dagli attori
e ad essi liquidato, nonché la presenza del vizio
motivazionale sotto ogni sua possibile prospettazione in
ordine alla risarcibilità del danno esistenziale (domanda
formulata in via subordinata rispetto alla domanda
principale di risarcimento del danno biologico).
Sostiene che, avendo la corte d'appello escluso in concreto
un danno alla salute a carico di tutti gli attori (tranne
che nei confronti di Da.Re., nei riguardi della quale ha
confermato il riconoscimento di un modesto danno biologico,
quantificato in 1500 euro per l'accertamento dell'esistenza
di emicranie ricorrenti), non avrebbe dovuto essere
liquidato il danno esistenziale.
La sentenza impugnata,
laddove ha liquidato una modesta cifra in favore di ciascun
attore per un preteso danno esistenziale pur avendo escluso
la configurabilità di un pregiudizio alla salute di essi, si
porrebbe in contrasto con il recente quanto consolidato
orientamento giurisprudenziale, che ha trovato la sua prima
ed incisiva espressione nella sentenza delle Sezioni Unite
n. 26972 del 2008, che ha posto un limite alla duplicazione
delle voci di danno risarcibile ed alla risarcibilità dei
danni bagatellari.
Il motivo è infondato.
E' ben vero che la Corte ha inteso in
questi ultimi anni ridisegnare l'area del danno non
patrimoniale risarcibile espungendone i pregiudizi
inconsistenti che avevano trovato occasionalmente tutela nei
giudizi di merito pur non potendo assurgere a lesioni
meritevoli di tutela e le duplicazioni ingiustificate delle
voci di danno.
Da ciò non si può far discendere però, quale automatica
conseguenza, la conclusione per cui il danno non
patrimoniale sarebbe risarcibile soltanto qualora ad esso si
associ una lesione del diritto alla salute ovvero un vero e
proprio danno biologico.
La stessa sentenza n. 26972 del 2008 ha chiarito che
il danno alla qualità dell'esistenza trova tutela
soltanto quando esso si verifichi in conseguenza della
lesione di un diritto costituzionalmente garantito
(escludendo in tal modo i danni bagatellari) con ciò non
precludendo però la strada alla possibilità di porre a
fondamento della risarcibilità del danno non patrimoniale un
diritto fondamentale diverso rispetto al diritto alla salute
(e alla lesione di interessi costituzionalmente protetti,
quali l'inviolabilità del domicilio e la tutela della
famiglia fa riferimento la sentenza impugnata).
Proprio in tema di risarcibilità del pregiudizio per
immissioni che superino la soglia di tollerabilità, questa
Corte ha più volte affermato già in passato che
pur quando non risulti integrato un danno biologico,
la lesione del diritto al normale svolgimento della vita
familiare all'interno della propria casa di abitazione e del
diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie
abitudini di vita quotidiane sono pregiudizi apprezzabili in
termini di danno non patrimoniale
(v. Cass. n.7875 del 2009).
Cass. n. 26899 del 2014 ha affermato che
l'accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili
può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e
alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può
essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni
sulla base delle nozioni di comune esperienza
(nella specie, le immissioni sonore -costituite da musica ad
alto volume e altri schiamazzi "clamorosamente eccedenti
la normale tollerabilità" in orario serale e notturno-
avevano determinato una lesione, non futile, al diritto al
riposo notturno per un periodo di almeno tre anni).
A ciò deve aggiungersi che il diritto al
rispetto della propria vita privata e familiare è uno dei
diritti protetti dalla Convenzione europea dei diritti umani
(art. 8). La Corte di Strasburgo ha fatto più volte
applicazione di tale principio anche a fondamento della
tutela alla vivibilità dell'abitazione e alla qualità della
vita all'interno di essa, riconoscendo alle parti
assoggettate ad immissioni intollerabili un consistente
risarcimento del danno morale, e tanto pur non sussistendo
alcuno stato di malattia.
La Corte ha più volte condannato, per violazione dell'art.
8, gli Stati che, in presenza di livelli di
rumore significantemente superiori al livello massimo
consentito dalla legge, non avessero adottato misure idonee
a garantire una tutela effettiva del diritto al rispetto
della vita privata e familiare
(sentenza Deés v. Ungheria del 9.11.2010; sentenze Uluic' v.
Cronia, n. 61260 del 2008, (§§ da 48 a 66) e Moreno Gómez v.
Spagna, n. 4143/02 ( §§ da 57 a 63).
A seguito della c.d. "comunitarizzazione" della Cedu,
conseguente all'approvazione del trattato di Lisbona,
il giudice interno che abbia a trattare casi di
immissioni non può non conformarsi anche ai criteri
elaborati in seno al sistema giuridico della Convenzione. In
ragione di tale nuova prospettiva giuridica di riferimento
esce rafforzata dal fondamento normativo costituito
dall'art. 8 Cedu la risarcibilità del danno non patrimoniale
conseguente ad immissioni illecite anche a prescindere dalla
sussistenza di un danno biologico documentato.
Il ricorso va pertanto rigettato (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 16.10.2015, n. 20927). |
LAVORI PUBBLICI:
Per l'ipotesi di mancata tempestiva
contabilizzazione dei lavori, gli interessi di cui all'art.
35 del D.P.R. n. 1063 del 1962, competono, secondo la
disciplina riassunta a seguire, a decorrere dalla data in
cui la contabilizzazione stessa avrebbe dovuto aver luogo
non già secondo uno schema astratto, come pretende la
ricorrente (che invoca, a tal fine, il criterio della media
ponderale), ma in relazione al concreto atteggiarsi
dell'appalto stesso, quale risultante dalle attestazioni
contenute nei registri di contabilità.
Invero, il dPR n. 1063 del 1962,
al tempo vigente, prevede, al capo
III, intitolato "pagamenti all'appaltatore" all'art. 33,
comma 1, che, nel corso dell'esecuzione dei lavori,
competono all'appaltatore, sulla base dei dati risultanti
dai documenti contabili, pagamenti in acconto "nei termini o
nelle rate stabilite nel capitolato speciale ed a misura
dell'avanzamento dei lavori regolarmente eseguiti".
Il comma 2 del menzionato art. 33 dispone che i certificati
di pagamento devono essere emessi "non appena sia scaduto il
termine ... o appena raggiunto l'importo prescritto per
ciascuna rata, e in ogni caso non oltre 45 giorni dal
verificarsi delle circostanze previste nel comma
precedente".
Il successivo art. 35 prevede, al comma 1, che, in caso in
cui il certificato di pagamento non sia emesso "per mancata
tempestiva contabilizzazione dei lavori o per qualsiasi
altro motivo attribuibile all'amministrazione entro i
termini di cui al secondo comma del precedente art. 33",
l'appaltatore ha diritto agli interessi ivi previsti, ed al
comma 2 disciplina gli interessi dovuti per il ritardo
nell'emissione del titolo di spesa in riferimento
all'emissione del certificato di acconto.
---------------
1. Col primo motivo, la ricorrente lamenta che l'impugnata
sentenza ha ritenuto insussistente il suo diritto agli
interessi
moratori in violazione degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n.
1063 del
1962; 4, co. 1, della L n. 741 del 1981; 54, 57 e 58 del RD
n. 350
del 1895; 165, 168 e 169 del dPR n. 554 del 1999; 1219 co. 2
n. 3,
1224 e 1227 cc; 270 RD n. 827 del 1924.
La ricorrente
afferma
che, in base alle disposizioni del Capitolato Generale del
1962,
applicabile ratione temporis, nell'ipotesi in cui "il
certificato di
pagamento ed il mandato di pagamento siano ritardati in
conseguenza di mancata tempestiva contabilizzazione dei
lavori
rispetto alla data di maturazione della rata, spettano
all'appaltatore gli interessi legali e di mora di cui agli
artt. 35 e 36 del Capitolato Generale. Detti interessi
devono esser computati
con riguardo alle date nelle quali il certificato di
pagamento e il
mandato di pagamento avrebbero dovuto essere emanati avendo
riguardo non alla data dell'effettiva contabilizzazione dei
lavori
da parte del DL, ma alla data in cui questi avrebbe dovuto
provvedervi in relazione alla maturazione della rata, a
misura
dell'avanzamento dei lavori eseguiti, secondo le convenzioni
di
contratto o di capitolato speciale. Il credito
dell'appaltatore agli
interessi conseguiti da ritardata contabilizzazione dei
lavori ....
non è condizionato alla messa in mora della DL da parte
dello
stesso appaltatore, per la contabilizzazione dei lavori
relativi alla
rata maturata né all'onere della iscrizione, sempre da parte
dell'appaltatore, di riserva nel registro di contabilità".
2. Col secondo motivo, si deduce, sotto altro profilo, la
violazione degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del
1962; 4, co.
1, della L. n. 741 del 1981, nonché degli artt. 1218, 1219,
1277 e
1655 cc, per avere la Corte d'Appello ritenuto che il debito
dell'Amministrazione per il ritardo nella liquidazione,
contrattualmente obbligatoria, costituisca un debito di
valore, in
quanto tale, produttivo di interessi moratori a seguito
dell'applicazione dei principi generali in tema
d'inadempimento.
La ricorrente afferma, per contro, che il debito per il
corrispettivo
dell'appalto costituisce per sua natura un debito di valuta,
e che,
ad ogni modo, nel sistema del Capitolato generale il debito
è
produttivo d'interessi senza necessità di costituzione in
mora, né quanto alla contabilizzazione dei lavori, e cioè
alla liquidazione,
né quanto al pagamento.
3. Con il terzo mezzo, la ricorrente lamenta la violazione
degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 4, co. 1,
della L.
n. 741 del 1981; 57 e 58 del RD n. 350 del 1895, oggi 168 e
169
del dPR n. 554 del 1999, 1218 cc, oltre che dei principi
generali
in tema di responsabilità per inadempimento delle
obbligazioni.
La necessità d'indagare sulla sussistenza o meno della
responsabilità della Stazione appaltante nel ritardo della
contabilizzazione dei lavori, non tiene conto del fatto che
nella
disciplina di Capitolato, art. 35, tale responsabilità è
presunta, de
iure, a carico dell'Amministrazione, sicché l'appaltatore,
per
conseguire gli interessi, non è tenuto a dare la prova che
il ritardo
sia ad essa imputabile, essendo piuttosto la committente
onerata
di fornire la prova che l'inadempimento è dipeso da fatto
non a lei
non imputabile.
4. Col quarto motivo, si deduce la violazione degli artt.
33,
35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 3, 13, 14, 38 e segg. del
RD n.
350 del 1895, oggi 123, 124, 128, 152 e segg. del dPR n. 554
del
1999, 1218 cc, per avere la Corte addossato ad essa impresa
l'onere, inesistente, di sollecitare la redazione del SAL,
attività
che costituisce, invece, l'oggetto di preciso dovere del DL,
non
appena raggiunto l'importo prescritto.
5. Con il quinto mezzo, la ricorrente lamenta la violazione
degli artt. 33, 35, e 36 del dPR n. 1063 del 1962; 4, co. 1,
della L. n. 741 del 1981; 57 e 58 del RD n. 350 del 1895,
oggi 168 e 169
del dPR n. 554 del 1999, 1 della L n. 463 del 1964, per
avere la
Corte territoriale ritenuto erroneo il riferimento al
criterio medio
ponderale operato nella ricostruzione dei tempi
d'avanzamento
dei lavori, senza considerare che il predetto metodo era
proprio
quello utilizzato dal Comune committente per il calcolo
della
revisione prezzi, che avrebbe, perciò, potuto essere
applicato in
via analogica.
6. Disattesa l'eccezione d'inammissibilità del ricorso, che
contiene tutti gli elementi idonei a far comprendere alla
Corte i
necessari dati di fatto, i motivi, da valutarsi
congiuntamente per la
loro connessione, sono infondati, anche se va in parte
corretta la
motivazione.
7. Il dPR n. 1063 del 1962
di cui nessuna delle parti ha contestato l'applicabilità ai
vari contratti d'appalto cui si riferiscono gli interessi
richiesti ed era, al tempo, vigente,
prevede, al capo III, intitolato "pagamenti
all'appaltatore" all'art. 33, comma 1, che, nel corso
dell'esecuzione dei lavori, competono all'appaltatore, sulla
base dei dati risultanti dai documenti contabili, pagamenti
in acconto "nei termini o nelle rate stabilite nel
capitolato speciale ed a misura dell'avanzamento dei lavori
regolarmente eseguiti".
Il comma 2 del menzionato art. 33 dispone che i certificati
di pagamento devono essere emessi "non appena sia scaduto
il termine ... o appena raggiunto l'importo prescritto per
ciascuna rata, e in ogni caso non oltre 45 giorni dal
verificarsi delle circostanze previste nel comma precedente".
Il successivo art. 35 prevede, al comma 1, che, in caso in
cui il certificato di pagamento non sia emesso "per
mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori o per
qualsiasi altro motivo attribuibile all'amministrazione
entro i termini di cui al secondo comma del precedente art.
33", l'appaltatore ha diritto agli interessi ivi
previsti, ed al comma 2 disciplina gli interessi dovuti per
il ritardo nell'emissione del titolo di spesa in riferimento
all'emissione del certificato di acconto.
8. Il pagamento in conto, finalizzato ad evitare lunghe
anticipazioni finanziarie a carico dell'appaltatore non è,
dunque,
connesso al semplice trascorrere del tempo stabilito nelle
condizioni contrattuali ma è, piuttosto, volto, in parziale
correttivo del principio della postnumerazione del
corrispettivo
dell'appalto, a ricompensare l'esecuzione della pattuita
entità di
prestazione dell'appaltatore, quale certificata dal DL in
seno allo
stato d'avanzamento lavori.
9. Da tanto, consegue che la
mancata
contabilizzazione dei lavori non può tout court addebitarsi
alla
stazione appaltante, ma intanto rileva come inadempimento
della
stessa, e, dunque, ai fini della spettanza degli interessi
moratori
ex art. 35 del Capitolato OOPP, in quanto il SAL non sia
stato
effettuato per inerzia o per altra ragione addebitabile al DL -la cui
attività è a quella imputabile- pur sussistendone i
presupposti, id
est che l'appaltatore abbia, in concreto, esattamente
adempiuto la pattuita parte della prestazione, in
riferimento alla quale il
pagamento dell'acconto costituisce, appunto, la
controprestazione.
Ne consegue, ancora, che la mancata
redazione
del SAL esula, di per sé, dal disposto di cui all'art. 35
del dPR n.
1063 del 1962, che, con disposizione di stretta
interpretazione
(cfr. in tema di anticipazione, Cass. n. 11297 del 2010),
disciplina
il diritto agli speciali interessi moratori per il, diverso,
caso del
ritardo nel pagamento di ciascuna rata di acconto
(contemplando
separatamente l'ipotesi del ritardo nella emissione del
certificato
di pagamento della rata di acconto e quella del ritardo
nella
emissione del titolo di spesa).
10. Resta da aggiungere che tale conclusione non limita in
alcun modo il diritto dell'appaltatore al conseguimento
degli
interessi moratori -in costanza, beninteso, del menzionato
presupposto- potendo egli far constare la colpevole
omissione del
DL nella contabilizzazione dei lavori mediante l'iscrizione
di
apposita riserva nel registro di contabilità, istituto che,
ai sensi
dell'art. 54 del R.D. n. 350 del 1895, risponde, proprio,
all'esigenza di assicurare la tempestiva e costante evidenza
di tutti
i fattori incidenti sull'andamento dell'appalto e sui suoi
costi, così
da consentire all'Amministrazione di procedere senza ritardo
alle
verifiche necessarie per accertare la fondatezza delle
pretese
dell'appaltatore (in tesi, l'effettiva -e regolare-
esecuzione della
dovuta misura dei lavori) e, al tempo stesso, da assicurare
la
continua evidenza della spesa complessiva (cfr. Cass., Sez.
I, 03.03.2006, n. 4702; 21.07.2004, n. 13500; 01.12.1999, n.
13399).
11. Deve in conclusione affermarsi che, per
l'ipotesi di mancata tempestiva contabilizzazione dei
lavori, gli interessi di cui all'art. 35 del D.P.R. n. 1063
del 1962, competono, secondo la disciplina riassunta al
punto 7., a decorrere dalla data in cui la contabilizzazione
stessa avrebbe dovuto aver luogo non già secondo uno schema
astratto, come pretende la ricorrente (che invoca, a tal
fine, il criterio della media ponderale), ma in relazione al
concreto atteggiarsi dell'appalto stesso, quale risultante
dalle attestazioni contenute nei registri di contabilità
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 15.10.2015 n. 20873). |
EDILIZIA PRIVATA: La
collocazione su un'area di una «casa mobile» con stabile
destinazione
abitativa, in assenza di permesso di costruire, configura il
reato di cui
all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, rilevando
esclusivamente, ai fini dell'esclusione contenuta
nell'ultima parte dell'art. 3, comma 1, lett. e5),
del d.P.R. 380/2001, la contestuale sussistenza dei requisiti
indicati e,
segnatamente, la collocazione all'interno di una struttura
ricettiva
all'aperto, il temporaneo ancoraggio al suolo,
l'autorizzazione alla
conduzione dell'esercizio da effettuarsi in conformità della
normativa
regionale di settore e la destinazione alla sosta ed al
soggiorno, necessariamente occasionali e limitati nel tempo,
di turisti.
---------------
1. Il ricorso è
infondato.
Va rilevato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che
dei rapporti tra la disciplina regionale della Sicilia e la
normativa statale contenuta nel d.P.R. 380/2001 si è
ripetutamente occupata la giurisprudenza di questa Corte.
Si
è così avuto modo di chiarire che, in ogni
caso, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono
rispettare i principi generali fissati dalla legislazione
nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate in
modo da non collidere con i detti principi
(Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez.
3, n. 2017 del 25/10/2007 (dep. 2008), Giangrasso, Rv.
238555; Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, P.M. in proc. Moltisanti, Rv. 234935. Conf., ma con riferimento ad altre
disposizioni normative della Regione siciliana, Sez. 3, n.
28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938; Sez. 3, n. 4861
del 09/12/2004 (dep. 2005), Garufí, Rv. 230914; Sez. 3, n.
6814 del 11/01/2002, Castiglia V, Rv. 221427).
Le richiamate pronunce riguardano, nello specifico, proprio
la concreta applicazione dell'art. 44 d.P.R. 380/2001 e sono
ritenute pienamente condivisibili dal Collegio, che intende
pertanto ribadire la sussistenza dei rilevati limiti alla
potestà legislativa regionale.
2. Fatta tale premessa, occorre osservare che l'articolo 10,
lett. a), del d.P.R. 380/2001 individuava, nella sua
originaria formulazione, tra gli interventi edilizi soggetti
a permesso di costruire, gli interventi di nuova
costruzione, la cui descrizione è fornita dall'articolo 3
dello stesso T.U., ove viene tra l'altro specificato che
sono comunque da considerarsi come interventi di nuova
costruzione, tra l'altro, anche «l'installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee».
Con l'art. 41, comma 4, del d.l. 21.06.2013, n. 69,
convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98, al
testo suddetto è stata aggiunta la frase «ancorché siano
installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno
di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla
normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno
di turisti».
Successivamente, con l'art. 10-ter, comma 1 del d.l.
28.03.2014, n. 47, convertito con modificazioni dalla L.
23.05.2014, n. 80, la parola «ancorché» è stata
sostituita con le parole «e salvo che». Infine, la
Corte Costituzionale, con sentenza n. 189 del 24.07.2015, ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale del già citato
art. 41, comma 4, d.l. 21.06.2013, n. 69.
La Corte ha infatti rilevato che la norma individua «(...)
specifiche tipologie di interventi edilizi, realizzati
nell'ambito delle strutture turistico-ricettive all'aperto,
molto peculiari, che peraltro contraddicono i criteri
generali (della trasformazione permanente del territorio e
della precarietà strutturale e funzionale degli interventi)
forniti, dallo stesso legislatore statale, ai fini
dell'identificazione della necessità o meno del titolo
abilitativo. In tal modo, la norma impugnata sottrae al
legislatore regionale ogni spazio di intervento,
determinando la compressione della sua competenza
concorrente in materia di governo del territorio, nonché la
lesione della competenza residuale del medesimo in materia
di turismo, strettamente connessa, nel caso di specie, alla
prima».
3. L'art. 3, comma 1, lett. e5), del d.P.R. 380/2001 si
riferisce dunque,
attualmente, alla «installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di
strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure
come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a
soddisfare esigenze
meramente temporanee e salvo che siano installati, con
temporaneo ancoraggio
al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in
conformità alla
normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno
di turisti».
L'esplicita menzione di detta tipologia di interventi nel
Testo Unico ha, di
fatto, codificato la figura giuridica di «costruzione»
elaborata dalla giurisprudenza
prima dell'entrata in vigore del T.U. e nella quale
rientravano tutti quei manufatti
che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio
comunale, modificavano lo stato dei luoghi in quanto,
difettando obiettivamente
del carattere di assoluta precarietà, erano destinati almeno
potenzialmente a
perdurare nel tempo, non avendo peraltro alcun rilievo a
riguardo la distinzione
tra opere murarie e di altro genere, né il mezzo tecnico con
cui fosse assicurata
la stabilità del manufatto al suolo (o al muro perimetrale
di quello esistente), in
quanto la stabilità non va confusa con l'irrevocabilità
della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa
assegnata dal costruttore, ma si estrinseca nell'oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare un
bisogno non temporaneo
(così Sez. 3, n. 9138 del 7/7/2000, P.M. in proc. Migliorini
T ed altro, Rv. 217217
ed altre prec. conf.).
Si è successivamente avuto modo di precisare che, ai fini
della individuazione della nozione di costruzione
urbanistica, non è determinante l'incorporazione nel suolo
indispensabile per identificare, a norma dell'art. 812 c.c.,
il bene immobile, essendo sufficiente la destinazione del
bene ad essere utilizzato come bene immobile, con la
conseguenza che l'elencazione contenuta nel menzionato
articolo 3, lettera e), non può considerarsi esaustiva,
giacché i parametri indicati possono essere analogicamente
applicati ad opere simili (Sez. 3, n. 37766 del 7/7/2005,
Terrin, non massimata).
In seguito, si è ritenuto configurabile il reato di
costruzione edilizia abusiva in ogni ipotesi di
installazione su un terreno, senza permesso di costruire, di
strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia
pure montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una
destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze
abitative (Sez. 3, n. 25015 del 23/03/2011, Di Rocco, Rv.
250601. V. anche Sez. 3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, Rv.
257734; Sez. 3, n. 37572 del 14/05/2013, RM. in proc. Doppiu
e altro, Rv. 256511. Sulla nozione di installazione v. Sez.
3, n. 7047 del 04/12/2014 (dep. 2015), Gaiotto, non
massimata sul punto).
4. I richiamati principi, formulati prima degli interventi
modificativi di cui si è
dato conto in precedenza, devono ritenersi ancora attuali,
atteso che l'evidente
eccezione introdotta, riferita alle sole «strutture
ricettive all'aperto», trova la sua
ragion d'essere, come si ricava anche dalla menzionata
sentenza della Corte
costituzionale (e da quella, in essa richiamata, n.
278/2010), nel fatto che la
collocazione dei manufatti indicati al loro interno, in
ragione della destinazione,
non determina una permanente trasformazione del territorio
tale da richiedere il
permesso di costruire.
5. Pare tuttavia opportuno precisare che le modifiche
apportate alla
disposizione in esame non ne hanno in alcun modo ampliato
l'ambito di
operatività, limitandosi a fornire un contributo esplicativo
perfettamente coerente
con i principi generali fissati dalla disciplina urbanistica
e, sostanzialmente,
fondato sul fatto che interventi del tipo di quelli
descritti non comportano una
stabile trasformazione rilevante sotto il profilo
urbanistico.
È dunque in quest'ottica che la disposizione deve essere
interpretata, avendo specifico riguardo alla precarietà
oggettiva e funzionale dell'intervento,
cui fa riferimento anche la Corte Costituzionale nella
sentenza 278/2010.
Andrà quindi tenuto conto del fatto che la disposizione in
esame richiede
alcuni specifici requisiti:
- il temporaneo ancoraggio la suolo, cosicché ogni
collocazione di tali
manufatti che abbia natura permanente, desumibile non
soltanto dal dato
temporale ma anche da ogni altro elemento significativo,
quale, ad esempio, la
presenza di parti accessorie fisse o di stabili
allacciamenti alle reti elettriche,
idrica o fognaria;
- i manufatti devono trovarsi all'interno di strutture
ricettive all'aperto e
l'uso della specifica locuzione induce a ritenere che il
riferimento riguardi
esclusivamente quelle individuate dall'art. 13 del d.lgs. 23.05.2011, n. 79
(c.d. Codice del turismo) e, segnatamente, i villaggi
turistici i campeggi, i
campeggi nell'ambito delle attività agrituristiche ed i
parchi di vacanza;
- tali strutture dovranno essere debitamente autorizzate e
condotte in
conformità alla normativa regionale di settore;
- la destinazione dei manufatti è quella della sosta ed il
soggiorno di turisti.
A tale ultimo proposito deve osservarsi che, anche in altra
occasione (Sez.
3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, Rv. 257734) si è
affermato, con riferimento ai
campeggi, che il riferimento alla «sosta» ed al «soggiorno»,
i quali
presuppongono una permanenza temporanea, porta ad escludere
ogni forma di
stabile residenza, così come il riferimento alla figura del
«turista», il quale è
individuabile, secondo il significato della parola stessa,
come un soggetto che
viaggia e soggiorna in località diverse dalla sua residenza
abituale per un periodo
di tempo limitato per piacere, affari o altri scopi,
ricordando come tale
definizione coincida sostanzialmente con quella data dalla
Organizzazione
Mondiale del Turismo, agenzia delle Nazioni Unite (WTO,
Ottawa Conference on
Travel and Tourism Statistics, 1991).
Rileva dunque, in particolare, la natura meramente
occasionale e,
comunque, limitata nel tempo, del soggiorno.
Pare superfluo rilevare, poi, che la formulazione della
disposizione è
inequivoca nel richiedere la compresenza di tutte le
condizioni in precedenza
indicate.
6. Va conseguentemente affermato il principio secondo il
quale la
collocazione su un'area di una «casa mobile» con stabile
destinazione
abitativa, in assenza di permesso di costruire, configura il
reato di cui
all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, rilevando
esclusivamente, ai fini dell'esclusione contenuta
nell'ultima parte dell'art. 3, comma 1, lett. e5),
del d.P.R. 380/2001, la contestuale sussistenza dei requisiti
indicati e,
segnatamente, la collocazione all'interno di una struttura
ricettiva
all'aperto, il temporaneo ancoraggio al suolo,
l'autorizzazione alla
conduzione dell'esercizio da effettuarsi in conformità della
normativa
regionale di settore e la destinazione alla sosta ed al
soggiorno, necessariamente occasionali e limitati nel tempo,
di turisti
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.10.2015 n. 41067). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico
opere consistenti in sbancamento del terreno, realizzazione
di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso», di un
riporto di terra e materiali di risulta e di muro di
contenimento in pietra abbisognano del
permesso di costruire, trattandosi di opere che, considerate
nel loro complesso, obiettivamente comportano una
trasformazione del territorio, quanto meno per ciò che
riguarda quelle non accessorie, quali i singoli edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, è
necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
---------------
La giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai
pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina
urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale
subordinata alla demolizione, che appare, peraltro,
giustificata dalla circostanza che la presenza sul
territorio di un manufatto abusivo rappresenta,
indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del
reato, da eliminare.
Analoghi principi sono stati affermati con
riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere
subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso
che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi,
in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze
dannose o pericolose e che la sanzione specifica della
rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del
bene offeso.
Si è ulteriormente specificato che la
subordinazione della sospensione condizionale della pena
alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita
dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del
comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato
l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a
quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato.
---------------
I principi appena richiamati, tuttavia, riguardano il
proprietario o comunque colui che materialmente dispone
delle opere e che, pertanto, può provvedere all'adempimento
della condizione apposta alla concessione del beneficio,
mentre per altri soggetti coinvolti, quali il direttore dei
lavori o gli esecutori materiali, la possibilità di
adempiere sarebbe necessariamente subordinata alla volontà
del proprietario.
Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha
infatti chiarito come il giudice, nel
disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei
lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001, non può subordinare il beneficio della sospensione
condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle
opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi
dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto
passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza del
21/11/2014 ha confermato la decisione con la quale, in data
27/11/2012, il Tribunale di Grosseto - Sezione Distaccata di
Orbetello aveva affermato la responsabilità penale di Em.FA.
e Do.TU. in ordine ai reati di cui agli artt. 44, lett. c),
d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, perché,
quali esecutori materiali, realizzavano (unitamente al
proprietario del terreno), in area sottoposta a vincolo
paesaggistico ed in assenza del permesso di costruire e
dell'autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del
vincolo, opere consistenti in sbancamento del terreno,
realizzazione di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso»,
di un riporto di terra e materiali di risulta e di muro di
contenimento in pietra (Monte Argentario 11/10/2010).
Avverso tale pronuncia i predetti propongono congiuntamente
ricorso per cassazione tramite il loro difensore di fiducia.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è solo in parte fondato.
Va rilevato, con riferimento al primo ed al
secondo motivo dì ricorso, che la sentenza impugnata è
immune da censure per ciò che riguarda la natura delle
opere, la necessità dei titoli abilitativi, che si è
accertato non essere stati richiesti e la datazione degli
interventi.
La mera descrizione degli interventi
contenuta nel capo di imputazione ne evidenzia la
assoggettabilità al permesso di costruire, trattandosi di
opere che, considerate nel loro complesso, obiettivamente
comportano una trasformazione del territorio, quanto meno
per ciò che riguarda quelle non accessorie, quali i singoli
edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, era
necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
Per ciò che concerne la loro datazione, la Corte del merito
ha rilevato che, all'atto dell'accertamento, le opere erano
in corso di esecuzione e che i due manufatti in muratura non
risultano preesistenti non essendo neppure censiti in
catasto, osservando anche che tale tesi difensiva era stata
prospettata solo nel giudizio di appello e non anche nel
corso del giudizio abbreviato.
A fronte di tali affermazioni, che non presentano cedimenti
logici o manifeste contraddizioni, i ricorrenti oppongono
generiche censure prive di ogni correlazione con la
decisione, cosicché i motivi di ricorso devono ritenersi
inammissibili per difetto di specificità.
2. A conclusioni diverse deve pervenirsi per ciò che
concerne il terzo motivo di ricorso.
Il Tribunale ha infatti subordinato il beneficio della
sospensione condizionale della pena, nei confronti di tutti
gli imputati, alla riduzione in pristino dei luoghi entro
novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza,
disponendo la restituzione delle opere in sequestro agli
aventi diritto al fine di consentire lo spontaneo
adempimento a quanto disposto.
La Corte territoriale ha confermato la statuizione sul
punto, respingendo le censure degli appellanti, rilevando
che la destinazione ad abitazione dei manufatti non assumeva
rilievo ai fini della riduzione in pristino, osservando
anche come il proprietario, sebbene destinatario di un
ordine di demolizione emesso dal Comune di Porto Santo
Stefano (n. 57/2010), non vi avesse comunque adempiuto e che
tale evenienza rafforzava l'esigenza di subordinare la
concessione del beneficio della sospensione condizionale
alla rimessione in pristino.
3. Ciò posto, occorre preliminarmente ricordare che
la giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai
pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina
urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale
subordinata alla demolizione, che appare, peraltro,
giustificata dalla circostanza che la presenza sul
territorio di un manufatto abusivo rappresenta,
indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del
reato, da eliminare
(cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep .2014), Russo, Rv.
258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Farina Rv. 255466;
Sez. 3, n. 38071 del 19/9/2007, Terminiello, Rv. 237825;
Sez. 3, n. 18304 del 17/01/2003, Guido, Rv. 22471; Sez. 3,
n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 2000), Pagano, Rv. 216444).
Analoghi principi sono stati affermati con
riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere
subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso
che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi,
in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze
dannose o pericolose e che la sanzione specifica della
rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del
bene offeso (Sez.
3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca, Rv. 261164; Sez. 3, n.
38739 del 28/05/2004, Brignone, Rv. 229612; Sez. 3, n. 29667
del 14/06/2002, Arrostuto S, Rv. 222115; Sez. 3, n. 23766
del 23/03/2001, Capraro A, Rv. 219930).
Si è ulteriormente specificato che la
subordinazione della sospensione condizionale della pena
alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita
dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del
comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato
l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a
quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato
(cfr. Sez. 3, n. 4444 del 12/01/2012, Seoni, Rv. 251972. V.
anche Sez. 3, n. 26149 del 9/6/2005, Barbadoro, Rv. 231941;
Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito e altro, Rv.
226321).
4. I principi appena richiamati, tuttavia,
riguardano il proprietario o comunque colui che
materialmente dispone delle opere e che, pertanto, può
provvedere all'adempimento della condizione apposta alla
concessione del beneficio, mentre per altri soggetti
coinvolti, quali il direttore dei lavori o gli esecutori
materiali, la possibilità di adempiere sarebbe
necessariamente subordinata alla volontà del proprietario.
Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha
infatti chiarito come il giudice, nel
disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei
lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001, non può subordinare il beneficio della sospensione
condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle
opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi
dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto
passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione
(Sez. 3, n. 17991 del 21/01/2014, Ciccone e altri, Rv.
261497).
A tale principio, pienamente condiviso dal Collegio, deve
essere dunque data continuità, rilevando come, nel caso in
esame, la subordinazione della condizionale alla rimessione
in pristino sia stata erroneamente disposta nei confronti
dei ricorrenti.
Invero sebbene la decisione del giudice del merito risulti
corretta per ciò che concerne il proprietario del terreno
-il quale potrà comunque provvedervi, per quanto si è detto
in precedenza, anche a seguito dell'acquisizione ope
legis della proprietà dell'abuso e dell'area di sedime
all'amministrazione comunale in conseguenza
dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione (cfr. ex
pl. Sez. 3, n. 22237 del 22/4/2010, Gotti, Rv. 247653)- ma
non anche per soggetti diversi che, come nel caso di
ricorrenti, meri esecutori materiali, non dispongono
liberamente dell'area e dei manufatti abusivi
(Corte di Cassazione, Sez. III, penale,
sentenza 13.10.2015 n. 41051). |
APPALTI:
Appalti
con limite al ribasso del costo del personale. Consiglio di
Stato. Rischio di alterazione del sistema.
Anche se conveniente per la pubblica
amministrazione, è «un’evidente anomalia del sistema»
l’offerta con costi del personale più bassi di quelli
stabiliti dal ministero del Lavoro se calcolati su contratti
collettivi nazionali firmati da sindacati non
«comparativamente più rappresentativi» a differenza di
quanto richiesto dal codice appalti (Dlgs 163/2006).
L’ha chiarito il Consiglio di Stato -III Sez.,
sentenza 13.10.2015 n. 4699- accogliendo il ricorso di una multiservizi contro l’affidamento della gestione del
front
office (prenotazioni, accettazioni, cassa) disposto da
un’azienda ospedaliera a una concorrente con l’offerta
economicamente più vantaggiosa (articolo 83 del codice) e
contro il giudizio di non anomalia sul ribasso (quasi il 30%
su base d’asta di 14 milioni). Affidamento che ha superato
il giudizio del Tar di Brescia (sentenza 1470/2014).
Per la ricorrente -e sul principio anche per la Cgil-
l’aggiudicataria andava esclusa per aver offerto un costo
orario più basso di oltre il 15% rispetto alle tabelle
ministeriali di settore, poiché calcolato sui valori del Ccnl terziario e servizi siglato nel 2012 dal Cnai
(Coordinamento nazionale associazione imprenditori), con un
livello di rappresentatività «scarsissimo» e tale da rendere
l’offerta non «congrua» secondo i criteri di individuazione
delle offerte anormalmente basse del codice (comma 3-bis,
articolo 86).
Per il ministero, «le organizzazioni sindacali
sottoscrittrici del contratto Cnai non sono ascrivibili tra
quelle comparativamente più rappresentative» e il contratto
ha valori medi (costo orario e ore annue lavorate) più bassi
di quasi il 7% rispetto a quelli sui servizi integrati –incluso il Ccnl 2011 tra Confindustria, Cgil, Cisl, Uil,
Confapi e altri– considerati dall’ultima tabella (Dm 10.06.2013).
Palazzo Spada, ribadita la derogabilità dei paletti
ministeriali senza «scostamenti eccessivi» e nel rispetto
dei salari dei Ccnl (Consiglio di Stato 1743/2015), ha
affermato che «una determinazione complessiva dei costi
basata su un costo del lavoro inferiore ai livelli economici
minimi fissati normativamente (o in sede di contrattazione
collettiva) per i lavoratori del settore può
costituire…indice di inattendibilità economica dell’offerta
e di lesione del principio della par condicio dei
concorrenti ed è fonte di pregiudizio per le altre imprese
partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato i
costi delle retribuzioni da erogare».
Secondo la sentenza «se si ammettono senza riserve offerte
che sono formulate facendo applicazione di costi del lavoro
molto più contenuti, oggetto di contratti collettivi di
lavoro sottoscritti da sindacati non adeguatamente
rappresentativi, si determinano pratiche di dumping sociale
perché solo alcune imprese possono beneficiare di
disposizioni che giustificano un costo del lavoro
inferiore», mentre le altre «per essere competitive e non
essere estromesse dal mercato, soprattutto in gare cd. labour intensive nelle quali è decisivo il costo del lavoro,
sarebbero costrette poi ad utilizzare quegli stessi
contratti collettivi che…offrono trattamenti retributivi
inferiori, con una evidente alterazione del sistema» (articolo Il Sole 24 Ore del
29.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
L'arsenico oltre misura fa fuori le rocce da
scavo.
La presenza di arsenico in misura superiore ai limiti
consentiti esclude il riutilizzo come sottoprodotti delle
rocce e terre da scavo. L'esclusione dall'applicazione della
disciplina sui rifiuti per le terre e rocce da scavo è
subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato,
della loro riutilizzazione secondo un progetto
ambientalmente compatibile.
Mentre compete al pubblico ministero fornire la prova della
circostanza d'esclusione della deroga, ovvero dell'esistenza
di una concentrazione di inquinanti superiore ai massimi
consentiti.
Questo è quanto si legge nella
sentenza 07.10.2015 n. 40252
emessa dalla III Sez. penale della Corte di Cassazione.
Come già ampiamente spiegato dai giudici della fase di
merito, all'epoca del fatto il riutilizzo, quali
sottoprodotti, delle terre e rocce da scavo doveva avvenire
esclusivamente in base alle condizioni e secondo le
procedure descritte dal dlgs. n. 152 del 2006, articolo 186,
in assenza delle quali esse erano (e ancor oggi sono,
ancorché in base a diversa disciplina) senz'altro sottoposte
alle disposizioni in materia di rifiuti.
Fermo restando che
la presenza di arsenico in misura superiore ai limiti
consentiti esclude il riutilizzo come sottoprodotti delle
rocce e terre da scavo va in ogni caso ribadito che, secondo
quanto costantemente insegnato da questa Corte suprema,
l'esclusione dall'applicazione della disciplina sui rifiuti
per le terre e rocce da scavo è subordinata alla prova
positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione
secondo un progetto ambientalmente compatibile, mentre
compete al pubblico ministero fornire la prova della
circostanza d'esclusione della deroga, ovvero dell'esistenza
di una concentrazione di inquinanti superiore ai massimi
consentiti.
Non è perciò sufficiente la generica deduzione difensiva
della destinazione delle rocce alla realizzazione di
un'opera privata
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Esclusioni da motivare.
Nella parcella la maggiorazione è blindata.
AVVOCATI/ Corte di cassazione sulla liquidazione dei
compensi.
In tema di liquidazione dei compensi agli avvocati, una
eventuale esclusione della maggiorazione dovrà essere
motivata pertinentemente.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
07.10.2015 n. 20113.
Nella medesima sentenza i giudici di piazza Cavour hanno,
altresì, ribadito come l'art. 5 dm 08.04.2004, n. 123
dispone, al quarto comma, che «Qualora in una causa
l'avvocato assista e difenda più persone aventi la stessa
posizione processuale l'onorario unico può essere aumentato
per ogni parte oltre la prima del 20% fino a un massimo di
10 e, ove le parti siano in numero superiore, del 5% per
ciascuna parte oltre le prime 10 e fino a un massimo di 20.
La stessa disposizione trova applicazione, ove più cause
vengano riunite, dal momento dell'avvenuta riunione e nel
caso in cui l'avvocato assista e difenda una parte contro
più parti quando la prestazione comporti l'esame di
particolari situazioni di fatto o di diritto».
E pertanto, a parere dei supremi giudici, da tale assunto
consegue il principio per il quale, nell'ipotesi di più
cause, successivamente riunite, deve essere liquidato un
distinto onorario per ciascuna di esse, con riguardo alle
attività compiute prima della riunione
È stato, inoltre, sottolineato che la disposizione dell'art.
5, comma 4, della tariffa professionale approvata con dm 08.04.2004, n. 123, che consente al giudice, nell'ipotesi
di assistenza e difesa di una parte avverso più controparti
di liquidare un compenso unico maggiorato per ciascuna parte
del 20% e sempre che la prestazione comporti l'esame di
particolari situazioni di fatto o di diritto va a
contemplare semplicemente una facoltà rientrante nel potere
discrezionale del giudice, il cui mancato esercizio non è
denunciabile in sede di legittimità, se motivato.
Il caso sul quale gli Ermellini sono stati chiamati ad
esprimersi aveva ad oggetto un provvedimento di rigetto del
reclamo proposto, ex art. 26 l. fall., avverso il decreto
con cui il giudice delegato al fallimento aveva liquidato il
compenso a un avvocato che aveva assistito la curatela nel
procedimento di sequestro ex art. 146 l. fall., nonché nella
fase di conferma del medesimo sequestro.
Ma il legale, in
sede di reclamo, si doleva del fatto che il magistrato non
avesse tenuto conto delle maggiorazioni di cui all'art. 5,
comma 4, della tariffa forense pro tempore vigente
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
APPALTI SERVIZI: Gestione gas naturale, niente diritti soggettivi.
Tar Lombardia.
Nessuna posizione giuridica di diritto soggettivo è stata
ritagliata dal legislatore a favore del gestore di gas
naturale uscente dalla fornitura alla p.a., semmai, costui è
obbligato a proseguire la gestione fino alla data di
decorrenza del nuovo affidamento, nell'interesse della
comunità locale, impersonato dall'ente territoriale.
Lo hanno affermato i giudici della IV Sez. del TAR Lombardia-Milano con la
sentenza
06.10.2015 n. 2105.
Per una maggiore chiarezza espositiva, si riporta anche
quanto previsto al riguardo dall'art. 14 del decreto
legislativo n. 164/2000, che ha dato attuazione alla
direttiva 98/30/Ce, recante norme comuni per il mercato
interno del gas naturale. Dopo l'affermazione iniziale, al
primo comma, per cui: «L'attività di distribuzione di gas
naturale è attività di servizio pubblico. Il servizio è
affidato esclusivamente mediante gara per periodi non
superiori a 12 anni», la norma prosegue, al comma settimo,
stabilendo che: «Gli enti locali avviano la procedura di
gara non oltre un anno prima della scadenza
dell'affidamento, in modo da evitare soluzioni di continuità
nella gestione del servizio. Il gestore uscente resta
comunque obbligato a proseguire la gestione del servizio,
limitatamente all'ordinaria amministrazione, fino alla data
di decorrenza del nuovo affidamento. Ove l'ente locale non
provveda entro il termine indicato, la regione, anche
attraverso la nomina di un commissario ad acta, avvia la
procedura di gara».
A parere dei giudici amministrativi milanesi l'unica
posizione giuridica attiva ipotizzabile sarà quella che si
correla all'obbligo del gestore uscente e che va ascritta a
favore dell'ente locale, soggetto al contempo onerato di
attivare la procedura di gara, nei termini prescritti ex lege, in modo da evitare una soluzione di continuità nella
gestione del servizio (si veda anche Tar Abruzzo, I, sent.
12/09/2012 n. 577, per cui: «(al contrario di quanto
sostenuto dalla società di vendita di gas) che non trattasi
di un diritto soggettivo a ottenere tale proroga da parte
del concessionario uscente, bensì di un obbligo in capo a
quest'ultimo di assicurare il servizio in via transitoria,
se e nei limiti in cui l'ente pubblico ritenga di non
ricorrere ad altre formule organizzatorie consentite
dall'ordinamento, (formule che devono intendersi non
precluse dall'art. 14, comma 7 u.p., secondo cui «il gestore
uscente resta comunque obbligato a proseguire la gestione
del servizio, limitatamente all'ordinaria amministrazione,
fino alla data di decorrenza del nuovo affidamento»); va
peraltro precisato che tale previsione –individuando
proprio in quell'obbligo la soluzione tendenziale e
normalizzata, per assicurare medio tempore la continuità del
servizio, finisce nel contempo per conferire allo stesso
soggetto obbligato un qualificato interesse legittimo alla
proroga in questione, oltre che– in relazione al caso di
specie, anche un qualificato interesse processuale alla
stessa proposizione del gravame)»
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'infisso
non è una veduta.
Sentenza cds.
Via libera alla sopraelevazione al di sotto della distanza
minima se il vicino ha lucernari sul tetto: gli infissi tipo
velux, infatti, non possono essere considerati vere e
proprie vedute, perché non consentono di affacciarsi, ma
servono solo a far entrare in casa l'aria e i raggi del
sole.
Insomma: costituiscono una mera luce e non fanno scattare il
divieto di costruzione di cui all'articolo 9 del dm
1444/1968 che vale solo per le vere e proprie «pareti
finestrate».
È quanto emerge dalla
sentenza 05.10.2015 n. 4628,
pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di stato.
Prospectio e Inspectio
Niente da fare per i vicini di una casa di riposo. Le suore
possono ristrutturare l'immobile grazie alla concessione
edilizia ottenuta dal comune. E ciò benché il tetto dei
confinanti sia praticamente trasparente perché
caratterizzato da ben sette finestre modello velux, che
servono a illuminare i locali dal primo piano.
Il punto è che il divieto di costruire sotto la distanza
minima vale solo in presenza di vere e proprie vedute, che
in base all'articolo 900 cc sono soltanto quella che
consentono di affacciarsi sul fondo del vicino e guardare di
fronte, obliquamente o lateralmente (prospectio e
inspectio).
Inutile per i titolari dell'immobile invocare le norme
tecniche di attuazione del piano regolatore del Comune: nel
nostro caso la sopraelevazione riguarda un fabbricato
costruito in aderenza all'edificio degli appellanti ed è
situata sul confine con il fondo. Spese di giudizio
compensate per la peculiarità della controversia
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2015).
---------------
MASSIMA
1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti
deducono l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha
ritenuto che “l’invocato articolo 9 del D.M. n. 1444/1968
vincola le amministrazioni locali solo in sede di
predisposizione della normativa urbanistica e comunque lo
stesso non potrebbe trovare applicazione in quanto nella
specie non vengono in evidenza distanze tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non
può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione
del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre
di tipo velux” .
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze
tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità
atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è
precluso di disporre convenzionalmente una distanza
inferiore rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M.
02/04/1968 o dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto
riguardo alla ratio della norma in questione, la
stessa dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui
la parete antistante sia in realtà un tetto dotato di
aperture lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività
dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968,
non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque
trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima
che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa
espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate,
per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante
insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione,
unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili
come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si
aprono semplici luci”
(cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092; 30.04.2012 n.
6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013; 12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a
dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza
fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio
di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante
lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo
piano.
Sennonché i velux in questione non possono
di certo considerarsi “vedute” alla stregua
dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di
affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di
guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-,
ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio
dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al
riguardo, come già sopra segnalato, che
l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque
“trovare applicazione in quanto nella specie non vengono
in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete
finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo
perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate
disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12
del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti
a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare
rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire
luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad
introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in
aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto
irrilevanti ai fini odiernamente considerati. |
EDILIZIA PRIVATA: Quando
vi è l’alterazione dello stato dei luoghi di una strada
(pubblica o privata) adibita al pubblico transito, il Comune
deve senza alcuna esitazione emanare il provvedimento di
autotutela iuris pubblici, e conseguentemente darvi
esecuzione.
La necessità che sia senza indugio ripristinato il pubblico
transito non tollera alcuna perdita di tempo e nella specie
ha giustificato la circostanza che il provvedimento
comunale, adottato il 12.08.2004 (a seguito di accertamenti
della polizia municipale e della relazione resa il
12.08.2004 dall'ufficio tecnico comunale), abbia ordinato di
ripristinare la situazione quo ante, in assenza della
comunicazione di avvio del procedimento: l'amministrazione
deve senza indugio porre fine ad una situazione che
pregiudica l’interesse pubblico, con un atto avente natura
vincolata (il che rileva anche al fine della applicazione
dell'art. 21-octies, comma II, della legge n. 241/1990).
Quanto al fondamento normativo del provvedimento comunale,
osserva la Sezione che per la risalente e pacifica
giurisprudenza non importa che il provvedimento
amministrativo menzioni la specifica disposizione di legge
sulla quale esso si basi: tale principio a maggior ragione
va ribadito quando si tratti di un atto da emanare senza
indugio per il carattere urgente, e che risulti espressione
di un potere desumibile da un principio generale del diritto
pubblico, del quale hanno un carattere ricognitivo le
disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale
01.09.1918, n. 1446.
---------------
La sussistenza di un diritto pubblico di transito su di una
via è provata quanto meno dalla circostanza che la
manutenzione della strada è da tempo effettuata dal Comune e
che nella strada si trova interrata la condotta
dell'acquedotto comunale.
---------------
E' principio consolidato che va ricondotta alla nozione di
strada vicinale di uso pubblico la via che:
a) consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae
da parte di una collettività indeterminata di persone in
assenza di restrizioni all'accesso;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è (eventualmente) connotata da un uso pubblico protratto
da tempo;
d) è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da
parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di
infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche,
fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico.
---------------
Anche le proteste pervenute in Comune, subito dopo
l'apposizione delle catene e la chiusura del passaggio,
possono ritenersi, infine, ulteriori elementi presuntivi,
aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza
rilevanti ai sensi dell'art. 2729 c.c., della effettiva
sussistenza della servitù di uso pubblico della strada:
anche la prossimità temporale delle proteste rispetto
all'apposizione delle catene rende non plausibile
l'affermazione dell’appellante secondo cui il passaggio
pubblico -nella via de qua- non sarebbe stato mai
consentito.
---------------
L'appello è infondato e va respinto.
2.- Con il primo motivo di censura, l'appellante lamenta la
violazione di legge in relazione agli artt. 3 e 7 della
legge n. 241/1990.
L'appellante sostiene che, solo in presenza di un'accertata
situazione di urgenza, l'amministrazione può omettere la
comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7
della legge n. 241/1990, mentre i giudici di prime cure
hanno ritenuto che tale comunicazione non fosse necessaria
in ragione delle esigenze di particolare celerità volte a
ripristinare il pubblico transito su una strada vicinale.
2b.- Al riguardo, sulla base della documentazione prodotta
dall'amministrazione comunale, deve osservarsi che via Tarì,
pur non essendo una strada principale, non è utilizzata dai
soli proprietari dei fondi limitrofi ad essa e ciò è
confermato dallo stesso appellante, quando evidenzia che
l'ostacolo al transito è stato apposto in un mese (agosto)
in cui la circolazione veicolare è molto ridotta.
Proprio
tale considerazione, infatti, è probante del fatto che la
circolazione di veicoli su tale strada sussiste, anche se
con diversa incidenza temporale nei vari periodi dell’anno.
Il genere di abuso attuato, in quanto impeditivo della
circolazione nel tratto di strada, non può che giustificare
la necessità, avvertita dal Comune, di rimuovere con urgenza
gli ostacoli apposti dal privato.
Infatti, quando vi è l’alterazione dello stato dei luoghi di
una strada (pubblica o privata) adibita al pubblico
transito, il Comune deve senza alcuna esitazione emanare il
provvedimento di autotutela iuris pubblici, e
conseguentemente darvi esecuzione.
La necessità che sia senza indugio ripristinato il pubblico
transito non tollera alcuna perdita di tempo e nella specie
ha giustificato la circostanza che il provvedimento
comunale, adottato il 12.08.2004 (a seguito di
accertamenti della polizia municipale e della relazione resa
il 12.08.2004 dall'ufficio tecnico comunale), abbia
ordinato di ripristinare la situazione quo ante, in assenza
della comunicazione di avvio del procedimento:
l'amministrazione deve senza indugio porre fine ad una
situazione che pregiudica l’interesse pubblico, con un atto
avente natura vincolata (il che rileva anche al fine della
applicazione dell'art. 21-octies, comma II, della legge n.
241/1990).
3.- Con il secondo motivo di censura l'appellante lamenta la
violazione degli articoli 1 e 14 del D.lgs.l.gt. n.
1446/1918.
L'appellante sostiene che il TAR avrebbe errato nel
ritenere via Tarì una strada privata ad uso pubblico, in
quanto sarebbero assenti i presupposti elaborati dalla
giurisprudenza per poter ritenere tale tratto stradale come
«strada vicinale».
Il sig. Te. assume, in particolare, che mancherebbe la
«consapevolezza» della collettività che la strada sia
soggetta a pubblico transito e non sarebbe presente il
requisito dell'idoneità a soddisfare esigenze di interesse
generale e l'uso "immemorabile della strada".
3b.- Tale censura non è condivisibile.
Come evidenziato dal TAR, infatti, la sussistenza di un
diritto pubblico di transito su via Tarì è provata quanto
meno dalla circostanza che la manutenzione della strada è da
tempo effettuata dal Comune e che nella strada si trova
interrata la condotta dell'acquedotto comunale.
Per di più la medesima strada è di collegamento con una via
comunale (via Bracchio) e con un'altra strada vicinale (via
delle Groppole).
La funzione di collegamento della strada è evidenziata non
solo nella nota del responsabile dell'ufficio tecnico del
comune di Mergozzo del 12.08.2004, ma anche dai
cittadini firmatari dell'esposto presentato per censurarne
la chiusura abusiva.
L’esposto –oltre ad essere circostanziato– è stato
corroborato sul piano istruttorio dagli ulteriori
accertamenti effettuati in loco dagli organi comunali ed è
idoneo a dimostrare come –prima dell’attività posta in
essere dall’appellante– la strada era utilizzata dalla
collettività locale.
Orbene, è principio consolidato che va ricondotta alla
nozione di strada vicinale di uso pubblico la via che:
a) consente il passaggio esercitato iure servitutis publicae
da parte di una collettività indeterminata di persone in
assenza di restrizioni all'accesso;
b) è collegata con la viabilità generale;
c) è (eventualmente) connotata da un uso pubblico protratto
da tempo;
d) è stata, o è, oggetto di interventi di manutenzione da
parte del Comune e di installazioni, anche sotterranee, di
infrastrutture di servizio (telefoniche, elettriche,
fognarie, acquedottistiche) da parte di ente pubblico (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV, 08.06.2011, n. 3509).
Come documentato dal Comune, e come emerge dalla relazione
dell'ufficio tecnico comunale in data 12.08.2004, «la
via Tarì è inclusa nello Stradario agli atti del servizio di
toponomastica… e essa risulta tra le aree di circolazione»,
essendo ubicata «tra via Bracchio e l'abitazione Maruzzi,
con numerazione civica dal n. 1 al n. 9 e il sig. Te.
risiede al civico n. 5, a metà del percorso stradale».
L'estratto di P.R.G.C., allegato alla relazione dell'U.T.C.,
inoltre, individua la via Tarì come strada pubblica, con
previsione di allargamento a mt. 7,00, costituendo il
collegamento tra la via comunale Bracchio e la via vicinale
"delle Groppole", anch'essa gravata da servitù di pubblico
transito e in via di diventare strada comunale.
Quanto al fondamento normativo del provvedimento comunale,
osserva la Sezione che per la risalente e pacifica
giurisprudenza non importa che il provvedimento
amministrativo menzioni la specifica disposizione di legge
sulla quale esso si basi: tale principio a maggior ragione
va ribadito quando si tratti di un atto da emanare senza
indugio per il carattere urgente, e che risulti espressione
di un potere desumibile da un principio generale del diritto
pubblico, del quale hanno un carattere ricognitivo le
disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale 01.09.1918, n. 1446.
3c.- Come sopra si è rilevato, anche le proteste pervenute
in Comune, subito dopo l'apposizione delle catene e la
chiusura del passaggio, possono ritenersi, infine, ulteriori
elementi presuntivi, aventi i requisiti di gravità,
precisione e concordanza rilevanti ai sensi dell'art. 2729
c.c., della effettiva sussistenza della servitù di uso
pubblico della strada: anche la prossimità temporale delle
proteste rispetto all'apposizione delle catene rende non
plausibile l'affermazione dell’appellante secondo cui il
passaggio pubblico -nella via de qua- non sarebbe stato
mai consentito.
4.- Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto,
perché manifestamente infondato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.09.2015 n. 4450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità esterna prioritaria.
Tar
Basilicata.
Le amministrazioni, prima di procedere all'indizione di
pubblici concorsi finalizzati alla copertura di posti
vacanti, devono attivare le procedure di mobilità esterna
del personale di altre Amministrazioni.
È quanto hanno ribadito i giudici della I Sez. del
TAR per la Basilicata con la
sentenza
23.09.2015 n. 607.
Secondo i giudici amministrativi lucani è, quindi, possibile
desumere agevolmente la preferenza del Legislatore per le
procedure di mobilità esterna rispetto alle selezioni
concorsuali e perciò anche rispetto allo scorrimento delle
graduatorie concorsuali già pubblicate (tale scelta
prioritaria è stata affermata dal Legislatore anche
nell'ambito della normativa di blocco delle assunzioni: cfr.
art. 19, comma 1, L. n. 488/2001; art. 34, comma 11, L.
289/2002; art. 3, comma 60, L. n. 350/2003; art. 1, comma
47, L. n. 311/2004).
Pertanto, in ossequi a quanto sottolineato dal tribunale
amministrativo nella sentenza in commenti, la prevalenza
della mobilità rispetto al concorso ed allo scorrimento
della graduatoria non risulterà illogica, poiché risponde ad
esigenze di efficacia ed efficienza dell'azione
amministrativa preferire l'utilizzazione di personale con
esperienza acquista nell'esercizio dei compiti propri del
posto da ricoprire, per aver già svolto la specifica
funzione per un rilevante lasso di tempo continuativo, e
perché si tratta di un lavoratore già stabilmente inserito
nell'organizzazione della pubblica amministrazione (si
vedano: Cds Sez. V Sent. n. 5830 del 18.08.2010; Tar Lecce
Sez. II Sentenze n. 1419 del 31.07.2012 e n. 2169 del
26.03.2004).
E ciò è anche confermato dall'art. 39, comma 3, L. n.
449/1997 che statuisce che le assunzioni di nuovi pubblici
dipendenti sono «subordinate all'indisponibilità di
personale da trasferire secondo le vigenti procedure di
mobilità».
I giudici amministrativi, nella medesima sentenza, hanno,
poi, disatteso anche i motivi di impugnazione, con i quali
veniva dedotta la carenza di motivazione in ordine alla
maggiore economicità della contestata scelta di indizione
del procedimento di mobilità al posto dello scorrimento di
una graduatoria ancora valida
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015).
---------------
MASSIMA
Con il primo motivo si lamenta che l’amministrazione non
abbia dato priorità allo scorrimento delle graduatorie dei
concorsi ancora valide ed efficaci.
La censura va disattesa (sul punto cfr. TAR Basilicata n.
743 del 24.10.2014, n. 559 del 26.08.2014, n. 368 del
07.06.2014 e n. 107 del 23.02.2014), posto che dal contenuto
dell’art. 30, comma 2-bis, D.Lg.vo n. 165/2001, secondo cui
le Amministrazioni, prima di procedere all’indizione di
pubblici concorsi finalizzati alla copertura di posti
vacanti, devono attivare le procedure di mobilità esterna
del personale di altre Amministrazioni, si desume
agevolmente la preferenza del Legislatore per le procedure
di mobilità esterna rispetto alle selezioni concorsuali e
perciò anche rispetto allo scorrimento delle graduatorie
concorsuali già pubblicate (tale scelta prioritaria è stata
affermata dal Legislatore anche nell’ambito della normativa
di blocco delle assunzioni: cfr. art. 19 comma 1, L. n.
488/2001; art. 34, comma 11, L. 289/2002; art. 3, comma 60,
L. n. 350/2003; art. 1, comma 47, L. n. 311/2004).
La prevalenza della mobilità rispetto al
concorso ed allo scorrimento della graduatoria non risulta
illogica, dal momento che risponde ad esigenze di efficacia
ed efficienza dell’azione amministrativa preferire
l’utilizzazione di personale con esperienza acquista
nell’esercizio dei compiti propri del posto da ricoprire,
per aver già svolto la specifica funzione per un rilevante
lasso di tempo continuativo, e perché si tratta di un
lavoratore già stabilmente inserito nell’organizzazione
della Pubblica Amministrazione
(cfr. C.d.S. Sez. V Sent. n. 5830 del 18.08.2010; TAR Lecce
Sez. II Sentenze n. 1419 del 31.07.2012 e n. 2169 del
26.03.2004).
A conferma di ciò, va rilevato che l’art.
39, comma 3, L. n. 449/1997 statuisce che le assunzioni di
nuovi pubblici dipendenti sono “subordinate
all’indisponibilità di personale da trasferire secondo le
vigenti procedure di mobilità”.
Conseguentemente, vanno disattesi anche i restanti motivi di
impugnazione, con i quali è stata dedotta la carenza di
motivazione in ordine alla maggiore economicità della
contestata scelta di indizione del procedimento di mobilità
al posto dello scorrimento di una graduatoria ancora valida,
in quanto, come sopra già detto, per l’assunzione a tempo
indeterminato di nuovi pubblici dipendenti le
Amministrazioni devono prima attivare i procedimenti di
mobilità e poi effettuare lo scorrimento delle graduatorie
concorsuali o l’indizione di nuovi concorsi. A ciò non osta
l’accordo attuativo dell’art. 30, comma 2, L.R. n. 33/2010
(come modificato dall’art. 13 L.R. n. 17/2011), sottoscritto
il 05.11.2012 dalla stessa ASP, dall’ASM, dal CROB (il quale
lo ha approvato con Del. n. 7 del 09.01.2013) e dall’A.O.
San Carlo, ai sensi del quale gli Enti firmatari hanno
concordato sulla mera possibilità (e non sull’obbligo) di “utilizzare
reciprocamente le rispettive graduatorie di concorsi
pubblici in corso di validità per assunzioni di personale a
tempo indeterminato”.
A quanto sopra consegue la reiezione del ricorso in esame.
Conseguentemente, risulta infondata la connessa domanda di
risarcimento danni, atteso che, ai fini dell’ammissibilità
del risarcimento dell’interesse legittimo, risulta
necessario e vincolante il previo e/o contestuale
accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Impianti
industriali, non imponibili limiti di rumorosità propri
delle zone residenziali.
Consiglio di Stato: il problema della vicinanza di una zona
residenziale di nuovo insediamento va affrontato
prescrivendo l'adozione delle tecnologie di isolamento
acustico.
Con la
sentenza 21.09.2015 n. 4405,
il Consiglio di Stato chiarisce che un impianto industriale
per il trattamento, la depurazione e la distribuzione
dell’acqua non è assoggettabile alla classe acustica III
(zona mista) prevista per le zone residenziali.
IL CASO. Nel caso
affrontato dai giudici della quarta sezione di Palazzo
Spada, un impianto di trattamento, depurazione e
distribuzione dell’acqua, già di proprietà comunale e
attualmente gestito da una società, è stato ampliato nel
1985 sino ad occupare una superficie di circa 20.000 mq. con
presenza di numerose vasche, depositi, magazzini, impianti
di pompaggio, di depurazione, autorimesse e strutture di
servizio, in area urbanisticamente classificata F2.
In epoca successiva, l’amministrazione ha autorizzato la
riconversione di edifici a destinazione produttiva in zona
limitrofa (a distanza di poche decine di metri),
consentendone l’uso residenziale. Si è quindi innescato un
inevitabile conflitto fra la funzione produttiva e quella
residenziale, per risolvere il quale l’amministrazione non
solo ha imposto misure di contenimento dell’inquinamento
acustico (ottemperate dal gestore) ma ha classificato parte
del compendio produttivo, più vicino alle residenze, in
classe acustica III (zona mista) che ai sensi del DPCM
14/11/1997 si caratterizza quale “area urbana con media
densità di popolazione, con attività commerciali e con
limitate attività artigianali con assenza di attività
industriali”.
PALAZZO SPADA: NON SI POSSONO IMPORRE A UNA
ATTIVITÀ INDUSTRIALE LIMITI DI RUMOROSITÀ PROPRI DELLE ZONE
RESIDENZIALI. In
proposito, il Consiglio di Stato ritiene che l’impianto di
trattamento dell’acqua “deve considerarsi ai fini della
zonizzazione acustica un’attività industriale, operando a
ciclo ininterrotto per assicurare la continuità dei servizi,
grazie all’ausilio di potenti macchinari inevitabilmente
rumorosi. Essa non è dunque compatibile con la classe III,
che invece è propria di un territorio mediamente urbanizzato
in cui non esistono o non dovrebbero esistere attività
industriali”.
ISOLAMENTO ACUSTICO.
Pertanto, “il nodo problematico della vicinanza di una
zona residenziale di nuovo insediamento, probabilmente
effetto di una non lungimirante programmazione urbanistica
locale, non può essere affrontato a livello acustico
imponendo all’attività industriale già esistente limiti di
rumorosità propri delle zone residenziali, tali da
determinarne la sostanziale impossibilità di esercizio, ma
attraverso prescrizioni puntuali finalizzate all’adozione
delle migliori tecnologie di isolamento acustico”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
L’appello è fondato.
Dalla ricostruzione fattuale offerta dagli appellanti, e non
contestata dagli appellati i quali pur edotti del giudizio
hanno liberamente scelto di non costituirsi, emerge che:
l’impianto di trattamento, depurazione e distribuzione
dell’acqua, già di proprietà comunale ed attualmente gestito
dall’appellante è stato edificato in epoca risalente, ed
ampliato nel 1985 sino ad occupare una superficie di circa
20.000 mq. con presenza di numerose vasche, depositi,
magazzini, impianti di pompaggio, di depurazione,
autorimesse e strutture di servizio, in area
urbanisticamente classificata F2.
In epoca successiva, l’amministrazione ha autorizzato la
riconversione di edifici a destinazione produttiva in zona
limitrofa (addirittura a distanza di poche decine di metri),
consentendone l’uso residenziale, sicché si è innescato un
inevitabile conflitto fra la funzione produttiva e quella
residenziale, per risolvere il quale, l’amministrazione non
solo ha imposto misure di contenimento dell’inquinamento
acustico (ottemperate dal gestore) ma ha classificato parte
del compendio produttivo, più vicino alle residenze, in
classe acustica III (zona mista) caratterizzantesi, secondo
il DPCM 14/11/1997 quale “area urbana con media densità
di popolazione, con attività commerciali e con limitate
attività artigianali con assenza di attività industriali”.
La classificazione appare ictu oculi non corretta.
L’impianto di trattamento dell’acqua deve
considerarsi ai fini della zonizzazione acustica un’attività
industriale, operando a ciclo ininterrotto per assicurare la
continuità dei servizi, grazie all’ausilio di potenti
macchinari inevitabilmente rumorosi. Essa non è dunque
compatibile con la classe III, che invece è propria di un
territorio mediamente urbanizzato in cui non esistono o non
dovrebbero esistere attività industriali.
Il nodo problematico della vicinanza di una
zona residenziale di nuovo insediamento, probabilmente
effetto di una non lungimirante programmazione urbanistica
locale, non può pertanto essere affrontato a livello
acustico imponendo all’attività industriale già esistente
limiti di rumorosità propri delle zone residenziali, tali da
determinarne la sostanziale impossibilità di esercizio, ma
attraverso prescrizioni puntuali finalizzate all’adozione
delle migliori tecnologie di isolamento acustico.
Prescrizioni, del resto che, per quanto risulta in atti,
sono state già imposte dal Comune ed ottemperate dal gestore
(ottemperanza che ha poi determinato l’improcedibilità
dell’impugnativa inizialmente proposta).
In riforma della sentenza di prime cure, la deliberazione
c.c. n. 3 del 26/01/2004 deve quindi essere annullata nella
parte in cui inserisce parte dell’area dell’impianto di
trattamento e depurazione, in classe acustica III
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.09.2015 n. 4405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla mobilità palla ai giudici ordinari.
Spetta al giudice ordinario la giurisdizione in tema di
mobilità per passaggio diretto tra amministrazioni e spetta
sempre al giudice ordinario la giurisdizione per le
procedure di mobilità interna orizzontale, le quali
implicano una mera modifica del profilo professionale del
dipendente all'interno della medesima amministrazione,
rimanendo inalterate categoria e posizioni economica.
È quanto hanno ribadito i giudici della II Sez. del
TAR Puglia-Bari con la
sentenza
07.09.2015 n. 1233.
Si osserva che la mobilità per passaggio diretto tra
amministrazioni integra una mera modificazione soggettiva
del rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e,
quindi, una cessione del contratto; la mobilità interna
orizzontale, è stato altresì osservato dai giudici
amministrativi baresi, esula dal novero dei concorsi
pubblici, latamente intesi, nonché da quelle procedure di
mobilità verticale comportanti un passaggio tra aree, e
quindi un mutamento di categoria e posizione economica del
soggetto interessato, per le quali la giurisprudenza ha
ormai unanimemente riconosciuto la giurisdizione
amministrativa.
Non si può quindi parlare per la mobilità interna
orizzontale di giurisdizione amministrativa neppure nel caso
in cui si adduca che i provvedimenti impugnati col ricorso
originario, aventi a oggetto il piano assunzionale e la
programmazione del fabbisogno, nonché il regolamento sulle
procedure di mobilità interna, siano espressione di scelte
discrezionali, tali da configurare una situazione di
interesse legittimo in capo al soggetto interessato e
radicare la giurisdizione in capo al giudice amministrativo.
Poiché tali atti, secondo i giudici pugliesi, sono invero
atti presupposti della procedura in questione, che, «anche a
volerne riconoscere la natura amministrativa quali atti di
macro organizzazione, sono comunque sindacabili dal giudice
ordinario ai sensi dell'art. 63, comma 1, dlgs n. 165, in
ossequio ai principi di concentrazione ed effettività della
tutela giurisdizionale, di rilevanza costituzionale».
Perciò
in questi casi va pertanto dichiarato il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo in favore del
giudice ordinario, innanzi al quale il giudizio va
riproposto ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 11 c.p.a.
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015).
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MASSIMA
Preliminarmente, il Collegio ritiene
che tutta la questione, oggetto del presente giudizio
rientri nella cognizione del giudice ordinario.
A tale conclusione si è giunti tanto in considerazione del
fatto che la pretesa azionata è quella allo scorrimento
della graduatoria con il conseguente incardinamento nella
qualifica di Avvocato, quanto e soprattutto, in
considerazione della natura della procedura in questione.
Trattasi infatti di mobilità interna orizzontale, che esula
dal novero dei concorsi pubblici, latamente intesi, nonché
da quelle procedure di mobilità verticale comportanti un
passaggio tra aree, e quindi un mutamento di categoria e
posizione economica del soggetto interessato, per le quali
la giurisprudenza ha ormai unanimemente riconosciuto la
giurisdizione amministrativa.
Nella specie, la ricorrente è già dipendente
dell’Amministrazione provinciale e aspira, tramite lo
scorrimento della graduatoria, a ricoprire il posto di
Avvocato, ora attribuito all’odierna controinteressata,
mantenendo inalterata tanto la categoria professionale, D,
quanto la posizione economica, D3.
Mancano evidentemente l’elemento novativo e quello
costitutivo, necessari e sufficienti a determinare
l’assimilazione della procedura in questione a quelle
concorsuali, ricadenti nella residuale area di giurisdizione
del giudice amministrativo di cui al quarto comma dell'art.
63 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165.
L’istituto in questione, infatti, attiene
alla gestione del rapporto lavorativo e non presuppone in
senso stretto l’esercizio di un potere amministrativo, che
giustifichi all’indomani della privatizzazione dell’impiego
alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, la
giurisdizione del G.A..
Se la giurisprudenza amministrativa,
riprendendo l’orientamento espresso dalle SS.UU. della
Cassazione, ha già riconosciuto la giurisdizione ordinaria
in tema di mobilità per passaggio diretto tra
Amministrazioni
-integrando siffatta procedura una mera modificazione
soggettiva del rapporto di lavoro con il consenso di tutte
le parti e, quindi, una cessione del contratto–
a maggior ragione non può che affermarsi la
giurisdizione ordinaria per le procedure di mobilità interna
orizzontale, le quali implicano, come visto, una mera
modifica del profilo professionale del dipendente
all’interno della medesima Amministrazione, rimanendo
inalterate categoria e posizioni economica.
Né vale obiettare, a sostegno della giurisdizione di questo
TAR, che i provvedimenti impugnati col ricorso originario,
aventi ad oggetto il piano assunzionale e la programmazione
del fabbisogno, nonché il regolamento sulle procedure di
mobilità interna, siano espressione di scelte discrezionali,
tali da configurare una situazione di interesse legittimo in
capo al soggetto interessato e radicare la giurisdizione in
capo al giudice amministrativo.
Tali atti sono invero atti presupposti della procedura in
questione, che, anche a volerne riconoscere la natura
amministrativa quali atti di macro-organizzazione, sono
comunque sindacabili dal giudice ordinario ai sensi
dell’art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 165, in ossequio ai
principi di concentrazione ed effettività della tutela
giurisdizionale, di rilevanza costituzionale.
Alla luce delle considerazioni su esposte,
va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione di questo
giudice amministrativo in favore del giudice ordinario,
innanzi al quale il giudizio va riproposto ai sensi e per
gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a.. |
CONDOMINIO:
Cortile,
spese sempre comuni. L’usura è addebitabile a chi «sfrutta»
il selciato che funge da soffitto.
Ripartizione. I singoli proprietari sottostanti non devono
partecipare agli oneri di manutenzione.
Nell'intricata
materia condominiale vi sono delle fattispecie che, più di
altre, incarnano la complessità: è il caso del cosiddetto
cortile-lastrico, cioè quella superficie o area comune che
svolge la duplice funzione di cortile in senso proprio
(destinato ad un uso promiscuo, spesso comprendente
l’accesso e il ricovero di autoveicoli) e,
contemporaneamente, di copertura di locali sottostanti
(anche in questo caso, spesso destinati a parcheggio
sotterraneo), e le cui problematiche di ripartizione delle
spese di conservazione hanno ripetutamente occupato le aule
di giustizia.
In questo solco, si colloca anche una recente pronuncia del
Tribunale di Roma (sentenza 02.01.2015 n. 1) che ha
affermato il principio per cui «ove si debba procedere
alla riparazione del cortile o del viale di accesso
all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per
i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo
condòmino, ai fini della ripartizione delle spese non si
ricorrere ai criteri previsti dall’articolo 1126 del Codice
civile ma, in via analogica, all’articolo 1125 che prevede
l’accollo per intero delle spese relative alla manutenzione
della parte della struttura complessa, identificantesi con
il pavimento del piano superiore, a chi con l’uso esclusivo
della stessa determina la necessità della inerente
manutenzione e verificandosi in tal caso un’applicazione
particolare del principio generale dettato dall’art. 1123,
comma 2, del codice civile».
Va detto, innanzitutto, che la soluzione concreta adottata
nella sentenza presuppone che la proprietà di tale tipologia
di cortile sia diversa rispetto a quella dei locali comuni
sottostanti che usufruiscono della relativa funzione di
copertura, perché in caso contrario (proprietà condominiale
di entrambe le strutture) il problema, ovviamente, non si
pone (dovendosi ripartire ogni costo in ragione dei
millesimi di proprietà attribuiti ai partecipanti).
Da tale distinta titolarità deriva la necessità di dare una
risposta al problema della ripartizione delle spese di
manutenzione, che il Tribunale risolve affermando
l’applicazione “analogica” dell’articolo 1125 del
Codice civile destinato (in via principale) a regolare la
ripartizione del solaio, ipotesi nella quale esistono,
appunto, due proprietà contrapposte, che danno luogo a una
triplice distinzione (titolarità delle parti “superiori”,
comproprietà della struttura mediana, e un’ulteriore e
distinta titolarità delle parti “inferiori”).
Utilizzando tale norma, i costi del rifacimento della
superficie del cortile devono essere attribuiti interamente
al proprietario (o ai proprietari) “sovrastanti”,
cioè a coloro che utilizzano il cortile per gli scopi
consueti nell’edificio (compreso il passaggio e il ricovero
delle auto), con totale esenzione di quelli “sottostanti”,
il tutto in riferimento al criterio generale del comma 2
dell’articolo 1123 che prevede la ripartizione “in base
all’uso”.
La pronuncia romana si collega a una giurisprudenza, non
proprio uniforme, della Cassazione, che in casi analoghi ha
affermato, in un primo tempo, l’applicabilità dell’articolo
1126 del Codice civile (quindi, con spese 1/3 ai proprietari
sovrastanti, e i rimanenti 2/3 ai sottostanti, sentenza
11283/1998), per poi adottare l’interpretazione favorevole
all’articolo 1125 (sentenza 18194/2005).
L’aspetto rilevante della nuova interpretazione risiede
nell’evidenziazione (in funzione della ripartizione delle
spese) dell’usura della struttura di copertura sovrastante.
Questo perché le spese relative alla manutenzione della
parte della struttura complessa identificantesi con il
pavimento del piano superiore vanno accollate per intero a
chi con l’uso esclusivo determina la necessità della
manutenzione (Cassazione, sentenza 10858/2010).
È innegabile, infatti, che detto “uso esclusivo”,
specie nel caso di transito di autoveicoli, è certamente
l’unica causa del deterioramento del pavimento/superficie
del cortile (articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di superficie
coperta deve
essere inteso in senso tecnico costruttivo, quale superficie
direttamente impegnata anche tenendo
conto dello spazio volumetrico occupato, atteso che detto
spazio viene di fatto sottratto ad ogni altra
utilizzazione.
---------------
L'aumento di cubatura realizzato è correttamente
fatto rientrare nella nozione di
difformità totale dell'opera dal progetto assentito laddove
si è riscontrato:
- per il lotto A un'altezza
all'intradosso trave di circa ml 5,90 rispetto ai ml 4,85 da
progetto ed un'altezza al colmo di circa
6,70 rispetto ai ml 5,65 da progetto;
- per il lotto B
un'altezza all'intradosso trave di circa ml 5,90
rispetto ai ml 5,65 da progetto ed un'altezza al colmo di
circa 6,70 rispetto ai ml 5,60 da progetto;
-
per il lotto C un'altezza all'intradosso trave di circa 5,60
rispetto ai ml 4,85 da progetto ed
un'altezza al colmo di circa 6,40 rispetto ai ml 5,65 da
progetto.
---------------
Ritenuto in fatto
Ve.Ro., titolare della ditta individuale Terra del
Sud, veniva indagato del reato di cui all'art.
44, lett. B, DPR 380/2001, atteso che nel corso di un
sopralluogo eseguito in data 28.05.2013 in
relazione ad un atto autorizzativo rilasciato dal Comune di
Melissano, veniva rilevato "un aumento
di volumetria dovuta alla maggiore altezza riscontrata, in
specie: per il lotto A un'altezza
all'intradosso trave di circa ml 5,90 rispetto ai ml 4,85 da
progetto ed un'altezza al colmo di circa
6,70 rispetto ai ml 5,65 da progetto; per il lotto B
un'altezza all'intradosso trave di circa ml 5,90
rispetto ai ml 5,65 da progetto ed un'altezza al colmo di
circa 6,70 rispetto ai ml 5,60 da progetto;
per il lotto C un'altezza all'intradosso trave di circa 5,60
rispetto ai ml 4,85 da progetto ed
un'altezza al colmo di circa 6,40 rispetto ai ml 5,65 da
progetto".
Veniva pertanto disposto il sequestro delle tre serre
agricole realizzate in Melissano, che veniva
convalidato dal PM in data 29.05.2013.
Avverso detto decreto il difensore dell'indagato proponeva
richiesta di riesame, che veniva rigettata
dal Tribunale del riesame di Lecce con provvedimento emesso
in data 24.07.2013.
In particolare, a giudizio del Collegio, ai fini della
determinazione di superficie occupata dalle tre
serre per come realizzate, doveva tenersi conto pure della
dimensione volumetrica occupata sulla
superficie sulla quale esse insistevano. Siffatto aumento
della cubatura, valutato in relazione al
progetto approvato, appariva tale da integrare la nozione di
totale difformità dell'opera,
configurando il contestato reato.
Avverso l'ordinanza del tribunale del riesame l'odierno
indagato, a mezzo del proprio difensore,
proponeva ricorso per Cassazione, deducendo i seguenti
motivi.
1) Violazione di legge per erronea applicazione di norme
giuridiche.
Lamenta la difesa che l'interpretazione della normativa
regionale fornita dal Tribunale non appare
corretta: se la norma avesse inteso finalizzare la
previsione dell'altezza massima alla irrealizzabilità
di un maggior volume e non limitarsi alla previsione in
termini di sola superficie realizzabile
avrebbe previsto un indice volumetrico massimo assentibile e
non si sarebbe limitata ad individuare
solo le superfici massime.
Pertanto il riferimento all'altezza, che pure costituisce un
limite in caso di violazione può costituire
una parziale difformità di limitatissimo carico urbanistico,
ma non può concretizzare una totale
difformità per un aumento volumetriche non viene
considerato nella disposizione normativa.
Inoltre, altro aspetto da tenere in debita considerazione è
costituito proprio dalla normativa
regionale richiamata, che prevede espressamente le ipotesi
in cui il volume rileva e, precisamente,
al comma 2 dell'art. 4 della legge regionale pugliese
19/1986 dove si prevede che: "le superfici
utilizzate dalle serre possono essere computate ai fini
della volumetria assentibile soltanto per fabbricati
funzionalmente connessi alla conduzione agraria del fondo,
ivi comprese le abitazioni
rurali".
La difesa infine rileva che al comma 3 dell'art. 59 della
legge regionale della Puglia n. 1 del 2005,
rubricato modifiche alla legge regionale 11.09.1986
n. 19, è ora previsto che alla
realizzazione delle serre e loro annessi si potrà procedere
purché l'altezza misurata al colmo delle
coperture non superi i 10 metri.
2) Contraddittorietà ed illogicità della motivazione in
relazione alla maturata prescrizione.
Lamenta la difesa che è stata prodotta documentazione(ortofoto)
allegata anche al presente ricorso
attestante l'esistenza e la piena ultimazione e funzionalità
delle tre serre già nell'anno 2006, nonché
certificazioni di agibilità riferite a strutture che si
trovano all'interno delle stesse e che risalirebbero
addirittura al 2004.
La decisione gravata appare pertanto illogica e
contraddittoria, avendo la difesa offerto prova
documentale alla quale il Tribunale ha ritenuto di non
riconoscere alcuna valenza probatoria.
A tal riguardo il ricorrente rappresenta che la
giurisprudenza di legittimità ha escluso che sia
possibile disporre un sequestro allorché la prescrizione del
reato sia intervenuta ancora prima
dell'esercizio dell'azione penale.
3) Contraddittorietà ed illogicità della motivazione in
relazione alla richiesta subordinata di
utilizzazione delle strutture.
La difesa fa presente che all'interno delle serre sono
ubicate le strutture ed i macchinari
indispensabili per l'esercizio dell'attività.
Il riesame ha motivato il rigetto asserendo che "potendo
apparire necessario appurare, attraverso
idonea consulenza tecnica, l'esatta consistenza planivolumetrica delle difformità riscontrate, il che
allo stato non consente di accedere nemmeno alla subordinata
richiesta avanzata nell'ambito della
propria attività imprenditoriale, e ciò allo scopo di
garantire una più efficace immodificabilità delle
opere".
Ritenuto in diritto
Il ricorso è infondato e deve pertanto essere rigettato.
Quanto al primo motivo di ricorso, infatti, le deduzioni
svolte dalla difesa sono state correttamente
analizzate e ritenute infondate dai giudici di merito, i
quali con ampia, logica e congrua motivazione
hanno fornito la corretta interpretazione della legge
regionale violata dall'odierno ricorrente e,
quindi, hanno ritenuto la sussistenza del fumus commiss
delicti del reato al medesimo addebitato.
Questa Corte, invero, condivide quanto asserito dal
Tribunale del Riesame con riguardo alla
confutazione di quanto dedotto dalla difesa secondo la quale
la superficie delle serre attinte dal vincolo era da
ritenersi conforme al progetto in quanto doveva farsi
riferimento esclusivamente alla
superficie e non al volume, visto che dalla legge della
Regione Puglia n. 19/1986, e segnatamente dall'art. 4 della stessa, emergerebbe come la valutazione edilizio-urbanistica nulla dice in ordine alla
volumetria, stabilendo una percentuale massima realizzabile
solo in termini di superficie (75%
dell'area disponibile ove la stessa non risulti inferiore a
mq 4000).
Correttamente tuttavia il Collegio di merito, richiamando la
stessa normativa invocata dalla difesa
dell'indagato, asseriva che il concetto di superficie
coperta, per come stabilito dall'art. 1, comma 1,
n. 1, della l.r. 19/1986, già in forza del dato testuale del
successivo n. 2 della stessa disposizione, per
il quale è necessario che l'altezza misurata al colmo delle
coperture non superi i metri 6, deve
essere inteso in senso tecnico costruttivo, quale superficie
direttamente impegnata anche tenendo
conto dello spazio volumetrico occupato, atteso che detto
spazio viene di fatto sottratto ad ogni altra
utilizzazione.
L'aumento di cubatura realizzato veniva quindi correttamente
fatto rientrare nella nozione di
difformità totale dell'opera dal progetto. Il riferimento
operato dalla difesa alla legge regionale
1/2005 è da ritenersi ininfluente, in quanto quello che
rileva è la difformità in termini di cubature e
di altezze rispetto al progetto presentato.
Quanto ai restanti due motivi dedotti dalla difesa
censuranti la illogicità e contraddittorietà della
motivazione, questa Corte, innanzitutto rileva che, come
noto, "in tema di riesame delle misure
cautelari, il ricorso per cassazione per violazione di
legge, a norma dell'art. 325, comma primo,
cod. proc. pen., può essere proposto solo per mancanza
fisica della motivazione o per la presenza di
motivazione apparente, ma non per mero vizio logico della
stessa" (Cfr. sentenza Cass. Sez. V n.
35532 del 25.06.2010).
Ad ogni buon conto, il Tribunale del Riesame, con congrua
motivazione, nell'ambito della propria
indagine di merito non reiterabile nella presente sede, ha,
in primo luogo, esaminato la
documentazione prodotta dalla difesa e giustificato la
mancata maturazione della prescrizione,
osservando che la suddetta documentazione fotografica non si
palesava idonea a dimostrare che le
strutture ivi raffigurate fossero proprio quelle in
contestazione e tantomeno poteva desumersi dalla
loro diretta visione la prova di una loro integrale
ultimazione sin dal 2006; inoltre il Collegio di
merito ha ugualmente ben motivato in ordine alla persistenza
del periculum in mora, ritenendo che
vi fosse la necessità di garantire la immodificabilità delle
opere, connessa peraltro ad ulteriori
accertamenti planovolumetrici da disporsi a cura del
Pubblico Ministero.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2014 n. 1734 - udienza). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste
la totale difformità dell'opera laddove risulta
che nel
progetto allegato al permesso di
costruire "la veranda viene indicata come chiusa solo sul
lato lungo, mentre le due
aperture laterali dovevano rimanere aperte e suscettibili di
chiusura solo con le
preesistenti saracinesche metalliche".
In realtà, "a seguito della chiusura della veranda su tutti i lati,
con infissi in alluminio, la ricorrente
ha potuto procedere alla rimozione degli infissi posti a
chiusura dei varchi di accesso al
chiosco originari" e "...in tal modo l'area chiusa è stata
apprezzabilmente ampliata di circa
50 mq (come accertato dal P.M.) realizzando una sala in
precedenza non esistente né
assentita nel permesso a costruire n. 89/1984".
A tale stregua, del tutto giustificata risulta la
conclusione dei giudici di appello
quando affermano che "l'opera realizzata ha modificato
sostanzialmente l'originario
chiosco creando una nuova struttura chiusa, di molto più
estesa rispetto a quella
preesistente".
Né vale l'ulteriore rilievo difensivo
secondo cui le aperture laterali
della veranda erano comunque chiuse da saracinesche perché —e la considerazione è del tutto
logica plausibile— se è vero che le saracinesche
consentivano ugualmente la chiusura della
veranda è anche vero che, "al contempo, ne impedivano la
fruizione da parte dei clienti del
bar ben diversa è la possibilità di utilizzo della veranda
che è derivata dalla apposizione
degli infissi in allumini, posto che questi consentono la
fruizione della veranda anche nelle giornate di cattivo
tempo, garantendo l'integrale chiusura della veranda e
lasciando intatta
la sua destinazione funzionale".
---------------
1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso - Con la
sentenza qui impugnata,
la Corte d'appello ha confermato la condanna per violazione
degli artt. 44/c D.P.R. 380/2001
e 181 DLgs 42/2004 pronunciata nei confronti dell'odierna
ricorrente accusata di avere "in
totale difformità rispetto a quanto assentito, chiuso
completamente una veranda coperta
tamponandola lateralmente mediante l'installazione di
infissi in alluminio e vetro, in area
demaniale posta a meno di 300 metri dalla battigia, senza
essere in possesso
dell'autorizzazione prescritta".
Avverso tale decisione, l'imputata ha proposto ricorso,
tramite il difensore
deducendo:
1) violazione e falsa applicazione della legge penale da
ravvisare nel fatto di avere
ritenuto sussistente l'infrazione dell'art. 44/c e,
segnatamente, la "totale difformità"
dell'opera laddove il quadro normativo e giurisprudenziale
impedisce di ritenere violata tale
disposizione in presenza della mera predisposizione di una
porta a vetri, in luogo di
saracinesca preesistente.
In particolare, si richiama l'attenzione sul fatto che la
totale difformità ricorre solo
quando si è al cospetto di un organismo edilizio totalmente
diverso per caratteristiche
tipologiche, planovolumetriche e di utilizzazione.
Ricorda, quindi, la ricorrente che la fattispecie in esame
concerne la chiusura con
infissi dei lati dì una veranda coperta a servizio di uno
stabilimento balneare e che il muro
sul lato fronte mare munito degli infissi incriminati era
già assentito come pure esisteva già
il diritto di chiudere quello spazio con una serranda (alias
saracinesca metallica).
Errano, pertanto, i giudici quando assumono che la chiusura
con la porta con ante
"a libro" di cui si discute fosse finalizzata a destinare lo
spazio a luogo di ristorazione con
tavolini perché questa vocazione dei luoghi era già
sussistente ed avrebbe potuto essere
realizzata anche con la serranda. Quindi, una volta
installate le porte vetrate, peraltro
lasciate quasi sempre aperte, non si è verificata alcuna
utilizzazione diversa degli spazi
ma si è verificata solo un modo più pratico e decoroso di
utilizzazione dello spazio
(contrariamente a quanto affermatosi a f. 4 della sentenza
di primo grado che accenna ad una "maggiore
utilità" che avrebbe determinato "trasformazioni tipologiche
e planovolumetriche da tale entità da costituire
uno stravolgimento complessivo dell'originario progetto").
Si ricordano, a tal fine, decisioni di questa
stessa sezione (05.07.2005, n. 34142) ove è stato affermato che
"il concetto di difformità parziale
si riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare
gli aumenti di cubatura o di
superficie di scarsa consistenza nonché le variazioni
relative a parti accessorie che non
abbiano specifica rilevanza e non siano suscettibili di
utilizzazione autonoma" e si richiama
l'attenzione sul tenore dell'art. 32 D.P.R. 380/2001 a
proposito della definizione di variazione
essenziale che ricorre in presenza di una o più delle
seguenti condizioni:
a) mutamento
della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal DM
02.04.1968;
b)
aumento consistente della cubatura o della superficie di
solaio da valutare in relazione al
progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto
approvato o della localizzazione dell'edificio sull'area di
pertinenza;
d) mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio;
e) violazione
delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica non attinente e fatti procedurali.
Pertanto, la creazione delle porte a vetro e la rimozione di
quelle del chiosco-bar
(peraltro tenute sempre aperte in precedenza) non può
rientrare né nella nozione di "difformità
totale" né in quella di "variazione essenziale" perché non
comportano quello
stravolgimento dell'opera assentita;
2) violazione di legge penale e processuale da ravvisare nel
fatto di avere
sostenuto la violazione dell'art. 44/c D.P.R. 380/2001 per
carenza del titolo abilitativi e violazione dell'art. 192
C.P.P. per avere erroneamente valutato le risultanze
istruttorie come
la deposizione dell'ing. Ba., progettista e
direttore dei lavori di ampliamento dello
stabilimento balneare il quale ha dichiarato chiaramente
che, nel progetto, la parte
tratteggiata in corrispondenza dei lati corti della veranda
ben si poteva "intendere come
chiusura";
3) violazione di legge penale con riferimento all'elemento
soggettivo in quanto, per
la mancata enunciazione, da parte del Comune di Francavilla,
di prescrizioni l'imputata, si
era incolpevolmente convinta della liceità della
installazione delle porte. Si sarebbe, quindi,
dovuto assolvere la Er., quantomeno, ex art. 530, co. 2,
sotto il profilo psicologico.
La ricorrente conclude invocando l'annullamento della
sentenza impugnata.
2. Motivi della decisione - Il ricorso è infondato.
Ancorché tutti i motivi siano stati svolti con l'intento di
sostenere che i giudici di
merito erano incorsi in una erronea applicazione della
legge, l'analisi degli argomenti
sviluppati dalla ricorrente testimonia come, nella sostanza,
ella cerchi di coinvolgere
questa S.C. in una rivalutazione dei dati fattuali. Detto,
in altri termini, ciò che viene
introdotto come violazione delle norme è semplicemente un
tentativo di rivalutazione delle
emergenze processuali per trarne conclusioni differenti e
più favorevoli alla ricorrente.
Deve, però, rammentarsi che rientra sicuramente nelle
competenze di questa S.C.
verificare se un fatto affermato come esistente sia invece
inesistente ovvero se le
argomentazioni della motivazione siano sostenute da elementi
di fatto acquisiti in atti e se,
in sostanza, il giudice del merito abbia "fotografato"
correttamente la realtà sulla scorta di
quanto accertato nel provvedimento gravato; tale verifica,
però, non può risolversi in una
valutazione della prova al punto da optare per la soluzione
che si ritiene più adeguata alla
ricostruzione dei fatti, valutando, ad esempio,
l'attendibilità dei testi, le conclusioni di periti
o consulenti tecnici o esaminando fotogrammi o planimetrie
(sez. IV, 17.09.2004 n., Cricchi, Rv. 229690).
Tutto ciò è di esclusiva competenza del giudice del merito
e, nel momento in cui
questi abbia fornito una spiegazione plausibile della
propria analisi probatoria, l'esame dei
dati processuali si esaurisce nella fase dinanzi ad esso
essendo preclusa, in sede di
legittimità (sez. II 11.01.2007, Messina, Rv. 235716), "la
possibilità di una nuova valutazione delle
risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata
dal giudice di merito, attraverso
una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati
processuali o una diversa
ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di
rilevanza o attendibilità delle fonti di
prova".
Tanto premesso, quanto al primo motivo, (sostanzialmente il
principale) si deve
osservare che la totale difformità dell'opera è stata bene
evidenziata nella prima e nella
seconda sentenza di merito ove si sottolinea che, nel
progetto allegato al permesso di
costruire, "la veranda viene indicata come chiusa solo sul
lato lungo, mentre le due
aperture laterali dovevano rimanere aperte e suscettibili di
chiusura solo con le
preesistenti saracinesche metalliche (così come descritte
nella concessione demaniale n. 416/2002)".
Ulteriore riscontro obiettivo dell'assunto i giudici lo
rinvengono nel dato fattuale che
"nel progetto assentito non si indicava graficamente la
presenza di infissi sui due lati corti,
mentre questi erano indicati (sia graficamente che con
annotazione scritta) sul lato lungo".
Come ricordano i giudici, tale ultima circostanza è stata
confermata anche dal teste
Ba. che, a proposito della linea tratteggiata, ha
riferito trattarsi di una
"separazione funzionale".
La querelle sul punto della ricorrente (richiamata anche nel
secondo motivo) è più
adeguatamente confutata dal giudice di merito con la
considerazione logica che "lo stesso
progettista lì dove ha voluto indicare l'apposizione di
infissi li ha analiticamente disegnati,
mentre sui lati corti si é limitato ad un semplice
tratteggio che —come egli stesso riferisce— indicano una separazione funzionale tra spazi coperti e
scoperti, ma non consentono
affatto di desumere la volontà di chiudere con infissi anche
ai lati corti della veranda".
L'argomentare del giudice di merito di primo grado viene
inglobato a pieno dalla
Corte che sottolinea la "portata dirimente delle acute
osservazioni del Tribunale" e che
viene riassunta osservando che "se fosse stata prevista la
chiusura anche dei lati corti
della veranda con infissi in alluminio, risulterebbe del
tutto incomprensibile a mancata
indicazione degli stessi nel disegno della porzione laterale
dell'immobile oggetto dei lavori
(laddove nella medesima tavola progettuale erano ben
evidenziati gli infissi posti a chiusura degli accessi al
chiosco preesistente) salvo ad ammettere, come unica ipotesi
plausibile sul piano progettuale,
che la veranda di nuova realizzazione, dovendo rimanere
aperta sui due lati corti
giocoforza imponeva il mantenimento delle porte- finestre
originariamente esistenti a
chiusura del chiosco bar".
Tanto brevemente richiamato, in punto di fatto, a proposito
delle principali obiezioni
che i giudici di merito hanno mosso a quelle difensive, si
ha ancora maggior contezza del
fatto —anticipato inizialmente- che la ricorrente, con le
proprie argomentazioni odierne,
attraverso dotte evocazioni di indirizzi giurisprudenziali
in tema di "difformità" (totale o
parziale) e di differenze con la nozione di "variazione
essenziale", tenta esclusivamente di
distogliere l'attenzione dallo sforzo che essa compie di
ottenere da questa S.C. una nuova
lettura dei medesimi dati processuali già così attentamente
e logicamente analizzati dal
Tribunale e dalla Corte.
E se ciò vale con riguardo alla disamina operata da questi
ultimi circa il progetto e le
dichiarazioni del progettista, a fortiori, il rilievo è
giusto quando si passa a valutare la
correttezza delle considerazioni svolte dai giudici di
merito in punto di "maggiore utilitas"
che la ricorrente ha tratto dalle opere della cui illiceità
si sta trattando.
Nuovamente, la Corte afferma che "colgono nel segno le
convincenti considerazioni
della sentenza gravata, mutuate dalla forza dimostrativa dei
rilievi grafici eseguiti dalla
P.G. (v. foto allegate alla relazione n. 44 della Polizia
Municipale in data 26.06.2006)".
In effetti risulta molto chiaro ciò che il Tribunale afferma
in merito quando osserva
che "a seguito della chiusura della veranda su tutti i lati,
con infissi in alluminio, la Er.
ha potuto procedere alla rimozione degli infissi posti a
chiusura dei varchi di accesso al
chiosco originari" e "...in tal modo l'area chiusa è stata
apprezzabilmente ampliata di circa
50 mq (come accertato dal P.M.) realizzando una sala in
precedenza non esistente né
assentita nel permesso a costruire n. 89/1984".
A tale stregua, del tutto giustificata risulta la
conclusione dei giudici di appello
quando affermano che "l'opera realizzata ha modificato
sostanzialmente l'originario
chiosco creando una nuova struttura chiusa, di molto più
estesa rispetto a quella
preesistente".
Né vale l'ulteriore rilievo difensivo —qui reiterato—
secondo cui le aperture laterali
della veranda erano comunque chiuse da saracinesche perché —e la considerazione è del tutto
logica plausibile— se è vero che le saracinesche
consentivano ugualmente la chiusura della
veranda è anche vero che, "al contempo, ne impedivano la
fruizione da parte dei clienti del
bar ben diversa è la possibilità di utilizzo della veranda
che è derivata dalla apposizione
degli infissi in allumini, posto che questi consentono la
fruizione della veranda anche nelle giornate di cattivo
tempo, garantendo l'integrale chiusura della veranda e
lasciando intatta
la sua destinazione funzionale".
A fronte di tali obiettive, argomentate e del tutto logiche
considerazioni, di nessun
pregio sono le obiezioni —di carattere fattuale— che la
ricorrente svolge quando richiama
l'attenzione sul fatto che le porte del chiosco bar rimosse
erano sempre tenute aperte in
precedenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.05.2011 n. 29509 - udienza). |
PATRIMONIO:
Il
gestore risponde dell’imprudenza dell’utente. Segnaletica.
La giurisprudenza dà sempre più obblighi al proprietario
della strada.
Apporre e manutenere
la segnaletica stradale non è solo un preciso obbligo
dell’ente proprietario della strada: occorre anche che nel
farlo si consideri la possibilità che un utente commetta
errori o imprudenze. Dunque, per ridurre i rischi, la
segnaletica nel suo complesso va particolarmente curata,
anche a costo di ridondanze: l’occhio del professionista che
progetta un piano di segnalamento deve saper vedere e
guardare con gli occhi dell’utente. Ciò perché negli ultimi
anni si è evoluta la giurisprudenza della Cassazione,
aumentando le responsabilità dei gestori.
L’obbligo di curare le condizioni della strada è imposto
dall’articolo 14 del Codice della strada e più volte il
ministero delle Infrastrutture ha richiamato l’attenzione
sulla segnaletica (si veda la direttiva pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale n. 301/2000). Oltre a un’evidente
responsabilità amministrativa, ne possono sorgere di civili
e penali in caso di incidenti addebitabili anche ai segnali.
In quali condizioni può esserci responsabilità specifica?
Una giurisprudenza ormai datata richiedeva che il difetto di
manutenzione o il pericolo generato da assenza di
segnaletica fosse occulto, in modo da costituire insidia o
trabocchetto. Ora invece la Cassazione ha riportato la
responsabilità dell’ente proprietario, nella persona dei
suoi funzionari, nell’alveo degli ordinari criteri di
imputazione della colpa.
Ad esempio, la sentenza n. 32211/2011, ha stabilito che «è
senz’altro vero che l’utente della strada debba attenersi
alle regole sulla circolazione stradale, ma è altrettanto
certo che, laddove esiste una situazione di oggettiva
pericolosità, l’ente gestore della strada deve anche
prevedere la possibilità di manovre imprudenti degli
automobilisti e prevenire le relative conseguenze dannose
adottando le opportune misure». Ciò amplia molto
l’obbligo di attenzione dei preposti a posizionare la
segnaletica stradale, che deve prendere in considerazione i
probabili comportamenti non rispettosi del Codice.
Ancor più incisiva è la
sentenza 05.05.2011 n. 22190 (udienza), della IV
Sez. penale, dove si legge che «la responsabilità
dell’addetto alla manutenzione può essere esclusa soltanto
quando la condotta dell’utente della strada si configuri
come evento eccezionale o abnorme, non altrimenti
prevedibile, né evitabile».
L’evoluzione giurisprudenziale pare chiara: chiede sempre
più attenzione e professionalità (articolo Il Sole 24 Ore del 03.11.2015).
---------------
MASSIMA
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, (cfr.,
tra le altre, Cass., Sez. 4, Sent. n. 36760 del 04.06.2004,
Rv. 230270; Cass., Sez. 4, Sent. n. 21040 dell'01.04.2008,
Rv. 240218) integra il reato di lesioni
colpose la condotta omissiva del responsabile dell'ufficio
tecnico comunale nella attività di manutenzione di una
strada sulla quale, per tale causa, si è verificato un
incidente.
Pertanto, nel caso in cui un incidente si sia verificato per
l'insufficiente od omessa manutenzione della sede viaria da
parte dell'ente pubblico a ciò preposto, il soggetto
incaricato del relativo servizio risponde penalmente delle
lesioni colpose conseguite al sinistro secondo gli ordinari
criteri di imputazione della colpa e non solo quando il
pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti
occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto.
Sul punto questa Corte ha precisato che la
responsabilità dell'addetto alla manutenzione può essere
esclusa soltanto quando la condotta dell'utente della strada
si configuri come evento eccezionale o abnorme, non
altrimenti prevedibile, né evitabile.
Tanto premesso si osserva che la sentenza impugnata ha
riconosciuto che le lesioni subite dalla persona offesa sono
legate da nesso causale con le buche presenti sull'asfalto
della strada comunale, ove si verificò l'evento e che se
l'ente comunale, e per esso gli organi preposti, avesse
adoperato i necessari controlli diretti a garantire la
manutenzione di quella sede stradale, l'incidente non si
sarebbe verificato.
Peraltro la sentenza impugnata ha ritenuto di escludere la
responsabilità del Sa. in ordine al reato di lesioni colpose
perché, secondo il riparto delle competenze, egli aveva la
responsabilità della manutenzione, ma tale responsabilità
dipendeva dalla segnalazione di eventuali dissesti da parte
della Polizia Municipale, che aveva effettuato tale
segnalazione solo a seguito del sinistro.
Tale ragionamento effettuato dai giudici di appello non è
condivisibile, poiché non tiene conto né della disposizione
dell'art. 107, comma 1 del d.lgs. 267/2000, che dispone che:
"la gestione, amministrativa, finanziaria e tecnica è
attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa,
di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di
controllo", né della disposizione di cui al comma 6
dell'art. 107 sopra indicato secondo cui: "I dirigenti
sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in
relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza
amministrativa, della efficienza e dei risultati della
gestione".
Tale disposizione infatti attribuisce compiti di gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica ai dirigenti, cui sono
conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse,
strumentali e di controllo.
Una generale norma di diligenza pertanto
impone agli organi di amministrazione comunale,
rappresentativi o tecnici che siano, di vigilare,
nell'ambito delle rispettive competenze, per evitare ai
cittadini situazioni di pericolo derivanti dalla non
adeguata manutenzione e dal non adeguato controllo dello
stato delle strade comunali
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 05.05.2011 n. 22190 - udienza). |
URBANISTICA:
Il richiamo alla valenza pubblicistica degli
accordi ex art. 11 l. 241/1990, quale categoria comprendente
le varie ipotesi della c.d. amministrazione consensuale
(che, nello specifico settore che qui occupa, si estrinseca
nella c.d. urbanistica consensuale), consente di affermare
che nelle ipotesi di accordo previste dalla legislazione
speciale (come le convenzioni di lottizzazione in materia
urbanistica), permane intatto l’attributo –pubblicistico–
dell’esercizio del potere amministrativo e della natura
pubblica degli interessi portati dall’amministrazione, con
conseguente riconoscimento della legittimità costituzionale
della relativa previsione di giurisdizione esclusiva (art.
11, comma 5, l. 241/1990).
Del resto in dottrina si è autorevolmente osservato che le
convenzioni di lottizzazione, indipendentemente dalla
possibile qualificazione privatistica della fattispecie,
lasciano comunque sempre integra la potestà pubblicistica
del Comune in materia di disciplina del territorio alla
stregua di sopravvenute esigenze urbanistiche (e
segnatamente per il necessario adeguamento a modifiche
successive: in questo senso Consiglio di Stato, sez. IV,
02.03.2004 n. 957), giacché perché la natura di accordo
sostitutivo del provvedimento che approva la convenzione di
lottizzazione facoltizza comunque l’amministrazione, ai
sensi dell’art. 11, comma 4, della L. 07.08.1990, n. 241 a
sciogliersi dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse, nonché a regolare unilateralmente ed
autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della
convenzione.
---------------
Preliminarmente va osservato che il credito vantato dal
Comune di Mazzarino ha riguardo all’inadempimento di un
obbligo della società opponente nascente da una convenzione
di lottizzazione.
L’art. 33 del d.lgs. 80/1998, invocato dalla parte
opponente, relativo alla (diversa) materia dei servizi
pubblici, oltre a non avere diretta rilevanza nella
fattispecie in esame, è stato comunque fatto oggetto di
(parziale) declaratoria di illegittimità costituzionale, da
parte della citata sentenza n. 204/2004, che ha però
comunque circoscritto -facendone salva la legittimità
costituzionale- l’ambito della giurisdizione esclusiva in
materia di pubblici servizi alle fattispecie caratterizzate
dall’esercizio di poteri amministrativi, escludendo invece
quelle in cui la semplice presenza della pubblica
amministrazione come parte del rapporto in nulla differenzia
il rapporto medesimo da una vicenda tra privati.
Si badi però che la Corte costituzionale, nella sentenza in
esame, non ha ricondotto la linea discretiva del sistema ad
un attributo formale (provvedimento o negozio), ma ha
chiarito che il ricorso, da parte dell’amministrazione, a
strumenti privatistici non elimina l ’attributo
pubblicistico-funzionale della fattispecie, laddove lo
strumento negoziale operi in sostituzione dell’atto di
esercizio del potere, la cui sostanziale connotazione
pubblicistica continua, evidentemente, a permeare la
fattispecie: “La materia dei pubblici servizi può essere
oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce
esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la
facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti
negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si
vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone
l'esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n.
241 del 1990)”.
Proprio il richiamo alla valenza pubblicistica degli accordi
ex art. 11 l. 241/1990, quale categoria comprendente le
varie ipotesi della c.d. amministrazione consensuale (che,
nello specifico settore che qui occupa, si estrinseca nella
c.d. urbanistica consensuale), consente di affermare che
nelle ipotesi di accordo previste dalla legislazione
speciale (come le convenzioni di lottizzazione in materia
urbanistica), permane intatto l’attributo –pubblicistico–
dell’esercizio del potere amministrativo e della natura
pubblica degli interessi portati dall’amministrazione, con
conseguente riconoscimento della legittimità costituzionale
della relativa previsione di giurisdizione esclusiva (art.
11, comma 5, l. 241/1990).
Del resto in dottrina si è autorevolmente osservato che le
convenzioni di lottizzazione, indipendentemente dalla
possibile qualificazione privatistica della fattispecie,
lasciano comunque sempre integra la potestà pubblicistica
del Comune in materia di disciplina del territorio alla
stregua di sopravvenute esigenze urbanistiche (e
segnatamente per il necessario adeguamento a modifiche
successive: in questo senso Consiglio di Stato, sez. IV,
02.03.2004 n. 957), giacché perché la natura di accordo
sostitutivo del provvedimento che approva la convenzione di
lottizzazione facoltizza comunque l’amministrazione, ai
sensi dell’art. 11, comma 4, della L. 07.08.1990, n. 241 a
sciogliersi dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse, nonché a regolare unilateralmente ed
autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della
convenzione
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 25.05.2007 n. 1465 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale,
il Comune può sempre modificare l’assetto territoriale
configurato dal piano di attuazione di iniziativa privata
(Piano di lottizzazione o Piano particolareggiato di
Iniziative Privata), in relazione a nuove, sopravvenute
esigenze, che possono essere della più svariata natura, ma,
allorquando un procedimento lottizzatorio si sia concluso
con la sottoscrizione e la trascrizione della relativa
convenzione, nel dare un diverso assetto al territorio, ha
il dovere di specificare le ragioni di pubblico interesse
che hanno portato a modificare le valutazioni urbanistiche
sul presupposto delle quali era stato, a suo tempo,
approvato il piano esecutivo di iniziativa privata.
----------------
Come risulta dall’esame del ricorso n. 81 del 2001,
effettivamente nessuna delle censure dedotte è riferibile
alle predette concessioni edilizie e, poiché con la sentenza
il primo giudice ha annullato “tutti gli atti impugnati”,
è da presumere che l’annullamento delle citate concessioni
sia stato pronunciato dal TAR per illegittimità derivata,
anche se, come correttamente rileva la difesa del comune, un
tale tipo di illegittimità non era stato sollevato dagli
originari ricorrenti.
A diversa conclusione non induce la tesi, svolta dalla
difesa degli originari ricorrenti con la memoria del
02.02.2005, secondo cui il motivo di doglianza sarebbe
contenuto nell’atto di motivi aggiunti.
A parte che il motivo di censura in questione risulta
strutturato, al pari di tutti quelli sollevati con il
ricorso, come rivolto contro il P.P.I.P. e non anche contro
le due concessioni edilizie, è agevole osservare che il
medesimo è, altresì, infondato, per la decisiva
considerazione che la disciplina del nuovo P.R.G. del 1998,
relativa al diverso e più contenuto indice di utilizzazione
territoriale, non può applicarsi al Piano particolareggiato
a suo tempo approvato dal Comune ed in corso di
realizzazione.
E’ noto, infatti, che, secondo pacifico orientamento
giurisprudenziale, il Comune può sempre modificare l’assetto
territoriale configurato dal piano di attuazione di
iniziativa privata (Piano di lottizzazione o Piano
particolareggiato di Iniziative Privata), in relazione a
nuove, sopravvenute esigenze, che possono essere della più
svariata natura, ma, allorquando un procedimento
lottizzatorio si sia concluso con la sottoscrizione e la
trascrizione della relativa convenzione, nel dare un diverso
assetto al territorio, ha il dovere di specificare le
ragioni di pubblico interesse che hanno portato a modificare
le valutazioni urbanistiche sul presupposto delle quali era
stato, a suo tempo, approvato il piano esecutivo di
iniziativa privata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.07.2005 n. 4018 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Come
insegnato da un condiviso indirizzo giurisprudenziale, la
convenzione di lottizzazione (alla quale va equiparata
quella in questione, ancorché conclusa prima dell’entrata in
vigore della legge urbanistica), può essere unilateralmente
ed autoritativamente modificata dal Comune, mediante una
diversa regolamentazione dell’assetto di interessi
consacrato nell’accordo.
L’intervenuta introduzione di un regime urbanistico ed
edilizio della zona che ammette la sua edificazione implica,
infatti, l’abolizione tacita (per l’evidente incompatibilità
delle due confliggenti disposizioni) della previsione della
convenzione che impediva qualsiasi intervento costruttivo
nelle aree dalla stessa destinate a passaggio privato.
A fronte, in particolare, di una diversa regolamentazione
dell’attività edilizia nella zona compresa nella convenzione
urbanistica del 1939, con contestuale ampliamento delle sue
possibilità edificatorie, non pare più invocabile, quale
paradigma di assentibilità di un nuovo intervento edilizio,
una clausola del predetto accordo pattuita nell’esclusivo
interesse del Comune (poi dallo stesso diversamente
amministrato) più di sessanta anni prima, sulla base di una
disciplina urbanistica generale completamente diversa.
Né l’ammissibilità di una diversa regolamentazione
unilaterale del contenuto della convenzione può essere
negata sulla base della possibile obiezione della sua natura
consensuale e bilaterale.
Anche prescindendo, infatti, dal rilievo che la possibilità
della modifica delle previsioni di una convenzione
urbanistica per effetto di un pi ano regolatore successivo è
stata già riconosciuta in giurisprudenza, osserva, comunque,
il Collegio che può giungersi alle medesime conclusioni
tenuto conto che la sua natura di accordo sostitutivo del
provvedimento autorizza l’amministrazione, nell’esercizio
della facoltà accordatale dall’art. 11, comma 4, legge
07.08.1990, n. 241, a sciogliersi dall’accordo per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse (quali, nella
fattispecie, diverse esigenze pianificatorie) ed a regolare
unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le
attività oggetto della convenzione.
---------------
2.- Come già rilevato, le parti controvertono sulla
legittimità del permesso di costruire n. 828 del 2003
rilasciato dal Comune di Torino alla Novalesa (in seguito
alla voltura dell’istanza inizialmente presentata dalla ISIM)
ed avente ad oggetto la realizzazione di due fabbricati
destinati a civile abitazione.
2.1- Il Tribunale di prima istanza ha riscontrato
l’illegittimità del predetto titolo, in quanto contrastante
sia con la convenzione urbanistica sottoscritta dagli
originari proprietari dell’area (nella parte in cui si
assumevano ivi diversi vincoli di inedificabilità), sia con
la vigente disciplina urbanistica ed edilizia del Comune di
Torino (e segnatamente con la disposizione delle NTA che
limita le possibilità edificatorie nell’area in questione al
10% -nella specie superato- della superficie disponibile).
2.2- Tutti gli appellanti principali (così come la
ricorrente incidentale ISIM), seppur con prospettazioni
parzialmente diverse, negano, innanzitutto, la persistente
vigenza dei vincoli assunti con la sottoscrizione, nel 1939,
della convenzione urbanistica e contestano, comunque, ogni
profilo di difformità del progetto assentito dalla vigente
regolamentazione edilizia dell’area.
2.3- Il Condominio appellato difende, invece, il
convincimento espresso dai primi giudici circa la
sussistenza delle violazioni riscontrate, contesta la
fondatezza delle ragioni assunte dagli appellanti a sostegno
dei rispettivi ricorsi e ripropone le censure assorbite in
prima istanza, concludendo per la conferma, se del caso con
diversa motivazione, della decisione appellata.
3.- Essendo controverso, innanzitutto, il parametro cui
riferire lo scrutinio di legittimità del titolo edilizio,
occorre procedere alla preliminare individuazione del
paradigma di legalità dell’attività edilizia nella zona
interessata dal progetto controverso.
3.1- Deve, in proposito, escludersi l’assunzione della
convenzione urbanistica del 1939 a parametro dell’assentibilità
dell’intervento per un duplice ordine di considerazioni.
E’ stato, innanzitutto, dimostrato, con dovizia di
allegazioni documentali e senza contestazioni da parte del
Condominio appellato, che i vincoli di inedificabilità,
valorizzati dal TAR per negare la legittimità del permesso
di costruire, si riferiscono ad un’area (e segnatamente alla
strada ed alla piazza destinate al passaggio) diversa da
quella (contigua, ma laterale rispetto a quelle)
direttamente interessata dall’intervento (come si ricava dal
confronto del testo della convenzione con le planimetrie
allegate al ricorso della Vema e della Novalesa).
Ma, anche prescindendo dal rilievo (peraltro decisivo)
dell’estraneità dell’area in questione a quella interessata
dagli impegni assunti con la convenzione urbanistica, deve
parimenti negarsi al contenuto vincolante di quest’ultima
ogni efficacia preclusiva dell’assenso in discussione.
Come, infatti, insegnato da un condiviso indirizzo
giurisprudenziale, la convenzione di lottizzazione (alla
quale va equiparata quella in questione, ancorché conclusa
prima dell’entrata in vigore della legge urbanistica), può
essere unilateralmente ed autoritativamente modificata dal
Comune, mediante una diversa regolamentazione dell’assetto
di interessi consacrato nell’accordo (Cons. St., Sez. V,
06.10.2003, n. 5870).
L’intervenuta introduzione di un regime urbanistico ed
edilizio della zona che ammette la sua edificazione implica,
infatti, l’abolizione tacita (per l’evidente incompatibilità
delle due confliggenti disposizioni) della previsione della
convenzione che impediva qualsiasi intervento costruttivo
nelle aree dalla stessa destinate a passaggio privato.
A fronte, in particolare, di una diversa regolamentazione
dell’attività edilizia nella zona compresa nella convenzione
urbanistica del 1939, con contestuale ampliamento delle sue
possibilità edificatorie, non pare più invocabile, quale
paradigma di assentibilità di un nuovo intervento edilizio,
una clausola del predetto accordo pattuita nell’esclusivo
interesse del Comune (poi dallo stesso diversamente
amministrato) più di sessanta anni prima, sulla base di una
disciplina urbanistica generale completamente diversa.
Né l’ammissibilità di una diversa regolamentazione
unilaterale del contenuto della convenzione può essere
negata sulla base della possibile obiezione della sua natura
consensuale e bilaterale.
Anche prescindendo, infatti, dal rilievo che la possibilità
della modifica delle previsioni di una convenzione
urbanistica per effetto di un pi ano regolatore successivo è
stata già riconosciuta in giurisprudenza (Con. St., Sez. V,
24.11.1984, n. 836), osserva, comunque, il Collegio che può
giungersi alle medesime conclusioni tenuto conto che la sua
natura di accordo sostitutivo del provvedimento (Cass. Civ.,
SS. UU. 15.12.2000, n. 1262) autorizza l’amministrazione,
nell’esercizio della facoltà accordatale dall’art. 11, comma
4, legge 07.08.1990, n. 241, a sciogliersi dall’accordo per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse (quali, nella
fattispecie, diverse esigenze pianificatorie) ed a regolare
unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le
attività oggetto della convenzione.
3.2- Ne consegue, in definitiva, che non è corretto
assumere, quale parametro per l’assenso dell’attività
edilizia in contestazione e, conseguentemente, per il
giudizio di legittimità del permesso rilasciato, la
prescrizione di una convenzione divenuta ormai inefficace, e
che la verifica dell’assentibilità del progetto presentato
dalla ISIM dev’essere, invece, compiuta con esclusivo
riferimento alla diversa disciplina urbanistica ed edilizia
dell’area in questione nel frattempo introdotta.
Va, quindi, individuato il paradigma della legalità
dell’attività costruttiva controversa nel regime edilizio
delle aree classificate come R3 (quale quella in questione),
come dettagliato ed articolato nell’art. 8.12, 13 e 14 delle
NTA del P.R.G. di Torino (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.01.2005 n. 222 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Se
è vero, in termini generali, che in occasione della
formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte
discrezionali dell’amministrazione riguardo alla
destinazione di singole aree, non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri
generali –di ordine tecnico-discrezionale- seguiti
nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al piano regolatore generale,
tuttavia un onere di motivazione si impone quando ricorrano
particolari situazioni che abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni.
Tra le evenienze che giustificano una più incisiva e
singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali
la giurisprudenza ha incluso l’ipotesi dell'affidamento
qualificato del privato derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il
comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di
concessione.
Laddove uno strumento urbanistico si renda necessario per
adeguare la pianificazione urbanistica a sopravvenute norme
di rango primario, la valutazione dell’affidamento
ingenerato da precedenti convenzioni di lottizzazione va
effettuata con minor rigore, in quanto i nuovi strumenti
urbanistici non sono frutto di scelte discrezionali, ma
hanno carattere necessitato.
In siffatta evenienza, nel comparare l’affidamento
ingenerato da una convenzione di lottizzazione e la
necessità di introdurre nuovi strumenti urbanistici, occorre
motivare essenzialmente sulla impossibilità o estrema
difficoltà di dare attuazione alle nuove norme urbanistiche
con scelte alternative che non sacrifichino la preesistente
convenzione di lottizzazione.
---------------
4.1. In termini generali, si deve premettere quale deve
essere l’ambito della motivazione di sopravvenuti strumenti
urbanistici che vanifichino, come nella specie, il contenuto
di preesistenti convenzioni di lottizzazione.
Secondo l’insegnamento di C. Stato, ad. plen., 22.12.1999,
n. 24, se è vero, in termini generali, che in occasione
della formazione di uno strumento urbanistico generale, le
scelte discrezionali dell’amministrazione riguardo alla
destinazione di singole aree, non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri
generali –di ordine tecnico-discrezionale- seguiti
nell’impostazione del piano stesso (C. Stato, sez. IV,
25.07.2001, n. 4078; sez. IV, 19.01.2000, n. 245; sez. IV,
24.12.1999, n. 1943; sez. IV, 02.11.1995, n. 887, sez. IV,
25.02.1988, n. 99), essendo sufficiente l'espresso
riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di
modificazione al piano regolatore generale, tuttavia un
onere di motivazione si impone quando ricorrano particolari
situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni (C. Stato, sez. IV, 21.05.2004, n.
3314; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; sez. IV, 08.02.1999, n.
121).
Tra le evenienze che giustificano una più incisiva e
singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali
la giurisprudenza ha incluso l’ipotesi dell'affidamento
qualificato del privato derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il
comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di
concessione.
Sempre in diritto si deve osservare che laddove uno
strumento urbanistico si renda necessario per adeguare la
pianificazione urbanistica a sopravvenute norme di rango
primario, la valutazione dell’affidamento ingenerato da
precedenti convenzioni di lottizzazione va effettuata con
minor rigore, in quanto i nuovi strumenti urbanistici non
sono frutto di scelte discrezionali, ma hanno carattere
necessitato.
In siffatta evenienza, nel comparare l’affidamento
ingenerato da una convenzione di lottizzazione e la
necessità di introdurre nuovi strumenti urbanistici, occorre
motivare essenzialmente sulla impossibilità o estrema
difficoltà di dare attuazione alle nuove norme urbanistiche
con scelte alternative che non sacrifichino la preesistente
convenzione di lottizzazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.12.2004 n. 8032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
piano di lottizzazione, nel sistema urbanistico vigente
(cfr. in particolare l'art. 28 della legge 17.08.1942, n.
1150, come modificato dall'articolo 8 della legge
06.08.1967, n. 765), assume innanzitutto la valenza di piano
urbanistico di attuazione, ossia di pianificazione di
dettaglio, con finalità di riservare essenzialmente le aree
ed i tracciati per la viabilità e per le opere di interesse
pubblico del nuovo insediamento non individuate già nello
strumento generale.
In tale prospettiva, lo stesso non può porsi in contrasto
col piano urbanistico di primo livello, al pari delle
concessioni edilizie rilasciate in sua esecuzione.
Esso, inoltre, svolgendo una funzione di armonico raccordo
col preesistente aggregato abitativo, è subordinato alle
scelte discrezionali del programma pluriennale di
attuazione, quale mezzo di graduazione nel tempo della
trasformazione del territorio.
Inoltre, esso è piano esecutivo di urbanizzazione,
costituente cioè, mediante il convenzionamento, un programma
di realizzazione concreta delle relative opere per mezzo del
pagamento di contributi o dell'esecuzione diretta delle
opere stesse, ed altresì mediante la cessione delle aree in
tutto o in parte necessarie all'urbanizzazione.
Infine, detto piano ha natura di preconcessione edilizia, in
quanto nei piani di lottizzazione vengono, di norma, ad
essere individuati elementi di maggiore dettaglio di quelli
previsti dalla legge.
Alla stregua di quanto sopra evidenziato, i soggetti che
predispongono un piano di lottizzazione, i titolari di
concessione edilizia, i committenti e i costruttori hanno
l'obbligo di controllare la conformità dell'intera
lottizzazione e/o delle singole opere alla normativa
urbanistica e alle previsioni di pianificazione, perché
l'interesse protetto dalla legge n. 47 del 1985 non è
soltanto quello di assicurare che la modifica del territorio
avvenga sotto il controllo della p.a., ma è altresì quello
di garantire che tale sviluppo si verifichi in piena
aderenza al programmato assetto urbanistico ed il rilascio
della concessione edilizia è subordinato all'indagine di
conformità alla normativa urbanistica in genere ed ai piani
regolatori.
---------------
Si è visto come il piano di
lottizzazione abbia, anzitutto, in ossequio alla sua
funzione di piano urbanistico esecutivo, un contenuto simile
a quello dello strumento urbanistico generale, seppure in
relazione alla specifica destinazione della zona.
Esso deve dunque contenere anche il tracciato, sia delle
aree destinate a strade e ad altre opere di urbanizzazione,
che dei lotti edificabili e risulta pertanto costituito
essenzialmente da due documenti: la planimetria, contenente
la rappresentazione grafica dei contenuti e delle
destinazioni; la convenzione, che codifica gli impegni
assunti dal lottizzatore sia in ordine alla esecuzione delle
opere di urbanizzazione che alle cessioni di aree e al
versamento di contributi, che eventualmente alle modalità
della futura edificazione.
In sede di verifica della necessità del piano di
lottizzazione e della porzione territoriale in cui si
colloca l'intervento, occorre tener conto del fatto che le
opere di urbanizzazione primaria (viabilità, parcheggi,
fognature ecc.), pur venendo in rilievo ai fini del rilascio
della concessione in una funzione servente rispetto
all'edificio da realizzare, nella prospettiva pianificatoria
non si esauriscono in strutture interne al lotto, mentre le
opere di urbanizzazione secondaria (asili, scuole, mercati
ecc.) sono per loro natura strutture a servizio di una parte
del territorio e quindi vanno distribuite al suo interno.
L'esigenza della redazione di un piano di lottizzazione per
la realizzazione di un insediamento edilizio lascia integra
la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina
del territorio e di regolamentazione urbanistica (cfr. Cons.
St., sez. IV, 14.04.1998, n. 609; nello stesso senso, cfr.
Cass., sez. I, 08.06.1995, n. 6482, secondo cui le
convenzioni di lottizzazione costituiscono contratti di
natura peculiare, che lasciano integra, nonostante eventuali
patti contrari, la potestà pubblicistica del comune in
materia di disciplina del territorio e di regolamentazione
urbanistica, alla stregua di esigenze sopravvenute ed a
maggior ragione per l'obbligatorio adeguamento alle
modifiche normative).
A fortiori viene poi in risalto la discrezionalità
esercitabile dal comune quando un piano regolatore manchi
(ma ciò non si verifica nel caso di specie).
L'approvazione del piano di lottizzazione non è atto dovuto,
pur se conforme al piano regolatore generale (come preteso
nel caso di specie dall’odierna appellata con riguardo al
piano regolatore vigente), o al programma di fabbricazione,
ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale
dell'autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a
valutare l'opportunità di dare attuazione -in un certo
momento del tempo ed in certe condizioni- alle previsioni
dello strumento urbanistico generale, essendovi fra
quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di
necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza, di
modo che l'attuazione dello strumento generale può, per
evidenti motivi di opportunità, essere articolata per tempi,
o per modalità, in relazione alle esigenze dinamiche che si
manifestano nel periodo di vigenza dello strumento generale.
Valga infine sottolineare che la posizione del proprietario
di un fondo che proponga domanda di approvazione di un
progetto di piano di lottizzazione del fondo stesso ha
natura e consistenza di interesse legittimo e non di diritto
soggettivo, perché il rilascio dell'approvazione costituisce
espressione dei poteri autoritativi e discrezionali, che la
amministrazione pubblica esercita per la regolamentazione
degli insediamenti abitativi e dell'assetto del territorio
comunale.
---------------
Va rimessa al Consiglio Comunale la valutazione di qualsiasi
richiesta presentata da privati in ordine alla lottizzazione
di una parte del territorio, attesa la funzione di strumento
particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni di P.R.G.,
che il Piano di lottizzazione presentato da privati, al pari
del resto dei piani di iniziativa pubblica, riveste per la
migliore utilizzazione a fini urbanistici del territorio
comunale.
La giurisprudenza ha poi chiarito che il provvedimento
negativo dovrà essere congruamente istruito e motivato (il
che è in linea generale controverso nella presente
fattispecie), quanto ai singoli profili considerati ed
all'iter logico-giuridico seguito, con una valutazione
comparata degli interessi pubblici coinvolti, in modo da
consentire al richiedente di rendersi conto degli ostacoli,
che si frappongono alla estrinsecazione del suo ius
aedificandi.
Naturalmente, la motivazione non potrà essere generica e non
potrà far riferimento ad esigenze che esulino dalle evidenze
urbanistiche ed edilizie, tradendo intenti di natura
politica, ma dovrà tener conto esclusivamente del contrasto
del progetto con le prescrizioni di legge, di regolamento o
degli strumenti urbanistici vigenti, o anche della
intervenuta modifica della disciplina delle aree interessate
al Piano ad opera di un nuovo P.R.G. o sue varianti,
adottato e non ancora approvato.
---------------
3.1 - Il piano di lottizzazione, nel sistema urbanistico
vigente (cfr. in particolare l'art. 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'articolo 8 della
legge 06.08.1967, n. 765), assume innanzitutto la valenza di
piano urbanistico di attuazione (cfr. Cons. St., sez. IV:
02.12.1999, n. 1769 e 16.03.1999, n. 286), ossia di
pianificazione di dettaglio, con finalità di riservare
essenzialmente le aree ed i tracciati per la viabilità e per
le opere di interesse pubblico del nuovo insediamento non
individuate già nello strumento generale (cfr. in termini,
ex plurimis e da ultimo, Cons. St.: sez. IV,
03.11.1998, n. 1412; sez. II, 05.03.1997, n. 1463/1996).
In tale prospettiva, lo stesso non può porsi in contrasto
col piano urbanistico di primo livello, al pari delle
concessioni edilizie rilasciate in sua esecuzione (cfr. sez.
IV, n. 1769 del 1999, cit.).
Esso, inoltre, svolgendo una funzione di armonico raccordo
col preesistente aggregato abitativo, è subordinato alle
scelte discrezionali del programma pluriennale di
attuazione, quale mezzo di graduazione nel tempo della
trasformazione del territorio (cfr. Cons. St., sez. IV,
19.11.1997, n. 1297).
Inoltre, esso è piano esecutivo di urbanizzazione,
costituente cioè, mediante il convenzionamento, un programma
di realizzazione concreta delle relative opere per mezzo del
pagamento di contributi o dell'esecuzione diretta delle
opere stesse, ed altresì mediante la cessione delle aree in
tutto o in parte necessarie all'urbanizzazione (cfr. sez. IV,
n. 286 del 1999, cit.).
Infine, detto piano ha natura di preconcessione edilizia, in
quanto nei piani di lottizzazione vengono, di norma, ad
essere individuati elementi di maggiore dettaglio di quelli
previsti dalla legge (cfr. sez. IV, n. 286 del 1999, cit.).
Alla stregua di quanto sopra evidenziato, i soggetti che
predispongono un piano di lottizzazione, i titolari di
concessione edilizia, i committenti e i costruttori hanno
l'obbligo di controllare la conformità dell'intera
lottizzazione e/o delle singole opere alla normativa
urbanistica e alle previsioni di pianificazione, perché
l'interesse protetto dalla legge n. 47 del 1985 non è
soltanto quello di assicurare che la modifica del territorio
avvenga sotto il controllo della p.a., ma è altresì quello
di garantire che tale sviluppo si verifichi in piena
aderenza al programmato assetto urbanistico ed il rilascio
della concessione edilizia è subordinato all'indagine di
conformità alla normativa urbanistica in genere ed ai piani
regolatori (Cassazione penale, sez. III, 29.01.2001).
3.2 - Si è visto come il piano di lottizzazione abbia,
anzitutto, in ossequio alla sua funzione di piano
urbanistico esecutivo, un contenuto simile a quello dello
strumento urbanistico generale, seppure in relazione alla
specifica destinazione della zona.
Esso deve dunque contenere anche il tracciato, sia delle
aree destinate a strade e ad altre opere di urbanizzazione,
che dei lotti edificabili e risulta pertanto costituito
essenzialmente da due documenti: la planimetria, contenente
la rappresentazione grafica dei contenuti e delle
destinazioni; la convenzione, che codifica gli impegni
assunti dal lottizzatore sia in ordine alla esecuzione delle
opere di urbanizzazione che alle cessioni di aree e al
versamento di contributi, che eventualmente alle modalità
della futura edificazione (cfr. sez. IV, n. 286 del 1999,
cit.).
Sotto tale angolazione, va precisato che, in sede di
verifica della necessità del piano di lottizzazione e della
porzione territoriale in cui si colloca l'intervento,
occorre tener conto del fatto che le opere di urbanizzazione
primaria (viabilità, parcheggi, fognature ecc.), pur venendo
in rilievo ai fini del rilascio della concessione in una
funzione servente rispetto all'edificio da realizzare, nella
prospettiva pianificatoria non si esauriscono in strutture
interne al lotto, mentre le opere di urbanizzazione
secondaria (asili, scuole, mercati ecc.) sono per loro
natura strutture a servizio di una parte del territorio e
quindi vanno distribuite al suo interno (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 01.02.1995, n. 162).
L'esigenza della redazione di un piano di lottizzazione per
la realizzazione di un insediamento edilizio lascia integra
la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina
del territorio e di regolamentazione urbanistica (cfr. Cons.
St., sez. IV, 14.04.1998, n. 609; nello stesso senso, cfr.
Cass., sez. I, 08.06.1995, n. 6482, secondo cui le
convenzioni di lottizzazione costituiscono contratti di
natura peculiare, che lasciano integra, nonostante eventuali
patti contrari, la potestà pubblicistica del comune in
materia di disciplina del territorio e di regolamentazione
urbanistica, alla stregua di esigenze sopravvenute ed a
maggior ragione per l'obbligatorio adeguamento alle
modifiche normative).
A fortiori viene poi in risalto la discrezionalità
esercitabile dal comune quando un piano regolatore manchi
(ma ciò non si verifica nel caso di specie): v. Cons. St.,
sez. IV, 02.03.2001, n. 1181.
L'approvazione del piano di lottizzazione non è atto dovuto,
pur se conforme al piano regolatore generale (come preteso
nel caso di specie dall’odierna appellata con riguardo al
piano regolatore vigente), o al programma di fabbricazione,
ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale
dell'autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a
valutare l'opportunità di dare attuazione -in un certo
momento del tempo ed in certe condizioni- alle previsioni
dello strumento urbanistico generale, essendovi fra
quest'ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di
necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza, di
modo che l'attuazione dello strumento generale può, per
evidenti motivi di opportunità, essere articolata per tempi,
o per modalità, in relazione alle esigenze dinamiche che si
manifestano nel periodo di vigenza dello strumento generale
(cfr. Cons. St., sez. IV, 24.10.1997, n. 1223).
Quanto al suo procedimento di formazione, nella Regione
Puglia, “per l'adozione e l'approvazione del Piano di
lottizzazione si applica la disciplina di cui all'art. 21
della presente legge” (comma 3 dell’art. 27 della L.R.
31.05.1980, n. 56 “Tutela ed uso del territorio”) e
dunque, in particolare, esso è adottato “previo parere
obbligatorio del dirigente dell'Ufficio tecnico comunale
corredato della scheda di controllo di cui al successivo
art. 35 della presente legge, nonché previo parere
obbligatorio delle Commissioni urbanistica e/o edilizia
comunale” (comma 1 dell’art. 21, cit.).
Valga infine sottolineare che la posizione del proprietario
di un fondo che proponga domanda di approvazione di un
progetto di piano di lottizzazione del fondo stesso ha
natura e consistenza di interesse legittimo e non di diritto
soggettivo, perché il rilascio dell'approvazione costituisce
espressione dei poteri autoritativi e discrezionali, che la
amministrazione pubblica esercita per la regolamentazione
degli insediamenti abitativi e dell'assetto del territorio
comunale (Cassazione civile, sez. un., 07.08.1998, n. 7751).
3.3 - È alla luce dei suesposti principi che deve essere
allora scrutinato il potere di diniego di autorizzazione
alla formazione del piano.
Anzitutto, l’art. 42 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali)
stabilisce, al secondo comma, lett. b), che rientrano nella
esclusiva competenza del Consiglio Comunale, tra l’altro, “…
piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e
pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad
essi, pareri da rendere per dette materie”.
Pertanto è a tale organo che va rimessa la valutazione di
qualsiasi richiesta presentata da privati in ordine alla
lottizzazione di una parte del territorio, attesa la
funzione di strumento particolareggiato ed attuativo delle
prescrizioni di P.R.G., che il Piano di lottizzazione
presentato da privati, al pari del resto dei piani di
iniziativa pubblica, riveste per la migliore utilizzazione a
fini urbanistici del territorio comunale.
La giurisprudenza ha poi chiarito che il provvedimento
negativo dovrà essere congruamente istruito e motivato (il
che è in linea generale controverso nella presente
fattispecie), quanto ai singoli profili considerati ed
all'iter logico-giuridico seguito (cfr. Cons. St., sez. IV:
07.03.1997, n. 202 e 18.04.1989, n. 259), con una
valutazione comparata degli interessi pubblici coinvolti, in
modo da consentire al richiedente di rendersi conto degli
ostacoli, che si frappongono alla estrinsecazione del suo
ius aedificandi.
Naturalmente, la motivazione non potrà essere generica e non
potrà far riferimento ad esigenze che esulino dalle evidenze
urbanistiche ed edilizie, tradendo intenti di natura
politica (cfr. Cons. St.: sez. II, 06.11.1996, n. 938; sez.
IV, 01.12.1981, n. 946; peraltro tale evenienza non ricorre
nel caso di specie), ma dovrà tener conto esclusivamente del
contrasto del progetto con le prescrizioni di legge, di
regolamento o degli strumenti urbanistici vigenti, o anche,
nella Regione Puglia, della intervenuta modifica della
disciplina delle aree interessate al Piano ad opera di un
nuovo P.R.G. o sue varianti, adottato e non ancora approvato
(ultimo comma dell’art. 21 della L.R. 31.05.1980, n. 56 “Tutela
ed uso del territorio”)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2004 n. 957 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Questa S.C. ha avuto più volte occasione di
affermare che le convenzioni edilizie non privano il Comune
del potere di imprimere una diversa destinazione alle aree
dalle stesse interessate.
Tale orientamento si è manifestato con riferimento ad
ipotesi in cui il Comune aveva impresso una diversa
destinazione alle aree con riferimento alle quali, nelle
convenzioni urbanistiche, era stata prevista la possibilità
di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di non
estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la
cessione al Comune da parte del privato in previsione della
realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione.
In senso contrario a tale orientamento non potrebbe
invocarsi la sent. 16.02.1984 n. 1158, la quale ha affermato
che, con riguardo alla cessione di un'area in favore del
Comune, prevista da una convenzione di lottizzazione
successivamente divenuta irrealizzabile per contrasto con
nuovi strumenti urbanistici, deve escludersi che il privato,
a tutela del proprio preteso diritto alla retrocessione
dell'immobile, possa chiedere ed ottenere dal giudice
ordinario il sequestro dell'immobile medesimo, in quanto
tale provvedimento verrebbe ad incidere, indebitamente su
atti amministrativi.
---------------
Va, in primo luogo, osservato che il ricorrente ipotizza una
nullità del negozio per difetto sopravvenuto della causa, la
cui ammissibilità nel nostro ordinamento è da dimostrare.
Sempre su un piano generale non si può, poi, non rilevare la
singolarità dell'atteggiamento del ricorrente, il quale
pretende che venga dichiarata la nullità della sola clausola
della convenzione urbanistica, contratto, con la quale,
sostanzialmente in corrispettivo del rilascio della
concessione edilizia, era stata prevista la cessione di un
zona di terreno di sua proprietà, senza mettere in
discussione anche la controprestazione del Comune (il
rilascio della concessione edilizia).
Va, infine, rilevato che questa S.C. ha avuto più volte
occasione di affermare che le convenzioni edilizie non
privano il Comune del potere di imprimere una diversa
destinazione alle aree dalle stesse interessate (sent.
09.03.1990 n. 1917; 25.07.1980 n. 4833).
Tale orientamento si è manifestato con riferimento ad
ipotesi in cui il Comune aveva impresso una diversa
destinazione alle aree con riferimento alle quali, nelle
convenzioni urbanistiche, era stata prevista la possibilità
di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di non
estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la
cessione al Comune da parte del privato in previsione della
realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione.
In senso contrario a tale orientamento non potrebbe
invocarsi la sent. 16.02.1984 n. 1158, la quale ha affermato
che, con riguardo alla cessione di un'area in favore del
Comune, prevista da una convenzione di lottizzazione
successivamente divenuta irrealizzabile per contrasto con
nuovi strumenti urbanistici, deve escludersi che il privato,
a tutela del proprio preteso diritto alla retrocessione
dell'immobile, possa chiedere ed ottenere dal giudice
ordinario il sequestro dell'immobile medesimo, in quanto
tale provvedimento verrebbe ad incidere, indebitamente su
atti amministrativi.
La S.C., nella specie, infatti, era chiamata a pronunciarsi
su una questione di giurisdizione ed ha affermato che il "preteso"
diritto alla retrocessione non avrebbe comunque giustificato
la possibilità di chiedere un provvedimento di sequestro
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 28.08.2000 n. 11208). |
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